IN PLICATVRVM -- impiegato
-- H.
P. Grice, St. John’s Oxford -- Compiled
by Grice’s Playgroup, The Bodleian -- For
The Anglo-Italian Society, Bologna -- Dedicated to A. M. G. – Luigi Speranza, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. – NAMES. GRICE
ITALICVS: an alphabetical approach to Italian philosophy under Grice’s
implicature. Have you noticed how little Grice says about Italian
philosophy? It’s all *implicated*!
Grice ed Abano – peripatetici a Padova – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Abano).
Filosofo italiano. Grice: “I like Abano; he is from my wife’s favourite part of
Italy – Veneto – actually provincial di Padova – which has Gaspirated p!” –
Grice: “My favourite Abano is the logician or philosopher of the lingo -- Abano
Pietro d'Abano. Se stai cercando l'opera lirica, vedi Pietro d'Abano
(opera). Pietro d'Abano Pietro d'Abano, latinizzato in Petrus de Abano o
Petrus Patavinus è stato un filosofo, medico e astrologo italiano, insegnante
di medicina, filosofia e astrologia all'Università di Parigi e dal 1306
all'Università di Padova; inoltre è considerato il primo rappresentante
dell'aristotelismo padovano. Amico di Marco Polo, visse a lungo a
Costantinopoli per imparare il greco e l'arabo, studiando in originale i testi
di Galeno, Avicenna e Averroè. Fu autore anche di varie traduzioni di testi
scientifici greci e arabi in latino: i Problemata di Aristotele (ai quali
aggiunse un commentario, l'Expositio Problematum Aristotelis), i Problemata di
Alessandro di Afrodisia[3], vari scritti di Galeno e Dioscoride. Rivide inoltre
la traduzione delle opere di Abraham ibn ‛Ezra. Si guadagnò una grande fama
come autore Conciliator Differentiarum, quæ inter Philosophos et Medicos
Versantur. Probabilmente Pietro d'Abano ispirò a Giotto il complesso – e
per molti versi misterioso – ciclo pittorico che ornava il Palazzo della
Ragione di Padova, andato perso in un incendio e rifatto da alcuni pittori
minori seguendo lo stesso schema iconografico. Il ciclo di affreschi è
suddiviso in 333 riquadri, si svolge su tre fasce sovrapposte, ed è uno dei
rarissimi cicli astrologici medievali giunti fino ai nostri giorni. D'Abano è
considerato uno dei più colti ingegni del suo tempo, la sua dottrina lo fece
passare per un negromante. Accusato tre volte dal Tribunale
dell'Inquisizione di magia, eresia e ateismo fu prosciolto le prime due volte.
L'ultima volta morì in prigione a causa delle torture subite, un anno prima
della fine del processo. A seguito della condanna il suo cadavere fu
dissotterrato per essere arso sul rogo. A Pietro d'Abano esplicitamente
si rifarà, per alcuni argomenti, come l'embriologia, il celebre medico Iacopo
da Forlì. Citazioni famose Nel Conciliator Differentiarum, quæ inter
Philosophos et Medicos Versantur D'Abano riferisce di avere parlato con Marco
Polo di quello che aveva osservato nella volta celeste durante i suoi viaggi.
Marco raccontò che durante il suo viaggio di ritorno nel Mar Cinese
Meridionale, aveva avvistato quella che descrive in un disegno come una stella
"a forma di sacco" (ut sacco) con una grande coda (magna habet
caudam). Pietro d'Abano interpretò questa informazione come una conferma della
sua teoria secondo cui nell'emisfero sud si potesse osservare una stella analoga
alla stella polare, ma si trattava con ogni probabilità di una cometa. Gli
astronomi sono concordi nell'affermare che non ci furono comete avvistate in
Europa alla fine del 1200, ma ci sono testimonianze che una cometa venne avvistata
in Cina e in Indonesia nel 1293. Questa circostanza non compare nel Milione. Abano
conservò il disegno nel suo volume Conciliator Differentiarum, quæ inter
Philosophos et Medicos Versantur. Sempre nello stesso documento, si riporta la
descrizione di un animale di grossa stazza con un corno sul muso, identificato
oggi con il rinoceronte di Sumatra; Pietro d'Albano non riferisce un nome
particolare assegnato da Marco a questo animale; si pensa invece che fu
Rustichello a identificarlo con l'unicorno nel Milione. Questa testimonianza è
stata ripresa da Jensen, quando venne messa pesantemente in dubbio la veridicità
del Milione di Marco Polo. Sempre nel Conciliator Differentiarum (Diss.
67), Abano menziona la spedizione di Ugolino e Vadino Vivaldi genovesi verso le
Indie Orientali per via mare. "Parum ante ista tempora Januenses
duas paravere omnibus necessariis munitas galeas, qui per Gades Herculis in
fine Hispamia situatas transiere. Quid autem illis contigerit, jam spatio fère
trigesimo ignoratur anno. Transitus tamen nunc patens est per magnos Tartaros
eundo versus aquilonem, deinde se in orientem et meridiem congirando".
Riconoscimenti Il Teatro Congressi di Abano Terme (già "Cinema Teatro
delle Terme") è a lui dedicato, come pure l'IPSSAR "Pietro d'Abano
(Istituto Professionale di Stato per i Servizi Alberghieri e della
Ristorazione) poco distante, e altrettanto il Centro Studi Termali Pietro
d'Abano, ente di ricerca del territorio Euganeo. È rappresentato a Padova
in una delle 78 statue di Prato della Valle e nell'altorilievo al di sopra di
una delle quattro porte d'entrata di Palazzo della Ragione. Ad Abano Terme
a lui sono dedicati una statua nell'omonima piazza e il bassorilievo sul lato
Est dello gnomone della meridiana monumentale in piazza del Sole e della
Pace. Dizionario di filosofia. M. Guidi, Caratteri e modi della cultura
araba, Real Accademia d'Italia. A Padova, specialmente, ferve lo studio degli
Arabi, poiché Pietro d'Abano – il quale si era servito non solo del greco, ma
anche dell'arabo che era andato a studiare a Costantinopoli per poter
rettificare gli inevitabili errori delle versioni del tempo – aveva fatto della
sua scuola di medicina il centro di quello che fu poi detto l'«Arabismo
medico».». Iolanda Ventura, Translating, commenting, re-translating: some
considerations on the Latin translations of the Pseudo-Aristotelian Problemata
and their readers, in M. Goyens, P. Leemans e A. Smets, Science Translated:
Latin and Vernacular Translations of Scientific Treatises in Medieval Europe,
Leuven University Press, Pietro d'Abano, su galenolatino.com. R. Martorelli Vico, Per una storia
dell'embriologia, Guerini e Associati, Napoli, J. Jensen, The World's most
diligent observer, in Asiatische Studien, F. Bottin, Pietro d'Abano, Marco Polo
e Giovanni da Montecorvino, in Medicina nei Secoli, Girolamo Tiraboschi, Storia
della letteratura italiana: fino
all'anno MCCC, Firenze, presso Molini, Landi e C. Bibliografia
Conciliator differentiarum philosophorum et precipue medicorum Adalberto
Pazzini, Pietro d'Abano, in Dizionario Letterario Bompiani. Autori, III,
Milano, Bompiani, Joan Cadden, "Sciences/silences: the nature and
languages of "sodomy" in Peter of Abano's Problemata
Commentary". In: K. Lochrie & P. McCracken & James Schultz, Constructing
medieval sexualities, University of Minnesota press, Minneapolis & London, Médicine,
astrologie et magie entre Moyen Âge et Renaissance: autour de Pietro d'Abano.
Textes réunis par Jean-Patrice Boudet, Franck Collard et Nicolas Weill-Parot,
Firenze, Sismel - Edizioni del Galluzzo, (Società internazionale per lo studio
del Medioevo latino) Pietro de Sclavione d'Abano, Trattati di Astronomia,
Lucidator dubitabilium astronomiae, De motu octavae sphaerae e altre opere a
cura di Graziella Federici Vescovini, Padova: Editoriale Programma, Loris
Premuda, «Pietro d'Abano». In: Dizionario critico della letteratura italiana,
Torino: POMBA L. Norpoth, Zur Bio-Bibliographie und Wissenschaftslehre des
Pietro d'Abano, Mediziners, Philosophen und Astronomen in Padua, Kyklos, Lynn
Thorndike, A history of magic and experimental science, Vol. II: During the
first thirteen centuries of our era. New York: Columbia university press, Sante
Ferrari, I tempi, la vita, le dottrine di Pietro D'Abano: saggio storico-filosofico,
Genova: Tipografia R. Istituto Sordomuti, Pietro d'Abano, Conciliator
differentiarum philosophorum et precipue medicorum, Gregorio Piaia, Pietro
d'Abano. Filosofo medico e astrologo europeo, Milano, FrancoAngeli, Francesco
Aldo Barcaro, L'eretico Pietro d'Abano (medico o mago?), Nuova Grafica,
Vigorovea (Sant'Angelo di Piove di Sacco, PD), Voci correlate Storia della
scienza Aristotelismo Taddeo Alderotti Mondino dei Liuzzi Sefer Raziel
HaMalakh. Treccani – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana.Guido Calogero, Pietro d'Abano, in Enciclopedia Italiana, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana.Pietro d'Abano, su Enciclopedia Britannica,
Encyclopædia Britannica, Inc.Iolanda Ventura, Pietro d'Abano, in Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.Opere di Pietro
d'Abano, su openMLOL, Horizons Unlimited srl.(FR) Bibliografia su Pietro
d'Abano, su Les Archives de littérature du Moyen Âge.Marta Cristiani, Pietro
d'Abano, in Enciclopedia dantesca, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Pietro
d'Abano, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. He is
possibly the first alphabetical philosopher. But there are more! Important Italian philosopher. From Abano-Terme. “If
Occam is called Occam, I should be called Harborne.”Grice. “He was an exacting
editor, if ever there was onebut he failed at one thing, “Problemata physica”
was never written by Aristotle!”Grice. Pietro d'Abano-Terme, conosciuto
anche come Petrus de Apono, Petrus Aponensis o Pietro d'Abano italiano a
Padova. -- Abano era nato nella città italiana da cui prende il nome, ora Abano
Terme. Abano-Terme guadagnato la fama scrivendo "Conciliatore
Differentiarum, quae tra Philosophos et Medicos Versantur." Finalmente
Abano-Terme è stato accusato di eresia e l'ateismo, ed è venuto prima della
Inquisizione. Abano e morto in carcere prima della fine del suo processo.
Abano-Terme Ha vissuto in Grecia per un periodo di tempo prima che si è
trasferito e ha iniziato i suoi studi a lungo a Costantinopoli. Si trasferisce
a Parigi, dove è stato promosso ai gradi di dottore in filosofia e medicina,
nella pratica di cui era un grande successo, ma i suoi costi erano notevolmente
alta. A Parigi divenne noto come "il Grande lombarda". Abano-Terme si
stabilì a Padova. Abano-Terme è stato accusato di praticare la magia: le accuse
specifiche è che è tornato, con l'aiuto del diavolo, tutti i soldi che ha
pagato di distanza, e che possedeva la pietra filosofale. Gabriel Naudé, nel
suo "antiquitate scholae Medicae Parisiensis," dà il seguente
resoconto di lui. "Cerchiamo di prossima produciamo Peter de Apona, o
Pietro da Abano, chiamato il riconciliatore, a causa del famoso libro che ha
pubblicato durante il suo soggiorno nella vostra università. E 'certo che
fisica laici sepolto in Italia, scarsa noto a nessuno, incolto e disadorno,
fino alla sua genio tutelare, un abitante del villaggio di Apona-Terme, destinata
a liberare l'Italia dalla sua barbarie e l'ignoranza, come Camillo volta
liberato Roma dall'assedio del Galli, ha fatto un'indagine diligente in quale
parte del mondo della letteratura cortese è stato felicemente coltivata, la
filosofia più astuzia gestito, e fisico ha insegnato con la massima solidità e
la purezza; e di essere certi che sola Parigi rivendicò questo onore, là vola
attualmente; dando se stesso interamente alla sua tutela, si applicò con
diligenza per i misteri della filosofia e della medicina; ottenuto un grado e
l'alloro in entrambi; e poi entrambi insegnato con grande applauso: e dopo un
soggiorno di molti anni, loaden con la ricchezza acquisita in mezzo a voi, e,
dopo essere stato il più famoso filosofo del suo tempo, torna al suo paese,
dove, a giudizio del giudizioso Scardeon, è stato il primo restauratore della
vera filosofia. Gratitudine, quindi, invita a riconoscere i vostri obblighi a
causa di Michael Angelus Blondus, di Roma, che nell'ultimo impegno secolo
di pubblicare il Conciliationes Physiognomicæ del proprio Aponensian, e
trovando erano state composte a Parigi, e nella vostra università, ha scelto di
pubblicarli nel nome, e con il patrocinio, della vostra società. Portava
le sue indagini finora nelle scienze occulte della natura astruso e nascosta,
che, dopo aver dato più ampie prove, dai suoi scritti in materia di fisionomia,
geomanzia, e chiromanzia, si è trasferito sulla allo studio della filosofia;
che studi hanno dimostrato in modo vantaggioso per lui, che, per non parlare
dei due prima, che lo presentò a tutti i papi del suo tempo, e lo ha acquisito
una reputazione tra i dotti, è certo che era un grande maestro in quest'ultimo,
che appare non solo dalle cifre astronomiche che aveva dipinto nella grande
sala del palazzo di Padova, e le traduzioni fece dei libri del rabbino
dottissimo Abraham Aben Ezra, aggiunto a quelli che si ricompose nei giorni
critici, e il miglioramento di astronomia, ma dalla testimonianza del celebre
matematico Regiomontano, che ha fatto un bel panegirico su di lui, in qualità
di un astrologo, nell'orazione ha pronunciato pubblicamente a Padova quando ha
spiegato c'è il libro di Alfragano. Steepto scritti
Conciliatore differentiarum philosophorum et precipue medicorum Nei suoi
scritti egli espone e difende i sistemi medici e filosofici di Averroè,
Avicenna, ed altri scrittori. Le sue opere più note sono il Conciliatore
differentiarum quae tra philosophos et medicos versantur e De venenis eorumque
remediis, entrambi i quali sono ancora esistente in decine di manoscritti e
varie edizioni a stampa dalla fine del Quattrocento attraverso Cinquecento. Il
primo tentativo di riconciliare apparenti contraddizioni tra teoria medica e la
filosofia naturale aristotelica, ed è stato considerato autorevole in ritardo
quanto XVI secolo. E 'stato affermato che Abano-Terme ha anche scritto un
libro di magia chiamato "Heptameron," un libro conciso di riti magici
rituali che si occupano di evocare gli angeli specifici per i sette giorni
della settimana (da qui il titolo). Egli è anche accreditato con la scrittura
De venenis eorumque remediis, che ha esposto sulle teorie arabi in materia di
superstizioni, veleni e contagi. l'Inquisizione Generico ritratto
di Petr [noi] da Abano conciliatore, <la rovesciata 'c' è un'abbreviazione
corrente latina per il prefisso 'con -'> xilografia dalla Cronaca di
Norimberga, E 'stato due volte portato in giudizio da parte dell'Inquisizione;
per la prima volta è stato assolto, e morì prima che il secondo processo è
stato completato. E 'stato trovato colpevole, però, e il suo corpo è stato
ordinato di essere riesumato e bruciato; ma un amico aveva segretamente
rimosso, e l'Inquisizione doveva quindi accontentarsi con la proclamazione
pubblica della sua frase e la combustione di Abano in effigie. Secondo
Naude: L'opinione generale di quasi tutti gli autori è, che era il più
grande mago del suo tempo; che per mezzo di sette spiriti, familiari, che
teneva chiuso dell'articolo in chrystal, aveva acquisito la conoscenza delle
sette arti liberali, e che aveva l'arte di causare il denaro che aveva fatto
uso di tornare ancora in tasca. È stato accusato di magia nel ottantesimo anno
della sua età, e che morire prima che il suo processo era finito, è stato
condannato (come riporta Castellan) al fuoco; e che un fascio di paglia o
vimini, che rappresenta la sua persona, è stata pubblicamente bruciato a
Padova; che così rigoroso un esempio, e dalla paura di incorrere in una
sanzione, come, potrebbero sopprimere la lettura dei tre libri che aveva
composto su questo argomento: il primo dei quali è la nota Heptameron, o
elementi magici di Peter de Abano, filosofo, ora esistente, e stampato alla
fine di Agrippa opere s'; il secondo, quello che Trithemius chiama Elucidarium
Necromanticum Petri da Abano; e un terzo, chiamato dallo stesso autore Liber
experimentorum mirabilium de Annulis secundem, 28 Mansiom Lunae. Abside con il suo
sarcofago. Barrett si riferisce al parere che non era sul punteggio di magia
che l'Inquisizione ha condannato Pietro d'Abano-Terme a morte, ma perché ha
cercato di spiegare i meravigliosi effetti nella natura dalle influenze dei
corpi celesti, non attribuendole agli angeli o demoni; in modo che l'eresia,
piuttosto che la magia, sotto forma di opposizione alla dottrina degli esseri
spirituali, sembra aver portato alla sua persecuzione. Per citare Barrett: Il
suo corpo, prese privatamente dalla sua tomba dai suoi amici, sfuggito alla
vigilanza degli inquisitori, che avrebbero condannato a essere bruciato. E
'stato rimosso da un luogo all'altro, e finalmente depositato nella Chiesa di
St. Augustin, senza epitaffio, o qualsiasi altro segno di onore. I suoi
accusatori attribuiti opinioni incoerenti a lui; lo accusato di essere un mago,
e tuttavia con negare l'esistenza degli spiriti. Aveva una tale antipatia per
il latte, che vedendo chiunque prendere lo faceva vomitare.Altro lettura Francis
Barrett, The Magus, J. Cadden, "Scienze / silenzi: la natura e le lingue
di" sodomia "in Pietro d'Abano Problemata Commento". In: K.
Lochrie e McCracken & J. Schultz, Costruire sessualità medievali,
University of Minnesota Press, Minneapolis & London; L. Premuda, Dizionario
della biografia scientifica. New York: Charles Scribner Sons. L’Heptameron. Refs.: Luigi Speranza, “The reception of pseudo-Aristotle
via Abano’s edition”. Abano. Keywords: filosofia del linguaggio. Refs.: Luigi
Speranza, "Grice ed Abano," per il Club Anglo-Italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. Grice ed Abano
#Abano
Grice ed Abbà – teoria
del segno – filosofia italiana – Luigi Speranza (Farigliano). Filosofo.
Grice: “Abbà is a genius – an Italian
Lockino, as he calls himself in “Elementae logicae” – But he is actually better
than Locke – England’s and Oxford’s greatest philosopher – for a couple of
reasons: Locke uses barbarisms – anglo-saxonisms, Abba, who could be
philosophising in his Cuneo vernacular, uses Cicero’s tongue! And the good
thing is that he is fluent at it and his prose is flowing – It is difficult for
a Locke to write in Latin – witness the roughness of Occam’s prose in Latin –
but for Abba, he is obviousl THINKING in Italian and expressing his thoughts in
‘palaeo-Italian,’ as he calls ‘Latin.’ “Thinking in Italian may be
preoponderant, but it need not be true!” Grice” “Of course I enjoyed most his
philosophising on the ‘signum naturale’ – on which I drew for my Oxford
seminars!” -- He is a great interpreter of Locke; in a country that needs
that!” iFilosofo allievo di Benone,
gli succedette nella cattedra di metafisica a Torino. Partendo dalla filosofia di Locke, ritiene
che i dati empirici forniti dall'esperienza siano alla base della conoscenza
umana, ma che le idee si formino attraverso un'elaborazione di questi elementi
empirici da parte dell'anima umana, che utilizza categorie logiche indipendenti
dall'esperienza. Abbà entrò in polemica con Rosmini a proposito del suo “Saggio
sull'origine delle idee” mettendo in dubbio la veridicità del suo sistema.
Rosmini controbatté alle critiche nel Diario filosofico di Adolfo, VII,
G.A.A.(pubblicato in Riv. Rosminiana). Elementa logices et metaphysices, Taurini,
Stamperia reale, Delle cognizioni umane: trattato del teol.o coll.o Abbà,
Torino, Canfari. Lettere a Filomato sulle credenze primitive e sulla filosofia
sino a Socrate scritte dal teologo coll.o Abbà, Torino, Canfari. G. Capone
Braga, La filosofia fitaliana del Settecento, Padova,Francesco Corvino, Dizionario
biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,
Filosofia. De idearum signis 38. Sunt autem signa vel naturalia, quibus sen sus
nostros significamus ex effectibus;vel artificialia. Maistrii sententia est,
nihil arbitrarii esse in sermone. Sicuti per vocabula ideas;ita per scripturam
vocabula quo dam modo pingimus ad ideas abscntibus permanenter manifestan
das.Quibusdampermanentibussignisideas,cogitationesque suas communi consensu
exprimere vel homines in barbarie positi con sueverunt.Cultiores populi remotis
temporibus scripturâ,usi sunt, cuius auctor, tempus, originislocus, omnia
incerta. Quidam Cadmo, alii Phoeniciis, alii Ægyptiis eam acceptam
referunt.Putarem ego Divinae originis.Ab Asia in Europam immigravit. Quidam
putant spiritum in hac re progressum fuisse a scriptura Ideographica, seu
figurativa, ad Hyerogliphicam seu symbolicam, a qua ad syllabicam inde ad alphabeticam. V. Degerando de
l'éducation des sourds-muets, tom. quae
cum re significata consociationem habent ex hominum arbitrio, et institutione. Hisce
signis con stat idioma. Dicitur autem idioma signorum com plexio, quibus ideae
significantur. Est idioma tran siens, et permanens.Illud actionis, et
pronunciationis, hoc scriptionis appellatur. Omisso scriptionis idiomate, de
duobus reliquis dicemus. Idioma actionis coalescit ex gestibus repetitis ad
sensus animi aperiendos. Hisce gestibus consulto adhibitis, et observatis ad
quaedam sensa manife standa, orta est huius idiomatis ars. Formae rerum
externarum gestibus pictae mirum in modum istud idiomatis amplificarunt. Hoc
praesertim constať ani versalis quaedam hominum lingua, et sermo panto mimicus.
sed omnem linguam enasci, et enutriri ex ruinis aliarum; hasce vero ruinas esse
formidanda divinae iustitiaemonumenta.Itaque inimi cus et omnis Neologismi.
Bonald super linguarum originem suum systema Phylosophicum struxit. Pronuncialus
autem hic sermo constat ex voci bus articulatis. Voces sunt soni ex ore
animantis emissi: Articulatio est vocalis, et consonantis per vocis emissionem
coniunctio.Ex hac coniunctione or tae sunt syllabae, ex his vocabula, quae sunt
sonį articulata voce prolati, quibus ideas mente conceptas significanus.Quum
autem omnis idea in mente existens determinata sit, quodlibet vocabulum ideam
quamdam determinatam denotat, ac veluti determinat. Unde vocabula termini etiam
dicti sunt: quum etiam ideae res repraesentent; termini,quoque res ipsas median
tibus ideis denotant. Ex vocabulis,seu terminis ortus sermo. Quae di sciplinà
generales sermonis regulas tradit, grammatica generalis, seu philosophica
dicitur; quia hae regulae in natura cogitationis fundantur, suntque in omni
lingua servandae.Quae regulas docent singulis nationum lin guis proprias
grammaticae particulares appellantur. Singulae linguae sua syntaxi, et inflexionibus
moderantur. Licet possint homines actionis idiomate sua sensa manifestare;
aliquando tamen id magna cum difficultate fit; aliquando etiam id fieri omnino nequit,
ut in magnis distantiis, et interpositis obstaculis. Ut id incommodi averteret
Deus, qui hominem ad societatem condidit,non solum eum facultate loquendi,
organisque ad sermonem aptissimis donavit; rerum etiam ad serinonem ipsum
pronunciatum instituit, ut ex sacris litteris edocemur,qui postmodum hominum
arte, urgentibus necessitatibus auctus quoque fuit. coloribusque donantur,
qui nationis indolem, culturam, et in genium exprimerent, ac fata: suis
singulae divitiis florentes sunt pro varia coeli temperie, naturae facie,
aspectibus, forma regiminis, opinionum, religionis, educationis, morum,
studiorumquc diversitate. Hinc variae apud varios populos idearum complexiones,
ex quibus est interpretationis difficultas. Hinc etiam linguae histo ria una
refert gentis suae historiam philosophicam, et civilizzationem. Huiusce
picturae exemplaria sunt ideae, quas proinde pictura ist haec imitari debet. Idea
vero est vivax, rapida, clara. Ad hanc
imitationem perficiendam spectarc Grammatica debet. Cum etiam omnes idcae
exhibeant obiecta, et relationes; hinc duo verborum species existere debent,
quarum aliae pingant obiecta, aliae rela tiones eorum. Quare Plato, Apollonius,
aliique ex veteribus duo tantum sermonis elementa admittebant, nomen, et verbum.
Nos putamus, lot esse debere elementa, quot colores sunt necessarii ad cogitationis
tabulam exhibendam, huiusmodi sunt nomen, quasi notamen exhibens obiecta; hoc
porro proprium, vel commune substantiarum, modorum: articulus obiecta
determinans: pronomen ad vitandam satictatern: verbum relationem exhibens inter
obiecta, et istud substantivum, quod semper inest ceteris, quae adiectiva
dicuntur. Eidem convenit notio temporis, et variis modis inflectitur. Verbum
est aliquando iterum modificandum, idque fit per adverbium, quasi comes verbi;
in qua modificatione sunt gradus positivus, comparativus, superlativus: sunt
quaedam ideae temporis, passionis, actionis, quae mistae veluti sunt ex nomine,
et verbo, hae particivis exhibentur: sunt innumerae aliae relatìoncs
obiectorumrepraesentandae,puta loci,proclivitatis,directionis aliaque id genus,
quae praepositionibus significantur. In tabula. Grammatica dici potest ars
ideas pingendi per verba, est enim a graeco vocabulo gramma pictura, seu a
verbo graphein describere, et pingere; vocabulis namque cogitationis nostrae
veluti tabulam pingimus. Hinc tot sunt vocabulorum,et terminorum species, quot
idearum. Sunt praeterea termini positivi, qui aliquam reipsa ideam denotant, ut
homo, arbor, etc. negativi qui absentiam alicuius ideae SIGNI-FICANT, ut nihil,
ignorantia, tenebrae. Terminus positivus,qui eam dem ideam constanter
denotat,fixus dicitur, qui vel proprius est,si uni,eidemque rei significandae
sem per inservit, ut Plato, Aristoteles; vel univocus si pluribus rebus sub
eadem significatione tribuatur, ut sunt omnia vocabula generum, et specierum.
Qui modo hanc, modo illam ideam exhibet dicitur v a gus, vel aequivocus. Potest
autem aequivocus esse vel casu, nempe hominum arbitrio; vel consilio, quum res
diversae, quae eodem termino significantur, ali quam habent similitudinem, et
analogiam, unde ter minus analogus, seu metaphoricus dicitur, ut termi nus leo,
quo etiam homo fortis significari consuevit ob analogiam fortitudinis, qua homo
cum leone con venit. Tandem termini dicuntur etiam synonimi, cum variis
vocabulis eamdem ideam significamus. denique cogitationis, omnia sunt coniungenda,
quod coniunctio. nes efficiunt.Haec duo postrema,una cum adverbiis elyptica di
cuntur, quia brevitati inserviunt. Non solum idearum, sed affe ctuum etiam, et
sensationum pictura quaedam esse debet, huic officio addictas interiectiones,
quarum imitationes sunt a c centus, quidam veluti cantus, qui vocabula
vivificant, animâque donant, unde spiritus à Graecis, sapores ab Hebraeis dicti
sunt. Putat Tracyus (qui sermonis analysim in sua grammatica philosophica, et
universali dedit) interiectionem alias sermonis partes ordine praecessisse
quemadmodum sensationes praecedunt ideas ipsamque esse quoddam propositionis
genus. Vocabula vere synonima, si existerent, linguae perfectioni. Quum
vocabulis ideas mente conceptas signia ficemus, iam sequitur, ipsa non esse
signa idearum, quae in audientium animis sunt', sed earum solum, quas loquens
in mente habet.Hinc quum pro varia h o minum cognitione, variae in diversis
hominibus de eadem re ideae esse possint, necesse est, ut idem v o cabulum a
diversis pronunciatum,diversnm etiam sen sum continere possit. Unde si verum vocabuli
sensum determinare velis, ut aliorum sensa assequaris, non ex propriis ideis
tuis, sed e scribentis, vel loquen tis mente ipsum interpreteris oportet. Quare
d u m alio rum scripta legis, vel sermones audis, cave ne tuae ideae, quae
latenter subrepunt, efficiant, ut aliorum sensa in tuam sententiam quandoque
iniquissime d e torqueas, et eas vocabulis ideas subiicias. Ex eo quod vocabula
sint idearum nostrarum signa, patet ideas et vocabula ita esse eadem esse
debeat utrarumque oeconomia,'et quae de illis praedicantur, de istis aeque
possint usurpari. Hinc maxima est vocabulorum vis in scientiis, quae quantum
iis perficiantur intelliges, si teneas eiusdem esse vis in scientiis vocabula,
ac in arithmetica numeri, in algebra litterae, in geometria figurae. In ideas
vero ipsas, et operationes mentis n o quas auctorem ipsum in mente
habuisse, expensis omnibus, verisimillimum non est. connexa ut oílicere
viderentur. Sunt autem quaedam impropries ynonima,quae nempe repraesentant
quidem eamdem ideam principalem sed non casdem accessorias, ut verba amo, et
diligo. strae tantus est vocabulorum influxus, ut sine illis ne tacita quidem
mentis cogitatione vix aliquid mente revolvere posse videamur. Iisdem ideae complexae
usque, et usque resolvuntur; resolutae autem uno vocabulo iterum
comprehenduntur, unde attentio, et memoria mirum in modum iuvatur; sicut eorum
sono, accentu, melodia, imaginationi succurrimus. Comparate ad alios communicationi
inserviunt, et in SERMOVE CIVILI, aesthetico, et philosophico,qui caeteris
accuratior esse debet, culturam, humanitatemque augent. Sed quantum mentem,
scientiasque perficit rectus vocabulorum usus; tantum obest eorumdem abusus.
Errat enim semper qui bene non utitur lin gua. Hi autem abusus ortum habent. ex
naturali vocabulorum imperfectione; cum enim comparate ad ideas exiguus admodum
sit vocabulorum numerus, fit saepe ut uno vocabulo plures quandoque etiam
discrepantes ideas, aut admodum complexas exprimere cogamur. Nihil magis
ostendit huiusce sermonis utilitatem, quam surdi-muti nondum instructi, pueri, etsylvestres.
Quoad surdos mutos praesertim,'censet Bonald, ipsos nihil cogitare. Quanta
igitur gratia est habenda D. Ponce, Andres, De-l'Epée, Sicard, Assaroti,
aliisque. Ex hominum vel socordia, vel malitia. Abulimur nimirum vocabulis cum
iis vel obscuram, vel confusam, vel nullam ideam afligimus; quod vi tium ex eo
est, quod a pueris prius vocabulum. Hos autem abusus praecavebimus Si vite mus
voces ambiguas, obscuras, aequivocas, sine sensu, antiquatas, barbaras, nimium
translatas, nimium e m phaticas. Si prius ideam in mente concipiamus, tum de
signo,quo eadem exprimatur solliciti simus; ab ideis enim ad vocabula progredi
nos oportet,non vicissim. Si vocabulorum sensus in eodem sermo nis filo
constanter idem relineatur; vel si necessitas contrarium expostulet, auditor,
aut lector praemo neatur, nisi ex adiunctis id manifeste colligi possit. Si
utamur vocabulis usitatis, quae ab iis desu menda sunt auctoribus, qui studio,
et labore per rum sermonibus, aut scriptis accuratior vocabulorum usus communi
doetorum suffragio elucet. Licebit ta men aliquando nova condere vocabula pro
novis ideis exprimendis, dummodo id prudenter fiat. Si fixum quam ideas
mente informare consueverimus; vel ex eo quod velimus aliquando pertinaciter
desperatam sententiam nostram defendere. Abulimur quum in sermonis decursu
eamdem vocem in diversa signific. catione usurpamus quin auditorem, aut
lectorem m o neamus. Quum obscuritatem sublimioris cuiusdam doctrinae famam
captemus. Hinc vocabula barbara peregrina obsoleta usurpamus, vel usitatis
novam significationem ad privatum arbitrium confictam affigimus. Quum vocabula
pro rebus ipsis accipimus, ac per eadem reales rerum essentias ex primi
arbitramur, quo vitio praesertim laborant ter mini abstracti. affectamus ut
inde pararunt,et in quo sit menti tantum per vocabula de rebus ipsis signi
ficari, quantum loquens de iis cognoscit. Si vocabula obscura, vel dubia, vel
aequivoca, accuratâ definitione declaremus; quae autem confusa sunt rite factâ
divisione distinguamus. Andrea Abba. Keywords: teoria del segno, segnare,
segnato. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Abba,” The Swimming-Pool Library,
Villa Grice, Liguria, Italia. Grice ed Abbà #Abbà.
Grice ed Abbagnano – filosofia romana – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Salerno).
Filosofo. Grice: “There are TWO Abbagnani: the Paris Abbagnano, who to be
different, dubbed his ‘existenzialismo’ ‘esistenizalismo positivo’ (later
illuminismo), and MY Abbagnano, the one who explored that infamous Greek
embassy that arrived in Rome in 189 a. u. c., bringing the sophistries for the
fascination of the Scipioni of Rome!” -- Salerno, filosofo. Essential, idealist
Italian philosopher, famouos for his “Dizionario di filosofia,”“which alas, has
no entry fro ‘implicatura.’”Grice. Abbagnano also wrote an interesting history
of philosophy, and is regarded as an idealist, alla Oxonian-favoured Croce. Nicola Abbagnano (n. Salerno), filosofo. Laureatosi
in filosofia a Napoli con Antonio Aliotta, insegna dapprima al Liceo Umberto I
ed all'Istituto Superiore di Magistero "Suor Orsola Benincasa" del
capoluogo campano, per poi trasferirsi all'Torino dove è Professore di Storia
della filosofia prima presso la Facoltà di Magistero, poi presso quella di
Lettere e Filosofia; è condirettore, a fianco di Norberto Bobbio, della Rivista
di filosofia; è stato ispiratore del gruppo di intellettuali e filosofi,
comprendente, tra gli altri, lo stesso Bobbio e Ludovico Geymonat, che prende
il nome di "neoilluminismo italiano", organizzando una serie di
convegni rivolti alla costruzione di una filosofia "laica", aperta ai
principali orientamenti del pensiero filosofico internazionale. Collabora con
il quotidiano La Stampa; si trasferisce poi a Milano dove collabora con Il
Giornale di Indro Montanelli e dove viene eletto consigliere comunale nelle
liste del Partito Liberale Italiano e assume per circa un anno la carica di
assessore comunale alla Cultura. Divenne socio dell'Accademia delle
scienze di Torino. È stato uno dei promotori del Centro di studi metodologici
di Torino. Come studioso di filosofia, è tra i primi a diffondere in Italia,
negli anni trenta e quaranta, la conoscenza delle correnti esistenzialistiche
francesi e tedesche, in particolare Heidegger, Jaspers e Sartre. Nell'opera
"Le sorgenti irrazionali del pensiero," Abbagnano esalta l'azione
creativa, la volontà e l'esperienza, attribuendo ad esse il compito di condurre
alla verità. Erano elementi che egli ritrova soprattutto nella filosofia di
Giovanni Gentile. Fondamentale nell'evoluzione della sua filosofia è il saggio "La struttura
dell'esistenza," pubblicata a Torino, nella quale propose una terza
alternativa alle due correnti appartenenti all'esistenzialismo, quella di
Heidegger e quella di Jaspers. Abbagnano definisce la propria visione
filosofica come esistenzialismo positive. Esso, pur non esplicitamente
formulato in veste sistematica, individua la centralità dell'esistenza come
momento ontologicamente fondativo, considerando la razionalità dell'uomo come
lo strumento principe in grado di garantire a questo fondamento un valore
positivo contro ogni possibile nichilismo. Diversamente rispetto
all'impostazione di Heidegger e di Jaspers, Abbagnano evidenzia l'importanza
della libertà e della indeterminazione e quindi l'ineluttabilità del loro perseguimento. Oltre
a porre la ragione come unico mezzo per creare un legame tra l'uomo e il mondo
che lo circonda il pensiero di Abbagnano insiste molto su un chiarimento
dell'orizzonte categoriale della possibilità, in contrasto con quello della
necessità, tipico proprio dell'idealismo romantico e dell'esistenzialismo,
fatto che spiega la sua forte critica nei confronti queste due scuole
filosofiche. Nello saggio "Possibilità e libertà," l'autore chiarì il
senso della sua filosofia, non incline né alla visione pessimistica dell'uomo
imbrigliato e impedito in ogni suo progetto vitale, ma neppure ottimista al
punto da concedere all'essere una realizzazione certa. In quegli stessi anni
prende vita il movimento filosofico da lui nominato "neo-illuminismo",
nel quale precisa il senso dell'esistenzialismo positivo in termini di
empirismo radicale e di filosofia applicata alla realtà del mondo sociale. Il
movimento, che ha avuto sin dal principio una configurazione culturalmente e
politicamente molto composita, avrebbe dovuto favorire l'elaborazione di una
visione e di un uso della ragione filosofica alternativi tanto al marxismo che
al pensiero cattolico. Abbagnano aveva del resto ripetutamente criticato
all'idealismo e al neoidealismo la tendenza a sottostimare il valore della
scienza, da lui invece considerata una disciplina indispensabile per la ricerca
della conoscenza, oltreché per l'utilizzo delle sue applicazioni. Quindi una
disciplina alternativa alla filosofia, ma di pari valore e ad essa complementare.
Abbagnano insistette nei suoi lavori sui concetti di libertà e di ragione; la
prima intesa come la possibilità di scegliere, la seconda come facoltà
necessaria per regolare le azioni dell'uomo. Anche il positivismo di
stampo ottocentesco fu oggetto di critica tramite la contrapposizione con le
filosofie di Immanuel Kant e Søren Kierkegaard. Nel suo
"esistenzialismo positivo," Abbagnano insiste molto sulla finitudine
dell'uomo e sulla problematicità dell'esistenza, destinata per sua costituzione
a operare nell'orizzonte del possibile. Egli vede kantianamente nel limite una
caratteristica di fondo del nostro esistere e del nostro sapere. Negli ultimi
anni questo lucido senso del limite e della problematicità esistenziale si è
accompagnato a un lucido senso del mistero ultimo delle cose, inteso come un
aspetto insopprimibile della nostra esperienza del reale. Ed è proprio questo
senso del limite e del mistero, insieme alla rinuncia ad ogni (illusoria)
infinitizzazione o divinizzazione dell'umano, a fondaresecondo l'ultimo
Abbagnanola possibilità di un incontro genuino fra credenti e non credenti. E
ciò all'insegna di quella ”umiltà del pensiero” (come la chiamava il filosofo)
che rappresenta la condizione indispensabile di ogni etica del dialogo e del
reciproco rispetto». Oltre che autore di saggi su singoli filosofi (Aristotele,
Ockham, Meyerson, ecc.), Abbagnano è stato anche l'autore di una celebre Storia
della filosofia su cui si sono formate intere generazioni di studenti e di
docenti. Egli ha realizzato anche un "Dizionario di filosofia,"
considerato tra i migliori a livello internazionale. La Storia della filosofia
(sia nella versione scolastica pubblicata dall'editore Paravia, sia nella
versione universitaria pubblicata dalla Pomba) è stata poi aggiornata dal suo
allievo Giovanni Fornero, in collaborazione con Dario Antiseri e Franco
Restaino, in due volumi sulla filosofia contemporanea. Lo stesso Fornero,
insieme a un'équipe di noti studiosi, ha curato anche l'aggiornamento e l'ampliamento
del "Dizionario di filosofia." Opere: Le sorgenti irrazionali del
pensiero, Genova-Napoli, Perrella. Il problema dell'arte, Genova-Napoli,
Perrella. Il nuovo idealismo, Genova-Napoli, Perrella. La filosofia di E.
Meyerson e la logica dell'identità, Napoli-Città di Castello; La vita di
Ockham, Gubbio, Oderisi. Guglielmo di Ockham, Lanciano. La nozione del tempo
secondo Aristotele, Lanciano, Carabba. La fisica nuova. Fondamenti di una
teoria della scienza, Napoli. Il principio della metafisica, Napoli. La struttura
dell'esistenza, Torino, Paravia. Introduzione all'esistenzialismo, Milano,
Bompiani, 1Storia della filosofia I, Filosofia antica. Filosofia patristica.
Filosofia scolastica, Torino, POMBA, II.1, Filosofia moderna sino alla fine del
secolo XVIII, Torino, POMBA, 1II.2, Filosofia del romanticismo. Filosofia
contemporanea, Torino, POMBA, II, Filosofia del Rinascimento, la
filosofia moderna dei secoli XVII e XVIII, Torino, POMBA, La filosofia del
Romanticismo. La filosofia tra il secolo XIX e XX, Torino, POMBA, 4ª ed.
aggiorn. e riv. voll. I, II, III, con aggiunta del IV (La filosofia contemporanea): tomo 1 di G.
Fornero, L. Lentini, F. Restaino; tomo di G. Fornero, D. Antiseri, F. Restaino. POMBA,
Torino, Filosofia religione scienza, Torino, L'esistenzialismo positivo,
Torino, Possibilità e libertà, Torino, Dizionario di filosofia, Torino, POMBA,
(aggiornato e ampliato da Giovanni Fornero). Per o contro l'uomo, Milano, 1Fra
il tutto e il nulla, Milano, con Aldo Visalberghi, Linee di storia della
pedagogia, 3Torino: Paravia, Questa pazza filosofia ovvero l'Io prigioniero,
Milano, La saggezza della vita, Milano, La saggezza della filosofia. I problemi
della nostra vita, Milano, Scritti esistenzialisti, B. Maiorca, Torino, Ricordi
di un filosofo, Marcello Staglieno, Milano, Protagonisti e testi della
filosofia, Milano, L'esercizio della libertà. Scritti scelti, B. Maiorca, ed.
riv. agg. e integrata, Boni, Bologna, 1Esistenza e metafisica, B. Maiorca,
Milella, Lecce, Scritti neoilluministici, B. Maiorca, introduzione diRossi e C.
A. Viano, POMBA, Torino. Accademia delle scienze. La frase è tratta da G.
Fornero, Abbagnano tra limite e mistero, «Avvenire», 28 settembr. La prima edizione della storia della filosofia
di Abbagnano, che aveva già pubblicato
un Sommario di filosofia per i licei risale (per il manuale scolastico) (per il
manuale universitario). Attraverso successive edizioni e aggiornamenti (per
opera di Giovanni Fornero) tale storia continua a essere la più diffusa nelle
nostre scuole. N. Bobbio, Discorso su
Nicola Abbagnano, in: N. Abbagnano, Scritti scelti, Taylor, Torino, N. Bobbio,
La filosofia dell'esistenza in Italia, in "Rivista di Filosofia", Luigi
Pareyson, Il pensiero di Nicola Abbagnano e i suoi sviluppi recenti in Id.,
Esistenza e persona, Taylor, Torino, Antonio Aliotta, L'esistenzialismo
positivo di N. Abbagnano, in Id., Critica dell'esistenzialismo, Perrella, Roma;
G. Giannini, L'esistenzialismo positivo di Abbagnano, Morcelliana, Brescia, P.
Chiodi, L'esistenzialismo, Loescher, Torino); F. Lombardi, L'esistenzialismo in
Italia, in Id., La filosofia italiana negli ultimi cento anni, Arethusa, Asti, Antonio
Santucci, Esistenzialismo e filosofia italiana, Bologna, Il Mulino, Norberto
Bobbio, Discorso su Abbagnano, in N. Abbagnano, Scritti scelti (Giovanni De
Crescenzo e Pietro Laveglia), Taylor, Torino); Giuseppe Semerari, Il
neoilluminismo filosofico italiano, in Id., Esperienze del pensiero moderno,
Argalia, Urbino, La cultura filosofica italiana nelle sue relazioni con altri
campi del sapere, Atti del Convegno di Anacaprigiugno, Guida, Napoli, 1988.
Giuseppe Semerari, Genesi e formazione dell'esistenzialismo positivo, in Id.,
Novecento filosofico italiano, Guida, Napoli. Mirella Pasini, Daniele Rolando,
Il neoilluminismo italiano. Cronache di filosofia, Il Saggiatore, Milano, Nino
Langiulli, Possibility, Necessity, and Existence. Abbagnano and His
Predecessors, Temple University Press, Philadelphia. G. Cacciatore, G. Cantillo,
Una filosofia dell'uomo, Atti del Convegno in memoria di N. Abbagnano
(Salerno), Comune di Salerno. Marco Delpino, Paolo Riceputi, L'uomo e il
filosofo, Atti del Convegno di studi (S. Margherita Ligure), coordinamento di
G. Fornero, Edizioni Tigullio-Bacherontius, S. Margherita Ligure. Silvio
Paolini Merlo, Consuntivo storico e filosofico sul "Centro di Studi Metodologici"
di Torino, Pantograf (Cnr), Genova, Bruno Maiorca, Seam, Roma, Bruno Miglio,
Nicola Abbagnano. Un itinerario filosofico, Atti del Convegno per il centenario
della nascita (Torino,), Il Mulino, Bologna); Aniello Montano, Il prisma a
specchio. Percorsi di filosofia italiana tra Ottocento e Novecento, Soveria Mannelli,
Rubbettino Editore, Bruno Maiorca, Nicola Abbagnano. Esistenza, ricerca,
saggezza, Ferv, Roma. Rosanna Panelli Marvulli, 'Tributo ad Abbagnano', in
abbagnanofilosofo.,. Rosanna Panelli Marvulli, Abbagnano. Una vita per la
filosofia, con un saggio di Giovanni Fornero, POMBA, Torino,. Silvio Paolini
Merlo, Abbagnano a Napoli. Gli anni della formazione e le radici
dell'esistenzialismo positivo, Guida, Napoli, C. Viano, Stagioni filosofiche.
La filosofia del Novecento fra Torino e l'Italia, Il Mulino, Bologna, Pietro
Rossi, Avventure e disavventure della filosofia. Saggi sul pensiero italiano
del Novecento, Il Mulino, Bologna, Giorgio Primerano, La prospettiva pedagogica,
Aracne Editrice, Roma, Silvio Paolini Merlo, L'esistenza come struttura: Abbagnano
e l'esistenzialismo, Editoriale Scientifica, Napoli, Silvio Paolini Merlo, Mito
e ragione mitica. Corollari sull'estetica di Nicola Abbagnano, in Id., Estetica
esistenziale, Mimesis, Milano,. Franco Ferrarotti, Un greco in via Po.
Passeggiate silenziose con Nicola Abbagnano, Edb, Bologna. TreccaniEnciclopedie
on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Enciclopedia Britannica,
Encyclopædia Britannica, Inc. Opere di N. Abbagnano, Sito dedicato, su
abbagnanofilosofo. Filosofia Filosofo del XX secoloStorici della filosofia
italianiAccademici italiani Professore Salerno MilanoEsistenzialistiStudenti
dell'Università degli Studi di Napoli Federico IIProfessori dell'Università
degli Studi Suor Orsola Benincasa Professori dell'Università degli Studi di
Torino Membri dell'Accademia delle Scienze di ToriRefs.: Grice, “Implicature in
Philosophical Dictionaries. I don’t give a hoot care what the dictionary
saysAnd that’s where you make your big mistake. – Niccola Abbagnano. Abbagnano.
Keywords: filosofia latina, filosofia romana, filosofia italiana, impiegare,
implicare, dizionario filosofico. Luigi
Speranza, "Grice ed Abbagnano," per Il Club Anglo-Italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
#abbagnano #griceedabbagnano
Grice ed Abbri – i quattro elementi – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Agliana). Filosofo. Grice: “I
like Abbri; he is the equivalent of what *I* would be if I present myself as
“The Philosopher of Staffordshire” – for Abbri is obsessed with Toscana –
“Toscana e la scienza nuova,” “Filosofia e scienza nella Toscana del Seicento,”
– he has also studied the philosophies (particelle) of Santi and Volta -- Filosofo.
Sii è laureato in filosofia con Rossi a Firenze con una tesi su Filosofia,
chimica e linguaggio; è stato borsista della Domus Galilaeana di Pisa e
successivamente ricercatore confermato presso il Dipartimento di filosofia
dell'Firenze. Dal 1976 collabora con l'Istituto e Museo di storia della scienza
di Firenze, oggi Museo Galileo, come membro del Comitato scientifico
dell'Istituto e, dal 1986, anche come membro dell'editorial board della rivista
Nuncius. Inoltre, negli stessi anni, è entrato a far parte del comitato
editoriale delle riviste Prospettiva EP e Arkete; è nominato professore
straordinario di storia della filosofia moderna e contemporanea presso la
Facoltà di lettere e filosofia dell'Università della Calabria, Cosenza, dove ha
anche insegnato storia della filosofia medievale. Dal 1990 ha diretto, con
Franco Crispini, la collana Storia delle idee della casa editrice Rubbettino. Professore
di storia della filosofia e professore supplente di storia della musica moderna
e contemporanea presso la Facoltà di lettere e filosofia di Arezzo, Siena;
della Facoltà aretina è stato inoltre preside, nnonché direttore del
Dipartimento di studi storico-sociali e filosofici. Ha ricoperto la carica di
segretario della Società Italiana di storia della scienza. È stato in più
occasioni visiting scholar all'Uppsala e al Centro di storia della scienza
dell'Accademia reale svedese delle scienze di Stoccolma e membro dello steering
committee di un progetto europeo sulla storia della chimica moderna e
contemporanea finanziato dalla Fondazione europea per la scienza di
Strasburgo. Attualmente insegna storia della filosofia ad Arezzo nel
Dipartimento di scienze della formazione, scienze umane e della comunicazione
interculturale, e storia della filosofia e filosofia morale nel Dipartimento di
scienze storiche e dei beni culturali a Siena. È Presidente del Comitato della
didattica della LM interclasse di storia e filosofia di Siena-Arezzo. I
suoi studi riguardano la storia delle idee filosofiche e scientifiche, con una
particolare attenzione per la storia dell'alchimia dal Medioevo al Seicento,
della prima chimica, da Paracelso a Lavoisier, della magia e della cultura filosofico-scientifica
europea, dal Rinascimento all'Età dei Lumi, dei rapporti tra religione e
scienza e tra musica e filosofia nell'Età moderna. Si interessa inoltre della
filosofia e della cultura britannica del Novecento, di storia della
storiografia filosofica e scientifica, del rapporto tra femminismo e scienza e tra
storia antica e narrazione cinematografica. I suoi numerosi studi hanno
portato alla pubblicazione di varie opere uscite in Italia e all'estero; i suoi
saggi sono apparsi in riviste italiane e straniere e in volumi editi in Francia,
Paesi Bassi, Svezia, Germania e USA. Si è interessato alla cultura
scandinava e in particolare alle relazioni tra Italia e Svezia nel secolo XVIII
e ha curato la pubblicazione di carteggi inediti di scienziati toscani con
scienziati svedesi e russi. Vari lavori riguardano la letteratura, la
filosofia e la musica nell'Inghilterra del Novecento, con particolare
riferimento a McTaggart, Moore, Bloomsbury Group; il suo libro più recente
riguarda la filosofia della musica nell'800 britannico. Alcuni lavori
riguardano la metafisica e la filosofia della religione di Linneo, Priestley e
la tradizione sociniana e unitariana. In previsione di un lavoro monografico su
Priestley e l'apologetica del cristianesimo, le sue indagini considerano le
radici teologiche e filosofiche dell'unitarismo del chimico e filosofo inglese,
soprattutto la sua lettura delle opere di Fausto Sozzini e della Catechesis
Racoviensis. In altri scritti analizza le vicende delle tradizioni
storiografiche, filosofiche e scientifiche in Italia, con particolare
attenzione all'opera di Aldo Mieli che fu uno dei promotori della moderna
storia della scienza nel contesto internazionale. I suoi lavori più
recenti vertono sui dibattiti contemporanei, nell'ambito delle varie tradizioni
cristiane, relativi ai problemi connessi al gender e gli sviluppi della
tradizione sociniana nell'Età dei Lumi. OPAC del Museo Galileo, su
opac.museogalileo. Bernardette
Bensaude-Vincent, Ferdinando Abbri, Lavoisier in European context: negotiating
a new language for chemistry, Canton, Science history publications, Ferdinando
Abbri, Un dialogo dimenticato: mondo nordico e cultura toscana nel Settecento,
Milano, Franco Angeli, Un altro paesaggio: studi sulla musica britannica del
Novecento, Firenze, Edifir, Miti, sogni e storie: filosofia e musica nel
Novecento britannico, Milano, Franco Angeli, F. Abbri, Un paese musicale:
filosofie della musica nell'Ottocento britannico, Milano, Prometheus,, Ferdinando
Abbri, Professore, Siena, su segreteriaonline.unisi. Dipartimento di
scienze della formazione, scienze umane e della comunicazione interculturale,
Università degli studi di Siena, su dsfuci.unisi. Museo Galileo, su
museogalileo. Nuncius: Journal of the material and visual history of
science, su museogalileo. Filosofi italiani del XXI secoloStorici della
scienza italiani Agliana. socinianesimo Dottrina teologico-morale elaborata e
sistematizzata da Lelio e Fausto Socini. Del s. (i seguaci di questa dottrina
si davano il nome di unitarii o di Fratres Poloni, perdurante fino alla metà
del Seicento; mentre la qualifica di sociniani appare solo sul finire del 17°
sec., durante l’esilio olandese) sono più comunemente noti il razionalismo
religioso (nella Scrittura non ci può essere nulla contro la ragione, anche se
ci può essere molto sopra la ragione; nella deduzione della dottrina cristiana
dalla Scrittura si deve procedere solo secondo ragione, poiché ciò che nella
Scrittura è detto sopra la ragione non può esser commentato; dal che deriva che
nessun dogma tradizionale, e tanto meno quello trinitario, e nessuna
istituzione, come i sacramenti, possono essere accettati, in quanto appaiono
irrazionali e non esplicitamente ed evidentemente dichiarati nella Scrittura),
il principio della tolleranza religiosa (purché la vita da loro praticata
corrisponda in pieno ai precetti evangelici, fra i quali anche la non-violenza,
tutte le Chiese o tutti i gruppi che riconoscono come norma di vita i precetti
di Cristo vanno riconosciuti come cristiani, quindi non vanno perseguitati).
Questi motivi sono fondati sulla concezione della religione cristiana come
metodo (via) per raggiungere la salvezza, rivelatoci con i suoi precetti
dall’uomo divino, ma mero uomo, Gesù Cristo, per volere di Dio che l’aveva
ispirato, e quindi sulla riduzione della religione a eticità fondata sul
complesso di norme del Vangelo. Concepita la religione in funzione
esclusivamente etica, essa non poteva essere interpretata che razionalmente e
le divergenze teologiche, dogmatiche, non potevano, di fronte alla preminenza
delle norme etiche, non apparire fantasie speculative. Tali principi furono
elaborati e argomentati con una esegesi sottilissima da F. Socini, che aveva
cominciato con il dimostrare razionalmente, con uno dei primi esempi di critica
filologica in grande stile applicata ai problemi religiosi, l’autenticità della
Sacra Scrittura e la preminenza della religione cristiana; ma raccolgono nella
formulazione estrema motivi diffusi già nel Rinascimento italiano e negli
ambienti ereticali del Cinquecento. I motivi schiettamente religiosi furono il
rinnovamento della pietà proposto da G. Contarini e da I. Sadoleto, l’ideale
della imitatio Christi raccolto in ambiente italiano da C.S. Curione e S.
Castellione; altri motivi, connessi e derivati dai primi, furono l’indifferenza
valdesiana per le questioni dogmatiche e la semplificazione dei dogmi condotta
all’estremo da Aconcio sulle orme di Erasmo. Agirono inoltre anche elementi di
origine filosofica, come la coscienza universalistica e irenica tratta dal neoplatonismo
toscano, l’estensione della critica filologica di Valla, l’uso di
argomentazioni familiari all’aristotelismo padovano. In Polonia il movimento
sociniano ebbe la sua capitale nel centro culturale di Raków; il periodo più
fiorente fu quello degli ultimi decenni del 16° sec. e dei primi del 17°. Dura
la persecuzione in Polonia, culminata con l’espulsione. Gli esuli andarono
parte presso gli unitari transilvani, dei quali condivisero la sorte di Chiesa
a mala pena tollerata sotto la preponderanza calvinista e poi perseguitata
dagli Asburgo cattolici; in parte, attraverso Holstein, in Olanda, dove già
erano conosciuti e condannati; ma furono accolti nelle riconosciute comunità
dei rimostranti, e poi dei collegianti, e poterono esercitare una vasta attività
culturale: i loro principi furono discussi da Spinoza e da Leibniz, e
permearono la cultura religiosa olandese. Dall’Olanda il s. si diffuse, per
mezzo della stampa, in Inghilterra, dove il terreno era stato preparato da
Aconcio e dove, se da un lato unì in gran parte la sua storia a quella della
Chiesa unitaria, dall’altro penetrò anche, attraverso le università, tra il
clero anglicano e nella società colta inglese: sociniani, benché non unitari,
furono W. Chillingworth, R. Baxter, J. Milton, Newton, W. Penn. La
‘controversia antitrinitaria’ costituì lo sfondo storico della Lettera sulla
tolleranza di Locke. Così il s. cooperò alla preparazione del deismo e della
libertà religiosa, e assieme a essi fu combattuto dal metodismo. In America,
dove il s. assunse definitivamente il nome di unitarianismo, il razionalismo
etico di questa corrente religiosa alimentò figure come T. Parker. Ferdinando
Abbri. Abbri. Keywords: socianesimo, Socini, Sozzini, Fausto Sozzini,
catechesis racoviensis, socini -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Abri” – The
Swimming-Pool Library.
Grice ed Abrotele – Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano Pythagorean,
according to Gimlico.
Grice ed Accetto – DELLA DISIMVLATIONE HONESTA –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Trani).
Filosofo. Grice: “I learned so much about Accetto, and I hope it showed in my
talk at Brighton on ‘meaning, revisited.’ For Accetto, unlike Strawson, there
is ‘disimulazione onesta’ and ‘simulazione disonesta.’ Accetto notes that there
is an implicature to the effect that ‘disimulazione’ is disonesta per se and
hence he tried to provoke the duchess of Malfi by his little treatise on ‘Della
simulazione onesta’ – “An oxymoron, if ever there was one --,’ the duchess told
the duke --.” Filosofo. Nativo di Trani, visse ad Andria e fu in relazione con
la cerchia del marchese Giovanni Battista Manso, il mecenate napoletano che fu
biografo di Torquato Tasso nonché fondatore dell'Accademia degli Oziosi. Scrisse varie rime, nelle quali evidenziò la
sua delicata coscienza morale e il breve trattato Della dissimulazione onesta:
nato nel contesto della dominazione spagnola in Italia, fu pubblicato a Napoli e
rapidamente dimenticato. Il libello fu poi riscoperto da Benedetto Croce
all'inizio Professoree ripubblicato da Salvatore S. Nigro. La
"dissimulazione", tematica al centro dei dibattiti all'epoca, non è,
per Accetto, sinonimo di menzogna, ma invito al raccoglimento e alla cautela.
L'analisi di Accetto pone la questione, da un piano di politica spicciola, su
un piano di accurata indagine morale: l'autore, alquanto speciosamente,
differenzia la simulazione, moralmente riprovevole perché viziata da intenzioni
cattive, dalla dissimulazione, che invece pareva all'Accetto l'unico rimedio
per difendersi da una società pullulante di simulatori e per trionfare delle
proprie passioni. La ricetta però per risultare vincente richiede una onestà di
animo e un buon equilibrio. Opere
Edizioni originali: Rime di Torquato
Accetto, Napoli: nella stampa degli heredi di Tarquinio Longo, Rime del signor Accetto,
divise in amorose, lugubri, morali, sacre, et varie, Napoli: nella stampa di
Giacomo Gaffaro, Della dissimulazione onesta, Napoli, Edizioni moderne: Rime amorose, edizione critica Salvatore S.
Nigro, Torino: Einaudi, Della dissimulazione onesta, edizione critica Salvatore
S. Nigro; presentazione di Giorgio Manganelli, Genova: Costa & Nolan, nuova
edizione Torino: Einaudi, Della dissimulazione onesta Rime, E. Ripari, Milano:
BURRizzoli,. Note "Le Muse",
De Agostini, Novara, B. Croce, Storia dell'età barocca in Italia, Bari, Eugenio
Garin, Storia della filosofia italiana, Torino, 1966 Rosario Villari, Breve
riflessione sulla Dissimulazione onesta di Torquato Accetto, R. Villari, Elogio
della dissimulazione. La lotta politica nel Seicento, RomaBari, Laterza, sapere,
De Agostini. Torquato Accetto, in
Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere di Torquato Accetto, su Liber Liber. Opere di Torquato Accetto, su openMLOL,
Horizons U. La simulazione non facilmente riceve quel senso onesto che si
accompagna con la dissimulazione Io tratterei pur della simulazione, e
spiegherei appie- no l'arte del fingere in cose che per necessità par che la
ricerchino; ma tanto è di mal nome, che stimo maggior necessità il farne di
meno; e benché molti dicano: “Qui nescit fingere nescit vivere”, anche da molti
altri si af- ferma che sia meglio morire, che viver con questa con- dizione. In
breve corso di giorni o d'ore o di momenti, com'è la vita mortale, non so
perché la medesima vita si abbia da occupar a piú distrugger se stessa,
aggiungendo il falso delle operationi dove l'esser quasi non è; poiché la vera
essenzia, come disse Platone, è delle cose che non han corpo, chiamando
imaginaria l'essenzia di ciò ch'è corporeo. Basterà dunque il discorrer della
dissimu- lazione, in modo che sia appresa nel suo sincero signifi- cato, non
essendo altro il dissimulare, che un velo com- posto di tenebre oneste e di
rispetti violenti: da che non si forma il falso, ma si dà qualche riposo al
vero, per di- mostrarlo a tempo; e come la natura ha voluto che nel- l'ordine
dell'universo sia il giorno e la notte, cosí con- vien che nel giro delle opere
umane sia la luce 16 e l'ombra, dico il proceder manifesto e nascosto, con-
forme al corso della ra- gione, ch'è regola della vita e degli accidenti che in
quella oc- corrono. Alcuna volta è necessaria la dissimulazione, e fin a che
termine La frode è proprio mal dell'uomo, essendo la ragione il suo bene, di
che quella è abuso; onde nasce ch'è im- possibile di trovar arte alcuna, che la
riduca a segno di poter meritar lode: pur si concede talor il mutar manto, per
vestir conforme alla stagion della fortuna, non con intenzion di fare, ma di
non patir danno, ch'è quel solo interesse col quale si può tollerar chi si suol
valere della dissimulazione, che però non è frode; ed anche in senso tanto
moderato, non vi si dee poner mano se non per grave rispetto, in modo che si
elegga per minor male, anzi con oggetto di bene. Sono alcuni che si trasforma-
no, con mala piega di non lasciarsi mai intendere; e spendendo questa moneta
con prodiga mano in ogni pic- ciola occorrenza, se ne trovano scarsi dove piú
bisogna, perché scoperti ed additati per fallaci, non è chi loro cre- da.
Questo è per avventura il piú difficile in tal indu- stria; perché, se in ogni
altra cosa giova l'uso continuo, nella dissimulazione si esperimenta il
contrario, poiché il dissimular sempre mi par che non si possa metter in
pratica di buona riuscita. È dunque dura impresa il far con arte perfetta
quello che non si può essercitar in ogni occasione, e però non è da dir che
Tiberio fosse molto accorto in questo mestiero, ancorché da molti si affermi; e
ciò considero perché, dicendo Cornelio Tacito: “Tiberioque etiam in rebus quas
non occuleret, seu natura seu adsuetudine, suspensa semper et obscura verba”;
non solo disse prima: “plus in oratione tali dignitatis quam fidei erat”, ma
conchiude: “At patres, quibus unus me- tus, si intelligere viderentur”, ecc.;
ecco che si accorgea- no chiaramente della sua intenzion in quelli continui ar-
tifici. In sostanza il dissimular è una professione della qual non si può far
professione, se non nella scola del proprio pensiero. Se alcuno portasse la ma-
schera ogni giorno, sarebbe piú noto di ogni altro, per la curiosità di tutti;
ma degli eccellenti dissimulatori, che sono stati e sono, non si ha notizia
alcuna. 1Della disposizione naturale a poter dissimulare Quelli in chi prevale
il sangue o la malinconia o la flemma o l'umor collerico, è molto indisposto a
dissimu- lare. Dove abbonda il sangue, concorre l'allegrezza, la qual non sa
facilmente celare, essendo troppo aperta per sua propria qualità. L'umor
malinconico, quando è fuor di modo, si fa tante impressioni, che difficilmente le
na- sconde. Il soverchio flemmatico, perché non fa gran conto de' dispiaceri, è
pronto ad una manifesta tolleran- zia; e la collera, che è fuor di misura, è
troppo chiara fiamma, da dimostrar i proprii sensi. Il temperato dun- que è
molto abile a questo effetto di prudenza, perché ha da esser, nelle tempeste
del cuore, tutta serena la faccia; o, quando è tranquillo l'animo, parer
turbato il viso, come anderà richiedendo l'occasione; e ciò non è facile, se
non al temperamento che dico. Non voglio contradir all'opinione di que' che
sogliono attribuir a certi popoli la disposizione del dissimulare e, ad altri,
stimarla quasi impossibile; ma ben posso dire che, in ogni paese, son di quelli
che l'hanno e di que' che non vi si sanno ac- commodare; ma piú è certo che gli
uomini non nascono con gli animi legati a necessità alcuna, onde libera la
volontà si gira all'elezzione; e ciò leggiadramente fu espresso da Dante in
que' versi: Voi che vivete ogni cagion recate pur suso al cielo, sí come se
tutto movesse seco di necessitate. Se cosí fosse, in voi fora distrutto libero
arbitrio, e non fora giustizia per ben letizia, e per mal aver lutto. Il cielo
i vostri movimenti inizia; non dico tutti, ma, posto che 'l dica, lume v'è dato
a bene e a malizia, e libero voler; che, se fatica ne le prime battaglie del
ciel dura, poi vince tutto, se ben si nutrica. A maggior forza e a miglior
natura liberi soggiacete; <e> quella cria la mente in voi, che 'l ciel
non ha in sua cura. Dell'esercizio che rende pronto il dissimulare Da chi ha
per non plus ultra le porte delle natie con- trade, o che da' libri non
apprende il lungo e 'l lato del mondo, e' suoi vari costumi, con difficultà si
viene al consiglio della dissimulazione; perché in persona cosí molle e poco
intendente, riesce molto dura questa prati- ca, la qual contiene l'esser
d'assai e talora parer da poco: è dunque conforme a questo abito chi non s'è
tanto ri- stretto, poiché dal conoscer gli altri nasce quella piena autorità
che l'uomo ha sopra se stesso quando tace a tempo, e riserba pur a tempo,
quelle deliberazioni che domane per avventura saranno buone, ed oggi sono per-
niziose. Chiaro è che 'l viaggio per diversi paesi, come Omero cantò di Ulisse,
“qui mores hominum multorum vidit et urbes”, o l'aver letto ed osservati molti
accidenti, è cagion potente a produrre una gentil disposizione di metter freno
agli affetti, acciò che non come tiranni, ma come soggetti alla ragione, ed a
guisa di ubbidienti citta- dini, si contentino ad accommodarsi alla necessità,
della quale disse Orazio: Durum, sed levius fit patientia quicquid corrigere
est nefas. Sí che tant'altezza di spirito si accresce per mezzo della vita
occupata negli affari del mondo, e nella considerazione del tempo passato, per
non contradir al pre- sente e poter far giudicio dell'avvenire. Stando la mente
cosí sodisfatta, non le parrà nuova qual si sia mutazio- ne che le si vada
rappresen- tando, ed in conseguenza dipenderà da lei, e non dal precipizio del
senso, l'espres- sion di quan- to le succede. Che cosa è la dissimulazione Da
poi che ho conchiuso quanto conviene il dissimu- lare, dirò piú distinto il suo
significato. La dissimulazio- ne è una industria di non far veder le cose come
sono. Si simula quello che non è, si dissimula quello ch'è. Disse Virgilio di Enea:
Spem vultu simulat, premit altum corde dolorem. Questo verso contiene la
simulazion de la speranza e la dissimulazione del dolore. Quella non era in
Enea, e di questo avea pieno il petto; ma non volea palesar il senso de' suoi
affanni: ricordava però a' compagni l'aver sofferti piú gravi mali, e nominando
la rabbia di Scilla e lo strepito degli scogli ed i sassi de' Ciclopi, se ne
valse come per sepellir tra que' mostri, e tra quelle passate rui- ne, tutte le
rie venture che lor già davan noia; e col dol- cissimo “meminisse iuvabit”,
conchiude: Per varios casus, per tot discrimina rerum tendimus in Latium, sedes
ubi fata quietas ostendunt; illic fas regna resurgere Troiae. Durate, et vosmet
rebus servate secundis. Ma in ogni modo l'animo era ferito, e troppo dolente,
perché “Talia voce refert curisque
ingentibus aeger.” Si vede in questi versi l'arte di nasconder l'acerbità della
fortuna, e prima fu espresso da Omero come da Ulisse si dissimulava il dolore,
quando in altra figura dava di se stesso nuova alla sua Penelope; della qual
disse: Hac autem iam audiente fluebant lacrymae, liquefiebat autem corpus sicut
autem nix liquefit in altis montibus, quam Eurus liquefecit, postquam Zephyrus
defusus est liquefacta autem igitur hac, fluvii implentur fluentes: sic huius
liquefiebant pulchrae genae lachrymantis flentis suum virum assidentem. At
Ulysses animo quidem lugentem suam miserabatur uxorem. Oculi autem tanquam
cornua stabant vel ferrum. Tacite in palpebris dolo autem hic lachrymas
occultabat. Ecco la prudenza con che Ulisse mettea freno alle la- grime, quando
era tempo di nasconderle; e la compara- zion di liquefarsi Penelope, come la
neve, mi dà occa- sione di soggiunger quello che sia l'umido e 'l secco, di-
cendo Aristotile: “humidum est quod suo ipsius termino contineri non potest;
facile autem termino continetur alieno. Siccum est quod facile suo, difficulter
autem ter- mino terminatur alieno”. Da che si può apprender che il dissimular
ha del secco, perché si ritien nel proprio ter- mine; e questi son gli occhi di
Ulisse rassomiliati, in tempo di dolore, alla fermezza del corno e del ferro,
quando que' di Penelope eran molli e non avean termine 25 prescritto,
conforme a quelle ch'eran versate nell'animo di Ulisse, tenendo il ciglio
asciutto, ed a questo par che corrisponda quella sentenza di Eraclito: “Lux
sicca, anima sapientissi- ma”. 26 IX. Del bene che si produce dalla
dissimulazione Presupposto che nella condizion della vita mortale possano
succeder molti difetti, segue che gravi disordini siano al mondo quando, non
riuscendo di emendarli, non si ricorre allo spediente di nasconder le cose che
non han merito di lasciarsi vedere, o perché son brutte o perché portan
pericolo di produrre brutti accidenti. Ed oltre a quanto avviene agli uomini,
se pur si considera la natura per tante altre opere di qua giú, si conosce che
tutto il bello non è altro che una gentil dissimulazione. Dico il bello de'
corpi che stanno soggetti alla mutazio- ne, e veggansi tra questi i fiori, e
tra' fiori la lor reina; e si troverà che la rosa par bella, perché a prima
vista dis- simula di esser cosa tanto caduca, e quasi con una sem- plice
superficie di vermiglio, fa restar gli occhi in un certo modo persuasi ch'ella
sia porpora immortale; ma in breve, come disse Torquato Tasso: quella non par
che disiata avanti fu da mille donzelle e mille amanti; perché la
dissimulazione in lei non può durare. E tanto si può dir di un volto di rose,
anzi di quanto per la terra riluce tra le piú belle schiere d'Amore; e benché
della bellezza mortale sia solito dirsi di non parer cosa terrena, quando poi
si considera il vero, già non è altro che un cadavero dissimulato dal favor
dell'età, che ancor si sostiene nel riscontro di quelle parti e di que' colori
che han da dividersi e cedere alla forza del tempo e della morte. Giova dunque
una certa dissimulazion della natu- ra, per quanto si contiene tra lo spazio
degli elementi, dov'è molto vera quella proposizione che afferma di non esser
tutt'oro quello che luce; ma ciò che luce nel Cielo ben corrisponde sempre,
perché ivi tutte le cose son bel- le dentro e fuori. Or, passando all'utile che
nasce dalla dissimulazione ne' termini morali, comincio dalle cose che piú
bisognano, dico dall'arte della buona creanza, la qual si riduce nella
destrezza di questa medesima diligenza. E leggendosi quanto ne scrisse
monsignor della Casa, si vede che tutta quella nobilissima dottrina inse- gna
cosí di ristringer i soverchi di- siderii, che son cagion di atti noiosi, come
il mo- strar di non veder gli errori altrui, ac- ciò che la con- versazione
riesca di buon gusto. Onesta ed util è la dissimulazione, e di piú, ripiena di
piacere; perché se la vittoria è sempre soave, e come disse Ludovico Ariosto,
Fu il vincer sempre mai lodabil cosa, vincasi per fortuna o per ingegno, è
chiaro che 'l vincer per sola forza d'ingegno succede con maggior allegrezza, e
molto piú nel vincer se stesso, ch'è la piú gloriosa vittoria che possa
riportarsi. Que- st'avviene nel dissimulare, con che, dalla ragione supe- rato
il senso, si riceve intiera quiete; ed ancorché si sen- ta non poco dolor
quando si tace quello che si vorrebbe dire, o si lascia di far quanto vien
rappresentato dall'af- fetto, nondimeno piace poi grandemente d'aver usata so-
brietà di parole e di fatti. A questa conseguenza di sodi- sfazzione, ha da
rivolger il pensiero chi disidera di viver con riposo; e ciascun, che vuol ben
accorgersene per gl'interessi suoi, vegga sopra di ciò gli altrui falli, e cosí
ben conosca che tanto è nostro quanto è in noi medesi- mi. Non dico che non si
han da fidar nel seno dell'amico i segreti, ma che sia veramente amico; ed è
degno di gran considerazione, in quell'epigramma di Marziale, dove parla a se
stesso della vita beata, che nominando a questo fine dicisette cose, fa che
stia nel mezzo “prudens simplicitas”, dicendo: Vitam quae faciunt beatiorem,
iucundissime Martialis, haec sunt: res non parta labore, sed relicta; non
ingratus ager, focus perennis; lis nunquam, toga rara, mens quieta; vires
ingenuae, salubre corpus, prudens simplicitas, pares amici, convictus facilis,
sine arte mensa; nox non ebria, sed soluta curis; non tristis torus, attamen
pudicus; somnus qui faciat breves tenebras; quod sis esse velis nihilque malis,
summum nec metuas diem nec optes. Il prudente candor dell'animo è dunque il
centro della tranquillità. “Hoc opus, hic labor”. Quelli che si applicano al
piacer della parte ch'è in noi soggett'alla morte, sprezzando l'uso della
ragione, si mutano in abito di fiere; perché tali son da riputarsi, come fu
espresso da Epicteto stoico, dicendo: “Certe misellus homuncio, et caro
infoelix, et revera misera. At melius etiam quiddam habes carne; quare, misso
illo et neglecto, carni duntaxat es deditus? Ob huius societa- tem declinantes
a meliore natura quidam, lupis similes efficimur, dum sumus perfidi et
insidiosi et ad nocen- dum parati: alii leonibus, quia feri, immanes ac trucu-
lenti: maxima vero pars vulpeculae sumus”. Da che si può considerar un de' duri
impedimenti nel dissimulare; poiché il guardarsi da lupi e da leoni è cosa piú
pronta per la notizia che si ha della lor violenza, e perché poche volte si
riscontrano; ma le volpi son tra noi molte e non sempre conosciute, e quando si
cono- scono, è pur malagevole usar l'arte contra l'arte, ed in tal caso
riuscirà piú accorto chi piú saprà tener apparenza di sciocco, perché,
mostrando di creder a chi vuol in- gannarci, può esser cagion ch'egli creda a
nostro modo; ed è parte di grand'intelligenza che si dia 31 a veder di
non vedere, quando piú si vede, già che cosí 'l giuoco è con occhi che pa- ion
chiusi e stan- no in se stessi aperti. Del dissimulare con se stesso Mi par che
l'ordine di questo artificio metta prima la mano nella persona propria; ma si
richiede prudenzia in estremo, quando l'uomo ha da celarsi a se medesimo, e
questo non piú che per qualche picciolo intervallo e con licenza del “nosce te
ipsum”, per pigliar una certa ri- creazione passeggiando quasi fuor di se
stesso. Prima dunque ciascun dee procurar non solo di aver nuova di sé e delle
cose sue, ma piena notizia, ed abitar non nella superficie dell'opinione, che
spesse volte è fallace, ma nel profondo de' suoi pensieri, ed aver la misura
del suo talento e la vera diffinizione di ciò ch'egli vale, essendo di
maraviglia che ogni uno attend'a saper il prezzo della roba sua e che pochi
abbian cura o curiosità d'intender il vero valor dell'esser loro. Or,
presupposto che si sia fat- to il possibile di saperne il vero, conviene che in
qual- che giorno colui ch'è misero si scordi della sua disav- ventura, e cerchi
di viver con qualche imagine almeno di sodisfazzione, sí che sempre non abbia
presente l'og- getto delle sue miserie. Quando ciò sia ben usato, è un inganno
c'ha dell'onesto; poiché è una moderata oblivio- ne, che serve di riposo
agl'infelici: e benché sia scarsa e pericolosa consolazione, pur non se ne può
far di meno, per respirar in questo modo; e sarà come un sonno de' pensieri
stanchi, tenendo un poco chiusi gli occhi della cognizion della propria
fortuna, per meglio a- prirli dopo cosí breve risto- ro: dico breve, perché fa-
cilmente si muterebbe in letargo, se troppo si praticasse que- sta negligenza. Quando
considero che il vino fu trovato dopo il dilu- vio, conosco che non bisognava
minor quantità d'acqua per temperarlo; e qui son da veder due cose: una di Noè,
che ne restò ignudo, e ciò ne dimostra che 'l vino è mol- to contrario alla
dissimulazione, e quanto questa s'im- piega a coprire, tanto quello attende a
scoprire; l'altra della pietà delli due figli, che con la faccia indietro rico-
prirono il padre, dissimulando di vederlo a tal termine, quando dal lor
fratello, già alienato da ogni legge di umanità, era schernito ignudo colui che
l'avea vestito delle proprie carni. Oh quanti son al mondo che imitano questa
mostruosa ingratitudine, facendo materia da ride- re chi loro doverebber'esser
oggetto d'amore e di reve- renza! Pochi son gl'imitatori di que' due che
seppero tro- var il modo di volger le spalle, per pietà, al padre, non come
molti fanno, che si lascian la paterna necessità dietro le spalle. Non solo
que' pietosi figli si occuparono a ricoprir il padre, ma vollero mostrar di non
averlo ve- duto in tal condizione. Cosí ciascuno dee corrisponder a scusar i
disordini, ed in particolare que' de' superiori, ogni volta che alcuno di loro v'incorre.
Altri pietosi uffi- ci mi si rappresentano nell'istoria di Giuseppe che, ven-
duto da' fratelli, mostrò poi di non conoscerli, a fine di 35 piú
riconoscerli per mezzo de' benefici; e, con esempio di rada mansuetudine,
dissimulava il dono di quegli ele- menti che lor in apparenza vendeva, perché i
medesimi sacchi ne riportavano i danari a casa; finché, fatto venir anche
l'ultimo de' fratelli, e usati tutt'i modi di manife- star a tempo la sua
benignità, “non se poterat ultra cohi- bere Joseph multis coram adstantibus”.
In questo ebbe fine quella sincera ed innocente dissimulazione; e segue nel
Genesi a narrarsi la sua pietà: “unde praecepit ut egrederentur cuncti foras,
et nullus interesset alienus agnitioni mutuae. Elevavitque vocem cum fletu,
quam audierunt Aegyptii, omnisque domus Pharaonis, et dixit fratribus suis: -
Ego sum Joseph -”. Era egli nell'Egitto con suprema gloria, e già chiamato
salvator del mondo; con tutto ciò, non tenendo conto dell'offese, dissimulò
d'esser fratello, per dimostrarsi piú che fratello. Io non so chi possa ritener
le lagrime, leggendo quella pietosa istoria, dalla qual si può apprender la
dolcezza del per- dono e del dissimular l'ingiurie, e massimamente quan- do
vengon da persone tanto care quanto son i fratelli. Come quest'arte può star
tra gli amanti Amor, che non vede, si fa troppo vedere. Egli è pic- ciolo, e
come disse Torquato Tasso: Picciola è l'ape, e fa col picciol morso pur gravi e
pur moleste le ferite; ma qual cosa è piú picciola d'Amore, se in ogni breve spazio
entra, e s'asconde?. Nondimeno è pur tanto grande, che non ha luogo da potersi
in tutto nasconder, è quando è giunto al suo cen- tro, ch'è il cuore, se non si
mostra per altra via, accende quella febre amorosa della qual era infermo
Antioco e di che il Petrarca fe' che dicesse Seleuco: E se non fosse la
discreta aita del fisico gentil, che ben s'accorse, l'età sua in sul fiorir era
fornita. Tacendo, amando, quasi a morte corse; e l'amar forza, e 'l tacer fu
virtute; la mia, vera pietà, ch'a lui soccorse. Quindi si può considerar come,
mettendosi fuoco a tutta la casa, le faville, anzi le fiamme, ne fan publica
pompa per le finestre e dal tetto. Tanto avviene, e peggio, quando amor prende
stanza ne' petti umani, accen- dendogli da dovero, perché i sospiri, le
lagrime, la palli- dezza, gli sguardi, le parole, e quanto si pensa e si fa,
tutto va vestito con abito d'amore. Cosí dunque di Antio- co, nell'amor verso
Stratonica sua matrigna, ancorch'egli tacesse, si palesò l'incendio nelle vene
e ne' polsi. Non avea consentito di chiamarsi amante Didone, mentre Amor in
figura di Ascanio trattava con lei; ma niuna cosa mancava, perché già si
vedesse accesa, come Virgi- lio va significando: Praecipue infelix pesti devota
futurae expleri mentem nequit, ardescitque tuendo Phenissa et puero pariter
donisque movetur. Ed ancorché andasse velando gli stimoli della piaga interna,
nel progresso del suo affetto, At regina gravi iamdudum saucia cura vulnus alit
venis at caeco carpitur igni, pur, quello che la lingua non avea publicato, fu
espresso nelle strida della piaga ch'ella stessa disperata si fe', conchiudendo
Virgilio: Illa, graves oculos conata attollere, rursus deficit: infixum stridet
sub pectore vulnus. Di Erminia si ha, da Torquato Tasso, che avea dissi- mulato
il suo pensiero, e ch'ella poi disse a Vafrino: Male amor si nasconde. A te
sovente desiosa i' chiedea del mio signore. Vedendo i segni tu d'inferma mente:
- Erminia - mi dicesti - ardi d'amore. - Io te 'l negai, ma un mio sospiro
ardente fu piú verace testimon del core; e 'n vece forse della lingua, il
guardo manifestava il foco onde tutt'ardo. Il medesimo dolor che tormenta gli
amanti, se non ba- st'a far che dicano i loro affetti, si muta in ambizione
amorosa di dimostrarli; e se gli animi onesti si contenta- no di non
manifestarsi, con gran fatica si riducono a portar intiero il manto che ha da
coprir tanti affanni. L'ira è nimica della dissimulazione Il maggior naufragio
della dissimulazione è nell'ira, che tra gli affetti è 'l piú manifesto,
essendo un baleno che, acceso nel cuore, porta le fiamme nel viso, e con
orribil luce fulmina dagli occhi; e di piú fa precipitar le parole, quasi con
aborto de' concetti che, di forma non intieri e di materia troppo grossa,
manifestano quanto è nell'animo. Molta prudenza si richiede, per rinchiuder
cosí gagliarda alterazione; e di chi è trascorso a tanto impeto, disse Platone:
“tanquam canis a pastore, ita de- nique revocatus ab ea quae in ipso est
ratione mitescat.” Era Achille in questa passione contra Agamennone, quando
“truculento intuens aspectu: - O vir - inquit - ex dolo totus atque imprudentia
factus ac genitus, et quis tibi Graecorum posthac libens pareat? Ma l'ufficio
della ragione, significata per Minerva scesa dal cielo, va temperando: “ - Non
venit - inquit - a caelo, Achilles, ut te iratum in ultionem iniuriae acceptae
erumpere vi- deam, sed ut ira<cundia>m tuam compescam - Sí che Omero, in
questa occasione di Achille, spiega insieme quanto importi la dissimulazione.
Da due potenti stimoli procede tanta licenza di parole nell'ira, cioè dal
dispia- cere e dal piacere, perché ella è appetito, con dolore, di far vendetta
che si dimostri vendetta, per dispregio che crediamo fatto di noi, o d'alcuno
de' nostri, indegnamen- te, come disse Aristotile; ed a questo dolor segue il
di- letto, che nasce dalla speranza di vendicarsi, e perché l'animo è in atto
di vendetta: e però Aristotele soggiun- se: “recte illud de ira dictum est
quod, defluente melle dulcior, in virorum pectoribus gliscit”. Dunque, da cosí
fatto misto di amaro e di dolce, dee guardarsi chi non si vuol mostrar
facilmente turbato, come sogliono parer gl'infermi, i poveri e gli amanti, e
tutti quelli che si fan vincer dal disiderio. Importa il prevenir con la
conside- razione di quanto è maggior diletto vincer se stesso, in aspettar che
passi la procella degli affetti, e per non deli- berare nella confusione della
propria tempesta; ma nel sere- no dell'animo che, ritirato ogni pensiero
nell'altissi- ma parte della mente, potrà sprezzar molte cose, o non curar di
vederle. Chi ha soverchio concetto di se stesso ha gran difficultà di
dissimulare L'error che si può far nel compasso, il qual si gira nel- l'opinion
di noi stessi, suol esser cagion che trabocchi ciò che si dee ritener ne'
termini del petto; perché, chi si stima piú di quello che in effetto è, si
riduce a parlar come maestro, e parendogli che ogni altri sia da men di lui, fa
pompa del sapere, e dice molte cose che sarebbe sua buona sorte aver taciuto.
Pitagora, sapendo parlare, insegnò di tacere; ed in questo esercizio è maggior
fati- ca, ancorché paia d'esser ozio. I concetti che risuonano nelle parole,
non solo portano l'imagine di quelli che stanno nell'animo, ma son fratelli
mentali (già che non posso dir carnali) del concetto che l'uomo ha del suo sa-
pere. Questo è il concetto primogenito (per dir cosí), al qual succedono gli
altri; e se non è con misura, ne procedono molti e vari ragionamenti, e di
necessità però si scopre quanto è nel pensiero; ma chi di sé fa quella sti- ma
che di ragion conviene, non commette alla lingua maggior giuridizzione di
quanto è il lume dell'intelligen- zia che la dee muovere. 42 XVII. Nella
considerazione della divina giustizia si facilita il tollerar, e però il
dissimular le cose che in altri ci dispiacciono Convien di trattar di alcune
cose piú in particolare, che ricercano d'esser tollerate, ch'è lo stesso a dir
dissi- mulate, poiché sono molt'i dispiaceri dell'uomo ch'è spettator in questo
gran teatro del mondo, nel qual si rappresentano ogni dí comedie e tragedie; ed
or non dico di quelle che son invenzioni de' poeti antichi o mo- derni, ma
delle vere mutazioni del mondo stesso, che da tempo in tempo, in quanto agli
accidenti umani, prende altra faccia ed altro costume. L'ordine è forma che fa
il tutto simigliante a Dio, che lo creò e lo serba col dono della sua
providenza, la qual per lo gran mar dell'essere ogni cosa conduce con prospero
viaggio; e disponendo la medesima regola sopra il merito o demerito delle ope-
re umane, si vieta nondimeno alla debolezza de' nostri pensieri il passar negli
abissi de' consigli divini, alli qua- li si dee infinita riverenza, avendosi da
ricever per giu- sto quanto consòna alla volontà di Dio. E se pur sempre non
vediamo nelle cose mortali quell'ordine infallibile che si manifesta nel moto
del sole, della luna e dell'altre stelle, anz'in molta confusione spesse volte
si truovano i negozii di qua giú, non manca però la certezza dell'eter- na
legge, che tutto sa applicar ad ottimo fine; e 'l premio e la pena, che non
sempre vien pronta, si aspetti come decreto inseparabile dal giudizio divino,
che per tutto va penetrando con la sua non mai limitata potenzia. A que- sta
verità, ch'è via di quiete, per dissimular le sinistre apparenze, soggiungerò
piú distinto il modo di accom- modarsi a quelle. Gran tormento è di chi ha
valore, il veder il favor del- la fortuna, in alcuni del tutto ignoranti; che
senz'altra occupazione, che di attender a star disoccupati, e senza sa- per che
cosa è la terra che han sotto i piedi, son talora padroni di non picciola parte
di quella. Veramente chi si mette a considerar questa miseria, è in pericolo di
perder la quiete, se insieme non s'accorge che la medesima for- tuna, che
talora fa qualche piacere alla turba degli scioc- chi, suol abbandonar l'impresa,
e quando piú luce, si rompe, lasciando scherniti que' che non son degni della
sua grazia; e di piú la gente di questa qualità, non ha che pretender per
l'acquisto di quella gloria, che solamente appartiene a chi sa da dovero; e se
qualche uomo di ec- cellente virtú, alcuna volta sta quasi sepellito vivo, in
ogni modo si ha da udir il grido del suo merito; e non solo la voce ne dee
risonar tra quelli che vivono nel me- desimo tempo, ma se ne va passando da un
secolo all'al- tro; perché il vero valor è che fa per fama gli uomini
immortali, come disse il Petrarca; e prima di lui Dante: vedi se far si dee l'uomo eccellente sí
ch'altra vita la prima relinqua. Di questa maniera si libera il nome dalle mani
della morte, ed un'anima piena di cosí alta speranza, non sente noia che a
qualche indegno e da poco, per poco tempo, si faccia applauso, es- sendo un
salto di fortuna che se ne passa senza lasciar ve- stigio, come il fumo
nell'aria. Del dissimular all'incontro dell'ingiusta potenzia Orrendi mostri
son que' potenti, che divorano la so- stanza di chi lor soggiace; onde
ciascuno, che sia in pe- ricolo di tanta disaventura, non ha miglior mezzo di
ri- mediar, che l'astenersi dalla pompa nella prosperità, e dalle lagrime e da'
sospiri nella miseria; e non solo dico del nasconder i beni esterni, ma que'
dell'animo; onde la virtú, che si nasconde a tempo, vince se stessa, assicu-
rando le sue ricchezze, poiché il tesoro della mente non ha men bisogno talora
di star sepolto, che il tesoro delle cose mortali. Il capo che porta non
meritate corone, ha sospetto d'ogni capo dove abita la sapienzia; e però spesso
è virtú sopra virtú, il dissimular la virtú, non col velo del vizio, ma in non
dimostrarne tutt'i raggi, per non offender la vista inferma dell'invidia e dell'altrui
ti- more. Anche lo splendor della fortuna ha da esser cauto nel palesarsi, già
che, passando a dimostrazioni di soverchi arnesi e di oziosi ornamenti, oltre
al distrugger il capital nelle spese, suol accender gran fuoco nella pro- pria
casa, destando gli occhi degl'ingordi a pretenderne parte, e forse il tutto. Ma
piú dura è la fatica di dover pi- gliare abito allegro nella presenza de'
tiranni, che so- glion metter in nota gli altrui sospiri, come di Domiziano
disse Tacito: “Praecipua sub Domitiano miseriarum pars erat videre et aspici,
cum suspiria nostra subscribe- rentur, cum denotandis tot hominum palloribus
sufficeret saevus ille vultus et rubor, a quo se contra pudore muniebat”. Sí
che non è permesso di sospirare, quando il tiranno non lascia respirare, e non
è lecito di mostrarsi pallido, mentre il ferro va facendo vermiglia la terra
con sangue innocente, e si niegano le lagrime che dalla benignità della natu-
ra son date a' miseri come propria dote, per formar l'onda che in cosí picciole
stille suol portar via ogni grave noia e la- sciar il cuor, se non sano, al- men
non tanto oppresso. Del dissimular l'ingiurie L'ingiuria, che si può
dissimulare, e nondimeno si manifesta nel disiderio della vendetta, è fatta piú
da colui che la riceve che dal suo nimico. Non tutti sanno ben conoscer il
decoro dell'onesta tolleranzia, in che si accordano tutt'i filosofi, che per
altre opinioni, in varie set- te, non son di conforme parere, dicendo
Tertulliano: “tantum illi subsignant, ut cum inter sese variis sectarum
libidinibus et sententiarum aemulationibus discor- dent, solius tamen
patientiae in com<m>une memores, huic uni studiorum suorum commiserint
pacem: in eam conspirant, in eam foederantur, illi in adfect<at>ione
virtutis unanimiter student, omnem sapientiae ostenta- tionem de patientia
praeferunt. Alcuni, non distinguen- do la forteza dal temerario ardire, son
pronti ad ogni qualità di vendetta, e per un cenno che non sia fatto a lor
modo, vogliono penetrar negli altrui pensieri e dolersene come di offese
publiche. I sensi cosí fieri son vicini ad estremi mali, e l'esperienza
dimostra che le picciole in- giurie, se non si lascian passar sotto qualche
destrezza, sogliono diventar grandi; ed a tutti color che son potenti, molto
piú convien di ritirar la vista da simili occasioni: perché ogni un che possa
poco, è buon maestro a' suoi pensieri, per accommodarsi a tollerare; ma chi ha
forza di risentirsi, sente stimolo di correr a precipizio, e molti di questi
che stanno in alta fortuna, scordati non solamente di usar perdono, ma della
proporzion della pena, prendono mezzi violenti per l'altrui ruina; da che avviene
ch'essi pur rimangono in tanta turbazione de' fatti loro che, oltre all'odio
publico, son anche in odio a se medesimi, per la perdita della quiete interna,
ch'è bene inestimabile ed appartiene all'innocenzia. Del cuor che sta nascosto
Gran diligenza ha posta la natura per nasconder il cuore, in poter del quale è
collocata, non solo la vita, ma la tranquillità del vivere: perché nello star
chiuso, per l'ordine naturale si mantiene; e quando gli occorre di star
nascosto, conforme alla condizion morale, serba la salute delle operazioni
esterne. E pur in questo modo, non a tutti si dee nasconder; onde,
nell'elezzione, si con- sideri quello che fu detto da Euripide Sapienti
diffidentia non alia res utilior est mortalibus. L'esperienza, che si suol
doler degl'inganni, potrà far luce in questa materia, ch'è una selva oscura per
l'incertezza del ben eleggere; e però ogni ingegno accorto va- gliasi degli abissi
del cuore, ch'essendo breve giro, è capace d'ogni cosa; anz'il mondo intiero
non lo riempie, poiché solo il Creator del mondo può saziarlo. Si ammira, come
grandezza degli uomini di alto stato, lo starsi ne' termini de' palagi, ed ivi
nelle camere segrete, cinte di ferro e di uomini a guardia delle loro persone e
de' loro interessi; e nondimeno è chiaro che, senza tanta spesa, può ogni uomo,
ancorch'esposto alla vista di tutti, nasconder i suoi affari nella vasta ed
insieme segreta casa del suo cuore, perché ivi soglion esser quei templi
sereni, de' quali cantò Lucrezio: sed nihil dulcius est, bene quam munita tenere
edita doctrina sapientium templa serena, despicere unde queas alios passimque
videre errare atque viam palantes quaerere vitae. Applicando io però questi
versi al senso che conviene a significar un'altezza d'animo, ed una quiete, che
con- duce al piacer ed alla gloria immortale, e non al diletto fallace. La
dissimulazione è rimedio che previene a rimuover ogni male Era tanto stimata da
Giob la dissimulazione onesta che, non avendo lasciato di valersene nel suo
regno, poi che si vide privo di prosperità, parendogli di aver fatto assai
dalla parte sua perché non gli fosse caduta dalle mani, disse: Nonne
dissimulavi? nonne silui? nonne quievi? et venit super me indignatio. Egli con
tranquillità governò il suo stato, e sempre che potette dissimular, lo fe'
volentieri; e però s'era per- suaso che non avesse da seguir mutazione nelle
cose sue, ben assicurate dalla prudenzia, che in sé raccoglie- va dissimulazione,
silenzio e quiete. Ma se con tutto ciò cadde in miseria, fu voler di Dio, che
si compiacque di far vedere nella persona di quel santo una invitta costan- za
e 'l trionfo della pazienzia, che nel carro della vera gloria si menò appresso
come catenati tutt'i mali, fin ch'egli ebbe la prístina felicità con duplicate
sodisfazzioni; e quella sua giustizia, che nel termine della sem- plice natura
si dimostrò al mondo, sarà esempio in tutt'i secoli per affermare che i servi
di Dio, in ogni condizio- ne, son sempre beati. Dunque Giob era tale, anche nel
tempo de' suoi tormenti; ma per non uscir dalla materia 53 di che vo
trattando, dico ch'egli, facendo il conto con la sua conscienzia, dicea: “Nonne
dissimulavi? nonne si- lui? nonne quievi?”, volendo significar che a questa
dili- genza non suol mancar piacer alcuno; e quando succede qualche accidente
che perturbi tanto sereno, vuol il cielo che, dopo l'avversità, si accresca
splendor agli animi che son alieni dagli affetti della terra. In un giorno solo
non bisognerà la dissimulazione È tanta la necessità di usar questo velo, che
solamente nell'ultimo giorno ha da mancare. Allora saran finiti gl'interessi
umani, i cuori piú manifesti che le fronti, gli animi esposti alla publica
notizia, ed i pensieri esaminati di numero e di peso. Non averà che far la
dissimulazio- ne tra gli uomini, in qualunque modo si sia, quando Id- dio, che
oggi “est dissimulans peccata hominum”, non dissimulerà piú; ma poste le mani
al premio ed alla pena, metterà termine all'industria de' mortali, e que' sa-
gaci intelletti, che hanno abusato il proprio lume, si accorgeranno come allora
non gioverà l'arte del cucir la pelle della volpe dove non arriva quella del
leone, che fu consiglio di un re spartano: perché l'onnipotente Leo- ne,
facendo ruggir il mondo dagli abissi fin alle stelle, chiamerà tutti; e
ciascuno dee saper e dire circumdabor pelle mea, come disse Giob. Quell'aurora
porterà un giorno tutt'occupato dalla giustizia, e nel mostrar i conti, non vi
sarà arte da far vedere il bianco per lo nero. S'udirà il decreto, che sarà
l'ultimo delle leggi, e darà legge eterna alle stelle ed alle tenebre, al
piacer ed alla pena, alla pace ed alla guerra. Sarà forz'alla dissimulazione di
fuggirsene in tutto, quando la verità stessa aprirà le finestre del cielo e,
con la spada accesa, troncherà il filo d'ogni vano pensiero. Come nel cielo
ogni cosa è chiara Se per questa vita in un giorno solo non bisognerà la
dissimulazione, nell'altra non occorre mai; e lasciando di trattar delle anime
infelici che, con la luce del fuoco eterno, anzi nelle tenebre, mostrano gli
orribili mostri de' peccati, dirò dello stato delle anime eternamente felici.
Ivi hanno lo specchio, ch'è Iddio, il qual vede tutto, e ben nella lingua greca
il suo nome, come osserva Gregorio Nisseno, dimostra efficacia di vedere,
perché theós viene a theáome, ch'è mirare e contemplare. Veggono i beati colui
che vede, sí che nel cielo non occorre che alcuno si celi. Ivi tutto è
manifesto, perché tutto è buono, tutto è chiaro, tutto è caro. Quanti piú sono
a possedere il sommo bene, tanto piú son ricchi. Dov'è tanto amor, non può
succedere occasion di custodire in- teresse alcuno. Ma qui, dove siamo vestiti
di corruzzio- ne, si procura con ogni sforzo il manto, con che si dissi- mula
per rimedio di molti mali; ed ancorché ciò sia one- sto, pur è travaglio; onde
si dee aspirar al termine di questa necessità, e spesso, rimovendo lo sguardo
dagli oggetti terreni, vagheggiar le stelle come segni del vero lume che, anche
per mezzo d'esse, c'invita alla propria stanza della verità. Ivi, nella divina
essenza, i beati go- dono della chiara vista, ch'è l'ultima beatitudine dell'uomo,
essendo la piú alta operazione dell'intelletto, per mezzo del lume della gloria
che lo conforta; perch'essendo la divina essenza sopra la condizione
dell'intellet- to creato, può questi vederla, non per forze naturali, ma per
grazia; e come uno ha maggior lume di gloria del- l'altro, cosí può meglio
conoscerla, ancorché sia impos- sibile vederla quanto è visibile, perché il
medesimo lume della gloria, in quanto è dato a tal intelletto, non è infinito.
Or, considerando cosí sodisfatti, cosí felici, ed in eterno sicuri, gli
abitatori del Paradi- so, si vede come non han da nasconder di- fetto alcuno; e
per conseguenza la dissimulazio- ne rimane in ter- ra, dove ha tutti i suoi ne-
gozii. The first stage X produces a screech volunaarity so that the rest of the
world should think that x he is in the state wwhich the NON-voluntary
production would SIGNIFY. Stage 2, produce
X is now supposed not only TO SIMULATE pain-behaviour but also to be recognised
as simulating pain-behaviour. Stage three
X screes so that Y not only recotgnises that the behaviour is voluntary
but also recognises that X intends Y to recognise his behaviour as voluntary.
We have underminded that this is a straightforward piece of DECEPTION.
DECIEVING consists in trying to get a creature to accept certain things as
SIGNS of something or other wihout knowing that this is a FAKED case. Were
would weuld have a sort of PERVERSE faked case in which something is faked but
at the same time a CLEAR thindictation is put in that the faking has been done.Y
can be thought of as initially BAFFLED by this conflicting performance. There
is this creature simulating pain but ANNOUNCING, that this what he is doing.
What on earth can it be up to me. If Y does raise the question of why X should
be doing this, Y might first come up with the idea that X is engagnen in some
form of make believe – a game to which Y is expected to make some appropriate
contribution. This is stage 4. But we may suppose, tthere might be cases which
coud NOT be handled in this way. If Y is to be expected to be a participant
whith X in some form of play, it ought to be possible for Y to recognise what
kind of contribution Y is supposed to make. And we can envisage the possibility
that Y has NO CLUE on which to base such recognition, or again that though some
form of contribution seems to be suggested, when Y obliged by coming up with
it, X instead of producing further play-behaviour geets corss and perhaps
repeats its original and now problematic performance. This is stage 5, at which
U supposes thanot that X is engaged in play that buta what I is doing is trying
to get Y to believe or accept that X is in pain. In relation to the particular
example which I have been using, to reach the position ascribed to in in stage
five, Y would have to solve, bypass, or IGNORE, a possible problem presented by
X/s behaviour. Why SHOULD X produce what is NOT a genuine but a FAKED
expression of pain if what X is trying to get Y to believe is that X IS in
pain? Wy not just let out a natural bellow? Possible answers are not too hard
to come by. For example, it would be UNMANLY, or otherwise uncreaturely, for X
to produce NATURALLY a natural expression of pain, or that X’s NON-NATURAL
faked production of an expression of sincere pain is NOT to be supposed to
INDICATE EVERY feature which WOULD be indicated by a NATURAL production. The
non-natural production or emission, for example, of a LOUD BELLOW might
properly be taken to indicate pain, not that THAT degree of pain wich would
correspond with the DECIBELS of the particular emission. This problem would
not, however, arise if X’s performance, instead of being something which, in
the NATURAL INVOLUNTARY case, woud be an EXPRESSION of the STATE of X which (in
the non-natural faked case) is is intended to get Y to believe in, were rather
something MORE LOOSELY connecterd with the state of affairs (NOT NECESSARILY A
STATE OF X) which it is intended to conveye to Y. X’s performance, that is,
would be SUGGESTIVE, IMPLICATURAL, in some recognizable way, OF THE STATE of
affairs WITHOUT being a NAUTRAL involuntary response of X to THAT state of
affairs. We reach then stage 6. Where the correlation is meant to be something
other than inconic. A stage in which the communication vehiles do not ave to
be, initially A NATURAL SIGN of what which it is used to communicate. Provided
a bit of behaviour could be expected to be seen by the receiving creature as
having a discernible connection with a particular piece of information, that
bit of bheaviour will be usable by the transmitting creature, provided that the
creature can place a fiar bet on the cconnetion being made by the receiving creature.
Any link will do, proided it is detectable by the receiver, and the ooser the
links creatures are in a position to use, the greater the freedom they will
have as communicators, since they will be less and less restricted by the need
to rely on a proor natural connection. The widest possible range is given where
creatures use for these purposes a ANGE of communication devices which or gamut
of communication devices which have NO ANTECEDENT connection at all with the
things that they communicate or represent, and the connection is simply made
ofbecause the sassupmtion of such an artificial connection is prearranged and
foreknown. Here creatures can simply cash in on the stock of information built
into them. In some cases, the devices might have other features above the one
of being artividial. They might infolve a finite number of roto devices and a
FINITE set of fmodes or forms of combination – combinaroty operations, which
are cableble of being used over and over again. The creatures whihcll have what
some have thought to be characteristic of a language, a communication system
with a finite set of initial devices, together with semantic provisions for
them, and an understanding of what the functions of those modes of comination
are. As a result, they can generate an infinite set of complex communication
devices, together with a correspondingly infinite set of things to be
communicated. This gives a rationale ro communiationThe muth exhibits the
conceptual link Torquato Accetto. Keywords: dissimulazione onesta,
dissimulazione disonesta nell’animali – mimesis – camuffare, camouflage,
laboratorio di mascheramento – vegetato: camuffamento uffiziale dell’esercito
italiano. vegetato: camuffamento uffiziale dell’esercito italiano, simulation
as the key concept to unify the only sense of ‘sign’ x consequentia y, y
seq-uitur x, segno naturale divenne segno artificiale – segno di una
proposizione p – un gesto segna la proposizione p, la correlazione e iconica –
ma se intenzionale, it cannot be ‘natural’. Passage in ‘Meaning revisited’ --. --
Giulio Cesare, Medici – grigio – esercito, bande nere.-- Accetto. Refs. Luigi
Speranza, “Grice ed Accetto” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza,
Liguria. #accetto
Grice ed Acilio – Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Gaio
Acilio Gaius Acilius was a philosopher specialized in political philosophy. He
happened to be pretty fluent in Greek, and served as interpreted for Carneades
of Cyrene, Diogenes of Seleucia, and Critolaus, when they came to Rome to
represent Athens before the Senate. Senatore e storico. Grazie alla sua
posizione politica, anche se non di primo piano, e soprattutto alla sua
conoscenza del greco, introduce al senato romano i tre filosofi Carneade
dall’Accademia, Diogene del Lizio e Critolao dalla Scesi, venuti come
ambasciatori di Atene, e funge da interprete. Seguendo l'esempio di Quinto
Fabio Pittore, a cui si attribuisce il merito di aver iniziato la storiografia
latina, scrive una storia di Roma, di impostazione annalistica, che anda dai
primi tempi, secondo Dionigi di Alicarnasso e Livio. La storia e commentata da altro
annalista, Gaio Claudio Quadrigario. A giudicare dagli VIII frammenti
conservati, sembra di potersi notare che, come l'opera di Fabio Pittore, anche
la storia di Acilio dedica molto spazio al racconto delle origini. E accostabile
al suo predecessore anche dalle discussioni eziologiche per cerimonie e
istituzioni cultuali, che egli vede come indice del fatto che Roma e una città
di origine greca. Macrobio, Saturnalia. Periochae. Livio. In F. Gr. Hist. Jacoby. H. Peter, “Historicorum Romanorum
Reliquiae” (Leipzig, Teubner), Altheim, “Untersuchungen zur römischen Geschichte”
(Frankfurt), Cornell & Bispham, “The fragments of the Roman historians” (Oxford)
-- discussione su vita, opere e frammenti. Voci correlate modifica Gens Acilia.
Portale Antica Roma Portale Biografie Portale Letteratura. Quinto
Fabio Pittore politico e storico romano Annales (Cincio Alimento) opera dello
storiografo romano Lucio Cincio Alimento Gaio Asinio Quadrato storico e
politico romano.
Grice ed Achillini – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Bologna). Filosofo italiano. Grice: “It is from Achillini
that I draw the idea that ‘mean’ is essentially a ‘consequentia’ relation – he
speaks of the sillogismo fisiognomico (those spots do not mean measles, YOU
mean that you have measles, since you painted them yourself!” – but then he was
‘of’ Bologna, and thus a physician, more than a philosopher! Bless his little
heart!” Grice: “The fact that the Loeb Classical Library has Aristotle’s
Physiognomica helped!” -- Grice: “I like Achillini; he is my type of logician.”
“Possibly, his most generalised implicature is his little philosophical tract
on ‘de prima potestate syloogismi,’ translated during the second world war as
“la prima potesta del sillogismo.’ His example: “all men are mortal,
Garibaldi!” -- Filosofo. Essential Italian philosopher. Grice: “What fascinates
me about Achillini is, first, that he belonged to a varsity older than mine,
Bologna; second, that he was a Renaissance occamist, as Matsen has shown.” Alessandro
Achillini (Latina Alexander Achillinus) filosofo. Achillini è nato a
Bologna e ha vissuto la maggior parte della sua vita. Era il figlio di Claudio
Achillini, membro di un'antica famiglia di Bologna. E 'stato celebrato come
docente in filosofia presso Bologna e Padova, ed è stato designato "il
secondo Aristotele." Lui era di natura molto semplicistico. E 'stato
qualificato nelle arti di adulazione e di doppio gioco a tal punto che i suoi
studenti più argute e imprudenti spesso lo consideravano come un oggetto di
ridicolo, anche se lo hanno onorato come insegnante. Egli possedeva anche un
bel carattere vivace. Secondo la descrizione di un collega, che era bello, alto
ma ben proporzionato, allegro, felice, spesso sorridente, e affabile. Achillini
mai sposato. La sua reputazione tra i suoi colleghi era ammirevole ed era molto
rispettato. E anche se era ben Achillini lettura e formidabile in un dibattito,
è stato detto di essere un po 'rigida e rigido nella sua docenza. Dopo la sua
morte, molte persone sono state estremamente devastati. Le sue opere
filosofiche sono state stampate in un volume in folio, a Venezia, e ristampato
con notevoli aggiunte. E 'morto a Bologna e fu sepolto nella chiesa di San
Martino. Tra le sue scoperte notevoli, è conosciuto come il primo anatomico per
descrivere le due ossa tympanal dell'orecchio, chiamato martello e incudine. Ha
mostrato che il tarso (parte centrale del piede) è costituito da sette ossa, ha
riscoperto il fornice e l'infundibolo del cervello. Inoltre ha descritto i
condotti delle ghiandole salivari sottomascellari. Suo fratello è stato
l'autore Giovanni Filoteo Achillini, e il suo pronipote, Claudio Achillini, era
un avvocato. Fu costretto a lasciare Bologna a causa della espulsione
della potente famiglia Bentivoglio di cui era un partigiano. Poi anda a Padova
dove è nominato professore di filosofia. Iniziò ad insegnare quando aveva
21 anni. -- è stato professore di filosofia a Bologna. Achillini era un
professore presso Padova. Achillini insegna a Bologna per ventotto anni, che è
più lungo di chiunque abbia mai insegnato a Bologna in la filosofia. Padova ha uno
statuto, che se un professore è riuscito a leggere in qualsiasi giorno
assegnato, o non è riuscito ad avere un certo numero di studenti che sarebbe
essere documentati e poi ci sarebbe stata una diminuzione di stipendio per
evento. Achillini non soddisface il requisito per la lettura, a cui è stato
penalizzato 351 lire bolognesi. Anche riceve due lettere fortemente formulate
dal Comune di Bologna, affermando che la sua assenza non era autorizzata, e se
avesse continuato avrebbe penalizzato severamente (500 ducati d'oro per la
prima infrazione). Partecipa molti comitati di dottorato come membro per
l'esame e l'approvazione dei candidati. Ci sono registrazioni di lui che
frequentano almeno novanta volte al presente procedimento. I procedimenti sono
esami di dottorato o di elezioni dei nuovi membri della compagnia di collegiali
medici. Inoltre, e ben versato in teologia. I suoi disegni iniziali
indicano un interesse ad entrare al sacerdozio. Egli sembra aver iniziato gli studi
al seminario. L'anno in cui è entrata la tonsura nella Cattedrale di Bologna. E
anche se poi sposta la sua attenzione al mondo accademico, rimanne un filosofo
attivo per tutta la sua vita e ha contribuito a due Congressi Generali
dell'Ordine Francescano; uno a Bologna e un altro terrà a Roma.. Mentre in
residenza a Bologna, è accreditato come strumentale nel generare interesse per
Guglielmo di Ockham. L'estensione del riconoscimento alcuno di Achillini è
difficile da discernere, ma si ritiene che i suoi contemporanei e all'università
istigato una breve rinascita Ockhamistica, come evidenziato dagli ultimi lavori
dei suoi studenti. pubblicazioni Le “Note anatomiche del grande Alexander
Achillinus di Bologna” dimostrano una descrizione dettagliata del corpo umano.
Paragona ciò che trov durante i suoi dissezioni a ciò che altri come Galeno e
Avicenna trovano e note le loro somiglianze e differenze. Afferma ci sono sette
caratteristiche in sede di esame del corpo al posto del credeva sei data nel
libro di Galeno sulle sette. Queste caratteristiche sono sette dimensioni: il
numero, la posizione, la forma, la sostanza come in sottili o spessi, sostanza
in polposo o ossea, e carnagione. In questo saggio, dà anche indicazioni come
come procedere con alcune dissezioni e le procedure, come la castrazione,
l'estrazione della pietra, e la rimozione della gabbia toracica di esaminare
ulteriormente il cuore ei polmoni. E 'stato anche distinto come un
anatomista, tra i suoi saggi che sono De humani corporis anatomia (Venezia), e Expliciunt
Annotationes anatomicae in Mundinum Magni Alex. Achilini Boron. Editae per
euius fratrem Philoteum (Bologna) – Achillini Bononiensis opera lima ejusce
actoris repollita et extersa ac denuo maxima cura ac diligentia impressa
(Venezia). Di Achillini Annotationes anatomicae è stato pubblicato da suo
fratello, Giovanni Filoteo, E 'stato
pubblicato in un piccolo formato di diciotto fogli con un paio di poesie di sei
e due righe ciascuna. Ulteriore lettura Franceschini, Pietro Dizionario della
biografia scientifica Herbert Stanley
Matsen -- la sua dottrina di "universali" e
"trascendentali": uno studio in rinascimentale Ockhamism. Bucknell
University Press. Gallerie online, storia della scienza collezioni, University
of Oklahoma Biblioteche immagini ad alta risoluzione delle opere di e / o
ritratti di Alessandro Achillini in e il formato.tiff. finiti vigoris fit Deus telligat. Vtrum prima forma quæ estvi
tor. Virum quodamordinerecedant intelligentiæ mediæ àpri. ma. Virum intellectus
possibilissubijciatur accidentibus. Verum incelle&uspossibilis sit formadansesschominé.
In libro dc.Orbibus. Cælum eftingenerabile. Cælum non est
calidumnifivirtualiter Cælum nonindiget Athlante,ncq; animacogente. Cælum eft
naturæncutræ, Dubium secundum. Vtrum specizdifferant stella, & o r Stella
est continuasuoorbi. Stella eftdextrumcæli, Noucm gradus felicitatis secundum
Aristotelem & Commé Intercælosnoncft corpus replensvacuum. rarorem, ibidem.
Quid siccopulatio. Quomodo intelligitur propositio dicens recipiens debetelle
Verum quaruncung; intelligentiarum perfe& ioattendatur ibidem Vtruntalis
sit proportiomoventiú, qualiseftrefiftentiarī. ibi. Omnes diversitas stellarum
pene proportionabilem habet Nonetfellaterræ aliquando propinqua,&
aliquandoree Tantum motu diurno cælum stellarum mouctur. Puncto velocissimo
diurni motus non describitur æquino Aialis. Sufficit Afrologis imaginarium
esseorbem, quem putant Infra Solem sunt Venus& Mercurius. Vtrumtalisfit
proportio motus ad motum in velocitate, Regularis.cftmotuscæli. ibidem Verum
apud Thcologá independentia inferat infinitate. ibid. Dubium quartum. Vtrum
intelligentia sit. Solius naturalis est subftantiaabftra &
áelledernóftrare. Dubium sextum.Verum intelle&usmoucatur. Deus non est
condensabilis, ncq;rarcfa&ibilis. Deus noncftintentionaliter variabilis.
Intelligentiæ mediæ sunt ingenerabiles & incorruptibiles. Incelligentiæ
mediæ sunt nonaugmentabiles & non diminuibiles. Intelligentiæ mediæ non
sunt rarefa&ibilcs, autcondensa Intd qualis cf desidcrijad desiderium. An
homo cognoscar infinitatem Dei. Quid per infinitatem intelligendum sit. ibidem
ibidem per se entiores. Vtrum possibile sit imaginare Deum esse potentiale.
ibid. Vtrum Deus conservar intelligentias. ibidem Vtrum ex maiore de necessario
sequatur conclusio de necella ibidem Ve rum 1. de generatione, tex.com.13.
probetur ab Aristotele materiam esse æternam. ibidem rio in figura prima.
-- penes appropinquationem summo. VBIVM primum.Vtrum in Vtrum tantum Deum Deus
in VTRVM in calofirmateria. Cælum est necessarium & æternum. Vtrum
possibile fitcs homo antequam moriatur intelligat substantias separatas.
Dubiumtertium. Vtrůcccentrici, & epiciclis intponendi. Cælinon sunt
perforati. Virum quanto naturæ lune viciniores materiæ, cantosingim timus
finis, sit primus mo Vtrum Deus, liberomoucatcæ Cælum non est rarefa
&ibilcncquecondensabile. Cælum non est senescibileneque fatigabile. ibidem
Dubium quintum.Vtrum Dæmon sit. ibidem Deus non est alecrabilis. Primus orbis
mouet alios. Maxima sphærarum est stellata. Cælum est incorruptibile. Cælum non
est alterabile nisi intentionaliter Aggregatum omnium cælorum est quasi vnum
animal.Vtrum ponenda sir creatio. Vtrum intelligemtiæmcdiæsint Cælum est
cancumadiuum. productz. % Cælum est corpus spirituale & divinum. Cælum est
grave aut leve. 30 Cælum non est augmentabilencg; diminuibile. Cælum non est
sensibile nisi visu. Stellamoucturad motum sui orbis. Vnum est centrum mundi.
in Sole.In libro de Intelligentijs. Vtrum Deus fic intelle&usagens. Quid
intellectus adeptus. stanci. primum mobile. ncq; per accidens. denudatum à
natura recepti. ibidem. mota. tumpot eft. aliquomodo. Vtrum intelligentiæ
inferiores intelligant superioram.VIRUM intellecus sit VIRTUS materialis. Virum
intellectum possibilem habeat omnis HOMO. Vtrum intellectus possibilis sit pure
pocentialis. bis cius. Vtrum felicitas sit Deus. Nullo motum ouentur corpora cælestia nisi
circulari. Virum latitudo intelle&u ũlitvni formiter difformis. 33 Vtrum
sequatur, Deus est infiniti vigoris, ergo mouetinin Verum valcat hoc
naturalicer mouct: ergo ipsum movet quan Vtrum infinitum sit cognoscibile.
Virum in substantia ponendus sit gradus. ibidem Verum aliquis sit appetitus
inclinationi naturali conformis Deus est ingenerabilis & incorruptibilis.
Deus non est augmentabilis nec diminuibilis. non bonus. Vtrum intelligentiæ se
conservent. Verum intelligentiæ dependcantam phancasmatibus. ibid. Vorum Plato
ponat formam quæ nonc idea. ibidem. biles. Intelligentiz mediz non sunt
alecrabilcs. lum. ibidem Non est intelle&usagens in Deo, nisi identice nec
possibilis Deus non est localicer mobilis neq; persc, ncq; per partem,
Vtrum vniversales itnotius SINGULARI. Intelligentiæ mediæ non sunt
intentionaliter variabiles. Vtrum species prius apprehendatur quam genus.
Inintelligentijs medijs est aliquo modo intellectus agens, & Vtrum formæ
intentionales educantur deporencia materiæ. inrelle& us possibilis.
Intellectus possibilis est generabilis, & corruptibilis. Dubium septimum.
Vtrum cælum recipiat else ab intelligencia. Vtrum vniversale sit innarum
intelle&ui possibili, Vtrum scientia sit ipsum scitum. Vtrum corpus
subratione qua mouetur sit subiectum. Vtrum omnium sensibilium corporum formas
philosophus naturalis quidditatiue consideret. An cælum philosophus naturalis
quidditatiuc consideret. An naturalis scientia pcedat ordinedo&rinæ
metaphysicam. Quare in mathematica non possumus a posteriori demon II2 Quomodo
movens primum consideratur a metaphysico. Dubium uerit. o&auum Vtrum cælum
mutationem termina vndecimum.Vtrum cælum sit sphæricut. 92 duodecimumVcrum
cælum sit luminofum dese. Non est lumen lunæ reflexum tantum. Dubium Dubium
Vtrum morus cæli fuerit æternus. Cælum movetur sine fatigatione & pæna.
thematicam, naturalem, & metaphysicam. VBIVM primum.Vtrum vniversalia ex i
Intellectus agens deus. fant inintelle&u. Vtrum vniversale sit nomen
tantum. ios Verum vniuersales it ens rationis. Vtrum vniversale sit
respc&iuum. Vtrum vniversale sit extra animam in re abstractum. Vtrum
vniversalia sint extra animam. Vtrum vniversalia substantiarum sint substantia.
Vtrum vniuersale sit corporale. Vorum vniuersale sit corruptibile. Vtrum
vniversale existat nullo Singulari illius existente. An felicitas considerat in
scientia speculatiua. An felicitas sit vita. An felicitas sit sempiterna vita.
An tanta sit æquiuocatio dicatur de vivo & lapideo. Vtrum ad felicitatem
requiratur scientia moralis. Quomodo exdi&o speculatiuos equatur practicum.
IIS Quid demonstratio SIGNI, causæ tantum,& causæ & eltc. De quibus
causis considerat naturalis, mathematicus, & dini Verum cuiusq; causati
scientia sit per omnes cius causas. Intelligentiæ mediæ sunt localiter
mobiles per accidens ab alio nonå se. sensatum sit in intellectu. Intellectus possibilis
est augmentabilis & diminuibilis. Vtrum vniuersalia sine obic&uni
intelle&us. Vtrum vniuersalia ina&usinr in intelle&u. Intelle &
us est realiter alterabilis, terminatiue, non subiectiua Intelle&tus
possibilis eft localiter mobilis per accidens, Intellectus possibilis est
intentionaliter variabilis. Vtrum forma inintelle&u habeatesse singulare.
Verum vniuersale verius habeat dscinintelle&uquàm ex Cælum est
intelle&iuum, & appetitivum. bie &tum neq; tali mutationem ut ab ir
ura d non esse. Vtrum coelum sit sub ic & um principale naturalium. Vtrum
fubic&um attributionis in naturalibus sit cælum. Non concederet Aristoteles
cælum fuisse creatum neq annihilabitur. Apud Aristo.non incipit mundus esse
neq;desincr. Ad omnes operationes iniftis inferioribus cælum concurrit. Cælum
iftis inferioribus non imponit necessitatem. naturali neq causæ finalis.
Efficiens duplex. Non est influentia cæli instrumentum diftin&um a motu
& primum efficiens à naturali consideratur. Quomodo corpora cælesia sunt in
loco. extra. Vtrum vniuersale fit idem vel diuersum á singulari. Vtrum
vniuersale fit causa fingularis. Quomodo, materiaà mathematico consideratur.
Quomodo naturalis quatuor causas considerat. Vtrum melius sitponereinrationeformali
subiedimobile 1Virum ex nihilo aliquidfiat. quàm moueri. sophianaturali. Vnde
Quid ficmoueri localiter,fecundum forinam,& fecundum materiam. Quæ
intelligibilia cósideranturà mathematico, qàmetaphy. Dubium cercium
decimum.Verum quiescente cæloparient Vtrumvnum& idemfitcaulasubie&i&
accidentis. contenta, Vtrum vniuerfale fic in singulari. Cælum
quatuorcausashaber. Vt rumvniuersalia declarent quidditatem fingularium. Error Galeni
de certitudinc Medicinæpra&ticæ. Vtrum vniuersaliaprædicenturdesingularibus.
ftrare. Quomodo ccelum alteratur. In
intellectu possibilieftintellc&tusagens. Ratio formalis subie& I naturalis
philosophiæ. Cælum estcffc &iúum habentiumnacurani in inferioribus.
Nontotumgenuscausæformaliscósideraturà philosopho Cælum eft conferuatiuumhorum
inferiorum luminc.nus. Coelumestcompofitumexmateria& forma. Cælum
cftviuens,& non eftnegativum, Cælum eftaniinal, & noneftsensibile. TRTM
naturatum sitfubic&um inphilo Cælum eft finaliter, formaliter, &
materialitercausatum. Cælum est esse Aiue conservatum. Vtrum subiectum
contincat omnes veritates ad scientiam pertinentes. Non est mutatum cælum
adellemutationenonhabentelu Vtrum aliquid quod nonmoucturexsc, sitsubic&uminna
turaliphilosophia Non fuit mundus generatus,neq;corrumpetur.' Vtrum subiectum philosophiæ
sit ampliusquàmcorpus. Dubiumnonum. Vtrum cælunifitfinitæmagnitudinisin
Quidsitordocorporum inphilosophianaturali. adu. Quid fitordo perfectioniscorporum
naturæ. Dubium decimum.Vtrum coeluitiilicvnum. Virum motus coelifit naturalis.
In intellectum humanum nondire&eagiccælum. In Tractatúde Vniuerfalibus.
Vtrum moralis scientiafitexcludeda àtrinaphilolophiæ di uisionc pofira ab
Arift. metaphysicæ tex.com.2.in m a Vtrùm vniuersaliasinescientiarci.
Vtrumvniuersaliafinirforniæ Vtrum vniucrsaleànaturadenominatadifferat: Vtrum morssequaturadnaturammaterie
philosophia naturalis prima ordine doctrinæ præparans intelle&umad Verum vniuersale
quantum eftdescnoneftinintelle&u, nec felicitem. Medicinam subalternarinaturaliphilosophiæ.
Vtrumvniuersalesensibilium,cuiusnulluinsingularefucrit
Quidmateriaprimaquidfecunda,&quidformasimplex, tra. In Libro de Physico
auditu. Vtrum natura fitfubic&tumlibri phyficorum, Naturalisnonhabetde cælo
perfectissimam cognitionem. Ante sensum ellevegetationem. An homo sit æquivocum.
Vcrumfinitiadinfinitumnullasit proportio. IVnde do &rinaordinaria. Vtruinmagis
vniuersalefit primo cognitum. Vtrum philosophi naturalis sit probaresuaprincipia.
Quæ principiapolsintinscientiaprobari.Virum formaappetatmateriam Vtrūpriuatio fit
causa appetitus materiæ definitiomateriz Quid materia secunda. Duplex
generalissimum substanciae. Deaccidencibuscælinorandum. Vt rūformaantcquageneretur
præcxiftarin materia. Vtrum infinitumfitignotum.
Vtruminductiofitbonaconsequentia. Vtrum principiasintcadem. Priuatio,quarcprincipiumperaccidens.
Quid generatio fimpliciter & secundumquid. Sperma propria esse masculi et
non feminæ. Et quiddeopi altcrumfcilicet performamnionc Galeni. Opinio
Alexandri de intelle& u possibili. Dubium verummateriahabcataliquamformasub
Materiacæli,nunquam fincpriuationc. Principium perquodindiuiduuinefthoceftforma.
Trinitasprincipiorumplatonica. Intelle&us possibilis corruptibilis &
generabilis. Quarein conceptudifferentiænoincluditurgenuscuiusest Metaphysicæ,triplex
subicctum. Differentia. Quid fit realiter distingui. Vtrum
materiasinequantitatefirdiuisibilis. Vtrum tresdimensiones fintpassiones quantitatis.
Vtrum compofitum ex materia & formacllcfitacceptum a Vtrum materiafitprodu&aàDco
Vtrum mareria fic forma Propositiones per se notæin philosophia naturali. Vcrum
polsibilesitrotocontinuoquiescentepartemillius Diuisioformæ, & naturæ. De
principiomotus augmentationis, & alterationis. In libris de Elementis TRVM
materiaexistat. Quid sittransmutatio substantialisquidac Quomodo ipsaestmediuminterens&
nonens. Dubiumfecundúan SortenonexistenteSortessitho. Dubium tercium quid
cftmateria. Uam. Materia non ch operatiua nisi paciendo. Materia non perfccxistit
sedinaliofcilicetcomposito Sper Quómodo logica considerat de ente reali.
Quæ ressintprimaprincipia. Terminigenerationis& corruptionis. quid. Quomodo
materiaeftcns Cogitatiuavlcimatapræparatioadintelle&um. Andemonstrationesin
mathematica procedant per causam. Quomodomateriamediumdiciturinternihil &
ago. Vtrum eadem sintnobisnota & naturæ. Appetitus duplex materialis &
cumfenfu Quomodo materiæ acciditq fit potentia. Melius eft dicere causas esse notiores
natura quàm naturæ. Quæ diffinitio descriptiua. Demonftrationes in philosophia naturali,
quæ a priori. Quomodo aliquideßin prædicamento ad aliquid. Quomodo homo cognoscitin
cognitionenaturæ. Virum materiasir suapotentia. Quomodo artificinorioreftcaula.
Verum materiasit potentiaomncsformæ. Formal apidisextraintelle&tumestvniuersaleintentio,
aliud Vtrumtria principiaexæquoprincipient motum à fubicéto. Vtrum vniuersalia sint
realia. Quomodo consuctudo alteranatura. Verum fingulare fit per se intelligibile.
Vtrum vniuersalia sint prius nota singularibus. Primum cognitumà nobis
fingulare,& secundocognitum Quomodo exnonenteperaccidensfitaliquid. Vtrúm cadem
proportion materiæ sit potétiæ oésformæ, Vtrum intelligentiæhabcantmarcriam.
Vtrum materiafitminusperfe&aaccidente. el vniveriale. A b intelle& uagente
non datur definitio. Quomodo intelligentiæ sunt mobiles. Vtrum quantitas
realiter diftinguatur à materia. metaphysico. Vniuerfalia ratione intelle&usinquofunthabent
aliquid Vtrum matcria fit Deus æterni. Quid maximum fit & quid minimum non.
Termini accidentales ex quibus fitaliquid. Quomodo conucniuntq,uomodo differüt.
Quid generatio simpliciter, quid secundum Quomodo ipsacftinprædicamento. Vtrum
transmutatioficripofsitdeindiuidnovniusspeciei Quomodo materia civnumcumpriuatione
ad indiuiduum ciusdem specici. Quomodo priuatio fub forma comprchenditur.
Dubium quartum vtrum materia sit substantia. Virum insubstantial sit contrarictas.
Vtrù philosophu snaturalisdebcatprobaremateriäсssc Quarcmagispriuatiocftidem materiæquàmformæ
Materiahabct differentiam, circunscriptiuam,nonconficuti Vtrum tantum criafint principiarerum
naturalium Vtrum generatio fit subita. Auicennae opinio de forma corporcitatis.
Materia prima consideratur à philosopho naturali. Matcriacftinduobus prædicamentis.
Dubiumquintumvtrummateriafitforma Materiam nonestina& umotiuo intellectus torum.
Dubium vtrum materiapossitexisteresincforma Opiniones tres de præ existentia
forma in materia. Philofophi naturalis eft Quarcformasubstantialiscontrarium
probarematcriamesse,formameffe, non habet. compositum effc. An frigiditas aquæ minorsit
frigidicas terræ. moucri localiter. Vtrum principia sint contraria. Vtrum
generatio accidentalis sequitur alterationcm Sex positionis differentia.
Materianonestcompositum,ncq;aliquodquatuorclemen Vniuersale triplex Conceptü
fpecificădat intellectus agens, & nó gencricũ. Vtrum incælosirmateria.
Vtrum materia possitellesinc priuatione. Quid requiritur ad hoc vtaliquafintideinfimpliciter.
Concretum principaliterfignificatqualitate,& quare. Vtrummateria Auat. A
Muliere duplicem exire humiditatem. Vtrum priuatio fit principium Quomodo
priuatioprincipiumperaccidens Quomodo cælumvariarlocum secundumformam.
Differentia materiæ eft poccntia, &nona&us nisi negatiuc. Matcria nonhabetformamabipsainseparabilem,
fedquam Scientiæ naturalis duplicia sunt principia. Virumens ficvniuocum, Vtrùm
quanrirastermineturterminisproprijgeneris. Virum totum fitsuæpartes. Viruni
forma fitab agente. Vtrūmctaphysicisit probare substantia abstractus esse Virum
ficdarçminimum. Verum priuatio fit principium per se. Materia libet perdere
poteft. Virum materiaapperat. Materiatertia,& quarta. stancialem fibi
propriam cidentalis Dubium o&auum, vtrum materia prima sit una numero omnium
generabilium,& corruptibilium. nat sint summa. Verum aërficfrigidus. Remotæ
potentiæ numerantur numerarione specierum. Materia est potentia Cubic&iua
ntelle&ui. Dubium vtrum materialitquantitas. Dubium vtrum quantitatisuccederepossitaliaquantitas
Dubium vtrum quantitas præueniat formam subftantia leminmateria. In Quæstione
de subiecto Physionomiæ. VID princpium cognitionis tantum, & co
Principiorum in complexorum proprietates Principiorum complexorum quærit
metaphysicus proprietates corruptibilitatis Verum ambæ qualitates quasynum elementumsibidetermi
Mareria non cftvnumesseina&u. Potentia describit materiam. Potciitiæ propinquæ
materiæ sunt quatuor. Dubium vtrum essentia sit esse. Subic&um,quomodopersenotuminscientia
Physionomia,& chiromantiascientiæ. SiestElementum, præsupponitur,
quiaipsumeftfubic&um Physionomia &chiromantia naturalisubalternantur
considerationi Artic. Tertio princinalitercósiderandüeltcirca mixta Quomodo
intelle&usfitpra&icus. Quæ operationespraxesdicuntur. Eidem scientiæ
subalternaripra&icam& speculativam. Artic.Quarto principaliter
considerandum circa animatave getaciva, aut sensitiua. Vtrum deturminimum
innaturalibus. Vtrum calidicas, frigiditas, ficcicas,& humiditas, sint
qualita- Cor esse primam fenfusredicem secundum Arist. 264 Quæstio de priina
syllogismi potestace. nobis. Vtrum terrasitvbiq; habitabiles. Cogitativam
virtutem componere. Materia non eftspecies. Dubium nonum vtrum possit
elleqrinco de supposito sint Condensare & rarefacere non perscsequuntur
qualitatespri multæ materiæ mas. Dubium vtrum materia sit per se
intelligibilis. Materia non potest esse &iue neque formaliter mouereintcl
uitare. Materianonestdeseina&uenticaciuo. Dubium vtrummateriasitsua potentia.
Vtrum terrarespe& ucælifitvtpun &um. Vtrumterrasiessetlucida,&
existeret in cælo videretur á Dubium 18.vtrum quantitas in terminata fit
quantitaster minata nomia. Dubium verum materia primasır causa generabilitatis
& Homo secundum quod natura bonus subiectum in physio Contra Scotum de
subiecti continentia. Materia non eå quidditas nisi improprie. Ens et esse sunt
idem. Essentia et existentia sunt idem. Forma estesseactu. In demostratione
simpliciter passio de subiecto concluditur. Quid subiectum primum per
attributionem. Quarc substantiain metaphysica subiectum eftper attribu Dubium.vtrum
totum sit suæ partes. Dubium vtrum forma ante generationem habeat este
principalitatis. reale in materia. Dubium vtrum privatio sit res Contra Galenum
de numero complexionum. An in compofito substantiali
pluressubltantialesformarepe De via in physionomia & chiromantia. riantur.
Scicntiaalterumduorummodorumdiciturpra&ica. Vtrum cælum componatur ex
quiditatibus, & videturelit, Quomodo theologiatora pra&ica. quialubente
continetur, & sub corpore Prudentia circa quæ. Artic. Quinto principaliter
considerandum de homine. anip Experientia quid. fo animam intellectivam
expectet sensitiva. Vrrum aliquidmoucat se. te. Vtrum figuram aliquam sibi
determinet elementum. Vtrum vnum elementum sit locus naturalis alterius. Vtrum
vnum elementum in alterum immediateta an(mura Vtrum ignis sit primo calidus Vtrum
elementa media æquáliter habeantde grauitatc& lc Homo in quantum lanabileå
naturali consideratur. Ta, & tamen propositioestignora, Quid requiriturad
hoc vt subie&um fit adæquätum Quid requiritur ad hoc vtfubic&um sit
primum primitate Aegrotabile in ratione formalisubie&imedicinæcaderenon Genita
ex putrefactione alterius sunt rationis a generare Dubiū 12.vtrú materia fir
generabilis& corruptibilis Vtrum terrasit frigidior aqua. fitnul. Dubium Is.vtrü
materia fine quantitate habcat partes Dubiumzz.verummateria Solum ponenda sunt
prædicamentorum Quantitasestquod passiocftnota.& idquod est ciuscau sit.
pars quidditatis. & quo aliquid est Quomodo aliquando genera logicalia. nationis
primæ sub antiæ. Dubium vtrum priuatio principium. potest. In in materia.
quæruntur in naturalibus. resprima Quæstio de subiecto medicina, Materia
efteffepotentia. rionem, Dubium vtrum formasubstantialis Quid bonum animi.
sitprincipium indiui Rario formalis subie&i,quid Latitudines in elementis
compleri per contraria. Non cft potentia dc effentiali diffinitione materiz.
Compositum est vtroque participans. ripossit. Subic&ũnon debet prædicari de
principijsfubie&i,& quare. Materia inférior aliquomodo præfcindipoteft.
Quare qualitates elementorum di&tæfunt effc elementisfub Verum
qualitatessymbolæ elementorumsinteiufdemfpe Itantiales ciel Quo mod o intelligiturpriuationem per
secorrumpi. Materia apud philosophumestintelle&a Vtrumterrasitcentrummundi.
Maceriacælinonpoteftpræscindiàforma. Lectum. Dubium. vtrummateriasitgenus Anaërfitprimohumidus.
Dubium vtrum materia appetat formam. Dubium vtrum appetitus fit
naturalismateriæ Arric. Secundo principaliter considerandum est composicum
Quomodo medicina partim practica, & partim theorica, lic militer &
theologia, similiter & logica. generabile. Verum tantum quatuor sint
elementa. Virum prima qualitates sint formæ substantiales elemento genitis per
propagationem contra Scotum. Run gnitionis & cffc. Propriumnonageneresolumfluit,sedådifferentia,&
gene Genita per putrefa & ionem non esse eiusdem rationis cuna De
elleanabellentia distinguatur. Caput secundum devno. Error Auer. de necessarij
SIGNIFICATIO nci Caput tertium,de vero Caput quartum, de bono, Ens tripliciter
eft quid. Quidditatiuum de quibus dicitur. Capursextum, dere, pagina. Caput
septimum, decodem subiecto. Quomodo pars formæ fluit. ElTeidemin forma quatuor
habet gradus. Caput nonum, decodem secundum materiam. de eodem difinitione. Quomodo
Deus eftf elicitas modo intelligitur dediftin&ione ex natura rei Verum
distinctio ex natura rei sit accepta ab Arist. Vtrum diffinitio& definitum
ex natura rei distinguatur ra rei non realiter An communicabile, &
prædicabile differant Differentia individualis est ipsa forma in composita ex
materia An Deo accributa propriamhabeant infinitatem. Accidens non realiter
distinguia substantia reis ubic&a Materiam & formam realiter
distinguivult Scotus, & Thomas oppositum, similiter& Aver. rant. liter
ili. Vtrum diftin&tioperdiffinitionemfitdiftin&iopersolum Anomnia quæ
sunt idem realiteralicui, fintilli formaliter de eodem habilitate.
Dedifferentiainterpositionemquæeftprædicamentum,& positioncm quæ
estdifferentiaquanti. idem. ter. An fialiqua fintidem essentialiter, illasint
idem realiserant.. Quomodointelle&uspossibilis & agens sunt vnum, &
quo- Ansiali qua sint idem se totis subiective, illa sint essentiali modo duo.
differant. De subiecto & propria passione, quomodo suntidem. An fiali
quasetotisfubic&iuc differant, illafccotisobie&tiuc differant. Vtrum a&us
intellctus possibilis collatiuusfitin primaope Ansi aliqua fecoisfubic& iuc
differant,illafctotisobic&i dedistin&ionc rationis ratione intellectus.
Vtrum fit aliquis conceptusfi&us. ue idem. obie Aiue. Vtrum omnis
diftin&iofitrcalis aut rationis. Verum conceptus a rebus quarum sunt
conceptus, sint ratio Verum omnis distinctio sit aliquid positiuum. ne
distinAi. . In libro de Distinctionibus. Intellectus & voluntas sunt
idem Quid eftaliquidsynonyma. decncis SIGNIFICATIONIBVS pagina. Quomodo
speciesre intelligibilis, a&usintelligendi,&habi tuis intellectus sunt
idem. Cogitatiua,& intellectus idem materialiter Igncitas, leuitasest
simpliciter,& forma ignis substantialis. Differentia inter hominem
metaphysicum, &hominemna Vtrum prædicatio specicide genere fit pe rse.
Anista propofitiofitpersc, homo albus est homo albus. De sensu communiquid
Auer. & Vtrum CONCRETVM & abftractum formaliterdifferant.
Quomodophantalinatasuntintelle&tus speculatiuimate Vtrum humanitas sit animalitas.
Ria de distinctionercali. Caputo & auumdecodem secundum formam.
Aninierdistin&ionesdatasàScoristisfitordo. Vtrum diftin&io secundum modum
differtàdiftin&tionele Vtrum omnis distinctio ex natuta reisit distinctio
ratio cundum esse. Memorativam in medio ventriculo cerebrimanifeftari. Potentia
substantialis prior est accidentali.& de prædicamento substantiæ. Vtrum
fialiquaessentialiterdifferant,realiterdifferant. Vtrum fiali quarealiter differant,
illa essentialiter diffe verum ex coq essentialiter dicitur aliquidcaliquo
dicatur Vtrum sialiquas et otisfubic&tiue differant, illaeffentiali
rerdifferant. vniversaliter de codem & femper. decodemacuvelpotentia An
fialiquaessentialiterdifferant, illa secotisfubic&iucdif Quæ sit maxima
identitas. Vtrum seclula operationc intelle&us possibilis resrationc
differant. An si aliquas intsetotis obicctiucidem, illasintsctotissub
ie&iueidem. Qữo genus & differentia ratione distinguantur,& nonrc.
Vtrum prædicamentarcalitedrifferant. An relation differatà fundamento. De
diftin &ione caloris naturalis ab artificiali. Verumcum Sortesnoneaipsesitens
Materiam & formam non distinguise cundumesse,quomon Entis diuisio de
distinctione modali. Duo modi realis distinctionis. Vtrum fialiqua realiter differant.illa
formaliter differant An si aliqua sint essentialiter idem, illa sint
sctotisfubic&tiuc Quomodo dequo Vtrumintelle&usagens&
possibilisdistinguanturexnatu teria&
forma. Ens,res,autsubatantiagenerasuntanalogicedi&tadeDeo dediftin&ione
formali. Turalem secundum Scorum Intellctum appetere contra Scotum.&
secundum Thomam appetitivam cognoscere Quomodo intelligitur secundam
intelligentiam esse vnam decodem secundum dispositionem. San&tum An
diversitas & differentia coincidant in idem. Vtrum omnia formaliter diftin
&ta realiterdifferant. ter idem Caput de distinctione essentiali. de'eodem secundummodum
dedistin&ionesetorissubie&iue. Vtrum distinctios ecûdumessesiesufficicnsadhocvt
contra dictoria verificentur de aliquo. formaminsubie&o, &multaindiffinitione.
Vtrum omnia quæsuntidem formaliteralicui, fincidemrca Vtrum elle diffinitione idem,
sit esse idem secundum esse. nis. Vtrum
omnia formaliter distincta ex natura rei diffe de codem secundum else de distin
&ioneserorisobic & iuc. opus intelle& us. Vtrum quælibetconceptus
ftinguatur. abalioconceptu, solaratione di Vtrum omnis diftin &iofitde
genere relationis: decodem inredemonstrata. decodem effentialiter. Vtrum ex
comparatione intelle&uspossibilis, fiantrespe&us, Ansialiquasiti
demserotisfubic&iua, illasintidemsetotis qui sunt genus aut species. rant.
ter. Caput1s. decodem secundum positionem Vtrum sialiqua sintidem rcaliter, illafint
idem essentiali Vtrum distinctio fitrcfpc&iuum fitiones habere possint. Melius
est non videre quædam, quàm videre,quomodo in Proportio maior est, quæ maiorem
habet denominationem. telligitur. Regulæ tres proportionum secundum Ari
Quomodo sensus in prædicamento qualitatis, actionis, palo An deus cognofcatchimeramantaligidfi
um.An incelle&tusina&u, vtintellc&us intelligentiarum propo
Proportionis divisio Vtrum veritas differatàpropofitionevera.
Inintellc&tuardo. pliciterabftra&arum aliquam veritatem videat persuam ftotclem.
Q &uplaquare duplael quadruplz. In
quæstione demotuum propor Voluit Arif.deum cognoscere hæc inferiora, Motys (equitùr
dominium. Alessandro Achillini. Achillini.
Keywords: corpo umano, singulare, individuo. Refs.: Grice, “Achillini’s problem with
transcendentals and universals,” Luigi
Speranza, "Grice ed Achillini," per Il Club Anglo-Italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
Grice ed Acito – implicatura
corporativa – filosofia fascista – filosofia italiana – Luigi Speranza (Pozzuoli). Filosofo italiano. Grice: “Acito, who would have thought it, made me
read Cuoco’s brilliant novel on Plato based on an epigram by Cicero (“You know,
Plato was there, in Taranto!” – Acito has also written on corporations –
whatever they are (the mob) – and on Macchiavele -- Filosofo. Del periodo
fascista e attivista del regime. Studiato a Torino. Iscritto all'Albo degli
Avvocati di Milano, divenne direttore della rivista “Tempo di Mussolini”. Selezionato
al Premio San Remo per libro “Machiavelli contro l'anti-Roma.” Partecipa come
rappresentante italiano al Congresso dell'Unione Europea degli Scrittori a
Weimar. Insegna diritto, storia e
dottrina del fascismo a Genova. “Il Popolo d'Italia,” “L'Oriente arabo”. “Odierne
questioni politiche della Siria, Libano, Palestina, Irak; “Popolo d'Italia”; “Corporazioni
e sindacati nello stato, nella storia, nei partiti politici” (Milano, Trasi); “Il
volto della rivoluzione”; “Storia della rivoluzione”; “La dottrina dello
stato”; “Realtà nazionali”; “Il Fascio e la Verga” (Milano, Morreale); “L'idea
unitaria dello stato” (Milano, Sonzogno); “La idea romana dello stato unitario
nell’antitesi delle dottrine politiche scaturite da diritto naturale”; “La
dottrina dello stato in Cuoco”; “Contributo allo studio del pensiero politico
del secolo XVIII” (Milano, Sonzogno); “La corporazione e lo stato nella storia
e nelle dottrine politiche dall'epoca di Roma all'epoca di Mussolini:
introduzione allo studio del diritto corporativo” (Milano, Pirrola); “Catalogo
della mostra di sculture e disegni di Vincenzo Gemito” (Milano Castello
Sforzesco Milano, Orsa; “Il trattato di ben governare: opera inedita di Tommaso
da Ferrara del 1500”; “Tempo di Mussolini”; “L'ordinamento dello stato
corporativo nel pensiero di Mussolini e nelle decisioni del Gran Consiglio del
Fascismo” (Tempo di Mussolini); “Le origini del potere politico: "Omnis
potestas a Deo" nelle discussioni degli scrittori politici del Trecento” (Tempo
di Mussolini); “Machiavelli contro l'Antiroma, Tempo di Mussolini. “Il concetto
di popolo” Tempo di Mussolini, “Il problema morale della rivoluzione” Tempo di
Mussolini”, “La crociata anti-materialistica dell'asse”; “Tempo di Mussolini”;
“Storia e dottrina del Fascismo”, “parte generale: Nozioni fondamentali”
(Milano, Guf). Onorificenze Medaglia di Benemerenza per i Volontari della Guerra
Italo-Austriaca nastrino per uniforme ordinariaMedaglia di Benemerenza per i
Volontari della Guerra Italo-Austriaca (19Medaglia commemorativa dell'Unità
d'Italianastrino per uniforme ordinariaMedaglia commemorativa dell'Unità
d'Italia Medaglia commemorativa delle campagne d'Africa (1882-1935)nastrino per
uniforme ordinariaMedaglia commemorativa delle campagne d'Africa, Cavaliere
dell'Ordine della Corona d'Italia nastrino per uniforme ordinaria Cavaliere
dell'Ordine della Corona d'Italia Croce al merito di guerranastrino per
uniforme ordinariaCroce al merito di guerra. Frank-Rutger Hausmann, Annuario
ufficiale delle forze armate del Regno d'Italia, Istituto poligrafico dello
Stato, I professori dell'Pavia, Amedeo Bianchi, Professore all’Università
Bocconi: Notizie sulla famiglia Acìto Filosofia Filosofo Professore Pozzuoli
MilanoStudenti dell'Università degli Studi di Torino Avvocati italiani del XX
secoloProfessori dell'Università degli Studi di GenovaProfessori
dell'Università degli Studi di Pavia Decorati di sciarpa littoria Personalità
dell'Italia fascistaCavalieri dell'Ordine della Corona d'Italia..
È con Roma che nasce il diritto e nasce lo stato, perciò lo stato romano è lo
stato giuridico. Infatti, il fondamento giuridico della società e dello stato,
impide che a Roma si sviluppa la demagogia. Persino la repubblica a Roma è aristocratica. Il senato, che impersona lo
stato, è un corpo eminentemente aristocratico e il popolo stesso, inquadrato
negli ordini della milizia, non degenera. Lo stato presso i romani afferma la potenza
del suo carattere unitario, sintesi delle prime gentes rurali e militari.
Questa qualità fa nascere il SENSO DI DIRITO che il genio romano applica nella
formidabile organizzazione politica e sociale dello stato. Questa
organizzazione statale che si reassume nel genio di Giulio Cesare e che detta
l’impalcatura all’impero, altro non è se no la crezione dello stato unitario,
che è una gerarchia di AUTORITÀ, FONDATA SUL DIRITTO, tutelata dalla forza
militare, al quale [diritto] il CIVIS resta subordinato, ma nel quale [diritto]
trovoa la regolazione giuridicamente definita e GARANTITA DEI SUOI RAPPORTI
PRIVATI. SUBORDINAZIONE perciò incondizionata DEL CITTADINO ALLO STATO. IL
PRINCIPIO DI AUTORITÀ domino tutta la COSTITUZIONE POLITICA dello stato romano
e ne regge la potente struttura. Il cittadino romano non conosce l’antitesi ed
ha una morale sua PROPRIA. IL MOS MAJORUM ANIMA I COSTUMI di Roma. Il
successive consolidarsi del capitaismo, se pure di capitalism puo parlarsi
nell’epoca antica, o meglio l’avidita delle richezze, CORRUPPE quello STATO DI
PRIMITIVITA. Mentre il mondo dell’economia a schiavi si estendeva, il
paganesimo non agi come MODERATORE DEGL’ISTINTI INDIVIDUALI. Optimates and
Populares, (Latin: respectively, “Best Ones,” or “Aristocrats”, and
“Demagogues,” or “Populists”), two principal patrician political groups during
the later Roman Republic. The members of both groups belonged to the wealthier
classes. Skip in 1s FAST FACTS Facts & Related Content Areas Of
Involvement: Patrician Related People: Lucius Domitius AhenobarbusQuintus
Caecilius Metellus Celer Marcus Porcius Cato Marcus Aemilius Scaurus Titus
Annius Milo...(Show more) See all facts and data The Optimates were the
dominant group in the Senate. They blocked the wishes of the others, who were
thus forced to seek tribunician support for their measures in the tribal
assembly and hence were labeled Populares, “demagogues,” by their opponents.
The two groups differed, therefore, chiefly in their methods: the Optimates
tried to uphold the oligarchy; the Populares sought popular support against the
dominant oligarchy, either in the interests of the people themselves or in
furtherance of their own personal ambitions. Finally, it is well to remember
that the Senate’s authority was based on custom and consent rather than upon
law. It had no legal control over the people or magistrates: it gave, but could
not enforce, advice. Any challenge to its authority was little more than a
pinprick, but thereafter more deadly blows were struck, first by such Populares
as Tiberius and Gaius Gracchus, then by Gaius Marius, and finally by the army
commanders from the provinces. Gli Ottimati (in latino: Optimates, cioè i
migliori) erano i componenti della fazione aristocraticaconservatrice della
tarda Repubblica romana. Nascita della fazione Modifica In origine
influenzavano la vita politica romana, essendo la gestione della Res Publica
appannaggio soltanto di quella ristretta cerchia di nobili che avevano le
possibilità e la cultura per dedicarsi alla politica. In seguito alla
Secessione dell'Aventino, però, le classi popolari e piccolo e medio
borghesiriuscirono a ritagliarsi una fetta di potere, da esercitare mediante
loro rappresentanti: i tribuni della plebe, magistrati dotati di potere
legislativo (per esempio il diritto di veto su qualsiasi legge o decreto del
Senato), nonché di auctoritas, ovvero l'autorità morale. Inoltre erano
conferiti della sanctitas, ossia la sacra inviolabilità della loro persona, che
rendeva ogni atto sovversivo, finalizzato a danneggiarli materialmente o
fisicamente, un delitto gravissimo. Per rispondere a questa organizzazione
politica del popolo, anche i patrizi romani si allearono tra di loro nel
movimento politico degli "optimates" (it. "ottimi",
"nobili"), cioè il partito aristocratico. Organizzazione del
movimento. Modifica In effetti la fazione aristocratica non era un vero e
proprio partito politico secondo l'accezione moderna del termine (nonostante
sia a volte chiamata Partito Aristocratico). Era bensì una confederazione di
nobili, ciascuno dei quali era politicamente indipendente (o quasi) dagli
altri, grazie ad una diffusa rete di clientele e di alleanze che ciascun nobile
gestiva in modo autonomo. L'appartenenza ad un'unica fazione era resa però
evidente dall'alleanza di tutti i nobili "optimates" con il Senato,
dal comune interesse a conservare tutti i privilegi nobiliari, nonché dalla
comune avversione nei confronti dei "Populares" (l'organizzazione
politica dei ceti popolari e borghesi) e dei "Tribuni della Plebe".
Gli Ottimati, infatti, desideravano limitare il potere delle Assemblee della
plebe ed estendere il potere del Senato romano, che era considerato più stabile
e più dedicato al benessere di Roma. Si opponevano anche all'ascesa degli
uomini nuovi (plebei, di solito provinciali, la cui la famiglia non aveva avuto
esperienza politica precedente) nella politica romana. L'ironia era che uno dei
principali campioni degli ottimati, Marco Tullio Cicerone, era egli stesso un
uomo nuovo. Oltre ai loro obiettivi politici, gli ottimati si opposero
all'estensione della cittadinanza romana fuori dall'Italia (e si opposero
perfino ad assegnare la cittadinanza alla maggior parte degli Italici).
Favorirono generalmente alti tassi di interesse, si opposero all'espansione
della cultura ellenisticanella società romana e lavorarono duramente per
fornire la terra ai soldati congedati (erano convinti che soldati felici erano
probabilmente meno disposti a sostenere generali in rivolta). La causa
degli ottimati raggiunse l'apice con la dittatura di Lucio Cornelio Silla.
Sotto il suo potere, le Assemblee furono private di quasi tutto il loro potere,
il totale dei membri del Senato fu portato da 300 a 600, migliaia di soldati si
stabilirono nell'Italia del Nord e un numero ugualmente grande di popolari fu
giustiziato con le liste di proscrizione. Limitò i poteri dei tribuni della
plebe, ridusse i consoli e i pretori ai compiti cittadini della direzione
politica e dell'amministrazione della giustizia e vietò di ricoprire una
medesima carica prima che fossero trascorsi dieci anni. Tuttavia, dopo le
dimissioni e la successiva morte di Silla, molti dei suoi provvedimenti
politici furono gradualmente ritirati, ma furono più durature le innovazioni
nel campo del diritto e del processo penale. Appartenevano agli
"optimates" importanti uomini politici quali Lucio Cornelio Silla,
Marco Licinio Crasso, Marco Porcio Catone detto Il Censore e Catone Uticense,
il già citato Marco Tullio Cicerone, Tito Annio Milone, Marco Giunio Bruto e, a
parte il periodo del Triumvirato, Gneo Pompeo. Voci correlate. Modifica
Repubblica romana Plebe Patriziato Romano Lucio Cornelio Silla Marco Tullio
Cicerone Gneo Pompeo Marco Licinio Crasso Tito Annio Milone Collegamenti
esterni. Modifica (EN ) Ottimati, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia
Britannica, Inc. Antica Roma Portale Antica Roma Diritto Portale Diritto. Alfredo Acito. Acito. Keywords: sindacato, stato
unitario, idea unitaria del stato, Cuoco, storia di Roma, popolo d’Italia,
materia e spirito, anti-materialistico, anti-materialistica, popolo,
popolazione, Peacocke – sistema di comunicazione per una popolazione –
idioletto – procedimento idiosincratico – idioletto, dia-letto – comunita,
immunita.. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Acito,” The Swimming-Pool Library.
Grice
ed Acmonida – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. Acmonidas
of Tarentum, according to Iamblichus of Chalcis, was a Pythagorean. Vita di
Pitagora – Reale.
Grice ed Aconzio – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Trento). Filosofo italiano. Grice: “I like Aconzio way of
LISTING the devil’s strategies – and naming tdhem after abstract nouns
represented by females: superbia, … etc. – He says he philosophised on
‘dialettiica’ but only for his fellow Italians, and writing to Russell (Lord
Bedford) he adds, ‘it would be fastidious to present them to you!” – When
Elizabeth received his copy of ‘Il timore di Dio,’ she asked, alla Hardie, ‘And
what, Mr. Aconzio, is the meaning of ‘of’?” -- Grice: “I like Aconzio, and so
did my mother – a High Anglican! Aconzio’s claim to fame is twofold: his
“Stratagemata” which resembles Speranza’s study of Apel – only that Aconzio is
‘stratagemata satanae’ – and his “De method” which inspired Feyerabend, an
American professor at the newish varsity of Berkeley in the New World, to
philosophise ‘Contro il metodo.’” – Grice: “There is a small passage in “Del
metodo” – and an even smaller in “Stratagemata” – where Aconzio seems to have
invented (but soon disinvented) the idea of a conversational implicature!”
-- Filosofo. essential Italian
philosopher. Grice: “What I like about my fellow Brit, Aconzio, is that unlike
Feyerabend with his ‘Anything goes,’ Aconzio cared to write about ‘method.’ Ora
è noto per il suo contributo alla storia di tolleranza religiosa. E 'stato
tradizionalmente pensato per essere nato a Trento, anche se era probabilmente
Ossana. E 'stato uno degli italiani, come Pietro Martire e Bernardino Ochino,
che ha ripudiato la dottrina papale e, infine, ha trovato rifugio in
Inghilterra. Come loro, la sua rivolta contro romanità ha preso una forma più
estrema di luteranesimo, e dopo un soggiorno temporaneo in Svizzera ed a
Strasburgo arriva in Inghilterra subito dopo Elizabeth adesione s'. Studia
legge e teologia, ma la sua professione era quella di un ingegnere, e in questa
veste trovalavoro con il governo inglese. Al suo arrivo a Londra si une
alla Chiesa riformata olandese a Austin Frati, ma è stato infettato con ana-baptistical
e pareri Arian" ed è stato escluso dal sacramento da Edmund Grindal, vescovo
di Londra. Gli fu concessa la naturalizzazione. E 'stato per qualche tempo
occupati con drenaggio Plumstead paludi, per i quali si oppongono i vari atti
del Parlamento sono stati passati in questo momento. E inviato a riferire in
merito alle fortificazioni di Berwick e sembra che era conosciuto in
Inghilterra sia per il lavoro come ingegnere e di un riformatore religioso e
sostenitore della tolleranza durante l'inizio della Riforma. Prima di raggiungere
l'Inghilterra pubblica un trattato sui metodi di indagine, "De Methodo,
hoc est, de recte investigandarum tradendarumque scientiarum ratione"
(Basilea). Il suo spirito critico lo pone al di fuori tutte le società
religiose riconosciute del suo tempo. La sua eterodossia si rivela nella sua
"Stratagematum Satanae libri octo," talvolta abbreviata in
Stratagemata Satanae. Gli stratagemmi di Satana sono i credi dogmatiche che affittano
la chiesa cristiana. Aconzio cerca di trovare il comune denominatore dei vari
credi. Questa è la dottrina essenziale, il resto e irrilevante. Per arrivare a
questa base comune, dove ridurre il dogma a un livello basso, e il suo
risultato è in generale ripudiato. "Stratagemata Satanae" non è
stato tradotto in inglese fino al 1647, ma in seguito è diventato molto
influente tra i teologi liberali inglesi. John Selden applicata alla
Aconzio l'osservazione, "bene ubi, nil melius; ubi maschio, nemo
pejus" -- "Dove buono, nessuno meglio. Dove male, nessuno
peggio." La dedica di un tale lavoro alla regina Elisabetta illustra la
tolleranza o lassismo religiosa durante i primi anni del suo regno. Aconzio poi
trova un altro patrono in Robert Dudley, primo conte di Leicester. Saggi:
Stratagematum Satanae libri octo, De methodo sive recta investigandarum
tradendariumque artium ac scientarum ratione libello, De methodo e Opuscoli
Religiosi, opuscoli filosofici, Giorgio Radetti, Firenze: Vallecchi) Somma
brevissima della Dottrina Cristiana Una esortazione al timor di Dio; Delle
Osservazioni et avvertimenti che haver si debbono nel legger delle historie
Traduzione in inglese, Tenebre Scoperto (Satana stratagemmi), London
(facsimile ed., Scholars' Facsimiles & ristampe. Trattato Sulle
Fortificazioni, Paola Giacomoni, Giovanni Maria Fara, Renato Giacomelli, e O.
Khalaf (Firenze: LS Olschki). Riferimenti Attribuzione Chisholm, Hugh, ed. " Aconcio, Giacomo
". Enciclopedia Britannica, Note finali: Di Gough Index a Parker Soc.
Publ. Di Strype Grindal, Dictionnaire di
Bayle G. Tiraboschi, Storia della letteratua italiana (Firenze, Smith, Elder
& Co. link esterno Allgemeine Deutsche Biographieversione online a
Wikisource Opere di Jacob Acontius a Post-Riforma Digital Library. Molti riformati italiani vedremo cercarvi
rifugio.Colà erasi ricoverato Jacobo Aconzio, valoroso giureconsulto di Trento,
il quale nel 'opera “De Methodo, sive recta investigandarum tradendarumque
scientiarum ratione (Basilea) aveva ripudiata ladialettica ordinaria, propo
nendo un nuovo metodo di giungere al vero collo scomporre e ricomporre più
volte la cosa,ed esaminarla sotto aspetti diversi, passando dal noto al
l'ignoto. Alla divina Elisabetta regina d'Inghilterra, da cui ebbe ripetute
attestazioni di stima, dedicò "Gli Stratagemmi di Satana in fatto di
religione (Basilea), libro allora molto acclamato, e tradotto in varie lingue, ov'egli
studia di ridurre a pochissimi idogmi essenziali del cristiane simo, nello
scopo d'indurre le sêtte a vicendevole tolleranza. Aveva avuto per compagno
Francesco Betti romano,che al mar In Chap. 3, Caravale investigates
the long publishing success of Acontius’s Satan’s Stratagems in
seventeenth-century England. After reconstructing the popularity of Acontius
among the Dutch Arminians in the 1610s and 1620s, the chapter focuses first on
the religious debates that involved Catholics, Arminians and Latitudinarians in
England and then on the heated controversies which characterized the English
Civil War in the 1640s. Particular attention is given to debates at the
Westminster Assembly of Divines, where the Presbyterian Francis Cheynell
suggested forming a Committee to examine Acontius’s book, which had just been
(partially) translated into English and published by John Goodwin. The
condemnation of the book issued by Cheynell’s Committee did not stop Acontius’s
supporters from circulating his book widely. Indeed, new editions of Satan’s
Stratagems were published in the early 1650s. This chapter follows this
exciting publishing story as a significant part of the cultural and
intellectual history of Revolutionary England. What was hidden behind the
intriguing title exalting Satan’s Stratagems? This chapter aims to answer this
question in an attempt to understand the extraordinary success of Jacob
Acontius’s masterpiece and contextualize its line of thinking. The reader will
find a careful reconstruction of the author’s intellectual biography from his
early career as a notary in Trent, Italy to his conversion to Lutheranism in
the mid-sixteenth century, his escape from the peninsula and his sojourn in
England as an engineer. Acontius soon became involved in religious
controversies in England, which is when he wrote his major work, Satan’s
Stratagems, arguing consistently for an extremely broad and tolerant vision of
Christianity. The book is analyzed in detail and comparisons are made with his
previous publications and other major contemporary books on similar topics.
Satanæ Stratagemata libri octo, J. Acontio authore, accessit eruditissima
epistola de ratione edendorum librorum ad Johannem Vuolfium Tigurinum eodem
authore. Jacobi Acontii tridentini de Stratagematibus Satanæ in religionis
negotio per superstitionem, errorem, hæresim, odium, calumniam, schisma, etc.
libri octo. "Satan's Stratagems, or the Devil's Cabinet-Council
discovered,... together with an epistle written by Mr. John Goodwin and Mr.
Durie's letter concerning the same." London. J. Macock. Sold by J.
Hancock. 4to. British Museum. George Thomason's copy, now in the British
Museum, contains his correction of the date, and records its purchase.
The translation contains three dedications, one to the Parliament, one to
Fairfax and Cromwell, and one to John Warner, lord mayor. The translator
announces that if his work was well received he would complete it, but only
four of the eight books were published. The stock was then sold apparently to
W. Ley, who reissued it, with a new title, "Darkness Discovered; or, The
Devil's Secret Stratagems laid", London. J. M. 4to. With a doubtfully authentic etching of
the Italian author, ‘James Acontius, a Reverend Diuine.' This translation is an
English version of Jacopo Aconcio's celebrated work, "Satanæ Stratagemata
libri octo, J. Acontio authore, accessit eruditissima epistola de ratione
edendorum librorum ad Johannem Vuolfium Tigurinum eodem authore. Basileæ, ap.
P. Pernam. The Dictionary of National Biography says that this is the genuine
first edition, of extreme rarity. Brunet records an octavo edition
of the same year, place, and publisher, but with a variant title: Jacobi
Acontii tridentini de Stratagematibus Satanæ in religionis negotio per
superstitionem, errorem, hæresim, odium, calumniam, schisma, etc. libri
octo. Basilea.P. Perna. 8vo. Reprinted, Basileæ, and 'curante Jac.
Grassero,' ib.,, 8vo; ib., ap.Waldkirchium; Amsterdam, Oxon., G.Webb, 1631, sm.
8vo; London, 4to; Oxon., Amsterdam, Jo. Ravenstein, sm. 8vo; ib.,sm.8vo;
Neomagi, A. ab. Hoogenhuyse, sm.8vo. The Dedication of the first edition, to
Queen Elizabeth, begins,with grandiloquent flattery, Divæ Elisabethæ, etc. Les
Ruzes de Satan receuillies et comprinses en huit liures. Basle. P. Perne. Also,
Delft, Further, Bâle. 1647. sm. 8vo (German translation), and Amsterdam, 12mo
(Dutch translation). The Satanæ Stratagemata is a book which had a considerable
influence in the development of opinion. In all, I record twenty-one editions
of it, five of them of English imprint, and all of them publications of about
one century, the era of the Reformation. Aconcio's argument was the
simplification of dogmatic theology. In general, he reduces the doctrines of
Christianity to a strictly Scriptural basis. He argues that the numerous
confessions of faith of different de nominations are simply the ruses of the
Evil One, the 'Stratagems of Satan,' to tempt men from the truth. He protests
against capital punishment for heresy, and favours toleration among all
Christian sects. Such liberal theology is distasteful alike to Calvinists, who
accused Aconzio of Arianism, and to Catholics, who index his essay. The Tridentine
Index Libb. Prohibb. places "Satanæ Stratagemata" among anonymous
books, but the Roman Index of 1877 describes the essay accurately. Acontius (Jacobus) -- Jacobi Acontii
tridentini de stratagematibus Satanæ in religionis negotio per superstitionem,
errorem, hæresim, odium, calumniam, schisma, etc., libri octo. Basileæ, P. Perna,
Première édition d'un ouvrage singulier qui jadis a fait beaucoup de bruit
parmi les théologiens protestants, mais qu'on ne lit plus guère aujourd'hui. Il
doit se trouver dans ce volume un traité du même auteur, intituli: "De
ratione edendorum librorum," qui a paru égalementent et qui aétéréim primé
dans l'édition des "Stratagemata Satanis", donnée par Jacq. Grasser,
à Basle, chez Conr.Waldhirche, in-8, sous un titre qui diffère de celui de la
première édition. Les autres éditions de ce livre n'ont pas de valeur. La
plus répandue parmi nous est celle d'Amsterd., Jo. Rawestein, pet.in-12; celles
d'Oxford, in-12, ne le sont guère moins. LES RUSES de Satan, recueillies et
comprinses en huit livres, p pet. in-4. Cette traduction a été reproduite à
Delft, de l'impr. de B. Schinckel, in-8.; ce pendant les exemplaires n'en sont
pas communs; celui del'édit., qui était rebé en mar:., n'a été vendu que 6 fr.
chez La Valliere, mais il serait plus cher aujourd'hui. L'ouvrage est traduit
en Namand, en allemand et aussi en anglais. L'auteur, nommé Jacobus Acontius
sur le titre de ce livre, avait pour nom italien Giacomo Concio. M. Graesse
cite à l'article Acontiues l'ouvrage suivant, qu'il dit très-rare. UNA
essortazione al timor di Dio, con alcune rime italiane, nuov, messe in luce (da
G. B. Castiglione). Londra (senz'anno), in-8. Aconce.De
stratagematibus Satanæ in religionis negotio, per superstitionem, errorem,
hæresim, odium, calumniam, schisma, etc. LibriVIII. auctore
Jacobo Aconcio. Basileæ, in-8. et Amstelodami, in-8. Cet ouvrage
impie a été dédié à Elisabeth, reine d'Angleterre. Il en aparu une traduction
française à Basle.; à Delft, L'auteur s'est proposé, dans cet ouvrage, de
réduire, à un très-petit nombre, les dogmes de la religion chrétienne, et
d'établir une tolérance réciproque entre toutes les sectes qui divisent le
christianisme: c'était le vrai moyen de déplaire à toutes. Un
singolarissimo saggio in favore della tolleranza apparve per opera del
giureconsulto trentino Giacomo Aconzio o Aconcio, saggio che fu posto
erroneamente fra i libri di magia per il suo strano titolo, "De
stratagematis Satane in religionis negotio, per superstitionem, errorem,
hæresim, odium, calumniam, schisma, etc." (Basil.). Esso per contro è
il primo libro, al dire dell'Hallam, in cui, secondo la tendenza sociniana, si
sia cercato di ridurre gli articoli fondamentali della religione cristiana al
più piccolo numero possibile, escludendo, per esempio, quello della trinità e
tutti gli altri non razionali. E ciò allo scopo di trovare un punto di appoggio
comune e di universale consenso per tutte quante le sette, in cui è scisso il
cristianesimo, e quindi una base sicura per la tolleranza reciproca di tutte le
credenze. L'Aconcio si leva vivissimamente non solamente contro la pena di
morte, ma contro qualunque pena inflitta ai pretesi eretici, ed esce in questa
esclamazione. Se il sacerdozio riesce a prendere il disopra, se gli si concede
questo punto, che non appena un uomo avrà aperto la bocca il carnefice dovrà
venire a troncare tutti i nodi col suo coltello, che cosa di venterà lo studio
della Scrittura? Si penserà che essa non vale guari la pena che altri se ne
occupi; e, se mi è permesso di dirlo, si daranno come verità i sogni
dell'immaginazione. O tempi infelici! o infelice posterità, se noi abbandoniamo
le armi con le quali soltanto possiamo vincere il nostro
avversario! (CANTÙ). Il saggio ebbe subito gran voga e fu
tradotto in francese, in inglese, in tedesco ed in olandese. Anzi esso godette
nel secolo seguente in Olanda di una immensa popolarità ed autorità. Aconcio
intanto viene citato fra molti altri scrittori del suo secolo d'autori della
tolleranza nel libro di Mino Celso senese, sotto il cui nome si ritenne per un
pezzo si celasse o Lelio Socino od altri, ma di cui invece consta che fuggì da
Siena nel 1559, vagò tra i Grigioni tre anni, e quindi si ridusse a Basilea,
ove cercò sempre di mettere concordia fra i dissidenti (1). L'opera si
intitola: "In haereticis coercendis quatenus progredi liceat, Celsi Mini
Senensis disputatio. Ubi nominatim eos ultimo supplicio afici non debere,
aperte demonstratur, Cristling. Fu ristampata senza indicazione di luogo, con
due lettere di Beza e Dudicio in senso opposto; e inoltre ad Amsterdam col
titolo, "Henoticum Christianorum, seu Disputatio Mini Celsi, etc. Lemmata
potissima recensa a D. 2. (Dom.Zwickero). È una lunga dissertazione accurata,
ove tra l'altro si sostiene bastare abbondantemente contro gli eretici le
ammende e l'esiglio. Loscritto di Gioacchino Cluten: De Haereticisan sint
comburendi? Argent., contiene, oltre alla prefazione del Castellion alla sua
Bibbia latina, una raccolta di passi di più scrittori in favore della
tolleranza. Una difesa, piena di giustizia e di moderazione, della causa della tolleranza
è pure quella del teologo sociniano tedesco Giovanni Crell, intitolata,
"Vindiciae pro religionis libertate. Essa fu tradotta poi dal Le Cene in
francese, e riveduta dal Naigeon, sotto il titolo, "De la tolérance dans
la religion. Al dire dell'Hallam, l'Holbach l'avrebbe tradotta e ripubblicata. Il
SENKENBERG nelle aggiunte alla Bibliotheca realis iuridica del Lipenius,Lips., ricorda
una edizione, Non ho potuto vedere il saggio; ma tale indicazione andrebbe poco
d'accordo con quanto altri riferiscono, cioè che Mino Celso citi già l'ACONZIO.Giacomo Aconzio. Aconzio. Keywords: satana, diavolo,
implicatura di satana – stratagemmi -- negozio – religione, per superstizione,
errore, eresia, odio, calunnia, scisma, ecc.
Refs.: Luigi Speranza, "Grice ed Aconzio," per Il Club
Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
Grice ed Acquisto –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Monreale). Filosofo italiano. Grice: “I
like Acquisto; he was a priest, but you’d hardly notice it; but then he was
jailed and few priests get that! They must be real bad boys! But blame it on the mess that the Capri area
found itself at that time – In any case, he reminds me of Manser, the Waynflete
professor of metaphysics – Acquisot was very systematic –I would think his
semiotics, strictly, is exposed in a chapter in the second part to his
masterpiece, the ideologia – the first is psicologia, and the third is logica –
in Ideologia, he is a Lockeian – words stand for ideas – and ‘linguaggio’ is
the most effective ‘means of communication’ to transmit them – native or
natural signs, like a ‘grido’ do communicate, but that’s it – ‘I’m in pain,’
but not ‘The cat sat on the mat.’’ – He is hardly original but then neither is
Leibniz, or Locke or Kant, for that matter – His emphasis is on the atural
versus artificial and pours scorns on those philosophers who tried to improve
on the Latin language – created by the Umbrians, he claims --.which is
artificial enough!” “raffaele d'acquisto – n. Monreale -- arcivescovo
della Chiesa cattolica Incarichi ricopertiArcivescovo di Monreale
Nato a Monreale Ordinato presbitero Nominato arcivescovo23 dicembre 1858
da papa Pio IX Consacrato arcivescovo dal cardinale Antonio Maria Cagiano de
Azevedo Deceduto a Palermo Filosofo. Fu uno dei principali
esponenti della storia del pensiero filosofico in Sicilia nell'800, fautore di
quella linea ontologista che vide, allora, moltissimi seguaci in Sicilia e che
mise in collegamento la riflessione filosofica siciliana con quella presente
nel resto d'Italia, in particolare con la dottrina ed il pensiero di Vincenzo
Gioberti. Il suo pensiero risulta una sintesi fra la psicologia cartesiana ed
il dinamismo di Leibniz a cui si aggiunge la tradizione teologica e filosofica
cristiana che prende come punti di riferimento sant'Agostino e san Bonaventura
da Bagnoregio. Pubblicò numerose opere i cui contenuti spaziavano dal
pensiero intorno a Dio al creazionismo, dall'onnicentrismo all'analisi
dell'uomo come essere vitale che è insieme Potenza, Sapienza ed Amore.
Indice 1L'età giovanile 2L'età adulta, l'insegnamento universitario e le
opere 3La carica di arcivescovo ed i moti insurrezionali Genealogia
episcopaleL'età giovanile Benedetto D'acquisto nacque come Raffaele D'Acquisto
a Monreale il 1º febbraio 1790 da Niccolò D'Acquisto di professione calzolaio e
da Maria Di Meo. Sin da giovanissimo manifestò uno spiccato interesse verso lo
studio e per questo motivo fu iscritto dai genitori alla scuola del seminario
di Monreale. All'interno del seminario il sacerdote Benedetto Signorelli rimase
favorevolmente colpito dalle grandi doti e dall'ingegno di Raffaele D'Acquisto
e decise di fornirgli i mezzi economici necessari per continuare gli studi in
quanto i genitori non potevano garantirgli l'accesso all'istruzione superiore.
Fu in segno di riconoscenza nei confronti di questo sacerdote che Raffaele
decise di cambiare il suo nome in Benedetto. Da quel momento in poi verrà,
infatti, ricordato come Benedetto D'Acquisto. Nel 1806 all'età di 16 anni
entrò a far parte dell'Ordine dei Frati minori riformati a Palermo dove prima
compì gli studi superiori in filosofia e teologia e poi divenne insegnante
nello stesso convento. Successivamente otterrà anche la laurea in filosofia
presso l'Università degli Studi di Palermo; insegnerà tale disciplina anche in
corsi universitari presso il collegio San Rocco di Palermo sito in via Maqueda
nel centro della città. L'età adulta, l'insegnamento universitario e le
opere. Concorse alla cattedra di filosofia all'Palermo, ma la scelta della
commissione esaminatrice cadde su un altro candidato ed allora anda ad
insegnare filosofia presso il seminario arcivescovile di Palermo. Vinse il
concorso per la cattedra di etica e diritto naturale all'Palermo e venne eletto
arcivescovo, vi dedica le sue energie intellettuali migliori che gli valsero
anche la carica alla vicepresidenza dell'Accademia di scienze, lettere ed arti
di Palermo. Questo è anche il periodo in cui pubblica le sue opere principali
ed in cui il suo pensiero raggiunge una grande fama. Tra gli saggi più
importanti di questo periodo si possono ricordare “Elementi di filosofia
fondamentale”, il “Sistema della scienza universale”; la “Genesi e natura del
diritto di proprietà” (Palermo -- lodata
persino da Napoleone III); “Trattato delle idee o Ideologia” in cui porta a
compimento la costruzione della sua filosofia teoretica e lo studio sulla “Necessità
dell'autorità e della legge” in cui tratta tematiche inerenti al
diritto. Pubblica una delle sue opere più importanti intitolata la “Cognizione
della verità” che rappresenta una sintesi armonica fra la filosofia e la
teologia. In quest'opera sottolinea gli stretti rapporti tra il Creatore e le
sue creature pur nella loro sostanziale ed infinita distinzione e differenza e
presenta un'antropologia filosofico-teologica che concepisce l'uomo sotto un
triplice aspetto (puro, trascendentale, fenomenico), caduto per sua libera
scelta nell'errore e nel male, ma che pure ha in sé la condizione necessaria ma
non sufficiente per la sua elevazione verso la verità e verso il bene,
condizione che soltanto grazie ad una rivelazione esterna diventa sufficiente
ed attuabile. Questo saggio rappresenta il punto massimo del pensiero del
filosofo monrealese. Oltre a questi scritti D'Acquisto ci ha lasciato
anche un trattato di logica dal titolo “Organo dello scibile umano”, pubblicato
postumo a Palermo ed un manoscritto inedito e privo di titolo attualmente
conservato presso la Biblioteca comunale di Palermo. La carica di
arcivescovo ed i moti insurrezionali Benedetto D'Acquisto fu nominato
arcivescovo di Monreale da papa Pio IX. Appena entrato nell'arcidiocesi dovette
confrontarsi con un periodo turbolento caratterizzato dalla rivolta di
Monreale, dall'arrivo delle truppe garibaldine e dal conseguente tramonto del
regime borbonico. Con la costituzione del Regno d'Italia versò una
cospicua somma di denaro per equipaggiare la neonata Guardia Civica. Questo
gesto gli meritò l'attenzione e la gratitudine di re Vittorio Emanuele II che
in occasione della sua visita al duomo di Monreale volle premiare Benedetto
D'Acquisto con la commenda all'Ordine Mauriziano con la motivazione di essersi
distinto egregiamente nel campo della filosofia. Tuttavia scoppiò a Palermo la
Rivolta del sette e mezzo, una violenta insurrezione antigovernativa che in
breve tempo si estese anche ai territori limitrofi in particolare Monreale e
Misilmeri. In questo contesto Acquisto fu nominato presidente del Comitato
insurrezionale di Monreale con l'obiettivo di mantenere l'ordine pubblico nella
cittadina normanna, ma non poté fare molto, perché di lì a poco la situazione
degenerò ed i rivoltosi misero a ferro e fuoco la provincia di Palermo,
causando la morte di 21 carabinieri e 10 guardie di pubblica sicurezza.
Dopo sette giorni l'insurrezione fu domata dalle truppe governative ma
Benedetto D'Acquisto fu arrestato. Il generale Raffaele Cadorna, inviato dal
governo come regio commissario con il compito di reprimere la rivolta
siciliana, nella sua relazione al Consiglio dei ministri accusò D'Acquisto di
avere incoraggiato il moto rivoluzionario e lo qualificò come "notissimo e
pericoloso reazionario". Fu rinchiuso in prigione prima a Monreale e poi
in altre località per circa un mese insieme ad altri uomini illustri come
Giuseppe de Spuches, famoso letterato, poeta ed archeologo. Rimesso in
libertà provvisoria, ngodette del provvedimento di amnistia e ritornò a
Monreale per continuare la sua missione pastorale. Gli ultimi anni
Ritornato nel suo luogo natìo, si dedicò, dopo la diffusione del colera,
all'assistenza di coloro che avevano contratto tale malattia. Tuttavia si
ammalò anche lui e morì a Palermo. Fu tumulato nella chiesa di Santa Rosalia,
una piccola parrocchia in campagna alla periferia di Monreale, ma dopo una
solenne cerimonia le sue spoglie furono traslate nel duomo di Monreale. Il
suo pensiero filosofico, nell'ambito teoretico e delle relazioni logiche e
dialettiche, si avvicina molto a quello platonico ed agostiniano con vistose
influenze anche del pensiero di Fidanza. Nell'ambito dell'ontologia si rifà
alla scuola metafisica di Monreale, il cui più importante esponente fu Miceli,
di cui Acquisto rappresenta il naturale seguace e studioso. Il nucleo centrale
della sua filosofia consiste nella sintesi fra psicologia ed ontologia.
Egli colloca nella coscienza il fondamento teoretico della conoscenza
scientifica e divide le idee in tre categorie: l’idea sensibile che riguarda il
mondo materiale, l’idea intellettuale concernenti il proprio essere e l’ideea
necessaria relative a Dio. Questi tre tipi di idee co-esistono
contemporaneamente nello spirito umano. A queste tre categorie ne aggiunge una
quarta definita come idee "di rapporto" che permettono all'individuo
di esprimere giudizi e formulare ragionamenti. Nell'analisi del processo
conoscitivo crea la sua nozione di onni-centrismo in cui riesce a trovare un
equilibrio fra due poli apparentemente all'opposto: l'individualità e
l'universalità. Nella sua concezione onni-centrista riesce a far
coesistere l'io individuale con l'io trascendentale sviluppando così un'unità
reale fra intuizione sensibile ed intelletto. Dall'unità tra intuizione
ed intelletto si crea l'intuito intelligente che contiene in un nesso ontologico
tutta l'umana vitalità e che mette in relazione l'individuo con l'intuito
dell'azione creatrice dell'essere assoluto. Questa visione avvicina molto Acquisto
a Rosmini e Gioberti. Il filosofo monrealese tratta anche delle relazioni fra
morale e diritto. L'azione derivante dall'attività dello spirito può rimanere
all'interno dello spirito stesso senza manifestarsi all'esterno e
trasformandosi così in un atto giuridico. Questo atto giuridico costituirà la
legge morale che conduce l'individuo a conformarsi alla natura, alla ragione ed
a Dio. Tutto ciò rappresenta la sintesi perfetta fra l'essere naturale e l'essere
spirituale. Infine nella sua opera Corso di diritto naturale afferma che
il diritto di proprietà è presente in ogni individuo che lo utilizza per
raggiungere il suo scopo naturale. Il diritto, dunque, nella vita
dell'individuo tende essenzialmente alla conservazione, allo sviluppo e al
perfezionamento della natura umana. Il diritto POSITIVO, invece, ha l'obiettivo
di far prendere coscienza all'individuo delle proprie azioni e di creare una
perfetta armonia fra il diritto stesso e la moralità. Ma soltanto l'onnipotenza
di Dio puo portare alla coesistenza perfetta e senza contrasti fra fede e
scienza. Opere: “Elementi di filosofia fondamentale”; “Saggio sulla legge
fondamentale del commercio fra l'anima ed il corpo e su di altre verità che vi
hanno rapporto”; “Prolusione alle lezioni di diritto naturale a Palermo); “Discorso
preliminare alle lezioni di diritto naturale ed etica”; “Memoria estemporanea
sul diritto e dovere del proprio perfezionamento”; “Sistema della scienza
universal”; “Corso di filosofia morale”; “Corso di diritto naturale e filosofia
del diritto”; “Cognizione della verità”; “Trattato delle idee o Ideologia”; “Genesi
e natura del diritto di proprietà”; “Necessità dell'autorità e della legge”; “Teologia
dogmatica e razionale; Ragionamento sulla resurrezione dei corpi”; “Organo dello
scibile umano”. Genealogia episcopale Cardinale Scipione Rebiba Cardinale
Giulio Antonio Santori Cardinale Girolamo Bernerio, O.P. Arcivescovo Galeazzo
Sanvitale Cardinale Ludovico Ludovisi Cardinale Luigi Caetani Cardinale
Ulderico Carpegna Cardinale Paluzzo Paluzzi Altieri degli Albertoni Papa
Benedetto XIII Papa Benedetto XIV Papa Clemente XIII Cardinale Giovanni Carlo
Boschi Cardinale Bartolomeo Pacca Papa Gregorio XVI Cardinale Antonio Maria
Cagiano de Azevedo Arcivescovo Benedetto D'Acquisto V. Di Giovanni, D'Acquisto e la filosofia
della creazione in Sicilia, Firenze V. Mangano, Benedetto D'Acquisto filosofo
monrealese, Palermo. G. Millunzi, Storia del seminario arcivescovile di
Monreale, Siena F. Lorico, Vita di Benedetto D'Acquisto, Palermo V. Mangano, La
filosofia sociale di monsignor Benedetto D'Acquisto, Palermo G. M. Puglia,
L'arresto di mons. Benedetto D'Acquisto arcivescovo di Monreale, Palermo; Dizionario
dei siciliani illustri, Palermo Monreale Duomo di Monreale Rivolta del sette e
mezzo Sant'Agostino San Bonaventura da Bagnoregio Antonio Rosmini Benedetto D'Acquisto, in Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere di
Benedetto D'Acquisto,. David M. Cheney, Benedetto D'Acquisto, in Catholic
Hierarchy. L'ontologismo rivoluzionario
nella Logica di Benedetto D'Acquisto di Antonio Fundarò, dal sito dell'Istituto
siciliano di studi politici ed economici ISSPE. Predecessore Arcivescovo di
Monreale Successore Archbishop Pallium PioM. svg Pier Francesco Brunaccini, Giuseppe
Maria Papardo del Pacco, Arcivescovi di Monreale Fino al 1500Caro Giovanni
Boccamazza Pietro Gerra Ausias Despuig Juan de Borgia Llançol de Romaní XVI
secoloJuan Castellar y de Borja Enrique de Cardona Alessandro Farnese Ludovico
de Torres I Ludovico de Torres II XVII secolo Arcangelo Gualtieri Jerónimo
Venero Leyva Cosimo de Torres Giovanni Torresiglia Francesco Peretti di
Montalto Ludovico Alfonso de Los Cameros Vitaliano Visconti Giovanni Roano e
Corrionero XVIII secolo Francesco del Giudice Juan Álvaro Cienfuegos Villazón
Troiano Acquaviva d'Aragona Giacomo Bonanno Francesco Testa Francesco
Ferdinando Sanseverino Filippo Lopez y Royo XIX secolo Mercurio Maria Teresi
Domenico Benedetto Balsamo Pier Francesco Brunaccini Benedetto D'Acquisto
Giuseppe Maria Papardo del Pacco Domenico Gaspare Lancia di Brolo XX secolo Antonio
Augusto Intreccialagli Ernesto Eugenio Filippi Francesco Carpino Corrado Mingo
Salvatore Cassisa Pio Vittorio Vigo XXI secolo Cataldo Naro Salvatore Di
Cristina Michele Pennisi. DELLA NATURA DEL LINGUAGGIO, E DELLA SUA INFLUENZA NELLA
FORMAZIONE DELLE IDEE. Per estensione della idea generale s'intende la sua
capacità di applicarsi al numero degli individui; la comprensione è riposta nel
pumero delleideesemplicidellequaliessa sicompone;perció quanto è maggiore
lacomprensione tanto minore è l'estensione,ed all'inverso. Ritrovare
l'origineprimitivadellinguaggio,dopo infinite vicissitudini ed incalcolabili
trasformazioni, oltre di essere fuori del nostro assunto, sarebbe la cosa più
difficile. I fenomeni quanto sono più ovvi e generali altrettanto la loro
radice è sepolta nelle te nebre. Moltissime e svariate sono state le opinioni
dei filosofi intorno all'origine del linguaggio, e forse an cora la
lite non è stata decisa. Varie lingue si sono parlate,dalla corruzione e dalle
trasformazioni di que ste ne sono risorte delle altre,e da queste ancor del
l'altre. Se cosa di certo potrà trovarsi, la speranza di tal trovamento si deve
porre nel fatto, cioè nella co stituzione dell'uomo e nella natura dello stesso
linguaggio. L'uomo è dotato di sensibilità e di facoltà attive e libere: égli
prova sensazioni, è affetto da piacere e da dolore; in ciò è passivo: egli
reagisce sopra le stesse sensazioni, ed a suo piacere analizza, ricompone, e n
e forma de nuovi prodotti,ed in ciò è attivo e libero; egli ha dunque delle
sensazioni e delle idee e forma giudizi; tutto ciò è effetto del lavoro interno
dello spirito umano, e non v’interviene convenzione per conto alcuno.
Dall'altra parte avvi nel linguaggio ciò che nell'uomo ha anche costituito la
natura,evisitrovasempre lo stesso, propagato in tutle le lingue senza alcun can
giamento o alterazione, e che dovrà per necessità tro varsi in tuttelelingue
possibili.L'uomo èstato for nito degli organi vocali; egli mette per essi
natural mente de' suoni;questi sono o semplici emissioni di fiato, tali sono i
suoni detti vocali; altri sono delle intonazioni che dipendono dall'azione
libera di alcuni organi vocali, tali sono icosi detti suoni consonanti, e
questi stessi suoni non possono prescindere dai suoni vocali perchè o li
precedono, o li seguono, non po tendosi dare esercizio di organi subordinati
senza l'esercizio degli organi subordinanti. I suoni vocali sono la
manifestazione de' sentimenti, e le intona
zioni,oconsonantileespressionidelleidee,quelli ac cennano
allapassività,questiall'attività;quellisono comuni all'uomo ed alle bestie,
questi all'uomo sola mente,e mettono la gran differenza fra le une e l'al tro.
Tutto ciò è ancor opera della natura; bisogna in fine riconoscere un legame
ancor formato dalla stessa natura: questo legame è il rapporto fra lo spirito e
gli organi corporali, e fra questi e gli oggetti;la con dizione, che stringe
sempre più e muove questo le game, è il principio d'imitazione che
eminentemente possiede l'uomo; egli per parlare ha un modello n a turale da imitare,cioè
la natura e le idee. Tutto ciò adunque che si ricercava alla perfezione del
linguag gio era stato dato dalla natura;che altro mancava alla esistenza di una
lingua, se non la combinazione vo lontaria dei suoni vocali e delle intonazioni
per for mare la pittura e l'espressionedelleidee.Ma questa pittura, questa
espressione nel linguaggio primitivo [Gli organi che concorrono alla formazione
de'suoni articolati sono la trachea o canna della gola per la quale passa
l'aria, e ri passa ne pulmoni; la laringe che è un canale cilindrico corto alla
tesla della trachea; la glotta che consiste in una piccola fissura fra due
membrane circolari dove si forma il suono e la diversità ed intensilà de'tuoni;
la cavità della bocca e delle narici in cui il suono
vieneriflessoerisuona;questiorganisonodestinatiallapro duzione de' suoni vocali;
la lingua colle suc vibrazioni,identi, le labbra coi loro movimenti sono gli
stromenti delle intonazioni,le quali combinate con i suoni rocali danno in
risullalo la voce ar licolala. dovean essere da una parte corrispondenti
ai bisogni ed allo sviluppo dell'uomo, perciò i suoni articolati, prodotti dalle
funzioni naturali degli organie dall'esercizio libero dei poteri interni
moventi gli organi m e desimi,e che esprimeano isentimenti e leidee,do veano
essere in poco numero, che sono le radieali di tutte le lingue, restando in
arbitrio dell'uomo l'in fletterli e modificarli a sua volontà secondo che cre
scevano i bisogni della vita, e s'estendevano i rap porti e cogli oggetti della
natura e cogli altri uomini. Dall'altra parte, come il tutto era preparato alla
per sezione dell'uomo, cioè l'intelligenza, e gli organi di rapporto col mondo;
questi riceveano naturalmente l'azione degli oggetti esterni e produceano i
senti menti, quella trasformava i sentimenti in idee per effettodeirapporti
naturali onde erano connessi;egual mente erano preparati gli organi onde
pingere ed espri mere coi suoni le idee; era quindi necessario, che la
stessanatura,secondo gl'intimirapporti di questior gani, producesse i suoni in
corrispondenza alle prime idee necessario risultato dell'esercizio delle
facoltà. Ciò che ela ha realizzato per un procedimento naturale. È un fatto
costantissimo nella natura dell'uomo cioè che egli per la sua suscettività
prova sentimenti, per la sua intelligenza li trasforma in idee, e per la sua
attività ne determina i movimenti muscolari nel corpo, iquali
sonodirettisopral'oggettorappresentatodalle idee; cosi la stessa attività mette
in funzione im u scoli degli organi vocali per significare agli altricon i
suoni l'idea che gli è presente nello spirito, que L'oggetto esterno
ha una costituzione tutta propria, che forma la sua specifica natura; dalla
specificità di questa natura origina il modo e la legge dalla sua azione sopra
l'organo del corpo umano; quest'organo, per lo stimolo impressovi dall'azione
esterna entra in movimento, il quale, sebbene fosse la continua zione
dell'azione esterna, tuttavia è modificato e spe cificato dalla legge
fisiologica risultante dalla costituzione dell'organo medesimo: questo
movimento or ganico cosi specificato modifica realmente lo spirito,
eviproduceprimamenteunsentimento,ilqualeper l'azione delle facoltà è seguito da
una idea. Questa idea per l'attività intelligente diviene una norma della sua
determinazione e direzione verso l'oggetto rap presentato dalla idea, onde
prenderlo e mettersene in possesso. La stessa attività sotto la scorta della
stessa idea, mette in esercizio i muscoli degli organi vocali per esprimere
colla voce la idea, e per essa il suo oggetto. La volontà,nello eccitare i
movimenti orga nici del corpo, può avere un doppio motivo prodotto da un
diverso interesse,cioè o immediato, o mediato: è immediato quello per cui
eccita il movimento nei muscoli,per esempio della mano,per prendere l'og getto
rappresentato dalla idea;è mediato quello,per cui mette in azione gli organi
vocali per significare o far nascere negli altri l'idea che è presente al suo
spirito, col fine, sia di simpatizzare con essi,sia per determinare la loro
volontà a proprio vantaggio, e per sto procedimento si effettua nell'uomo
sotto l'influenza delleleggifisiologiche e psicologiche.Eccone ilmodo:
avere da costoro o un'azione, o l'oggetto che desi dera, sia perchè non
gli noceia. La causa dunque del doppio movimento è lastessa,cioè lamedesima
idea, i motivi solamente differiscono, essendo uno il possesso dell'oggetto
rappresentato dall'idea,e l'altro la premura di manifestarla aglialtri;onde lo
stesso èilprocedimentodelmovimentodellamano,ede gli organi vocali eseguito
sotto l'impero delle stesse leggi fisiologichee psicologiche, sebbene perun di
verso riguardo. Perciò se naturale è la presa dell'og
gettosignificatodalleidee,naturale è purelavoceche esteriormente la esprime:ciò
ha bisogno di ulteriore sviluppo. Nella esterna espressione delle idee
dello spirito, cioè nel linguaggio parlato, avvi un processo inverso
aquellocolqualeegliacquistaleidee,ma collastessa legge di continuità. Il
processo, pel quale nello spi rito si forma l'idea,ha il suo principio nella
azione dell'oggetto esterno:questa azione è sempre conforme alla naturale
costituzione dell'oggetto, alla sua rela tiva posizione e stato in rispetto
agli organi esterni; quindi di tante diverse specie e di tante gradazioni nella
stessa specie sono le azioni che gli oggetti esterni esercitano sopra gli
organi. L'azione dell'oggetto, ar rivando all'apparecchioesternodell'organo,lo
stimola e vi produce un movimento rispondente all'indole ed alla forza
dell'azione dell'oggetto agente, ed allo stato di
organizzazionedellostessoapparecchio:questomo vimento cosi modificato si
comunica alla struttura ed al processo nervoso dello stesso organo, nel quale
il movimento riceve un'altra modificazione e qualificazione; il
movimento cosi modificato e qualificato interessa e modifica lo spirito, e
produce in esso il s e n timento,che per l'azione delle facoltà diviene idea,
la quale nello spirito è il segno della esistenza del l'oggetto esterno e della
sua qualità: l'idea devesi considerare come la interna parola, per la quale lo
spirito sente, conosce ed è assicurato dalla esterna realtà e dei suoi modi per
la modificazione reale che egli riceve dalla forza reale del di fuori attuata
nel movimento, e dalla indole dello stesso movimento de terminata e dalla
natura dell'azione dell'oggetto ester no,e dalla struttura dell'apparecchio
esternoedella costituzione interna dell'organo e del cerebro. Dal l'oggetto
esterno fino allo spirito avvi una continua zione di movimento, modifiealo però
in diverse guise una connessa coll'altra fino all'ultima modificazione che
riceve dall'organo centrale del cerebro. Il movimento nella sua essenza non è
che la forza materiale attuata e manifestata sensibilmente per le due forme
primitive del tempo e dello spazio;e per ciò esso è nell'azione dell'oggetto
esterno, nelle at tuosità dell'apparecchio, e nella costituzione del tes suto
nervoso del cerebro: riceve le diverse modifica zioni e specificazioni della
natura dell'oggetto in pri ma, indi dalla organizzazione dell'apparecchio
esterno dell'organo e della tessitura interna dei nervi ed in ultimodel
sensoriocomune; queste modificazioni e specificazioni diverse del movimento si
possono con siderare come tante articolazioni dello stesso movimento, che
costituiscono, per cosi dire, la parola fi siologica
cheintendelospirito,perlaqualeconosce e la realtà dell'oggetto esterno nella
forza attuata nel movimento, che è l'elemento generico, e la qualità dello
stesso oggetto nella modificazione e specificazione dello stesso movimento,che
formano l'elemento spe cifico delle idee; questo è il processo naturale nella
formazione delle idee. Volendo poi lo spirito manifestare al di fuori i suoi
sentimenti e le sue idee, si serve dello stesso elemento generico cioè del
movimento, che esso eccita agendo soprailcerebro: questomovimento eccitatonelce
rebro, e da questo propagato ai tessuti nervosi riceve le peculiari
modificazioni dall'esercizio delle facoltà dello spirito in conformità al
sentimento ed alle idee che vuole egli esprimere, per le quali si mette in
azione il sistema dei muscoli e muove gli organi vo cali, e gli apparecchi degli
stessi organi, cioè il pulmone e la trachea per la emissione dell'aria; la
glotta dove l'aria diviene sonora, che è ilmezzo di espres sione del sentimento;
il palato, la lingua, i denti e le labbra, dalla funzione dei quali il suono
riceve le diverse modificazioni, le quali formano le intonazioni o i suoni
consonanti, che servono a manifestare le forme del sentimento cioè le idee e le
loro qualità; quindi nell'aria emessa divenuta suono che in fondo è m o
vimento, si ha l'elemento generico, il quale forma la base del linguaggio, e
l'elemento specifico che consi stenelle modificazioni che ricevelostessosuono. Onde
i suoni vocali sono le prime modificazioni del suono generale, indi le
intonazioni o le articolazioni dello stesso suono,le quali si combinano in
guise diversis sime con isuoni vocali,edaqueste combinazioniri sulta il
linguaggio articolato; queste intonazioni sono sempre precedute o seguite da
suoni vocali; poiché l'elemento specifico del linguaggio non può sussistere
senza il generico che ne è la base, di cui le intona zioni sono modificazioni
prodotte dall'esercizio delle facoltà.Isuoni, che esprimono le circostanze e le
po sizioni necessarie dell'oggetto che si vuole significa re, formano le parti
elementari che si trovano in ogni lingua delle parti del
discorso:lecombinazioni poi dei suoni vocali con i consonanti per esprimere
l'oggetto e le sue qualità dipendono dalle esterne circostanze in cui possono
trovarsi gli uomini,come sonoilcli ma,ilgeneredi vita,lareligione,ed
altro,lequali come influiscono sopra lo sviluppo della facoltà, cosi
determinano lacombinazione de'suoni vocali con icon sonanti. Nella formazione
delle idee vi sono due estremi,il primo è l'oggetto esterno allo spirito, ed il
secondo è lo stesso spirito che dà esistenza alla idea. L'agente esterno nelle
stesse circostanze sempre agisce allo stesso modo, é cosi gli organi essendo
nello stesso stato, per cui l'idea è sempre la stessa; laddove nella espres
sione esterna della stessa idea, cioè nel linguaggio, essendolospirito,ilprimo
estremoche suscitailmo vimento, secondo le disposizioni da cui egliè affetto
per la influenza delle esterne circostanze, muove gli organi vocali in modi
diversi e combina in diverse guise isuoni vocali con i consonanti, per
cui lo stesso oggettop.e.l'astrodelgiornonelle diverse lingue ha diversi
nomi,come sole,sol,soleil,yacos eco. Perchè poi potesse rendersi stabile la
esterna m a nifestazione dei sentimenti e delle idee, che è fugi tiva nel
linguaggio parlato, lo spirito si serve delle figure; ad alcune delle quali
associa ed attacca in prima i suoni vocali, ad altre i consonanti, quali figure
di vengono SEGNI dei suoni, come leparole lo sono delle idee, e le idee degli
oggetti; e come il punto e le linee possono combinarsi di diverse maniere;
quindi la diversità e la moltiplicità delle figure ossia delle letlere. Dunque
l'elemento di base oggettivo alla for mazione delle idee, della parola, della scrittura
è lo stesso, cioè il movimento: lo specifico, nella formazione della idea, è il
modo di agire dell'oggetto esterno sull'organo e dell'organo sullo spirito;
nella formazione della parola è pure la costituzione degli organi e
l'articolazione dell'aria che si porta al senso degli altri; nella formazione
della scrittura è ancora la costi tuzione degli organi e la loro azione sopra
una m a teria esterna che viene specificata. Lo stesso spirito è il fine del
processo fisico e fisiologico nell'acquisto della idea, ed il principio dello
stesso processo nella espressione esterna della idea;ilegami hanno lastessa
connessione e la medesima continuità si nell'uno che nell'altro processo:lo
spirito nella espressione delle sue idee imita il modo naturale della
loroacquisi zione. In tutti i segni adunque degli oggetti, cioè nelle idee,nelleparole,nellascrittura
vi ha l'elemento generico e lo specifico: il generico in fondo è lo stesso,
cioè il movimento, il quale non è che laesterna m a nifestazione della forza
intrinseca a tutti i corpi, l'e lemento specifico è riposto nella
trasformazione dello stesso movimento secondo la struttura degli organi che
sono in funzione, e la natura dell'oggetto che ve la determina; perciò i
movimenti possono diversificare di tanti modi, quante sono le esterne
impressioni, il loro grado di forza, e la costituzione degli oggetti che le
cagionano, la struttura e lo stato degli organi in ternied esterni. Nell'essereassicuratolo
spirito della esistenza di un oggetto per mezzo della idea vi sono perciò due
condizioni della diversità de' movimenti; una esteriore, che deriva dal modo di
agire dell'og getto esterno allo spirito; e l'altra interna, che nasce dalla
naturale struttura e dallo stato degli organi, i quali modificano e trasformano
ilmovimento ricevuto dall'esterno. Cosi nel manifestare lo spirito le sue
idee, é per esse la cognizione degli oggetti vi hanno due condi zioni, una è la
reazione dello spirito, la quale è da esso determinata giusta la informazione
che egli ha della idea; e l'altra è riposta nel movimento degli organi interni
e nella funzione degli organi vocali che produconoilsuono,ilqualepuò
modificarsiindi versissimi modi ed in tanti suoni articolati, quante sono le
idee e le loro qualità, come è chiaro, della moltiplicità e delle parole, e
delle diverse lingue. Il suono nel linguaggio risponde ed esprime il sentimento
che è la base della idea, e l'articolazione del suono alle forme del sentimento
cioè alle idee ed alle loro proprietà; come il sentimento nello spirito ri
sponde al movimento organico che ve lo cagiona, e la idea all'indole peculiare
dell'armonia del movimento sotto la quale è prodotto. Questi fatti sono
connessi e legati l'uno all'altro in un processo di continuità tanto nella
formazione della idea,quanto nella produ zione del linguaggio, ma in un ordine
inverso ed al terno. Lo spirito legge nelle sue idee le esistenze degli o g
getti col processo che comincia dalla loro azione, e per un processo inverso,
che ha principio dall'azione dello stesso spirito, egli esterna e manifesta le
stesse idee fino alla scrittura, alla pittura, alla scoltura ec. Uno è il
movimento, ed indefinite le modificazioni chelodiversificano;unoèilsentimento
ed indefinito il numero delle idee nelle quali si trasforma; uno ė il suono, ed
indefinito il numero delle parole 'nelle quali è articolato;unico è ilpunto del
flusso dal quale nasce la linea,ed indefinito il numero delle figure, e le
combinazioni che di essi possono farsi, d'onde le diversità delle lettere nelle
diverse lingue: tratti g e nerali hanno le idee, le parole, le figure. L'unione
del pensiero col linguaggio, e di questo colla scrit tura ha ilcentro e la base
nello spirito, il quale,per il movimento modificato delle leggi fisiche ed orga
niche riceve leimpressioni nellasuaunità,eda que sta riversa il prodotto e lo
propaga al di fuori per mezzo delle stesse leggi.Se le condizioni che
formano l'elemento specificodellinguaggiofosserosemplificate e ridotte a
principi non sarebbe difficile la formazione di una lingua universale. È bensi
da osservare che la totalità dell'armonia della costituzione del corpo umano,
ed in essa la spe cialità degli organi che la compongono, è modificata ed
informata negli individui da talune cause esterne ed interne, le quali, agendo
sopra di esso potente mente e perennemente vi determinano un tempera mento
costante ilquale poi,come modifica di un modo speciale i sentimenti e le
idee,cosi modifica diversa mente il movimento degli organi vocali nella produ
zione delle intonazioni, le quali commiste ai suoni vocali producono una
diversa articolazione, e quindi la diversità delle parole che significano
presso diversi individui la stessa idea ed il medesimo oggetto.Qui si trova la
ragione del linguaggio diverso presso le diverse nazioni,lequali,secondo
lediverseposizioni e circostanze morali, politiche, fisiche e topografiche,
parlano diverso linguaggio come hanno diversi costu mi.La nazione greca,che
fucolta,civile e voluttuosa, parlava u n linguaggio ornato, polito e splendido;
Roma, che parve nata a comandare,ebbe un linguag gio nobile, robusto,
magnifico. Le lingue che ebbero nascita da questa madre portano tratti
differenti non solo della loro madre, ma ancora fradi esse.La spa gnuola porta
il carattere di gravità, di pomposità e di alterezza: la francese è vivace,
spiritosa ed animata: l'italiana molle, gentile ed amena; l'inglese sobria,
sentenziosa e concisa:quelle delsettentrione aspre, Il linguaggio
convenzionale è uno dei più potenti mezzi che contribuiscono al soddisfacimento
di questi bisogni; e mentre il linguaggio si accresce per lo svi luppo delle
facoltà, tende a sempre più perfezionare le facoltà. Ma i segni convenzionali, che
compongono il linguaggio, non possono aversi senza i segni natu
rali;poichènonpuòdarsifragliuomini convenzione alcuna senza che prima
s'intendano, nè possono in tendersi senza i segni naturali, i quali sono a
tutti comuni, perchè prodotti spontaneamente dalla loro n a
tura,eperciòperquestituttigliuomini s'intendono; devono per tanto ammettersi
prima i segni naturali per iquali eglipo s'intendono,ed intendendosi sopra gli
stessi segni naturali fondano il linguaggio con venzionale, il quale è di
quelli una estensione. I segni naturali sono le grida, ed i gesti, i qua li
sono varii come lo sono le grida. Questi segni sono generalmente da tutti
intesi, perchè esprimono in tutti le medesime idee ed i medesimi sentimenti.
Che se al grido si unisce ilgesto, il segno di espres sione diviene più
indicativo e sicuro: infatti questo linguaggio siparla nella vivacità
dellepassioni,quando non ha luogo l'esercizio delle facoltà intellettive. Ora
dure ed austere.La lingua e l'eco del costume, come il costume lo è della
natura e carattere delle idee, le quali sono più o meno perfette, in maggiore o
m i nor numero secondo il maggiore o minor grado di sviluppo e di perfezionamento
delle facollà, ed il maggiore o minor numero dei bisogni che si suscitano
nell'uomo. se il gesto si unisce al grido, ed il movimento de'm u scoli
corporei al movimento de muscoli degli organi vocali per rendere più sicura ed
espressa la manife stazione dell'interno sentimento e della idea,non su
difficile mettere in movimento imuscoli degli organi della lingua de' denti e
delle labbra per rendere più completo e più perfetto il suono per la
manifestazione più esalta più commoda e più espressiva della idea, e surrogare
alle gesla le intonazioni che suppliscono alla loro imperfezione. Si osservi
infatti, quali sono le risorse della natura che ruole esprimere gli interni
sentimenti e le idee. Mentre il bambino ha soli sentimenti e non ha for mato
idee degli oggelli che lo modificano, egli si espri me per ilmezzo delle grida,
iquali diversamente m o difica secondo la diversità de'sentimenti che egli
prova; quando le sue facoltà cominciano a svilupparsi, ed a formare idee, egli
comincia a dare una certa preci sione alle sue gesta, ed insieme una certa
articola suoni vocalileintonazioni, le sue idee, sebbene noi, con che
intende esprimere non sono tura, e per e per opera della l'istinto della
imitazione na uso delle parole comincia a far non l'intendiamo convenzionali;
indi, perchè che ascolta, e che gesto diretto sopra, per il mezzo del attacca
l'oggetto presente al suo allo stesso oggetto sguardo, mente: tutto ciò succede
nel bambino. Questo natural procedimento naturale che si fa per gradi essere
pergradi perfetti imperfettinel bambino, dovelte ed istantanei nell'uomo primiero,
il qualenacque adulto, colpieno sviluppo delle sue facoltà: egli conobbe i suoi
poteri naturali, co nobbe la natura degli oggetti che lo circondavano, ebbe
nette e precise le sue idee, perciò fu facilissimo per la manifestazione delle
sue idee accoppiare le in tonazionisempliciaisuoni vocaliancorasemplici,d'on de
risultò la voce articolala anche semplice,al prof ferimento della quale uni
anche il gesto, e fu compreso. Questa voce divenne il segno radicale che si
attaccò alla idea,ilquale per l'abitudine divenne per-, manente.Formata questa
lingua primitiva;divenne essa il tipo della formazione di tutte le altre.
Quesla teoriaèconformeaciòchesi legge nel Genesi -- Formatis igitur, Dominus
Deus, de humo conctis animantibus terrae, et universis volatilibus coeli,
adduxiteaadAdam,utvideretquidvocaretea:omne enim quod vocavit Adam animae
viventis, ipsum est nomen ejus. Appellavitque Adam nominibus suis cuncta
animantia et universa volatilia coeli, et omnes bestias terrae. Cosi anch e
impose il nome ad Eva, haec vocabitur virago, perchè,quoniam deviro sumpta
est,e ciò perchè egli conobbe che ella era, os ex ossibus meis, et caro de
carne med. La Divinità in fine dovea dare l'ultimo complemento a tutti gli
elementi della sua opera, ed attualizzare tutti irapporti necessari fra questi
elementi.Ilprimo uomo adunque, come naturalmente provò sentimenti, come per
l'eserciziodellasua intelligenzalitrasformó in idee, come naturalmente per i
primi mise fuori suoni yocali, per la seconda produsse le intonazioni; così
dovette combinare le intonazioni colle vocali e produrre la parola articolata, imagine
e pittura della idea, allo stesso modo come trasformò in idea il sen timento
coll'esercizio delle facoltà della sua intelli genza. Questo lavoro delle
facoltà non fu che istan taneo nell'uomo che nacque sviluppato,ed istantaneo su
il linguaggio. Fu opera della Divinità l'esistenza, e la perfezione dell'uomo
primiero mediante la per fezione e lo sviluppo delle sue facoltà, cosi fu opera
della stessa Divinità l'esistenza del linguaggio m e diante l'esercizio degli
organi vocali dati all'uomo per questo fine. Fuvvi dunque nella lingua
primitiva la base posta dalla natura, e questa base devesi trovare in tutte le
lingue; fuvvi l'opera e l'esercizio delle facoltà, e questo sirinviene in tutte
lelingue;ilprimo elemento è in variabile,esitrasfonde da
generazioneingenerazione senza mutamento o alterazione; il secondo è varia
bile,e cangia coi tempi, secondo i climi, i bisogni, il genere di vita, ed il
progresso dei lumi, ed esso è la causa della moltiplicità delle lingue e della
loro varietà. Dietro tali considerazioni chiaramente si scorge, che il
linguaggio articolato è il segno in fatto della grande differenza che distingue
l'uomo da tutti gli altri viventi, a cui mancano le intonazioni, perchè manca
l'esercizio libero delle facollà della intelligenza, e mancano in conseguenza
la precisione e la perfe zione delle idee,e sono perciò limitati ai semplici
suoni vocali, perchè limitati alle sole sensazioni. Nell'uomo però
in cui sonvi non solo le sensazioni, ma ancora interviene l'esercizio libero
delle facoltà, sonyi e le vocali,e le intonazioni,e la combinazione,ed il con
certo delle une e delle altre, per la espressione delle idee.Ibruti
naturalmente,peresprimereleloro sen sazioni, si servono de'suoni vocali
diversamente m o dificati ed espressi, e tale espressione è intesa dagli
individui della stessa specie. Non potrebbe l'uomo anche fare lo
stesso,essendovi in esso gli stessi a p parecchi e le stesse condizioni?
certamente che si, ma l'uomo ha pure idee, ed h a il mezzo onde esprimerl, cioè
le intonazioni; chi impedisce d'impiegarle e c o m binarle per la espressione
delle idee come per le vo caliesprimeisentimenti.Era forsedifficileilframet
tere le intonazioni necessarie alle vocali spontanee? come non era e non è
difficile il combinare il sen timento coll'esercizio delle sue facoltà ed
averne in risultato l'idea, cosi non gli fu difficile combinare e modificare le
vocali necessarie all'espressione del sen timento colle intonazioni,che potevano
contornarle e. precisarle alla esatta pittura della idea. Si forma un
nuovooggetto,unamacchina,p.e.mancailnome, l'espressione; che sifa, si combinano
due o più ter mini che esprimono gli elementi, e se ne forma un solo. Questo
esempio èsensibile,ma infinitiesempi simili si osservano, sebbene poco
considerati in tutte le lingue come nella greca, nella latina ed in tutte le
altre; come dunque in tutte le lingue per l’unione delle voci
radicalisiformarono le derivate;cosi nella lingua primitiva dalla unione delle
vocali e delle intonazioni analoghe si formarono le radicali. Ma come avrebbero
potuto trattenersi a memoria tante voci? come si trattengono a memoria ed
ilvocabolo nuova mente composto, e le voci derivate. L'oggetto che è
presenteallo spirito, gli elementi ed i loro nomi particolari, che si
conservano nella memoria, sono il mezzo di ricordare il vocabolo nuovamente
coniato; cosi le vocali che esprimonoi sentimenti dell'animoiquali sono
presenti allo spirito, le intonazioni corrispon denti all'operazione delle
facoltà,che ancor è presente allo spirito, sono il mezzo di ricordare la voce i
m piegata alla espressione di quel sentimento precisato, di quella idea; si
risovvenga che il linguaggio pri mitivo, per ipochissimi bisogni dell'uomo,per
ipochi rapporti cogli altri uomini, non si componeva che delle sole radicali, e
che le voci composte comincia rono ad accrescersi secondo crescevano e
s'intreccia vano ibisogni ed irapporti. Quindiper dimenticare il suono, che era
un prodotto naturale, bisognava di menticare l'idea;ciò che succede ad ogn'uomo
oggi. giorno. S'aggiunga a ciò, che quanto èpiù forle l'impres sione, quanto è
più vivo il sentimento, tanto è più energicà e pronunziata l'espressione ed il
suono vo cale; quanto più marcata è l'azione dello spirito sul
sentimento,tantoèpiùdecisa l'espressione delle in
tonazioniedelleconsonanti,equantoèpiù interes sante e distinta l'idea, tanto
più viva è l'espressione e la parola. Ciò è chiaro e ne ' selvaggi, ed in tutti
coloro che sono nell'impegno di trasmettere colle parole le loro idee ardenti e
staccale. La parola è la pit tura e l'immagine della idea; l'idea è l'immagine
dell'oggelto e l'espressione dello spirito; l'oggetto e lo spirito sono
l'espressione dell'assoluto; tanto è chiaro a sé lo spirito,e tanto luminoso
allo spirito l'ogget to, quant'è il grado di luce che comunica l'assoluto allo
spirito ed all'oggello: tanto è vivo il sentimento e distinta l'idea, quanto è
più chiaro a sé lo spirito e luminoso allo spirito l'oggello; tanto forte è il
suono vocale,ed energica l'intonazione, e precisa la parola quanto più vivo è
il sentimento e distinta l'idea. I sentimenti dell'uomo primiero, che nacque
adulto e non bambino, e tale dovea nascere, i prodotti del l'azione degli
oggetti esterni, la percezione del pro prio spirito,ed indi le sue idee furono
vivissimi, di stintissimi, ed al massimo grado di precisione, tanto per la
novità,quanto pel grado di luce, che la Divinità diffuse e nello spirito
dell'uomo di recente for mato e nella natura, che la prima volta espose al suo
sguardo; perciò forte, marcalo,ed espressivo dovette essere,ma semplice, e
concise il suolinguaggio,ciò si rende chiaro dalle indole della stessa lingua,
la quale,a giudizio de'più dotti filologi,può conside rarsi come l'esemplare di
tutte le altre: Schlegel in fatti la chiama la più sublime e la più energica, e
per la sua vibrata concisione, e per le vive e frequenti aspirazioni delle
voci, e lo stesso Audisio la dice di vina.Questa è la lingua ebraica, la quale
fu parlata da Adamo e Gli elementi dunque del linguaggio, che formano il
suo tipo originale,furono tutti dati all'uomo dalla natura, e l'uomo,che trovò
in se preparati e pronti questi ele menti, non fece altro che metterli in
opera, ed ebbe immediatamente il prodotto. Per questo tipo il lin guaggio è
mezzo di comunicazione e centro di rap porti fra tutti gli uomini; perchè in
tutti questo tipo è identico,tutti comunicano e fra loro s'intendono, restando
sempre separati per l'arbitrario: infatti il tipo naturale delle lingue è
insegnato es'impara dalla ragione, perchè in tutti gli uomini ella è uguale e
la stessa:e perchè tale, è in tutti gli uomini centro di unità e condizione
identica di comunicazione,per il mezzo degli apparecchi vocali, che sono uguali
e gli stessi in tutti; laddove l'arbitrario s'apprende per l'uso e per
abitudine, perchè introdotto dall'uso e dall'abitudine. Tuttociò come da lume,e
ci rende facilelaco noscenza della natura del linguaggio,cosi riceverà m a g
dai suoi discendenti, ed ebbe questo nome da Eber nella famiglia del quale si
conservò dietro la confusione delle lingue. Ciò fa conoscere l'errore che si
commelle nell'apprendimento delle lingue specialmente antiche,pel quale si
daono tante svariate e moltiplici regole e precetti di che si compongono le
grammatiche specialmente moderne, le quali, gravando la mente non fanno ap
prendere con facilità e perfezione la lingua. In qualunque lingua devesi
imparare colla ragione,cioè colle regole,ciò che è opera della natura e della
ragione, vale a dire,ilfondamento della lingua: la costruzione
perd,ilgenio,iterminidellalingua,leloro inflessioni, e la sua eleganza, essendo
un prodotto dello sviluppo ed esercizie delle facoltà, debboosi imparare
coll'uso. Occupa nel linguaggio il primo luogo quella voce che esprime
l'oggetto dell'idea che o è principio di azione o ne è il termine, o pure
qualche proprietà del medesimo oggetto; questa voce è stata detta nome; che
gior luce, e sarà confermato dall'analisi che ne fa remo. Il linguaggio è un
fatto il più noto ed il più generale;analizzandoquestofattosiconoscerà distin
tamente ciò che vi ha posto la natura, e ciò che vi è introdotto dalla
volontàdegli uomini. Tuttigliuo mini sono dotati di sensi pei quali ricevono
impres sioni dagli oggetti esterni e provano sensazioni; tutti hanno una
intelligenza dotata di facoltà, perlequali e possono trasformare i sentimenti
in idee, parago narle, e formare giudizi sopra le idee e gli oggetti
corrispondenti,e preparare in un giudizio la maleria di un altro,e da ciò che
ha conosciuto avanzarsi ad ulteriori conoscenze. Tutti possono cacciar fuori
una massa d'ariadaipulmoni,emettereinazioneglialtri organi vocali che servono a
modificarla, e come non per propria industria ha avuto l'uomo queste facoltà,
cosi non perpropria arte ha conseguito di poter par lare. Infatti prima di
formarsi o la grammatica, o la logica, ciascuna nazione ha ricevuto dalla
natura l'uso della favella e gli elementi necessari e presso tutti si
mili.Chiunquevuoleesprimerelesueidee,emani festare gl’interni giudizi in
qualunque siasiluogo,in qualunque lempo,di tante parti naturalmente fa uso, quante
sono necessarie ad esprimere le idee, ed i giu dizi con tutte le circostanze,
le particolarità, e la gra dazione di colorito e di luce. se esprime
l'oggetto si dice sostantivo, se indica la proprietà si chiama aggettivo, se
però si considerano in astratto, e come separate dai loro soggetti, rien trano
nella classe de'sostantivi come bianchezza, tar ghezza,solidità,ecc.È però da
riflettere,chegliog getticheagiscono sopraisensi,edicuilospiritopuò formarsi
idee sono di un numero incalcolabile;ildare ad ognuno di essi un nome sarebbe
stata una impresa non che difficilissima, ma si bene impossibile;l'uomo ha
superato tale difficoltà,con applicare lo stesso nome a tutti quegli oggetti
che presentano le medesime pro prietà; si è dato il nome di albero a ciò che
hanno d'identico quegli oggelti che sorgono da una radice, che son nutriti
dalla terra, che hanno tronco, rami, foglie ecc., quindi tutti i nomi esprimono
idee gene rali di classe, di genere, dispecie,tranne quei nomi che disegnano un
solo individuo come Pietro, Paolo ecc., i quali si dicono nomi propri a
differenza dei primi che si chiamano appellativi. Ma dicendosialbero, uomo, non
si saprebbe di qual albero,di qual uomo volesse parlarsi;la natura ha suggerito
un altro mezzo onde togliersi questa per plessità, qual'è ilpronome, il quale è
una parola che rappresenta determinatamente il nome dell'oggetto, ed ha nello
stesso tempo il vantaggio di escludere le frequenti ripetizioni dello stesso
nome.Il pronome ė anch'esso generalissimo, potendosi applicare ad oggetti
diversissimi e ad ognuno di essi secondo le circo stanze.Indica in prima la
persona che parla io;la persona a cui si parla, tu; e quella di cui si
parla quello, questo, colui ecc.; attribuisce ancora la pro prietà alla
cosa designata, come tuo, nostro; indica similmente le relazioni degli oggetti
con altri di cui si:forma giudizio, come, il quale, le quali,e nota in fine la presenza,
la vicinanza o la lontananza dell'oggetto designato, come questo, quello,
colui. Vi sono altre circostanze ed altre relazioni che pos sono avere gli
oggetti, e che il linguaggio con precisione esprime; quindi il nome tanto
sostantivo c h e aggettivo ha numeri, generi, e casi. Il numero indica se
l’oggetto è uno, o più di uno; il genere propriamente determina i sessi, o
l'analogia che hanno coi sessi; i casi esprimono le diverse relazioni che un
oggetto ha con altri, designate con certe particelle che si premettono ai nomi,tali
sono isegnacasi come il, del, al ecc. come nelle lingue moderne;o da certe
infles sioninellesillabefinalidello stessonome,comepater, patris, patriecc.,yxws,4x8,qxw
ecc.,nellelingue an tiche per la più parte. Il nominativo indica o semplicemente
la cosa che è, o pure che agisce. Il genitivo esprime il possessore; il dativo
la persona o la cosa a cui si reca utile,danno,o qualunque altra attribuzione;
l'accusativo la cosa su cui passa o cade l'azione; il vocativo mostra l'oggetto
a cui si diri gono le parole; l'ablativo finalmente che si trova in molte
lingue, serve ad esprimere tutte quelle altre p o sizioni che non si potevano
commodamente espressare cogli altri casi. Un oggetto può solamente esistere,può
essere in azione, e può ricevere in sè l'azione di un altro; era perciò
necessaria una voce che esprimesse questi stali;questa voce è detta
particolarmente verbo, il quale esprime ciò che è di più essenziale nel
discorso, cioè o l'esistenza, o l'azione, o la passione coi progressi del
tempo, e le circostanze delle cose, e contiene in sè un completo giudizio
intorno alla natura delle cose medesime.Essoindicailtempo dell'esistenza,del
l'azione e della passione e le sue gradazioni, cioè il
presente,ilpassatoel'avvenire;ammette anche imodi, l'indicativo che esprime
lacosa assolutamente; l'imperativo che chiede o comanda, il soggiuntivo che
esprime il giudizio sotto la condizione o la subordinazione di qualche cosa a
cui si riferisce. Esso finalmente ha numeri e persone. È
prossimol'avverbiochesiuniscetantoainomi quanto ai verbi, e serve a determinare
il particolar luogo,modo,e grado o ad una cosa,oall'esistenza, o all'azione, o
alla passione; esso ha una vastissima estensione sul riguardo che può
modificare le circo stanze della cosa o esistente o in azione,ed è una maniera
abbreviata di espressione come hic qui vale in questo luogo ecc. Il verbo
in ogni lingua genera un'altra voce, che vien detto participio, in quanto serba
la significazione del verbo da cui ha origine, ed acquista insieme la forma del
nome,con che un giudizio viene incluso in un altro, e richiama con un sol segno
alla m e moriaciòcheèstatodetto,osisuppone conosciuto, con designare nello
stesso mentre la persona, il n u mero, l'azione ed il tempo,come amans amante,
co luicheama,amava,oamando. Sebbene sembra che queste parti avessero
potuto bastare ad esprimere inostri pensieri, purnondimeno affinchè il
linguaggio riuscisse a copiare perfettamente i nostri interni sentimenti con
supplire all'espressione degli accidenti e de'siti lasciati e non indicati
dalle parti antecedenti, si sono aggiunte altre voci di gran dissimo uso,che si
dicono preposizioni come super so pra, circum intorno; alcune altre che
servissero a se parare o a congiungere le idee secondo il bisogno, tali sono le
congiuntive e le disgiuntive come et e, aut o,ecc. Altreinfine,chesebbenenon
abbiano segnatamente attaccata alcuna idea,indicano però i movimenti del nostro
animo, che le facoltà non hanno potuto, a causa della loro istantaneità
analizzare e sviluppare in idee, e che possono considerarsi come l'espressioni
naturali dell'uomo affetto di dolore o di piacere, o di qualunque altra forte e
subitanea affezione heu, oimè ecc.Quindi colla frequente ricorrenza, e colla
combinazione di otto voci riusciamo ad immettere nel l'animo altrui le nostre
idee, i nostri giudizi, e le nostre affezioni con tutte le loro particolarità,
cioè l'oggetto del nostropensiero,lesue proprietà,igradi delle medesime
proprietà,tuttigliaggiunti, l'esisten za, l'azione, la passione con i loro
rispetlivi tempi, modi e numero degli agenti o pazienti; gli ordini delle cose
adiacenti nella natura, la loro successione nell'animo, il graduato calore
degli affetti.Di queste parti alcune sono invariabili e sempre le stesse nella
loro espressione; altre sono soggette a certi cambia menti,
tuttavia però nello stesso cambiamento serbano una certa costanza, la quale
forma il principio e la natura della grammatica delle lingue. Tutte queste
parti,che devono riguardarsi come il fondamento del linguaggio, si trovano in
tutte le lingue si antiche che moderne;in esse si scorge l'o pera della natura
sempre stabile e costante in mezzo alle incalcolabili varietà che subiscono le
lingue;tutto ciò che cangia è opera dell'uomo, ciò che è costante
èl'effettodiuna causa superiore,laqualecomeman tiene costantemente nell'uomo
gli organi e le facoltà, conserva egualmente le parti essenziali del
linguaggio. Non è però lo stesso nelle lingue ciò che è opera del l’uomo;
questa viene modificata da varie circostanze, tali sono il genere di vita, i
temperamenti diversi, la religione, il costume, la temperatura dell'aere, la
qualità de' luoghi, le gradazioni di sviluppo e tante altre,che,come
influiscono sopra la maniera di pen sare, influiscono nella maniera di
esprimersi, da ciò ladiversitàdellelingue.Sidissepiùsopra cheisuoni vocali sono
l'espressione della sensibilità,e le into nazioni,e i consonanti il prodotto
delle facoltà dello spirito; la sensibilità ed i prodotti diessa sono quasi
simili in tutti gli uomini, perchè in tutti esistono gli stessi sensietutti
sono capaci di piacereedidolore; iprodotti però delle facoltà libere dello
spirito variano esimodificano diversamenteintuttigliuomini;onde è che possono
darsi alla stessa voce varie intonazioni, cioè possono i suoni vocali essere
combinati con di verse e varie intonazioni, d'onde risulta la diversità delle
voci articolate e la moltiplicità delle parole. Ma la stessa temperatura
dell'aria, la medesima educa zione, la religione, lo stesso suolo, i medesimi
co stumi come influiscono nell'esercizio e sviluppo delle facoltà,influiscono
cosi nello stesso modo d'intonare, perciò la stessa lingua presso lo stesso
popolo,ed in questo più o meno perfetta, più o meno elegante,più o meno estesa
a seconda lo sviluppo e la collura degli individui dello stesso popolo,della
medesima nazione. Oltrediqueste cagioni intrinseche,avvene un'altra estrinseca
che produce la varietà delle lingue, vale a dire la mistione di altre lingue, e
da questa mistione hanno origine altre lingue che sorgono nuove. Tale sappiamo
l'origine di tutte quelle lingue, e di quei popoli fin dove si estende
l'istruzione dataci dalla sto ria, e con particolarità di quelle a noi più
vicine e le piùfamose,come lagreca,elalatina;tanto l'una che l'altraebbero
origine frai pirati e masnadieri, e crebbero sotto ibarbari. i Fenici, i Frigi,
i Macedoni, gli Illirici, i Galati, gli Sciti,e l'eventuale concorso degli
errabondi, e degli esuli diedero origine alla greca nazione,e furono i primi
legislatoridella lingua.Gli Umbri, i Galli, gli Etruschi, i Sabini, i Campani,
i Sanniti diedero origine alla LOQUELA DEL LAZIO O LATINA, ognuno de' quali da
parte sua,introducendoi propri termini,elapro pria maniera d'inflettere,
concorse alla formazione di una nuova lingua non prima parlata, che fu il pro
dotto di vari e diversi dialetti, quale indi,le vicende delle
nazioni,ilprogresso nelle arti,nellescienze,e nella civilizzazione portarono a
quello stato di perfe zione che tanto in esse ammiriamo. L'opera
dell'uomo non è mai stabile,come l'uomo stesso; ha egli la sua nascita, la
puerizia, l'adolo scenza,lavirilità,la decrepitezza,efinalmente muore per
rinascere la materia sua corporea sotto di altre forme; cosi è delle lingue:
infatti dalla Greca nacquero altre lingue;e di sotto le rovine dell'impero e
della lingua del Lazio sorsero l'italiana, la francese, e la spagnuola.Ma
perquantigradivisipervenne?quante mutazioni,e quante vicissitudini non
bisognarono su bire prima di arrivare al grado di perfezione in cui
sonoalpresente?Variecauseviconcorseroesicom binarono; gli improvisi eventi
degli affari politici, il sito, l'amenità de' luoghi, l'asprezza delle
contrade, l'aspetto più o meno ridente di un altro cielo,la lem peratura
diversa dell'aria, lalontananzaolavicinanza de'mari,delle selve,de'monti, la
diversa indole degli uomini che si unirono, le forme diverse di governo e di
religione, la coltura delle arti, e delle scienze, egualmente che i vari
dialetti che si resero familiari per lafrequenza de'negozi diedero all'antico
linguag gio forme affatto diverse. Cacciati gli Ismaeliti da tutta
l'Europa,ove aveano per qualchetempofattodimora,restòl'articoloarabo,
checominciòaprefiggersiainomi;quindinonsicu rarono le desinenze de'suoni
finali, l'introduzione di questo articolo fu la cagione primaria del mutamento dellalingua
liberaepittricedelLazio nellelinguem o derne servili. Abbandonando gli Arabi la
Gallia m e ridionale, la Spagna, le coste di Salerno e della Italia
meridionale, lasciarono tuttavia la desinenza de'versi
puerile,senon vogliam dire,sonante.Non possiam però negare che dobbiamo
loro le brevissime note dei numeri, i calcoli algebrici, vari nomi di
astronomia e stromenti di gnomonica, con alcune notizie di bo tanica e di
medicina. Vari nomi di fioried erbe, in cogniti ai nostri, furono recati
dall'oriente dai cro cigeri; intanto le arti e le scienze che 'mano mano
siavanzavano,lenuove scoperlechesifacevano,ap portavano nuovi soccorsi e nuovi
nomi alle lingue. Varie maniere di costruire addussero prre gli inglesi ed i
francesi nell'italiano linguaggio,e varie pure di
questoneintrodusseronelloro;cosisiaggiunse sem pre novità a novità, varie leggi
di costruire, diverse maniere d'inflettere, originate in prima dalla negli
genza della pronunzia, anche molto spesso tronca vansi non che le lettere, ma
ben anco le intere sillabe: dal che ne avvenne che gli uomini domiciliati nello
stesso suolo, degenti sotto lo stesso cielo,e sotto la stessa forma di governo
cominciarono per effetto d'imitazione a adottare comunemente tal forma di
pronunziare, che coll'andar del tempo divenneunuso, una legge. La natura ha
sempre prodotto degli uomini di genio, i quali e per la finezza del giudizio, e
per la vivacità della immaginazione si sollevarono sopra degli altri; ciò che
dal volgo era enunciato di una maniera bassa e triviale, da quelli profferivasi
con scelta, con dignità ed eleganza;furonoessiimitati perchè piace vano, e cosi
discesero e si propagarono nel volgo le maniere più dignitose e più culte di
espressioni, gli ornamenti della lingua cominciarono a mostrarsi in tutto
il loro splendore; si cercò d'imitare ipoeti, gli oratori, e si seguirono ne'
loro vari stili. Questa fatica e questo diletto che prima s'ignorava in mezzo
al fragore ed allo strepito delle armi, e fra gli in commodi de viaggi e delle
emigrazioni, cominciò a seguirsi, a perfezionarsi dai filosofi nel libero ozio
delle lettere, nel calmo silenzio della meditazione, nella tranquilla diligenza
di scrivere. Cosi il linguaggio dapprima rozzo ed incolto per la tanta
confluenza delle discordi locuzioni, cominciò a tingersi dello stesso colore,a
vestirsi della stessa for ma,amostrarsiunasolalingua,chesottolalima degli
uomini di genio e degli eruditi apparve finita e perfetta; ove isuoni
sembravano aspri,furono con sultate le orecchie, si adottarono sillabe più
scorre voli e sonanti; ciò che pareva meno adatto ad espri mere una cosa si
corresse e si rese più preciso. Da ciò chiaro appare che ogni lingua ha le sue
parti essenziali esprimenti le idee ed i giudizi del nostro spirito, cioè i
suoni articolati secondo idiversi offici che ognuna,nella espressione de'nostri
pensieri,deve adempiere, edinciòconsisteil fondamento della lin gua che è opera
della natura. Avvi un modo parti colare di costruzione e di combinazione di
queste parti, una diversità di suoni e d'inflessioni che costituisce la
differenza delle lingue, ed il diverso loro genio, e ciò dipende dall'opera
degli uomini e dalle circostanze nelle quali si trovano.Ha finalmente ciascuna
lingua de celebri scrittori,de'grandi parlatori,che altri Il primo
carattere della lingua, cioè il fondamento, forma l'oggettodioccupazione della
filosofia,laquale ricerca ciò che avvi di naturale nelle lingue; il se condo
appartiene ai grammalici, che si occupano delle forme e della proprietà delle
stesselingue; il terzo si tratta dai retori che ne considerano l'eleganza, lo
stile e gli ornamenti. La prima svolge gli elementi naturali e sempre costanti
del linguaggio,la loro unione relativa all'ordine, alla successione, ai
tempi,ed alle circostanze delle idee e de' pensieri che si succedono nel nostro
spirito, ed a questo riguardo illinguaggio è una pittura fedele delle nostre
idee;questi elementi, che sogliono chiamarsi parti del discorso,si ritrovano
identici in ogni lingua.La seconda riguarda la varia desinenza de' suoni, la
loro inflessione, il modo di verso di costruire i medesimi suoni; questa varia
se condo le diverse lingue, o piuttosto forma la varietà delle lingue, perchè
essa è opera dell'uomo non mica della natura. La terza rintraccia l'ornamento
delle lingue,l'uso dellefigure,ele maniere vezzose,eper cosi dire voluttuose
delle medesime; essa è il risul tato della coltura e del genio. Egli è verocheunuomo,ilqualeèdotatodi
organi sani che funzionano normalmente,e di un'anima ragionevole, può formarsi
idee degli oggetti che agi scono sopraimedesimi organi, può imprimere lei dee
nella memoria, può richiamarle quando l'esige il bi proccurano e si
studiano d'imitare; in essi trovasi e deve
ricercarsilaproprietàdellalingua,perchèessila recarono allo stato di perfezione
e di pulitezza. sogno,può riflettereedastrarre,tuttaviasenzaillin guaggio
la nostra condizione sarebbe troppo degradata; e quantunque i bisogni comuni ed
i vantaggi della vita avvicinassero gli uomini e li mantenessero fra loro
uniti, purnondimeno, senza la facoltà di manifestarci scambievolmente gli
interni sentimenti e le idee, le società reslerebbero stazionarie'ó molto
imperfette. Potrebbero i gesti in certo modo esserci utili,essendo
l'espressione energica della natura:ma di qual aiuto sarebbero in distanza o
nelle tenebre? come potreb bero indicare le cose passate ed a lungo intervallo
da noi? in qual maniera esprimerebbero tante varie m o dificazioni si
dell'animo nostro, quanto degli esseri fuori di noi con tutte le gradazioni
delle varie loro tinte e colori, con quella esattezza e precisione con cui sono
espressedaisuoni articolati?igestinon po trebbero mai indicare inostri interni
sentimenti,iloro gradi d'intensità, e certe oscure e delicate affezioni di cui
l'animo è affetto. È opera del linguaggio ar ticolato il delineare e pingere
con esattezza,con precisione e nella sua totale adequatezza tutto ciò che
sentiamo,che sperimentiamo e che vogliamo trasmet tere nell'altrui animo;esso
analizza e scompone nelle sue parti i sentimenti, e dà ad ognuna di esse un
segno preciso. Egli è vero che noi possiamo avere idee sensibili degl’oggetti
esterni,elepossiamo trattenere a memoria senza l'uso de' segni, che anzi non
può prodursi un segno prima di averne formato l'idea che deve attacarsi a
questo segno.Ma tante idee sono di tal carattere, che tosto formate
sparirebbero senza al taccarle al segno che le rende permanenti, e noi sa
remmo nella dura fatica di sempre formarle di nuovo, talisono per la più parte le
idee complesse necessarie, intellettuali, e tutte le nozioni astralte di
virtù,vizio, giustizia, bellezza, deformità, differenza, uguaglianza. Senza
l'uso delle parole le scienze non avrebbero p o tulo avere esistenza;poichè non
avvi scienza pura mente empirica,cioè,che non abbia principi generali:
l'individuale,essendo mutabile,non avendo necessità, non può esser base e
fondamento di scienza; or le nozionigenerali,iprincipi necessari non avrebbero
potuto aver permanenza nello spirito senza i segni; i segni li rendono stabili
e pronti all'uso,ed isegni hanno servito d'occasione alla loro formazione, a
tanti ritrovati,a tante ricerche:leparoleperchè?come? onde?da
chi?quando?essenza,relazione,causa,at tributo sono fonti fecondi onde lo
spirito possa met tersi in movimento e scoprire delle nuove vedute. Tutte le
scienze sono nate,si sono accresciute ed hanno acquistato quel grado di
estensioneediperfezione in cui le troviamo per aver ricercato ilperchè ed
ilcome di un effetto, e tutti i passi e le idee, cominciando dal perchè e dal
come sino all'ultimo risultato,sono state segnate dalle parole e
permanentemente registrate nel linguaggio. Tante riflessioni potrebbero addursi
intorno all'in fluenza del linguaggio sopra le idee ed il perfeziona mento
delle nostre facoltà; ma non volendo esagerare nė deprimere i vantaggi dello
stesso linguaggio ci li mitiamo a ciò che è della massima
importanza. Quasi tutte le operazioni riflesse del nostro spirito
sonocomplesseerisultanodavarielementi;ma questi elementi sono cosi connessi
nella unità del sentimento, che sembranoessereunsoloesempliceelemento;vero è
che l'altività dell'analisi,penetrando nel seno dello stesso sentimento,ne
distingue glielementi confusi;ma questa distinzionenon sarebbe
permanente,durevole, e lucida senza il linguaggio e le parole, ognuna delle
quali disegna ciascuno degli elementi distinti,non che i rapporti che si
scovrono fra essi elementi. Un sol fatto sembra la sensazione, il giudizio, il
raziocinio: l'analisi li decompone, ed il linguaggio nola e dise gna ciascuna
parte della decomposizione, e presenta successivamente e distintamente il
tutto;onde volen dosi replicare e riconoscere l'operazione, basta repli care e
ripetere le parole. Il linguaggio in generale deve considerarsi come il più
possente aiuto della memoria, anzi esso costituisce una memoria artificiale. In
vero, lo sviluppo e la coltura dell'uomo non con siste precisamente nella
prontezza ed esaltezza del giu dicare, nella sola faciltà di ragionare,ma nella
pron tezza di aver nuovamente le idee, le operazioni pas sate che possono
servire al bisogno presente;per ri produrre con prontezza le idee è necessario
che fos sero nette e scolpite, e tali si rendono per il linguag
gio;illinguaggio,agevolando lamemoria,contribuisce moltissimo allo sviluppo ed
alla coltura dell'uomo; infatti sono in ragione direttalacivilizzazionede'po
poli, e la perfezione del linguaggio. Le paroledelle quali si compone
illinguaggio non sono che suoni articolati: esse per questo riguardo sono
oggetto proprio ad agire sopra il senso dell'u dito, e produrre modificazioni
ed idee nello spirito, i suoni articolati considerati in se stessi nulla espri
mono, sollanto producono sensazioni, modificano a loro modo lo spirito, e tante
sono le modificazioni quanti sono i suoni articolati che agiscono sopra l'u
dito: di tutte queste modificazioni e di queste idee lo spirito ne ha
coscienza, e ne ha memoria.Noi sap piamo che l'esperienza diviene più
tenace,più solida, più infallibile quando è comparata: infatti acquistiamo le idee
precise ed esatte delle distanze, quando si c o m bina l'esperienza della vista
con quella del tatto. Or ogni idea di qualunque natura ella sia, a qualunque
classe essa appartenga è una esperienza, è un sentimento distinto che si
deposita nella memoria;intanto questa idea,questa interna esperienza non riceve
l’ul tima perfezione, l'ultima mano d'opera, siccome non si figge nella memoria
onde possa a piacere richia marsi, che allorquando si combina colla esperienza
dell'udito, colsuono articolato,quando all'idea, che abbiamo attualmente nello
spirito e nella coscienza, si attacca la modificazione che produce il suono articolato;
questo suono tanto per essere giudicato iden tico alla idea a cui si attacca,
quanto per essere si multaneamente presente allo spirito, diviene rappre
sentativo dell'idea,come l'idealodiviene del suono, e fa sì che l'idea sia
compresa tulta e ristretta dentro la capacità e la periferia del suono,ed
acquista m a g giore sensibilità per la sensibilità del suono in cui è
ristretta ed a cui è attaccata, e cosi riceve l'ultimo contornamento,
l'ultima precisione e finitura. Cosi le parole cielo, mare, monte, temperanza,giustizia
ecc. Questo vantaggio è comune a tutte le idee ed in questo influisce più
potentemente il linguaggio sopra le idee. Ciò è chiaro non solo nelle idee
sensibili, ma ancora nelle intellettuali, nelle necessarie, siano sem
plici,siano complesse,e con particolarità nelle idee de' numeri, e nelle idee
universali. Il numero non è che l'aggregato di molte unità omogenee; esso si
forma col ripetere ed aggiungere l'unità a sè stessa. Noi non possiamo, sotto
il m e desimo atto di conoscenza,abbracciare più di quattro ocinqueunità
insieme;ma illimitede'numeri non si arresta al quattro o al cinque, esso è indefinito.
Supponghiamo di avere coll'idea il termine dell'unità ed il segno
dell'addizione, cioè uno e più, e proce dendo progressivamente uno più uno più
uno più uno, ciascuna di queste addizioni, ed indi il numero che ne
risulterebbe sarebbe cosi confuso che noi non po tremmo affallo determinarlo,e
molto meno potremmo formarne idea onde poterla distinguere da un'altra; come
infattipotremmo senza isegni avere l'idea 2000 e distinguerla da 1999? in
questi numeri come ogni parola si affigge ad ogni passo della progressione,la
parola ne determina e precisa il numero e l'idea, e per mezzo de' segni noi
distinguiamo l'una dall'al tra, e le mettiamo in combinazione ed in rapporto,
ene formiamo la scienza; queste scienze dunque, la necessità e l'utile che ne
deriva si devono al linguaggio. Le idee generali nonhannoalcunmodellonellana
tura a cui corrispondano, ma sono il prodotto della azione dello spirito sopra
le idee individue. Noi non possiamo numerare tutti gli oggetti della natura,
che sono o possono essere in rapporto con noi, perchè non possiamo tutti colle
loro differenze e proprietà trattenerli nella memoria, e riprodurli
distintamente quando vogliamo, per la stessa ragione non possiamo dare ad
ognuno un nome proprio, essendo essi di un numero indefinito; questa impresa è
superiore alle nostre forze. Ma lo spirito dell'uomo, che ha nella sua
attivitàdellepotentirisorse,paragonandogliog getti, ed interponendo fra essi la
identica sua cogni zione, conosce ciò che l'uno è all'altro, e questi ad un
altro,ecosidiseguito,evedendolesomiglianzee le analogie da una parte, e le
differenze e dissomi glianze dall'altra, per effetto della sua identica ve duta
ed indivisa interposizione fra questi oggetti e le loro qualità, riunisce
quanto in essi trova d'identico, l'astrae da ciò che li diversifica, ne forma
una concezione di tal natura che tutti gli contiene e li rappresenta; tale
concezione non è che una veduta reale dellospirito,ma
chenonhaalcunarealtànellanatura; essa è più o meno estesa nellasua
compreensione, d'on de nascono le idee generali di specie, generi, classi,
ordini, famiglie. Or tali idee, non avendo originale nella natura, perchè
semplici vedute dello spirito,senza un segno che le rappresenta svanirebbero,
nè potreb bero aversipresenti al bisogno; laddove laparola rende permanente
l'idea generale, tutta, per cosi dire, la chjude nel suo ambito, e rappresentando
tutta l'idea generale, rappresenta tuttele idee identiche contratle in un solo
gruppo, ed identificate in una sola idea, a questo riguardo ogni termine
generale è l'espres sione concisa di un completo e perfelto metodo; poiché
contiene ed esprime confronti, giudizi, astrazioni e maniere di generalizzare;
e siccome il termine gene rale si considera come unico e semplice in sè stesso,
cosi circoscrive e fissa i limiti della idea,eledà l'ul timo grado di
precisione. Le parole adunque non solo associano le idee in dividuali in un
modo indipendente dall'ordine di acquisizione, onde
poterleconfaciltàrichiamare,ma sono ancora necessarie per fissare
irapportide'con fronti, i termini de' giudizi, per dividere gli oggelti della
natura e le loro proprietà, per astrarre, per g e neralizzare,e per rendere
facile in fine le scienze tutte. Ogni idea dunque ha bisogno di una parola che
la rappresenti; se è concreta per renderla indipendente dalla sua sensazione,e
per tenere raccolte in una m a niera permanente tutte le idee semplici di cui
si compone, e per richiamarla tosto alla memoria: se è astratta per tenere
riunite in un solo gruppo le idee astratte di cui è composta, e formarne un
modello distinto e durevole nella memoria. Il vantaggio però più generale e
proprio del lin guaggio si è quello, per cui tutti gli uomini mettono in comunicazione
tutteleloro idee,iloro sentimenti, ilorobisogni ed imutui soccorsi;poichè
essendo co muni i segni che l'indicano, ne segue che colui che ascolta
esegue le stesse operazioni interne di colui che parla,cioèeccitainsè,edunisce
successivamente nel suo spirito quelle idee che si sono eccitate successi
vamente in colui che parla,con questa sola differenza, che questi analizza il
proprio pensiero ed attacca ad ogni elementoun termine,laddovequello
sintesizza, riunendo cioè le idee con quell'ordine con cui ven gono
indicatedalleparole.Questo vantaggioperònon ha egualmente in tuttiilsuo pieno
effetto, perchè le parole presso tutti non hanno lo stesso grado di pro prietà,
di precisione e di analogia, quindi variano i modi d'intendersi come variano i
mezzi di comuni carsi. L'influenza del linguaggio su questo rapporto è di una
utilità indefinita,poichè,colla comunicazione delle idee e de sentimenti, lega
fra loro gli uomini, e consolidà le basi della umana società. Coltivato e
diretto dall'arte, applicato ai vari oggetti si trasforma e veste vario
stile;ma ciòmerita l'attenzionede're tori, e degli oratori. Sebbene
igeroglifici,lecifrealgebriche,isegni te legrafici, gli emblemi ed altri segni
convenzionali pos sano rappresentare le nostre idee,tuttavia il sistema de'
suoni articolati è da preferirsi a qualunque altro mezzo di espressione, tanto
per la facilità, pel numero, quanto perché può adattarsi a tutti i luoghi, a
tutti i tempi, ed a tutte le circostanze per la portentosa varietà
dell'articolazione ed inflessione de' suoni. La scrittura èunaespressionedellinguaggiocome
questo laèdelleidee;essaperciòèsempre relativaedinra gione diretta del
linguaggio, talchè la perfezione di quella dipende dalla perfezione di questo;
poiché,come laparolarappresental'idea,lascrillurarappresenta le parole. l'autore
non ebbe più tempo a pubblicarla, sì che restò inedita con l'altro trattato
teologico su'sacramenti. La dottrina intanto di que st'altra opera che titolava
Organo dello scibile umano o Lo gica, scritta forse più che quindici anni fa, è
sempre con forme al sistema dell'autore, e benchè sembri non uscir dalle vie
segnate alla logica da Aristotile e dagli scolastici, trovi tuttavia nell'Introduzione
quanto oggi si richiede da un trat tato di logica che non voglia la nota di
logica formale, sic come si dice. La logica, vi è scritto, ha la sua derivazione
dal greco “lógos” che in latino si traduce “verbum,” cioè parola, discorso, perchè
essa nella sua essenza non è che l'atto vivo che prorompe dalla virtù
ragionevole « dello spirito umano, che colla sua unità abbraccia e trascorre
dalla potenza dalla quale emana all'obbietto che lo fa nascere; essa primamente
distingue ed unisce questi « due termini, i quali possono considerarsi come due
sil « labe fondamentali che connette l'atto logico, e risulta la parola feconda
è che senza dividersi in sè si protende, abbraccia, e s'interpone fra tutti gli
esseri che esistono e « che possono esistere; ne conosce i rapporti e le
relazioni, li distingue e li riunisce in un sistema vastissimo e comprensivo.
Questa forza logica ripassa sopra la fecondità a dell'atto creatore e
conservatore della Causa prima, il quale senza scindersi produce la immensa
varietà degli esseri e li coordina in un sistema portentoso; lo riflette e lo
riverbera in sè, e per le relazioni che tra essi scorge li rias ime in unico
sistema cosmico. Questa forza che si annunzia nella parola vivente ed operosa,
con la penetrante Questo m s. porta il titolo: Elementi di Filosofia
fondamentale. Organodelloscibileumano, o Logicadel P.Benedetto D'Acquisto da
Monreale professore di Diritto Naturale e di Etica nella R. Università degli
studj di Palermo.Consta di quaderni 6,tutto di mano dell'autore,e disposto per
la stampa: oggi è presso i fratelli Matteo e Filippo L o rico di
Monreale,nipoti del D'Acquisto,insieme all'altro ms. su’Sacramenti, di carte, e
contenente 18 capitoli. sua luce scorta e dirige le operazioni delle altre
facoltà dello spirito al trovamento del vero che è l'obbietto natu « rale della
intelligenza dello spirito; e trovatolo dà il modo onde poterlo
convenientemente mostrarlo agli altri ». Così il nostro filosofo dà a
fondamento della logica formale una logica che oggi è detta reale, e all'arte
logicale prepone la scienza del pensiero.Ilquale appunto secondo che congiunge
diversi estremi piglia nell'esercizio logico diversi stati o gradi progressivi
come son detti dall'autore. Chè, « il primo grado « si trova, ci dice il nostro,
nella nascita dell'atto logico e « nel primo è radicale, nel quale esiste la
potenza, l'oggetto e l'atto, il quale separando nel primo istante la potenza «
dall'oggetto, congiunge indi l'uno all'altra ed emerge l'è, a prima parola
logica che esprime la nascita dell'individuo « umano; il quale è ciò ch'egli
è,ma sebbene è ciò che è, non dice però sono; allora dice sono, quando intende
il SIGNIFICATO (SEGNATO) della parola vivente è: e ciò succede in virtù del «
secondo atto, il quale comprende ed abbraccia il primo, che coll'interporsi
distingue la potenza e l'oggetto contenuti « cell’atto,e dice sono;ciò che
costituisce il secondo sviluppo « logico; il quale forma il piano generale in
cui la potenza « conoscendo ed affermando sè stessa, conosce in sè ed af «
ferma tutte le modificazioni ed in esse tutti gli oggetti m o « dificanti,
pe'quali la potenza si manifesta in diverse guise. « L'atto logico adunque s'interpone
tra le sostanze degli oggetti, le distingue e le congiunge, ed il risultato è l'idea
generale dell' essere; terzosviluppo. L'atto logicos'interpone tra l’essere ed
il suo modo, li distingue e li congiunge; ed il resultato è l'oggetto qualificato.
L'atto logico s'interpone tra la qualità di un oggetto e quella di un altro, le
di stingue e le congiunge, ed il resultato è l'idea specifica « della qualità.
L'atto logico s'interpone tra l'azione di un essere e quella di un altro, le
distingue e le congiunge, e il resultato è l'idea di causalità.Infine, l'atto
logico s'interpone tra tutti questi resultati dello sviluppo graduato dello
stesso atto logico,ed il resultato è l'idea comprensiva del sistema. L'alto
logico adunque ha una capacità univer- « sale ed una forza comprensiva che si
estende ed abbraccia tuttociò che è. L'atto di ogni facoltà si limita alla
individualità; l'atto logico trapassa la individualità, e si eleva alla massima
generalità. Ho voluto riferire, o Signori, questo lungo passo, si perchè è già
di un'opera inedita, e sì perchè si abbia come il nostro appuntava nelle
altissime ra gioni della scienza quella che comunemente si crede non e s sere
che solo disciplina pratica, e spesso vanamente sottile, del discorso umano. È
sempre, intanto, la stessa dottrina che va ripetuta per più capi, e che si ha
spiegata poi in tutta la sua sintesi stupenda nel Sistema della Scienza
Universale. Nella quale opera il D'Acquisto ha lasciato un bel monumento,come
al trove ebbi a dire, della filosofia in Sicilia a metà del secolo XIX. Questo
sistema della scienza universale ha il suo perno nell'atto infinito che
sostiene come creativo, conserva tore e imperativo, l'universale ordine delle
cose, in cui l'au tore trova che tutto è vita, tutto forza e movimento di un'immensa
armonia ($ 544);tanto che esso sistema è lo specchio di tanta universale
armonia, metafisica, fisica, m o rale,naturale esovrannaturale,laquale ha
principio nelDio che concepisce, produce e accorda il concetto e il prodotto
della creazione primaria e secondaria, e ha termine nel Dio della rivelazione,
della grazia e della redenzione. Vero è che il nostro filosofo, fedele al suo
metodo, non va sulle prime alle alte regioni della ontologia; ma è vero
eziandio che non si chiude mai, secondo l'uso de'psicologi, negli stretti
limiti della psicologia e della ideologia: e però il suo libro dà un vero
sistema comprensivo delle universali ragioni della Ved. il nostro libretto
Sullo stato attuale e su'bisogni degli studi filosofici in Sicilia, p. 52 e
segg. Palermo. Saprà bene il lettore che il Contı, nella sua lettera al pro
fessorNaville sulla filosofia contemporanea in Italia (ved.Appendice alla Storia
della Filosof.), poneilD'Acquistotra’seguaci del metodo comprensivo scienza,
esposto seccamente e quasi con metodo geometrico, ma sempre con la medesima
profondità di speculazione e logico rigore. Che se poi quest'opera del nostro
senta forse più che altra dell'odore delle dottrine del Miceli, basta ri
cordare l'occasione sopra notata ond'essa nacque, perchè si abbia pronta
spiegazione delle molte reminiscenze miceliane che occorrono frequenti al
lettore. In quanto adunque a n a tura della nostra cognizione e a quel che in
essa si accolga e scopra la riflessione, il sistema ripete le dottrine stesse e
l'analisi minuta che si hanno nella Psicologia, nel Saggio sulla legge
fondamentale del commercio tra l'anima e il corpo dell'uomo, e nella Ideologia;
m a per quel che concerne la ontologia, qui si ha tutta la teorica
compiutadella creazione e dell'ordinamento idealo e reale, metafisico, fisico e
morale delle cose, con le « investigazioni altissime dell'umano sa pere »:
tanto da chiamare appunto per questa ragione Si stema della Scienza Universale
il sistema di cui l'autore non tirava, a suo dire, che brevi linee, ma
cosiffatte « da som « ministrare dal punto supremo della sua altezza le vedute
« anticipate indicanti i nessi essenziali e le vere tendenze « della scienza,che
poi illavoro dello spirito umano potrebbe “condurre ad effetto.” L'ideale e il
reale vanno iBenedetto D’Acquisto. D’Acquisto. Acquisto. Refs: Luigi Speranza,
“Grice ed Acquisto” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria.
Grice ed Acri – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Catanzaro). Filosofo italiano. Grice: “Acri has
explored quite a few topics – all in the good Lit. Hum. Oxon. tradition – and
since he tutored at an even older varsity, kudos! He has explored ‘Amore’ and
he expands on the Athenian dialettica – he in fact distinguishes between turbo
and sereno – He left his notes on sereno as an unpublication, but a tutee cared
to publish them ‘Unpublication’ – There is turbo, and there is turbato – as
applied to ‘colloquenza’ qua conversational dyad, Acri speaks of the colloquenza itself as
being ‘turbata’ – he relishes on that – if there is no ardimento, and the
Romans loved one – what’s the good to argue? The second phase of the dialettica
is ‘serena’ – I find the distinction genial and in a way corresponds to my
epagoge/diagoge distinction – the ‘turbo’ is dyadic – say A wants to influence
B (turbo 1), B gets influenced and expresses it in a second conversational move
(turbo 2). – Dialettica turbata – they reach the principle of conversational
helpfulness and they arrive at the ‘sereno’ – dialettica serena’ – until the
next turbo arises, that is1” - Grice: “I like Acri – he is a platonist, and he
is explicitly against the positivists, whom he contrasts to the ‘filosofi sobri.’
His own theory of ideas is hardly platonic, but finds its base on Vico, which
is nice – since, if an Italian does not understand Vico, no one will! –Acri
explores the connection between ‘idea’ and ‘expression,’ and considers the
‘radice’ (root or stem) of expressions – he has commented extensively on
‘Cratilo.’ In any case, he is a sensualist, so at the root of it all is what he
calls, after Aristotle (“De Interpretatione”) ‘il fantasma’ and the ‘imagine.’ Italian philosopher, author
of an essay on Plato’s and Vico’s theory of ideas. “Abbozzo” essential Italian philosopher. Grice: “I love Acri’s
rendition of the Cratilo into the vernacular!” Filosofo. Opere: “Del sistema in genere”;
“Prose; “Abbozzo d'una teorica delle idee”
(Palermo: Stab. tip. Lao, -- In memoria di Alfonso della Valle di Casanova);
“Sulla natura della storia della filosofia” (Bologna: Nicola Zanichelli successore
alli Mrsigli e Rocchi); “Cratilo – Menone – Apologia di Socrate, Critone -- Dizionario
Biografico degli Italiani. IL CRATILO. Due
solenni questioni intorno all'origine della lingua toglie ad esaminare Platone
in questo dialogo; se cioè i vocaboli o i nomi abbiano in sè da natura lor
propria ragione, o vera mente se retto sia il nome che da chiunque a cosa
qualunque vien posto. Cratilo segue la prima sentenza: Ermogene la seconda.
Platone ammette alcun che di vero in amendue, sebben apertamente nol dica e le
confuti anzi tuttadue. Pertanto facendo capo dalla seconda, in per sona di
Socrate, così contro di Ermogene la argomenta. Il nome parte è del discorso. Or
potendosi tenere discorso vero e falso, chiaro è che sia possibil dir anco un
nome vero ed un falso. Se dunque la sentenza di Ermogene stesse vera, che ogni
nome da chiunque posto Due solenni questioni intorno all'origine della lingua
toglie ad esaminare Platone in questo dialogo; se cioè i vocaboli o i nomi
abbiano in sè da natura lor propria ragione, o vera mente se retto sia il nome
che da chiunque a cosa qualunque vien posto. Cratilo segue la prima sentenza:
Ermogene la seconda. Platone ammette alcun che di vero in amendue, sebben
apertamente nol dica e le confuti anzi tuttadue. Pertanto facendo capo dalla
seconda, in per sona di Socrate, così contro di Ermogene la argomenta. Il nome
parte è del discorso. Or potendosi tenere discorso vero e falso, chiaro è che
sia possibil dir anco un nome vero ed un falso. Se dunque la sentenza di
Ermogene stesse vera, che ogni nome da chiunque posto a qualunque cosa sia
retto, deriverebbe che tutti i nomi, sì veri che falsi, sarebbono del pari
retti, e che la cosa medesima potrebbe aver nomi altrettanti, quanti
individualmente dagli uomini le fossimo posti, e che tosto anzi gli avesse, che
quel sopressa li pronunciassero. Inoltre, se le cose non han già sol esse una
stabilità lor propria da natura (contro il dir di Protagora, esser elle a mo'
ch'a noi paiono; giacchè se così fosse, non potrebb'esser uno più sapiente di
un altro); ma stabilità pari ad esse han pure le azioni loro, per modo che, se
unoe ha da tagliare una cosa, per ret tamente ciò fare, ei non la dee tagliare
a ca priccio suo, ma nel modo che la natura della medesima richiede di
tagliarla e che taglisi e con quello con che debbe tagliarsi; così pur segue
che il nominare le cose, send'un'azione, noi non le dobbiamo nominare a libito
nostro, ma nel modo che la lor natura richiede di nominarle e che nomininosi e
con che deb bonsi nominare. Arroge, che se il giudicare poi di quello con che
fassi una cosa, cioè del suo stromento, se sia ben fatto, non pertiene al
l'artefice che lo fa, ma a colui che ne usa a modo (giacchè il giudicar di un pettine
se sia ben fatto e acconcio al tessere, non per tiene a falegname, ma a
tessitore, e il giu dicar di una nave, di una cetra, se sian ben ſatte, non
pertiene ai loro fabbricatori, ma a piloto e a citarista); così pur segue, che
il giudicare del nome di cosa qualunque, se sia ben fatto, cioè se la indichi
ed insegni vera mente, non pertenga a chiunque nè a chi lo pone, ma a colui che
a modo ne usa, al dia lettico; e per conseguenza rimane chiaro che il porlo non
è opra di chiunque, ma di solo colui, che ragguardando al nome che in ispezie a
ciascuna cosa da natura conviene, colle let tere e colle sillabe è in grado di
render l'idea del medesimo. A questo discorso non sapendo Ermogene che
rispondere, prega Socrate, che voglia spie gargli e fargli conoscere cotesta
ragione, che il nome ha in sè da propria natura; e quindi soggiugnendogli ch'ei
non ammettendo la sen tenza di Protagora, esser le cose come paiono a ciascuno,
non poteva tener vero quello che in virtù di tal opinione Protagora affermava
dei nomi, Socrate allora il conforta a ricorrere ad Omero, il quale distingue
nelle cose stesse i nomi ad esse dati dagli Dei da quelli dati dagli uomini;
avvegnachè gli Dei chiamino le cose con nomi, che ad esse rettamente
convengono. E così movendosi a spiegare Socrate, secondo Omero, come ad
Astianatte, Ettore, Oreste, Agamemnone, Atreo, Pelope e Tantalo bene stieno que
nomi ch'hanno, dalla menzione di quest'ultimo naturalmente viene condotto a
spiegar la ragione del nome pur del suo padre, cioè di Giove, e quindi sale a
quello di Saturno e di Urano. Intanto rispetto ai nomi che sono posti agli
uomini ed agli eroi, egli avverte di non doversene troppo fidare, perchè molti
di essi, dicegli, sono stati presi da que de pro pri progenitori, o sono stati
posti secondo gli auspici e voti per loro, come Eutichide, for tunato, Sosia,
salvato, ecc., e per ciò dando l'addio a tali nomi, passa a spiegare quelli
delle cose che sono sempre nello stesso modo ed immutabili, vale a dire ai nomi
Dii, demoni, eroi, uomini, ed al nome corpo ed anima, dai quali l'uomo è
composto. Ma desideroso Ermogene, nel modo che aveva inteso la ra gione del
nome di Giove, di saper anche quella del nome degli altri Dei, Socrate, dopo
aver formalmente protestato, che per riguardo agli Dei, affatto nulla di loro
ei sapeva nè con quai nomi tra loro si chiamassero, nondimeno dice, che si
accingeva a dar la spiegazione di tai nomi, secondo l'opinione ch'ei credeva
avere avuto gli uomini nel porre i nomi ai medesimi; e così fra questi pel
primo comincia da quello di Vesta.Il nome per esser retto, come si disse, bi
sogna ch'esso abbia una certa natural conve nevolezza con quello ch'ei nomina;
per dunque conoscere se un nome sia retto e stia bene colla cosa da esso
nominata, bisogna pur conoscere l'essere della cosa medesima. Or intorno all'es
tempi di Socrate e di Platone; l'una degli Eraclitiani, che credevano le cose
esser sempre in moto; l'altra degli Eleatici, i quali opinavano, che fossero
sempre in riposo. Secondo il proprio sistema ciascuno spiegava pure i nomi;
onde Socrate, nel dar l'etimologia del nome Vesta, riferisce anche la sentenza
di queste due scuole filosofiche dicendo, che gli Eleatici il nome di Vesta,
Eatix (Hestia), perchè, second'essi, in antico in vece di obaix (ousia),
essenza, en tezza, si diceva anche aix, esia, il derivavano da siva (einai),
essere, mentre gli Eraclitiani, prendendolo per sinonimo di oaix, osia, il de
rivavano da 33siv (othein), cacciare, spingere. Dopo questo passa ai nomi degli
altri Dei, e quindi a quello del sole, della luna, delle stelle, della terra,
dell'aria, delle stagioni e dell'anno; e quantunque la maggior parte di questi
paia spiegarli secondo il sistema di Eraclito; tuttavia havvene alcuno, la cui
spiegazione può anche convenire al sistema degli Eleatici; finchè ve nendo ai
nomi della prudenza, scienza, sa pienza, giustizia, fortezza, virtù, vizio,
ecc., e a quelli della tristezza, del diletto e a tanti altri, quasi tutti ei
li spiega un po' lepidamente ed ironicamente, ridendosi degli Eraclitiani, col riferire
tutto al loro modo, come se le cose fossero sempre in moto. Ma questo modo di
dichiarar la ragione del nomi, come facevano gli Eraclitiani, semplice mente
per mezzo di una superficiale e succes siva decomposizione del medesimi in
altri nomi, non appagava intieramente Socrate. Impercioc chè, dice egli, se uno
interroga intorno alle parole, da cui è composto un nome, e poi di nuovo
intorno a quelle, da cui sono composte queste medesime, e così continua sempre
oltre ad interrogare, è necessario venire alla fine ad una parola, la quale non
si può più decom porre, e di cui nulla più sappia quegli che ha a rispondere.
D'altra parte però se uno non sa dar la ragione dei primi nomi, non sa certo
darla del derivati, che si debbono spiegare per mezzo del primi. Per la qual
cosa a rintracciar la ragione del primi nomi ei si fa nel seguente modo. I nomi
tutti, sì primi che derivati, deb bon dichiarare come veramente ciascuna cosa
è. Ora se noi non avessimo nè voce nè lingua, e dovessimo indicare le cose,
certo, come i muti, colle mani e col capo e con tutto l'altro del corpo noi
tenteremmo di significarle, elevando le mani verso del cielo per indicar quel
che è alto e leggiero, e per l'opposito abbassandole verso terra per indicar
quel che è basso e grave. Dal che rettamente ei conchiude che il nome per esser
retto, cioè per poter indicare come vera mente una cosa è, dee pur anco essere
un'imi tazione, che la voce fa di quella cosa, ch'uno per mezzo della voce
toglie ad imitare onde fi gura e il color delle cose, la musica il loro suono,
così l'arte del nominare imita la loro es senza per mezzo di sillabe e lettere.
E per di mostrare poi come per mezzo di sillabe e let tere uno possa ciò fare,
oltre al distinguere egli le lettere in consonanti e vocali e semi vocali ecc.,
ei fa pur osservare in molte di esse un valor loro proprio, facendo avvertire
nel l'elemento r il valore d'indicare il moto e ciò che è aspro e duro,
nell'elemento l quello d'in dicar ciò ch'è liscio e molle, e così un proprio
valore dà egli a molte altre lettere. E di que sta cognizione pertanto intorno
al valor delle lettere, come anche della cognizione della na tura delle cose
fornito lo istitutore dei nomi, afferma Socrate, che in quel modo, che i pit
tori per render l'immagine che vogliono effi giare, or adoprano un colore or un
altro ed or ne mescolano molti insieme, così egli nel far ciascun nome per
ciascuna cosa, adope rando l'elemento or di una lettera or di un'al tra ed or
mescolandone più insieme, secondo che l'immagine della cosa ch'ei voleva
nominare pareva richiedere, abbia formato i primi nomi; e quindi da questi
primi, sempre coll'imita zione per mezzo di sillabe e lettere, abbia pur
composti tutti gli altri, e che questa sia la vera ragion de nomi. Secondo un
tale ragionamento pare che Socrate, che è quanto dir Platone, propenda per la
sentenza di Cratilo, il quale affermava, avere gli esseri in sè da natura la
ragion del loro nome. Nondimeno non esser tutti i nomi retta mente posti
conforme alla natura delle cose, che nominano, il dimostra poi nel seguente
modo. Il nome, dice egli, è uno stromento, il qual si fa per indicar e insegnar
le cose come veracemente sono. Or ogni stromento sup pone un artefice; e buono
essendo quello che è fatto da un buon artefice, e cattivo quel che è fatto da
un cattivo, ne segue che anche i nomi saranno altri bene, altri mal fatti.
Cratilo pretende che tutti i nomi, come tali, cioè in quanto son nomi, son
tutti ben fatti e retti; per modo che se uno dà a qualcuno il nome che non gli
conviene, costui parrà sì ben averlo, ma esso appartiene propriamente a colui,
la cui natura viene dichiarata dal nome. Dun que se tutti i nomi sono retti,
ripiglia Socrate, non più anco si potrà dire il falso. No, non si può dire il
falso, soggiugne Cratilo, perchè dire il falso è dir quel che non è; or quel
che non è, non si può pensare nè dire. E che dunque, replica Socrate, fa colui
che ti chia masse o ti salutasse col nome di Ermogene, mentre che tu sei
Cratilo? costui non chiame rebbe, non saluterebbe te, ma un altro? di rebbe
egli qualche cosa o direbbe nulla? Costui, risponde Cratilo, non farebbe altro,
ch'un van un'altra prova. Il nome, dice egli, secondo quel che da noi si è
ammesso, è una imitazione, la quale si fa per mezzo delle lettere e delle
sillabe, come la pittura imita coi colori; e per ciò in quel modo che la
pittura, se, nello effigiare le cose, vi adatta i convenienti colori, effettua
bene e belle le loro immagini; così pure l'arte del nominare, se per mezzo
delle lettere e delle sillabe imitando l'essenza delle cose, saprà ad esse
adattare tutto quello che conviene e che loro è simile, bella ne effettuerà
l'immagine; che se no, effettuerà sì bene un'immagine, ma non già bella, per
conseguenza i nomi ch'essa fa, gli uni saranno ben fatti, e gli altri no. Cratilo
a questo energicamente si oppone, di cendo che se in un nome si muta, si
traspone, o si toglie o si aggiugne una lettera, non so lamente non iscriviam
bene tal nome, ma non lo scriviamo affatto, anzi esso diventa subito un'altra
cosa che il nome. Socrate concede ciò aver luogo ne numeri, a quali se uno
toglie od aggiugne un'unità, subito diventan essi un altro numero da quel che
eran prima, ma non già nelle qualità e nelle immagini delle cose; poichè se le
immagini dovesser aver tutto quello che ha la cosa di cui son immagini, non sa
rebbero più immagini, ma rimarrebbero la cosa stessa di cui elle appunto sono
le immagini; e per ciò neanco i nomi debbono aver tutto quel che ha la cosa di
cui sono nomi, nè es serle in tutto e per tutto simili; perchè, se così fosse,
ne avverrebbe, che gli esseri sarebbero tutti doppi, e non si saprebbe più dire
qual fosse proprio la cosa e qual solo il nome. Per la qual cosa a giudicare se
un nome sia ben fatto, basta che in esso si trovi il tipo della cosa di cui
esso è nome; e quantunque si debba concedere, che più retti e belli sian que
nomi, che per la gran parte son composti di lettere convenienti; tuttavia non
si può sostenere, che un nome, il quale non abbia le lettere simili alla cosa
che nomina, non possa indicare la medesima. Ed in conferma di questo Socrate
adduce il nome azXood:ng (sclerotes), durezza, nella cui composizione in vece
di entrarvi ilr, il cui valore è appunto d'indicare ciò che è duro e aspro,
v'entra anzi il X, l, che indica tutto il contrario, ciò che è molle e liscio;
nondimeno quand'uno il pronuncia, tutti sanno quello ch'ei vuole dire e quello
ch'egli ha in mente; così che fa pur d'uopo conchiudere, che le cose s'indicano
non solo per mezzo dell'imi tazione delle medesime, che si fa colle lettere e
colle sillabe, ma ancora per mezzo dell'uso e della convenzione. Che se dunque
tutti i nomi non son posti convenientemente secondo la natura della cosa che
nominano, ei si vede quanto senza fonda somi glianza tra essi e quelle, che chi
conosce i nomi conosce anche le cose. Del resto, anche dato, continua Socrate,
che per mezzo del nomi si possano conoscere le cose; tuttavia essendo essi,
anche quelli che rettamente conforme la natura delle cose sono posti, solamente
imma gini delle medesime, il miglior modo di cono scerle sarà investigarle per
esse, una per l'altra a vicenda, se a sorte cognate sono, e ciasche duna per sè,
e così venirle a contemplare nella verità loro, e non solo nelle loro immagini.
Intanto come questa verità, questa cognizione si possa conseguire lasciando ad
investigare un'altra volta, pel presente ei si contenta di far vedere, che
qualcosa di stabile e fermo è nelle cose, e che oltre ad esservie un viso
bello, ei v'ha poi un bello in sè, che non è passeggiero nè soggetto a
movimento o flusso, ma immu tabile e sempre lo stesso; pel che rettamente
conchiude dicendo, che non retta gli pareva la sentenza di Eraclito, il quale
voleva che tutto fosse in centinuo flusso. Cratilo però alle ra gioni di lui
non si acqueta, onde Socrate il prega, che più attentamente volesse ancora
esaminare la cosa, e, quando gli venisse fatto di trovare la verità, si
piacesse di fargliene partecipe.Così termina il dialogo, dal quale si vede,
come già in principio di questo argomento dicevamo, che Socrate, e nella sua
persona Pla tone, quantunque confuti la sentenza di Ermo gene e quella di
Cratilo, nondimeno, ancorchè espressamente nol dica, molto di vero ei rico
nosce in amendue, anzi le rettifica. In fatti, se concede a Ermogene esser
lecito agli uomini porre nomi alle cose; non gli concede però ciò essere lecito
a tutti, com'ei pretendeva, ed afº ferma non potersi porre a capriccio, se
hanno ad essere ben posti, ma richiedersi un'arte, e per ciò esser opra di solo
colui, che è in istato di rendere per mezzo del nome l'idea della cosa che vuol
nominare; come dall'altra parte, se ammette con Cratilo avere i nomi da natura
lor ragione, non conviene però che tutti sieno rettamente posti e stieno a
capello; e se pur gli concede migliori essere i nomi che per mezzo di lettere e
di sillabe esprimono la na tura delle cose che nominano; tuttavia non gli
consente, che assolutamente non abbiansi a chiamare nomi quelli che non sono
così for mati; giacchè l'esperienza ci dimostra esservi nomi, i quali, senza
che abbiano alcuna lettera simile o corrispondente alla natura della cosa da
lor nominata, per via del solo uso noi ve niamo posti in grado di ottimamente
intenderli e riferirli a cose, che non hanno punto di si mile col medesimi. Chi
è versato nella lettura delle opere di Pla tone facilmente si persuaderà, che
questo divino oltre all'addurre le prove dell'immortalità dell'anima umana, scopo
suo fu pur anco di rappresen tarci il quadro del filosofo morente; nel Gorgia,
oltre lo scopo di far vedere i difetti dell'oratoria politica e sofistica, ebbe
pur anco quello di far la difesa di se stesso, perchè non si fosse dato alla
vita pubblica; noi dunque ora nel Cratilo dobbiamo pure investigare, se egli
oltre al di mostrare, che la vera origine e ragion de nomi non si dee derivare
nè dalla stessa natura sola nè dal solo arbitrio umano, abbia pur avuto
intenzione di dimostrare ancora qualch'altra cosa pratica. Erano ai tempi di
Platone intorno allo essere delle cose, come abbiam già detto, due sentenze,
l'una degli Eraclitiani, i quai credevano ch'esse fossero in un continuo flusso
o moto; e l'altra degli Eleatici, i quali opina vano, che fossero sempre in
riposo. Ciascuna di queste due scuole (come tutti in ogni tempo, e come anche
vediamo aver fatto il nostro Vico), per confermare le loro dottrine, i loro
sistemi, ricorrevano all'etimologie delle parole, credendo in queste trovare la
ragione di quelli. Ma, quantunque lo studio delle etimologie talora conduca
alla cognizione delle cose, Platone tut tavia non vi aveva molta fede, sì
perchè ne nomi stabiliti a sorte dall'uso e dalla consue tudine, di rado e
forse quasi mai è possibile trovar la loro ragione e la verità di quello che
nominano; sì perchè nemmanco sulla strada più vera e più sicura ci mettono
quelli, che dall'in gegno e dalla potenza umana fur posti. Imper ciocchè chi
pose i primi nomi alle cose, com'egli dice, li pose, quali credeva che queste
fossero; or sei non aveva una retta opinione delle cose, e ad esse pose i nomi
secondo l'opinione ch'ei n'aveva, noi rimarremo ingannati, se il se guiremo.
Per far vedere adunque in che vano e fragile fondamento si appoggiassero le
scuole filosofiche che così facevano, e metter in chiaro l'insufficienza di
questo loro metodo per venire alla cognizione delle cose, Platone in questo
dialogo facendo una lunga esposizione di etimologie, sebben acute ma strane, di
cui molte forse raccolse da vari libri, mise in ridi colo l'abuso di tale
studio, validamente dimo strando, che le cose debbonsi piuttosto cono scere per
mezzo d'esse medesime, che per mezzo de' nomi, che sono soltanto una loro
adombra zione; e così, come metodo a ciò acconcio ed efficace, colloca poi egli
alla fine del dialogo, come opposta diametralmente alle opinioni degli
l'iraclitiani, la sua dottrina delle idee. Che se a questo avessero badato
certi eru diti (!), non mai avrebbero creduto che Platone (1) Proclo
spezialmente fra gli antichi, e fra i moderni il Menagio, ad Diogen. Laert.,
pag. 149, e il Tiedemann, Argum. dialogg. Plat., e seguente. etimologie, che
espone in questo dialogo. E nel vero, an corchè sia difficile il distinguere
dappertutto quello ch'ei dice per gioco e quello che dice da senno; tuttavia al
veder, che nello spiegar la ragione de nomi di Teti, di Poseidone (Nettuno), di
Demetra (Cerere) e d'altri, ei lascia le etimologie prossime e ovvie, e in vece
ne arreca delle rimote, anzi talvolta ne inventa delle strane e bizzarre,
spezialmente quando adduce quella oltremodo ridicola di Dioniso (Bacco), niun
certo può disconoscere ch'ei non ischerzi. Arroge, che il protestaregli, per
bocca di Socrate, che quello che per riguardo all'eti mologia de nomi
dichiarava, il diceva non come cosa sua propria e che sapesse, ma come cosa che
teneva per ispirazione della musa di Euti frone, ognuno avrebbe dovuto
accorgersi o al men sospettare, che Platone non poteva far buono tutto quello
che per ispirazione della musa di questo sciocco e superstizioso fanatico ei
diceva. Per la qual cosa lo Schleiermacher è di parere che Platone avesse in
mira di bef farsi in questo dialogo di Antistene; ma, oltre che molte cose in
esso occorrono che mala mente si potrebbero attribuire a questo filosofo Socratico,
come rettamente osserva lo Stallbaum, ei si dee ancora avvertire che gli studi
di An tistene erano piuttosto dialettici e retorici, che grammatici, e non si
trova documento veruno, il qual ne accerti ch'ei si occupasse anche della
ragione de nomi. E se poi non si può assolu tamente negare, che nelle sue
giocose etimologie abbia pur egli avuto in mira Prodico, perchè questi nel dar
la ragione della differenza de nomi, di necessità spesso doveva anche spie
garne le etimologie; scopo suo però fu piut tosto di beffarsi di tutti quel
filosofi, che, come abbiam detto, nelle etimologie de nomi cre devan trovar
confermati i loro sistemi, e spe zialmente di mettere in canzone i sofisti, che
in coteste arguzie ponevano molto studio e tanto si dilettavano, i quali appunto
egli dileggia, quando ironicamente spiegando il loro nome, afferma che
significa eroi. E in fatti che Protagora molto attendesse anche
all'interpretazione degli scrit tori spezialmente poeti, abbiam già veduto nel
dialogo del Protagora, intitolato dal suo nome, nel quale insieme con Prodico
ed Ippia ed altri espone a Socrate il suo sentimento intorno ad un passo oscuro
d una canzone di Simonide. E che, oltre all'aver lasciato precetti intorno alla
retorica, come ci attesta Cicerone nel Bruto. scriptae fuerunt et paratae a
Protagora rerum illustrium disputationes, quae nunc com munes appellantur loci,
º molto pure si occu passe intorno alla proprietà dei nomi e della collocazione
delle parole per rendere bella l'elo cuzione, lo aſſerma lo stesso Platone nel
Fedro, ed Aristotele nclla Retorica, lib, ini, ori gine e ragione de nomi abbia
pure disputato. Questo pare chiaramente indicato nel Cratilo, alla pag. 295
(Stef 391. C), anzi da quel, che ivi dice Ermogene, sembra che tal questione
facesse parte del suo libro della Verità, reo A), 3sizg, come vedremo. I
seguaci di cotesto sofista adunque sono quelli, contro dei quali è diretta
spezialmente l'ironia e lo scherzo di que sto dialogo, poichè cotesti sono
quelli, che, come il loro maestro Protagora, approvando la sentenza di
Eraclito, il quale stabiliva, che tutte le cose perpetuamente scorressero, come
un fiume, avevano ad essa accoppiata la loro, cioè che l'uomo fosse la misura
di tutto e che le cose fossero come a lui appariscono; e per ciò credendo che
tutto continuamente fluisse e che i nostri sensi a questa mutazione delle cose
si accomodassero in guisa, che sempre esse fos sero come a loro apparivano,
venivano pur a credere tali essere i nomi delle cose, quali dal senso e
dall'intelligenza di ciascheduno venivano percepiti, cioè naturali. Da questo
si vede che in cotesti Eraclitiani-Protagoristi non si deb bono comprendere,
gli antichi e veri seguaci di Eraclito, ma solo i posteriori, che, material
mente intendendo Eraclito, facevano una cattiva e falsa applicazione dei suoi
principii. E se dum que di tutte le sette filosofiche, come sappiamo, era
anticamente costume di riferire i loro sistemi ai sapienti più antichi e
spezialmente ad Omero, non dee dunque far maraviglia, se i detti nuovi
Eraclitiani-Protagoristi, chiamati appunto Omeriani da Platone nel Teeteto
(pag. 179. E), tentassero pur di derivare le loro spie gazioni e interpretazioni
de nomi da Omero ed anche da Esiodo, e se in questo dialogo conforti poi
Socrate Ermogene, se non ammet teva la verità di Protagora, a ricorrere ad
Omero, e se quindi egli pure, secondo questo poeta, gli faccia parecchie
spiegazioni del nomi. Il Cratilo, interlocutore di questo dialogo e da cui anzi
lo stesso dialogo s'intitola, Aristotele (Metaph. 1, 6), Apuleio (de dogm.
Plat.2), e Diogene Laerzio (III, 6), narrano essere stato, prima di Socrate,
maestro di Platone, e che gli abbia insegnato le opinioni e dottrine di
Eraclito. L'Ast però (Platons Leben und Schri ſten, pag. 19) opina, che il
Cratilo interlocu tore del presente dialogo sia diverso dal Cratilo che fu
maestro di Platone, affermando non altro potersi raccogliere dallo stesso
dialogo, se non che il Cratilo, ivi interlocutore, era se guace di Eraclito, e
non già che sia stato mae stro di filosofia e che abbia avuto Platone per
discepolo; e per ciò pretende non esser pro babile, se così fosse, che Platone
l'avesse messo così in canzone senza riguardo veruno. Questa sentenza a noi non
pare di gran momento; poichè hoi non abbiamo sufficienti argomenti Cratili, amendue
filosofi e della scuola di Eraclito, onde poter dubitare qual di loro sia stato
maestro di Platone. D'altra parte, Aristotele, Apuleio e Diogene Laerzio avevan
certo notizia e del Cratilo maestro di Platone, e del Cratilo inter locutore di
questo dialogo; non avendogli essi di stinti, rimane chiaro che sì quello che
questo sono il medesimo Cratilo. Per riguardo poi a quello, ch'ei dice non
esser probabile, che Platone abbia messo in canzone così ingratamente il suo
maestro, noi facciamo osservare, che Pla tone non gli fa dire da Socrate alcuna
cosa dura, anzi l'ironia, che regna nella esposizione delle etimologie, è pur
così coperta, che può anche sfuggire a non mediocri ingegni. Volendo Platone
render conto, perchè si fosse scostato dalle opinioni eraclitiane del suo primo
mae stro Cratilo, ed avesse poi seguito quelle di Socrate, ei non poteva più
giurare in verbo del suo primo maestro Cratilo, nè rappresen tarcelo superiore
a Socrate nelle ricerche e di scussioni didattiche, ma sì bene rappresentar
celo, come veramente egli era, e cercar, per quanto poteva, di farci conoscere
il modo di verso dell'esposizione scientifica d'amendue, come anche
intieramente il loro carattere. Per questo appunto Platone non si contenta già
di far abbattere da Socrate in questo dialogo le opinioni, che Cratilo aveva
intorno alla ragion de nomi, ma il fa udire ancora una lunga ſi lastrocca di
spinose etimologie, che Socrate espone ad Ermogene, la quale se par essere un
dileggio verso coloro a cui viene fatta, non è però fuor di proposito, perchè
Cratilo era così dato alle dottrine di Eraclito, che tutto contento ed
incantato beccava qualunque cosa gli fosse detta in confermazione di quelle, e
tanta era la sua ostinatezza in quel che soste neva, che dicendogli Socrate alla
fine del dia logo migliore essere il metodo di conoscere le cose per mezzo di
esse stesse nella verità loro, che solamente per mezzo delle loro immagini,
cioè per mezzo dei loro nomi, a tal patente ragione ei non si arrende ancora.
L'altro interlocutore del dialogo, anzi il primo che entra in discorso con
Socrate, è Ermogene, figliuolo d'Ipponico e fratello di Callia. Anche questo
afferma Diogene Laerzio (nel luogo ci tato) essere stato maestro di Platone
nelle dot trine della scuola di Elea. Ma questa asser zione viene rigettata
dall'Ast (nell'opera citata, pag. 2o), e dal Groen Van Prinsterer (Pro
sopographia Platonica, pag. 225), il qual ul timo crede, e con lui concorda lo
Stallbaum, che il testo di Diogene Laerzio sia stato cor rotto da un ignorante,
il quale abbia intruso il nome di Ermogene dopo quello di Cratilo,
nell'opinione, che siccome dei due rappresen Platone, così il fosse anche stato
quello dell'Eleatica, Ermogene. A questo aggiungasi ancora, che Aristotele ed
Apuleio, i quali affermano essere stato Cratilo istitutor di Platone, ciò non
di cono più di Ermogene. Altro è che questi fosse seguace delle dottrine degli
Eleatici, altro è che in esse abbia pure istruito Platone; giacchè trattandosi
di un fatto, sì per istabilire la sua verità, come per abbatterla, è del tutto
neces saria una prova positiva, la quale, quando manca, è nullo tutto ciò, che
pro o contrada qualunque si dice. Per la qual cosa, se l'unica e dubbia
autorità di Diogene Laerzio non si dee tenere da tanto per farci credere vero
tal fatto, neanco per negarlo pare a noi esser suf ficiente la prova negativa
dello Stallbaum e del Groen Van Prinsterer, i quai dicono, il poco ingegno e la
poca dottrina di Ermogene essere un argomento bastante a far sì, che niuno il
possa creder essere stato maestro di Platone. Imperciocchè come veramente
stesse di dottrina Ermogene, non è poi cosa facile a dichiarare, stante che il
merito scientifico degl'interlocu tori, che Platone mette ne suoi dialoghi in
iscena, non si dee giudicare dal grado, in cui egli ce li rappresenta e ce li
fa parlare; giac chè quando si tratta di coloro ch'ei vuol con futare, ei fa da
loro anche dire cose strane ed assurde, le quali essi mai non sognarono, ma ch'egli
però dalle loro dottrine deduce, per sempre far maggiormente spiccare il
contrasto della verità, ch'ei difende. D'altra parte poi, se si dovesse
giudicare da questo dialogo, pare che per niuna parte Ermogene la ceda a Cra
tilo. E nel vero, per non dire che la discus sione, fatta in principio tra
Ermogene e So crate, è sottile anzi che no, e suppone in Ermogene un non
mediocre ingegno, bisogna avvertire che la lunga esposizione delle etimo logie
secondo il sistema di Eraclito, è diretta a mettere in canzone non altri, che
coloro che tal sistema seguivano; e per ciò pare anzi che d'in gegno un po'
tardo ben si potrebbe tacciare Cratilo, che non mai in udirle di tal
corbelleria s'accorga, ma non Ermogene, il quale, udendole, scorgendo per mezzo
di esse beffarsi Socrate dei seguaci delle dottrine di Eraclito, veniva sempre
più confermato in quelle contrarie degli Eleatici, ch'ei sosteneva. Del resto
ch'Ermogene non pigliasse tutte per vere le etimologie di Socrate, non solo si
vede da quello, che in udirle non mai egli fa alcun segno d'ammira zione o di
contentezza, come se fosse giunto alla cognizione di qualcosa grande e nuova,
ma nemmanco di piena approvazione; giacchè, appena che ha udito l'etimologia di
un nome, senza più, quasi sempre passa subito a inter rogar Socrate di quella
di un altro, e se talor mostra d'averne per buona alcuna, la sua con a Socrate,
Pare che un po' ci tocchi o ci cogli ecc., daivet, xtvòvvsústg o doxsig rt
Xéyetv. Ma, che ancora? Che Ermogene più per curiosità e diletto che per altro,
se ne stesse ad ascoltar l'espo sizione delle etimologie di Socrate, argomento
certo n'è, ch'ei pure celia collo stesso Socrate, come (per non citar altri
luoghi) quando udita l'etimologia del nome ivtavróg, anno, ironica mente gli
dice, che aveva già fatto molti passi nella sapienza, e spezialmente quando
Socrate, nello spiegare il vocabolo 3) aſºspdv (blaberon), nocevole, dicendogli
che propriamente si do vrebbe chiamare 3ov) arrrepoijv, boulapteroun, ei gli
soggiugne che all'udirlo pronunziar così bel nome, gli pareva veramente che
zufolasse il preludio dell'aria di Minerva. Il timore e la superstizione, che
dà a dive dere Socrate in questo dialogo, nel protestare che per riguardo agli
Dei e ai loro nomi, ei punto non ne sapeva, ma che solo diceva quello che
ebbero in opinione gli uomini in porre loro i nomi, indicano manifestamente,
che l'Euti frone, per ispirazione della cui musa, ei dice tenere le
spiegazioni, che dà dei nomi, è quello, da cui è pure intitolato un dialogo di
Platone. Così appunto opinano l'Ast e lo Stallbaum. Quest'uomo è il tipo della
leggerezza e della superstizione; ei si vantava di saper meglio che alcun altro
le cose divine, e tanto era il suo entusiasmo, come dice egli stesso (!),
quando di esse parlava e mandava fuori i suoi oracoli, che eccitava il riso e
pareva maniaco. Verisimil mente dunque nell'interpretare la mitologia degli
antichi poeti e spezialmente di Omero, e nel cercar la ragion de nomi degli Dei
e nel darne la spiegazione, vi poneva molto studio e vi met teva pur lo stesso
entusiasmo e furore, come nel mandar fuori gli oracoli. Forse sarà anche stato
della scuola di Eraclito. Onde piacevole e grazioso pare lo scherzo di Platone,
in far per bocca di Socrate dar l'etimologia de nomi a Cratilo, il qual non era
men entusiasta e maniaco in beccar ciò, che parevagli confer mare le sue
dottrine eraclitiane (giacchè, quanto a Ermogene, egli stava, come abbiam
veduto, a udirle più per curiosità e diletto, che per altro); mentre così
facendo Platone, a chi era di perspicace ingegno dava, per mezzo dell'ironia, a
divedere, che a lui non andava a grado, anzi disapprovava il poco ragionevol
modo degli Eraclitiani, nello spiegare i nomi e nel pretendere di trovare quasi
in ciascun verso di Omero qualche cosa di oscuro e mi sterioso, togliendovi
quel suo proprio colore, semplice e naturale. In qual tempo sia stato composto
questo dia logo da Platone, e qual loco gli si debba as ri mane ancora a
vedere. Lo Schleiermacher il pone dopo il Teeteto, il Menone e l'Eutidemo, e
pretende che debba servire di compimento a quel primo; ma ognun vede che l'argomento
della scienza, che trattasi nel Teeteto, non viene ampliato nè discusso nel
Cratilo; anzi tutto il contrario, quel che affatto alla fine del Cra tilo è
appena indicato, viene poi diffusamente discusso nel Teeteto; chiaro dunque
egli è, che questo il dee seguire e non precedere. L'Ast il colloca non solo
dopo il Teeteto, ma anche dopo il Sofista, il Politico e il Parmenide; anzi
crede che il Cratilo faccia parte ed appartenga ad una trilogia o tetralogia,
che non fu da Platone compiuta; e per prova ne adduce le prime parole del
dialogo: Brami tu dunque che in cotesta questione anche qui Socrate c'entri' le
quali ei dice essere del tutto nude, secche e immotivate. Inoltre che
quest'opera non sia un lavoro compiuto, seguita egli, si vede da quello, che
nell'ultima sua parte i passaggi da una cosa all'altra sono scuciti e duri, e
molto, che non ista in immediata relazione con quel che precede, vien posto
senza alcuno appa recchio e introduzione, mentre le ricerche, che si connettono
coll'argomento principale e che eccitano un grande interesse, vengono al
l'improvviso abbandonate. Ma checchè ne voglia dire l'Ast, quantunque le prime
parole del dialogo indichino a precedente discussione tra Er mogene e Cratilo,
tuttavia di questa trilogia o tetralogia incompiuta, ch'ei pretende, non s'in
contra indizio veruno nelle opere di Platone, nè si trova che l'argomento del
Cratilo venga da lui trattato in qualche altro suo dialogo. Questo scritto può
stare da sè, ed io non veggo la ragione, perchè l'Ast il voglia far seguire al
Sofista, al Politico e al Parmenide, e non anzi a tutti questi precedere. E nel
vero, per non dire, che l'irrisione, che domina nell'espo sizione delle
etimologie nel Cratilo, non troppo acconciamente può stare vicina alle gravità
e serietà, con cui sono trattati il Sofista, il Po litico e il Parmenide,
l'argomento del Cratilo non ha che fare con quello di questi; nè si ravvisano
ancor in esso vestigia della scuola pitagorica, come nel Parmenide, ma appena
si fa menzione in un suo luogo dell'armonia de corpi celesti; nè appare ch'ei
segua il me todo dell'investigazione tenuto dai filosofi Me garici, i quali
erano versatissimi in trattare le quistioni di questo genere, come lo segue nel
Sofista, nel Politico e nel Parmenide; nè fi nalmente si vede ch'egli molto
insista sulla sua dottrina delle idee, ma appena ne fa cenno alla fine del
dialogo, e la dà soltanto ancora come un suo sogno. Per l'opposito, niuno può
disconoscere, che tra il Protagora, l'Eu tidemo e il Cratilo vi regni
un'affinità quasi irri sione drammaticamente ci rappresenta Platone il vano
fasto di Protagora e di tutti que sofisti che si millantavano essere maestri di
virtù, e se nell'Eutidemo poi egli si beffa delle meschi nità delle arguzie e
de lacciuoli dialettici pur de' seguaci di Protagora, anche nel Cratilo, come
abbiam veduto, con ischerzo e con ironia viene egli a dimostrare l'inutile
sforzo de' Protagoristi-Eraclitiani, che per mezzo dell'inter pretazione del
vocaboli tentavano di venire alla cognizione delle cose e di stabilire i loro
sistemi. Per la qual cosa, sebben l'autore in quest'opera sia lungi dal comico
che domina nel Protagora e nell'Ippia Maggiore, l'andamento però e la condotta
della medesima, come anche la molti plicità degli esempi e le minutezze, con
cui, secondo il metodo di Socrate, procede Platone in principio di essa, e
finalmente ancora lo scherzo e l'ironia che si scorge nell'esposizione delle
etimologie, danno a bastanza a divedere, ch'ella moltissimo si approssima ai
dialoghi po polari Socratici, ch'egli scrisse i primi, e che da lui sia stata
composta in una età, in cui egli non era ancora del tutto scevro da pro tervia
e petulanza giovanile. Non pertanto, quan tunque da solo quello, che si fa
menzione in questo dialogo delle vocali a ed o, le quali furono introdotte in
Atene, sotto l'arcontato di Euclide (l'anno 2 della 94 olimpiade, 4o3 prima
dell'era volgare, e 26 dell'età di Platone), non si possa di certo conchiudere,
che dopo tal anno sia stato questo scritto composto, per la ra gione, come
ottimamente osserva lo Stallbaum, che queste vocali potevano già essere in
vigore in uso privato, prima che pubblicamente fos sero sancite e passate ne'
monumenti pubblici (ved. il Matthiae Gramm. Ampl.; tuttavia non si può
dubitare, che questo dialogo da Platone sia stato disteso in quel tempo, in cui
egli aveva già concepito i principii della sua dottrina delle idee e deter
minato con essa di confutare i Protagorei e gli Eraclitiani. Or tanto le
cognizioni richiedentisi per poter ciò ben fare, quanto le sottili inve
stigazioni circa la ragion de nomi, che in que st'opera si ravvisano, paiono
indicare esserelle un lavoro di Platone non così giovane, ma sì bene di lui
d'alquanto già più maturo. Che se poi tra il Protagora e il Cratilo, che hanno
tra di loro un'affinità che non si può disconoscere, noi abbiamo inserito
l'Ippia Maggiore ed il Gorgia, non è già che crediamo il Gorgia essere
anteriore al Cratilo (anzi la di fesa che nel Gorgia fa Platone di se stesso,
perchè non si fosse dato alla vita pubblica, ma alla filosofica, indica
chiaramente che tale scritto è un lavoro di un uomo più che maturo), ma non per
altro così ci parve di fare, se non perchè abbiam voluto far seguire l'un dopo
celebri sofisti della Grecia, Protagora, Ippia e Gorgia, ne quali Platone graziosamente
smaschera il loro vano sapere ed acremente li frusta. Però se uno bada, che i
Protagoristi-Eraclitiani, che Platone dileggia in questo dialogo canzonando le
loro etimologie, questi medesimi poi con con cludenti ragioni validamente egli
confuta nel Teeteto, facilmente ei si persuaderà, che il Cratilo a questo dee
stare unito e precederlo, anzi che susseguirlo; e per conseguenza che noi,
nell'assegnargli il posto che gli assegniamo, nel suo vero l'abbiam collocato. Three
sections on Plato in Acri’s essay on ideas: Plato’s Parmenide, Plato’s Sofista,
Plato ed Anselmo. Gl’Intelligibili e il Parmenide di Platone. L'uno
quale Platone lo disamina nel principio della seconda parte del Parmenide è un
intelligi bile, e la contraddizione in cui lo involge è tale per colui che lo
considera come idea contro l'in tenzione di Platone medesimo.Ecco,se tu fissi
l'uno nel nome suo,se tu appunti l'occhio nell'uno come uno, esso non è più uno,
cioè non è idea. Impe rocchè all'uno fissato nell'uno,contratto in sé,sen za
espansion di sorta, non compete relazione alle idee di parte e di tutto, di
principio, mezzo, fine, cioè all'idea di quantità, e neanco all'idea di quan
tità parvente come a dire la figura, e neppure al l'idea di luogo nè a quelle
di moto o di stato,nè a quella di qualità,né a quella di relazione di si
miglianza, di egualità,di medesimezza e dell'idee contrarie,nè a quella di
tempo,nè a quella di es sere o divenire,né da ultimo all'idea di senso,di
opinione, di scienza. Adunque l'uno irrelativo non è quanto,nè quale,né in
luogo,nè in tempo,non ė medesimo, nè simile, né eguale a sè e neanco il
contrario, non è, non diventa, non si sente, non s'opina, non si sa.
Dunque l'uno irrelativo non é uno: cioè a dire l'uno elemento dell'idea uno non
è l'idea uno che si componë e di quello elemento e di molti altri.
Gl'intelligibili e il Sofista di Platone. Nel Sofista Platone tratta della
comunione delle specie, come se le specie precedessero la comu nione,pigliandoa
esempio l'essere,ilmoto,lostato, il medesimo e il diverso. Ma la comunione
precede le specie; imperocchè l'essere non è tale senza pri ma comunicare col
medesimo, nè ilmedesimo è tale senza prima comunicare con l'essere, nè il
medesimo è ciò ch'è senza il diverso,nè questo è ciò ch'è senza quello. Alla
mente di Platone certo la comunione delle specie si mostra come necessa ria;
tuttavia le si pasconde che le specie prima di essere specie sono elementi le
une delle altre, e la comunione è per lei esteriore e di specie già in tiere e
fatte. Più giusto sarebbe stato lo affermare ed esaminare la comunione
degl'intelligibili, cioè di quei semi che pe'loro congiugnimenti diventa no
specie o speciose o spettabili se cosi dire si vo glia. Aosta nel capitolo
primo del Monologio or meggiando i passi di s.Agostino per provare Dio dice:
tutti beni son beni per una qualche cosa ch'è bene per se stessa; e nel secondo
dice: tutte quelle cose che sono grandi per alcun che sono gran di, il quale è
grande per se stesso; e nel terzo a g giugne che tuttociò che è, per un
qualcosa pare che sia, la quale è per se stessa; e nel quarto aggiugne: se le
nature delle cose si distinguono per disuguaglianza di gradi,e alcune nature si
re putano migliori di altre conviene che ci sia alcuna tra quelle
cosi eminente da non averne altra a sė superiore. Imperocchè,se,tale
distinzione di gradi è cosi infinita che non sia alcun grado superiore di cui
altro superiore non si rinvenga; la ragione conduce a questo, che la
moltitudine di esse n a tare non sia chiusa da alcun termine.Ma ciò diuno
reputa non assurdo se non chi è affatto privo di r a gione. È dunque di
necessità alcuna natura,la quale é talmente superiore ad alcuna od alcune,che
al tra non ve n'abbia, a cui sia ordinata come inferiore. Queste argomen
tazioni si posson paragonare a quelle che fa Platone per provare le specie per
sé. Egli dice: Ne' sen sibili c'è meschianza e confusione di contrarie no te;
imperocchè una cosa è bella e brutta, giusta e ingiusta, grande e piccola, e
via via; bella, giusta, grande per un rispetto,e per un altro brutta, iugiu
sta,piccola;dunque ci dev'essere un bello che per nessun rispetto sia brutto,
un giusto per nessun rispetto ingiusto, un grande per nessun rispetto piccolo,e
viceversa;delle quali specie contrarie par tecipa il sensibile. La differenza è
in ciò, che Pla tone si fonda più su la contrarietà delle note che apparisce
ne'sensibili,e Anselmo più su la grada zione di esse note;e dovechéPlatone a
filodilo gica è necessitato a dare a tutte il valore m e d e simo di specie,
Anselmo lo dà ad alcune, come alla grandezza e non già alla picciolezza,
all'essere e non già al non essere,al bene e non già al male; e da ultimo
Platone vuol provare una moltitudine inconfondibile di enti per sè,e
Anselmo di un solo. Ma di quest'argomento suo che ci conviene pen sare? Ecco,
premettiamo che al tempo dei Dottori si vedeva nelle idee una certa
costituzione già fer ma; esse aveavo fatto presa;e che poi per istinto
dubitativo generato dalla riforma o meglio gene ratore di essa parve che si
disciogliessero,e si cer cò rifare la loro sostanza medesima. E l'argomen
tazione propria alla filosofia medievale è nell'espli care ciò ch'è implicato;
e dimostrare un'idea vale dischiuderla da un'altra dove giaceva intiera e for
mata, da un'altra della quale non si dubita. E, stando a questa filosofia, il
contenuto di un'idea è quasi indipendente da quello delle altre, e ai sil.
logismi come esplicativi si dee assegnare un gran valore anche pigliati
singolarmente. Ma non c'è, si può dire, componimento e accordo e universa lità
mirabile nella Somma di Aquino? Si, ma l'universalità dalla religione è data
alla filosofia, la quale assume l'ufficio di sconnetterla,scomporla e
verificarla a parte a parte. E il contrapposto dell'u niversalità della materia
con la singularità e la di. visione e lo spezzamento della forma è
notabilissima nel libro mentovato, che recapitola maravigliosa mente il
pensiero del suo tempo. Per un'altra filoso fia al contrario l'argomentazione
non sta ne' sillo gismi netti,che anzi li ha a sdegno,ma nella gene razione
dialettica e necessaria,in guisa che tanto vale per essa dimostrare un'idea
quanto farla con cepire nelle viscere d'un'altra e poi evocarla alla luce.
Però avvertisco io che il suo generare, la sciando da parte le frasi nuove,è in
fatti un porre una serie di equazioni facendo si che l'ultimo ter mine che si
vuol generare appaja eguale al primo termine che si risguarda come
generatore,in virtù di molti medii che celano graduatamente la reale
dissagguaglianza. Ecco uno schema dell'argomen tare suo:a è vicino a m,perchè
vicino a b,e o vicino a C, e c vicino a d, e d vicino a e, cd e vicino a f; col
divario che dov'io dico vicino essa dice eguale.Da ultimo c'è un'altra
filosofia,non ne mica a quella dei Dottori, anzi benevola,anzi re verente come
a madre figligola, la quale non sup pone l'idea intera e formata, e neanco vuol
rifarla da capo o generarla come dice l'altra,a cui è ni micissima perchè
quella é superba, m a la costi tuisce di principii che già preesistono,la compo
ne.In breve una è esplicativa ovvero resolutiva,l'al tra generativa, almeno di
nome e in apparenza, e l’nltima è costitutiva o compositiva. E inoltre questa
il contenuto di un'idea costituisce per modo che si colleghi a quello di tutte
l'altre,ond'essa è deside rosa d'universaleggiare e procedere alla larga c01
tra la prima che singulareggia e procede per or dini distinti, minuti, sottili;
e, contro alla seconda che vuol generar le idee una dall'altra, ella crede che
vivano insieme ciascuna della vita dell'altre, e risplendano insieme ciascuna
dello splendore del l'altre. E la sua argomentazione sta non già nello
esplicare o nel generare, bensi nel bene allogare; inguisachè un'idea è
dimostrata quando posta in mezzo alle altre con esse fa buon accordo. Onde il
sillogismo, non già come esplicativo o come e guagliativo, sibbene come
dispositivo è l'argomento suo, e non ha valore da solo ma insieme ai mol
tissini altri per efficacia reciproca. Ma tornando ora lá d'onde ci siamo mossi
di ciamo che si può dir buono, grande, giusto tutto ciò che partecipa alla
grandezza, alla bontà, alla giustizia, e che altresi pare si possa dire che la
grandezza, la giustizia, la bontà c'è perchè ci sono cose
grandi,giuste,buone;esenza dir quale delle apparenze risponda al vero,
affermiamo che ricorre qua la questione de'generi,cioè se son reali fuori noi o
son concezioni astratte, e che l'argomento di sant'Anselino come quello che
presuppone un intricatissimo viluppo di ragionamenti da solo non può avere
piena evidenza. Acri. Keywords: la colloquenza
turbata di Socrate e Cratilo, l’enigma del numero in Platone, abbozzo d’una
teorica delle idee. Refs: Platone in Italia. Luigi Speranza, "Grice ed
Acri," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice,
Liguria, Italia.
Grice
ed Acusilada – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. According
to Iamblichus of Chalcis (“Vita di Pitagora”), Acusilada was a Pythagorean.
Grice ed Addiego
– filosofia italiana – Luigi Speranza (Turi). Filosofo
italiano. Grice: “I like Addiego; his obituary looks fine, ‘amateeur
mathematician and professional philosopher;’ of course he was a priest and
priests tend to get the nicest obituaries written by members of their
respective orders! Henry VIII once said,
“I shall follow Occam and not multiply religious orders beyond necessity!’ Some
say he went a bit too further! My St. John’s used to be a Cistercian
monastery!” “One good thing about Addiego is that instead of trying to prove
the immortality of the soul, or the existence of God – “These are Strawsonian
presuppositions,’ he would say – he rather played with Platonic numbers and
geometries! His mathematical explorations caught the attention of the Pope who
invited him to Rome, thus leaving his ‘paese,’ the lovely Bari – and beyond!”
-- Vincenzo maria d’addiego (n. Turi), filosofo italiano, nominato Preposto
Generale dei Padri Scolopi. Entra giovanissimo
nell'ordine degli scolopi. Papa Leone
XII lo chiama a Roma e con un Breve apostolico lo nomina preposto generale dei
padri scolopi. Alla sua morte il Pio
VIII gli rese l'estremo saluto nella casa professa di S Pantaleo. D. Resta,
Turi. La perdita del loro Preposi to Generale P. Vincenzo Maria
D'Addiego, rapito ai vivi in pochi istanti nella notte dei 31 del p.sp.. marzo,
ha immerso in grandissima costernazione I Religiosi delle Scuole Pie. Nativo
egli di Turi nella Puglia, vesti giovinetto le divise del Calasanzio, e fatti
con somma lode isuoi studj nel Collegio Reale di Napoli, diretto dai religio si
suddetti ivi professa per lo spazio di quaranta e più anni prima le belle
lettere, e poscia la Filosofia e le Matematiche, nell'insegnamento d'entrambi
accoppið sempre la pietà, lo studio l'amorevolezza el'industria alla precisione
de'metodi. Fu due vol te Provinciale; e dopo lepassate luttuose vicende
nominato Delegato Generale pel riordinainento delle Scuole Pie nel regno delle
due Sicilie, ebbe la consolazione di veder coronate le sue fatiche da un esito
felicissimo. Chiamato Breve di Leone XII, di gloriosa ricordanza, al Governo Hi tiftta la sua Religione, la
regole con dolcezza e prudenza, si mostrò padre con tutti, e a tutti su
specchio einodello di quelle rel giose virtù, che più belle appariscono in chi
tiene l'altrui direzione Vicino al termine del suo ogorevole incarico,
stavaeliane Tando alla tranquillità della vita privala, dalla quale la sola
Defienza aveva pniuto cayarlo; quando piacque all'Eterno di premiare (come
speriaino) con franquillità ben maggiore imeritiche si aveva procacciati nella
crislis na e religiosa carrier. Domani sicelebrerà la Stazio De rrella Chiesa
di S. Giovanni in Laterano. TRATTENIMENTO PEL NEL LETTORE Che D. D. D.
NECESSITA DEGLI SU LA MIGLIORAMENTO MACCHINE pubblicamente SIGNORI I Giuseppe
GIUSEPPE DE GIOVANNI Studenti di COLLEGIO Filosofia e DELLE SCUOLE PIE SOTTO LA
VINCENZO D'ADDIEGO. FRANCIONI Rivera Cesare D. PASCALE REALE DIREZIONE DEL
MARIA MARTINO BATISTA SPERIMENTI DELLE sperimentano CONVITTORI Matematica
FISICO ZNALED COLLONES /1000 NAPOLI 1810. COL PERMESSO DEL GENERALE, NELLA
STAMPERIA MINISTRO FLAUTINA. DELLA POLIZIA. S u m a t quisque, quod suum credit,
nihil mihi vindico, Sgravesand in Prafat, Mihi satis fuerit, suum cuique
habuisse honorem, Dalham in Præfat. I chierici regolari poveri della Madre di
Dio delle scuole pie (in latino Ordo Clericorum Regularium Pauperum Matris Dei
Scholarum Piarum) sono un istituto religioso maschile di diritto pontificio: i
membri di questo ordine, detti comunemente scolopi o piaristi, pospongono al
loro nome le sigle S.P. o Sch. P. Lo stemma dell'ordine reca il monogramma
coronato di Maria e le lettere greche MP e ΘY, abbreviazioni per μήτηρ θεοῦ
(madre di dio) Le origini dell'ordine risalgono alle scuole popolari gratuite
(scuole pie) fondate da san Giuseppe Calasanzio a Roma. Calasanzio e i suoi
compagni diedero inizio a una congregazione di religiosi per l'insegnamento:
papa Gregorio XV elevò la compagnia a ordine regolare con breve. Gli scolopi si
dedicano principalmente all'istruzione e all'educazione cristiana di giovani e
fanciulli.[2] Il fondatore dell'ordine, Giuseppe Calasanzio, giunse a Roma e
venne nominato Teologo e precettore dei nipoti del cardinale Marco Antonio
Colonna. Si iscrisse alla Confraternita dei Santi Apostoli. Nel mese di
maggio cominciò le visite ai rioni di Roma, portando aiuto ai poveri. Un
giorno, mentre passava in una piazza, fu colpito in modo insolito dallo
spettacolo di una turba di sudici e malvestiti ragazzi che giocavano tra grida
scomposte, atti sconci, litigi e bestemmie. Di colpo comprese qual era la
missione per la quale era giunto a Roma dalla sua patria lontana: la scuola.
Così, in un ambiente di ristrettezze e povertà, in due povere stanze attigue
alla sagrestia e messegli a disposizione dal parroco Don Brendani della chiesa
di Santa Dorotea in Trastevere, aprì "la prima scuola popolare gratuita in
Europa", come riconobbe anche Ludwig von Pastor, che nella sua monumentale
opera Storia dei Papi scrisse ebbe origine la prima scuola popolare gratuita
d'Europa. E lì, in tempi in cui l'istruzione era privilegio delle classi più
abbienti, sviluppò il suo progetto della scuola come strumento di promozione
umana e salvezza educativa per i ragazzi di strada (metodo preventivo, attinto
da san Filippo Neri). Nel 1602 fondò la "Congregazione secolare delle
Scuole Pie".
Vincenzo Maria d’Addiego. Addiego. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Addiego” –
The Swimming-Pool Library.
Grice ed Adelfio – Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza
(Roma). Filosofo italiano. Adelfio was a gnostic who taught in Rome and
attracted a number of followers. He seems to have been a critic of the
Accademia, and was one of those Plotino had in mind when he made his attack on
gnosticism.
Grice ed Adorno – il
gusto degl’antici per gl’antici – filosofia siciliana -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Siracusa). Filosofo. Grice: “I like Adorno; he more
than anyobody else I know UNDERSTANDS the change of mind set from the Hellenic
embassy at Rome and the ‘gravitas’ of the Romans who found that relativistic
talk on justice ‘sophistical’! Scipione and the Roman aristocracy – just to be
different – enjoyed it and embraced it – and it turned out that, as antiquities
became more popular with the Romans, they recovered the many schools of
philosophy that have thrived in the provinces: Velia, Crotone, Girgenti.” Filosofo.
Laureato in Filosofia a Firenze e professore a Bari, Bologna e Firenze, è stato
presidente dell'Accademia Toscana di Scienze e Lettere "La
Colombaria", del Museo e istituto fiorentino di preistoria e
dell'Accademia delle Arti del Disegno. Ha diretto la pubblicazione del Corpus
dei papiri filosofici greci e latini. Ha
studiato il rapporto tra l'insegnamento socratico e la sofistica, estendendo i
suoi interessi a Platone, allo stoicismo e all'epicureismo; inoltre ha
approfondito aspetti della cultura greco-latina e cristiana tra il primo secolo
a.C. e il sesto secolo d.C., nonché del pensiero tardomedievale e umanistico. Utilizza
il metodo filologico per la descrizione degli autori del pensiero antico della
scuola ionica, di Socrate, di Platone, della prima Accademia, delle scuole
ellenistiche, di Epicuro, di Seneca, ecc.
La sua formazione culturale affonda le radici negli ambienti
intellettuali e politici fiorentini e in particolare risente dell'influenza
crociana nell'interpretazione della filosofia come riflessione teorica mai
disgiunta dalla situazione storica reale. In nome di questa concretezza
antimetafisica e della necessità di una descrizione storica del pensiero
filosofico, aderisce al metodo marxista e alla filosofia del linguaggio facendo
sì che i testi classici vengano interpretati nel loro autentico e concreto
sottofondo politico e culturale. Opere:
“I sofisti e Socrate”; “La filosofia antica”; “Studi sul pensiero greco”; “Socrate”;
“Dialettica e politica in Platone”; “Platone”; “I sofisti e la sofistica nel
5°-4° sec. a.C.”; “Pensare storicamente”.
“Pitagora di Samo. I suoi viaggi, la permanenza in Magna Grecia. Le
suggestioni e la polymathia di
Pitagora”. Esigenze e problemi in Magna Grecia e ad Velia dal VI secolo
all'inizio del V l. su
RAIEnciclopedia multimediale delle scienze filosofiche. Adórno, Francesco, in
TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia
multimediale delle scienze filosofiche alla voce corrispondente. Maria Serena Funghi, Hodoi dizēsios. Le vie
della ricerca: studi in onore di Francesco Adorno, Firenze, Olschki, Francesco Adorno, su Treccani Enciclopedie on
line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Francesco Adorno, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Opere di
Adorno, su open MLOL, Horizons Unlimited
srl. Filosofia Filosofo del XX secolo Filosofi italiani del XXI secolo Storici
della filosofia italiani Accademici italiani del XX secolo Accademici italiani Professore Siracusa Firenze Studenti dell'Università
degli Studi di Firenze Professori Bari Professori dell'Bologna Professori
dell'Università degli Studi di Firenze. E interessante sottolineare
che Pitagora di Samo, isola ionica vicina alle coste dell'Asia Minore, emigra
in Crotone, Italia (Magna Grecia) dopo aver fatti molti viaggi in Egitto e in
Oriente, viaggi non impossibili, anche se poi le piu tarde scuole pitagoriche
hanno voluto vedere in essi ben altro. Samo, dopo alterne vicende simili a
quelle delle altre città e isole ioniche, dopo lunghi contrasti tra la classe
dei nobili e la democrazia, e dominata dal tiranno Policrate, che favod il
popolo contro i nobili, che si circonda di una fastosa corte, che e amico di
Amasi re di Egitto. E per contrasti sorti con Policrate che Pitagora abbandona la
Ionia per recarsi a Crotone nell'Italia meridionale, accompagnato là da una
fama già leggendaria. Eraclito ed Erodoto, parlando di Pitagora, testimoniano
appunto la fama di lui nel mondo ionico. Eraclito (Diogene Laerzio, IX, l)
sprezzantemente parla della multiscienza o polymathia di Pitagora. Evidentemente
il disprezzo nasce in Eraclito da una fama, o leggenda che fosse, ormai
acquisita. Erodoto, riferendo dubitosamente la leggenda di Zalmosside, un
tracio vissuto a Samo, in qualità di schiavo e di allievo di Pitagora e che,
poi, liberato e arricchito torna in Tracia, dove sale in fama di mago e dove
insegna l'immortalità dell'anima, provata con un trucco, afferma che questo gli
era stato narrato dagl’abitanti l'Ellesponto e il Ponto (cfr. Erodoto). La vita
e la figura di Pitagora le troviamo avvolte nella leggenda dai tempi piu
antichi. Con una certa sicurezza si può dire che Pitagora nacque a Samo, da
Mnesarco. Emigra da Samo nella Magna Grecia per un dissidio sorto con Policrate
tiranno di Samo. Possono non essere leggendari i suoi molti viaggi, in
particolare quelli in Tracia, in Asia Minore, in Egitto] a Creta. Risale
probabilmente a Pitagora in Crotone la fondazione di una setta, ove si svolge
una vita pitagorica. Fama di dotto e di enciclopedico e fama di uomo superiore,
Pitagora dove, dunque, avere già prima del suo ultimo viaggio che lo trasporta
a Crotone. Per quanto scarse, fondamentali sono le testimonianze di Eraclito,
Senofane ed Erodoto, che confermano l'esistenza reale di Pitagora. Pitagora a
Crotone, fondatore di una setta, di quella vita pitagorica di cui parla anche
Platone (Repubblica), scienziato e sacerdote a un tempo, sacerdote e medico di
anime, si perde nella leggenda, o meglio nelle ricostruzioni dei tardi filosofi
neo-platonici e neo-pitagorici. “La Vita di Pitagora,” di Porfirio e la “Vita
pitagorica” di Giamblico ricavano gran parte delle notizie dai pitagorici
Apollonio di Tiana, Moderato di Gada, e Nicomaco di Gerasa. Solo che il pitagorismo
puo sorgere, interpretandola a modo suo e per nuove esigenze, da una lunga e
continua tradizione che si scandisce in tempi diversi, ogni volta tornando alla
leggenda e proiettando in essa ciò che rispondeva a un certo tempo e a una
certa situazione, onde, piu che di pitagorismo parlamo di pitagorismi. Di tappa
in tappa, a ritroso, attraverso un attento smontaggio delle varie stratificazioni,
si può risalire sino a Filolao, di cui possediamo alcuni frammenti. Risalire
oltre è estremamente difficile e pericoloso. Gli stessi scritti andati sotto il
nome di Pitagora – i versi d'oro, i tre saggi su educazione, politica, e fisica
-- sono composti da filosofi che rivivano il sacro verbo del divino filosofo.
Lo stesso Aristotele, cosi propenso ad interpretare posizioni diverse in
funzione del proprio pensiero, non cita mai direttamente Pitagora, ma parla
sempre di coloro che vengono detti PITAGOR-ici (Metaf.). – cf. Speranza non
cita direttamente Grice, ma parla sempre di coloro che vengono ditti GRICE-iani.
O Giuliano non parla di Cristo ma dei Galilei! D'altra parte di quello che può
essere stato il Pitagora storico, anche il nome ha destato sospetto, ché il
nome ‘Pitagora’ significa “l'annunciatore di Pizio,” e la leggenda vuole che
Pitagora fosse figlio del dio Apollo pizio o del dio Mercurio - non sappiamo
altro dalle fonti piu antiche se non che Pitagora, figlio di Mnesarco, nativo
di Samo, si sarebbe occupato di una quantità di studi," (Lct&I
Lct't'ct -- Eraclito) - e che quindi sarebbe stato spinto da un largo desiderio
di sapere. Forse di qui la fama di Pitagora, “l’annunciatore dell’apollo pizio,”
che per primo usa il termine ‘filo-sofo’, desideroso, “filos,” appunto, “di sapienza,”
sofia – o sapiente dell’amore? -- che sostenne l'immortalità dell'anima e forse
la tras-migrazione delle anime, che, giunto a Crotone, fonda una conventicola
politico-religiosa. Obbiettivamente non basta l'accenno di Eraclito ai molti
mathemata per indurre che Pitagora interpreta il tutto in termini numerici, che
per Pitagora le cose sono numeri, né può bastare per far risalire a Pitagora una
teoria fisica. Si pensi, comunque, anche al fatto che il termine “~&-rj(.Lot”,
che c'è in Eraclito (fr. 41), significa solo studio, apprendimento, e che nelle
fonti antiche, riferentisi a Pitagora, mai troviamo il termine “numero”
(&.pL&(.L6t;). Il termine “numero” lo si trova, invece, in alcuni
frammenti di Filolao. Orbene, una tradizione riferisce che e Filolao a
divulgare la sapienza di Pitagora, tradendo quello che è stato detto il
"silenzio pitagorico,” cioè, l'assunto che la setta doveva mantenere il segreto
sull’inziazione. Solo che altra tradizione riferisce anche che il silenzio sarebbe
stato rotto da Ippaso, filosofo piu antico di Filolao, da Archippo, da Liside, e
cosi via. E costruita nei questi circoli la leggenda di Pitagora uomo divino,
già Eraclide elabora la leggenda delle re-incarnazioni di Pitagora; e ben si
conosce l'austerità dei filosofi pitagorici, austerità che ci è testimoniata da
Isocrate. Dunque l'interesse accresciuto per la scuola di Crotone (o Crotona)
suscita il desiderio di conoscere quale era stata la storia di Pitagora. Si
scoprono nomi, si conoscono accadimenti, ma non si scoprono saggi di filosofi pitagorici
anteriori a Filolao. La leggenda del silenzio pitagorico nasce cosi, e -cosi
nasce l'accusa mossa a Filolao e poi ad altri di aver violato il segreto
pitagorico (Maddalena, “I pitagorici,” Bari). Aristotele, poi, sostiene che al
tempo degli atomisti, quelli che sono chiamati pitagorici si dedicano allo
studio delle matematiche e lo fecero progredire. I scolastici di Crotone,
dunque, nutriti nello studio delle matematiche, credeno che i principii delle
matematiche sono i principii delle cose (Metaf.). Evidentemente, qui Aristotele
si riferisce proprio a Filolao e all’italiano Archita, della famosa colomba
mecanica. Dunque la scuola di Crotone, fondato sulla scienza dei numeri e della
geometria, dei numeri interi prima, degl'irrazionali poi, attraverso
l'influenza di Teeteto e di Teodoro, e in effetto posteriore a Pitagora e ai
primi immediati suoi discepoli. Ma forse un altro passo di Aristotele può
chiarire il complesso problema. Aristotele, accanto ai pitagorici aritmetici,
ne pone altri. Altri pitagorici però dicono che dieci sono i principii,
ordinati in serie: limite/illimitato, dispari/pari, uno/molteplice,
destroy/sinistro, maschio/femmina, in-quiete/in-movimento, diritto/ricurvo,
luce/tenebra, bene/male, quadrato/rettangolo. In modo simile pare che pensasse
anche Alcmeone di Crotone, sia che apprese questo da loro, sia ch'essi l'abbiano
appreso da lui (Metaf., I, 5, 986a-986b). ALCMEONE, medico della scuola di
Crotone, vive circa al tempo in cui a Crotone e Pitagora. A Pitagora, dunque,
si puo far risalire il motivo delle opposizioni, delle cose vedute come determinantisi
e quindi opponentisi. Forse di qui è nata la fama di Pitagora discepolo, nell’lonia,
di Anassimandro e di Anassimene. Discepolo o meno, certo nell’Ionia Pitagora
conosce gli studi (!Lot&~!Lot't'cx) di Anassimandro e la sua visione
geometrica della realtà scandentesi nel ritmo dei limiti e delle compensazioni
entro la linea dell'indeterminato illimitato. Dalla materia indefinita, pura
quantità, incomprensibile se non determinata, limitata e qualificata, cioè
numerata, onde dal numerare si costituiscono le cose stesse, il passo e breve,
come facile è l'affermazione che, dunque, le cose sono numeri. Probabilmente
tale e la tesi dei primi discepoli di Pitagora, anche se non cosi esplicita.
Piu tardi, sia da Parmenide di Velia sia, per altro verso, d’Eraclito, tale
tesi della realtà scandentesi nei contrari, e aspramente criticata, soprattutto
per l'implicita opposizione contraddittoria di ciascuna unità (uno per sé) alle
altre unità (molti per sé). In Filolao si trova la tesi famosa dell'armonia dei
contrari, del pari e del dispari che si costituiscono dall'uno-parimpari e,
sottesa, una discussione serrata nei confronti di Parmenide, ed è probabilmente
con Filolao che l'oggetto dei “!LCX~!LCX't'cx” pitagorici divenneno il numero,
“cìp~&!Lo(“, mentre nei primi pitagorici e ancora il contorni di una cose,
il di-segno, costituito di punti. Si venne cosi a delineare già nella scuola di
Crotona due momenti storicamente determinabili. Uno originario, del tempo di
Pitagora, in cui il tipo di indagine è vicino a quello di Anassimandro e di
Anassimene. Un secondo che, dopo Parmenide di Velia, si delinea in un senso piu
strettamente matematico e musicale, che però spiega come i suoi sostenitori
(Filolao ed ARCHITA DI TARANTO) puossono proclamarsi “pitagorici,” recuperando
certi “!L«&~!LCX't'CX” di Pitagora. Piu complicato ancora è stabilire storicamente
l'aspetto religioso-magico di Pitagora, l'effettiva consistenza della setta
d'iniziati che fonda a Crotone, i suoi rapporti da una lato con gli sciamani e
il leggendario Abari, sciamano venuto dal nord (Dodds, “I greci e
l'irrazionale”, Firenze, pp. 171 sgg.), dall'altro lato con ALCMEONE e la
scuola medica di Crotone. Ancora durante il suo soggiorno in l’Ionia, Pitagora
e famoso per la sua multi-scienza, ma anche per il suo atteggiamento di uomo
attraverso cui parla il divino, per il suo atteggiamento magico-religioso. Si
dice che tale suo fascino suscita nell’Ionia meraviglia e forse anche
diffidenza (M. Timpanaro-Cardini, “Pitagorici; test. e framm.,” I, Firenze, p.
4) ed si sostenne che Pitagora e un aristocratico che si trova in contrasto con
il mondo ionico e milesio, razionalista e teso ormai a spiegare i fenomeni coi
fenomeni (O. Gigon, “Der Ursprung d. griechischen Philos. von Hesiod bis
Parmenides”, Basilea). È questa un'ipotesi plausibile, che da un lato spiega il
contrasto con Policrate di Samo, tiranno, democratico, circondato da una corte
lussuosa, e dall'altro l'accoglienza data a Pitagora in Crotone, governata
aristocraticamente, in lotta contro Sibari liberale e democratica. Sempre in
via ipotetica, si puo dire allora che certi atteggiamenti religiosi e magici Pitagora
benissimo accolta durante i suoi viaggi in Egitto e poi a Creta. Cosi il motivo
dell'immortalità dell'anima l’accolta dal dionisismo trace e cretese, dal
demetrismo di Creta, trasformando quelle che erano credenze agrarie, e che
oramai avevano assunto nelle città dell’Italia forme politico-religiose, in una
incantagione di tipo medico quali trova tra i medici incantatori e sacerdoti
egiziani e soprattutto tra i medici della scuola di Crotone. Di qui, forse, e
nata poi la fama di Pitagora discepolo del cosiddetto orfico Ferecide di Siro,
e la leggenda che Pitagora, giunto a Creta, scese nell'antro dell'ida, apprenne
nei misteri le cose riguardanti gli dèi. Parte poi per Crotone (Pap. Herc.,
1788, VIII, fr. 4). Cosi non sembra un caso che la'leggenda già nota a Platone
(“Carmide”, 156d-e) abbia fatto di Zalmosside, presunto discepolo di Pitagora,
un medico che, accanto alla pozione o all'erba curativa, pronuncia un discorso
incantatore, ch'era tipica pratica dei medici della scuola di Crotone, tra cui
non va dimenticato che v'e ALCMEONE che e pitagorico, o, forse, viceversa,
influenza i primi pitagorici. Ora, la. tesi ionica dei contrari, dei limiti e
della compensazione, può essere propria anche di Pitagora, può spiegare,
rifacendoci in particolare al motivo dell'aria o respiro di Anassimene, la testimonianza
di Aristotele, secondo cui certi pitagorici ritennero che esiste il vuoto e che
il vuoto entra nell'universo, in quanto l'universo respira dall'infinito, o
“apeiron”, il respiro e il vuoto. Il vuoto, si dice, distingue le nature,
essendo una specie di separazione e di distinzione delle cose consecutive (“Fisica”).
Poiché la tesi dell'universo che respira ed è respiro è criticata in un
frammento di Senofane (fr. 7: cfr. Diogene Laerzio, IX, 19), non del tutto
aleatoria è l'ipotesi che il respiro dell'universo sia proprio del primissimo
pitagorismo. La vita del tutto si scandisce, dunque, nel ritmo dei contrari per
la forza della respirazione, di due moti contrari, emissione ed immissione,
costituenti l'armonia del tutto, d'onde quella che e la cosmologia della scuola
di Pitagora. La vita risulta quindi dall'equilibrio della respirazione, dal
soffio vitale (anima). L'anima è, quindi, presente a tutto e per ciò,
nell'uomo, il venir meno dell'equilibrio, della compensazione è malattia e poi
morte dei singoli, non del respiro che ri-vive in chi vive. Per questo, l’uomo
muoe, perché non puo ricongiungere il
principio con la fine, si legge in un frammento di Alcmeone di Crotone (fr. 4).
Qui, forse, anche il motivo pitagorico dell'immortalità dell'anima e della
trasmigrazione, è terapeuticamente la cura del corpo che non può non essere
accompagnata dalla cura dell'anima. E come il corpo si cura ristabilendo
l'equilibrio, cosi l'anima si cura ristabilendo l'equilibrio, purgandola, purificandola
mediante un apprendimento, mediante un’incantagione. E se l’insegnamento
consiste nell'iniziazione alla visione dei contrari e del respirante cosmo,
l’incantagione si dove a un discorso e alla musica. Il sodalizio di Pitagora a
Crotone si delinea come una specie di scuola medica, in cui se da un lato il
maestro inizia ai “mathemata” putificatori, dall'atro, mediante una dieta, a
prescrizione di cibi (fave, carni, ecc.), austerità di vita, tende alla cura
dell'anima, a far si che l'uomo scande la propria vita all'unisono con la vita
del cosmo. Senza dubbio vecchie credenze popolari, certi aspetti del dionisismo
e dei misteri cretesi, certi tabu, ricongiungendosi a tradizioni apollinee,
sirveno benissimo a costituire questa vita pitagorica che in altri tempi, per
altre esigenze assume ben diversi significati. Si venne cosi a costituire,
probabilmente fin dal tempo di Pitagora, tutto un complesso di norme
dietetico-religiose, un sodalizio purificatorio, in cui, secondo il racconto di
Dicearco (Porfirio, Vita di P., 18-19), che fossero ammessi ad ascoltare il
verbo del maestro, la verità (“autòs épha”, “ipse dixit”) e a far parte del
sodalizio uomini e ove, fin dai primi tempi si ha la celebre distinzione tra
acusmatici o acustici -- coloro che dovevano solo ascoltare -- e matematici, coloro
che si iniziavano agli studi veri e propri e che furono probabilmente i
continuatori dell'insegnamento scientifico del maestro. A Pitagora, dunque, si
possa far risalire la visione del cosmo scandentesi nei dieci contrari (da cui
poi prese le mosse la concezione aritmo-geometrica e musicale) e vivente del
respiro (da cui la cosmologia); la concezione dell'immortalità dell'anima e
della presenza dell'anima là dove sono esseri (e forse a questo allude il
celebre frammento di Senofane, per cui l'immortalità dell'anima e la tra-smigrazione
si è fatta risalire ai primi pitagorici. Si narra che una volta, passando per
dove maltrattavano un cagnolino, Pitagora impietosito pronunziasse, ‘Smetti di
battere, poiché è certo l'anima di un mio amico: l'ho riconosciuto udendone la
voce!’ (fr. 7); la cura medico-incantatrice dell'anima, ove sono presenti
tradizioni magiche antiche, vive soprattutto in l'Italia, e tradizioni agrarie
e mistiche che probabilmente proprio allora si costituisce in quelle
associazioni che avranno poi il nome di orfiche e che giuocano in senso
politico nelle ultime lotte dall’aristocrazia. Ed è qui che sia pure in via
ipotetica - s'in- serisc~ il fatto che a Crotone, in un primo tempo, e accolto
con entusiasmo l'insegnamento morale, equilibratore e GERARCHICO, di Pitagora
dai circoli aristocratici che hanno in mano il potere quando Pitagora giunse a
Crotone. Secondo la tradizione, la setta pitagorica e poi ostacolata e
combattuta sia dagli aristocratici - essa, in fondo, dovette rivelarsi piu
vicina alla latta condotta dai democratici in nome di una misura e di una legge
che non fosse obbligatoria solo perché data dagli antichi signori che unici
hanno in mano il potere. E non è forse un caso che si dice che a Pitagora si
siano ispirati i legislatori Zaleuco di Locri e CARONDA DI CATANI, sia dai
primi movimenti democratici che videro forse nella setta pitagorica
un'eccessiva chiusura aristocratico-sacerdotale. La leggenda narra che
l'aristocratico CILONE DI CROTONE, fattosi interprete dei malcontenti contro il
sodalizio di Crotone, che ha sede nella casa di Milone, assalta, insieme a
molti altri, la casa, ov'erano riuniti i pitagorici, e l’incendia. Si dice che
sfuggirono alla morte Archippo e Liside. Liside si rifugia a Tebe dove sembra
fonda un circolo pitagorico. Certo a Tebe fiorirono piu tardi Filolao e poi
Simmia e Cebete, i famosi interlocutori pitagorici del “Fedone” di Platone.
Archippo si rifugia a Taranto, ove prosegue l'opera del maestro. Di Taranto e
il pitagorico ARCHITA, amico di Platone. Quanto a Pitagora vi sono due
versioni, l'una risalente a Dicearco (fr. 34 Wehrli), l'altra ad Aristosseno.
Secondo la versione di Dicearco, prima dell'esplosione violenta dei Ciloniani
che porta all'incendio della casa di Milone, Cilone fa allontanare Pitagora da
Crotone. Pitagora si recato a Metaponto dove e morto ancor prima dell'incendio.
Secondo la versione di Aristosseno (fr. 18 Wehrli), Pitagora sarebbe sfuggito
al massacro, perché non era presente. Fuggito a Locri poi passa a TARANTO per
andare, infine, a Metaponto dove e morto, probabilmente (cfr. Porfirio, Vita
Pit., 56). Data l'indefinitezza della figura storica di Pitagora e del suo insegnamento,
e opportuno delineare solo certe suggestioni la cui origine si possa
effettivamente far risalire a Pitagora, suggestioni che hanno dato luogo a
motivi molteplici e a interpretazioni che si son delineate su vie diverse (la
via della legislazione, dell'aritmetica, della mistica, del SIMBOLO, della
medicina), e che hanno profondamente inciso, per un verso o per l'altro, a seconda
di certe esigenze o di altre, sulla cultura italica. costituendo, nella circolazione
delle idee, componenti molteplici, sia nel mondo italico. Si può dire che i
primi pitagorici, quelli che Aristotele avvicina ad ALCMEONE DI CROTONE, sono
quei pitagorici che stabiliseno le dieci serie di opposti. Sono gli scolari di
Pitagora o i discepoli piu vicini al maestro i quali pensano si al numero come
rapporto e armonia, ma tra i componenti dell'armonia poneno oltre tutti gli
opposti, anche l'uno e il molteplice. Ma come potevano accordarsi l'uno e il
molteplice? (E. Paci, St. d. pensiero presocratico, Torino). Proprio questo
disaccordo o opposizione, tra l'uno da un lato e il molteplice dall'altro,
impegna la discussione d’Eraclito, mentre, per altro verso, imposta la polemica
di Parmenide di Velia. Certo di numeri nel *senso* matematico della parola non
troviamo accenno nei primi pitagorici, se non piu tardi con Filolao. Nei primi
pitagorici si tratta nell'esigenza di definire la quantità indefinite, il
contorno di una cose, di un di-segno, costituito di punti. In altri termini, i
pitagorici scoprono, attraverso quanto, mediante Pitagora, e pervenuto dalla
geometrizzazione di Anassimandro, che “intendere” significa “misurare”, e “de-finire,
appunto di-segnare. E poiché il ‘di-segno’, lo schema, sotto questo aspetto la
forma, la de-limitazione è linea. Un piano e un insieme di line. Un solido e un
insieme di piani. Una linea e un insieme di punti. Si puo dire che ciò, senza
di cui nulla è, e il punto, e che, dunque, la qualificazione, l'intelligenza
delle cose è dovuta al punto stesso e alla variazioni spaziali dei punti, onde
una figura e una schema, la cosa, e pure, numeri. Ciò che rende conto della
realtà stessa, delle cose, e la misura. Ora, se l'unità è il *punto*, si
capisce come l'unità sia unita accanto ad altre unità. Di qui l'opposizione
uno/molti, e, nella configurazione della cosa-punti, le opposizioni
pari/dispari, limitato/illimitato, destroy/sinistro, maschio/femmina, quiete/movimento,
diritto/ricurvo, quadrato/rettangolo. E poiché il dis-pari è in-divisibile, e
cioè riferibile all'unità, il dispari e anche bene e luce, mentre, all'opposto,
poiché il pari è divisibile, riferibile alla molteplicità, il pari r anche *male*
e tenebre. Nella tavola pitagorica delle opposizioni, abbiamo cosi una figura-punti
dispari e una figura-punti pari, che, se vengono ra-ffigurati, come sembra
facessero i primi pitagorici, con una squadra (gnomone), si de-terminano in
modo che i lati della squadra resultino uguali nei dispari, mentre nei pari i
lati resultano disuguali, e quindi mentre i primi sono sempre rapportabili
all'unità, i secondi sono rapportabili alla molteplicità. Il quadrato a costituito
di gnomoni dispari, il rettangolo di gnomoni pari, per cui il *quadrato è unità*,
il rettangolo molteplicità, e via di seguito. Si puo cosi parlare di un numero
quadrato e di un numeri oblungo, ed è probabilmente entro questi termini che
assume significato la famosa uaternaria pitagorica, sulla quale, si è detto
poi, i pitagorici giurano, dato il suo valore sacro. Il suo valore sacro deriva
dal fatto che la rappresentazione geometrica della quaternaria è costituita da
10 punti messi in forma di triangolo avente quattro punti per lato, la cui
somma 1 + 2 + 3 + 4 è uguale a 10. La quaternaria costitusce il numero
perfetto, poiché racchiude in sé i numeri delle TRE proporzioni musicali (proporzione
ottava 2:l, proporzione quinta 3:2, proporzione quarta 4:3), delle quattro
specie di enti geometrici -- punto = l; linea = 2; superfice = 3; solido = 4)
cioè di ogni cosa (cfr. Mondolfo-Zeller, “La filosofia dei greci nel suo sviluppo
storico” Firenze, p. 676). E questa un'interpretazione piu tarda.
Unità-molteplicità resta, dunque, l'opposizione fondamentale. Compresa l'unità,
la misura, l'armonia, rimane incompresa la molteplicità, la dis-armonia: il
calcolabile (razionale) e l'incalcolabile (irrazionale, incommensurabile). Oppure
gli uni rimaneno accanto agli uni e, dunque, ai molti dell'indefinito spazio
(quantità), che fu forse il respiro di cui, sembra, parla Pitagora, o il vuoto
cui accenna Aristotele. Solo che l'indefinito, de-finendosi, è un insieme di
punti, è il contorno di cose che tuttavia si scandisce come pari e dispari,
come infinito e finito, come comprensibile e incomprensibile, il tutto vivente
dell'infinito (respiro), e quindi esso stesso, perché indefinito, incomprensibile,
irrazionale. Di qui prende le mosse la critica di Parmenide di Velia, che,
senza dubbio, ha rapporti coi primi pitagorici, anche se può essere leggendario
ch'egli sia stato avviato alla filosofia, come dice Diogene Laerzio, da Aminia,
figlio di Diocete, pitagorico (IX, 21). Ma di qui, crediamo, anche le due facce
dello stesso Pitagora, da un lato volto ai “mathémata”, alla geometrizzazione,
alle tecniche, e dall'altro al silenzio, alla via sacerdotale, come si dirà piu
tardi, che coglie, come in un'iniziazione, di là dall'opposizione del finito e
dell'infinito, del pari e del dispari, il divino respiro del tutto, la suprema
armonia. Da questo, comunque, discende anche il significato medico
dell'insegnamento di Pitagora e dei primi pitagorici, come particolarmente si
rileva in ALCMEONE DI CROTONE, che se anche si accosta a Pitagora avendo già
una sua certa formazione di origine milesia, poteva sopratutto attraverso il
motivo dei contrari e dell'equilibrio, lui medico, accettare parte dell'insegnamento
pitagorico. Come alla fisica ionica si ricollega probabilmente la primitiva
dualità pitagorica apeiron/péras, cosi da quella stessa fisica trae verosimilmente
Alcmeone alcune opposizioni: umido/asciutto, caldo/freddo, amaro/dolce, le cui
potenze constata nella pratica della medicina, e che introduce in questa
corrente pitagorica (M. Timpanaro-Cardini, pp. 119- 20). Dice cosi Alcmeone che
la salute si mantenne dall'equilibrio delle forze, dell'umido, del freddo, del
caldo, dell'amaro, del dolce e cosi via, mentre il dominio di un solo provoca
la malattia (fr. 4), onde l’uomo muoie perché non puo ricongiungere il
principio con la fine (fr. 2). E cosi non è un caso che medici e pitagorici
siano stati anche CALLIFONTE e DEMODENE DI CROTONE, e poi di Taranto, medico e
maestro di GINNASTICA. Ed è
probabilmente entro questa cerchia di interessi e di problemi, anche se
discussa n'è la datazione, che rientra l'anonimo trattatello cosmologico-medico
“Sul numero sette” (m:pl ~~3otJ.Ii3(1)v), i cui primi undici capitoli (forse
piu antichi) descrivono il dominio del numero sette nell'universo, mentre i
capitoli ultimi (XII-LIII) discutono le malattie partendo dalla premessa che gli
animali e le piante che vivono sulla terra hanno una natura simile a quella del
cosmo, i piu piccoli come i piu grandi (c. VI). A parte Pitagora, maestro e
medico, nei primi pitagorici sembra abbiano prevalso, entro la visione totale di
Pitagora, interessi piu particolari e tecnici, o per la medicina, o per la
traduzione di una cosa in punto-figura, dai quali si venne poi formando quella che sarà la
cosmologia pitagorica (come può darsi sia il caso di Petrone d'Imera che ha una
visione del cosmo in forma triangolare; o di Cercope, o di Brotino, o di Xuto,
di cui in effetto non sappiamo quasi niente); o per la mnemotecnica (Parone) o
la botanica (Menestore). Esclusi dalla scienza segreta, gli acusmatici con a capo
Ippaso di Metaponto si ribellano contro i matematici, divenendo tali essi
stessi, o meglio Ippaso, uno dei maggiori matematici del primo pitagorismo,
egli che divulga il dodecaedro, iniziando le ricerche sugl'irrazionali.o
incommensurabili, poi proseguite da Teodoro
e da Teeteto. Di fatto, le testimonianze su di lui sono molto discordanti e in
discussione è anche il periodo storico in cui sarebbe vissuto. Ssecondo E.
Frank, Plato u. die sogenannten Pyth., Halle, e quasi contemporaneo di Archita.
Per quanto possiamo ricavare su Ippaso dalle testimonianze (tutte molto tarde,
aristoteliche, post-aristoteliche e neo-platoniche) sappiamo ch'egli trova
gl'irrazionali in geometria, il medio armonico in aritmetica (di qui
l'avvicinamento ad Archita), gl'intervalli sin-foni in musica, la tesi dei
periodi cosmici e del tutto costituito dal fuoco, per cui già in antico è stato
avvicinato ad Eraclito (cfr. Waerden, in "Hermes,"; M. Timpanaro). La
circolazione delle idee Epicarmo, commediografo, vissuto tra il 550 e il 460,
nato forse a Cos, nell'Ionia, o a Megara Sicula, vissuto fin da bambino nella
Isola di SCILIA e particolarmente a SIRACUSA, alla corte di Gelone e di Gerone,
ove, sembra, conosceSenofane, ha, per i frammenti che di lui ci sono rimasti,
pochi purtroppo, mportanza notevole come fonte. C'è chi in EPICARNO ha
rintracciato motivi eraclitei, chi ha individuato motivi del primo pitagorismo
(l'opposizione di pari e dispari: particolarmente interessante il fatto che,
parlando di tale opposizione, per dire cosa siano le unità e il cangiamento
delle cose, Epicarmo, sosteenne che si tratta di aggiungere o togliere pietruzze
- fr. 2, - ossia i punti), chi ancora parladi chiari influssi senofanei. Originario
di Cos, nell'Ionia, o di Megara Sicula, vissuto a Siracusa, fin da bambino,
alla corte di Gelone e di Gerone, Epicarmo e il primo grande poeta della
commedia dorico-siciliana. Si son conservati di lui un trecento frammenti e
molti titoli, da cui si ricava che nelle sue commedie mette in parodia la
mitologia (“Ulisse disertore”, Ciclope, Sirene, Ulisse naufrago), o si diletta
di rappresentare figurine umane, tipizzandone i caratteri (Il contadino, Il
megarese]. Isolando l'uno o l'altro motivo si cerca di delineare ora uno ora
altro sistema filosofico di Epicarmo. Piuttosto che andar rintracdando una filosofia
di Epicarmo, ciò che sembra importante è, da un lato, sottolineare il
significato che hanno i suoi frammenti per stailire certi motivi propri del
primo pitagorismo, ma soprattutto, dall'altro lato, per rendersi conto di come
circolasno le idee e di come tali idee dovessero far presa ed essere discusse
non in un certo ristretto mondo di intellettualima in piu vasti strati,
costituendo una vera e propria atmosfera culturale. Non va scordato, a questo
proposito, che Epicarmo e un commediografo, probabilmente uno dei primissimi.
Sappiamo che la commedia (il canto del xé;l!Lot;, della festa orgiastica) come
la tragedia (il canto dei <tpciy(l)v, dei capri) hanno origine da feste e
riti collegati con il culto di Dioniso, e che il dionisismo e all'inizio,
religione essenzialmente agraria, poi popolare nelle p6leis, e che via via s'imposne
con la caduta dell’aristocrazie. La commedia sempre mantene il suo carattere
popolare e, almeno piu tardi, popolare e politico, tanto che in effetto non
poté mantenersi che in Atene democratica, ivi compreso il caso limite del
conservatore Aristofane che, appunto, liberamente pone sulla scena la sua
polemica politica contro gli uomini nuovi e i filosofi rivoluzionari. Probabilmente
Epicarmo è il primo. Non senza interesse è che Platone (“Teeteto”) dica che nel
genere della commedia Epicarmo è degno di stare a pari con Omero ad avere
collegato e ahicolato in commedia vera e propria quelli che originariamente
sono canti fallici e parodie popolari di miti distaccati gli uni dagli altri.
Ora, proprio il fatto che Epicarmo scrive commedie e che, dunque, si rivolge a
un certo pubblico, usando una certa tecnica di discorso, porta a pensare che
quelli che distaccati dai contesti (che non abbiamo piu) sembrano possibili
"sistemi " autonomi, dovevano essere in effetto motivi comprensibili
a tutti, rispondenti anche se presi in giro a esigenze e problemi diffusi in un
piu largo mondo. Sotto questo aspetto e per quel poco che di lui ci è rimasto,
Epicarmo non fu né pitagorico né eracliteo né senofaneo. In lu, pitagorismo, motivi eraclitei e senofanei
stanno a denunciare un intrecciarsi di problemi e di interessi, in una
riflessione consapevole, da un lato sulle tecniche per rendersi conto di
fenomeni su cui operare, indipendentemente da ogni racconto della realtà,
dall'altro lato sui metodi con cui intendere quella realtà stessa entro cui
l'uomo vive, l'uomo stesso realtà, in città politicamente agitate e in via di
assestamento, ove la misura, frutto di faticosa riflessione, la misura senofanea
o lo misura eraclitea o quella pitagorica, la comprensione della natura e del
metodo che può rivelare quella stessa natura ordinate (“cosmica”) puo dar luogo
a misura cittadina, onde cosmo politico e politica cosmica finino con
l'identificarsi, e dare un significato all'opera dei legislatori, di contro
alla legge di prima la cui obbligatorietà riposa sulla antichità della legge
dettata dai primi conquistatori, assurti a demoni, i cui discendenti, discendenti
di dèi, hanno in mano i poteri politici, formando l’aristocrazia. Di qui la
polemica di Senofane contro l'antropomorfismo degli dèi di Omero e contro le
genealogie di Esiodo, di qui l'esclamazione di Eraclito che demone all'uomo e
il logos a tutti comune, che è poi il logos che il tutto governa. Non sembra
cosi senza interesse ricordare che le nuove esigenze culturali, il fervore di
queste ricerche, le indagini tecniche, i tentativi di spiegarsi i fenomeni,
l'esigenza di rintracciare quale sia la via (636t;) esatta per queste ricerche
stesse, si siano avute nelle colonie ioniche e in quelle della Màgna Grecia
nell’Italia meridionale, ove si intrecciàno anche con certe conclusioni dei
culti dionisiaci, prima che nella propria Grecia. Qui assumono significato e
sono oggetto di discussione pio tardi e in Atene democratica, al tempo di
Pericle, quando oramai le città della lonia asiatica erano state assorbite
dall'impero persiano e nelle città della Magna Grecia nell’Italia meridionale e
in Sicilia i legislatori o i primi signori si erano trasformati in tiranni. Non
sembra, dunque, senza importanza che a Epicarmo si puo accostare Senofane e
Pitagora ed Eraclito. E ciò non tanto per Senofane, Pitagora, Eraclito presi in
sé, in quella che e la loro coerenza (è vero anche che dei motivi eraclitei in
Epicarmo si può a ragione dubitare), quanto per il fatto che sia nella lonia
sia nelle colonie d'Occidente si rivele una comune situazione storica e
politica che implica una comune e diffusa esigenza volta, dicevamo, al ritrovamento
di tecniche e alla comprensione della realtà, di quello che è l'ordine del
tutto. Particolarmente indicativo e in questo senso ricordare che quasi in
questi stessi anni, in Atene in crisi, ed in via di rinnovamento dopo le guerre
persiane, Eschilo, nel “Prometeo”, fa dire a Prometeo, che ha trovato cosi
preziose invenzioni (!L1Jl«v/jfL«T«) in vantaggio dei mortali (v. 469). Gli
uomini sono inetti prima che la chiarezza di spirito e dominio della mente a
loro desi. Gli uomini in passato, pur vedendo, invano vedeno, e udendo udeno,
ma simili a fantasmi di sogno nella loro lunga vita confusamente e a caso ogni
azione compiano. Non conoscevano un sicuro SEGNO per presagir l'inverno o la
fiorente primavera, ma senza conoscenza (')'VW!L1)) alcuna regolavano ogni
azione. Ma finalmente a loro il sorgere degli astri rivelai e il tramonto si
difficile a scernere. Inoltre il numero, somma di ogni invenzione (l~o:x,ov
aocpLa!LiiT(I)V), trova per essi, e le
combinazioni delle lettere, costruttrice memoria di ogni cosa, madre dele Muse (vv.
442-461, trad. Untersteiner) Naturalmente qui non interessano per ora quali
potevano essere le conclusioni, anche su di un piano politico, di tali
ricerche, ma interessa sottolineare tutti questi motivi che rendono conto di
come storicamente, in certi ambienti e in certe situazioni, si delineano certi
problemi che dettero luogo a certe concezioni della realtà e della vita. Ed è
appunto entro questi termini che sembra assumere il suo valore, nella polemica
contro i pitagorici, e forse anche contro Eraclito, la ricerca della via,
dell'unica via (636ç), o metodo di Parmenide di VELIA. Può darsi che Parmenide,
cittadino di Elea, colonia focese sulla costa della Campania, vissuto tra il
520 e il 440 (tali date sono pura- [2 Platone, all'inizio del “Parmenide”
(127b), narra che una volta durante le grandi Panatcnee, Parmenide e Zenone
vennero ad Atene e si incontrarono con Socrate, allora giovanissimo, mentre
Parmenide era già molto innanzi negli anni. Aveva circa sessantacinque anni. Calcolando
sulle indicazioni di Platone si potrebbe dire che Socrate giovanissimo poteva
avere allora sui diciotto anni, e poiché sappiamo che Socrate nacque nel 470i69,
l'incontro tra Parmenide e Socratc potrebbe essere avvenuto nel 452 circa, per
cui Parmenide dovrebbe essere nato nel 517 o anche nel 520 o 522, ché in effetto
Platone non precisa esattamente i sessantacinque anni (cfr. anche Teeteto e Sofista).
Secondo Diogene Lacrzio (lX, 1), invece, Parmenide sarebbe nato nel 544/400.
Probabilmente Diogene Laerzio desumeva la sua cronologia d’Apollodoro e dalla
tradizione che s'era sforzata di far coincidere le date di Parmenide con quelle
di Eraclito e di Senofane (Diogene). Della sua vita sappiamo pochissimo. Sembra
che si occupa di politica e che ordina la propria patria, Velia, con ottime
leggi (Plutarco, Adv. Colot., 32). Anche il poema di Parmenide va sotto il
titolo “Intorno alla Natura” (sembra si dividesse in due nette parti, la prima
intitolata la vmta, la seconda l'opinione). Ne sono rimasti in tutto !58 versi.
41 mente indicative), abbia risentito e discusso il motivo
senofaneo dell'uno che tutto comprende, ch'è tutto mente, o viceversa che sia
Senofane ad aver fatto tesoro dell'unica via di Parmenide. Può darsi che
Parmenide discuta Eraclito e polemizzi contro le opposizioni di lui, o, piu
facilmente, con l'opposizione unità-molteplicità, che implica nell'opposizione
stessa di piu esseri il non essere, dei primi pitagorici. Può darsi infine che
proprio dall'insegnamento e dalla problematica dei pitagorici -- si dice che
Parmenide fosse stato iniziato alla ricerca e al sapere da Aminia pitagorico --
sia sorto in Parmenide il problema di quale sia la via che rende possibile il
sapere e comprensibile il reale. Certo le testimonianze sono molto incerte e, a
seconda della presa di posizione dell'uno o dell'altro testimone, si è puntato
su uno o altro dei motivi parmenidei, facendo risalire a una o altra fonte,
colorendo quindi di una o altra tinta quello che fu il pensiero di Parmenide.
Proprio questo, tuttavia, può essere indice di come Parmenide, piu che
sviluppare o portare a estreme conseguenze un certo "sistema," in
effetto cerca, nella molteplice e diffusa discussione intorno alle possibilità
del sapere, nella diffusa esigenza di come rendersi conto di quelle che sono le
strutture che rendono intelligibile e comprensibile la realtà, d'inserire il
proprio punto di vista, sçaturito dal discutere e l'una e l'altra delle
posizioni. Alcuni frammenti che possediamo del suo poema (in tutto 158 versi,
inseriti e citati in testi piu tardi) conforta questa ipotesi di un Parmenide
calato in un preciso ambiente ove si dibatte, appunto, la questione dell'intelligibilità
del reale. Cosi in tal senso, sembrano suonare le seguenti parole. Col solo
pensierò esamina e decidi la molto dibattuta questione (fr. 7, v. 5); ma ora devi
imparare ogni cosa e il cuore che non trema della ben rotonda verità e le
opinioni dei mortali, in cui non è vera certezza (fr. l, vv. 29-30). La molto
dibattuta questione e "ora devi imparare - cioè renderti conto - di come
siano possibili le opinioni dei mortali," sono due espressioni molto
precise che sembrano indicare da un lato come il problema di Parmenide nasca da
un dibattito su questioni che stano a cuore e rispondevano a esigenze diffuse,
e, dall'altro lato, come sia possibile, giunti a trovar la via che rende
possibile il sapere, comprendere come sorgano le opinioni, ché, infine, di
opinione (36~ac) si può parlare, finché non si sappia la verità (&>..of)&tLcc).
Sembra lecito allora supporre che la sentenza di Parmenide (pare che il poema
fosse piuttosto breve) venga alla fine di un lungo dibattito, di una ricerca che,
scartando via via tutte le possibili vie, perché contraddittorie, trova l'unica
via, unica perché non contraddittoria, su cui, dunque, si fonda l'unico sapere
e di conseguenza la verità, "ben rotonda," appunto, e che non "trema,"
perché non contraddittoria, e, per ciò, essa stessa unica. 'Col solo pensiero
esamina e decidi la molto dibattuta questione (fr. 7, v. 5). Abbiamo qui il
punto su cui Parmenide impernia l'impostazione che rende valida la ricerca
senza di cui non è possibile fondare un sapere verace e, a sua volta, la
verosimiglianza delle opinioni (cfr. fr. l, vv. 31-32) intorno alla natura.
Ora, può essere interessante sottolineare che il proemio (ne sono rimasti 32
versi e forse è intero) del poema, che a sua volta nettamente si divide in due
parti (la verità, di cui leggiamo abbastanza; l’opinione, di cui non leggiamo
che pochi frammenti), piu che con un volo poetico che rivelerebbe, com'è stato
detto, l'entusiasmo dello scopritore, si apra con una serie di luoghi, di
tapoi, lasciti di un comune modo di parlare, anche popolare, che evocano
l'intento di Parmenide. LE CAVALLE CHE MI PORTANO fin dove vuole il mio cuore,
anche ora mi condussero via, dopo che le dee mi ebbero [guidato sulla via molto
famosa, che per ogni città porta l'uomo che [possiede il sapere (fr. l, vv.
1-3). Basti qui ricordare che, secondo Aezio (Plac., IV, 5, 5), per Parmenide
sede della ragione (dell'egemonico, dice Aezio), come atto in cui si raccoglie
il molteplice, è il petto, il cuore, e che il cavallo rappresenta, fin dai
tempi piu remoti, la forza dell'intelligenza e la capacità dell'apprendere,
perché sia facile riconoscere un motivo popolare-evocatore in quest'attacco del
proemio. In altri termini Parmenide dice che la sua naturale capacità intellettiva
- naturale e dunque divina - lo ha condotto fino alla distinzione Notte e
Giorno (ivi guidato dalle vergini Eliadi, le figlie del sole, ed ecco un altro
topo popolare, che affrettavano il corso verso la luce, liberando il capo dai
veli (fr. l, vv. 9-10), lo ha condotto cioè fino al punto primo delle
tradizionali distinzioni (da Esiodo ai misteri), all'origine verbale delle
contraddizioni oltre cui è la non contraddittorietà, cioè l’alterità. lvi è la
porta che mette ai sentieri della Notte e del Giorno, e ai due estremi la
chiudono l'architrave e la soglia di pietra c la riempiono, in alto nell'etere,
grandi battenti di cui la Giustizia, che molto punisce, tiene le chiavi dall'alterno
uso (fr. l, vv. 11-14). La PORTA ROSSA DI VELIA si apre e benigna la dea accoghe
Parmenide, perché ivi è giunto condotto dalle cavalle (cioè dal retto pensare),
onde, appunto, la dea dice: Non fu un avverso destino a mandarti per questa via
(che~ invero lontana dall'orma [dell'uomo), ma la legge divina, “thémis”, e la
giustizia, “dike” (fr. l, vv. 26-28), cioè il giusto pensare, che è via lontana
dall'uomo comune (tanto è vero che Parmenide usa il termine “anthropos” e non “aner”).
Ma ora - prosegue la dea - devi imparare ogni cosa c il cuore che non trema
della ben rotonda verità c le opinioni dei mortali, in cui non ~ vera certezza.
Ma tuttavia anche questo imparerai, come l'apparenza debba configurarsi perché
possa veramente apparir verosimile, penetrando il tutto in tutti i sensi (fr.
l, vv. 28-32). L'accettare i dati dell'esperienza, di ciò che appare
all'immediatezza dei sensi, implica molteplicità e dispersione, contraddizione;
la definizione dell'indefinito implica il frantumarsi del reale in unità
opposte fra loro, onde accanto alle cose che sono bisogna porre un non essere.
Il pensiero, invece, coglie sé come discorso (logos), ma discorso che è unitd
(mente, nas) ove ogni singolo membro del discorso si articola all'altro in una
continuità che costituisce e presuppone il tutt'uno, compatto, che è la stessa
realtà. Infatti a seconda di come in ognuno è avvenuta la fusione delle molto
erranti membra, cosi la mente accompagna l'uomo. Poiché lo stesso ~ ciò che
pensa - l'intima struttura delle membra - negli uomini, in tutti e in ognuno.
Ché il pensiero ~ ciò che prevale (fr. 16). E allora quella stessa realtà, che
nell'immediatezza sensibile e nella definizione puntuale appare molteplice e
disarticolata, onde si pongono esseri accanto a esseri e quindi essere accanto
a non essere, non appena si colga il pensiero, che è discorso e unità
comprensiva (mente), quella realtà molteplice è essa stessa unità, cioè
pensiero; e illusione il molteplice, il nascere e il perire, l'opposizione. Ma
guarda tuttavia come le cose tra loro distanti sono invece per opera della
mente saldamente unite. Infatti non scinderai l'essere dalla sua connessione
con l'essere, né disgregandolo completamente in ogni sua parte, seguendo un
certo ordine, né concentrandolo in se stesso (fr. 4). Parmenide punta subito
sul pensiero, cioè sul discorso che è mente, ossia unità, o meglio comprensione
totale e compiuta, per cui l'essere non è né un punto, ove tutto si concentra,
né una serie disgregata di punti accanto a punti, ma totalità. In Parmenide,
dunque, non si tratta tanto di un essere che è e di un non essere che non è, ma
di due nostri modi di atteggiarsi di fronte a un'unica realtà: o si accettano
le cose cosi come appaiono all'occhio, ai sensi, le une accanto alle altre,
ritagliate e disarticolate, contraddittorie, nascenti e morenti; o, di là
dall'apparenza fisica, si coglie, mediante la ragione, la ragion d'essere del
tutto, che non è nessuno degli aspetti, ma è tutti insieme, simultaneamente: e
non è mai stato e non sarà mai, perché è Qra (vuv) tutto insieme, nella sua
compiutezza, uno, continuo (“lv auv~:x'<”) (fr. 8, vv. 5-6) o soltanto nella
sua natura un tutto (faTL 3~ 11ouvov oÒÀoq~ué<;), come ha corretto l'Untersteiner.
Le due famose vie di Parmenide (" orsu, io dirò... quali sono le vie di
ricerca che sole son da pensare ": fr. 2, vv. 1-2) si risolvono in effetto
in una sola via legittima, quella del pensiero, che è l'unica che svela il
reale. Pensare implica sempre pensare qualcosa, cosi come dire implica sempre
dire qualcosa, ché pensare il nulla è non pensare cosi come DIRE IL NULLA è NON
DIRE. Ora se pensare è pensare l'essere (perché il non-essere non puoi né
conoscerlo -.è infatti impossibile, -né esprimerlo ": fr. 2, vv. 7-8), e
se il pensare dunque implica l'essere, lo stesso è pensare (voc!v) ed essere
(fr. 3). Per la parola e il pensiero (vo&:!v) bisogna che l'essere sia:
solo esso infatti è possibile che sia e il nulla non è " (fr. 6); e poiché
il pensiero è n~s(vou<;), mente comprensiva, e 16gw.(},6yo<;), discorso,
cioè articolazione della molte- plicità in una sola unità, e l'essere e il
pensare sono la stessa cosa, l'es- sere è mente, è cioè unità totale, compiuta
(finita), circolare. Per me," dice la dea, "è uguale da qualunque
punto cominci: poiché là tornerò di nuovo" (fr. 5). Pensare, dunque, e
dire non si può che l'essere, per cui la via che è e che non è possibile che
non sia (fr. 2, v. 3) è la via che, non essendo contraddittoria, è l'unica che
persuade, ed è perciò la via della Verità ("questa è la via della persuasione,
poiché segue la verità (fr. 2, v. 4); mentre l'altro modo di atteggiarsi di
fronte alla realtà, quello della sensibilità, è una via che non è e che è
necessario che non sia, e questo è un sentiero inaccessibile a ogni ricerca (fr.
l, vv. 5-6). La conclusione cui la prima via conduce, e non può non condurre
("e, come era necessario, il nostro giuizio fu quindi di abbandonare una
delle vie, perché impensabile e innominabile, e infatti non è la strada della
verità, e che l'altra è ed è vera (fr. 8, vv. 16- 18), è che l'essere è e che
solo dell'essere si può dire che è, solo è è è. Pensare l'essere, e non si può
non pensare che l'essere, implica che l'essere è finito, cioè compiuto - ché a
lui nulla può mancare, onde l'essere è totalità, ché, se fosse due o piu di
due, tra l'uno e l'altro essere dovremmo ammettere un qualcosa che distingue e
che dunque è diverso dall'essere, cioè il non essere che non è, per cui
l'essere è tutto, ed è simultaneo (" è ora tutto insieme "), senza
origine e senza termine, ché dovrebbe o scaturire dal non-essere o risolversi
nel non-essere (per questo né il nascere né il perire gli concesse Dike allentando
i legami, ma lo tiene ben fermo": fr. 8, vv. 13-14). L'Essere in quanto
essere non ha né passato né futuro, ed è indivisibile, e poiché ogni parte
dell'essere è essere e non può non essere, l'essere è identico tutto a se
stesso. L'essere, dunque, è immobile ché,. se si muovesse dovrebbe muoversi in
un luogo altro dall'essere, cioè nel non essere che non è (cfr. fr. 8, vv.
1-35). Totale unità, perfetto e quindi finito, indivisibile, immobile e
immutabile, identico a sé, tutto presente sempre e, dunque, atemporale e
aspaziale, tale l'Essere, quale necessariamente il pensiero può pensarlo senza
contraddizione; o, meglio, QUESTI I SEGNI, crljji4TCX (fr. 8, v. 2), non
contraddittori, tanto è vero che si possono ridurre a uno solo (a è), e quindi
persuasivi, con cui si può IN-DICARE (SEGNARE) l'Essere. L'Essere, dunque, non
si può umanamente che IN-DICARE, tanto è vero che, alla fine, Parmenide non può
non pensare l'Essere che come sfericità compatta. Esso è compiuto tutto
intorno, uguale alla massa di una rotonda sfera, che dal centro preme in ogni
parte con ugual forza giacché· è necessario che non sia in questo o in quel
punto di poco piu grande o piu piccolo. Da ogni parte identico a se stesso,
urta in ugual maniera nei suoi confini (fr. 8, vv. 42-45, 49). Parmenide crede
cosi di risolvere nell'unità totale dell'Essere la contradditoria opposizione
unità-molteplicità, definito-indefinito dei pitagorici. Non a caso egli dice.
Ti tengo lontano da quella via su cui errano i mortali che niente sanno, uomini
a due teste... gente indecisa per cui l'essere e il non essere è lo stesso e
non è lo stesso, e per cui di ogni cosa v'è una strada, che può esser percorsa
in due sensi (fr. 6, vv. 3-5, 7-9). Si può in questi versi scorgere una critica
ai primi pitagorici e, forse, ai motivi piu diffusi e facili di Eraclito.
Risolta, dunque, nell'Unità totale dell'Essere la molteplicità, il nascere e il
perire, quella stessa molteplicità, quello stesso nascere e perire si rivelano
contraddittori e quindi non veri. Il che significa che la contraddizione sta
nel porre e nel definire le cose come enti o esseri accanto a enti o a esseri,
cose che per sé nascono e per sé periscono, nel definire le cose come cose.
Cosi facendo si ritiene, si opina di aver colto l'essenza, le forme delle cose,
mentre in effetto si sono distaccati gli aspetti dell'è, si sono contraddette
le cose, cioè l'essere stesso, onde opiniamo vero ciò che in effetto non è che
puro nome. Perciò non sono che puri nomi quelli che i mortali hanno posto,
convinti che fossero veri: divenire e perire, essere e non-essere e cambiar di
luogo e mutare lo splendeQte colore (fr. 8, vv. 38-41). E qui va sottolineato
che Parmenide non dice come Eraclito essere - non essere, nascere - morire, unica
cosa. Ma dice essere e non essere, divenire e perire. Nell'e disgiuntivo sta la
contraddizione e, dunque, il non vero, nella denominazione e definizione (nel
contornare la cosa in senso pitagorico). E questo è tanto piu chiaro all'inizio
·della seconda parte (l'Opinione) del poema, ove Parmenide dice. I mortali
nelle loro dottrine hanno dato nome a due forme, di cui una è di troppo- e in questo
è il loro errore- e apponendole ne distinsero la figura, e vi apposero segni
assolutamente diversi l'uno dall'altro. Qui la fiamma del fuoco etereo, dolce,
e lieve al piu alto grado, e dappertutto uguale a se stesso, ma non
uguale all'altro; ed anche quello per sé, come suo contrario: la notte senza
luce, massa densa e pesante (fr. 8, vv. 53-59). Nella molto dibattuta questione
Parmenide sembra che chiaramente e consapevolmente, indicando la via da
seguire, batta l'accento su ciò che è fondamentale per ogni ricerca, che, cioè,
bisogna innanzi- tutto rendersi conto del campo e dell'orizzonte del proprio
lavoro, ri-chiamando al principio che non è affatto afferrare e comprendere le
cose il definirle, il raffigurarle, il nominarle: questa è, appunto, opi-nione,
illusione. Il che non significa che, resisi conto di questo - che la realtà
definita e SEGNATA con piu nomi diversi è un'illusione, è non vera, mentre
l'Essere in quanto tale, il solo pensabile, si risolve nell'Unità totale, per
cui il vero è l'Essere tutto, immobile e compatto, - il definire e il numerare,
il distinguere e il nominare non siano, emro questi stessi limiti, un lavoro
valido e utile. Appresa la verità, anche questo imparerai, come l'apparenza
debba configurarsi, perché possa veramente apparir verisimile, penetrando il
tutto in tutti i sensi (fr. l, vv. 28-32). Si chiarifica cosf il motivo della
Notte e del Giorno del proemio che ora ritroviamo all'inizio della parte
dedicata all'Opinione. L'unica via, che è quella del pensiero e sulla quale
conducono le vergini Eliadi, porta oltre le distinzioni originarie di Giorno e
di Notte (oltre quelle distinzioni che son servite all'uomo per definire e intendere
il reale) annullando ogni distinzione nell'unicità dell'essere che è. Solo ora,
solo quando si sia consapevoli di ciò, possono sussistere i due mondi, il mondo
della verità e quello dell'opinione, come due modi diversi di cogliere l'unica
realtà: sentita e tradotta in parole da un lato (opinione), e, dall'altro lato,
còlta col pensiero e tradotta in una sola parola, la parola per eccellenza, è.
Quando si sia consapevoli di questo, si coglie il valore ipotetico delle
opinioni, che possono determinare e ritagliare una certa realtà verosimile. Di
qui - crediamo - tra le opinioni, si pone l'opinione di Parmenide su come sia
costituito il cosmo, di cui, pur- troppo, non abbiamo che oscuri accenni in
Aezio. Quella di Parmenide sembra fosse una visione dell'universo concepito
come un complesso di cerchi concentrici, costituenti tutti una sola
circolarità, che, forse, era l'immagine verosimile dell'Unità del Tutto, della
Sfera, e, sotto altro aspetto, giustificazione delle opinioni dei pitagorici. Avendo
cosi risposto Parmenide alla dibattuta questione, avendo risolto l'essere, per
non contraddizione, in una massiccia unicità, portando ad estrema conseguenza
il tema parmenideo si poteva giungere alla considerazione che, in effetto,
l'unico piano che resta all'uomo in quanto uomo è il mondo della opinione e
delle parole, sulle quali parole si configura la realtà stessa e non viceversa.
Sarà questa clusione di Gorgia; o ~ rovesciata la questione - si poteva
giungere alla possibilità, sul piano delle parole, di infinite contraddittorie,
che, in altro ambiente, e per interessi diversi - verso le discussioni e le
antilogie dei sofisti e la confutazione di -potranno essere le conclusioni
eleatiche dei Megarici. Senza le premesse di tale discussione e problematica si
precisano chiaramente nei finissimi argomenti di Zenone di Velia, diseepolo e
difensore di Parmenide, in cui si vede bene il taglio netto tra l'essere che è
e in cui tutto si annulla, e il mondo umano costruito dall'uomo stesso. All'inizio
del “Parmenide” Platone narra che una volta, durante le grandi Panatenee, Parmenide
e Zenone vennero ad Atene. Parmenide era allora molto innanzi negli anni, tutto
bianco, ma d'aspetto bello e nobile, e aveva circa sessantacinque anni. Zenone
si avvicinava allora ai quaranta anni, di grande statura e bell'uomo
(Parmenide). Platone dice, poi, che in quell'occasione Zenone lesse un saggio
che scrive per difendere la tesi di Parmenide, ma k:he quel libro egli compose
per amor di polemica e che per giunta un tale glielo aveva sottratto, per cui,
Platone fa dire a Zenone. Nnon ebbi neppure il ternpo di pensare se fosse o no
il caso di darlo alla luce (128a). Platone, forse, per dare avvio alla sua
discussione, probabil-mente nei confronti dell'eleatismo megarico, si
riallaccia di proposito a Zenone e a Parmenide mettendoli in rapporto con
Socrate, allora giovanissimo, quel Socrate di cui poi i megarici furono
discepoli. Può darsi, dunque, che Platone forza la notizia di Zenone ad Atene
insieme a Parmenide, in un'epoca, il 455-450, in cui sembra difficile, per
ragioni cronologiche, che Parmenide sia potuto venire ad Atene, o avesse circa
sessantacinque anni. Nulla vieta, invece, di pensare che Zenone sia stato
effettivamente ad Atene, anche se in epoca diversa. Discepolo di Parmenide, Zenone
nacque ad Elea nel 500/490. ·Platone (Parmenide, 127b) narra che nel 452 circa
Zenone, venuto con Parmenide ad Atene, aveva circa quaranta anni. Tutte le
fonti lo presentano come uomo prestante e altamente intelligente, che prese
attiva parte alla vita politica della sua città, dove sarebbe eroicamente morto
combattendo il tiranno Ncarco, quando, preso da Nearco e torturato, per non
parlare si spezza la lingua con i denti, sputandola addosso al tiranno. Sembra
che la struttura originaria del saggio di Zenone (o dei suoi saggi) fosse
antinomica, e che [Altro punto sospetto è che Platone dice che il saggio che
Zenone scrive e stato fatto circolare senza il permesso dell'autore. Potrebbe
questo essere indice che Platone, in effetto, non espone la tesi vera di
Zenone, anche se, nella finzione del dialogo, Zenone stesso approvi, con
qualche riserva, il sunto che dei punti salienti dà Socrate. Platone, nel
Parmenide tende a dimostrare l'impossibilità di pensare l'essere di Parmenide
che porta dietro di sé l'altrettanta impossibilità di pensare i molti, onde,
postici sul piano di Parmenide, risulta impossibile il discorso, un qual-
sivoglia giudizio. Non interessa ora la soluzione di Platone e il suo tentativo
di poter pensare l'Essere come dialetticità corrispondente alla dialetticità
del pensiero, per cui si rendeva possibile porre un tutto oggettivo. come
ordine dialettico e misura su cui scandire, attraverso la conoscenza di sé, lo
stesso ordine politico. È tuttavia importante sottolineare che nei confronti
dell'uno di Parmenide e delle opere di Zenone (che accettando l'ipotesi di
Parmenide e anche accettando che l'uno di Parmenide si può, all'estremo,
ritenere assurdo, vuoi dimostrare che altrettanto assurdo è porre unità accanto
a unità, come i pitagorici, quando si ritenga che queste siano realtà per sé e
non puri nomi), la polemica di Platone chiarifica quella che storicamente
dev'essere stata l'aporia fondamentale in cui doveva trovarsi il lettore del
saggio di Zenone. In verità - abbietta Zenone nel Parmenide di Platone - questo
mio saggio vuol essere in certo modo una difesa della dottrina di Parmenidc
contro quelli che cercano di metterla in ridicolo sostenendo che la tesi
dell'esistenza dell'uno va incontro a molte conseguenze ridiwlc c
contraddittorie. Vuole confutare perciò questo mio saggio quelli che
asseriscono l'esistenza dei molti c render loro la pariglia e anche di piu,
cercando di mostrare che la loro ipotesi dell'esistenza dei. molti va incontro
a conseguenze ancor piu ridicole di quella dell'uno se si vuole andare in fondo
alla ricerca (l28c-d). In effetto qui Platone corregge la sua prima
affermazione che Zenone e Parmenide avessero detto la stessa cosa ("dite
su per giu la cosa medesima ": 128b}, e per i suoi intenti lascia cadere
la precisazione di Zenone. Ma ciò è fondamentale, perché, in genere, è con
questi abili accenni che Platone distingue quello che a lui importa da quello
che accantona, ma che corrisponde, quasi sempre, alla verità storica. Zenone,
quaranta fossero gli argomenti contro la tesi che sostiene il molteplice e il
moto. Platone che vede in Zenone il difensore dell"Uno di Parmenide, lo
chiamò il "PALAMEDE eleatico" (Fedro). ] dunque, sarebbe parmenideo
alla rovescia. Egli accetterebbe che l'Uno tutto di Parmenide porti alla finale
contraddizione dell'impensabilità - proprio sulla via del pensiero - dell'Uno
stesso. Solo che la facile critica dell'annullarsi dell'Uno deve tener presente
che, ammessa la esistenza dei molti, di punti accanto a punti, come enti reali,
si cade nelle stesse contraddizioni di chi pone l'uno. Zenone non dice mai cosa
sia l'Essere. Zenone nega che posti i molti come esistenti, sul piano logico i
molti esistano, confermando cosi la tesi parmenidea che i molti in quanto tali,
in quanto definizioni, non sono che puri nomi. Ammessa, dunque,
pitagoricamente, l'esistenza di punti reali costituenti le cose, bisogna
necessariamente ammettere che ciascuna di tali unità in quanto punto ha una
grandezza, anche se minima, onde in ogni punto vi sono infiniti punti e quindi
ogni punto-unità sarà infinitamente grande; se il punto poi non ha gradezza,
poiché le cose si costituiscono come aventi grandezza per l'unione dei punti,
come sarà mai possibile che punti senza grandezza diano luogo a grandezze? n
punto dunque, se non ha grandezza, non è (fr. l, 2). Ancora: ammesse piu cose
costituite di punti, esse saranno ad un tempo in numero finito e infi.t;lito,
il che è contraddittorio: saranno in numero finito, perché non possono essere
piu o meno di quante sono; infinito perché tra l'una e l'altra ve ne sarà
un'altra ancora, e tra questa e l'altra un'altra ancora all'infinito (fr. 3).
Ancora: ammessa la molteplicità di cose reali per sé, bisogna ammettere o che
sono continue, onde la molteplicità si annulla nella continuità, che, essendo
divisibile all'infinito, è costituita di infiniti punti a loro volta divisibili
all'infinito, fino al nulla; oppure che ogni cosa, limitando l'altra, occupa
uno spazio e si distingue dal- l'altra per uno spazio: ma allora ogni spazio in
quanto luogo implica un altro luogo e cosi all'infinito, sino all'unico luogo
cioè l'uno, cioè il nulla (Aristotele, Fisica, 209a-210b; Simplicio, Fisica,
140, 34, 562, 1). Entro questa linea rientra anche il cosiddetto argomento del
grano di miglio. Un grano o la decimillesima parte di un grano di miglio fa
rumore: ora se fra un grano di miglio e un medimmo c'è proporzione, vi sarà
proporzione anche tra i suoni, per cui se un medimmo di miglio fa rumore lo
farà anche un solo grano (Aristotele, Fisica, 250a~ 19; Simplicio, Fisica,
1108, 18), ma ciò non avviene. Evidentemente quest'ultimo argomento rientra nei
termini dei primi. Se l'uno, o la totalità, è impensabile irrelativamente,
altrettanto impensabili sono i molti qualora si pongano quali realtà accanto a
realtà. Nessuna parte del molteplice costituirà il limite ultimo e nessuna sarà
senza una relazione con un'altra" (fr. 1). Poiché i molti sono impensaolli,
se non. determinati come variazione di quantità di un CONTINUO, e poiché IL
CONTINUO si può rappresentare come retta all'infinito, fino al nulla, i molti,
se posti come realtà per sé, non sono. Cosi nell'ipotetica retta (nulla è pensabile
se non in quanto estensione ed estensione che si qualifica) altrettanto
inconcepibile è il moto, o meglio la possibilità dello spostamento e del
passaggio da punto a punto, ché, dato, ad esempio, un segmento AB, tra A e B
posta una metà A', necessariamente tra A e A', vi sarà una metà A" e cosi
vita all'infinito – eis apeiron -- (argomento della dicotomia, cioè della
divisione in due: Aristotele, Fisica, 233a, 239b, 263a; Simplido, Fisica, 1013;
4). Evidentemente non vi è allora passaggio tra un ipotetico primo punto A e il
punto della linea accanto ad A, onde si può dire che Achille piè veloce"
(in A) non raggiungerà mai la tartarugà che sia un passo avanti (in A"),
ché, in effetto, logicamente, né l'uno né l'altra si muovono (argomento
dell'Achille: cfr. Aristotele, Fisica; Simplicio), tanto piu che la linea,
essendo costituita d'infiniti punti, è divisibile all'infinito, e quindi,
all'infinito, si annulla. Analogamente LA FRECCIA non raggiungerà mai il
bersaglio, dovendo percorrere l'infinito e rimanendo sempre ferma al punto di
partenza (argomento della freccia: cfr. Aristotele, Fisica, 239b; Simplicio,
Fisica, 1015, 19; Filopono, Fisica, 816, 30; Temistio, Fisica, 199, 4). Infine,
dei presunti quaranta argomenti con i quali Zenone avrebbe dimostrato la
contraddittorietà in cui pone o l'esperienza sensibile o la definizione dei
dati che implicano la molteplicità o il movimento, abbiamo l'argomento detto
dello stadio. Considerando in uno stadio un punto mobile che va ad una certa velocità,
se lo si considera rispetto ad un punto fermo andrà, ad esempio, a dieci
chilometri l'ora, se lo si considera invece rispetto a un altro punto mobile
che vada alla sua stessa velocità in senso opposto, quello stesso mobile va a
venti chilometri all'ora. Il quarto argomento - dice Aristotele - è quello
delle due serie di masse uguali che si muovono in senso contrario nello stadio,
lungo altre masse uguali, le une cioè a partire dalla fine dello stadio, le
altre dalla metà, con velocità uguale; la conseguenza è, secondo Zenone, che la
metà del tempo è uguale al doppio (Fisica, 239b; cfr. anche Simplicio, Fisica,
1016, 9 sgg). I celebri argomenti sul movimento, con cui, accettata la premessa
che esiste il moto, con ferrea consequenzialità, di deduzione in deduzione, si
dimostra come-sul piano logico, contraddicendosi, non si possa se non negare il
moto (onde, appunto, Aristotele, secondo Diogene Laerzio, VIII, 57, nel “Sofista”
andato perduto - ha potuto dire che Zenone fu padre della DIALETTICA, come arte
del confutare), ci sono rimasti attraverso le discussioni e le critiche di
Aristotele. Non sappiamo, in effetto, se tali argomenti fossero proprii del
saggio di Zenone, ché le fonti precedenti, ivi compreso Platone (che fa
intravedere solo gli argomenti contro l'esistenza della molteplicità), ne
tacciono. Certo gli argomenti sul movimento potevano essere conseguenza di
quelli sulla pluralità, che, portando a dimostrare l'intraducibilità della
fisica in termini logico-matematici, per l'impensabilità del CONTINUO SPAZIALE,
portavano anche a rendere impensabile il continuo temporale-spaziale su cui si
determinano, definendoli, i punti-geometrici, i cui rapporti di movimento
divenivano rapporti spaziali e, quindi, ancora una volta impensabili o
contraddittori. La polemica di Zenone sembra quindi rivolta sia contro i punti-
cose dei primi pitagorici (o se si vuole contro la riduzione a numeri interi
delle cose da parte dei primi pitagorici), supponendo i numeri irrazionali, sia
contro l'impossibilità di ridurre le esperienze della vita, della mutevolezza,
alla sfera della ragione e dei numeri, senza perdere in puri nomi quella stessa
vitalità. Le conseguenze della discussione di Zenone, tenendo presenti certe
posizioni a lui contemporanee o immediatamente posteriori - lasciando da parte
le implicazioni che vi hanno veduto certi storici, riferendo le tesi di Zenone
ad alcune delle concezioni della matematica e della fisica moderna, - sembrano
potersi indicare nei seguenti punti: l. impossibilità di ridurre la fisica in
termini matematici; 2. conseguente impossibilità di pensare, e quindi di
definire, sia l'Essere come totalità, sia la molteplicità; 3. consapevolezza
che ogni ricostruzione matematica è valida, in quanto ipotetica e che
altrettanto ipotetica è ogni ricostruzione fisica. Sul piano storico si
determinano cosi: posizioni diverse, a seconda di quale aspetto della
problematica, impostata da Zenone, veniva approfondito. O si insistito sul
continuo giungendo a risolvere e ad an- nullare i molti (che restano come
determinazioni valide su di un piano puramente linguistico) nel continuo
stesso, cioè nell'infinita unità (Me- lisso); o si è risolto l'uno su di un
piano puramente matematico, per cui l'uno non è nessuno dei punti della serie,
né il pari né il dispari, ma la possibilità dell'uno e dell'altro, e che
nell'opposizione-armonia dà luogo a un'ipotesi logica che spiega un'ipotesi
fisica (Filolao e piu tardi Archita); o si è assunta l'ipotesi fisica del
continuo divisibile al- l'infinito in infiniti punti ognuno dei quali, infinito,
ha in sé tutte le infinite possibilità, gl'infiniti semi vitali, onde in ogni
punto tutto è tutto (Anassagora); o si è fatta l'ipotesi che gli infiniti
punti, proprio perché infiniti e quindi escludenti un passaggio dall'uno
all'altro all'infinito costituiscono infiniti limiti, d'onde una infinita serie
di limiti, d'indivisibili (atomi) implicanti nel limite una separazione, cioè
un altro limite come vuoto (Leucippo, che fu discepolo di Zenone, e Democrito).
Infine, se da un lato la problcmatica di Zenone portava a impo- stare
l'intelligibilità del reale non come afferrante la struttura in sé del reale
stesso, ma come ipotesi o fisica o matematica, dall'altro lato portava, nella
consapevolezza dell'impossibilità logica dell'Essere o del divenire, della
Verità, a rimanere sul piano dell'opinione c del discorso umani, entro i
termini dello stesso mondo dègli uomini e dei loro rapporti (Protagora, Gorgia).
Da quelli che sembrano essere i frammenti autentici del poema di Empedocle di
Girgenti, che va sotto il tradizionale titolo “Sulla natura”, ciò che pare
potersi ricavare è la seguente concezione. La realtà tutta è costituita di
quattro elementi o radici (p~~6ljL«T«): fuoco (Zeus lucente), aria (Era
donatrice di vita), terra (Edoneo), acqua (Nesti, le cui lacrime son fonte di
vita per i mortali); Tali radici non hanno nascita (&yhot-r«). Ciò che vico
detto nascere e perire non è altro che il mischiarsi in uno o altro modo degli
elementi di fondo. Vi sono due forze, l'una che unifica (amor~, cpLÀEot),
l'altra che separa e distingue (discordia o odio, ve!xoc;), mediante cui la realtà
tutta si scandisce in un ritmo, ovc a un primo momento, in cui predomina la
forza unificatrice (amore) e in cui le quattro radici (tutte uguali c tutte
aventi la stessa dignità: fr. 17, vv. 27-30) sono mescolate insieme come in uno
sfero (si è parlato di ricordi parmenidei), succede un momento in cui nella
lotta di Odio e di Amore - non ancora del tutto disgiunte le radici [Nato ad
Girgenti nel 492 circa, sembra che Empedocle sia morto nel 432. Le notizie
sulla sua vita e sulla sua morte sono leggendarie. Si dice che abbia avuto rap-
porti coi pitagorici (cfr. Diogene Laerzio, VIII, 54-55) e con Parmenide,
durante un suo viaggio a Velia (Teofrasto, Pllys., fr. 3, Dids, DorograpA; G.,
p. 477). Fu di parte democratica e politicamente attivo. Sembra che Empedocle
abbia scritto piu opere; di una parte di esse non ci son tramandati che i
titoli (Politica, Della med;cina, Proemo ad Apollo); d d poema Sulla Natura
(ficp\ ~)leggiamo I l i frammenti, del poema Puri#- caz;o,; (l{d«pJLOl) pochi
frammenti. 62 sorge la vita vera e propria, che è amore e contesa
a un témpo, unità e distinzione, finché per il predominiò di Odio le quattro
radici si di- stinguono totalmente restando masse accanto a masse. In effetto
il ciclo cosmico è sempre tutto insieme uno, ché l'Essere consiste appunto in
questo scorrere e trapassare dall'unità dello sfero alla distinzione delle
radici, dall'uno all'altro polo, ove l'essenza delle radici resta sem- pre
quella che è, mutandosi le cose per la tensione delle due forze op- poste: le due
forze che reggono il mondo sono state ieri e saranno domani, e mai l'infinito
tempo di questa coppia sarà vuoto (fr. 16). D'altra parte la massa dell'acqua,
o quella del fuoco, o della terra, o dell'aria, è costituita, ciascuna,
d'infinite particelle d'acqua, di terra, di fuoco, di aria, onde nel momento
d'Amore sono tutte fuse e confuse insieme, mentre nel momento di Odio si
distinguono separandosi e tutte le particelle di acqua si unificano nell'acqua,
quelle di fuoco nel fuoco, quelle di terra nella terra, quelle di aria
nell'aria. Aristotele poteva cos(sostenere che Empedocle cadeva in
contraddizione perché, alla fine, Amore separa e Odio unisce: quando, infatti,
per opera di Discordia, il tutto si disgiunge negli elementi, allora il fuoco
si.raccoglie in una unica massa, e cosi ciascuno degli altri de- menti; quando,
al contrario, per azione di Amore, essi si raccolgono nell'Uno, è necessario
che di nuovo le parti di ciascun elemento si separino fra loro (Metaf.). A
parte l'abbiezione di Aristotele, ciò che resta proprio di Empe- docle è che la
realtà è costituita di infinite particelle di acqua, di terra, di fuoco, di
aria, che, distinte per qualità, sono, come sfondo originario su cui tutto si
ritaglia, una unità indistinta, ove le distinzioni avvengono per la tensione
delle due forze. E allora, per Empedocle, la vita, l'esistenza, è appunto il
momento intermedio, che non è né pieno amore né pieno odio, ma, appunto, la
tensione i cui momenti estremi sono come termini ideali di un ciclo, che in
quanto ciclo è sempre quello che è, cioè la tensione stessa. I dati
dell'esperienza, portata all'estremo, dànno che tutto ciò che è, è riducibile a
quattro elementi: solidi (terra), liquidi (acqua), aeri- formi (aria e fuoco).
Tali elementi sono irriducibili ad altro, se non all'essere che è i quattro
elementi stessi nella loro unità, donde l'ipotesi di un'unità ongmaria e di una
distinzione ultima, entro·cui, come arco di un pendolo, oscilla il costituirsi
di tutte le cose, in virtu delle forze di attrazione e di repulsione, cui si
giunge, sempre per esperienza, in quanto forze che ciascuno vive
quotidianamente. Questo sembrano significare i versi del secondo frammento. Angusti
poteri sono diffusi per le membra. Gli uomini vedono solo una piccola parte di
una vita che non è vita. Condannati a pronta morte, sono rapiti e si dileguano
come fumo. Ognuno di essi è persuaso solo di ciò in cui a caso s'imbatte. E
sospinto in tutte le direzioni si vanta di scoprire il tutto. Tanto è difficile
che queste cose siano viste o udite dagli uomini e abbracdate dalla loro mente.
Tu, dunque, poi che sei qui giunto, saprai non piu di quanto la mente umana
possa (fr. 2). L'uomo in quanto uomo, in quanto amore e odio a un tempo, in
quanto fusione ancora e distinzione dei quattro elementi, se da un lato non può
cogliere il momento originario della totale fusione nello ~fero (fr. 27-28) d'amore,
ché in quel momento, questa attuale realtà, l'uoniò, non è piu (a lui, all'essere,
è impossibile accostarci s1 da raggiungerlo con gli occhi e afferrarlo con le
mani, che è la via di persuasione maggiore che arrivi al cuore dell'uomo (fr.
193), dall'altrv lato tuttavia può rendersi conto, proprio perché la realtà
quale appare all'uomv è unione e distinzione degli elementi, che i due termini
estremi sona unità totale e fusione delle radici e distinzione delle quattro
radici in masse accanto a masse. Ipotesi l'una e l'altra (tu dunque saprai solo
questo cui poté assurgere la mente umana -- fr. 2), fondata sull'esperienza di
ciò che all'uomo, momento della realtà tutta, è dato sentire, vedere, toccare,
vivere, in quanto esperienza di vita, cioè di forze vitali nella loro
opposizione. E te vergine Musa dalle candide braccia, supplico, di ciò che è
giusto udire agli uomini che hanno la vita di un giorno. Tu, dunque, uomo, con
ogni tuo potere scorgi, in quanto è palese, non piu fidando all'occhio che
all'orecchio, non all'orecchio sonoro oltre la chiara fede del gusto, e a nessuna
delle altre membra, per quante è una via di conoscenza, nega fede, ma conosci
ogni cosa in quanto è palese (fr. 4). E poiché, appunto, la via di persuasione
maggiore che arrivi al cuore dell'uomo è la via dell'esperienza diretta (fr.
193), è questa che pone l'uomo di fronte alla realtà costituita di terra, di
fuoco, di acqua, di aria, e a questa Empedocle richiama. Su via! Vedi un po' se
nelle testimonianze che ti ho dato ho commesso qualche errore, parlando della forma
((Lopq~~) degli elementi. Guarda, dunque, il bianco sole il cui calore ovunque
si spande, e tutte le costellazioni infuse di vaporosa chiarezza, e la pioggia
che reca freddo e nuvole ovunque, e la terra donde scaturisce tutto ciò che è
saldo e compatto. Non solo, dunque, si dimostra l'esistenza del fuoco,
dell'acqua e della terra per via puramente sperimentale, ma anche l'esistenza
dell'aria, cioè dello spazio come pienezza corporea, escludente il vuoto che è
non essere inconcepibile, mediante la prova famosa della clessidra. Empedocle
descrivendo il processo respiratorio, dimostra l'esistenza dell'aria come
corpo, immergendo una clessidra nell'acqua. Quando una fanciulla, giuocando con
una clessidra di lucente rame, ne copre il foro con la sua mano ben modellata,
e la immerge nella cedevole argentea pozza, il volume dell'aria che preme dall'interno
dell'orifizio impedisce all'acqua di entrare, finché la fanciulla non libera la
corrente d'aria compressa. Allora, non appena l'aria ne esce, l'acqua vi entra
in quantità uguale. E, cosi, sperimentabili sono le due forze (amore e odio)
dalla cui tensione nascono e muoiono tutte le cose, senza che gli elementi
subi- scano variazione. E manifesta è la lotta tra Amore e Odio anche
nell'insieme del corpo umano. Quando sotto l'azione di Amore, gli elementi si
riuniscono in una sola massa, allora i corpi fioriscono di crescente vita;
quando sono disgiunti dalla funesta Discordia, allora le membra errano
separatamente verso le prode estreme della vita (fr. 20). L'uomo, dunque, in
quanto momento intermedio dell'oscillazione pendolare del tutto, trovandosi
come al momento culminante della tensione su cui la realtà tutta si scandisce,
avendo in sé gli elementi e le forze su cui si struttura la realtà, può
conoscere la realtà stessa in quanto le sue strutture coincidono con le stesse
strutture costitutive della realtà. Di qui l'affermazione di Empedocle che il
simile conosce il simile, che fra le parti vi è un'attrazione simpatetica. Si
pone cosi in maniera consapevole il problema del conoscere, possibile in quanto
le strutture della realtà coincidono con le strutture del soggetto, in una
identificazione delle parti del soggetto alle parti dell'oggetto (con la terra
vediamo la terra, con l'acqua l'acqua, con l'etere l'etere divino, e col
fuoco il fuoco distruttore, con l'Amore l'Amore e con la funesta Discordia la
Discordia (fr. 109), ch'entrano in comunicazione mediante effluvi emananti
dalle cose e che penetrano nei sensi per mezzo di pori. t evidente in Empedocle
una forte preoccupazione metodologica, per spiegare il ritmo della realtà
tutta, una e, nell'unità, molteplice. Fondandosi sui dati di un'esperienza
totale, si rende verosimile l'ipotesi fisica del tutto i cui termini opposti,
idealmente dati (la fusione di tutti gli elementi, la separazione degli
elementi accanto agli elementi), diano conto di quella che è in atto la presenza
della realtà. Ipoteticamente son cosi concepibili i due estremi dell'unica
oscillazione e. la formazione e la disgiunzione della situazione attuale. Dalla
fusione del tutto, poi, via via, si costituirono le cose: dapprima, ad esempio,
sulla terra spuntarono teste senza colli, ed erravano le braccia nude prive di
spalle, vagavano occhi soli sprovvisti di fronti (fr. 57). Molti esseri nacquero
con doppie facce e petti, e buoi con facce d'uomini, o sorsero busti umani con
teste bovine, e forme miste di maschi e di femmine, provviste di membra villose
(fr. 61). Per giungere infine, attraverso il punto intermedio della parziale
unificazione e disgiunzione, alla totale disgiunzione degli elementi. Una,
dunque, la realtà, e molteplice a un tempo. Immobile nell'essere dei suoi
elementi, mobile nello svariare dellè congiunzioni e disgiunzioni, entro il
ritmo delle due forze opposte che governa il tutto, il tutto che sempre è, pur
nelle sue facce molteplici. Si capisce cosi come anche Empedocle {leghi ogni
antropomorfismo, come egli canti l'essere uno vitalità, “cpp-l)v”, ineffabile,
che per tutto il mondo si slancia con veloci pensieri (fr. 134), come l'appello
alla natura sia- un appello polemico, di contro a certe credenze popolari, un
appello all'indagine scientifica. Gli uomini vedono solo una piccola parte di
una vita che non è vita. Condanna~ a pronta morte, sono rapiti e si dileguano
come fumo. Ognuno di essi è persuaso solo di ciò in cui a caso s'imbatte. E sospinto
in tutte le direzioni si vanta di scoprire il tutto. Tanto è difficile che
queste cose siano viste o udite dagli uomini o abbracciate dalla loro mente. Tu
dunque, poi che sei qui giunto, saprai non piu di quanto la mente umana possa
(fr. 2). L'appello di Empedocle all'esperienza è chiaro. Egli distoglie l'amico
Pausania, cui il poema è dedicato, dal disperdersi dietro ciò che appare
nell'immediatezza, dall'aver brama di ciò cui tendòno gli uomini volgari, per
richiamarlo ad ascoltare e a meditare sul suo insegnamento: Se nella trama
serrata del tuo pensiero comprendi con chiarezza le mie lezioni, se con spirito
puro ti lasci iniziare, le mie tesi tutte e per sempre ti saranno presenti e
molte altre ancora ne acquisterai, perché per sé si QCcrescono nell'uomo, ciascuna
secondo la sua natura (fr. 110). Attraverso l'indagine della natura, di
esperienza in esperienza, in un collegarsi intelligente delle esperienze stesse,
l'uomo, egli stesso natura, si fa davvero partecipe della natura, modificandola
in un unico processo. L'indicazione evidente del metodo costituisce una tecnica
con cui operare, e adeguarsi alla realtà stessa: Conoscerai cosi quanti rimedi
vi sono dei mali e riparo della vecchiaia. Placherai. L’mpeto degli infaticati
venti, che, balzando sulla terra, con il loro soffiare inaridiscono i
coltivati, e, se tu vuoi, potrai richiamarli quando possano servire. Dopo la
pioggia darai all'uomo la siccità propizia, e dopo l'arida estate la feconda
acqua che nutre l'albero e le messi future (fr. 111). Di qui, probabilmente, e
da altri testi simili a questi è nata piu tardi la leggenda di un. Empedocle
mago e taumaturgo, nell'epoca in cui sono nate anche le leggende su Pitagora,
che non a caso è stato piu volte avvicinato a Empedocle. Si narra che Empedocle
fa sbarrare una gola montana da cui soffiava, greve e pestilenziale, il vento
di mezzogiorno sulla pianura (Plutarco, De curios., 515c); che arresta la
pioggia, che salva gli agrigentini da una pestilenza e cosi via. Potremmo
moltiplicare gli esempi. Evidentemente, in un'epoca che anda rintracciando, a
sostegno di proprie tesi, dati miracolosi, si son ritagliati certi aspetti e
certi testi di Empedocle, che potevano servire. In effetto, ricollocando
Empedocle nel suo tempo (nacque nel 492 circa e muore nel 432), nella sua
città, Girgenti, in un'epoca di grande attività economica e politica, in una
Sicilia in cui sappiamo che circolano le idee di Senofane, di Pitagora, della
scuola medica di Crotone, di Parmenide, di Eraclito, la figura e la personalità
di Empedocle non hanno nulla di straordinario. Egli e uno scienziato, che, atraverso
una serie di esperienze, formula, tenendo presenti i risultati di Parmenide, di
Eraclito e la polemica di Senofane, l'ipotesi del tutto che costituito di
quattro elementi, fusi e confusi in una sola unità come sostrato, si
distinguono ed. esistono per virtu di due forze opposte. Ora, se il metodo di
Parmenide e uno metodo strettamente logico, quello di Empedocle è un metodo empuiStlco
e razionale, che imposta, a sua volta, il problema del rapporto fra natura e
uomo che; parte della natura, può, in quanto sappia il ritmo della natura
stessa e la sua costituzione, modificare sé e la natura. Sotto questo aspetto
la fisica di Empedocle è, ad un tempo, la sua morale, tesa, attraverso
l'indicazione del metodo e delle vie dd conoscere, a purificare gli altri, la
maggioranza dei cittadini ignoranti, legati a tradizioni, a riti, a concezioni
che Empedocle, conscio di una piu ardita cultura, sente come estremamente
invecchiati e falsi. Cosi, leggendo i pochi frammenti che sono rimasti
dell'altro suo carme, “Le purificazioni” {xot&otp!Lo(), si ha la
consapevolezza precisa di trovarci di fronte a un uomo vissuto in un certo
ambiente, che ha la coscienza di respirare una nuova atmosfera culturale,
effettivamente civile, e in questo senso purificatoria, di avere. contribuito a
fare avanzare la scienza, che non può essere solo patrimonio di alcuni, ma che
diviene davvero operante in quanto si divulghi, formi una diversa coscienza
critica, un diverso equilibrio e rapporto umano che diviene, dunque, azione
politica, naturalmente entro i termini di una certa situazione storica. In
quanto rivolta ai piu, ai concittadini di Agrigento popolosa e arretrata, la
sua lezione può apparire come profetica. Ma come storicamente, per non equivocare,
non diremmo Empedocle taumaturgo, cosi neppure lo diremmo profeta o mistico. Il
suo discorso ai piu, il carme pun"'ficatorio, è, in effetto, molto chiaro
nella sua genesi, quando lo si riconduce a quello che probabilmente ha voluto essere.
Il discorso di un saggio che rivolgendosi a un pubblico, a una massa, senza
dubbio arretrata, usa un linguaggio comprensivo per quel pubblico, al quale
egli appare, appunto perché sapiente, come un dio e un sacerdote di una nuova
religione. Sotto questo aspetto la sua parola vuoi essere incantatrice, indicando
ai piu.la via da seguire, indicando, pur nella necessaria discordia, la strada
dell'equilibrio e dell'amore, facendosi dunque parola medica e politica. Amici,
che abitate la grande città che declina al biondo Acragante, sul sommo della
cittadella, uomini usi a fare buone opere, fidi porti di ospiti, che non conoscono
la perfidia, a voi salute. Io al vostro cospetto non piu· mortale, ma un dio,
mi aggiro, fra tutti onorato come ne sono degno, coro- nato di bende e di
fiorenti serti. Uomini e donne mi venerano e mi seguono in grandissimo numero,
chiedendo la risposta mia che guida a salute. Gli uni vogliono oracoli, altri
di malattie innumeri domandano la parola che sana, lungamente da aspre doglie
trafitti (fr. 112). La via che guida a salute, la parola che sana. Aristotele
dice (secondo Diogene Laerzio, VIII, 57, nel “Sofista” perduto) che come Zenone
di Velia inventa LA DIALETTICA, Empedocle inventa LA RETORICA, l'arte del dire.
E cosi si dice anche che Gorgia, fratello di un medico, e discepolo di Empedocle,
e che Empedocle scrive anche un trattato di medicina, e che ha contatti con i
medici di Crotone, con i medici pitagorici e con i medici agrigentini Pausania
e Acrone. Non possiamo giurare sull'esattezza di queste notizie, ma sono
sintomatiche di un certo indirizzo. Senza dubbio il Carme Purificatorio
(ch'ebbe grande successo anche quando fu letto ad Olimpia) è una specie di
discorso medico-oratorio (iatrosofistico), probabilmente sulla linea dei
discorsi medico-incantatori dei primi pitagorici e della scuola medica di
Crotone (anche se diverso n'è l'insegnamento), che venivano, d'altra parte, a
coincidere, data una precisa concezione del tutto, con il movimento politico
delle democrazie sicule. E democratico e politicamente attivo sappiamo che e Empedocle.
Ora, se in Empedocle abbiamo una concezione fisica che puo, nel suo insistere
sull'uomo come parte del tutto e partecipe della vicenda cosmica, coincidere
con.certe visioni dionisiaco-popolari, d'altra parte egli, giuocando su quelle,
tende a purificarle di ciò ch'esse, sul piano rituale, avevano di torbido e
d'irrazionale; e, rifacendosi appunto alla concezione del ciclo cosmico, ove
nella vicenda del tutto nulla va perduto, per cui su di un piano mitico si puo
sostenere la trasmigrazione delle anime, tenta di allontanare il volgo dall'uso
dei sacrifici umani e dall'antropofagia, lascito d'antichi riti. Empedocle,
cosi:, sottolinea che l'uomo, in quanto parte della natura, è divino, onde compito
dell'uomo è uniformarsi al ritmo stesso su cui si scandisce il tutto, tendendo
all'equilibrio delle forze, di Amore e di Discordia, senza far prevalere
Discordia, la cui mancanza tuttavia annullerebbe l'uomo stesso, per cui, anche
se l'aspirazione è all'unità totale e divina, tuttavia l'uomo, proprio perché
uomo è anche discordia e lotta, senza di cui neppure si renderebbe conto di
Amore, senza di cui non sarebbe sapiente, senza di cui non istituirebbe
quell'equilibrio chç è la salute dell'uomo e del tutto, onde Empedocle e cantato
da LUCREZIO (1, 710 sgg.). Cosi se nel carme “Sulla Natura” leggiamo: poiché
Contesa, nelle membra, grande s'accrebbe, e al suo onore insorse, compiutosi il
tempo che ad Amore e a Contesa è prefisso, in alterna vicenda per ampio
giuramento (fr. 30); nel Carme purificatorio éos1 suona il frammento 115. V'è
un oracolo del fato, antico decreto degli dèi, suggellato di larghi piuramenti:
se mai alcuno dei dèmoni che ebbero in sorte una lunga vita, macchi le sue
membra di sangue, o seguendo la Discordia empio spergiuri, vada errando tre
volte diecimila anni lungi dai beati, nascendo nel corso del tempo sotto tutte
le forme mortali, permutando i penosi pensieri della vita. Perché la forza
dell'aria li tuffa nel mare, e il mare li sputa nell'arida terra, la terra
nelle fiamme del sole fulgente, che li lancia nei vortici dell'aria, l'uno li
riceve dall'altro e tutti li respingono. Uno di essi anch'io sono, fuggiasco
dagli dèi ed errante, perché fidai nella folle Discordia. Ma l'uomo è anche
amore, amore che si pone, mediante la discordia, come termine di realizzazione,
onde se da un. lato a questo porta l'indagine sperimentale e metodologica,
dall'altro a questo è possibile aniare i piu·mediante certe tecniche di
discorsi, LA RETORICA, che viene ad essere a un tempo medicina e politica. Gran
parte ddle leggende su Empedocle, miracoloso guaritore e resuscitatore di
morti, uomo divino e profeta, derivano da certi passi del Carme Purificatorio,
che sono poi serviti, in tarda epoca, a far di Empedocle unà specie di santone,
accomunandolo non senza perché àlla leggenda di Pitagora, e, per altro verso, a
Orfeo, allorché si parlerà dell'aurea catena della verità divina rivelatasi
attraverso la catena degli iniziati. Cosi anche la morte di Empedocle è rimasta
avvolta nella leggenda. La piu fàmosa è quella secondo cui Empedocle, per
disfarsi dell’estranea tunica di carne (fr. 126) che lo riveste, per tornare
(ed è evidente, in Plutarco e in Porfirio da cui è tratto il frammento, l'interpretazione
orfico-pitagorica) alla patria celeste, si sarebbe gettato nel cratere
dell'Etna, che avrebbe poi eruttato uno dei calzari di bronzo del filosofo
(cfr. Strabone, VI, 274; Diogene Laerzio, VIII, 70; Suda, s.v.). Ma altrettanto
sintomatica è l'altra leggenda secondo cui Empedocle, dopo aver resuscitato una
donna, durante la notte, dopo un banchetto, chiamato da una gran voce, in mezzo
a un immane bagliore, sarebbe scomparso in un'apoteosi, tornando, egli divino,
tra i numi del cielo (cfr. Eraclide Pontico, in Diogene Laerzio, VIII, 67
sgg.). Qui, d'altra parte, s'innesta LA RETORICA DI GORGIA e se ne chiarifica
la portata. Non preoccupiamoci - egli dice - dell'Essere e del Non-essere,
tanto l'uno e l'altro sono la stessa cosa. Che ci sia o non ci sia quel mondo è
lo stesso, perché non è conoscibile (Del non ente o della natura). Se ci
crediamo, accettiamolo. Ma esso non incide affatto su questo nostro mondo
umano, che è il mondo dell'illusione e dell'opinione su cui si agisce facendolo
e ordinandolo mediante la parola e l'arte della parola (RETORICA). L'Elogio di
Elena di Gorgia sarà anche una pura esercitazione o uno scherzo, ma è senza
dubbio uno scherzo assai serio, che proprio, in quanto esercitazione, mette
chiaramente a nudo cosa Gorgia intendesse con RETORICA, indipendentemente (come
Protagora) da ogni preoccupazione d'ordine logico-gnoseologico. La parola
domina tutta quanta la vita affettiva. Con la parola discipliniamo gli affetti.
La retorica, dunque, è fondamentale nella formazione degli uomini, meglio nella
istituzione della vita sociale. È appunto giuocando passione con passione, sentimento
con sentimento, che possiamo costruire una società umana. E poiché la passione
di una folla non è la passione di un individuo e quella di uno non è la
passione di un altro, di qui l'importanza del sapere usare le parole, volta a
volta, l'importanza delle tecniche dei discorsi, fino a giungere allo studio
del come accentuare parole, o porre parole accanto a parole. Cosi non.1 caso
Gorgia nell'Elogio di Elena vede subito la relazione che corre tra la retorica
e la poesia. Le parole della poesia riescono a suscitare nell'anima nuove e
particolari esperienze. L'anima attraverso i discorsi uditi si modifica. Il
discorso cosi è visto come espressione da una parte e dall'altra come capacità
di modificare il modo dei rapporti umani, e poiché l'uomo è sentimento e
opinione. E sentimento e opinione sono parole. E la parola che trasforma e
costruisce il mondo umano, istituisce volta a volta quelle che possono essere
le virtu, indi- [Figlio di Carmantida, fratello del medico Erodico, nacque a Leontini,
in Sicilia, probabilmente tra il 485 c il 480. Sembra sia stato discepolo di
Empedocle ed abbia risentito gl'influssi della scuola di Velia e di quella
pitagorica. Con sicurezza sappiamo che nel 427 venne ad Atene, ambasciatore di
Leontini, per chiedere aiuti contro Siracusa. Ad Atene ha molto successo e
determina un notevole influsso sulla letteratura oratoria. Itinera poi in
Tessaglia, in Beozia, ad Argo. E certo a Delfi e a Olimpia ove tenne orazioni.
Senza dubbio e altre volte ad Atene e qui tenne un famoso epitafio. Muore
vecchissimo - quasi tutte le antiche testimonianze dicono a 109 anni - in
Tessaglia presso Giasone, tiranno di Fere. Suoi discepoli furono: Menonc
tessalo, Licofrone, Isocrate, Crizia, Alcibiade, Tucidide, Prosscno di Beozia,
Polo di Girgenti, Licimnio, Protarco, Alcidamante di Velia. Le sue opere piu
famose sono: “Intorno al non ente o intorno alla Natura”, “L'elogio d’Elena”;
“L'apologia di Palamede”; “ “Discorso pizio”. Forse è di Gorgia anche un trattato
su L'arte oratoria.pendentemente da cosa sia la Virtu con il V grande. Sotto
questo aspetto estremamente importante, proprio per rendersi conto dell'appello
al concreto dei primi sofisti, appare il fatto che Gorgia, ad esem-pio, non
intende ricercare cosa sia la Virtu, ma, a chi gli chiedeva cosa è Virtu,
risponde. La virtu di chi? Del bambino, dell’uomo virile, o del vecchio? della
donna o dell'uomo? (cfr. Platone, Menone, 71e; Aristotele, Politica, I, 1260a,
17). La seconda fase dei pitagorici secondi. Le indagini matematiche. Ippocrate
di Chio Secondo la leggenda, dalla distruzione della casa dei pitagorici a
Crotone si salvarono Liside e Archippo. Liside si sarebbe rifugiato a Tebe,
ove, sembra, avrebbe fondato un circolo Epitafio”; “Discorso olimpico”; pitagorico
di cui un prosecutore sarebbe stato Filolao, fiorito nella seconda metà del V
se- colo, che sul finire del 400 sarebbe andato in Italia. Archippo si sa-
rebbe, invece, rifugiato in Taranto, ove avrebbe proseguito l'opera di
Pitagora, proseguita a sua volta da Archita di Taranto, uomo politico di
vaglia, contemporaneo e amico di Platone. In realtà di Filolao e di Archita
sappiamo molto poco.1 Non senza una qualche ragione, anzi, particolarmente per
quel che riguarda Fi- lolao, si è giunti a dubitare che gli stessi frammenti
che si ritengono proprii dell'opera (Sulla natura) di lui, siano in effetto
rielaborazione, se non falsificazione, di Speusippo, il nipote di Platone e suo
succes- sore nella direzione dell'Accademia, che avrebbe composto un libretto
Sui numeri dei Pitagorici (cfr. Throlog. Arithm., p. 82, 10 De Falco). Platone
nel “Fedon” pur discutendo alcune tesi pitagoriche, rivela un suo pitagorismo,
soprattutto per quel che riguarda il motivo dell'armonia dei contrari, e cosi:,
in piu passi degli altri dialoghi e in particolare nel “Filebo” e nel “Timeo” sembra
riallacciarsi a certi motivi che paiono tipici di Filolao (armonia del limite e
del non limitato, armonia cosmica), e di Archita (armonie musicali). Ad ogni
modo l'accenno che nel “Fedone” Platone fa direttamente a Filolao è molto
sospetto. O come,.Cebète, non avete, tu e Simmia, udito parlare di questi
argomenti, voi che siete stati discepoli di Filolao? Si, ma niente di preciso,
Socrate. Anch'io, veramente, solo per averne udito parlare di queste cose (“Fedone”,
61tl). Chi abbia un po' di pratic~ dei testi platonici sa che generalmente
Platone usa questi giri di frase allorché vuoi mettere sugli attenti intorno a
certe dottrine. Nel caso preciso, Platone avverte che la tesi che sta per
esporre, appunto quella dell'armonia del tutto cui si giunge attraverso
l'analisi di se stessi (ché le nostre strutture corrispondono alla ragion
d'essere del tutto) non è né tesi di Socrate né di Filolao, ma interpretazione
personale, volta a certi scopi precisi e diversi. Talvolta, effettivamente,
dietro alcune tesi platoniche si nascondono motivi esistenti, ma che in realtà
avevano storicamente tutt'altro signifi- [Scarsissime sono le notizie sicure su
Filolao e su Acchita. Di Filolao sappiamo che fu contemporaneo di Socrate (dr.
Feàone, ove Socrate parla di Simmia e Cebete di Tebe che avevano ascoltato Filolao).
"Demetrio negli Omonimi dice che Filolao e il primo a pubblicare i libri dei
Pitagorici, col titolo Della natura " (Diogene L., VIII, 84-85). Su questo
e sull'esistenza di un'opera di Filolao si è molto discusso e la questione è
ancora aperta. Di Acchita di Taranto, sappiamo che visse a cavallo tra il V e
il IV secolo, che fu uomo politico di vaglia, signore di Taranto, amico di
Platone (cfr. VII lettera, 338b, 339a) che riusci a far partire Platone da
Siracusa, quando Platone si trova in quella città semi-prigioniero del tiranno
Dionisio (VII lettera, 350a). Secondo Aristosseno (fr. 48 Wehrli) Acchita,
quando e stratega, non emai sconfita~: ritiratosi dal comando, cedendo
all'invidia, la città subi subito uoa sconfittacato. Questo, con tutte le
cautele possibili, può essere il caso di Filolao e, sotto un certo aspetto, di
Archita. Platone avrebbe, probabilmente in polemica con le conclusioni dell'uno
massiccio di Parmenide, ri-elaborato un pitagorismo a modo suo, purrifacendosi
a certi motivi che potevano scaturire dalla discussione di Filolao nei
confronti dell'Essere di Parmenide. E questo particolarmente appare da certe
pagine del Parmeide e del Filebo, ove sono alcune espressioni che sembrano
coinci- dere con alcuni frammenti di Filolao, ma che in effetto vanno molto
oltre ciò che di fatto possiamo ricavare dai frammenti di Filolao. Es- sendo,
dunque, possibile una distinzione tra Platone e Filolao, senza arrivare a
sostenere una troppo raffinata falsificazione da parte di sco- lari di Platone,
che avrebbero costruito i testi di ·Filolao a bella posta, la cosa piu
probabile sembra sia la seguente:- del secondo pitagorismo ciò che appare di
piu altamente metafisica, in un'aspirazione all'ordine supremo del tutto, è in
effetto rielaborazione platonica in primo luogo, poi rielaborazione di
Aristotele. Piu probanti, per tentare di avvicinarsi alle tesi storiche del se-
condo pitagorismo, sembrano certe pagine di Platone in cui si pole- mizza
contro coloro che si occupano di geometria, di aritmetica, di astronomia, di
teoria musicale: loro difetto sarebbe, secondo Platone, di non essersi elevati
al primo principio, alle strutture dialettiche dell'essere, per ri~anere sul
piano delle ipotesi e della traduzione del visibile in termini geometrici e
aritmetici (cfr., in particolare, Repubblica, 510c sgg.). L'abbiezione di
Platone, che implica tutt'altro problema, il problema della ragion d'essere del
tutto, è la stessa abbiezione - anche se diversa nel suo contenuto - che ai
pitagorici muoverà Aristotele. Sotto questo aspetto, rifacendoci a certi
frammenti di Filolao e di Archita e alla distinzione fatta da Aristotele tra i
pitagorici del tempo di Alcmeone di Crotone e i pitagorici del tempo degli
atomisti, sembra che si possa realmente parlare di un secondo pitagorismo,
facente capo a Filolao e poi ad Archita, i quali, in quanto matematici o per lo
meno in quanto sono partiti da osservazioni o da scoperte di carattere
aritmetìco e geometrico, sarebbero stati accomunati al pitagorismo - nome
generico, - entro cui per antonomasia si son fatti rientrare, tutti coloro che
si sono occupati di matematica e di armonia. Tale il significato della
testimonianza di Aristotele, che, parlando dei pensatori del tempo degli
atomisti, afferma: vi furono i cosiddetti pitagorici, i quali, applicatisi alle
scienze matematiche, le fecero per i primi progredire: cresciuti poi nello
studio di esse, vennero nell'opinione che i principii delle matematiche fossero
i principii di tutti gli esseri. E poiché i principii della matematica sono,
naturalmente, i numeri, parve loro di vedere nei numeri, piu che nel fuoco,
nella terra e nell'aria, molte somiglianze con le cose che sono o che divengono
(Metaf., 958b). Aristotele, dunque, non solo distingue tra i pitagorici del
tempo di Pi~agora, cui sarebbe attribuibile la tavola delle dieci opposizioni e
i cosiddetti pitagorici di un tempo piu tardo, ma è a questi ultimi ch'egli, in
particolare, attribuisce il progresso delle scienze matematiche, in- tese come
scienze del numero, e la tesi che il reale è pensabile qualora sia riducibile a
numero, cioè a quantità. Ed è, infine, a questi ultimi ch'egli attribuisce la
tesi che elementi del numero sono il pari e il dispari: il primo, infinito: il
secondo, finito; e l'unità, essendo pari e dispari insieme, la fanno costituita
di entrambi gli elementi; e dal- l'unità sarebbe formato il numero (Metaf.,
986a). Mentre nei primi pitagorici trovammo unità accanto a unità, donde
vedemmo la critica di Parmenide, qui sembra invece si trovi il tentativo di
risolvere sul piano matematico le aporie di Parmenide e di Zenone. In altri
termini con Filolao e poi con ARCHITA DI TARANTO pare che certe scoperte
aritmetiche e àltre musicali abbiano -portato a impostare il problema della
pensabilità del reale sul piano del discorso, possibile qua- lora si riduca a
quantità il pensabile stesso, ponendo quindi l'ipotesi della numerabilità e
misurabilità resa possibile dall'unità come discorso, onde l'unità non è piu
uno o altro punto della serie, ma il discorso stesso come armonia di punti
(finiti e infiniti), cioè come condizione di quelli e quindi come " parimpari,"
per cui ogni aspetto comprensibile del reale è pari e dispari, è unità (monade)
e diade. L'unità e la molteplicità si conciliano cosi in una serie infinita di
numeri, che si ritmano nell'unità del discorso, come armonia, e come armonia dei
contrari: l'armonia nasce solo dai contrari: perché l'armonia è unificazione di
molti termini mescolati, e accordo di elementi discordanti (Filolao, fr. 10).
Il che non significa èhe per Filolao l'uomo colga l'essenza ultima della
realtà: la causa o le cause prime - saranno questi i problemi di Platone e di
Aristotele. Egli pone semplicemente e concretamente la possibilità di pensare
il reale: la sostanza delle cose, che è eterna, e la natura stessa richiedono
conoscenza divina, non umana; solo che nessuna delle cose che sono e noi
conosciamo 106 sarebbe potuta esistere, se non ci fosse la
sostanza delle cose che compòngono il cosmo, delle limitanti e delle illimitate
(fr. 6). Ora, poiché le cose appaiono come aventi qualità infinite, esse non
sarebbero pensabili, se non si potesse trascorrere tra esse, cioè se non si
potessero ridurre tutte a quantità, a un indefinito definibile me- diante la
numerabilità e la misurabilità: perciò le cose stesse sono nu- meri, divisipili
(pari) e indivisibili (dispari), limitanti e limitate, fra cui corrono rapporti
di misura, proporzioni, che ne costituiscono l'armonia, cioè quell'unità che è
condizione e presenza in ogni cosa: tutte le cose che si conoscono- dice
Filolao -hanno numero: senza il nu- mero non sarebbe possibile pensare né
conoscere alcunché (fr. 4). Il numero ha due specie sue proprie, il dispari e
il pari: e la terza è il parimpari, for· mato da queste due mescolate. Molte
forme ci sono dell'una e dell'altra, e ogni cosa per se stessa le rivela (fr.
5). Sembra, dunque, evidente che per Filolao non si tratta di conosce- re o di
cogliere quella che è la realtà in sé, ma di determinare quale sia la
condizione che rende pensabile la realtà, cioè che rende possi- bile la
scienza: è la natura del numero che fa conoscere ed è guida e insegna ad ognuno
tutto ciò che è dubbio e ignoto. Nulla sarebbe comprensibile, né le singole
cose né le loro relazioni, se non. ci fossero il numero e la sua sostanza. Ma
questo, armonizzando nell'anima tutte le cose con la percezione, rende co-
noscibili esse e le loro relazioni secondo la natura dello gnomone, col dar
corpo e distinguere le determinazioni delle cose, di quelle illimitate e di
quelle limitanti (fr. 11). E allora se pensare è armonizzare nell'anima tutte
le cose con la percezione, è riferire e misurare, la verità consiste
nell'armonia, nel numerare e misurare, che è articolare e discorrere: nessuna
menzogna accolgono in sé la natura del numero e l'armonia: non è cosa loro la
menzogna. La menzogna e l'invidia partecipano della natura dell'illimitati? e
dell'inintelligibile e dell'irrazionale. La verità è connaturata e propria
della specie dei numeri (fr. 11). Di qui l'importanza del discorso matematico,
per cui ciò che nel- l'immediatezza sensibile appare come continuo e indefinito,
illimitato, diviene intelligibile in quanto si numera, in quanto ciò che
si defi- nisce non è piu né acqua, né terra, né fuoco, né altra qualità, ma è
traducibile in figure, in forme (mediante lo gnomone), costituite di piani, di
linee, di punti; e i piani, le linee, i punti (gli originari punti, o ciottoli
dei primi pitagorici), i numeri interi della serie (tutti uguali l'uno
all'altro), si articolano fra di loro, in una unità discorsiva, che dunque non
è nessuno dei punti, ma la loro stessa condizione, che è quindi ad un tempo
pari e dispari, una e due, illimitata e limitante. Tutte le cose sono
necessariamente o limitanti e illimitate o illimita- te o limitanti e
illimitate. Soltanto cose illimitate non ci potrebbero essere (fr. 2). E in
Giamblico si legge. Secondo Filolao è assolutamente impos- sibile che ci sia
oggetto conoscibile, se tutti gli elementi sono illimi- tati" (fr. 3);
cosi. come non ci sarebbe conoscenza se tutto fosse li- mitante. Dalla
constatazione che nulla è pensabile se non è numerabile e misurabile, se non si
colgono le figure ddle cose, se non si riduce tutto a un determinatore comune,
viene l'affermazione di Filolao che la natura nel cosmo è composta di elementi
illimitati e di elementi limitanti: sia il cosmo nel suo insieme che tutte le
sue parti (fr. 1). Ora, se è vero, come sembra ritenessero i pitagorici, che le
figure, le forme, “idee”, delle cose si costituiscono di numeri, è altret-
tanto vero che ogni cosa ha un suo numero, e che, reciprocamente i numeri si
determinano come figure: punti, linee, triangoli, quadran- goli, poligoni, cubi
e cosi via. Nascevano di qui i problemi grossi dei rapporti tra le figure, che
tradotti in numeri ponevano il problema delle proporzioni, a loro volta
fondamento delle tecniche, ad esempio ar- chitettoniche, statuarie, e musicali.
La natura del numero e la sua grande potenza - dice Filolao - le si vedono...
anche in tutte le attività e in tutte le parole degli uomini, sia nelle
attività tecniche che nella musica (fr. Il). E Archita: la scoperta del calcolo
ha fatto cessare le discordie e ha accresciuto la concordia. Non è possibile
che ci sia sopraffazione da che esso è stato trrntc: c'è invece parità. Per
esso infatti ci accordiamo nelle relazioni di affari. Per mezzo suo i poveri
ricevono dai ricchi e i ricchi dànno ai poveri, avendo fiducia e gli uni e gli
altri di avere la loro parte. Il calcolo è strumento di giudizio e impedisce i
torti. Quanto al cosiddetto sistema filolaico relativo alla concezione del-
l'universo ed alla sua formazione, bisogna andare molto cauti. Se da un lato
può darsi che Filolao abbia sfruttato tesi di pitagorici piu an- tichi e forse
risalenti allo stesso Pitagora (come, ad esempio, il motivo della sfericità
della terra, del moto dei punti, costituenti le figure, del moto inteso come
respiro dell'universo), dall'altro lato il tentativo di tradurre in figure
piane e solide, gli elementi come il fuoco, la terra e cosi via, può essere
sospetto, soprattutto per quel che riguarda le figure solide e i loro rapporti,
“sterometria”, perché la stereometria, come appare chiaramente da Platone, che
ne fa un solo accenno nella Repubblica, mentre la conosce piu a fondo nel Timeo,
fu studiata da Teeteto - discepolo di Teodoro che è senza dubbio alquanto posteriore
a Filolao. Può cosi essei:e giustificato il sospetto di una rico- struzione a
posteriori, formata anche di tesi proprie del pitagorisnìo primo e secondo
(l'accentuazione dell'armonia musicale, il tentativo di matematizzare
l'astronomia rifacendosi all'aritmetica e alla musica), in cui sono presenti
anche ipotesi platoniche, democritee, eudossiane. In effetti i frammenti che si
dicono propri di Filolao o i frammenti di altri pitagorici del tempo o anche
anteriori, sono troppo pochi, brevi, e inseriti in testi troppo posteriori per
giustificare sia una concezione cosmologico-cosmogonica propria di Filolao, sia
una concezione cosmo- logico-cosmogonica dei pitagorici tout court. Non solo,
ma non va scordato che possiamo ricostruire tale concezione pitagorica solo
attraverso testimonianze di Aristotele che non cita Filolao, di Simplicio che
non cita Filolao, ma· che, su sua stessa confessione, riprende da Aristotele, e
da Aezio che cita Filolao. Al centro del cosmo è posto il fuoco, intorno al
quale ruotano dieci corpi celesti (probabile ricordo del valore dato alla
decade, alla tetraetys, dai primi pitagorici), ivi compresa la terra, che non
ha dunque posi- zione centrale e che è sferica. Il cosmo si sarebbe generato da
un primo alito caldo (il respiro di Pitagora), da un fuoco centrale (che sembra
risalire a Ippaso di Metaponto), che armonicamente determina un in- determinato
spazio vuoto. Il cosmo è uno, e cominciò a formarsi dal mezzo, con distanze
uguali dal mezzo all'alto e dal mezzo al basso. Le parti che si trovano sopra
la 109 parte centrale sono dalla parte opposta rispetto a quelle
che si trovano sotto. Le une e le altre si trovano insomma, rispetto alla parte
centrale, nello stesso rapporto: se non che sono da parti opposte (Filolao, fr.
17). Dal fuoco centrale, chiamato la madre degli dèi, perché da esso si
generano i corpi celesti, o Estia, il focolare della patria, o il trono o la
torre di Zeus, il fulcro cioè della vitalità del tutto (il primo armonizzato,
l'uno, è nel mezzo della sfera, e si chiama focolare -- Filo- lao, fr. 7), si
determina l'illimitato, costituendo cosi a poco a poco l'or- dine di tutta la
realtà, formata alla fine dei dieci corpi celesti ruotanti armonicamente
intorno al focolare dell'universo. Dal centro (fuoco) alla periferia abbiamo:
la terra e, ad essa opposta, l'antiterra, invisi- bile per l'uomo perché
ruotante insieme alla terra dalla parte opposta al fuoco; i cinque pianeti
(Mercurio, Venere, Marte, Giove, Saturno); il sole C' il pitagorico Filolao
dice che il sole è come un cristallo, perché accoglie il riflesso del fuoco che
è nel centro e rimanda a noi la luce e il calore (Aezio, II, 20, 12); la luna
e, infine, circondante il tutto, il cielo delle stelle fisse. Filolao, poi,
sempre secondo la testimonianza di Aezio (II, 7, 7) avrebbe chiamato Olimpo la
parte estrema di ciò che sta intorno, nella quale sono gli elementi nella loro
purezza, mentre Cosmo avrebbe chiamato la zona che si trova sotto l'Olimpo e in
cui si muovono i cinque pianeti, il sole e la luna, e Urano la zona sub- lunare
dove ancora è disordine e indeterminatezza. Sembrerebbe, dun- que, che secondo
Filolao l'universo sia una sfera entro cui si muovono armonicamente i corpi
celesti, aventi come perno e centro di irradia- zione il fuoco centrale (la
dimora di Zeus), che in quanto è fonte di tutto è anche ovunque, tanto piu là
dove di piu il tutto è definito, il cielo delle stelle fisse, o Olimpo (la
tradizionale sede di Zeus), per cui, forse simbolicamente, il fuoco è
quell'unità che non è nessuno dei numeri, ma è tutti nella loro armonia,
trovandosi cosi al centro e alla periferia come involucro di tutto (cfr.
Aristotele, De coe.lo, Il, 13, 293), unità di finito e d'infinito. Sembra,
infine, che a questa concezione vada riallacciata la celebre dottrina
dell'armonia delle sfere di cui parla Aristotele. Certo Aristotele non cita
direttamente i pitagorici ed è probabile che anche questa teoria sia una
posteriore interpreta- zione e rielaborazione. Alcuni dicono che dal movimento
degli astri nasce armonia, in quanto dal movimento sono prodotti dei suoni e
questi sono consonanti. C'è in- fatti chi crede che, muovendosi corpi cosi
grandi, ne nasca un suono perché suono è prodotto dal movimento dei corpi che
sono quaggiu, i quali pure sono meno grandi e meno veloci di quelli. Non può,
dicono, non nascere un suono straordinariamente grande dal movimento del sole e
della luna e degli astri, che sono tanti e tanto grandi e procedono con tanta
velocità. Cos{ essi credono che i rapporti della velocità degli astri in
relazione alle distanze siano i medesimi degli accordi musicali; e perciò
dicono armonico il suono degli astri ruotanti. Poi, a giustificare il fatto che
questo suono non lo udiamo, dicono che la causa sta in ciò, che esso c'è sempre
dal nostro nascere; manca per questo, dicono, ogni contrasto col silenzio, e
quindi non possiamo distinguerlo, ché suono e silenzio si discernono appunto
perché sono in contrasto. Insomma accade, per tal suono, agli uomini quello che
accade ai fabbri, che per l'abitudine fatta al rumore non lo distinguono piu
(De coelo, II, 9, 290b). Ora, come nella cosmologia l'alito caldo, il fuoco,
che è al centro ed alla periferia, si costituisce come armonia vivente del
tutto, cosi: sembra-che per i pitagorici l'anima fosse armonia e accordo
musicale. L'anima, in quanto p~euma, soffio vitale, sta all'essere vivente come
l'uno centrale, il focolare dell'universo, sta al tutto costituendo armonia tra
gli elementi contrari. L'anima, dunque, sarebbe l'armonia che costituisce,
essendone la condizione, la mescolanza ordinata degli de- menti corporei. Sotto
questo aspetto, venendo meno gli elementi corpo· rei non viene meno l'anima,
ché l'anima come armonia non è il risul- tato di una somma di parti, ma la
condizione dell'ordine stesso, per cui l'anima resta sempre armonia di ciò che
è vivente. Questa sembra fosse la tesi di Simmia, discepolo di Filolao, anche
se Platone, nel Pedone, obbietta che, dissolvendosi gli elementi corporei,
dovrebbe venir meno anche l'anima. Queste, nelle loro linee generali, le
dottrine cosmogonica-cosmolo- gica e dell'anima-armonia che la tradizione ha
fatto risalire ai pitago- rici. Senza dubbio alcuni motivi sono certamente del
primo e del se- condo pitagorismo, altri sono dovuti a interpretazioni e
sistemazioni posteriori, e, innanzi tutto, a Platone. Cosi, per esempio, certe
conce- zioni proprie di Platone, che, nel Timeo in particolare, le mutuava da
Teeteto (cfr. la tesi dei cinque elementi: terra uguale cubo, acqua uguale
icosaedro, aria uguale ottaedro, fuoco uguale tetraedro, etere uguale
dodecaedro), sono state piu tardi (da Aezio, in II, 6, 5) attribuite a Filolao
(cfr. E. Sachs, Die fiinf plat. Korpcr, Berlino, 1917). Molte tesi cosiddette
pitagoriche sono in realtà di Platone o posteriori ai pitagorici, o sono
interpretazioni che, comunque, rispondono;~ problemi e ad esi- genze di altri
pensatori in altre situazioni storiche. Ciò che invece sembra proprio dei
secondi pitagorici, o almeno dei matematici è il valore dat~ all'i(lotesi,
intesa etimologicamente come il presupposto che permette un. certo
ragionamento; ipotesi matematiche che permettono appunto di pensare e che hanno
estrema importanza per le tecniche, come sottolinea Fi- lolao. Di qui la
critica di Platone a coloro che si sono occupati di geo- metria, di aritmetica,
di astronomia: essi hanno formulato i(lotesi, ma da queste non sono giunti ai
fondamenti primi, o meglio, al contrario, a queste.non son giunti dalla suprema
ragion d'essere (cfr. Ref1., 510c); e la critica di Aristotele secondo cui i
pitagorici sarebbero rimasti sospesi fra il sensibile e l'intelligibile
(Metaf., I, 987a). Ha cosi ragione Abel Rey (La science dans l'antiquité, Parigi)
quando sostiene che i pita- gorici hanno insistito sui " primi principii
della scienza che non sono però i primi principii in se stessi assolutamente
parlando." Entro questi termini può essere opportuno ricordare che a
Filolao sembra si debba la scoperta e lo studio della proporzione o medietà ar-
monica (di quarta, di quinta, di ottava), accanto alla proporzione arilm~ tica
(le cui proprietà furono formulate da.Archita) e a quella geometrica. Queste
ricerche e studi appaiono come l'aspetto piu saliente del secondo pitagorismo,
insieme a un altro problema che si presentava loro, e che, forse, entrava in
contrasto con la teoria dei punti-unità dei primi pi- tagorici, il problema
degli incommensurabili o numeri irrazionali (detti prima indicibili, 4ppYjTat;
poi irrazionali, 4>-oyo'), che tuttavia po- neva le basi di nuovi rapporti e
misure, la possibilità del passaggio dalle figure piane (geometria), alle
solide (stereometria). Di qui da un lato il problema della duplicazione del
quadrato e dall'altro il problema della duplicazione del cubo, che vennero
spostando il problema da un'inda- gine piu strettamente aritmetica a una
indagine che divenne sempre piu strettamente geometrica. Non sappiamo con
precisione a chi risalga la teoria delle grandezze irrazionali. Probabilmente
si scoprirono gli irrazionali, quando, volendo applicare il teorema detto di
Pitagora (la duplicazione del quadrato) al triangolo rettangolo isoscele, ci si
accorse ch'era impossibile misurare e indicare con un numero la diagonale del
quadrato di lato l. Senza dubbio il motivo degli irrazionali fu poi
approfondito da Teodoro di Cirene e quindi da Teeteto, come risulta chiaramente
da Platone. Quanto alla duplicazione del cubo, o problema di Delo (cosi detto
perché secondo la leggenda, conservataci da Eutocio, l'oracolo di Odo avrebbe
richiesto agli abitanti di Delo di duplicare uno degli al- tari del tempio,
clie aveva forma cubica), sembra che per primo vi si sia dedicato il matematico
Ippocrate di Chio, che venuto ad Atene per ragioni di commercio vi si stabill
insegnando matematica tra il 450 e il 430, scrivendo i primi elementi di
geometria ed entrando in rap- porto coi maggiori esponenti della cùltura
ateniese. lppocrate applicò alla duplicazione del cubo il metodo, da lui stesso
scoperto, detto apagogico, che consiste nel ridurre un problema a un altro
problema, di modo che, se il secondo è risolto, o dimostrato, lo è ugualmente
il primo. Egli stabilisce cosi che il problema della duplicazione del cubo era
di trovare due medie proporzionali fra due numeri dati e non una sola media
come per la duplicazione del quadrato (cfr. P. H. Michel, La science hellène,
in Hist. génér. des Sciences, Parigi, l, p. 236). Sempre a Ippocrate di Chio
sembra si debba l'impostazioné del problema della quadratura del circolo, cui
credette di poter giungere mediante lo stu- dio dell'area delle lunule, che, se
non risolse la quadratura del circolo, servi a formulare nuovi teoremi. In
questa epoca il problema della quadratura del circolo fu ripreso e discusso
anche da lppia di Elide, che mediante la curva la lui detta di Ippia o quadratrice, se non
risolse la quadratura del circolo, formulò il teorema della trisezione
dell'angolo; da Antifonte 'che tentò la soluzione raddoppiando indefinitamente
il numero dei lati di un poligono regolare iscritto in un cerchio; e da
Brisone, un sofista fiorito sulla fine del V e l'inizio del IV secolo, che
oltre al poligono iscritto considerò anche quello circoscritto. Non a caso ci
siamo soffermati un momento su questo tipo di in- dagini volte a questioni
precise e concrete. Accantonato il problema del- l'Essere quale si era formulato
con Parmenide ed Eraclito, rivelatosi quel problema come inesistente, ché
nell'uno e nell'altro caso si finiva nel silenzio, questo tipo di ricerche
(volte all'indagine delle condizioni che rendono pensabile la realtà, o delle
condizioni che rendono possibile il rapporto umano, o di quelle che esplicano
il 'fatto' natura) ap- pare come il piu significativo e tale da costituire una
ben precisa si- tuazione culturale. E se per filosofia s'intende ciò che allora
s'intendeva, non una specifica disciplina avente un suo oggetto (come avverrà
con Platone e con Aristotele), ma ricerca, desiderio di sapere in senso gene-
rale, diremmo che la filosofia della seconda metà del V secolo, fu la
matematica, la fisica, lo studio di quello che è il modo umano di pen- sare e
di parlare, la retorica, l'indagine di come gli uomini istituiscono rapporti,
di come l'uomo è religioso. Entro questi termini culturali ed entro questo tipo
di ricerche rientrano esattamente anche le indagini di Democrito.'A tal
proposito sembra, anzi, interessante ricordare che già sulla metà circa del II
secolo si venga sempre piu definendo il campo pro- prio della dialettica e
particolarmente della retorica come scienze a sé, approfondendone il
significato educativo. Da un lato ciò si rivela da quel poco che sappiamo della
Retorica dello stoico Diogene di Babilonia, che insieme a Carneade si reca a
ROMA per l'AMBASCERIA, il quale vedeva nella retorica l'arte con cui si formano
uomini politici utili alla città (cfr. Filodemo, De rhet., I, p. 333. Sudh.); o
dall'altro lato attraverso la sistemazione della retorica del celebre Ermagora
di Temno. Egli, oltre a determinare le tecniche dei discorsi relative alle
questioni di dispute particolari da parte di singole persone (ipoten), delineò
la pos- sibilità di discutere sul piano retorico argomenti di carattere
generale (ten), vedendone il pro e il contro, come in tribunale, e che possono
essere utiii sia per la parte deliberativa della retorica, sia per quella
giudiziaria, sia per quella encomiastica, in uno sviluppo di quelli che in
Aristotele erano i luoghi comuni (tesi) e i luoghi propri (ipotesi). Si capisce
come poi di qui si potranno assumere, per esercitazione retorica nelle scuole,
o per utilità di discussione in tribunale o in wli- tica, le tesi dalle tesi
stoiche di morale, dalle tesi platoniche, da quelle aristoteliche,
indipendentemente dai contesti e dal loro significato in quei contesti. Ma qui
il discorso si fa diverso, anche se era necessario questo accenno per
prospettare quelli che saranno certi aspetti della cultura quale troveremo
dalla seconda metà del II secolo a. C. in poi a Roma, nel costituirsi di un
ambiente, di una tematica, di un com- plesso di esigenze, che prendendo mosse e
strumenti dal pensiero e dalla problematica della cultura greca si delinea in
modi diversi, risol- vendosi alla fine in una diversa strutturazione, ove altre
sono le do- mande e le richieste. Ad ogni modo, posta la formalità della logica
crisippea e la sua soluzione in termini di grammatica e di sintassi, in
un'analisi del lin- guaggio, ammesso pure che l'assenso venga dato a ciò che
piu fortemente. impressiona, onde assumiamo fede nella esistenza di ciò che si
vien oresentando ('tUrx«vov )su cui poi si costituisce il discorso, posta
l'analisi rivelante i vari tipi di discorso, la loro verità o falsità, e posti
con ciò i sillogism! ipotetici, i ragionamenti anapodittici, ciò che sem- bra
difficile spiegare è come Crisippo sia poi potuto passare, sul fon- damento di
quella logica, a determinare la ragion d'essere, la logica di tutto, il cui
esito è una teologia, una fisica, una concezione del di- ritto naturàle simili
a quelle di Cleante. Qui non vengono in aiuto né le testimonianze, né i pochi e
sospetti frammenti. Se da un lato tro- viamo un certo insieme di testimonianze,
che, riferendosi particolar- mehte a Crisippo, permettono di ricostruire la sua
logica e la sua dia- lettica, il suo studio dei significanti e dei significati,
e certi termini tecnici, nel senso che sopra abbiamo detto; dall'altro lato, dall'esposizione
che gli antichi dettero dello stoicismo parlando insieme di Zenone, di Cleante
e di Crisippo, vengono fuori, soprattutto comuni a Cleante e a Crisippo, la
stessa teologia, la stessa fisica, la stessa etica. Possiamo cos1 solo
sospettare o che la dimostrazione del tutto (fatalmente ordinantesi in una
catena, manifestazione della Legge con cui Dio si realizza) è tratta per
analogia dal modo con cui si costituisce il discorso, per cui lo stesso tutto e
la sua ragion d'essere e concatena-. zione fatale è, alla fine, un possibile
discorso ipotetico, che viene ac- cettato o respinto solo per opzione, per un
atto di volontà, in un ripie- gamento, dal punto di vista ontologico, sul
probabile o credibile; op- pure che Crisippo abbia nettamente distinto dalla
logica (dialettica e retorica) come unica scienza umana, valida per provare uno
o altro tipo di discorso, la fisica e la teologia valide a spiegare in quanto
basate su di un ragionamento, che può essere formalmente vero, e al quale diamo
quindi l'assenso, una certa condotta morale. L'uomo, cos1, razionalmente
ricostruendo un ipotetico tutto razionale, ove tutto è determinato, nella
consapevolezza critica delle proprie determinazioni e limitazioni, da esse si
libera accettandole e, in un giuoco ove le pedi- ne sono date e date sono le
mosse, ha possibilità - tale sembra l'affer- mazione crisippea che fato e
volontà umana possono coesistere - di determinare tra le possibili mosse date
una mossa piuttosto che un'altra. Dice Crisippo: a quel modo che chi ha dato la
spinta a un cilindr~ gli ha dato l'inizio del movimento, ma non la capacità di
girare, cosf la rappresentazione imprime, si, l'oggetto, ma l'assenso sarà in
nostro potere... Cosi l'ordine e la ragione e la necessità del fato muovon gli
stessi gelliO"i e priiÌcipii delle cause, ma l'impeto delle risoluzioni e
delle menti nostre e le azioni stesse le governa la volontà propria di ciascuno
e l'indole degli animi (Cicerone, De fato; Gellio, Notti Attiche). Altro di
Crisippo non possiamo dire, ché gran parte delle piu duttili discussioni sugli
indifferenti, sul rapporto tra utile e onesto, probabilmente certi sviluppi
relativi alla giustizia, all'unica ragione per cui tutti gli uomini sono uguali
e, idealmente almeno, hanno quindi tutti
gli stessi diritti da natura (il giusto è per natura e non per convenzione,
come anche la legge e la retta ragione, secondo dice Crisippo ": Diogene),
le interpretazioni allegoriche degli dèi, alcune affermazioni paradossali, sono
certo posteriori a Crisippo, e se prestiamo fede alle ricostruzioni di
Cicerone, furono proprii della Scuo- la e in particolare di Diogene di Seleucia
o di Babilonia e di Antipa- tro di T arso, che, dopo Zenone di T arso,
successero nello scolarcato della Stoà durante il II secolo. Secondo Antipatro
si deve rivelare ogni cosa, perché il compratore non ignori nulla di ciò che
conosce il venditore: e per Diogene il venditore deve dire i difetti di ciò che
vende, fin quanto vuole la legge; per il resto agisca senza inganno e, poiché
vendè, venda nel modo migliore... E mentre Antipatro dice: “Ma come? Mentre
devi provvedere agli uomini e renderti utile al consorzio umano, a tale scopo
sei nato, e riconosci il princi- pio naturale, per cui l'utile tuo è
inseparabile dall'utile comune e viceversa, terrai nascosto agli uomini quel
vantaggio che può favorirli? Diogene risponderà. Altro è nascondere, altro è
tacere. (Cicerone, “De officiis”). In effetto sembra che se da un lato molte
delle discussioni di etica1 sorte nella Scuola, hanno un sapore di esercitazioni
dialettiche e retoriche, dall'altro lato proprio tali esercitazioni ponevano il
problema della eticità su di un piano casistico, che venne, non poco, spostando
la rigi- dità dell'originario stoicismo, permettendo una maggiore duttilità nei
confronti delle singole situazioni politiche, mentre il motivo dell'ugua-
glianza di tutti gli uomini in nome dell'unica ragione naturale assu- meva
significato polemico di fronte alle sempre piu gravi sperequa- zioni sociali,
anche se, alla fine, entro l'ambito di una realtà ove tutto si dispone in ben
precisi gradi, rispecchianti la Legge di Dio, poteva giustificare proprio
quelle stesse sperequazioni sociali. L'atteggiamento polemico, invece, tanto
meglio si vede in alcune posizioni di Cinici del III secolo (Bione di
Boristene, Menippo di Gà- dara, Cercida di Megalopoli, Telete), che, mantenendo
il tipico aspetto cinico, di ribellione ad ogni tipo di società, nelle loro
satire e diatribe e meliambi, forme letterarie propriamente popolari e rivolte
al popolo, vennero puntando l'accento sulla sperequazione tra ricchi e poveri:
Perché mai il cielo - scriveva Cercida - non toglie ai ricchi la loro maialesca
ricchezza? A quali signori, dunque, a quali celesti dovremo rivolgerei, per
avere il giusto compenso, quando il Cronide, che tutti ci ha generati, che
anche a noi ha dato la vita, degli uni si mostra padre dei ricchi, degli altri
patrigno dei poveri? (Meliambo). Alla morte di Crisippo, avvenuta ad Atene tra
il 208 e il 204, sco- larca dell'Accademia era Telecle, successo a Lacide di
Cirene, ch'era stato a capo della Scuola dalla morte di Arcesilao. Di Lacide,
ch'ebbe notevole fama di maestro, che fu circondato da molti discepoli venuti
ad Atene da· tutte le parti del mondo greco, sappiamo solo che espose per
scritto il pensiero del maestro. COs1, poco o niente sappiamo di Telecle, e
meno ancora del suo successore Evandro, che lasciò la direzione dell'Accademia
a Ege- sino di Pergamo, al quale successe il discepolo Carneade. Di altri Ac-
cademici di questo periodo sappiamo solo i nomi, Aristippo di Cirene e
Pitodoro, che dedicò i suoi scritti all'esposizione delle argomentazio- ni di
Arcesilao (si cfr. Diogene L., IV, 51; Il, 83; lndex Herc., XXVII, 9; Cicerone,
Lucullus, VI, 16; Suda, s. v. Aotxu31Jc;). La loro importanza sembra, dunque,
soprattutto dovuta all'avere costituito una tradizione arcesilea, prendendo le
mosse dalla quale Car- neade,1 in un approfondimento delle argomentazioni di
Arcesilao, serratamente discusse gli scrhti di Crisippo (" Se Crisippo non
fosse sta- to, neppure io sarei: Diog.) e le tesi stoiche elaborate dai
discepoli di Crisippo, Diogene di Babilonia, alla cui scuola fu Car- neade
(Cicerone, Lucullus, XXX, 98), e Antipatro di Tarso, contempo- raneo di
Carneade, del quale si dice che mai osò attaccare Carneade nella scuola o in
piazza, preferendo difendere lo stoicismo attraverso gli scritti (Numenio).
Nato a Cirene, in una città ricca di tradizioni scientifiche e culturali - da
dove erano venuti ad Atene anche [Nato a Cirene Carnéade venne ad Atene in
un'epoca che non è dato precisare. Ad Atene si preoccupò soprattutto di
rendersi conto delle varie com- ponenti culturali: ascoltò Egcsino di Pergamo,
scolarca dell'Accademia, Diogene di Babilonia, scolarca della Stoà e discepolo
di Crisippo. Fu uomo di vastissima cultura, dia- lettico sottile, buon
parlatore. Successe nello scolarcato dell'Accademia a Egesino di Per- gamo.
Probabilmente fu proprio la sua fama di dialettico e di buon parlatore che fece
decidere gli ateniesi ad inviare a Roma Carneade insieme allo scolarca della
Stoà Diogene di Babilonia, e allo scolarca del Peripato, Critolao, in qualità
di·ambasciatore presso il senato romano. Gli ateniesi, condannati da Roma a
pagare una·forte multa per avere saccheggiato Oropo, inviano Carneade, Diogene
di Babilonia e Critolao, a Roma perché cercano di far ritirare il
provvedimento. Giunti a Roma e non ascoltati subito dal senato, i tre
ambasciatori presero contatto coi romani, discutendo con loro di filosofia. Chi
fece la massima impressione, per la sua arte dialettica, per avere un giorno
esaltato la giustizia e il giorno dopo, con altrettanti argomenti convincenti,
sostenuto che la giustizia è stoltezza, fu Carneade. gli accademici Aristippo e Lacide, -
Carnel).de, ad Atene, ascolta le lezioni e le discussioni dei maggiori maestri,
dallo scolarca dell'Accademia Egesino di Pergamo a Diogene di Babilonia,
scolarca del Portico (Cicerone, “Lucullus”). Studioso e lettore attento di
scritti filosofici di ogni provenienza, dice Cicerone che Carneade conosce a
fondo ogni parte della filosofia: Va"o, XII, 46, - ottimo parlatore e
sottile dialettico, sembra che per queste sue doti e scelto da Egesino a
succedergli nello scolarcato dell'Accademia. Che Carneade, come Arcesilao, non scrive
snulla, indica chiaramente una netta presa di posizione e l'assunzione della
filosofia come sempre attenta e aperta consapevolezza critica. Di qui, non
tanto un atteggiamento polemico nei confronti dello stoicismo, quanto un
continuo richiamo alle ingiustificate evasioni dai limiti delle possibilità umane
verso cui lo stoicismo veniva scivolando. Non a caso, anzi, tutta la
discussione di Carneade si svolge al di dentro della stessa logica dello
stoicismo. Carneade non oppone allo stoicismo altra concezione, sia pur
rovesciata, ché sempre si sarebbe trattato di una “filosofia,” ma egli,
riconoscendo con lo stoicismo, o meglio con Crisippo, che i fondamenti del
discorso umano sono da un lato i dati dell'impressione sensibile e dall'altro
lato l'attività del soggetto che ordina e unisce in nessi e implicazioni quei
dati stessi, proprio per questo, non po- tendo la ragione umana uscire da se
stessa e dal proprio discorso, sottolinea l'illeceità del passaggio dal
discorso umano ad un presunto discorso della realtà. E, soprattutto, usando il
metodo delle anti- Carneade visse. Vecchio e ammalato, lascia la direzione
dell'Accademia, che passa al discepolo Carneade di Polemarco che prem.ori al
maesto. Lo scolarcato dell'Accademia e quindi tenuto da Cratete di Tarso, al
quale succede Clitomaco di Cartagine. Carneade non lascia scritti. Su di lui e
sul suo modo di pensare scrive Clitomaco, che, probabilmente, fu la maggior
fonte di Cicerone. Per utilità ricordiamo che dopo Platone scolarchi
dell'Accademia furono: Speusippo, Senocrate, Polemone, Cratete di Atene, Arcesilao,
Lacide, Tclecle, Evandro, Egesino di Pergamo, Carneade. Di Diogene di Babilonia
e di Critolao, che accompagnarono Carneade a Roma, sappiamo molto poco. Diogene
di Babilonia, discepolo di Crisippo, succede nello scolarcato della Stoà a
Zenone di Tarso. Soprattutto Diogene di Babilonia si occupa di dialettica e di
retorica. Fu il quarto scolarca della Stoà dopo Zenone: Cleante, Crisippo,
Zenone di Tarso, Diogene di Babilonia. Pochi i frammenti di Critolao, nativo di
Faselide, nella Licia, e scarse le notizie su di lui. Succede nello scolarcato
del Liceo ad Aristone di Ceo che scrive una “Storia del Peripato”, in cui sono
inseriti i testamenti degli scolarchi suoi predecessori. Critolao fu il quinto
scolarca del Liceo, dopo Aristotele: Teofrasto, Stratone di Lampsaco, Licone di
Troade, Aristone di Ceo, Critoli10. A Critalao successe Diodoro di Tiro. 274
logie, egli tende a chiarire l'impossibilità di affidarsi a una
qual- siasi dottrina che presuma d'essere l'unica vera o la possibilità che una
dottrina abbia di dimostrarsi vera razionalmente. Di qui, di contro ad ogni
tipo di teologia o di dimostrazione dell'esistenza degli dèi o del divino,
l'appello di Carneade a rendersi conto dei propri limiti e delle proprie
possibilità è, si, da un lato, la dichiarazione di morte di un certo tipo di
filosofia, ma dall'altro lato è anche il piu alto riconoscimento della serietà
dell'indagine che, negando alla filosofia la sua presunta funzione di scienza
delle scienze, dà alla filosofia la funzione di determinare volta per volta il
limite e la validità di que- sta o di quella ricerca, la consapevolezza
dell'umana responsabilità, della responsabilità del pensiero. Carneade, certo,
non si spiega senza Crisippo (soprattutto per ciò che riguarda i limiti della
logica e della dialettica), senza la tesi stoica del fato e della Legge, e
senza i conseguenti problemi sulla pos- sibilità o meno della libertà e della
umana capacità di azione. Sotto questo aspetto, l'appello di Carneade alla
consapevolezza critica, alla responsabilità del pensiero, al significato e alla
funzione che ha il filosofare, non è un vuoto appello, ma una concretissima
presa di posizione, nei confronti di tesi che finivano per alienare- l'uomo, in
una situazione storica particolarmente favorevole a simili evasioni ed evi-
tate responsabilità in astratte pacificazioni. Cosi, accanto alla discus- sione
svolta da Carneade nei confronti della fantasia catalettica, della veracità o
meno dell'impressione sensibile, della dialettica come capacità di discernere i
ragionamenti veri dai falsi, dell'assenso, della necessità della epoché (discussione,
del resto, anche se piu approfondita, molto simile a quella svolta da
Arcesilao), sembra di non poco conto ricordare la precisa problematica posta da
Carneade nei confronti del- l'impossibilità di porre da un lato una realtà
fatalmente ordinantesi in nessi, ove tutto è là dove dev'essere
necessariamente, momento del necessario realizzarsi di una legge universale, e,
dall'altro lato, l'uomo avente la capacità di volere, per cui almeno alcune
cose sono in suo potere. Carneade, ed è naturale, non si decide né per l'una né
per l'altra tesi. Ciò ch'egli vuole è giungere a porre l'inconciliabilità tra
libertà e necessità, tra possibilità umana di costruire il proprio mondo e
d'esserne responsabile, e la visione di un tutto ove Dio è legge. Ma nel
sottolineare tale aporia, Carneade portava ad estrema conseguenza ed a
consapevolezza quella ch'era stata la problematica propria di gran parte del
pensiero greco. E qui pensiamo particolarmente ad Aristotele nel quale si vede
bene il conflitto tra un tutto che sillogisticamente si scandisce e la volontà
come capacità di realizzare in armonia dei fini che dipendono dall'attività
propria dell'uomo e alla soluzione di una parte almeno della scuola
aristotelica, che svincolando il filosofare dalla ricerca delle cause prime e dei
fini ultimi, aveva posto la funzione del filosofare nell'indagine delle
condizioni che permettono la costruzione delle singole scienze, o, per altra
via, del come è che si pensa, del come è che si parla. Ma pensiamo anche ad
Epicuro, alla sua polemica contro l'astrologia e la dialettica di Platone,
contro il sillogismo di Aristotele, contro la matematicizza:z;ione
dell'universo. Ed infine pensiamo agli stessi Stoici, in particolar modo a
Zenone e a Crisippo, e cioè ai loro sillogismi ipotetici, alla loro logica
proposizionale, che, invece di un esito religioso-teologico - non va dimenticato
che gran parte degli stoici provenivano da zone orientali, particolarmente
semitiche, ove giovani si erano formati - poteva aver quell'esito, che, in
effetto, ebbe proprio in Carneade. Posto cioè che ogni discorso si costituisce
di implicazioni dovute al ricordo di impressioni ricevute, ognuna delle quali
non è, presa in sé, né falsa né vera (non abbiamo alcun criterio per poter
affermare che l'impressione vera è quella che corrisponde all'oggetto
impressionante, perché dovremmo già prima conoscere l'oggetto), e posta quindi
l'ipoteticità del discorso, si deve avere il coraggio di mostrare che proprio
perché ogni discorso è ipotetico, per cui l'uno si può opporre all'altro
(antilogia), ogni discorso è valido sul piano umano, e la sua stessa verità -
la coerenza o meno delle implicazioni - può cangiare, se diverse sono le
impressioni e i relativi ricordi, per cui la stessa dialettica, intesa come
scienza che dovrebbe distinguere il vero dal falso nei discorsi, non ha alcun
criterio assoluto e quindi è vana, sf come vano sul piano ontologico si rivela
il criterio dell'analogia con cui gli Stoici hanno costruito la loro
cosmologia, la loro concezione del divino, della Provvidenza, con cui provano
l'esistenza di Dio, e pongono la tesi del diritto naturale. Co- struzione
umana, gli umani discorsi e le umane verità, le une e gli altri validi entro i
termini della mobile storia degli uomini e delle loro esperienze, la stessa
giustizia è storica e non naturale. Gli uomini sancirono il diritto per proprio
utile, dal momento che spesso esso venne cangiato a seconda dei costumi e,
nell'ambito di una medesima società, a seconda dei tempi: non esiste pertanto
alcun diritto naturale; tutti, uomini ed esseri viventi, sono portati all'utile
proprio, sotto la guida della propria natura; di conseguenza o non esiste
affatto la giu- stizia o, se esiste in qualche modo, è il colmo della
stoltezza, perché in servizio del vantaggio a ltrui nuocerebbe a se stessa
(Lattanzio, Div. inst.). C'è, dunque, un diritto civile, non un diritto
naturale (Cicerone, Rep., III, 7 sgg.). Distinta la giustizia in due parti,
chiamando l'una sociale e l'altra naturale, Carneade le capovolge ambedue, dal
momento che la prima è civile saggezza, ma non vera giustizia, e la seconda è
1..erto naturale giustizia, ma non saggezza (Cicerone, Rep.). Il che, ancora
una volta, non significa affatto negare la giusuz1a o opporre alla tesi stoica
un altro concetto di giustizia, ma dimostrare l'impossibilità di cogliere la
giustizia in sé, di cogliere, di là dall'umano discorso e dalle situazioni
umane, la ragion d'essere del tutto, la legge come recta ratio su cui tutto si
fonda. Carneade, testimonia Cicerone, confutò la giustizia, non già perché
pensasse che essa dovesse essere ingiuriata, ma per dimostrare che i suoi
difensori discutevano intorno alla giustizia, senza avere alcun fondamento
certo e solido (Rep.). Lo stesso potremmo ripetere per ciò che riguarda gli
dèi, la cosmologia, la provvidenza, la divinazione (artificiale e naturale) e
cosi via, tutte tesi stoiche, che Carneade discute senza uscire fuori dalle
stesse argomentazioni stoiche, dimostrandone la contraddittorietà sia
ricorrendo alle antilogie sia ai vecchi sofismi megarici, come i soriti, sia
all"' ironia" socratica (si cfr., anche per ciò che sopra è stato
esposto, Cicerone, Lucullus; De natura deorum; De divinatione; De fato; De
finibus; Sesto Empirico, Adv. math.). D'altra parte, infine, poiché, almeno in
Crisippo, la dimostrazione del tutto e di quelle che sono le leggi del tutto è
tratta per analogia dal mondo con cui si costituisce il discorso, per cui di
implicazione in implicazione si giunge a porre la condizione prima nel
principio attivo e in quello passivo, lo stesso tutto e la sua ragion d'essere
e concate- nazione fatale sono, alla fine, un possibile discorso ipotetico, che
viene accettato o respinto per opzione. Sembra chiaro, allora, come di qui
Carneade potesse trarre che, dunque, l'esito non· contraddittorio della logica
stoica doveva essere non la certezza in un sapere assoluto, che accantona ogni
altra opinione, ma il ripiegamento sul probabile o cre- dibile (7tr.&«vov-
pithan6n ). Molto si è discusso sul significato che ha in Carneade la tesi del
credibile. " È invalso l'uso," scrive il Dal Pra (Grande Antologia
filosofica, Milano, l, pp. 515-16}, di considerare del tutto a parte la
dottrina carneadiana del pithan6n, che darebbe fondamenmente si scandisce e la
volontà come capacità di realizzare in armonia dei fini che dipendono
dall'attività propria dell'uomo e alla soluzione di una parte almeno della
scuola aristotelica, che svincolando il filosofare dalla ricerca delle cause
prime e dei fini ultimi, aveva posto la funzione del filosofare nell'indagine
delle condizioni che permettono la costruzione delle singole scienze, o, per
altra via, del come è che si pensa, del come è che si parla. Ma pensiamo anche
ad Epicuro, alla sua polemica contro l'astrologia e la dialettica di Platone,
contro il sillogismo di Aristotele, contro la matematicizzaione dell'universo. Ed
infine pensiamo agli stessi stoici, in particolar modo a Zenone e a Crisippo, e
cioè ai loro sillogismi ipotetici, alla loro logica proposizionale, che, invece
di un esito religioso-teologico - non va dimenticato che gran parte degli
stoici provenivano da zone orientali, particolarmente semitiche, ove giovani si
formano - poteva aver quell'esito, che, in effetto, ebbe proprio in Carneade.
Posto cioè che ogni discorso si costituisce di IMPLICAZIONI dovute al ricordo
di impressioni ricevute, ognuna delle quali non è, presa in sé1 né falsa né
vera (non abbiamo alcun criterio per poter affermare che l'impressione vera è
quella che corrisponde all'oggetto impressionante, perché dovremmo già prima
conoscere l'oggetto), e posta quindi l'ipoteticità del discorso, si deve avere
il coraggio di mostrare che proprio perché ogni discorso è ipotetico, per cui
l'uno si può opporre all'altro (antilogia), ogni discorso è valido sul piano
umano, e la sua stessa verità - la coerenza o meno delle implicazioni - può
cangiare, se diverse sono le impressioni e i relativi ricordi, per cui la
stessa DIALETTICA, intesa come scienza che dovrebbe distinguere il vero dal
falso nel discorso o dialogo, non ha alcun criterio assoluto e quindi è vana,
si come vano sul piano ontologico si rivela il criterio dell'analogia con cui
gli stoici hanno costruito la loro cosmologia, la loro concezione del divino,
della provvidenza, con cui provano l'esistenza di Dio, e pongono la tesi del
diritto naturale. Cotruzione umana, le umani discorsi e l’umane verità, le une
e gli altri validi entro i termini della mobile storia degli uomini e delle
loro esperienze, la stessa giustizia è storica e non naturale. Gli uomini
sancirono il diritto per proprio utile, dal momento che spesso esso venne
cangiato a seconda dei costumi e, nell'ambito di una medesima società, a
seconda dei tempi: non esiste pertanto alcun diritto naturale; tutti, uomini ed
esseri viventi, sono portati all'utile proprio, sotto la guida della propria
natura; di conseguenza o non esiste affatto la giu- stizia o, se esiste in
qualche modo, è il colmo della stoltezza, perché in servizio del vantaggio
altrui nuocerebbe a se stessa (Lattanzio, Div. inst., V, 276 16,
2-3). C'è, dunque, un diritto *civile*, non un diritto naturale (Cicerone,
Rep., III, 7 sgg.). Distinta la giustizia in due parti, chiamando l'una sociale
e l'altra naturale, Carneade le capovolge ambedue, dal momento che la prima è
civile saggezza, ma non vera giustizia, e la seconda è terto naturale
giustizia, ma non saggezza (Cicerone, Rep., III, 20, 31). Il che, ancora una
volta, non significa affatto negare la giustiza o opporre alla tesi stoica un
altro concetto di giustizia, ma dimostrare l'impossibilità di cogliere la
giustizia in sé, di cogliere, di là dall'umano discorso e dalle situazioni
umane, la ragion d'essere del tutto, la legge come “recta ratio” su cui tutto
si fonda. Carneade, testimonia Cicerone, confuta la giustizia, non già perché
pensasse che essa dovesse essere ingiuriata, ma per dimostrare che i suoi
difensori discutevano intorno alla giustizia, senza avere alcun fondamento
certo e solido (Rep.). Lo stesso potremmo ripetere per ciò che riguarda gli
dèi, la cosmologia, la provvidenza, la divinazione (artificiale e naturale) e
cosi via, tutte tesi stoiche, che Carneade discute senza uscire fuori dalle
stesse argomentazioni stoiche, dimostrandone la contraddittorietà sia
ricorrendo alle anti-logie sia ai vecchi sofismi megarici, come i soriti, sia
all'ironia socratica (si cfr., anche per ciò che sopra è stato esposto,
Cicerone, Lucullus; De natura deorum, III; De divinatione, II; De fato, VII,
XIV; De finibus, II, 35-41; Sesto Empirico, Adv. math., IX e VII passim).
D'altra parte, infine, poiché, almeno in Crisippo, la dimostrazione del tutto e
di quelle che sono le leggi del tutto è tratta per analogia dal mondo con cui
si costituisce il discorso, per cui di implicazione in implicazione si giunge a
porre la condizione prima nel principio attivo e in quello passivo, lo stesso
tutto e la sua ragion d'essere e concatenazione fatale sono, alla fine, un
possibile discorso ipotetico, che viene accettato o respinto per opzione.
Sembra chiaro, allora, come di qui Carneade potesse trarre che, dunque, l'esito
non-contraddittorio della logica stoica doveva essere non la certezza in un
sapere assoluto, che accantona ogni altra opinione, ma il ripiegamento sul
probabile o credibile (7tt&otv6v- pithanon). Molto si è discusso sul
significato che ha in Carneade la tesi del credibile. "È invalso
l'uso," scrive il Dal Pra (Grande Antologia filosofica, Milano) di considerare
del tutto a parte la dottrina carneadiana del pithanon, che darebbe fondamento
al suo probabilismo, come anche di considerare il probabilismo del tutto a
parte rispetto allo scetticismo vero e proprio. Per contro, un attento esame
della questione porta a concludere che, anche a proposito del problema
dell'azione e del motivo della probabilità, Carneade non ha fatto che attenersi
al classico metodo della ritorsione polemica nei confronti dello stoicismo.
Crisippo sostenne che il probabile conduce all'assenso, ma non certo
all'assenso della rappresentazione comprensiva; mentre tale assenso infatti è
criterio di verità, la probabilità è causa permanente di errore. Ci si potrà
difendere da esso percorrendo interamente ogni enunciazione, evitando che il
conflitto delle ragioni in pro ed in contro ci distolga dalla rappresentazione
comprensiva, evitando soprattutto che l'indebolimento dell'assenso ci porti a lasciarci
sfuggire la rappresentazione comprensiva. Ebbene, Carneade risponde all'incirca
nei termini seguenti. Il vostro criterio, o stoici, della rappresentazione
comprensiva non è in fondo che un pithanon, ossia una di quelle probabilità che
voi considerate come perenne fonte di errori. La vostra dialettica, che è tutta
la vostra scienza, fondata sulla persuasione e sulla probabilità diviene una
pura e semplice arte di persuadere, una retorica. La vostra pretesa di
costituire, partendo dalla sensibilità, una scienza del vero e del falso, è
vana; per l'azione è sufficiente la persuasione, come mostra lo stesso sapiente
stoico; e la persuasione rende inutile la conoscenza compren- siva; la vostra teoria
della conoscenza non ha dunque oggetto; pro- prio e solo alla persuasione voi
siete costretti a ridurvi. Il pithanon è l'unico punto che vi resta di tutta la
vostra filosofia." La rappresentazione ha due aspetti, uno relativo
all'oggetto, l'altro al soggetto. Rispetto all'oggetto essa vera o falsa. Rispetto
al soggetto appare vera o falsa: e quella che appare vera si chiama persuasiva,
“pithane”. Ora, quella rappresentazione che appare vera, e in modo abbastanza
chiaro, è per Carneade criterio di verità per la condotta della vita e
l'acquisto della felicità. Talvolta accade anche che una tal rappresentazione
sia falsa. Ma siccome questo capita di rado, si pu prestar fede a quella che
per lo piu è vera, poiché noi non possiamo regolare giudizi e azioni che in
conformità di ci che è il piu consueto (Sesto Empirico, Adv. math.). Il
criterio primo e comune secondo Carneade è dato dalla rappresentazione
persuasiva. Ma poiché le rappresentazioni non sono mai isolate,.ma formano come
una catena nella quale ciascuna è collegata con le altre, il secondo criterio sarà
la rappresentazione persuasiva e insieme non contraddetta, “aperispastos”. Come
alcuni medici comprendono chi ha davvero la febbre non da un solo SINTOMO, ma
dal concorso di tutti, cosi l'accademico dal concorso delle rappresentazioni
giudica la verità; e se nessuna delle rappresentazioni concomitanti la
contraddica come falsa, dice che è vera quella che gli appare. Ma ancor piu
della rappresentazione non contraddetta è persuasiva e perfetta generatrice di
giudizio quella che aggiunga al non esser contraddetta anche l'esser esaminata
in ogni parte ("diexodeuméne"), per esempio, per quel che riguarda il
giudicante, il giudicato, il mezzo attraverso cui si giudica, la distanza e
l'intervallo, il luogo, il tempo, la disposizione, l'attività, e cosi via.
Nelle contingenze comuni, dice Carneade, usiamo per criterio la sola
rappresentazione persuasiva. In quelle un po' importanti la non contraddetta;
in quelle poi che influiscono sulla felicità, quella esamimta in ogni parte
(Sesto Empirico, Adv. math.). Cicerone e Sesto sono le uniche fonti per
avvicinarsi alla posizione di Carneade. Cicerone sembra attingesse - ma
personalmente li rielabora, agli scritti di un discepolo di Carneade, Clitomaco
di Cartagine, che fedelmente espose il pensiero del maestro. Ad ogni modo,
comunque s'intenda o s'interpreti la tesi del pithanon, sia pur attraverso la
ricostruzione che dell'atteggiamento di Carnede dà Cicerone e l'esposizione che
del cosiddetto scetticismo di Carneade dà Sesto Empirico, ciò che chiaramente
emerge è il continuo appello di Carneade a non uscire fuori dal proprio mondo
umano, ad assumere di fronte ad ogni opinione o concezione, per venerata o
venerabile che sia, una consapevolezza critica che, chiarendo le nostre idee,
rende conto di ciò che siamo e di ciò che possiamo plausibilmente fare, in un
accantonamento delle supreme verità, quali che siano, oggetto di fede, ma
distruggitrici di quell'umano dovere che è il ragionare. Sotto questo profilo
ed entro i termini delle discussioni antilogiche di Carneade, ci rendiamo conto
dell'impressione che fa in Roma il suo celebre discorso sulla giustizia, in
cui, dopo aver sostenuto il valore della giustizia con argomenti convincenti,
con altrettanti convincenti argomenti ne dimostra l'assurdità. Ma ci rendiamo
conto anche delle preoccupazioni di un CATONE di fronte a uomini come Carneade,
e il suo darsi da fare, perché gli ambasciatori (Carneade accademico, Diogene
di Babilonia stoico, Critolao peripatetico), inviati da Atene a ROMA per
convincere il senato a ritirare il decreto con cui Atene e condannata a pagare
una forte multa per aver saccheggiato Oropo, vennneno subito ricevuti e se ne
andassero al piu presto. L'ambasceria di Carneade a ROMA è un episodio, ma è un
episodio che è pure un SINTOMO e che, anche se con cautela, può indicare un
termine bi-fronte: la conclusione di quella ch'ela problematica propria del
pensiero greco, e l'inizio di tutta una problematica rispondente a situazioni
diverse, a diverse richieste ed esigenze, nell'incontro tra due culture diverse
di origini diverse, in un sempre maggiore allargamento anche a culture
orientali, non piu filtrate solo dai greci, ma ritornanti al mondo greco
attraverso Roma. Certo non fu all'indomani che tutto divenne diverso. Ma è
sicuro che, già coi primi discepoli di Carneade (dei quali peraltro sappiamo
pochissimo: Carneade di Polemarco, premorto al vecchio Carneade, che venne meno,
Cratete di Tarso, Clitomaco che fedelmente espose il pensiero del maestro), e
particolarmente con Carmada e Metrodoro dai quali deriva Filone di Larissa, che
fu a Roma e del quale Cicerone ascolta le lezioni, e Antioco di Ascalona, si
puo determinare una problematica diversa, rispondente, appunto, a situazioni
diverse e a diverse richieste. E cosi troviamo entro la scuola stoica
modificazioni e compromessi che dettero luogo alla cosiddetta media stoa,
indicativi anch'essi di situazioni diverse e di diversi controlli umani e
politici, ove in nome dell'ordine e della razionalità del tutto, del diritto
naturale e della legge universale, si puo riconoscere Roma la capitale del
mondo, caput mundi), recuperando gia vecchie concezioni astrali e cosmologiche
dei caldei, sia certi aspetti piu mistici e religiosi di Platone. Non solo, ma
non è un caso che proprio in questi tempi, vi sia un rifiorire dell'epicureismo
e si diffonda un epicureismo romano che già condannato dal senato romano, con
l'espulsione degli epicurei Alceo e Filisco, per avere introdotto costumi
licenziosi (Ateneo, XII, 547a), è indicativo di una opposizione nuova, di un
appello alla plebe, fino all'esplosivo canto di LUCREZIO, il quale vide in
Epicuro piu che una dottrina un'arma politica e culturale. Né certo possiamo comprendere
LUCREZIO e l'epicureismo romano se non si tengono presenti proprio quelle
situazioni di cui parlavamo, e senza di cui è difficile rendersi conto del
delinearsi di una nuova civiltà, frutto di un incontro, di uno scontro e di un
dialogo, diversi da quelli da cui si genera il complesso delle componenti della
cultura greca: la quale, a sua volta, offri i suoi elaborati strumenti, ma in
una modificazione dei suoi contenuti. Roma si assicura il dominio dell'Egeo,
colla pace di Apamea conquista l'Asia Minore fino al Tauro, con la battaglia di
Pidna, la Macedonia edefinitivamente sconfitta, e, con la seconda battaglia di
Pidna, divenne PROVINCIA ROMANA. A causa di un'ultima rivolta della lega greca,
Roma, dopo avere distrutto Corinto, rese tributarie tutte le città greche,
trann~ Atene e Sparta. Il poeta Antipatro di Sidone cosi canta la distruzione
di Corinto. Dov'è, dorica Corinto, la tua ammirata bellezza, dove le tue corone
di torri e le ricchezze antiche? Dove i templi degli immortali e le case? Dove
le spose sisifee e le miriadi di folla? Nessun VESTIGIO è rimasto, infelice, di
te. Tutto ha rapito, tutto ha divorato la guerra. Noi sole, le alcioni,
immortali Nereidi oceanine. Restiamo a testimoniare il tuo dolore (Ant. Pal.,
VII, 87). Sono versi come tanti ve ne potevano essere, si come tante erano
state le guerre e le distruzioni durante la lunga e tormentata storia della
Grecia, ma sono versi che possono avere, ora, un loro significato simbolico,
come significativo è il fatto che Antipatro di Sidone fu il primo poeta greco
volontariamente anda a Roma. Cosi altrettanto indicativa è la vicenda di
Polibio, che, nemico di Roma, difensore della Macedonia, e, dopo la battaglia
di Pidna tra i mille ostaggi inviati a Roma da Emilio Paolo. A Roma entra in
dimestichezza con Scipione Emiliano e col suo circolo, descrivendo, infine, la
grandezza di Roma, con chiara consapevolezza che tutto un mondo culturale e
civile s'era compiuto e che, con Roma, altro si richiedeva, altre sono le
esigenze, altra divenne la cultura. Oso avanzare l'ipotesi che quanto il resto
dell'umanità [i greci] deride è il fondamento della grandezza romana, cioè la
superstizione. Questo elemento è stato introdotto in ogni aspetto della loro
vita pubblica e privata con ogni artificio per impressionare l'immaginazione a
un grado tale, che non se ne potrebbe concepire uno piu alto. Molti
probabilmente si stupiranno nell'apprendere ciò; la mia opinione è che ciò fu
fatto per impressionare le masse. Se fosse possibile fondare uno Stato in cui
tutti i citta- dini fossero filosofi, potremmo forse far a meno di questo
genere di cose; ma in ogni Stato le masse sono instabili, piene di desideri
illeciti, di violente passioni. Tutto quel che si può fare è quindi tenerle a
freno col timore dell'invisibile e con altri inganni di tal genere. Non a caso,
ma a ragion.veduta, gli antichi insi.nuavano nelle masse idee sugli dèi e
pensieri su~la v1ta. ultrate~re~a. La folha. ~ la.incapacità sono nostre [dei
greci] poi- che cerchtamo dt dtsperdere tah liluswni (VI, 56). E non è, forse,
senza interesse ricordare che proprio IL CIRCOLO DEGLI SCIPIONI ha accolto
ostilmente la celebre opera (Scritto sacro) di Evemero di Messana, in cui Evemero,
rifacendosi a certe tesi sofistìche sull'origine storica della nascita degli
dèi, sosteneva che gli dèi non sòno altro che uomini celebri e famosi in vita,
che, per i loro meriti verso il genere umano, furono divinizzati dopo la
morte.compimento del pensiero greco e Roma. La cultura e tradizioni greche a
Roma sono forti. Chi si ponga a studiare la situazione culturale tra
l'ambasceria dei tre filosofi a Roma e la morte di Cicerone, si trova di fronte
a un insieme di questioni assai complesse e difficilmente districabili, che
certo non si possono risolvere con quella specie di categoria che è divenuto il
termine “eclettismo”, per la prima volta usato da Diogene Laerzio (Proem.) nei
confronti di Potamone di Alessandria, ma ripreso dal Brucker (Historia critica
philosophiae, Lipsia) e da allora adottato da tutta la storiografia filosofica
per indicare l'indirizzo proprio del secolo di cui Cicerone sarebbe il maggior
rappresentante. Si è cosi parlato di “eclettismo” per lo stoico Boeto di Sidone,
per gli stoici Panezio e Posidonio, per Mnesarco, successo nello scolarcato
della Stoà a Panezio; per gli accademici Filone di Larissa e Antioco di Ascalona,
successi nello scolarcato dell'Accademia a Clitomaco, per l'aristotelico Andronico
di Rodi. Al di fuori dell'”eclettismo” e, invece, rimasta la corrente epicurea
con Zenone di Sidone, Fedro, Filodemo, Patrone, culminante in Roma con Tito
LUCREZIO Caro, mentre con Enesidemo si avrebbe un ritorno all'originario
scetticismo di Pirrone e di Timone. La prima difficoltà oggettiva è la mancanza
di testi e di una documentazione precisa che permettano una ricostruzione
storicamente esatta di singole posizioni, soprattutto per Boeto di Sidone, per
Panezio e Posidonio, che pur ebbero un'influenza grandissima, per Filone è
Antioco di Ascalona, con i quali sembra che l'insegnamento dell'Accademia abbia
assunto un diverso significato rispetto a quello di Carneade. Ciò che sappiamo
di loro, lo dobbiamo soprattutto Cicerone, o, meglio, alla rielaborazione che
Cicerone nel corso della sua meditazione e nella sua precisazione del
significato della retorica per la costituzione di una vita associata (entro i
termini de! mondo romano, della sua cultura e della sua storia, in un momento
drammatico per la salvezza della repubblica) ha operato di quei dibattiti, di
quegli atteggiamenti fluidi e duttili, a loro volta influenzati dalle nuove
richieste, dai nuovi problemi impostati dalla tradizione e dalle esigenze di
Roma, da una Roma che da “città-stato”, avente una sua cultura ed una sua
formazione, si veniva trasformando in “impero”, in mezzo a lotte e a dolori, a
guerre, a cozzi di partiti, nell'incontro con altre e diverse concezioni e
culture. D'altra parte, una seconda difficoltà sta nell'impossibilità di accertare
con esattezza l'esistenza di UNA LINEA ORIGINARIA E ORIGINALE DELLA TRADIZIONE
ROMANA, prima dell'incontro piu vasto con il mondo greco ed il mondo orientale,
a parte le sicure reciproche influenze dovute a quel ponte di passaggio che
furono Cuma e L’ETRURIA prima, TARANTO, la MAGNA GRECIA – Crotone, Velia --; la
SICILIA poi. A tal proposito Cicerone è piuttosto preciso nel dichiarare
l'imprecisione e la fluidità della cosiddetta corrente pitagorica romana, che
avrebbe costituito lo sfondo e il tessuto della cultura di Roma fino al tempo
della conquista della Grecia. Cicerone stesso in quel pitagorismo piu che una
determinata concezione, piu che una filosofia, vede una tradizione, un modo di
vita, o meglio una visione di un ordine trascendente e teleologicamente
determinato su cui si vengono armonicamente scandendo le leggi della città e un
tipo di éthos, in una struttura di stato ARISTOCRATICO e contadino-MIITARE,
dove trovano posto esigenze religiose estremamente semplici e povere e pratiche
terapeutico-cultuali, che se da un lato, trasmesse dalla Magna Grecia –
Crotone, Velia --, potevano andare sotto il nome generico di
"pitagorismo," dall'altro lato s'incontravano con la situazione
ARISTOCRATICO-contadina del popolo di Roma. Per molti rispetti - scrive
Cicerone - sono un ammiratore dell'ingegno e della virtu dei nostri
connazionali, ma soprattutto per quegli studi a cui si dedicarono molto tardi,
trasferendoli dalla Grecia nella nostra città. È vero che fin dalle prime
origini di Roma, durante il periodo regio, gli ordinamenti, e in parte anche le
leggi, regolarono a perfezione gli auspici, le cerimonie religiose, le
assemblee popolari, gli appelli al popolo. Il consesso dei senatori, la
ripartizione dei cavalieri e dei fanti e tutta l'organizzazione militare. Però,
quando lo stato lazio o romano e liberato dal regime monarchico, si verifica un
progresso meraviglioso e uno slancio incredibile verso ogni specie di primato.
Non è certo questo il luogo per parlare dei costumi e degli ordinamenti dei
nostri ante-nati né della costituzione e del governo dello stato lazio o stato
romano. Esaminando in questa sede le attività culturali e filosofiche, molti
fatti mi fan credere che esse pure siano state desunte dal di fuori e siano
state non solo ricercate, ma anche mantenute e coltivate. I nostri ante-nati
avevano infatti quasi sotto gli occhi un uomo di straordinaria sapienza e
rinomanza, Pitagora, che visse in Italia al tempo in cui libera la patria Lucio
BRUTO. Poiché la dottrina di Pitagora ebbe larga diffusione, a mio parere
penetra anche nella nostra città, e questa congettura non è soltanto probabile,
ma è anche confermata da alcuni INDIZI. Infatti le grandi e potenti città dell'Italia
meridionale – Crotone, Taranto, Velia --, che appunto fu chiamata Magna Grecia,
sono al culmine del loro splendore ed ivi ha grande risonanza il nome di
Pitagora prima, e piu dei “pitagorici”. Chi può pensare che i nostri connazionali
siano stati sordi a quei richiami di alta dottrina? Anzi ritengo che per
ammirazione verso i pitagorici anche IL RE NUMA che regna molto prima del tempo
di Pitagora, e stimato dai posteri un pitagorico. Essi infatti conoscevano le
teorie e le massime di Pitagora, e dai loro pro-genitori avevano avuto notizia
della equità e della saggezza di quel re. Ma, facendo una confusione
cronologica sull'età di quegli uomini, perché si perde nella lontananza del
tempo, credeno che colui che primeggia per sapienza e un alunno di Pitagora. E
questo basti per la congettura. Quanto agl'INDIZI sui Pitagorici, benché se ne
possano raccogliere molii, ci limiteremo a pochi, perché non è questo
l'argomento della presente discussione, Si dice che essi solevano esporre in
poesia certi insegnamenti piu segreti e rilassare nella tranquillità le loro
menti affaticate dalle meditazioni con il canto e la musica. E CATONE,
scrittore autorevolissimo, dice nelle sue “Origini” che presso i nostri ante-nati
vige nei banchetti l'usanza che i convitati l'uno dopo l'altro cantassero,
accompagnandosi al flauto, le glorie e le virtu degli uomini illustri. Risulta
da ciò evidente che a quel tempo esiste il canto applicato ai suoni musicali e
la poesia. Per quanto anche le dodici tavole rivelano che già allora si
coltivava la poesia. Una legge (tab. VIII) sance che non e lecita la
diffamazione mediante la poesia. Un'altra prova della cultura di quei tempi è
che i festini religiosi e i banchetti dei magistrati si svolgevano al suono
della lira. E questa era appunto una caratteristica di quella scuola filosofica
di cui sto parlando. Per mio conto anche il carme di APPIO CIECO, console, che
Panezio loda vivamente in una lettera a Quinto Tuberone, di cui Scipione
l'Emiliano era zio e L. Emilio Paolo il nonno, discepolo di Panezio, forte oratore
avversario dei Gracchi, è d'ispirazione
pitagorica. Nelle nostre istituzioni vi sono ancora molti particolari che
risalgono ai pitagorici. Ma li tralascio, affinché non appaia che abbiamo
appreso da altri ciò che abbiamo fama di avere appreso da noi. Lo studio della
sapienza, ovvero filosofia, è certamente antico presso di noi, però non riesco
a trovare nomi da citare per il periodo anteriore a LELIO, detto sapiens,
oratore, stoico, console, e SCIPIONE EMILIANO. Quando questi erano giovani, mi
risulta che furono mandati dagl’Ateniesi come ambasciatori presso il senato lo
stoico Diogene e l'accademico Carneade (Cicerone, Tusculanae disp.). Sembra,
questa, una pagina abbastanza indicativa. Dietro la leggendaria figura di
Pitagora è chiaramente mostrata l'UNILATERITà della cultura romana. Non
sappiamo fino a che punto vi sia qui un giuoco ciceroniano, volto da un lato a
mostrare il quadro di una antica AUSTERITà romana, cui puo servire il topos
della vita pitagorica, e dall'altro lato a dimostrare la necessità di una
consapevole riflessione che serva da fondamento, in una piu ampia concezione, a
certi modi di vita, senza di cui la stessa attività dell'oratore non è, in
effetto, realmente e concretamente politica e che Cicerone riconosce dovuta
alla complessa problematica della cultura, che, tuttavia, ha da innestarsi sul
tronco delle nuove esigenze e dei problemi, che, politicamente, socialmente,
economicamente, militarmente, si presentano a Roma. Cicerone, naturalmente, ha
presente la situazione di Roma al suo tempo, e sarebbe ozioso ricordarne i
conflitti e i cozzi di ideologie e di interessi di classe e personali, i
tentativi economici, le resistenze, le aperture (dai conflitti dei Gracchi a
Mario e Silla, a Cesare e Pompeo), in un mondo, senza dubbio, in gravissima
crisi e in trasformazione. Ma Cicerone sa anche che l'uomo politico, l'oratore
(e si badi che Cicerone nettamente distingue il retore, il tecnico dei
discorsi, il professore o precettista di retorica, dall'atore, che pur deve
conoscere quelle tecniche e quei manuali, com'è chiaramente dimostrato dal “De
inventione”, un manuale di retorica, al “De Oratore”), non può concretamente agire,
determinare una certa condotta piuttosto che un'altra, se non inserendosi nella
situazione presente, se non avendo coscienza della propria responsabilità, che
tuttavia scaturisce dal riflettere sulla struttura culturale del proprio tempo,
e a cui si giunge rendendosi conto del come e del perché si è pervenuti a
quella struttura stessa. Sotto questo profilo Cicerone è una fonte preziosa,
soprattutto quando le sue opere vengano studiate in ordine cronologico e non in
astratto, e si tenga conto delle varie situazioni storiche per ricostruire, piu
che un insieme di sistemi, il complesso delle molteplici linee attraverso cui
si venne determinando l'incontro tra il mondo orientale e il mondo romano, e la
trasformazione dell'uno e dell'altro, nel giro di un secolo circa, in una nuova
atmosfera culturale. Il pensiero di Cicerone è incomprensibile, quando non lo
si veda scaturire da certe precise situazioni storiche, quando non se ne colga
la genesi dal di dentro di ciascun'opera, da quelle piu strettamente retoriche
e giuridiche a quelle in cui si tenta di delineare il significato del “vir
bonus”, dell'orator che, mediante il suo sapere, la sua “virtus”, sa inserirsi
in una certa società, duttilmente, sapendo usare le tecniche, avviando quella
società a una certa ritenuta convenienza e a una certa ritenuta “honestas”. Si
capisce perciò come Cicerone, pur puntando a un certo ideale di uomo e di
società, si preoccupa dei mezzi pratici per realizzarlo, e si capisce altresl
come esponga via via i piani diversi con cui si sono storicamente presentati i
vari aspetti della retorica e i vari tipi di oratoria, diversi a seconda delle
concezioni e dei caratteri, delle situazioni in cui si sono venuti a trovare gl’uomini
politici. Di qui, ed entro questi termini, i vari tipi di oratoria esposti da
Cicerone da quella di SULPICIO e di SCEVOLA, a quella di COTTA, di CRASSO e di MARC’ANTONIO,
a quella dei GRACCHI e di ORTENSIO, di BRUTO - e i fondamenti filosofici che
hanno mosso quegli oratori, cioè quegli uomini politici. Cosi, attraverso
questo lavoro, Cicerone, dal “De inventione” al “De Oratore”, all'Orator, e
cosi via, si è reso sempre meglio conto che la retorica ha da trasformarsi in ORATORIA,
cioè in filosofia, nel senso che la verace persuasione si ottiene ben pensando
(virtu), che è ben parlare (ELOQUENZA) istituendo misurato e onesto costume.
L'oratore, perciò, deve possedere un complesso di cognizioni che vanno dalla
psicologia allo studio dei caratteri, di ciò che ragionevolmente anche
dell'ordine del tutto e della realtà e del divino può essere accettato (“consensus
gentium”), donde, nel conflitto tra "filosofia" e
"retorica," il significato dato da Cicerone alla psicagogia del Fedro
platonico e alla retorica di Aristotele, e, ad un tempo, accanto alle ipotesi (discussione
giuridica di casi particolari), alle tesi (discussione di problemi generali), e
quindi a certi aspetti della virtu e delle concezioni degli stoici la cui
casistica e discussione scolastica, offre larga mèsse per le tesi" -, ma
anche alla duttilità discussiva di un Arcesilao o di un Carneade, determinando
il pro e il contro di ogni concezione e tesi, in un abile inserirsi e
modificare che nega ogni sistema chiuso, per cui, appunto, Cicerone verrà
criticando e escludendo sia il fato sia la divinazione. Cicerone, in effetto,
non è mai stato né un "brillante espositore di dottrine altrui," come
si è detto, né un uomo che abbia cucito insieme dottrine talvolta anche in
contrasto tra loro, se non in quanto con- trasto e conflitto furono propri
dello stesso Cicerone. Pensi pure ciascuno come vuole: vi deve essere libertà
di giudizio. Noi ci atterremo sempre ai nostri principi; ricercheremo cioè
sempre in ogni questione quello che abbia maggiore carattere di probabilità,
senza essere vincolati a regole di nessuna scuola, alle quali ubbidire di
necessità. (Tusc. disp., IV, 4). Vi è piuttosto, in Cicerone, una sottile noia
nei contronti delle dispute di scuola, l'esigenza di ricondurre sul piano di un
concreto agire umano sia il ragionamento sia la problematica morale sia la
problematica relativa all'ordine del tutto, nell'ideale di usare le tecniche
retoriche e le tecniche dialettiche, o una o altra concezione etica o
religiosa, al fine di persuadere a un certo modo di vita che sia salvazione
della libertà romana, della concordia di Roma, lacerata nei conflitti. Tale
consapevolezza porta Cicerone a sostenere ch'egli, pur facendo tesoro della
cultura greca, pur usando le tecniche ricavate dai manuali greci di retorica,
pur rifacendosi ai grandi oratori latini, pur usando concetti e motivi
elaborati dai greci, cerca di dare una consapevolezza critica (filosofica) al
popolo romano, una cultura, che anche nel linguaggio, non fosse piu né greca né
meramente precettistica e scolastica. Magnifica e gloriosa cosa è per i Romani
non avere piu bisogno del greco per la filosofia: che, per certo, adempirò, se
porterò a fine l'opera iniziata (De divinatione; Il, 1). Stando cosi le cose,
sembra estremamente difficile potere, attraverso Cicerone, ricostruire precise
posizioni di pensatori precedenti (Panezio, Posidonio, Filone di Larissa,
Antioco di Ascalona, e cosivia), ché, sempre, anche quando Cicerone cita
direttamente, anche quando dice di avere in mano le opere di quegli autori, egli
usa quelle fonti in funzione di un suo fine, in funzione del pro e del contro,
delle tesi, in funzione di certe situazioni politiche e, nei confronti di
quelle, della sua politica. Ciò che, invece, è possibile, attraverso Cicerone,
attraverso la mediazione da lui attuata, da un lato è ricostruire un'abbastanza
precisa atmosfera culturale, ed entro questa la stessa evoluzione ed
originalità del pensiero ciceroniano, fino a cogliere il senso e il perché di
una posizione che è l'indice della trasformazione di una problematica, ben
diversa da quella delle fonti stesse di Cicerone; e, dall'altro lato, tenendo
presente tutto questo, ricostruire certe linee e correnti, certe componenti e
certi materiali, che hanno dato luogo alla composizione ciceroniana. Ora,
attraverso Cicerone ed altre non molte fonti sicure, appaiono evidenti quattro
punti fondamentali. La cultura greca penetra in Roma sotto forma di
insegnamento scolastico impartito dagli schiavi e dai liberti greci,
soprattutto per ciò che riguarda la retorica. Quella stessa retorica e con essa
aspetti e concezioni propriamente recierano richiesti dai romani delle classi
superiori, in quanto strumento per una formazione culturale che sirve alla vita
politica. Anche i maestri piu noti e i capi- scuola di Atene, o di Rodi; che,
per la sua relativa libertà, divenne notevole centro culturale, se da un lato
assunsero sempre piu aspetto professorale, dall'altro lato entrarono in
rapporto con personalità romane, furono a Roma, insegnarono a romani, furono
consiglieri di uomini politici di Roma, viaggiarono in oriente e in occidente.
Nessun romano, discepolo di piu di un tutore greco e attento a correnti
diverse, e, filosofo di professione, o "saggio," ma uomo politico,
uomo di governo, oratore, finché proprio in questo, in questo saper governare,
consisterà per essi il "sapere," il filosofare, in un tutt'uno di
otium e negotium, ove l'otium serve al negoiium e il negotium è illuminato e
reso intelligente dall'otium; il che non ha ancora nulla a che fare con
l'ideale della vita contemplativa, o con un rifugio nell'otium per liberarsi da
un ingrato negotium, ma è l'approfondita consapevolezza dell'antica
"pratica" romana, che si trasforma in "cultura," in
"humanitas," attraverso l'influenza della meditazione greca. Altri e
diversi diverranno i problemi e gli ideali di vita con l'avvento del principato
e dell'Impero. Sembra ora non poco suggestivo riportare un testo del “De
Oratore,” in cui Cicerone riferendosi ai tempi immediatamente posteriori alla
conquista della Grecia, scrive: Allorché la durata della pace - avendo Roma
stabilito il suo dominio su tutte le genti - assicura un certo otium, non vi fu
giovinetto posseduto da un qualche amore di gloria, che non volgesse i suoi
sguardi e i suoi sforzi all'arte del dire. Dapprima ignoravano tutto delle
ragioni interne della retorica e neppure lontanamente pensavano che vi fosse un
metodo o un qualche precetto dell'arte, si che pervenivano solo fin dove
potevano giungere col talento naturale e la riflessione. Piu tardi, dopo che si
ascoltarono gli oratori greci, si studiarono i loro modelli, si seguirono le
lezioni dei tutori greci, e veramente con incredibile studio che i romani
s'infiammano per l'eloquenza (De Oratore). I romani delle classi aperte al
governo si resero conto dell'efficacia che per la carriera (cursus honorum) ha
la retorica, e poiché incontrano presso i tutori greci e le scuole greche la
piu ampia discussione e precisazione di quell'arte, si servirono dei tutori greci,
trovando numeroso personale insegnante tra i molti. schiavi che procuravano le
conquiste. Ciò era già avvenuto al tempo della conquista di Taranto, quando da
Taranto e condotto come schiavo. a Roma Livio Andronico, che venne poi liberato
dal padrone, al quale Andronico aveva educato i figli (Hieron., Chron.). Con
Andronico ha inizio l'insegnamento pubblico del greco: domi forisque insegna Andronico
(Svetonio, Gram., 1, 1). Ma con Andronico - e questo inì:eres~ qui ricordare - ha
anche inizio, in Roma, sul calco della scuola d’Atene, l'insegnamento *secondario*.
L'insegnamento primario, cioè l'insegnamento. dello scrivere, risale molto piu
indietro, probabilmente al periodo etrusco della Roma dei re, quando i latini
adottarono l'alfabeto degl’etruschi e il metodo di insegnamento della
scrittura, derivato agli etruschi dai greci (cfr. I. Marrou, Storia
dell'èducazione nell'antichità, Roma). L'insegnamento *secondario* latino
appare molto piu tardi. Questo ritardo non deve meravigliare. L’insegnamento *secondario*
classico si basa in Atene sulla spiegazione prima di tutto su Omero. Come
avrebbe potuto Roma conoscere l'equivalente d'un tale studio dal momento che
non possedeva una letteratura NAZIONALE? Di qui il paradosso, che non è forse
stato abbastanza messo in rilievo, che la poesia è stata precisamente creata
per fornire una materia d'esegesi all'insegnamento, e certamente per rispondere
all'esigenza del nazionalismo romano, che non sarebbe stato a lungo soddisfatto
di un'educazione unicamente greco. Il primo poeta IN LINGUA LATINA, che anche
il primo professore di letteratura IN LINGUA LATINA, è quello stesso Livio
Andronico di TARANTO, segnalato come il primo in data dei tutori di greco che
hanno insegnato in Roma. Andronico traduce IN LOQUELA DEL LAZIO o loquela lazia
o la loquela dei lazini l'Odissea, servendosi del vecchio metro indigeno, il
saturnio. Tale traduzione e per Andronico un testo che egli spiega,
praelegehat, parallelamente ai classici nella ‘loquela graii’ (Svet., Gram., 1, 1). Naturalmente non fu
questa l'unica fonte della poesia nella loquella dei lazii, ma per molto tempo
conserva il carattere, per noi strano, d'essere intimamente vincolata alla
necessità d'alimentare i programmi dell'insegnamento secondario. Due
generazioni dopo, Ennio, anch'egli mezzo greco, accanto ad autori greci,
continua a spiegare i suoi poemi promossi, fin dalla loro apparizione, al rango
di.classici (Marrou). Quando Roma conquista la Grecia, i romani delle classi
superiori conosceno benissimo il greco e già lo usano come lingua diplomatica,
per cui non ebbero piu bisogno di traduzioni, tanto è vero che la retorica fu
studiata e insegnata in greco. Ma il discorso, sul piano del contenuto, è lo
stesso di quello fatto per l'insegnamento secondario. La retorica, che costitu1
l'aspetto fondamentale dell'insegnamento superiore, servi ai romani, che hanno
possibilità di fare carriera politica, come strumento di cultura, come
esercizio e preparazione,.s1 come per l'insegnamento secondario sirve la
grammatica e l'esegesi dei testi poetici. E perciò essi, almeno in principio,
si rifecero, indiscriminatamente, ai retori greci e ai manuali di retorica,
indipendentemente dai possibili contenuti di pensiero che pur erano dietro
quelle tecniche. Questo spiega come l'insegnamento della retorica si svolgesse
mediante esercitazioni, mediante svolgimenti di discorsi fittizi, che toccano o
le tecniche persuasive, rientranti nella deliberativa, o le tecniche proprie
della controversia, ove si discute il pro e il contro di casi particolari in
relazione a testi di legge, in modo astratto e precettistico. Ma questo spiega
anche come il contenuto soprattutto delle questioni generali (''tesi";
anche se già si ritrovano in Aristotele come luoghi comuni, e come
"tesi" in Teofrasto, esse vennero poste in primo piano da Ermagora di
Temno) si potesse assumere, indifferentemente, a seconda della "tesi"
messa in discussione, sia dalle questioni di etica impostate dagli stoici, sia
dalla dialettica e dai pro e dai contra sottilmente posti dagli accademici.
L'entusiasmo che a Roma suscita Carneade presso la classe colta, col suo doppio
discorso sulla giustizia ri-entra in questo quadro, sL come l'adesione che in
quella stessa occasione ottenne, da parte di molti, lo stoico Diogene di
Babilonia, maestro di dialettica. Lo studio della retorica, dunque, non
presenta soltanto l'insegnamento di una precettistica, ma implicava un piu
vasto sapere: discussioni sulla dialettica e sulle fonti del sapere, su
problemi morali, giuridici, di psicologia, e, quindi, alla fine, discussioni su
una o su altra concezione del tutto, ove il materiale poteva essere assunto
dalle piu diverse tesi, offerte dalle filosofie greche, e usato, poi, a seconda
dell'una o dell'altra causa politica o giuridica, deliberativa o relativa a
controversie. Proprio questa neutralità della retorica, nei confronti dei
possibili contenuti, nel senso della prima grande sofistica, dovette, in
principio, preoccupare i conservatori romani. Polibio testimonia che era in Roma
grandissimo numero di tutori greci. Di questo tempo è il Senato consulto che
proibisce la residenza in Roma ai retori e ai filosofi greci. Si capisce cosi
come, per politica, un conservatore DELLA RAZZA DEL CELEBRE CATONE il Censore
si preoccupasse del- 1 [Nato nella Sabina, a Tuscolo, Marco Porcio Catone, di
una famiglia] l'introduzione in Roma delle tecniche retoriche greche e
dèlle dispute delle scuole filosofiche e scientifiche greche. In effetto
Catone, piu che della elaborazione della cultura greca, si preoccupa dei Greci
e probabilmente dei Greci del suo tempo, ch'egli considera dei “degenerati”. t
sf bene - scrive nei celebri “Praecepta ad filium” avere notizia delle lettere
greche, ma non studiarle a fondo. RAZZA CATTIVISSIMA e indocile (nequissimum et
indocile genus) è quella dei greci, e fa' conto che sia un profeta che ti dice
questo. Se, quando che sia, codesta gente ci darà la sua scienza, manda tutto
in rovina; e peggio ancora, se verranno qua i suoi medici. Congiurano di
ammazzare con la loro medicina tutti i barbari; e si faranno pagare per questo,
affinché si abbia fiducia in loro e possano facilmente compiere l'opera di
distruzione. Chiamano barbari anche noi, anzi avviliscono noi piu degli altri
con il chiamarci Opici (in Plinio, Natur. hist.). Ad ogni modo lo stesso Catone
e grande oratore e si rese tanto conto della funzione politica della retorica,
ch'egli, appunto, ne teme le possibili applicazioni. I conservatori romani
paventano, ora, certi di agricoltori, legato alla sua terra, contadino rimase )><'r
tutta la sua lunga. vita. Vita parca, dura, laboriosa, dice Catone stesso, vissi
sin da principio, coltivando il mio campo tra i dirupi della Sabina, dissodando,
seminando le selci (p. 69, Maleovari). Gretto, duro, di pocbe idee ben fisse,
contadino-soldato egli fu )><'r tutta la vih. Questore in Sardegna di
Publio Scipione Africano, edile, pretore, console e comandante di eserciti in
Spagna, e nominato censore e soprattutto il suo nome fu legato alla durezza
della sua censura, tanto che fu detto, per distinguerlo da altri Catoni, Catone
il Censore. Inviato a Cartagine, in qualità di ambasciatore, ne torna con la
convinzione che gl'interessi di Roma esigessero la distruzione di Cartagine:
"Delenda Carthago" divenne il suo slogan. Plutarco riferisce un
epigramma su Catone, che in due versi sintetizza la figura fisica e morale di
Catone. Tutto denti, mordace, occhi verdi, rossigno è Catone, e Persèfone teme ancora
d'accoglierlo nell'Ade. Se una specie di enciclopedia dove essere il suo “Praecepta
ad filium” (vi si trattava di medicina, di agricoltura, di retorica, di
giurisprudenza e di arte militare), un vero e proprio trattato di arte agraria
è il “De agricoltura”, il primo libro in prosa nella locuzione dei lazini
giunto fino a noi (dalla classe degli agricoltori provengono gli uomini
migliori e i piu valorosi soldati. Meno in balla di cattivi pensieri sono
coloro che attendono al lavoro dei campi. Non altro che pochi frammenti
possediamo della sua grande opera storica in 7 libri, le “Origines” (I libro:
storia di Roma sotto i re; II e III libro: storia delle primitive città.
italiche; IV e V libro: storia della prima e della seconda guerra punica; VI e
VII libro: storia degli avvenimenti). Orazioni Catone scrisse (ben quarantaquattro
volte dovette difendere se stesso) durante tutta la sua vita (delle 150 che
compose, di un'ottantina leggiamo oggi scarsi frammenti). Celebri sono rimaste
certe sue lapidarie sentenze. “Orator est, Marce fili, VIR BONUS DICENDI
PERITUS” “Rem tene, verba sequentur" (dai Praecepta ad filium). Tutto
cose, fatti, conti, come risulta dalle biografie antiche (Livio; Cornelio
Nepote; Plutarco), la sua durezza, il suo talento, il suo buon senso da
contadino, il suo utilitarismo, il suo ideale d'uomo forte, non ozioso, la sua
stessa dirittura, hanno servito a creare la figura del ROMANO O LAZINO per
eccellenza (a parte la sua ambizione, e il non troppo bello episodio del suo
essersi dato all'usura)] aspetti della cultura greca, si come nel v-Iv secolo i
conservatori ateniesi dello stampo di un Aristofane e di un Senofonte, o del
piu grande Platone, temettero la sofistica. Non a caso, anzi, Catone s'ispira
piu volte a Senofonte e si senti vicino al Socrate, moralista e predicatpre,
presentato da Senofonte nei “Detti memorabilia” e nel “Convito” (il principio
delle Origines di Catone, è una traduzione del principio del “Convito” di
Senofonte). Non solo, ma è interessante a tal proposito ricordare che le opere
di Senofonte, che Cicerone testimonia essere sempre state in mano di Scipione
Emiliano (in particolare i Memorabili e la Ciropedia) e lette da Catone (cfr.
Tusc.; Ad Quint. frat.; Cato maior), fano parte della biblioteca dei re di
Macedonia, messa insieme dallo stoico Perseo, discepolo di Zenone di Cizio, e
che Paolo Emilio ha trasferito a Roma, come proprietà privata, in casa sua, e
posta a disposizione dei propri figli e degli amici loro. Il Socrate
senofonteo, filtrato attraverso testi stoici che formano il.grosso della
biblioteca dei re di Macedonia - non si scordi l'aneddoto secondo cui Zenone di
Cizio si.sarebbe convertito alla filosofia leggendo il Socrate di Senofonte e
ritrovandone un esempio nel cinico Cratete -- apparve certo a Catone
rispondente al suo ideale di vita, come anche risulta dalla biografia che di
Catone compose Plutarco (cfr. F. Della Corte in Studi di fil. greca, Bari). Ad
ogni modo, accanto ai retori e ai maestri greci, cominciarono a circolare a
Roma i testi di pensiero, che offreno quel materiale e quei contenuti, quella
necessaria cultura di cui parlavamo, e che, a seconda della situazione
politica, delle cause in questione, puo servire all'oratore. D'altra parte, per
rendersi conto delle scelte, per cui di volta in volta puo essere assunti passi
o·tesi di Platone o di Aristotele, di Zenone o di Crisippo, e, piu tardi, di
Panezio e di Posidonio, di Carmada e di Filone e di Antioco, o i loro modi di
intendere Socrate o Platone o Aristotele, va tenuta presente la classe cui
appartennero via via gli oratori e i politici ROMANI O LAZINI, da P. Cornelio
Scipione Emiliano (l'Africano minore) ai Gracchi, a Pompeo, a Mario e Silla, a
Cicerone. Non va, intanto, scordato che si comincia a circolare la grande
sistemazione della retorica dovuta a Ermagora di Temno. Il manuale di Ermagora
duo essere, per quel che ne sappiamo, una specie di summa e di ordinamento dei
vari aspetti in cui si era discusso il problema della retorica dai sofisti agli
stoici, dai quali ultimi deriva Ermagora stesso, in una teorizzazione della
retorica. Ermagora, dopo avere insistito sulla distinzione tra ipotesi e tesi,
dando particolar valore alla tui -- due sono i generi delle 'questioni',"
scrive Cicerone. L'uno è il genus infinitum, l'altro il genus definitum.
Definito è quello che i greci chiamano ipotesi, e noi nella loquela lazia,
causa. Infinito quello ch'essi dicono tesi e noi possiamo chiamare proposito (Cic.
Top.), imposta la distinzione dei discorsi retorici sullo stato della causa. Ermagora
divide a sua volta lo stato della causa in due grandi aspetti, l'aspetto
razionale (yévot; Àoytx6v, genus rationale) e l'aspetto legale (yévot;
VO(J.tx6v, genus legale) (cfr. in Hermagoras Fragmenta, ed. D. Matthes, Lipsia,
i fragmm. 6-23). Ermagora cosi teorizza da un lato una retorica razionalistica
e filosofica, dall'altro invece una retorica spiccatamente giuridica, una
interpretatio iuris sorgente dalla stessa pratica giuridica. Da un lato,
quindi, la retorica ermagorea mira al vero, dall'altro al GIUSTO: ai due
massimi valori, cioè, della filosofia stessa, nella sua parte teoretica e nella
sua parte morale (A. Plebe, Breve storia della retorica antica, Milàno).
Accanto alle altre conoscenze, offerte dai testi del pensiero greco, e dai
maestri greci che venivano a Roma o alle cui scuole (Rodi, Atene) ci si recava,
prese sempre piu piede l'esigenza di una sistemazione e razionalizzazione del
DIRITTO, tanto che, anche per l'impulso dato da Cicerone, sorsero, accanto alle
scuole di retorica, scuole vere e proprie di DIRITTO in cui insegnano magistri
iuris, iuris periti. La conoscenza della legge romano e del complesso della
legge romana, come insegna Ermagora di Temno, sirve non poco alla retorica ed
all'azione politica. Materiale per tale sistemazione, soprattutto quando si
pensi che il significato della legge romana giusta e universale e discusso e
studiato in particolare da uomini che tendeno al potere politico e che per
nascita e censo ne hanno la possibilità, e offerto dalle varie elaborazioni e
approfondimenti che della Legge romana e del diritto romano hanno dato e davano
gli Stoici, risalendo poi, attraverso essi, alle testimonianze di Platone, di
Aristotele, di Dicearco. Quasi tutte le nozioni, scrive Cicerone, le cui parti
sono riunite ora in corpi dottrinali, costituenti questa o quell'arte, un tempo
erano disperse e non formano un insieme. Cosi, in musica, il ritmo, i toni, la
melodia; in geometria, le linee, le figure, le dimensioni, le grandezze; in
astronomia, le rivoluzioni del cielo, il sorgere e il tramontare, i movimenti
degli astri; in grammatica, la spiegazione dei poeti, la conoscenza della
storia, il significato delle parole, la pronuncia. Nella stessa retorica,
l'invenzione, l'elocuzione, la disposizione, la memoria, l'azione. Il rapporto
di questi elementi fra loro e ignoto. Sembra senza legami, disarticolati. Si è
coscer- cato al di fuori, in un altro campo, di cui il filosofo si attribuisce l'intiera
proprietà, un metodo che in qualche maniera cementa questi materiali sparsi e
li costringesse a entrare in un sistema razionale. Poniamo dunque l'oggetto del
diritto romano civile. Mantenere, sulla base della legge romana e dei costumi,
il principio di giustizia che regola gli interessi dei cittadini nelle loro
reciproche relazioni. Distinguemo, quindi, i generi, riducendoli a un certo
numero, il piu piceolo possibile. Il genere è ciò che racchiude due specie o
piu, simili tra loro per un carattere comune, ma separate per una differenza
propria. Le specie consistono nelle suddivisioni che si raccolgono sotto il
genere di cui sono formate. E tutto termino che serve a designare generi o specie,
abbiamo cura di definirli con il loro esatto valore. La definizione, infatti, è
una spiegazione breve e precisa dei caratteri che sono propri dell'oggetto che
vogliamo definire. Si tratta, insomma, di ricondurre il complesso del diritto romano
civile a un piccolissimo numero di generi, dividere poi ciascuno di questi
generi in diversi membri o specie, far vedere infine, con una definizione, il
valore proprio di ogni termine. Abbiamo cosi una teoria completa del diritto romano
civile, ed una scienza stesa e feconda invece che difficile e oscura (“De
Oratore”). Se cos{, per il yhoç ÀO')"x6v, il genere razionale, e per le
"tesi" si cerca il materiale negli aspetti piu vari del pensiero e
nei modi con cui esso puo essere usato - retoricamente si puo benissimo
accostare tesi diverse, e, soprattutto, frasi diverse, sganciate dai loro
contesti, - per il yhoç VOIL'x6v, il genere legale, il materiale e offerto,
formalmente, dalla logica, dalla dialettica, e, per il contenuto, dal rapporto
v6jLoç-Myoç, o meglio v6oç-v6jLot;, che impostato da Platone (cfr.. Leggi,
957c), puo essere interpretato secondo il "diritto naturale"
approfondito da alcune posizioni stoiche. L'esegesi del diritto romano e della
legge romana, l'esegesi delle tecniche retoriche, la loro funzionalità a
seconda di certe situazioni ed esigenze politiche, implicano una piu vasta
cultura, la richiesta di conoscenze e sistemazioni, come chiaramente si vede
attraverso Cicerone, atte ad essere usate di volta in volta. Cicerone verrà a
costituire come il nodo di questo processo, svoltosi dall'età di Scipione alla
morte di Cesare, nel consapevole tentativo, egli homo novus, di conciliare l'oratoria
usata dagl’ARISTOCRATICI con l'oratoria dei "populares" (o, meglio,
di certi ARISTOCRATICI che mossero il popolo), mediante, appunto, una piu alta
e vasta cultura, che e terreno comune, comune parentela, con cui determinare la
persuasione alla pace, non solo entro il campo dell'aristocrazia, ma anche del
popolo e tra aristocrazia e popolo. Naturalmente attraverso l'oratoria di un
uomo capace di questo, attraverso un PRINCEPS fori, cioè sempre dall'alto. Di
qui, per Cicerone, l'importanza ch'egli da all'insegnamento della retorica in
la lingua degl’abitanti del Lazio, perché e possibile costituire nel mondo
romano e del Lazio una consapevolezza critica (filosofia), che dove, nell’ideale di Cicerone, determinare upa misura
e un rapporto tra le classi, che fa davvero del mero stato romano una res publica.
Tale prospettiva vede bene chi riperc'Qrra l'evoluzione dell'oratoria romana dei
lazini nei suoi rapporti con la vita politica, da Scipione Emiliano ai Gracchi
a Silla. Le tecniche retoriche sono assunte per presentare un certo tipo di
politica e, quindi, persuadere a una certa concezione di vita che, in alcuni
almeno, come nell'Emiliano, trova la sua espressione, il suo linguaggio, nello
stesso modo di vita dell'uomo, creando un personaggio, un modello. E fu il
modello aristocratico del “vir bonus,” del salvatore della patria, dell'uomo
misurato, che si sacrifica per lo stato romano e la sua unità, e la cui
eloquenza riflette, appunto, tale modo di vita. Si pensi a Scipione, a Lelio, a
Marc’Antonio, a Crasso, a Rutilio Rufo, a Scevola pontefice, a Cotta. Oppure si
tratta di muovere e commuovere il popolo vero e proprio, il popolo lazino, e
allora altro è il tipo di eloquenza usata, altra la concezione cui si fa
ricorso. Si pensi all'oratoria dei Gracchi, di Mario, di Sulpicio. Sotto questo
aspetto, sembra chiaro perché Crasso, censore, abbia ~;mdannato e sciolto la scuola
di retorica in la loquela dei lazini, creata da Plozio Gallo, su ispirazione di
Mario. I rappresentanti del partito senatoriale e aristocratico, come ora
Crasso, studiano a lungo la retorica e attraverso essa e per essa si e formata
una vasta cultura, mediante cui tendeno a persuadere della propria concezione
non solo la propria classe, bens(tutto IL POPOLO ROMANO o il popolo del LAZIO.
Ma, pur dotti di greco e sostenitori della funzione che per l'oratoria ha la
cultura greca, IN PUBBLICO OSTENTANO DISPREZZO per la cultura greca (cfr.
Cicerone, “De Oratore”, Il, l, 4), consapevoli del pericolo che l'oratoria viene
insegnata in la loquela del Lazio. Non è un caso che la fondazione di una
scuola di retorica in la loquela del Lazio e ispirata da Mario, un "popolare,"
che Cicerone dice essere né eloquente né colto (Cic., Pro Fonteio). L'arte del
ben dire, in quanto insegnata in quello ch’Ovidio chiama la ‘loquela graia’, accompagnata
da lunghi studi, divenne patrimonio delle classi ricche e dell'aristocrazia.
Plozio Gallo, attraverso la sua scuola, minaccia quel monopolio, dando le
stesse armi piu che ai populares allo stesso popolo. S'irrisce qui la questione
della “Retorica ad Erennio”. Questo saggio e un trattato di retorica in la
loquela dei lazini, il primo giuntoci integrale. Alcuni recente, si l'hanno
ritenuta di ispirazione ploziana (Marrou), rispecchiando un insegnamento di
tipo molto moderno, nettamente opposto alla retorica classica delle scuole
della loquela ‘graii’, anche se nutrito di questa, e specialmente di Ermagora,
in cui si reagisce all'ingombro delle regole, alle astratte esercitazioni, per
avvicinare l'insegnamento alla pratica e alla. vita mediante soggetti attinti dalla
reale vita romana dei lazini (“exempla latina” – essempi dei lazini) e
dibattiti agitanti la politica contemporanea (Marrou, Storia dell'educazione nell'antichità,
I, p. 336). Il questore Cepione deve condannarsi per essersi opposto alla legge
frumentaria del tribuno saturnino (Ret. ad Er., l, 21)? Si può assolvere
l'uccisore del tribuno Sulpicio, ucciso per ordine di Silla (Ret. ad Er.)? Il
Senato delibera, durante la guerra sociale, sulla questione di accordare il
diritto di cittadinanza agli ITALICI chi non sono lazini (Ret. ad Er., III, 2).
Morte tragica di Tiberio Gracco (Ret. ad Er.). Naturalmente, non tutti i
soggetti sono tratti da un'attualità cosi scottante. L’argomentazione non è
sistematicamente orientata nel senso favorevole ai populares - un buon retore
deve sapere parlare pro e contro. Tuttavia, non c'è dubbio che l'atmosfera
generale della scuola risente della posizione politica del fondatore (Marrou,
cit., p. 336). Altri (Michel, Rhétorique et Philosophie chez Cicéron, Parigi),
invece, ritengono che non bastino le citazioni dei Gracchi, gli elogi dei
populares, gli “exempla latina” – essempi dei lazini -- per accertare che la
Retorica ad Erennio sia opera ispirata ai retori latini o lazini. Già Marc’Antonio,
che, secondo Cicerone (De Oratore, I, 21, 94), compone un trattato di retorica,
e favorevole agli “exempla latina” (cfr. Cicerone, De Oratore, Il, 24, 199
sgg.). Non sempre l'autore della Retorica ad Erennio mette in primo piano i
populares. Se è vero che, anche senza nominarlo, elogia Mario, è altrettanto
vero che tesse l'elogio di Silla (Ret ad Er., IV, 54, 68), spesso evoca la
politica aristocratica e cita ed elogia la figura di Scipione Emiliano (Ret. ad
Er., IV, 13, 19; 32, 43), non solo ma in certi casi, come nella lotta contro
Saturnino, approva il consensus bonorum (Ret. ad Er., l, 12, 21), e non pochi
sono, infine, gli esempi in la ‘loquela Graii’ (Ret. ad Er., l, 10, 17; 15, 25;
16, 26). Il Michel (p. 72) trae di qui la conclusione che l'autore della
“Retorica ad Erennio” vuole stabilire una specie di equilibrio tra populares e
OPTIMATES e ravvicinare i precetti dei retori greci alla storia politica di
Roma. In effetto la “Retorica ad Erennio”, che chiaramente si ispira ad Aristotele,
a Crisippo e ad Ermagora, è un trattato in cui si tenta, sull'esempio, appunto,
di Ermagora, di presentare una summa dell'arte del dire, in una sistemazione
dei vari aspetti della retorica in un tutt'uno coerente, facendo uso nelle
esemplificazioni, non solo degl’esempi oratori greci, ma, SCRITTA DA UN ROMANO,
nel LAZIO, PER romani, anche dei maggiori esempi dell'oratoria romana. Si
vedono cosi, chiaramente, i due aspetti della Retorica ad Erennio. La teoria
dell'arte del dire è ricavata dalle fonti greche, INDIPENDENTEMENTE dai
contenuti filosofici ch'erano sottesi dietro quelle fonti. Essa consiste nella
classificazione dei tre generi oratori aristotelici, giudiziario, dimostrativo,
deliberativo. Nella divisione delle tecniche retoriche, di origine crisippea,
in invenzione, elocuzione, disposizione, recitazione, cui è aggiunta, invece
dell'argomentazione della causa, come in altri trattati stoici, la memoria,
che, forse, risale a Zenone di Cizio. Nella divisione in sei parti del discorso:
exordium, narratio, divisio, confutatio, confirmatio, CONCLUSIO. Per la casuistica
e l'esemplificazione sono usate le fonti romane, cioè i tipi di orazione dei
grandi oratori latini o lazini del lazio, tanto del grande Marc’Antonio, quanto
dei Gracchi. Non va, d'altra parte, scordato che la Retorica ad Ermnio è il
primo trattato romano di retorica, giuntoci integrale di cui, in realtà, le
fonti romane ci sono ignote, se non siano ricostruite attraverso Cicerone, il
quale nel suo tentativo fin dal “De inventione”, molto vicino alla Retorica ad
Erennio, di dare una base meno precettistica e piu culturale-filosofica alla
retorica, discutendo poi della funzione e della cultura necessaria all'orator,
che deve svincolarsi dall'assumere unilateralmente una o altra precisa
concezione, dall'accettare una o altra posizione, classifica e oppone tipi di
retorica, cui corrispondeno tipi di concezioni. La Retorica ad Erennio è, da un
lato, l'indice chiaro dell'esigenza, ormai maturatasi, da parte romana, dai
lazini del Lazio di una sistemazione e di un ordinamento in un complesso dottrinario
del sapere retorico, si come, sempre in funzione della retorica e del
CON-VIVERE civile, si verrà poi sistemando e ordinando il sapere giuridico, e,
dall'altro lato, è l'indice chiaro delle mutate condizioni politiche. L'oligarchia
senatoriale nella quale si sviluppa l'ideale del “vir bonus” subisce la
concorrenza delle altre classi. Nelle quaestiones uno spirito nuovo, piu
democratico, penetra le istituzioni. I giudici sono tribuni, cavalieri. Di qui
il nuovo aspetto politico e concreto dei problemi oratori. L’avvocato che
perora per un magistrato dinanzi ai giudici cavalieri si trova a dover difendere
un grande dinanzi a chi pretende d'essere del popolo. Rutilio Rufo, console,
risponde alle accuse dei pubblicani. Il grande Crasso stesso, in un'arringa
defensionale che scandalizza Marc’Antonio, si dichiara, lui senatore, schiavo
del popolo (Cic., De Oratore). L'eloquenza non è piu la nobile arte dei
dibattiti aristocratici. t 10 strumento ambiguo di queste lotte in cui s'ignora
sempre se l'oratore aduli il popolo o l'istruisca. Talvolta lo istruisce
adulandolo (Michel). La retorica assume cosi una sempre piu larga funzione,
oltrepassando i meri schemi precettistici, divenendo chiaro e necessario strumento
politico, mediante cui inserirsi in una certa società per ordinaria a un certo
fine, onde, appunto, il problema diviene il problema dei fini, dei termini
entro cui è razionalmente valida l'azione umana socialmente e, entro questa,
del fine proprio dell'uomo. S'innesta qui la problematica di Cicerone, homo
novus, cavaliere, che sa benissimo come la sua carriera non la può dovere che
alla propria cultura e all'abilità con cui usarla, in una con-temperanza
dell'antico ideale del “vir bonus” senatoriale, il cui modello e la figura di
Scipione l'Emiliano, dottrinariamente, forse, delineato da Panezio, con il
raggiungimento di quell'ideale, indipendentemente dalla propria nobiltà di origine,
attraverso la cultura e la propria "prudentia." Sotto questo aspetto,
Cicerone non fu né un popolare né un aristocratico, ma un uomo di centro politicamente
impegnato, sensibilissimo alle esigenze della classe nuova, in una
moralizzazione della res-publica, di cui deve pur sempre rimanere guida il
Senato. In Cicerone, cavaliere, uomo di cultura, avvocato e politico, hanno
senza dubbio giuocato motivi diversi, concezioni e dottrine diverse, che, se
prese nel loro insieme e nella loro coerenza, sono in contrasto l'una con
l'altra, assumono tuttavia un significato, qualora vengano ricondotte entro i
contesti ciceroniani. Cicerone non espone dottrine altrui, ma usa tesi e
aspetti di dottrine, a seconda o della situazione politica per la quale parla,
o della sua personale situazione, in mezzo ad avvenimenti mutevoli e talvolta
drammatici, dando a filosofia non tanto il significato di una certa filosofia, quanto
quello di consapevole riflessione su esperienze umane, riflessione che renda
conto razionalmente, ragionevolmente (prudentia), di quelle stesse umane
esperienze. L'uomo, poiché è dotato di ragione e per mezzo di essa vede la concatenazione
dei fatti, le cause efficienti di questi e le cause occasionali, e ne conosce
quasi i precedenti, confronta le cose simili e congiunge intimamente le cose
future alle presenti, può facilmente vedere tutto il corso della vita e
preparare le cose necessarie per viverla. E questo stesso istinto naturale,
mediante la forza della ragione unisce l'uomo agli altri uomini, crea una corrispondenza
che si manifesta nel linguaggio e nella socievolezza (Cic., De officiis). Cosi,
sul piano della discussione, della dialettica, potevano servire gli’accademici,
e sul piano della logica certe posizioni stoiche - si pensi all'uso fatto da
Cicerone dei sillogismi ipotetici e dell'analogia e alcuni aspetti dell'analisi
aristotelica per la formalità delle definizioni. Sul piano della condotta
forense e politica, accanto a quelle tesi sia accademiche, sia aristoteliche,
sia stoiche, puossono servire le tecniche retoriche elaborate da Aristotele, da
Crisippo, da Ermagora. Sul piano piu strettamente umano, della possibile
comunione umana, puo servire la delineazione di una humanitas il cui incontro è
la comune ragione e la comune cultura, in un comune linguaggio, che sembra e
l'aspetto piu saliente della tesi stoico-aristotelica di Panezio, in cui,
certo, hanno giuocato il motivo della filosofia umana di Aristotele e il motivo
accentuato della vita attiva di Dicearco; su di un piu alto piano politico si
ricercava una legge romana universale, un diritto naturale che giustificasse un
certo ordine sociale, una certa legalità romana, per cui potevano servire altre
tesi stoiche. Ma, oltre a tutto questo, l'aspirazione umana ad una quiete ultra
mondana, soprattutto dovuta a situazioni immediate e tristi della vita, poteva
benissimo far usare a Cicerone tesi di Platone sull'immortalità dell'anima o
alcuni aspetti del Protrettico e dell'Eudemo di Aristotele, accanto a una
visione del divino la cui fonte può essere Cleante, insieme al topos della
filosofia intesa come consolatio. Ora, se tagliamo via Cicerone e poche
testimonianze posteriori, di cui alcune sono di derivazione ciceroniana, poco o
nulla resta delle opere dei questi filosofi. Di qui, per le ragioni dette
sopra, la difficoltà di ricostruire, attingendo a Cicerone, dottrine e
posizioni compiute, storicamente esatte. Si pensi, ad esempio, al caso di
Platone. Se le opere di Platone sono andate perdute e si dovesse ricostruire
Platone mediante Cicerone, non avremmo certo Platone ma Cicerone stesso, che
usa frasi e motivi di Platone. Lo stesso dobbiamo dire per gl’accademici da
Clitomaco a Filone di Larissa ad Antioco d’Ascalona, gli ultimi due
direttamente ascoltati da Cicerone e per gli stoici Boeto di Sidone, Antipatro,
Panezio, Posidonio, anch'esso ascoltato da Cicerone, e per tutti gli altri cui
si riferisce Cicerone. Non è, evidentemente, possibile ricostruire, ad esempio,
la dottrina e una compiuta e sistematica filosofia di Panezio attraverso Cicerone,
per poi, con un Panezio cosi ricostruito, spiegare Cicerone. Ciò che possiamo
è, invece, renderei conto delle questioni suscitate in Cicerone, in funzione
della sua problematica, dai pensatori greci da lui citati e discussi, i quali,
a loro volta, hanno senza dubbio, almeno per ciò che ne sappiamo, risposto alle
esigenze, ai problemi, alle richieste che provenivano da Roma, fin dal tempo di
Carneade e di Polibio, in un complesso e Ìn un ampiamento di orizzonti, anche
geografici, per cui se è vero che il mondo romano si grecizzò, è altrettanto
vero che il cosiddetto mondo ellenico si romanizza, o meglio si venne determinando
tutta una nuova e diversa atmosfera culturale, in cui anche certe parole, pur
rimanendo le stesse, vennero ad assumere altro significato. Il celebre DOPPIO
DISCORSO SULLA GIUSTIZIA, che Carneade tenne a Roma e ancora riportato e
discusso da Cicerone. Con l'andar del tempo se n'era lorse ingrandita la fama e
l'importanza, ma, certo, ciò sta a testimoniare che uno dei punti fondamentali
della rifflessioni romana s'era venuto a imperniare sul motivo delle condizioni
che rendono possibile l'umano rapporto. E per questo non vanno dimenticate da
un lato la storia di Roma e delle sue conquiste e dall'altro lato la
problematica che veniva a sorgere sulle condizioni e le capacità del potere. A
parte l'aspetto dialettico del DOPPIO DISCORSO DI CARNEADE, la sua forza
filosofica di rimettere sempre tutto in dubbio, ci.J che di quel discorso
rimaneva piu crudo e scottante e, non solo la sottile negazione della dottrina
stoica dello IUS NATURALE e la conclusione che la giustizia non va ricercata né
in Dio né nella natura, intese come ordine e bene universale, ma l'esito di
quel discorso stesso, per cui Carneade non negando l'esistenza della giustizia
nel senso comune sottolinea che il giusto è sempre, soprattutto nei rapporti
tra stato e stato, una forma di ‘ingiustizia’ nel senso comune della parola. Se
Roma avesse voluto essere veramente giusta avrebbe dovuto restituire ciò che,
con le sue conquiste, aveva tolto agli altri. Roma si è comportata
prudentemente e utilmente, non con giustizia. In conclusione, dunque, non è
possibile vivere giustamente, ché significherebbe ridursi ad un assoluta
inazione. Se lo stoico vuoi vivere, cioè agire, deve negare il suo concetto di
giustizia. Lo stesso va ripetuto per i romani. Quello di Carneade puo suonare
come un richiamo, preciso e severo, nei confronti dei romani, alla lealtà, alla
consapevolezza critica di ciò che si fa, un richiamo alla riflessione sulla
verità della propria azione, e, nel caso specifico, all'azione dei romani, le
cui conquiste e le cui forme di governo giuste dal punto di vista dell'utile
romano e dell'utile di una certa classe dirigente vieni ammantate dell'orpello
del concetto di giustizia. Se tutto ciò indigna Catone, particolarmente per la
verità pericolosa ch'e implicita nel discorso di Carneade non va scordato che
Polibio scrive che la grandezza romana sta nell'avere imposto un certo ordine e
una certa legge giuocando sulla superstizione, tenendo a freno le masse
mediante il timore dell'invisibile: Polibio, tutto questo impone, d'altra
parte, una piu approfondita discussione e giustificazione. Carneade non
condanna l'impero romano. Carneade mette solo in rilievo il fatto che quest’impero
non ha base etica; e questo stimola altri a cercarne una (T. A. Sinclair, Il
pensiero politico classico, Bari). Non solo, ma va aggiunto che se al tempo di
Carneade il concetto di “impero” non esiste, se non nella sua figura giuridica,
e proprio la riflessione sulla giustificazione del *commando* di un singolo o
di un gruppo in Roma, nella delineazione di un modello d’uomo giusto, e del
potere di Roma sugli stati e le città conquistate, che venne a costruire,
appunto, il concetto di “principato” o d’impero. Entro questa linea, nei
termini di questa esigenza di rendere giustificabile e, per ciò stesso,
razionale e, dunque, convincente, l'azione della classe, che ha possibilità
politiche, e l'azione di Roma, sembrano chiarirsi molti degli atteggiamenti assunti
e dagli Stoici, e dagli stessi Accademici, i quali tutti ebbero contatti
diretti e di clientela con i maggiori esponenti della classe dirigente romana,
a cominciare da Polibio e da Panezio. Mentre, per altro verso, la de-lineazione
di un ordine razionale e universale cui adeguarsi, fondamento e giustificazione
dell'azione svolta da Roma, almeno da quando certe possibilità di carriera si
allargarono dalla classe senatoriale alla classe dei nuovi ricchi o dei
cavalieri, mise in crisi il mono-polio del potere dei nobili, giustificando,
appunto, in nome della comune ragione, le possibilità dell'inserimento politico
da parte delle nuove classi. E cosi, alla concezione universalistica e
imperialistica di Roma, e alla concezione di un ordine politico basato su
quella razionale universalità, di cui il "princeps" -
l'"orinor" in principio - è il depositario e il propagandista, non
poco poteva servire la tesi del gius-naturalismo stoico, qualora se ne
giustificasse la possibilità, risolvendo il problema impostato da Carneade, che
cioè il concetto stoico di giustizia e di diritto assoluto veniva a negare
l'azione e gl’atti giusti. Ora tale giustificazione impone una revisione, entro
i termini dello stoicismo, della originaria soluzione stoica, che e tentata da
Panezio di Rodi, amico e consigliere, insieme a Polibio, di Scipione Africano,
s1 come da parte degl’Accademici (da Carmada e Metrodoro a Filone di Larissa e
Antioco d’Ascalona), perché fosse possibile la stessa dia- lettica e la
discussione, perché si potesse giustificare l'azione, si imponeno delle
modìficazioni che, rispondendo alle nuove esigenze, non ebbero poi piu niente a
che fare con l'originaria posizione di un Carneade: né, d'altra parte, va
scordato che già Clitomaco, successore di Carneade, dedica la sua opera intorno
alla gnoseologia del maestro al console Lucio Censorino, e che, piu tardi,
Antioco fu amico di Lucullo e che a Roma vive e scrive Filone di Larissa. Chi
tenti, dunque, una ricostruzione, storicamente valida, delle varie fasi del
pensiero non può non tener conto della storia interna di Roma, soffermandosi in
primo luogo dapprima sull'esigenza da parte senatoriale di giustificare il
proprio operato e la propria virtuosità fino a giungere a costruirsi con
Scipione Emiliano minore l'ideale modello del “vir bonus”, salvatore della
patria, che assomma in sé I'auctoritas, il cui consiglio è dato alla potestas
(all'esecutivo), piu che con la parola, con la propria figura morale e la
propria condotta, divenendo princeps della città. In secondo luogo, tenendo
presente il conflitto tra la classe senatoriale e l'impoverita borghesia
italica rurale, culminante nel conflitto tra lo stesso Scipione e Tiberio
Gracco (dell'uccisione di Tiberio, Scipione dirà: iure caesum) e poi tra
Scipione e C. Papirio Carbone, fino a che, morto Scipione, improvvisamente la
notte precedente il giorno in cui egli dove pronunciare un discorso in senato
contro le proposte di legge sulla questione agraria (fu chi disse che Scipione
venne fatto uccidere da Papirio Carbone), sembra potersi attuare la rivoluzione
in virtu di Gaio Gracco, rivoluzione però stroncata dalla oligarchia
senatoriale. In terzo luogo, tenendo presente il celebre conflitto tra Mario e
Silla, fino a giungere a Pompeo e al primo triumvirato. Entro questi termini
sembra chiarirsi perché il problema fondamentale: quali che di volta in volta
ne siano state le soluzioni - fosse il problema delle condizioni che permettono
la vita politica: o in una negazione delle tecniche retoriche - particolarmente
da parte senatoriale, - puntando sul retorico modello di una figura esemplare,
e, per la sua esemplarità, convincente; oppure, via via negata la retorica come
arte a sé, neutra, in un'affermazione della retorica filosofica, psicagogica, onde
piu volte l'uso di Platone e di Aristotele, che, ricorrendo a tecniche diverse,
caso per caso, seducesse ad una razionalità, istituente ordine e misura, entro
i termini della legge, specchio di quella medesima comune razionalità. Di qui,
anche, la sempre piu accentuata importanza data alla conoscenza del diritto romano
e alla sua sistemazione. Il riflesso di tali polemiche sulla retorica, il
conflitto dapprima tra contenuti e retorica e poi tra retorica degl’affetti e
retorica filosofica, la problematica tra il porre una virtuosità in assoluto,
che alla fine nega ogni possibilità di azione, e, quindi, anche ogni
possibilità di convin- cere a quella virtuosità stessa, e il porre una
possibilità di rapporto umano, fondato solo di volta in volta sul giuoco degli
affetti, il riflesso di tutto ciò, anche nella sua aderenza, caso per caso, a
precise esigenze politiche, è molto chiaro in Cicerone. A tal proposito, anzi,
sembrano particolarmente illuminanti certi passi di Cicerone, in cui egli condanna
l'insegnamento retorico di Cleante e di Crisippo. È vero che Cleante scrive un
trattato di retorica e anche Crisippo, ma in modo tale che se uno desidera
diventar muto, non deve leggere niente altro (De fin.). Troppo rigida ed
esclusiva la loro logica per divenire eloquentia (“De Oratore”), essi non hanno
possibilità di discutere altri argomenti, ché uno solo è il loro, onde mancano
di inventio (Topici). Essi perciò non possono convincere alla virtu, per alta e
pura che sia la virtu da essi proclamata (cohlc, sottolinea Cicerone, fu il
caso dello stoico romano Rutilio Rufo, che per non adulare le passioni del
popolo, per non scendere dinanzi ai giudici ad usare la tecnica del pathos, non
fu capace di difendersi: De Oratore). Sotto questo aspetto sembrerebbe aver
ragione Carneade, dimostrando che, sul piano umano, lo stoico non può che
contraddirsi, ripiegando sul probabile e sul convenevole, negando con ciò
stesso la propria tesi, tanto è vero che gli stoici non pongono alcun passaggio
tra il saggio e virtuoso e il non saggio e malvagio (di qui, per Cicerone i
paradossi degli stoici: cfr. Paradoxa stoicorum), giungendo alla fine a
sostenere che nessun uomo è saggio, tranne pochissimi, che, d'altra parte, non
hanno possibilità di convincere gli altri per lo stesso fatto che gl’altri sono
non saggi, per cui il saggio stoico resta in conclusione assolutamente avulso
da ogni tipo di vita politica, rinnegando con questo lo stesso proprio concetto
di giustizia e di razionalità. In realtà vi sono negli stoici cose troppo
incompatibili con l'oratore quale noi formiamo. Questa, ad esempio: ad
ascoltarli, tutti coloro che non sono saggi sono schiavi, nemici pubblici,
folli; d'altra parte non v'è uomo che sia saggio. Sarebbe, dunque, una grande
assurdità affidare la cura di guidare il popolo, il senato, qualsivoglia
assemblea a chi fosse persuaso che tra i suoi ascoltatori non vi è uomo
sensato, non un cittadino, non un uomo libero (“De Oratore”). Tale
impossibilità di guidare la vita politica, sottolinea Cicerone, non ha permesso
agli Stoici di scrivere intorno allo stato (De legibus, III, 5-6, 13-14). Solo
Dione stoico, aggiunge, se n'è occupato. Chi sia Dione stoico non sappiamo a
meno che non si tratti di Diogene di Babilonia, che secondo Ateneo, scrisse “De
legibus”, e, insieme a lui, Panezio di Rodi. Su questo argomento dei
magistrati, alcune questioni furono studiate molto sottilmente prima da Teofrasto,
poi dallo stoico Dione. Tu dici? Anche dagli stoici fu trattato questo? Non
proprio, salvo da colui che ho ricordato, e poi da quel grande e coltissimo
uomo di Panezio. Gli stoici antichi soltanto astrattamente e pur con acutezza
hanno trattato dello Stato romano, ma non in questa maniera pratica per
l'utilità del popolo e dello stato romano (De legibus). È vero. Lo stato romano
che potremmo delineare attraverso i frammenti di Cleante e dì Crisippo sarebbe
lino stato romano universale, fondato sul motivo del diritto naturale,
razionalmente ordinato, ove la legge sarebbe specchio della legge del tutto,
del logos, ma dove anche, data la distinzione stoica tra saggio e non sagg e ola
incomunicabilità tra gli uni e gli altri, si avrebbe un solo saggio ché tutti i
saggi si identificherebbero in uno e molti uomini, i non saggi, i quali soli,
alla fine, si dimostrerebbero capaci di azione e di vita sociale, che sarebbe
però in-giusta, a-sociale, a-politica, dove non potrebbe non avere il sopravvento
che la retorica degli affetti e delle passioni. L'abbiezione di Cicerone
avrebbe potuto essere e in fondp lo e l'abbiezione sottesa di Carneade nei
confronti degli stoici, ma con scopo rovesciato, ché Cicerone tende a rendere
convincente sul piano umano proprio alcune tesi stoiche, in quanto utili a un
certo fine politico. Certo a Carneade, per quel poco che di lui sappiamo, non seppe
rispondere il capo della stoà del tempo, Antipatro di Tarso. Si dice che Antipatro
di Tarso non ha mai il coraggio di scendere in discussione con Carneade
direttamente e ch'egli tentasse di difendere le posizioni dello stoicismo
ortodosso per scritto (cfr. Numenio, in Eusebio, Praep. ev.), limitandosi ad
approfondire gl'indifferenti tra cui avrebbe posto il dovere e la fama validi
entro l'ambito umano (cfr. Cicerone, De fin.; anche Seneca, Ad Lucil., 92, 5;
87, 38), mentre Diogene di Babilonia, il collega di Carneade al tempo
dell'ambasceria a Roma, discepolo di Crisippo, ha particolarmente approfondito
alcuni aspetti della dottrina stoica, in forma precettistica e tecnica (la
dialettica, la retorica, la musica), ma in modo tale che, ponendosi su di un
piano piu logico che ontologico, nel senso di Zenone di Cizio, puo rinnovare i
contenuti stessi dello stoicismo. Panezio poi tenta il recupero di tutte quelle
tesi stoiche che, utili per un tipo di politica e di giustificazione di una
certa azione, avrebbero potuto assumere, entro una precisa visione del tutto,
una loro forza sul piano umano. In realtà, dietro l'atteggiamento piu pratico -
come sottolinea Cicerone - piu umanistico di Panezio, che puo esattamente servire
ai fini dell'azione di Scipione Emiliano, v'e la possibilità di sviluppare la
logica e la dialettica di Crisippo, indipendentemente da corrispondenti
strutture ontiche, battendo l'accento sull'aspetto ipotetico del discorso e
sulla retorica nel modo in cui, attraverso Zenone e poi Crisippo, s'e delineata
in Diogene di Babilonia. Studi recenti (cfr. A. Plebe, La retorica di Diogene
di Babilonia, Filosofia) hanno messo in chiaro la stretta relazione posta da
Diogene di Babilonia tra filosofia e retorica. Se la filosofia viene ad essere
stoicamente 2 [Di Diogene di Babilonia, o di Seleucia, sappiamo molto poco.
Discepolo di Crisippo, succede nello scolarcato della Stoà a Zenone di Tarso. E
il quarto scolarca della Stoà dopo Zenone: Cleante, Crisippo, Zenone di Tarso,
Diogene di Babilonia. A Diogene di Babilonia succede nella direzione della
scuola Antipatro di Tarso e ad Antipatro, Panezio, la scienza del ben pensare,
attraverso cui si determinano le condizioni senza le quali non v'è discorso cioè
i dati e l'implicarsi dei dati stessi in nessi necessari, in un discorso
sintattico e proposizionale, che è costituito dall'esperienza, in cui anzi
consiste l'esperienza si capisce come l'arte del dire, in quanto espressione
dell'arte del pensare, possa avviare gli altri a ben pensare, costituendo un ordine.
sintattico e armonico, sociale, specchio appunto dell'ordine razionale cui si
giunge attraverso lo stesso pensare e il rivelarsi del pensiero a se medesimo.
Ipotetiche le premesse, an-apodittici i sillogismi, formalmente il discorso è
necessario e può costituire, sul piano umano, un ordine altrettanto necessario
e perciò stesso razionale, a cui serve la retorica, valida qualora, appunto,
sia introduzione e avviamento al ben pensare e per ciò al ben vivere,
insignificante, anzi da respingere, qualora resti su di un piano neutro di
contenuti (cfr. framm. 95, III Arnim). Di qui il contrasto tra retorica pura e
retorica filosofica, sospesa tra arte e scienza, e il parallelo, posto da
Diogene di Babilonia o Seleucia, tra retorica e medicina (fr. 91, III Arnim),
per cui la vera retorica è terapeutica ed è “psica-gogica”. Di qui, formalmente
e per la sua funzione terapeutica e stimolante, il rapporto posto da Diogene
tra retorica e musica (fr. 92, III Arnim). La funzione della retorica, che, in
quanto seducente in vista del fine cui mira, cioè l'ordine e la misura razionali,
si fonda su tecniche precise che potevano essere benissimo riprese dalle
analisi sulla retorica e dai topici di Aristotele, sulla conoscenza dei
caratteri umani (Gorgia, Platone, Aristotele, Teofrasto}, assumendo anche
l'accorgimento dell'inganno o dell'illusione seducente (cfr. fr. 105, III
Arnim), sapendo con opportunità (eùx.cxtp(cx, cukairla) usare i discorsi (fr.
122, III Arnim), prende un suo carattere preciso in quanto serva a porre ordine
e composizione (croveaL(i, syncsis) nelle città e buona condotta (eòotyroy(ot,
cuagoghia) politica, cioè sociale (fr. 102, III Arnim). Retorica e politica
venneno, in tal modo, a coincidere in funzione della costituzione di un
rapporto umano che fosse rapporto razionale, simile all'ordinarsi necessario di
un discorso, in una misura per cui ciascuno si ponga là dove è bene che sia,
come lè parole in una struttura grammaticale e sintattica. Non a caso, cosi,
sembra che tra i pensatori greci, suoi contemporanei, Catone il Censore avesse,
accanto all'ideale del Socrate senofonteo, una qualche simpatia per Diogene di
Babilonia, che, d'altra parte, e anche questo sembra opportuno sottolineare,
era stato a Roma già prima della CELEBRE AMBASCIATA (cfr. Cicerone, De senectute). Le lodi che
Cicerone fa di Panezio si fondano sul riconoscimento che Panezio ha reso
realizzabile, politicamente funzionale, l'ideale della virtu e della giustizia
stoiche. Ciò che di Panezio sappiamo è, in realtà, molto poco. Sappiamo ch'egli
nacque a Rodi, città in quel tempo culturalmente attiva, politicamente legata a
Roma. Uomo aperto e curioso, non vincolato fin dal principio a una precisa
scuola, non formatosi ad Atene, sappiamo che Panezio vive a Roma parecchi anni,
ch'entra in dimestichezza con Scipione Emiliano, che ne e consigliere ed amico,
che e con lui ad Alessandria e durante le campagne d'Africa,e che divenne, in
Atene, scolarca della stoà, succedendo ad Antipatro di Tarso, proprio
all'indomani della morte di Scipione. Può darsi sia un caso, ma è un caso che
può far pensare. Panezio lascia lo scolarcato. Panezio non e uno stoico di
scuola, né, d'altra parte, si può sapere l'influenza che avrebbe potuto
giuocare su di lui il pensiero dello stoico eretico [Nato circa a Rodi, Panezio,
amico e discepolo di Diogene di Babilonia, vive a Roma parecchi anni, entrando
in dimestichezza con P. Scipione Emiliano, di cui fu consigliere. Lo segui in
Africa e in Asia. Nominato scolarca della Stoà, succed ad Antipatro di Tarso. Lascia
lo scolarcato e sembra sia morto in
quello stesso anno. Delle sue opere, andate perdute, si ricordano soprattutto
una “Sul dovere” (ITcpl wii x~o~), che sarebbe stata scritta al tempo del suo
soggiorno a Roma, ed una “Sulla provvidenza” (ITcplnpov61cxç), che sarebbe la
fonte del De officiis di Cicerone. Si conoscono inoltre i seguenti titoli: “Sulla
tranquillità dell’animo” (ITcpl IÒ&u!l-(«ç); Sul,Oflt!Nio (ITcpl
no>.l-n:!cxç); Sulle sct!l~ (ITcpl atlp~m:(J)'\1); “Di Socrate dei socratici”
(ITcpl Ec,xp«wu Xlll TW'II E(J)xpcmxwv); Lettera a Q. Elio Tuberone. Nello
scolarcato della Stoà, a Panezio succede Mnesarco, del quale non sappiamo nulla
se non che segui pedissequamente il maestro. A parte Posidonio (dr. oltre) e i
romani che seguirono Panezio, un altro discepolo di Panezio, del quale occorre
fare almeno il nome, fu Ecatone di Rodi, che si occupa in particolare di
problemi morali e i cui manuali divulgativi hanno larga diffusione. In questi
manuali Ecatone discute soprattutto il problema dei conflitti dei doveri, in
una delineazione della piu rigida morale stoica e in una distinzione tra virtu
teoretiche e virtu non teoretiche, riportando lo Stoicismo ad una rigidezza che
non era stata certo quella di Panezio. Scrive in tal senso Diogene Laerzio:
"Secondo gli Stoici, non v'è alcun grado intermedio tra la virtu e il
vizio. Come un legno deve essere diritto o storto, cosi un uomo è o giusto o
ingiusto. Ecatone, nel secondo libro Sui beni, sostiene che la virtu è
sufficiente alla felicità, non dando alcun valore a tutto ciò che si crede
possa turbarla. Panezio e Posidonio invece sostengono che la virtu non è
sufficiente, ma occorrono anche buona salute, abbondanza di mezzi di vita, e
forza" (Diogene L.). Per il resto cfr. sempre Diogene Laerzio, VII,
passim. Ci sono stati tramandati i titoli delle seguenti opere di Ecatone: “Sui
fini” (ITcpl T&ÀW'IIi; “Sui beni” (ITcprciyat.&wv); “Sulla virtu”
(ITepl cip&:Twv); “Sul dovere” (ITcpl xat&ljxo~; “Sulle passioni”
(ITcpl ncx&ciiv); “Sui para-dossi” (ITcpl natpct36~(J)'II); “Sentenze”
(xpc't«'). Boeto di Sidone, del quale, di fatto, non sappiamo niènte (cfr. J.
F. Dobson, Boethus of Sidon, "Classica! Quarterly," pp. 88-90), se
non che fa un commento ai Fenomeni di Arato (su Boeto cfr. Diogene Laerzio,
VII, 54, 143, 148, 149). Anche se indirettamente, cioè al di fuori e
indipendentemente dalle dispute scolastiche e professorali di Atene, Panezio
risponde a Carneade, rendendo positivo e non puramente negativo lo stesso
"probabilismo" di Carneade, che, valido sul piano umano, suppone a
suo contenuto - se non vi fosse una presunta verità, neppure si potrebbe
parlare di probabilità, di capacità d'assumerne fede, nr.&Clv6v- pithan6n, dietro
a sé o innanzi a sé, la visione di un tutto ordinato, un dover-essere cui
ciascuno, a seconda della propria natura deve adeguarsi. Qui, forse, il senso
del cosiddetto platonismo di Panezio, in questo suo porre l'ordine e la legge
del tutto - niente affatto contrastante con certe tesi stoiche - come termine
di realizzazione, come dovere, cui l'uomo conoscendo sé, entro i limiti della
propria natura, deve avvicinarsi, realizando con ciò, di volta in volta, la piu
genuina natura umana, l'istinto proprio dell'uomo. Di qui i due aspetti che
Cicerone sembrano ispirati a Panezio particolarmente il “De natura deorum” e il
“De offiiciis”) e anche altre testimonianze. (sia pur assai frammentarie)
sottolineano come i piu appariscenti di Panezio. Da un lato un rigoroso
immanentismo naturalistico, dall'altro lato, entl'Ò i termini di quella che è
la natura nella sua totalità - il dovere dà parte dell'uomo di adeguarsi a
quella natura stessa, ciascuno a seconda della propria natura. Sembra cos' interessante
ricordare che Diogene Laerzio, su testimonianza di Fania, scolaro di Posidonio,
sottolinea che, mentre Zenone e Crisippo poneno per prima la logica e per
seconda la fisica e Diogene di Babilonia l'etica, Panezio e Posidonio
cominciano dalla fisica: TIClvClhLot; 3~ XCll Tioaet36>vtot; cinò -.C>v
rpuatxwv clpxov-.ClL. Approssimativamente possiamo renderei conto della concezione
della fisica di Panezio per via negativa, cioè attraverso quello che le
testimonianze sottolineano avere Panezio negato rispetto alle posizioni degli
stoici precedenti. Panezio sostiene che il cosmo non muore e non invecchia, che
questo cosmo è uno ed eterno nella sua totalità, e; che, dunque, non ha né un
principio né una fine, né v'è conflagrazione (bcn6pc.>att;, ek_pirosis)
periodica, e che per ciò stesso nessun dio lo regge, per cui è sciocchezza
(rp>.-f)votrpov, flénafon) tutto ciò che si dice, intorno al divino:
l>.eye yà:p rp>.-f)votrpov elvotL -.òv nept.&eou Myov (Epifanio, De
fide, 9, 45. Per il resto cfr.: Cicerone, De nat. deor., Il, 46, 118; Filone,
De aet. mundi, 76; Diogene L., VII, 142; Arnobio, Adv. nat., Il, 9; Stobeo,
Ecl., I, 20 e Il, 7). Sembrerebbe cos' potersi riferire a Panezio, anche se non
direttamente citato, la concezione riportata da Cicerone nel “De natura deorum”
secondo cui natura e divinità coincidono nel senso che il divino è la stessa
ragion d'essere (logos) del tutto, forza vitale e organizzatrice (egemonica),
non separata dagl’esseri individuali, esistente anzi nel costituirsi di quegl’esseri,
che quanto piu realizzano e conservano se stessi (la propria natura), tanto piu
realizzano e conservano l'universo medesimo, ché diversi tra loro per gradi,
non lo sono affatto per natura. L'ordine, quindi, e i rapporti tra le cose non
sono dovuti a una "simpatia" delle cose tra loro né alla necessità
del fato, bensi ad una razionalità che rende pensabile e giustificabile la
realtà stessa e i suoi molteplici aspetti, e che esclude da sé sia il motivo
della divinazione sia il motivo dell'anima immortale, separata dal corpo (cfr.
Cicerone, Lucullus, XXXIII·, 107; De divinatione, l, 3, 6,. 7, 12; Il, 42,
87-47, 97; Tusc. diss., l, 32, 79-33, 80; Diogene L., VII, 149). Piu di questo
non possiamo dire della fisica di Panezio. D'altra parte, sia il fatto che
alcuni interpreti antichi hanno veduto nella concezione fisica di Panezio una
diretta influenza della concezione platonica (va sottolineato che il
riferimento è al Timeo ed è dovuto all'interpretazione che del Timeo dà Proclo,
In Plat. Timaeum, 50b), sia i continui riferimenti delle testimonianze
all'aristotelismo di Panezio, al suo essere non solo filo-platone ma anche filo-aristotele
(Stoic.lnder Herc., col. 61, Comparetti 534), avendo Panezio sostenuto
l'eternità del cosmo, sempre tutto in atto, l'unità di anima e corpo, portano a
pensare che per Panezio la realtà, tutta in atto sempre, nei suoi aspetti
molteplici, sia quella che è, in sé né buona né cattiva, comprensibile in
quanto ricondotta ad una sua universale razionalità, rasserenante qualora
appunto se ne comprenda da un lato la sua necessaria razionalità, dall'altro
lato che, entro quella stessa razionalità, ogni cosa è là dove è bene che sia,
ogni cosa attua se stessa pienamente in quanto attui la propria natura, cioè la
propria ragione, secondo le risorse che la natura ha dato. Poiché, d'altra
parte, è un fatto che all'uomo è dato rendersi conto di ciò (tra l'uomo e la
bestia vi è grandissima differenza. La bestia, solo in quanto è stimolata dal
senso, conforma le sue abitudini a ciò che è vicino e presente, non curandosi
affatto del passato e del future. L’uomo, invece, poiché è dotato di ragione e
per mezzo di quella vede la concatenazione dei fatti, le cause efficienti di
esse e le cause occasionali, e ne conosce quasi i precedenti, confronta le cose
simili e congiunge intimamente le cose future alle presenti, può facilmente
vedere tutto il corso della vita -- Cic., De off.), tale consapevolezza e
comprensione è ciò che Panezio chiama ragione di contro all'istinto e agli
impulsi degli animali e alla natura propria di ciascuna cosa, ché, sotto altro
aspetto, essi stessi impulsi e natura, sono razionali. "Due sono gli
elementi naturali dell'animo. L’uno è posto nell'istinto, 35 detto dai Greci op!J.i) (hormè:
impulso), che trascina l'uomo qua e là; l'altro è posto nella ragione, che
insegna e rivela all'uomo cosa si debba fare ed evitare. È quindi vero che la
ragione deve comandare e l'istinto obbedire. I movimenti dell'animò sono di due
specie e consistono nel pensiero e nell'appetito. Il pensiero si applica
soprattutto alla ricerca del vero. L’appetito spinge all'azione. Faremo in modo
dunque di rivolgere il pensiero alle cose piu grandi e di far sentire
all'appetito il peso della ragione" (Cic., De off., I, 28, 101; l, 36,
132). Di qui, evidentemente, l'affermazione di Diogene Laerzio che, secondo
Panezio, due sono le virtu: virtu teoretica e virtu pratica. In altri termini, insomma,
l'istinto, l'impulso sono tali in quanto non compresi; compresi, l'istinto e
l'impulso cessano di essere irrazionali, onde la razionalità e ciò è dato all'uomo consiste nello stesso
impulso qualora sia ordinato nella consapevolezza di quelle che sono, appunto,
le risorse che la natura ci ha dato (•.. Ticxvat(-rLot; -rò l;;ijv
xat-riX-rà;t;8e8o(dvrxt;~!Li"!x!pUae(a)ç&.!pop~t;-ri>.ot;
d.m:!pi)vat-ro: Clemente Alessandrino, Strom., II, 21). Ciascuno deve
conservare le proprie tendenze. Perché si possa pm facilmente conseguire quel
decoro, che si cerca. E ciò avverrà se non contrasteremo per nulla con la
natura dell'uomo in generale ("siamo tutti partecipi della ragione e di
quella superiorità per la quale ci distinguiamo dalle bestie, da cui deriva
l'onesto e il decoro ed alla quale risale la conoscenza del dovere": Cic.,
De off., l, 30, 107); ma, conservata questa, seguiremo la nostra propria natura
("come nei corpi ci sono grandi diffrenze cosi negli animi vi sono varietà
anche maggiori": Cic., De off.), cosi che anche se le altre ci sembrano
migliori e piu importanti, misuriamo alla sua regola le nostre attitudini; non
~ opportuno infatti andare contro la natura e cercare di ottenere quello che
non si può. Da ciò risulta chiaro che cosa sia il decoro, perché non lecito far
nulla, ~e comunemente si dice, a dispetto di Minerva, ci~ quando la natura ~
contraria. Ma non v'è cosa piu decente della coerenza e di tutta la vita e
delle singole azioni, e non si può conservarla se, per imitare l'altrui, trascuriamo
la nostra natura. Tanta questa differenza fra le nature umane, che talvolta per
gli stessi motivi uno è costretto a darsi la morte ~ un altro no. (Cicerone, De
off.). Concepita la realtà come razionalmente.strutturata, strutturato
razionalmente l'uomo, parte della realtà, posto che, appunto, la natura è ciò
per cui tutto è là dove è bene che sia, s1 che ciascuno realizzandc il proprio
impulso, conservando sé conserva il tutto (si come nell'organismo quanto piu
ogni organo è sé e realizza la propria funzione tanto piu l'organismo vive in
atto nei suoi organi), ne consegue che l'uomo scoprendo sé come ragione, quanto
piu vive secondo ragione, cioè secondo l'impulso proprio dell'uomo, che ordina
e si fa guida degli altri impulsi, armonicamente, a seconda delle proprie
possibilità, tanto piu ciascuno vive secondo "natura," secondo la
propria natura, e quindi coerentemente. Sia pur nell'interpretazione che ne dà
Cicerone, sembra che l'aspetto saliente di Panezio sia stato quello di
insistere sul fatto che nell'ordine razionale del tutto ciascuno ha il suo
giusto posto, in una specie di ordine gerarchico, per cui da un lato ne deriva
che ciascuno deve realizzare sé razionalmente, cioè misuratamente, entro i
propri limiti e le proprie possibilità, dall'altro lato ne deriva anche che
ciascuno deve rimanere al suo posto, al posto che natura gli ha dato. Non a
caso Cicerone, in funzione del suo ideale politico, riallacciandosi alla
idealizzata figura di Scipione, sviluppa particolarmente proprio questo motivo,
fino a giungere a far rientrare entro questo quadro la difesa della proprietà
privata. Se è vero che formalmente gli uomini sono tutti uguali, perché
partecipi di ragione (cfr. Leggi, l, 7-21 sgg.) e che per ciò, formalmente, non
esistono cose private per natura, è altrettanto vero che, in concreto, come
ciascuna cosa e ciascuno nell'ordine del tutto è distribuito al suo posto, cosi
ciascuno ha il diritto a ciò che gli è toccato in sorte. Come il primo dovere
della giustizia è di non offendere alcuno, se non si è provocati da ingiuria,
cosf dovere della giustizia è di usare delle cose comuni e delle cose private
come proprie. Non vi sono però cose private per natura, ma per antico possesso.
Tuttavia, poiché quei beni comuni per natura diventano di proprietà privata,
ognuno si tenga ciò che ebbe in sorte; se poi qualcuno desidererà per sé
l'altrui, violerà il diritto ddl'umana società (Cicerone, De officiis). L'uomo
di Stato dovrà soprattutto badare che ciascuno conservi il suo e che la
proprietà privata non sia diminuita da parte dello Stato romano. L'eguagliamento
delle fortune è la' peggiore delle pesti. Lo stato romano e costituito e la comunità
cittadina e ordinata appunto perché ciascuno mantenesse la sua proprietà. Gli
uomini infatti, sebbene siano spinti per istinto naturale ad unirsi fra di
loro, cercano la difesa delle città nella speranza di conservare i loro beni
(Cic., De off.). Certo, nel motivo di "ciascuno al suo posto," sia
entro l'ordine del tutto sia entro le società specchio della politéia cosmica
(l'argomento platonico anche se con frase stoica è particolarmente presente in
Cicerone nelle Leggi: "Questo mondo intero è da considerare come un'unica
città comune agli dèi ed agli uomii": Leggi) si veniva delineando lo
scioglimento del rigido motivo stoico dell'ordine dato: a seconda dd posto che
ciascuno ha, nel tutto e nella società di cui fa parte, ciascuno ha da
realizzare per essere sé, un proprio dovere, che se formalmente è uguale per
tutti (vivere secondo la comune ragione) ed è uno - onde l'ideale del saggio
stoico, - in concreto si pone da un lato come realizzazione della ragione
propria di ciascuno e, dall'altro lato, in ciascuno, come ordinamento armonico
dei propri impulsi, sf che ciascuno sia se stesso, in armonia con sé e con gli
altri, costituendo un ordine sociale. L'istinto naturale, mediante la forza
della ragione, unisce gli uomini agli altri uomini, crea una corrispondenza che
si manifesta nel linguaggio e nella socicvolczza, ispira soprattutto uno
straordinario amore verso la prole, induce a desiderare adunanze c riunioni:
per questi stessi motivi gli uomini cercano di procurarsi quelle cose che sono
necessarie alla vita e alle sue comodità, e non solo per se stessi, ma per la
moglie, per i figli, c per tutti gli altri che essi amano e debbono proteggere.
Né invero è piccolo privilegio della ragione umana che soltanto l'uomo possa
conoscere cosa sia l'ordine, il decoro c la misura nei fatti e nelle parole. E
cosi non v'è altro animale che conosca la bellezza, l'armonia, l'ordine delle cose
visibili; e la ragione naturale trasportando per analogia queste pro- prietà
dagli occhi all'animo, tanto pio egli ritiene che si debbano osservare la
bellezza, l'armonia c l'ordine nei detti e nei fatti, che non si commettano
atti indccorosi cd effeminati, e che in ogni pensiero cd azione nulla si faccia
o si pensi a capriccio... (De off.). Di qui il concetto, sviluppato da
Cicerone, del dovere medio e del conveniente e i concetti della società come
ordine gerarchico e armonico e del rapporto tra gli Stati come rapporto di
interdipendcnza armonica sotto l'egemonia di una città guida, realizzante la
universale razionalità. Certo, secondo le tesi piu rigide dello Stoicismo, il
virtuoso in assoluto è solo il sapiente, per cui solo il sapiente attua il dovere
asso- luto (xcx-r6p&6lfL«, kat&rthoma); d'altra parte, se nell'ordine
del tutto ogni essere ha il suo posto, e nella società, che idealmente dovrebbe
rispecchiare l'ordine supremo, ciascun uomo ha il suo posto, per cui, per
natura, non tutti possono essere sapienti, attuando quindi il dovere perfetto,
ne deriva che, tuttavia, a ciascuno, per ciò che gli compete e che gli è
proprio, spetta attuare il suo dovere, detto, rispetto a quello perfetto,
dovere medio (xcx&;jxov, kathèkon), nella cui attuazione con- siste
l'onestà. Si parla di un dovere relativo e di uno assoluto. lo penso che si
possa chiamare retto il dovere assoluto, poiché i Greci.lo chiamano
xcx'r6p&6lJL« (dovere perfetto), c l'altro, comune, perché lo chiamano
xcx&;jxov. E cosf 38 definiscono questi doveri, in modo da
stabilire come dovere perfetto quello che è retto; chiamano invece dovere
comune.quello del quale si può dare una ragione plausibile. Tre, secondo
Panezio, sono i casi che si presentano, quando si deve prendere una
deliberazione. Riflettere cioè se si deve prendere una deliberazione: nella
quale considerazione spesso gli animi ondeggiano in opposti pensieri. Ricercare
poi ed esaminare se l'ar- gomento preso in considerazione possa arrecare o no
le comodità e le gio- condità della vita, gli averi, il benessere, il credito e
il potere, con i quali portiamo giovamento a noi stessi e ai nostri; la quale
deliberazione rientra nell'utile. Si è, infine, incerti nel deliberare, quando
ciò che sembra utile contrasta con l'onesto: mentre infatti l'utilità ci
trascina verso di sé e l'onestà anche ci chiama a sé, avviçne che il nostro
animo vacilli nel pren- dere una decisione e rimanga perplesso fra opposti
pensieri... (Cic., De off., I, 3, 8-9). Ciascuno, dunque, in quanto viva seeondo
ragione, cioè bene, ha il dovere di far bene il proprio singolo mestiere di
uomo, il proprio ufficio, nei proprì limiti, conoscendo sé1 (cognitio), di
agire secondo misura (actio), secondo convenienza (7tprnov, prépon),
decorosamente (decus). Cos~ accanto alla virtu teoretica, era possibile, nella
realiz- zazione pratica della ragion d'essere, che è lo stesso ordine del
tutto, posto dinanzi agli occhi come dovere, porre ilcomplesso ·delle virtu
pratiche (giustizia, beneficenza, temperanza: cfr. De ofJ., 1), in cui consiste
l'onesto, che se formalmente sta, apJ?unto, nella giusta misura, di volta in
volta realizzata secondo le circostanze, costituendo un abito civile, che va
dai rapporti sociali 1 (De of J., I, 7-34) all’educazione, dal modo di vestire
e di incedere (De off., l, 35-36) al modo di parlare (1, 37), al decoro delle
abitazioni (1, 39) e cosi via;
dall'altro lato rispecchia quéll'arnionia razionale del tutto, quel supremo
bene che, dunque, non nega i singoli beni, quei singoli benessere, estetica-
mente valutabili, buoni perché belli, cioè compiuti con ordine e mi- sura.
"Nella padronanza dell'animo e nella giusta misura di ogni cosa consiste
il decoro, che i n greco si dice 7tpé7tov, pré p o n " (D e off., l, 27,
93). La virtu pratica per eccellenza, dunque, è quel giusto mezzo,, di sapore
aristotelico, che sta a fondamento sia dell'agire giustamente, sia dell'agire
benevolmente, sia dell'agire con temperanza, in un rap- porto di equilibrio e
di rispetto, in cui sta l'humanitas e la charitas generis humani: charitas,
cioè rapporto di decoro, che, in quanto armo- nico, si riflette come rapporto
di grazia, di eleganza. Il decoro per natura non può mai esser disgiunto
dall'onesto; ciò che è infatti decoroso è anche onesto, e ciò che è onesto è
anche decoroso, e quale sia la differenza tra loro è piu facile immaginare che
spiegare. Qualunque 39 cosa
infatti appare decorosa, quando ha per fondamento l'onestà. Il decoro [si
manifesta non solo nella temperanza, ma è il fondamento di tutte le virtu che
costituiscono l'onestà]. È decoroso infatti ragionare con assen- natezza e
prudenza, agire consideratamente, vedere ed osservare in ogni cosa il vero...
La stessa cosa si può dire della fo,rtezza. Le azioni generose e magnanime
sembrano decorose e degne dell'uomo... Il decoro, dunque, riguarda tutte le
parti dell'onestà e le riguarda in modo che non si vede solo per via di
astrazione, ma si manifesta chiaramente. Vi è un qualche cosa di decoroso che
si presuppone in ogni virtu; ma questo può essere separato dalla virtu piu in
teoria che in pratica... Due sono poi le specie del decoro: vi è infatti un
decoro generale, che si ritrova in ogni genere di onesto, e un decoro, a questo
subordinato, che riguarda le singole parti di esso. Il primo è di solito cosi
definito: "Decoro è ciò che è consentaneo alla superiorità dell'uomo, in
quanto la sua natura si differenzia dagli altri esseri animati." Cosi,
invece, si definisce quella parte che è subordinata al genere: "Ciò che è
consentaneo alla natura umana, in modo che in esso appaiano moderazione e
temperanza ed una certa nobiltà... A noi la na- tura stessa ha assegnato una
parte, dotandoci di superiorità e preminenza sugli altri esseri animati... e
perciò, dalla natura stessa essendo state asse- gnate le parti della costanza,
della moderazione, della temperanza e della verecondia e insegnandoci essa il
modo di comportarci verso i nostri simili, possiamo conoscere quanto sia
l'estensione del decoro generale e quali parti contempli il decoro particolare.
Come infatti là bellezza del corpo per l'armonica disposizione delle:.membra
attira gli sguardi e ci diletta in quanto tutte le parti sono tra loro unite in
leggiadra armonia, cosi quel decoro che risplende nella vita eccita l'ammirazione
di quelli con i quali si vive con l'ordine, la coerenza, la moderazione degli
atti e dei fatti. Si deve avere dunque un certo rispetto non solo per gli
uomini migliori, ma anche per tutti gli altri... Il dovere poi, che deriva dal
decoro, deve prima di tutto seguire quella via che conduce alla convenienza ed
alla conservazione delle leggi di natura; e se noi la seguiremo come guida, non
potremo mai sbagliare e conseguiremo la sapienza, la giustizia e la fortezza...
(Cic., De off., l, 27-28). La concezione stoicheggiante di un tutto ordinato,
di una realtà razionalmente articolata, ove, come in un discorso o in un
organismo vivente, ogni parte implica l'altra in una sola armonia - accantonate
e non piu discusse le ragioni e i motivi che avevano mosso i primi stoici nei
confronti di Platone e di Aristotele, - poteva benissimo, soprattutto in quanto
volta a costituire il fondamento di un certo ordine politico e l'ideale
modello, inserire nel proprio corpo dottrinario antichi testi platonici,
particolarmente, per ciò che riguarda appunto l'ordine costituito, i testi del
Platone ultimo, dal Timeo alle Leggi all'Epinomide, oltre alcune parti della
Repubblica. Cosi, una volta posto l'ordine del tutto piu che come conclusione
40 di un'argomentazione scientifica, come dato e come termine di
realiz- zazione, e sottolineata quin6i la possibilità di Ùn ayviamento a quel-
l'ideale nella capacità di compiere ciascuno, per ciò che gli compete, il
proprio dovere, entro i termini del mondo umano, la rigidezza mo- rale di certo
stoicismo poteva risolversi nel compromesso del dovere comune e del
conveniente, salvando i cosiddetti "indifferenti," che assumevano un
loro valore in quanto strumenti di quella misura (chi è ricco, se lo sia con
temperanza e prudenza, può attuare meglio l'ideale del sapiente di chi è
povero). Non solo, ma è chiaro come per ciò si potessero recuperare da un lato
i motivi platonici del cittadino cellula e organo della propria classe e delle
classi strumenti in funzione del tutto ordinato che è lo Stato, e della
temperanza di ciascuno che ha da rivelarsi non solo nella misura interna, ma
anche negli atteggiamenti esterni (dal vestire all'incedere, dall'accogliere le
sventure con fortezza al rispetto per i vecchi e cosfvia), e dall'altro lato si
potessero sfruttare- le indagini aristoteliche sul_ giusto mezzo, sulle virtu
etiche e sui caratteri. Entro questo quadro poi, che poteva servire come
un'enciclo- pedia e un sistema del sapere, e la cui funzione, appunto, fu tale
negli ambienti romani nei quali venne formandosi, assumeva un particolar
significato, una volta interpretato nel senso platonico, l'antico motivo
stoico· del diritto naturale. Una la ragione del tutto, una la legge su cui
tutto si scandisce: la legge, almeno formalmente, pone tutti su di un piano di
uguaglianza, ove per natura tutti hanno gli stessi diritti, in quanto dovere di
cia- scuno è di seguire quell'unica ragione e quell'unica legge diffusa in
tutto e in ciascuno. Secondo ragione o giustizia, perciò, non vi sono patrie o
classi diverse, uomini superiori e inferiori, schiavi e liberi, ma una sola
Città, una sola patria, l'umanità nel tutto (cosmopolitismo). Certo,
l'interpretazione della legge e della giustizia come adeguazione all'ordine e
alla legge universali, in nome della comune umanità razio- nale, per cui tutti
gli uomini sono uguali, quando si era venuta formu- lando e!ltrO l'àmbito della
prima Stoà, in Grecia, rispondeva a precise esigenze, ed assumeva un carattere
politicamente rivoluzionario nei confronti delle strutture politico-sociali
delle Città-Stato, quali in par- ticolare si erano venute determinando dopo la
morte di Alessandro; si come, in altra situazione, la stessa vis polemica aveva
avuto l'appello alla convenzionalità della legge, ed allo Stato valido in
quanto costru- zione degli uomini, non soffocati nella libera esplicazione
della loro natura, che è di non aver natura ma di costruirsela (appello
formulato da alcuni dei primi solisti e dagli epicurei). Entro i termini,
invece, in cui viene ora prospettato il concetto di natura e di ragione
universale, che non esistono a sé, ma nel co-
41 stituirsi stesso del tutto, per cui tutto è là dove è
bene che sia, tutto ha il suo giustò posto, lo stesso appello al diritto naturale
assume una venatura ed un'accezione diversa. Se formalmente, infatti, per
natura tutti gli uomini sono uguali, sempre per natura ciascuno è diverso
dall'altro, ed entro l'ordine del tutto, in cui ogni parte è organo, di- verso
dall'altro, in funzione del tutto, ognuno ha da essere là dove è posto da
natura, in un'armonia si delle classi e degli uomini tra loro, ma dove ognuno
non può non restare se non dove è. D'altra parte, proprio perché ciascuno è là
dove deve essere, po- tendo entro i suoi limiti esplicare il proprio diritto,
nel rispetto, appunto, dei limiti e delle possibilità altrui, cioè nel rispetto
dell'ordine costi- tuito, non tutti possono aver la coscienza, o meglio la
conoscenza di quello che è l'ordine supremo, da cui deriva l'ordine umano. A
tale ordine, dunque, gli uomini vanno avviati da chi ne sia capace, dal saggio,
dal vir bonus, incarnazione della Legge, e, sia pur gradual- mente, da quella
Città in cui la classe dirigente, l'auctoritas, in nome del popolo,
costituendo, volendo un'armonia di Senato e di Popolo, ordini in armonia le
altre città e gli altri stati avvicinandosi con ciò all'ideale dell'unico
Stato. Non possiamo certo dire quanto Panezio abbia influenzato la concezione
politica di Scipione e del suo circolo, o, viceversa, quanto certe tesi
paneziane abbiano subito l'influenza della politica di Scipione. Ad ogni modo
nella situazione storica di Roma, la costituzione romana deve essere apparsa,
sia pur con tutti i suoi difetti, sia pur sfruttando miti e superstizioni
religiose (come malinconica- mente sottolinea il greco Polibio), rispetto alle
singole situazioni poli- tiche delle città greche, condizione della possibile
realizzazione dell'ar- monia delle genti ed internamente ad ogni stato
dell'armonia tra le classi. Non sembra cosi un caso che tanto Polibio quanto Panezio
abbiano esal- tato la costituzione romana (Cic., Rep., I, 21, 34), e che
Polibio, rifa- cendosi al motivo dicearchiano della "politèia" mista,
ne abbia visto la possibile realizzazione attraverso la Respublica romana,
mentre Panezio ha dato un contenuto teorico alla politica perseguit~ da Sci-
pione, il quale ha presentato se stesso come il salvatore della Patria e della
Respublica. Polibio,4 l'uomo che aveva combattuto contro Roma, in nome della f
Nato a Megalopoli nd 208 circa, Polibio fu, come ilpadre Licona (uno dei capi
della Lega Achea), avversario dei Romani. Vinti i Greci a Pidna nd 168, Polibio
venne inviato come ostaggio a Roma. A Roma divenne intimo della casa degli
Scipioni e, soprattutto, del giovane Scipione Emiliano. Maestro e consigliere
di lui, Polibio accom- pagnò Scipione l'Emiliano nelle sue varie spedizioni:
sia in quella che si concluse con la distruzione di Cartagine (146), sia in
quella contro Numanzio (134). Morl a 82 anni, nel 126, sembra per una caduta da
cavallo. Solo cinque libri restano dei quaranta della sua Storilt, che vuole
essere un'indagine documentata e obbieniva degli eventi (UI, 5, 58), libertà
della Grecia, che, come il padre Licorta, aveva avuto cospicua parte nella
storia della Lega Achea, che, dopo la vittoria romana del 168, fu in.viato
quale ostaggio a Roma, entrato in dimestichezza con la gente degli Scipioni, e
divenuto maestro e consigliere di Scipione Emiliano, al principio della sua
Storia (che vuoi essere una storia basata tutta sulle reali vicende umane e sui
fatti, •pragma- tica," l, 2), scrive: Chi può essere tanto stolto o pigro
da non sentire il desiderio di sapere come e sotto quale forma di governo i
Romani, in meno di cinquantatré anni [dal 221 al 169], fatto senza precedenti
ndla storia, abbiano conqui- stato quasi tutta la terra abitata? (I, l). Il
carattere peculiare della nostra opera dipende da quello che è il fatto piu
straordinario dc:i nostri tempi [la conquista romana]: poiché la sorte rivolse
in un'unica direzione le vicende di quasi tutta la terra abitata, e tutte le
costrinse a piegare a un solo e unico fine, bisogna che lo storico raccolga per
i lettori in una uni- taria visione d'insieme il vario operato con cui la
fortuna portò a compimento le cose dd mondo (I, 4). E nel VI libro si legge:
Chi ritiene impresa piu bella e piu grandiosa non solo guidare, ma sottomettere
e controllare altre. nazioni, cosi che tutti guardino a lui e si inchinino ai
suoi ordini, allora bisogna ammetta che la costituzione degli Spartani è
inadeguata e inferiore a qudla dei Romani. I fatti stessi ba- stano a provare
la maggiore efficienza della costituzione di Roma (VI, 50). Tre erano [al tempo
ddla battaglia di Canne] gli organi ddlo Stato che si spartivano l'autorità. Il
loro potere era cosi ben diviso e distri- buito, che neppure i Romani avrebbero
potuto dire con sicurezza se il loro governo fosse nd complesso aristocratico,
democratico, o monarchico. Né c'è da meravigliarsene, perché considerando il
potere dc:i consoli, si sarebbe detto lo stato romano di forma monarchica,
valutando quello del Senato lo si sarebbe detto aristocratico; se qualcuno
inqne avesse consi- derato l'autorità dd popolo, senz'altro avrebbe definito lo
Stato romano democratico. Le prerogative di ciascuno di questi organi ai tempi
della guerra annibalica e, tranne qualche piccola eccezione, ancora.ai nOstri
giorni, sono le stesse (VI, 11). Il rapporto tra le diverse autorità è cosi ben
congegnato, che non è possibile trovare una costituzione migliore di quella
romana. Quando infatti un pericolo comune sovrasti dall'esterno e costringa i
Romani a una concorde collaborazione, lo Stato acquista tale e tanto. potere,
che nulla viene trascurato, anzi tutti compiono quanto è ricercandone principi,
cause e pretesti (III, 6, 7) nel tempo e nello spazio, in una spie· gazione
razionale e scientifica del reale succedersi dei fatti (pragmaJica), che renda
conto di come Roma abbia potuto divenire il centro della storia. 43 necessario e i provvedimenti
non risultano mai presi in ritardo, poiché ogni cittadino singolarmente e
collettivamente collabora alla sua attuazione. Ne segue che i Romani sono
insuperabili e che la. loro costituzione è per- fetta sotto tutti i riguardi.
Quando poi, liberati dai timori esterni, essi go- dono del benessere seguito ai
loro fortunati successi e vivono in pace, se nell'ozio e nella tranquillità,
come suole accadere, qualcuno si abbandona alla prepotenza e alla superbia,
subito la costituzione interviene a difendere l'autorità dello Stato. Se
difatti uno degli organi che lo costituiscono diventa troppo potente in
confronto agli altri e agisce con tracotanza, non essendo esso indipendente
come abbiamo detto, ma essendo i singoli organi legati l'uno all'altro e
controllati nella loro azione, nessuno di essi può agire con violenza e di
propria iniziativa... (VI, 18). Non va ora scordato che questi testi del VI
libro, sulla costituzione romana, seguono ad alcune pagine dedicate da Polibio
alla nascita degli Stati, alle loro varie fasi, alla loro decadenza e
ricominciamento dal punto di partenza, in un andamento ciclico (VI, 1-10).
Polibio, rifacendosi, in parte, a Platone e ad Aristotele, per la teoria della
naturale trasformazione delle forme di governo, divenuta oramai un t6pos
("essa è stata esposta con particolare acume da Platone e da altri
filosofi," VI, 5), sottolinea che la prima forma di governo è la monarchia
la cui degenerazione è la tirannide, in contrasto alla quale sorge
l'aristocrazia la cui degenerazione è l'oligarchia, contro la quale si fa
avanti l'ordinato potere del popolo (democrazia), che tuttavia degenera nella
oclocrazia (potere della plebe). La moltitudine, abituata a consumare i beni
altrui e a vivere alle spalle del prossimo, quando ha un capo magnanimo e
ardito, che non può aspirare alle cariche pubbliche per la sua povertà, usa la
violenza e concordemente ricorre a uccisioni, esili, divisioni di terre, fino a
quando, ritornata allo stato selvaggio, ritrova un padrone e un monarca"
(VI, 9). Questa la rotazione delle forme di governo (1toÀ~-n:~6>v dV«XOXÀwatç,
politeiòn anak.Yklosis), processo naturale per il quale esse si trasformano,
deca- dono, ritornano al tipo originario (VI, 9). A prima vista sembra che la
costituzione romana, descritta subito dopo (VI, 11-18), non rientri in nessuna
delle tre succedentesi forme di governo. In effetti Polibio vede in essa la piu
alta forma di demo- crazia, la possibilità di salvare la libertà nell'ordine
dello stato costi- tuito come armonia dei poteri e come armonia tra gii Stati,
sotto la guida di Roma, e in Scipione l'Emiliano (se ne veda l'esaltazione in
XXXII, 8-16) l'uomo virtuoso, il princeps che può, almeno per un certo tempo,
salvare lo Stato e l'universale Stato dal disordine, dovuto a gruppi faziosi e
popolari - non è un caso l'accenno alla divisione delle terre, ove, forse, è
presente in Polibio la lotta condotta da Scipione contro Tiberio Gracco, - con
il conseguente ritorno a forme monarchiche e tiranniche, attraverso
l'ocloaalria. La posizione di Polibio e di Panezio (il loro avere recuperato
certe linee di una certa tradizione greca, in una sistemazione che rispondeva
alle esigenze politiche di una precisa classe romana) giustificava la giusta
azione di Roma, di fronte al discorso di Carneade sulla giustizia. La
repubblica (res-publica) fa dire Cicerone a Scipione è cosa del popolo
(res-popul1), ed il popolo poi non è qualsivoglia agglomerato di uomini riunito
in qualunque modo, ma una riunione di gente asse> ciata per accordo
nell'osservare la giustizia e per comunanza di interessi. La prima causa poi di
siffatto riunirsi non è tanto la debolezza, quanto una specie di istinto
associativo naturale; l'umano genere non è infatti isolato né vagantQ nella
solitudine, ma generato con carattere tale che, nemmeno in ogni sorta di
abbondanza... [e facilità di vita, l'individuo po- trebbe rimanere isolato1.
Motivo dell'associarsi non furono gli sbranamenti delle fiere, ma la stessa
natura ume.na, e il fatto che gli uomini si riunirono tra loro perché
rifuggivano naturalmente dalla solitudine e appetivano la comunione e la
società... Tutta la popolazione, che è costituita da un rag- gruppamento di
gente, tutta la città, che è l'ordinamento della popolazione, tutto lo Stato
che, come dissi, è cosa del popolo, deve esser retto da un governo cosciente,
onde essere duraturo. Ora delle tre tipiche forme di governo, la pio pericolosa
è quella che sorge dalla smodata libertà delle plebi.1Da questa suole sorgere
il potere degli ottimati o quello fazioso dei tiranni, o il regio o quello
popolare, e da esso suoi germogliare una qualche specie di regime di quelle che
già dissi, ed impressionanti sono i ritorni e quasi i cicli dei mutamenti e
delle vicissitudini negli ordina- menti politici; è proprio del filosofo
conoscerli, mentre il prevederli nel momento in cui incombono quando si è al
governo dello Stato, moderan- done il corso e mantenendolo in propria potestà,
questo è pregio solo di un grande cittadino e di un uomo quasi dit~ino. Sento
pertanto che la pio degna di approvazione è una quarta specie di ordinamento,
moderata e frammista di questi tre [monarchia-aristocrazia-democrazia1che ho
men- zionati per primi (Cic., De rep.). Il circolo sembra cosr chiudersi. Da un
lato abbiamo formulata e sistemata, attraverso il recupero di motivi stoici,
platonici, aristotelici (distaccati dai loro contesti), la visione di un tutto
razionalmente ordi- nato, ove ogni cosa è là dove deve essere, dove è giusto
che sia; dall'altro lato abbiamo, in funzione di un'azione politica, il
tentativo di un ordi- namento dello Stato, che trova il suo fondamento e la sua
giustifica- zione, la sua legalità, nello stesso ordine universale, nell'ordine
natu- rale, che, in quanto a tutti comune, per la comune razionalità, se for-
malmente dichiara tutti uguali e fratelli di fatto, in nome del diritto
naturale, del vinculum iuris e della giustizia, pone ciascuno a un certo posto,
dove i posti sono già dati per natura e, dunque, per legge. Entro questi
termini si vede bene; da parte romana, il tentativo di dare un fondamento
giuridico allo Stato di Roma, s! che il diritto positivo, quale si era venuto
determinando storicamente, trovasse la sua conferma in un diritto comune a
tutti, nel diritto, appunto, di natura, di modo che il vinculum iuris e il
vincolo su cui si articola il tutto coincidesse. Rompere q!Jel vincolo avrebbe
significato spezzare l'ordine costituito, rovesciare la respublica, venendo
meno alla giusti· zia e al diritto stesso, su cui si poteva basare la
"propaganda" di Roma e della sua classe dirigente in funzione dello
ius gentium. "Il consolidamento del territorio o della giurisdizione di
una na- zione, specialmente quando comprende tribu o distretti confinanti, non
può non far sorgere contemporaneamente la questione dei rapporti tra legge
nazionale e legge delle tribu o dei distretti: e la risposta non può essere
rimandata a lungo. Un qualsivoglia sistema 'comune' deve sorgere per rispondere
a questa pratica necessità, e il contenuto effet- tuale di questo sistema
dipenderà in ogni caso dalle condizioni in atto quando la necessità compare...
Roma incontrò questo problema nei primi tempi, relativamente, della sua storia
giuridica, quando l'in- fluenza della filosofia politica greca era forte e il
diritto romano ancora malleabile, e anzi piu suScettibile di influenze esterne
di quanto non divenne piu tardi, dopo che le sue leggi si furono sviluppate e
fissate in una tecnica tanto esigente da richiedere uno studio che escludeva
necessariamente gli altri rami del sapere. Avvenne cosi che i primi giuristi
romani poterono - e lo fecero, in effetti - fondere i principi filosofici greci
con le leggi locali della penisola italica, per formare il loro nascente
sistema giuridico; e per alcuni di essi questa fusione può avere gradualmente
·preso la forma di una identificazione piu o meno completa dello ius gentium -
un sistema 'comune' distillato in pratica dalle varie leggi locali di Roma.e
delle vicine tribu da ultime assogget- tate - con lo ius naturale che la
filosofia stoica aveva insegnato a consi- derare come un sistema 'comune' a
tutta l'umanità" (C. H. McLlwain, Il pensiero politico occidentale dai
Greci al tardo Medioevo, Venezia). Il motivo del diritto naturale, dunque, poté
servire in Roma, da fondamento e da giustificazione per l'azione politica della
classe diri- gente senatoriale e, piu tardi, attraverso l'idealizzazione della
figura di Scipione Emiliano (quale si rivela anche nel Somnium Scipionis di
Cicerone), soprattutto al tempo di Cicerone, quale giustificazione della
posizione assunta dalla classe degli uomini nuovi, e, ad un tempo, in nome della
1egge (espressione della legge razionale su cui si scan- disce il
tutto) a giustificare la conservazione dell'ordine dato, d'i contro a coloro
che tendevano a rompere quell'ordine, fossero i popolari o un Cesare. Tale, nel
suo fondo, la politica di Cicerone. Se, ora, la visione di Cicerone, la sua
interpretazione della concezione paneziana, retori- camente espressa volta a
volta a seconda di certe situazioni, spiega quella ch'egli dichiara difesa
della "res-publica," essa spiega anche, oltre la ripresa di motivi
platonici, aristotelici e stoici, l'avversione di Cicerone per i popolari e per
Cesare e la sua avversione per gli epi- curei, la cui filosofia, egli arriva a
dire, dovrebbe essere condannata non con ragionamenti, ma con un decreto legge
(De finibus, II, lO, 30). Basti qui ricordare la formulazione che del diritto
aveva dato Epicuro, coerentemente alla sua concezione che socialmente implicava
non un ordine dato, scandentesi su di un ordine universale e razionale, ma un
ordine e un equilibrio frutti dell'attività umana, per cui la razio- nalità è
conquista e azione, e la formulazione che, attraverso una rie- laborazione del
concetto di giustizia, di ordine, di legge-intelletto di Platone, mediante il
motivo della legge e della ragione propria di certe posizioni stoiche (Cleante,
Crisippo, Panezio) vien data del di- ritto naturale da Cicerone: lucidissima
formulazione di un concetto che s'era venuto elaborando in un secolo circa di
discussioni politiche, nell'àmbito di Roma, e che sta a fondamento di una
precisa presa di posizione. Diceva, dunque, Epicuro: Per tutti gli animali che
non poterono stringere patti per non ricevere né recarsi danno reciprocamente,
non esiste né il giusto né l'ingiusto, altrettanto per tutti quei popoli che
non vollero e non poterono porre patti per non ricevere e non recare danno
(Massime Capitali, XXXII). Non è la giustizia qualcosa che esiste di per sé, ma
solo nei rapporti reciproci e sempre a seconda dei luoghi dove si stringe un
accordo di non recare né di ricevere danno (Mass.). L'ingiustizia non è di per
sé un male, ma lo è per il timore che sorge dal sospetto di non poter sfuggire
a coloro che sono preposti alla punizione di tali azioni (Mass. Cap., XXXIV).
Da un punto di vista generale il diritto è uguale per tutti, poiché rap-
presenta l'utile nei rapporti reciproci, ma dal punto di vista delle parti-
colarità dei vari luoghi e di ogni genere di principt causali segue che una
medesima cosa non è per tutti giusta (Mass. Cap., XXXVI). Cicerone, invece,
proprio di contro alla tesi contrattualistica e con- venzionalistica di Epicuro
e di contro all'altrettanto contrattualistica e storicistica tesi di Carneade,
ambedue estremamente pericolose per uno Stato costituito, che, d'altra parte,
cercava giustificazione e fondamento alla propria politica universalistica,
dice. Vi è certo una vera legge, la retta ragione conforme a natura, diffusa
tra tutti, costante, eterna, che col suo comando invita al dovere, e col suo
divieto distoglie dalla frode; ma essa non comanda o vieta inutilmente agli
onesti né muove i disonesti col comandare o col vietare. A questa legge non è
lecito apportare modifiche né togliere alcunché né annullarla in blocco, e non
possiamo esserne esonerati né dal senato né dal popolo...; essa non sarà
diversa da Roma ad Atene o dall'oggi al domani, ma come unica, eterna,
immutabile legge governerà tutti i popoli ed in ogni tempo, e un solo dio sarà
comune guida e capo di tutti: quegli cioè che ritrovò, elaborò e sanzionò
questa legge; e chi non gli ubbidirà, fuggirà se stesso e, per aver rinnegato
la stessa natura umana, sconterà le piu gravi pene, anche se sarà riuscito a
sfuggire a quegli altri che solitamente sono con- siderati supplizi (Cic., De
rep., III, 33). Ancora una volta, sia pur nell'affermata uguaglianza di tutti
gli uomini, si rivela una precisa presa di posizione da parte di un preciso
partito politico. Assumono anzi un valore non poco indicativo certe battute
iniziali de)T,'! Leggi, in cui chiaramente si dice: Riallacciamoci, dunque,
nello stabilire la definizione del diritto, a quella legge suprema che è nata
tutti i secoli prima che alcuna legge sia mai stata scritta o che un qualche
Stato sia mai stato costituito... Dal momento, dunque, che dobbiamo mantenere e
conservare inalterate le condizioni di quello Stato, la cui forma Scipione ci
insegnò essere la migliore... e poiché tutte le leggi dovranno essere adattate
a quel genere di costituzione, occor- rendo anche inserirvi i principi morali
senza sancire ogni cosa.per scritto, trarrò fuori la radice del diritto dalla
natura, sotto la cui guida dobbiamo svolgere tutta questa discussione...
(Leggi, l, 19-20). Non solo, ma altrettanto indicativo è che alla tesi
postulata da Cicerone ("tutto l'universo è governato dalla potenza, dalla
ragione, dalla potestà, dall'intelletto, dal volere, o con qualsiasi altro
termine che indichi ciò che pensiamo": ib., 21), donde discende che il
tutto è come legalmente costituito, Cicerone stesso contrapponga la tesi epi-
curea, secondo la quale il "dio di nullà si cura né delle cose proprie né
delle altrui," e faccia dire ad Attico epicureo: "Te lo concedo, se
me lo chiedi: tanto per questo concerto di uccelli e risonare di acque" -
il dialogo si finge svolto in campagna - "non temo che mi senta al- cuno
dei miei condiscepoli" (ib., 21). In effetto l'uguaglianza di tutti gli
uomini - si dirà pio tardi di tutti gli animali, onde la giustizia è vincolo
universale degli esseri viventi - è un'uguaglianza relativa, ché già in
partenza sono date le disuguaglianze. L'uguaglianza è dovuta alla comune
ragione di cui ognuno partecipa, ma in gradi diversi. Entro il motivo stoico,
infatti, la comune ragione è la Ragione universale che realizza se
stessa me- diante gl'individui, onde ciascuno nel tutto e nella società deve
man- tenere il posto che gli è dato da natura, per cui il bene è conoscenza e
sta nel mantenere l'ordine dato. D'altra parte, entro i termini di questa
visione legale del tutto, se da un lato si giustificava l'azione politica e la
funzione cosmica (ordi- natrice) della classe senatoriale, dall'altro lato si
delineava la possibilità formale di un rispetto umano, che si concretava in
quel decoro, in quel dot1ere medio, in quella charitas humana, in quel vivere
conveniente- mente alla propria natura, di cui sembra abbia parlato Panezio, e
che sul piano pubblico diveniva, di contro ad altre posizioni politiche, ri-
spetto della res-publica e dovere di lavorare per essa. Di qui, anche, entro
quest'àmbito politico, l'importanza dello studio del diritto, della formulazione
della parola"della legge e della sua interpretazione, in quanto
rispecchiamento dell'ordine universale, della universale giusti- zia, o,
meglio, in quanto quell'ordine esiste appunto nella formulazione stessa della
legge. Sotto questo aspetto, in questo convergere fra giu- stizia formale e
giustizia sostanziale, il sapere giuridico diviene il fon- damento medesimo
della ricerca scientifica, diviene iuris prudentia, e, per·altro verso, studio
delle tecniche oratorie. Non sembra cosi un caso che fin dal principio le
persone che ruo- tarono intorno a Scipione Emiliano e che ebbero rapporti con
Polibio e con Panezio, si siano proclamate tutte vicine allo "
stoicismo" e siano state soprattutto personalità politiche, militari,
oratori e giuristi, a co- minciare da C. Lelio (nato nel 190 a. C. circa),
avversario dei Gracchi, detto sapiens, per la sua prudentia politica, amico di
Panezio; C. Fan- Dio, genero di Lelio, console nel 122, anch'egli amico di
Panezio, autore di Annales, contrario alla proposta di C. Gracco di concedete
la piena cittadinanza ai Latini e i diritti dei Latini agli ltalici; Blossio di
Cuma discepolo di Antipatro di Tarso, Quinto Mucio Scevola l'Au- gure (174
circa-87), Q. Elio Tuberone, avversario di Scipione Emiliano e di C. Gracco, Spurio
Mummio, vicino a Scipione e a Panezio, P. Rutilio Rufo (118-75), Q. Elio
Stilone (154-dopo il 90), maestro di Varrone e di Cicerone; per giungere a Q.
Mucio Scevola Pontefice, nato nel 140 circa, morto nell'87, vittima delle lotte
civili, celebre per la sua giu- stizia, giurista di grande valore, autore di
libri XV/Il iuris civilis, in cui cercò di dare un fondamento al diritto, e di
un'opera intitolata "Opo~ (H6rot) in cui dava definizioni (!Spo~) di
concetti giuridici e di rapporti giuridici, a L. Lucilio Balbo, anch'egli
giurista, discepolo di Q. Mucio Scevola, il Pontefice, a Q. Lucilio Balbo, al
quale Cice- rone assegna nel De natura deorum il compito di esporre le conce-
zioni stoiche sul divino; a M. Favonio (nato circa nel 90 a. C.), parti-
giano di Pompeo, ucciso dopo Filippi; a Cornificio Lung0, a Q. Vale- rio
Sorano; al celebre Catone Uticense, ch'ebbe a maestri gli stoici Atenodoro
Cordilione (da Pergamo, segui Catone, a Roma, ove rimase suo ospite) e
Antipatro di Tiro. Cicerone definl Catone stoico com- piuto, soprattutto per la
sua dirittura e constantia sapientis. Avversario di Cesare, in cui vedeva
l'attentatore alla libertas romana, a Utica, assediata da Cesare, nel 46 a. C.,
si tolse la vita. II suo suicidio è rima- sto un topos della letteratura stoica
e della teorizzazione del suicidio politico sul quale, poco prima di uccidersi,
sembra abbia discusso con Io stoico Apollonide (cfr. Plutarco, Catone, 55
sgg.). 4. Posidonio. Le sctenze. Ipparco di Nicea È stato detto che il gran
merito di Posidonio di Apamea,'1 scolaro di Panezio, vissuto tra il 135 e il 51
a. C., "fu di raggruppare, in modo piu completo di chiunque altro, la
massa di credenze che dominavano lo spirito degli uomini, dando ad esse una
forma singolare ed elo-.quente. II vasto insieme dei suoi scritti esprime con
una.pienezza unica Io spirito generale del mondo greco all'inizio dell'èra
cristiana: egli concentrò questo. spirito e lo rese consapevole. È per questa
ragione che, in seguito, gli scrittori che si occuparono di teologia, di
filosofia, ·di geografia o di scienze naturali, considerarono Posidonio come la
fonte piu abbondante e piu facilmente accessibile a cui attingere. Egli li
Posidonio, nato sul 135 a. C. ad Apamea, in Siria, a circa venti anni lasciò la
patria, dilaniata da lotte intestine, disprezzando, inoltre, la molle vita
delle città greco- siriache. Giunto ad Atene nel 115, entrò nella Stoà, allora
diretta da Panezio. Ritiratosi Panezio dall'insegnamento nel 110/109, Posidonio
lasciò Atene. Si mise in viaggio: fu in Africa settentrionale, in Gallia,
altrove. Dal 95 a.C. circa fissò la sua dimora in Rodi, ove,·divenuto celebre
per la sua cultura, il suo insegnamento, le sue ricerche scien- tifiche e
storiche, fu fatto cittadino onorario della città, occupandone anche la
pritania. Ambasciatore a Roma sostenne gli interessi di Rodi. In Rodi venne
visitato dalle mag- giori personalità del tempo. Tra gli altri lo fu da Pompeo,
e Cicerone si recò apposita- mente a Rodi per ascoltarlo. Morl nel 51 circa.
Delle moltissime opere di Posidonio, andate perdute, riferiamo qui i titoli
traman- dati: Fisica {~cnxòç ).6yoçl; Sull'universo (IIe:pt x6CJ!'OUl; Sugli
dèi (IIe:pt &t:wvl; Sugli eroi e sui dèmoni (IIcpt ijpc!!Cil\1 X(Xl
à(XLI'6116l\ll; Sul fato (IIt:pl &:(I'(XPI'évtJçl; “Sulla divinazione”
(IIt:pl I'(XVTLlrijc;;l; “Sull’anima” (IIcpl ~U)('ijt;l; Introduzione al lin-
guaggio (E!a(XyCilyi) ncpl >Jl;t:Cilç l; Contro Ermagora {Upòt;
'Epi'(Xy6p(X11 l; Srtl cri- terio (IIcpl TOU xpLTCptou l; Sulle passioni (IIcpl
7rot&wv l; Dottrina del carattere (:Eu\IT(Xy- V.CC mpt 6py'ijçl; “Sulle
virtu” (IIa:pl~~'lipCTW\1l; Etica ('Hihxòc;;~·Myoc;l; Protrepttci
(IIpOTpmTLXot); Sul dovere (IIr:pl wu xcx&Tjxo\ITOc;l; Esege# del Timeo di
Platone ('E~iJY1JaLç TOU IIM.TCil\10<;; TLI'(X(ou l; Sulle meteore (IIe:pl
!.I.ETC6lp6l11 l; Strlla gran- dezza del Sole {Ilcpl TOU 'H).(ou
l'cyi&ouc;l; Su Zmone (IIpòt; ZijiiCil\I(Xl; Sujl'oceano (Ilepl cllXC«VVul;Oltre
Polibio (TIZ I'CTii Ilo).(~L0\1l; Tattica (Téxll'll T(XXTLxij l; Lettere
('E7rLCJTOì.r&t l- 50 univa i vantaggi di uno stile attraente
e colorito a quelli di una enci- clopedia" (E. Bevan, Stoics and Sceptics,
Oxford, 1913}. D'altra parte, si è anche detto, il fatto che il nucleo degli
scritti di Posidonio fosse tratto dalla filosofia corrente delle scuole e dalle
credenze popolari accresce la difficoltà che sorge quando si cerca di
attribuirgli con sicu- rezza molte idee che ritroviamo presso scrittori a lui
posteriori. "Que- ste idee possono infatti essere giunte a questi
scrittori attraverso la mediazione di altri" (Bevan, cit.). Senza dubbio
dietro molte cogni- zioni di Cicerone, che ascoltò Posidonio a Rodi, di Filone
l'Ebreo, di Strabone, di Seneca e cosi via, c'è Posidonio, ma ci sono anche
quei molti manualetti di filosofia popolare, per lo piu di tipo stoico, che
sappiamo circolare nel 1 secolo a. C., e che erano compilazioni di luo- ghi
comuni, di sentenze correnti, di detti popolari. Impossibile rico- struire
attraverso le fonti una posizione, storicamente attendibile, di Posidonio, ché
a seconda delle fonti usate potremmo avere piu Posi- doni l'uno diverso
dall'altro; tuttavia mediante quelle fonti stesse, cri- ticamente vagliate, è
possibile cogliere un Posidonio volto, piu che a costruzioni astratte, a raccogliere
dati, descrivere e catalogare fenomeni, a rendersi conto e a rendere conto di
quei dati e di quei· fenomeni stessi, dai normali agli anormali
all'osservazione, si tratti di fenomeni fisici o di fenomeni cosiddetti
psichici, o di fatti storici, in un tenta- tivo, sembra, di dare una
spiegazione integrale dell'universo o, com'è stato detto, di "rendere
l'universo familiare agli uomini." Già un primo sguardo ai testi da cui si
traggono le testimonianze su Posidonio o entro cui si trovano citazioni da
Posidonio, rivela non solo la molteplicità degli interessi di lui in campi
molteplici, ma anche, e soprattutto, il fatto che Posidonio servi da fonte e da
informazione a uomini di culture diverse e mossi da interessi diversi. Chi si
limi- tasse a Cicerone o a Seneca avrebbe un Posidonio studioso di questioni
morali e sociali; chi si limitasse a Galeno avrebbe un Posidonio stu- dioso di
fenomeni psichici; chi si limitasse a Strabone o a Simplicio o a Stobeo o ad
Ateneo, avrebbe un Posidonio descrittore di fenomeni naturali, geometrici,
astronomici, astrologici, geografici, storici; chi si limitasse a Cicerone e a
Diogene Laerzio avrebbe un Posidonio assai vicino a un Cleante e a un Crisippo,
particolarmente in fisica. Abbiamo citato solo alcuni nomi di autori dalle cui
opere è possi- bile trarre informazioni su Posidonio, ma già questi sono assai
indi- cativi per mostrare da un lato gli aspetti diversi dell'opera posidoniana
e, dall'altro lato, l'impossibilità di ridurre il pensiero di Posidonio a una o
ad altra precisa dottrina. Cosi v'è chi, unilateralmente puntando su certe
fonti, da cui sem- bra apparire una qualche insistenza di Posidonio sulla lotta
tra un 51 principio positivo
e attivo e un principio negativo e passivo, tra forza attiva e materia, tenendo
presente l'origine orientale, siriaca di Posi- donio, ha fatto di Posidonio un
mistico, legato.a concezioni dualistico- religiose "orientalizzanti,"
che di contro al razionalismo unificante proprio dello stoicismo greco, avrebbe
inserito entro la concezione stoica il motivo di forze irrazionali, come
starebbe a dimostrare la polemica di Posidonio contro Crisippo e il primo
stoicismo che, ridu- cevano, invece, l'errore e il male a sbaglio logico,
negando l'esistenza di un'anima irrazionale, e sostenendo che le passioni non
sono che errori di giudizio. E cosi v'è chi - sempre escludendo quelli che sono
stati gli aspetti diciamo scientifici dell'indagine posidoniana, appunto perché
"scienti- fici" e non "filosofici" - ha cercato, spuntando
precise testimonianze, avulse dai loro contesti, di fondare tutta la concezione
di Posidonio sul motivo stoicheggiante della "simpatia" universale,
dimostrando come proprio in questo Posidonio si allontanasse dal maestro
Panezio, riallacciandosi allo stoicismo di Crisippo (diceva Crisippo che il
pneuma diffondendosi e penetrando ovunque, au!J.ftot&ét; ~nLV ot1Y.(j).ro
niv cfr. Arnim, II, fr. 473). Posidonio, ancm:a di contro a Panezio, avrebbe
ripreso la tesi della ciclicità del tutto i cui termini estremi, toccantisi,
sono dovuti alla conflagrazione (ecpirosis) del cosmo, in cui l'universo, che
si scandisce per degradazione nelle due zone del razionale e del- l'irrazionale
(aristotelicamente del sopralunare o celeste e del sublu- nare o terrestre e
mortale e corruttibile), si riassorbe tutto - ivi com- prese le anime umane -
nel l6gos universale. Entro questi termini (dovuti alle ricostruzioni dello
Schmekel e del Reinhardt, mentre molto piu cauto, usando tutte le fonti, appare
l'Edelstein) si è delineato un ben preciso sistema di Posidonio, in cui mentre
da un lato.sarebbero penetrati motivi mistici e irrazionali di provenienza
orientale, dall'altro lato tali motivi sarebbero stati spie- gati da Posidonio,
al di là delle tesi propriamente stoiche, mediante la concezione aristotelica
dell'universo distinto nelle due zone, celeste e sublunare, e la concezione
platonica dei due aspetti dell'anima, la razionale e l'irrazionale, in una
conseguente ripresa del dualismo pla- tonico, proprio del Timeo (sembra che
Posidonio abbia scritto un commento ·al Timeo) nella tensione tra Intelligenza
e Necessità. Posido- nio, dunque, avrebbe posto a fondamento del tutto due
principi attivo l'uno (~ò noLouv, tò poiun), passivo l'altro (~ò n«oxov, tò
paschon), in quanto materia sostanziale non avente alcuna qualità (Diogene L.,
VII, 134). "La materia e sostanza di tutto, Posidonio disse che è senza
qualità e senza forma, non avente né una forma distinta per sé né una qualità
in sé" (Doxographi Graeci, p. 458, 811). L'altro principio, il principio
attivo o divino, è alito caldo, pneuf!Ja e fuoco, forza vitale che, pur senza
forma, si diffonde e dà forma alla materia informe, esso l6gos dando a tutti
una ragione, una propria ragion d'essere. "Dice Posidonio:.&&6c;
la-rL 7tV&:U(.Lot vo&:pòv 8L~xov 8L' &:7tl%<71jc; oòatotc;: dio
è alito razionale diffuso per tutta la materia" (Commenta Lucani, ed. H.
Husener, ad. v. 578, p. 305). Ne discende che la realtà qual è scaturisCe nelle
sue qualificazioni, cominciando dagli elementi (fuoco, aria, acqua, terra),
dalla tensione tra il principio attivo e quello pas- sivo in una gradazione che
va dal superorganico (l'originario fuoco, l'originaria forza, il l6gos divino,
inesistente in sé quale realtà tra- scendente) all'organico e all'inorganico, dal
razionale (di cui parteci- pano dèi e uomini) all'irrazionale, al limite, al
corpo, come termine estremo e affievolito dal diffondersi del pneuma. Di qui la
distinzione tra un mondo celeste e divino ed un mondo sublunare e corporeo,
cor- ruttibile, già oltre la natura e sottoposto al fato. "Dice Posidonio
che il fato è terzo dopo Zeus. Primo è Zeus, seconda la natura, terzo il
fato" (Doxographi graeci, 234a, 4). L'irrazionalità, dunque, in quanto
mancanza di organicità, di razionalità, di ordine collegante ("sim-
patia") è propria del mondo corporeo e, perciò, anche dell'uomo in quanto
corpo, impulsività (primo aspetto dell'anima irrazionale) e desiderio (secondo
aspetto dell'anima irrazionale). Le passioni non sono, quindi, dovute ad un
errore di giudizio, ma hanno una loro realtà, accanto all'altro aspetto
altrettanto reale dell'uomo, che è, in lui, la forza egemonica, la razionalità
(anima razionale), mediante la quale l'uomo può coordinare le passioni, con ciò
facendosi specchio di quell'ordine che è costituito dal divino 16gos o pneuma
che si dif- fonde e si realizza nell'ordine con cui appare il tutto. Animato il
tutto per la razionalità o forza vitale e organica che gradatamente per il
tutto si diffonde sino al limite del corporeo e dell'irrazionale, posto l'uomo come
nesso tra l'irrazionale e il razionale, oltre l'uomo, tra l'uomo e il principio
divino, vi è tutta una serie di anime, di demoni e di eroi intermediari.
Secondo certi stoici, scrive Alessandro Polii- store, "l'aria è tutta
piena di anime, venerate come demoni ed eroi; sono esse che mandano agli uomini
sogni e presagi" (in Diogene L., VIII, 32). E tale tesi è da Cicerone (De
divinatione, l, 64) attribuita a Posidonio. Di qui, sembra, il motivo
posidoniano della divinazione e, sul piano della "simpatia," il
significato che vengono ad avere le congiunzioni stellari e i loro influssi,
attraverso le graduazioni demo- niche, sulle cose e sugli uoplÌni (cfr. Ario
Didimo, f. 32 in Doxographi Graeci, p. 466, 18; Achille Tazio, lsagoge in Arati
Phaenomena, c. 10), ché, appunto, le stelle e gli astri sono divinità. Senza
dubbio stoica, nel suo complesso, la concezione di Posidonio, 53 si capisce d'altra parte
com'essa sia stata detta eretica e platonizzante nei confronti dello stoicismo
primo, e non solo per ciò che riguarda la "fisica" - secondo Diogene
Laerzio, VII, 41, Posidonio poneva, nell'ordine degli studi, innanzi tutto la
fisica, - ma anche, paralle- lamente, per ciò che riguarda l'"etica,"
soprattutto per la minuziosa indagine posidoniana delle passioni, dell'irrazionale
e del male, del fato, che sono propri della natura umana, ad essa radicati e
che si risolvono solo, platonicamente, in un controllo delle passioni, in una
sapiente misura, per cui è possibile da parte di chi sa, di chi ha com- preso e
studiato le umane passioni e gli umani caratteri, un'educazione dell'anima,
mediante l'indicazione di un ordinamento delle passioni stesse, in cui consiste
la razionalità, in un amore di sé come armonia, specchio dell'armonia del
tutto, che diviene ad un tempo amore degli altri, in quanto tutti, cose e
uomini, sono come organi di un solo orga- nismo (dr. in particolare, per
l'analisi delle passioni e per la loro terapia, Galeno, De plac. Hipp. 6t
Plat., libri IV e V). Sotto questo aspetto, la funzione del filosofo, in quanto
saggio, è d'essere educatore e, per ciò stesso, socialmente e politicamente
impegnato. Molti piu frammenti e testimonianze abbiamo relativamente alle
ricerche ed alle scoperte scientifiche di Posidonio. Innanzi tutto sap- piamo
che gran parte delle sue descrizioni di fenomeni, dei suoi cal- coli, delle sue
dottrine, sono dovuti a osservazioni dirette, a minuziose raccolte di dati,
opportunamente vagliati e non solo catalogati. Sap- piamo altres1 che
Posidonio, nato in Siria, ad Apamea (città greca sull'Oronte, fondata un secolo
e mezzo circa prima della sua nascita), abbandonò ancora giovane la patria,
dilaniata da lotte intestine, da guerre tra città e città, nella corsa al
potere dell'uno o dell'altro prin- cipe della oramai distrutta casa seleucida.
Due frammenti di Posidonio parlano, anzi, del suo disprezzo per la vita molle
delle città grcco- siriache e per la "miserabile farsa delle loro
operazioni militari" (cfr. Bevan, cit.). Da Apamea Posidonio venne ad
Atene, ove entrò nella scuola di Panezio circa nel 115 a. C. Dopo la morte di
Panézio (110/09) viaggiò molto: fu in Africa settentrionale fino alle colonne
d'Ercole (Strabone testimonia ch'egli vide coi proprt occhi calare il sole di
là dei limiti del mondo sconosciuto: III, l, 5, 138; che vide alberi popolati di
scimmie: XVIII, 3, 4, 827). Visita l'entroterra di Marsiglia e in quei villaggi
barbari vide teste umane appese alle porte delle capanne (Strabone, IV, 5,
198); e, sempre spinto dalla sua curio- sità e dall'esigenza delle sue
ricerche,· fu ovunque nel mondo occiden- tale conquistato e ordinato da Roma.
Da circa il 95 a. C. in poi fissò la sua dimora in Rodi, la patria di Panezio,
ove scrisse le sue opere, insegnò, divenne celebre, cittadino onorario di Rodi,
di cui occupò 54 anche la pritania, e per cui andò ambasciatore a
Roma, visitato dai romani che passavano per Rodi (come fu il caso di Pompeo) o
che da lui veniv,ano appositamente per studiare, come fu il caso di Cicerone.
Sono tutti dati molto indicativi. Discepolo di Panezio, quando Panezio era
scolarca della Stoà ad Atene, Posidonio, in effetto, non fu stoico di
professione, non fu scolarca della Stoà, legato cioè a certe regole. Viaggiò
molto, raccolse u n notevole materiale di osservazioni. non s'impegnò mai con
un partito, né fu cliente, tanto che fissò la sua dimora a Rodi, la città
rimasta piu libera del mondo dominato da Roma. Il complesso delle sue ricerche
e delle sue osservazioni lo portarono non solo a raccogliere e a descrivere un
materiale di prim'ordine in tutti i campi delle scienze naturali (astronomia,
meteorologia, geo- grafia), ma anche a formulare teorie che furono fondamentali
per ulteriori ricerche e che chiaramente dimostrano la precisione del me- todo
proprio dei precedenti grandi ricercatori di Alessandria. In astro- nomia,
Posidonio, riallacciandosi alla misurazione del diametro del sole ottenuta da
Aristarco e migliorata da lpparco di Nicea e rifacendosi a un calcolo di
Archimede, giunse a dare la misura del diametro del sole e della distanza di esso
dalla terra che piu si approssima alle misure calcolate oggi, spiegando anche
perché il sole appare piu grande sul filo dell'orizzonte che non nel cielo
aperto (cfr. Plinio, Nat. ·hist., II, 85; VI, 57), mentre descriveva il
fenomeno della rifrazione atmo- sferica (cfr. Cleomede, Sul moto circolare dei
corpi celesti), Posidonio poi, rifacendosi all'analisi che delle maree avevano
dato Eratostene e Seleuco di Seleucia, mediante osservazioni proprie, fatte
dalle coste della Spagna atlantica, sostenne che le maree sono dovute agli
sposta- menti della luna, descrivendo, per primo, i tre periodi delle maree:
alta e bassa marea quotidiana; alta e bassa marea mensile; alta e bassa marea
annuale. Il fenomeno è, secondo Posidonio, dovuto all'influenza della luna e degli
altri astri sulla terra, entro l'ambito della simpatia universale. Celebri
furono anche le descrizioni e catalogazioni, meto- dicamente effettuate da
Posidonio, dei fenomeni sismici, ch'egli, con Aristotele, spiegava mediante
l'ipotesi che i movimenti terrestri fos- sero dovuti all'aria circolante nelle
cavità sotterranee, e la descrizione della formazione delle comete. Si è detto,
infine, che Posidonio è stato il fondatore dell'"etnologia." In
effetto, Posidonio, rifacendosi a de- scrizioni di popoli date da Erodoto e da
Polibio, alle analisi dei carat- teri umani e dei popoli di certi testi
ippocratici, mediante osservazioni proprie, ha cercato di determinare i
caratteri fisici e i tratti psicologici di ciascun popolo, spiegando tale
rapporto psico-fisico con l'influenza dei climi. Egli ha cosi nettamente
distinto ·i popoli europei del nord
55 dai popoli europei del bacino mediterraneo. Ha
sottolineato che i popoli del nord e quelli delle zone tropicali, gli uni per
il troppo freddo, gli altri per il troppo caldo, hanno intelligenza ottusa,
mentre i popoli che vivono in clima temperato hanno intelligenza vivace, e in
loro prende il sopravvento il l6gos, la razionalità, fonte di civiltà e di
equilibrio. Ogni natura (piante, animali, uomini) si determina qual è nel suo
luogo naturale, ma quando viene trasportata in altra regione si adatta poco a
poco ai caratteri del nuovo ambiente, finché ne assume la natura propria.
Abbiamo, non a caso, citato il nome di Archimede (cfr. sopra, I vol.) e il nome
di Ipparco. Ipparco di Nicea, in Bitinia, nacque intorno al 180, mori nel 125,
visse ad Alessandria e a Rodi, dove compf la maggior parte delle sue
osservazioni. Non è qui il luogo per descri- vere le scoperte di Ipparco e i
suoi calcoli. Basti ricordare ch'egli ottenne la possibilità di determinare la
posizione delle stelle (calcolò la posizione di circa 800 stelle) e di farne un
catalogo, appurandone la grandezza a seconda della loro luminosità, calcolando
la loro longi- tudine e latitudine, mediante processi matematici, per i quali,
usando pratiche babilonesi, determinò i fondamenti della trigonometria. Posto
un circolo, egli lo divise in 36 gradi, ogni grado in 60 minuti e cia- scun
minuto in sessanta secondi. " Dividendo poi il diametro in 120 parti, Ipparco
cercò di calcolare, con procedimenti teorici, di cui troviamo l'applicazione in
Tolomeo, e non con semplici approssima- zioni pratiche, il valore delle corde
in rapporto a queste parti del diametro. Non solo, ma per rendere piu comodi e
piu rapidi i calcoli astronomici nei quali dovevano essere utilizzati i diversi
valori delle corde, ne stabiH una vera 'tavola' cominciando da un angolo di una
metà dì grado e successivamente procedendo per metà di grado. Si vede di quale
aiuto poteva essere una tale tavola, e quale ·precisione un simile procedimento
trigonometrico dava alla espressione matema- tica delle osservazioni
astronomiche" (P. Brunet, La science dans l'an- tiquité, in Histoire de la
Science, a cura di M. Daumas, Parigi, p. 266). Su questa base scaturisce il
tentativo di Ipparco di applicare le costruzioni geometriche alla realtà
concreta dei fenomeni osservati. Solo dopo la piu attenta.osservazione del
movimento di ciascun astro, delle sue eccezioni, della sua grandezza e periodo,
per cui Ipparco, oltre la tavola trigonometrica, si costruf degli strumenti
nuovi (per la misura del diametro apparente del sole e della luna, costruf uno
stru- mento migliore di quello che s'era fatto Archimede, in quanto munito
oltre che di un punto visivo mobile, di un punto visivo fisso con cui con
esattezza si otteneva il dia~etro angolare dell'astro), è possibile passare
alla costruzione geometrica che renda ragione delle apparenze. 56
Ipparco cosi, studiando il sole, dimostrò per via di misurazione la ine-
guaglianza delle stagioni, mediante gli eccentrici e gli epicicli, deter-
minando la posizione del sole per ogni giorno dell'anno, giungendo quindi a
formulare la celebre teoria della "precessione degli equinozi."
Ipparco, infine, sempre sul piano del calcolo e della misurazione con- tinuò
l'opera geografico-matematica di Eratostene, sviluppando l'uso delle coordinate
geografiche, cioè introducendo paralleli e meridiani, indicando cosi le regole
geometriche mediante cui è possibile disegnare carte piane del cielo e della
terra. Sembra che per la rappresentazione del cielo abbia proposto una
proiezione stereografica e per quella della terra una proiezione ortografica
(cfr. Brunet, cit., p. 273). A parte i risulçati di Ipparco, ciò che
soprattutto interessa sotto- lineare qui è il tipo della sua ricerca, che, sul
piano di un Archimede, di un Eratostene, sul piano di quella ch'era divenuta la
ricerca propria dei "filosofi" di Alessandria"',
indipendentemente da pregiudiziali teo- logiche, da costruzioni già date
"a priori," si fonda sull'osservazione sperimentale, e, attraverso
questa, senza rimanere preso dalla pura enumerazione dei fenomeni, vien
determinando una teoria, che serva a rendere ragione dei fenomeni osservati,
attraverso il calcolo e la misura- zione matematica (che assumono il valore di
strumento, si come gli strumenti veri e propri che servono per quelle
misurazioni e calcoli me- desimi, come n'è esempio il nuovo astrolabio
inventato da Ipparco). D'altra parte, ciò che, come abbiamo detto, colpisce
particolarmente chi studia come si sono costituite le scienze dei primi
"filosofi" di Alessandria, fino a un Eratostene, un Archimede, un
lpparco, se da un lato è la prevalenza data all'osservazione diretta e allo
studio delle condizioni che permettono l'una e l'altra ricerca, che diviene
scienza, appunto, a seconda dell'uso corretto delle sue stesse limitazioni,
dal- l'altro lato, ed entro lo studio di quelle condizioni medesime, è l'allon-
tanamento dalla prima impostazione dovuta agl'immediati discepoli di Aristotele,
che, in un'accentuazione dell'ultimo Aristotele, per il peri- colo sempre
implicito in Aristotele che per il suo legame con Platone si era mantenuto sul
piano delle "forme" e quindi sempre della filosofia intesa come
teologia, avevano decisamente puntato sulla mèra raccolta di dati,
sull'enumerazione, che in quanto tale, rende alla fine impossibile il sapere.
Molto bene ciò si nota quando chiaramente si vede (si cfr. particolarmente
Archimede) da un lato l'importanza data all'esperienza, all'osservazione, alla
catalogazione dei fenomeni nor- mali e anormali, ma dall'altro lato, attraverso
la stessa analisi dei feno- meni, alla invenzione di ipotesi che riescano
concretamente a spiegare in unità una molteplicità di fatti. Tutto ciò,
naturalmente, era pio facile finché si trattava, entro l'ambito di ciascuna
scienza di trovare 57 le
condizioni dell'una e dell'altra. Piu difficile lo fu per ·la fisica e
particolarmente per l'astronomia. L'astronomia, e per altro verso la fisica,
dopo Platone - si pensi in special modo alla soluzione del Timeo, delle Leggi e
dell'Epinomide, e all'importanza politica ch'ebbe per Platone quella soluzione
- andò ·a cozzare contro il motivo (d'altra parte ripreso da Aristotele) del
movimento circolare e uni- forme dei cieli. Con esso, che, in quanto movimento
perfetto e razio- nale, veniva identificato con la divinità, entrava in
contrasto il rispetto dei fatti e diveniva estremamente astratta la riduzione
della fisica e dell'astronomia a teologia, ché la soluzione geometrico-matematica
dei fenomeni (la "salvazione dei fenomeni") correva il rischio di
passare da strumento esplicativo a costruzione per sé stante entro cui, poi,
dovevano essere costretti i fenomeni. I termini del contrasto si vedono bene
quando si pensi all'accanto- namento della teologia operato in Alessandria
dagli "istorici" e poi, andando oltre essi, dai "filosofi"
che usarono la matematica e la geo- metria come strumenti esplicativi dei dati
Bsservati e sperimentati, finché alla loro volta in altri ambienti (sempre per
sottintese esigenze politiche) quelle ipotesi geometrico-matematiche tornarono
ad avere la funzione che avevano assunto in Platone e in Aristotele,
definitiva- mente teologizzando la filosofia. Per altro verso, tale contrasto
si vede bene allorché si dia il debito peso alla polemica di Epicuro e
all'ipotesi della struttura dell'universo costituito di atomi e di semi vitali,
e al "casuale" incontro di quegli atomi, ove la razionalità non è piu
un dato, una forma per sé, ma una conquista. Sia pur giungendo a solu- zioni
diverse - a parte la componente del primo scetticismo.e della seconda
Accademia, - anche l'ipotesi del primo stoicismo (Zenone) e il motivo della
"simpatia" (Crisippo}, potevano servire alla costi- tuzione di una
fisica autonoma, o, per lo meno, alla giustificazione di certe esperienze
religiose, non razionali, che s'erano delineate sem- pre di piu in ambienti
popolari, lasciti di antiche credenze, di antichi miti e riti. · Ora, una
piuttosto ampia documentazione mostra un Posidonio assai vicino al metodo
d'indagine proprio di Ipparco di Nicea: analisi minuta e diretta di fenomeni,
uso.di certi ritrovati matematici e geo- metrici in funzione della spiegazione
dei dati stessi; ma anche studio minuto e diretto di fenomeni psichici (forze
irrazionali, caratteri di- versi, e cos{ via); registrazione di fenomeni fuori
dell'usuale. Di qui, da parte di Posidonio, nella sua palese esigenza di
rendere "familiare l'universo agli uomini," il recupero del motivo
stoico della "simpatia" e della ipotesi stoica, mediante cui è
possibile pensare la realtà, per cui a fondamento del tutto stanno due principi
non qualitativamente determinati, non aventi cioè "forma": da un lato
urra quantità assolutamente indefinita, dall'altro lato una forza. Dalla tensione
dei due termini si costituiscono e si qualificano le cose, onde l'ordine e la
razionalità non son presupposti, "forme," ma si costituiscono nella
stessa tensione dei due termini, in un conflitto ove la misura e la razionalità
sono un'operazione, ove operativa è la stessa scienza e la saggezza, e dove la
religiosità consiste da un lato nel sentirsi dipendere dalle forze irrazionali
(documentate dall'esperienza, testimoniate dalle tradizioni religiose popolari,
dai misteri) dall'altro lato nell'operare, mediante il l6gos, su quelle forze,
costituendo un'armonia che è la stessa razio- nalità. Giuoco di forze
l'universo, giuoco di forze l'uomo; il l6gos, che è soffio vitale (pneuma),
scaturisce dall'equilibrio di quelle forze nella con-passione (simpatia) dell'una
e dell'altra forza, e perciò nel- l'organarsi dell'una e dell'altra cosa,
dell'una e dell'altra forza vitale (anima), onde le reciproche influenze e
simpatie, ivi comprese le influenze stellari, come, ad esempio, le maree dovute
alla Luna, e i rapporti tra le anime incorporate e le anime (pnéumata) che per
gradi si trovano tra il l6gos e i corpi. Sembra, cosi, chiaro come per
Posidonio, curioso di ogni aspetto della realtà, dei fatti della natura e dei
fatti umani, la "filosofia" sia scienza in quanto consapevolezza
dell'operatività del sapere, mediante cui se da una parte è possibile rendere
"familiare l'universo," dall'altra parte, entro un tale universo
familiarizzato, è possibile rendere docile la natura, dare all'uomo, operando
sulla natura, una vita civile. Vi è a tal proposito una testimonianza preziosa
di Seneca (Lettere a Lucilio, XIV, 90). Seneca discute e critica la tesi
posidoniana, sostenendo che pur riconoscendo a Posidonio d'aver "portato
un gran contributo alla filosofia" (Lett. a Luc., 90, 6-7), non può
ammettere oon Posidonio che la filosofia sia tecnica, sia operatività, che
mediante la filosofia si siano costituite e abbiano progredito le tecniche, che
naturalmente modifi- cano e trasformano la natura in funzione del benessere
umano: dalle tecniche per costruire case alle tecniche per fare il pane, alle
tecniche per coltivare (agricoltura), alle tecniche per avere le case
riscaldate, comode, a quelle per costruire tavole, e cosi via. "Non posso
concedere a Posidonio che la filosofia abbia trovato le arti di uso comune, né
saprei darle la gloria dei mestieri fabbrili. La sapienza sta piu in alto, non
delle mani maestra, ma delle anime (sapientia altius sedet nec manus edocet,
animorum magistra est)" (Lett. a Luc., 90, 7, 25-26). Nella polemica di
Seneca - e si vedranno le ragioni per cui Seneca dà àlla filosofia un compito
liberatore, il compito di purificare l'anima, di curarla, per condurla alla
contemplazione del divino, in un'evasione da questo mondo - sembra chiarirsi
l'atteggiamento proprio di Posi-
59 donio, anche nel campo piu strettamente politico, ché,
appunto, anche la politica è saggezza, e, in quanto tale, è operativa, cioè
capacità da parte del saggio di costituire, di creare un ordine tra le
passioni, in un equilibrio che è conquista, e che, in quanto equilibrio, è, ad
un tempo, giustizia. Sappiamo, ora, che Cicerone, il quale aveva ascoltato
Posidonio a Rodi e che con Posidonio era entrato in dimestichezza, tanto da
inviar- gli la Storia del proprio consolato, perché il grande storico la usasse
per la sua opera (può essere abbastanza sintomatico che la richiesta di
Cicerone sia rimasta senza risposta), fece largo uso delle notizie, dei dati,
delle singole dottrine scientifiche di Posidonio, e soprattutto della tesi posidoniana
relativa all'unificazione delle scienze nella filosofia, ma in funzione della
cultura enciclopedica propugnata da Cicerone, utile per la formazione
dell'oratore (cfr. particolarmente, De Oratore, III, 55 sgg., 57, 61, 87 sgg.).
Anche; tale deviazione ciceroniana è piuttosto indicativa, come lo è il
fattiféhe, appunto, il successo che ebbe Posi- donio nel futuro della cultura
fu dovuto essenzialmente alla mèsse di notizie, di dati, di istorie, che si
sono ritrovate in lui, usato soprat- tutto come una specie di enciclopedia del
sapere. Sembra, infine, che Posidonio, sottolineando i rapporti intercorrenti
degli oggetti che scaturiscono dalla tensione tra i due principi nell'or-
ganarsi delle cose sotto la spinta del l6gos, del pneuma, abbia da un lato giustificato
sul piano di un'ipotesi le possibili influenze dell'una stella sull'altra e
delle stelle e degli astri sulla terra e sulle cose della terra, ivi compreso
l'uomo (astrologia); dall'altro lato, posto che per gradi di affievolimento,
non giungendo il 16gos a tutto, vi è una zona che rimane come abbandonata a sé,
pura quanticl, abbia con ciò giu- stificato non solo le passioni e il caso, ma
anche indicato la possibilicl di operare, mediante.il 16gos umano, su quella
zona, qualificando certe cose, cioè trasformando il loro primigenio aspetto in
altro. Posi- donio, pare, giustificava cosf tutta una serie di esperienze che
aveva determinato la tradizione astrologica (di provenienza caldaica) e tutta
un'altra serie di esperienze che, pur rifacendosi all'astrologia, si era
delineata per un verso nella fiducia di costituire delle tecniche mediante cui
con la natura trasformare la natura (alchimia, magia), e per altro verso
operando su certe cose, in rapporto diretto con una o altra influenza stellare,
influire sulle stelle stesse e perciò sugli uomini e sugli dèi (magia
astrologica). Anche se, indirettamente, alcune testimonianze hanno fatto pen-
sare che Posidonio abbia raccolto del materiale intorno alla storia della magia
e abbia descritto esperienze magiche, e abbia inoltre composto una specie di
storia dell'astrologia- che, si badi, nell'antichità non era affatto 60
distinta dall'astronomia - il silenzio di Cicerone, il quale, cÒmunque,
sostiene che tra gli stoici il solo Panezio avrebbe rifiutato gli "astro-
logorum praedicta" (De divinat., II, 88), e il silenzio, in merito, di
fonti piu tarde, non permettono un piu lungo discorso. Ha, invece, una sua
importanza l'accostamento tra Posidonio e Democrito fatto da Seneca nella citata
Lettera a Luci/io. Dopo avere negato che le tecniche e le invenzioni siano
frutto della filosofia e della saggezza come avrebbe voluto Posidonio, Seneca
cita Democrito: il medesimo Democrito trovò come si leviga l'avorio, come un
sassolino sottoposto a cottura si trasforma in uno smeraldo, come anche oggi,
cuo- cendoli, si colorano certi sassi adatti a essere cosf colorati. Ora, anche
se un saggio ha fatto queste scoperte, non le ha fatte perché era un saggio
(Seneca, Lettere a Lucilio, 90, 33). Cultura e politica nell'ultima fase
della Repubblica. Cicerone. Lucrezio. L'avvento di Augusto l. La Nuova
Accademia: da Clitomaco, Carmada e Metrodoro di Stratonica a Filone di Larissa
e Antioco di Ascalona. Cicerone È noto come, ancora una volta, bisogna rifarsi
a Cicerone per rico- struire, molto approssimativamente, quello che fu il
pensiero di Filone di Larissa e di Antioco di Ascalona, l'uno e l'altro per un
certo periodo della loro vita scolarchi dell'Accademia (Filone dal 110 all'88
a. C. circa; Antioco sembra dall'87 al 68); e come, in effetto, sia la
posizione di Filone sia quella di Antioco, e il conflitto tra di loro, si
possano comprendere solo attraverso il filtro di Cicerone e le sue intenzioni.
Secondo l'Academicorum index herculanensis (XXV, l, 36; XXIV, 28; XXIX, 39.; XXX,
5), a Carneade, ritiratosi per vecchiaia e malattia nel 137, successero nello
scolarcato dell'Accademia, prima Carneade di Polemarco, morto nel131, poi
Cratete di Tarso, al quale, morto nel 129, successe un altro discepolo di
Carneade, Clitomaco, detto Asdrubale, nato a Cartagine riel 187 circa. Carneade
di Polemarco e Cratete di Tarso non sono piu che dei nomi.1 Dello stesso
Clitomaco" sappiamo pochissimo. Venuto ad Atene 1 Per la vita di Carneade
cfr. I volume. Dci primi successori di Carneade sappiamo pochissimo, in realtà
solo i nomi: Carneade d i Polcmarco, scolarca dal 137 al 131; Cratctc di Tarso,
scolarca dal 131 al 129; Clitomaco Asdrubale di Cartagine, scolarca dal 129 al
11o. Sembra che Clitomaco, per un qualche disguido con Carneade, nel 140 - nato
nel 187 circa a Cartagine, aveva allora 47 anni - abbia aperto una scuola per
conto suo. Ciò renderebbe conto del perché Carneade ritiratosi
dall'insegnamento nel 137, piuttosto che Clitomaco abbia designato alla sua
successione, prima Carneade di Polemarco, poi Cra- tcte di Tarso. Solo dopo la
morte di Carneade e di Cratcte, Clitomaco, ritenuto il piu fedele interprete
del pensiero di Carneade, poté essere nominato scolarca dell'Accademia. Delle
sue molte opere (400 secondo Diogene Laerzio, IV, 67) non abbiamo che notizie.
La piu celebre è una storia della dottrina sulla sospensione dell'assenso, in 4
lihr'i. Si ricorda anche uno scritto sulle sètte. Per il resto si veda sopra,
s{ come a veda sopra ciò che riguarda le varie correnti determinatesi in seno
all'Accademia al tempo di Clitomaco.
95 su1 ventiquattro anni (cosi secondo l'lndex
herculanensis, XXIV, 2; mentre secondo Diogene Laerzio, IV, 67, sui quaranta),
aperto alle discussioni piu vive del suo tempo - egli discusse e approfondi le
tesi dei peripatetici, degli stoici, degli accademici: cfr. Diogene L., IV, 67
- Clitomaco fu noto soprattutto per i suoi scritti con i quali divulgò il
pensiero di Carneade, da lui frequentato per una ventina d'anni, dandone
evidentemente una sua interpretazione (si ricordi che Carneade non aveva
scritto nulla). Non sembra un caso, anzi, che con- temporaneamente a Clitomaco,
di contro a lui, altri discepoli di Car- neade abbiano sostenuto che
diversamente andava interpretato Carneade. Delle moltissime opere di Clitomaco
(circa quattrocento, sostiene Diogene Laerzio, IV, 67), quasi tutte relative
all'esplicazione del pen- siero di Carneade (Diogene L., Il, 92, cita anche un
suo scritto su Le scuole filosofiche e Cicerone, Tusc. disp., III, 22, 54, un
suo scritto consolatorio inviato ai Cartaginesi in occasione della distruzione
della città), Cicerone apertamente dichiara di conoscerne e usarne, per esporre
la tesi di Carneade sulla "sospensione del giudizio," tre, di cui due
dedicate al poeta Caio Lucio e al console L. Censorino, ed una, piu Si veda
sopra anche per Callide, Carmada, Metrodoro di Stratonica e i loro relativi
disce- poli. A Clitomaco successe nel 110/109 Filone di Larissa. Nato a
Larissa, in Tessaglia, nel 160/159 circa, Filone fin da giovane potE _ascol-
tare l'insegnamento dell'accademico Callide che a Larissa dirigeva una
diramazione dell'Accademia. Sui ventiquattro anni, nel 136 circa, passò ad
Atene, entrando nell'Acca- demia, sotto la direzione di Clitomaco. A Clitomaco,
mono nel 110 a.C. circa, suc· cesse quale scolarca dell'Accademia. Filone resse
l'Accademia fino all'88. Nell'88, allo scoppio della guerra mitridatica, si
recò a Roma, dove prosegui il suo insegnamento, e dove, sembra, mori intorno al
79. Nulla·~ rimasto dell'opera di Filone se non scarsi frammenti e
testimonianze di un suo scritto Sulla filosofia e la notizia di un. suo lavoro,
composto a Roma, che si sarebbe non poco spostato dallà linea
Carneade-Clitomaco-Carmada seguita da Filone finchE sog· giornò ad Atene.
Antioco nacque ad Ascalona, in Palestina, tra il 140 e il 130 a. C.:Venuto ad
Atene da giovane, segui per molti anni l'insegnamento di Filone. Nell'88 quando
Filone si trasferl a Roma, Antioco si recò ad Alessandria, passando prima per
Roma dove conobbe Lucullo. Nell'86 era sicuramente ad Alessandria con Lucullo.
Nel 79 era ceno ad Atene, scolarca dell'Accademia. Segui poi Lucullo nella
spedizione di Siria, durante la seconda guerra mitridatica, assistendo alla
battaglia di Tigranocerta (69 a. C.). Mori nel 68 circa. Delle molte opere di
Antioco.non possediamo nulla se non ciò che riferisce Cicerone, in panicolare
di una, il Sosus. Il Sosus fu composto da Antioco, al tempo del suo sog· giorno
ad Alessandria, per controbattere e confutare lo scritto dell'antico maestro
Filone giuntagli da Roma e che lo aveva indignato. Si veda nel testo i termini
e il significato della polemica Filone-Antioco. Se già Filone.aveva dato un
nuovo indirizzo all'Accade- mia, per cui si disse ch'egli era stato il
fondatore di una quana Accademia; piu deciso ancora verso un aspetto piu
dogmatico fu l'indirizzo dato da Antioco per ciò detto il fondatore della
quinta Accademia ("Di Accademie, come dicono i piu, ce ne sono state tre:
la prima e piu antica fu quella di Platone, la seconda, o media, quella di
Areesilao, uditore di Polemone, la terza e nuova quella di Carneade e
Clitomaco. Alcuni ne aggiun· gono una quarta, quella di Filone e Carmada, e
altri ne contano una quinta, quella di Antioco": Sesto Empirico, Pyrr.
hypoth., l, 220). 96 ampia intitolata, appunto, Sospmsione del
giudizio, in quattro libri, nei quali venivano esposte e discusse le tesi di
Arcesilao e di Carneade. Non dirò nulla - sottolinea Cicerone - di cui si possa
sospettare che sia una mia invenzione: riprenderò tutto da Clitomaco, vissuto
con Car- neade fino alla vecchiaia, uomo di acutezza veramente cartaginese, c
so- prattutto accurato e zelante. Abbiamo di lui quattro libri sulla
sospensione dell'assenso (de sustinendis.assensionibus)... Ho esposto sopra,
sull'autorità di Clitomaco, come Carneade spiegasse il suo probabilismo.
Ascoltate ora come tale problema sia presentato da Clitomaco stesso, nel libro
da lui dedicato al poeta Lucilio, dopo averne dedicato un altro, sullo stesso
argo- mento, a L. Ccnsorino, che fu console con M. Manilio (Cic., Lucullus,
XXXI, 98; XXXI1, 102). A quanto sembra Cicerone riteneva che Clitomaco fosse
stato un espositore accurato e fedele di Carneade (del suo zelo analitico e
della sua prolissità parla anche Sesto Empirico, Adv. math., IX, l, che, d'altra
parte, accomuna sempre il nome di Clitomaco a quello di Carneade, Pyrrh.
hypot., l, 220, 230), soprattutto per ciò che riguarda quello che dovètte
essere il motivo piu discusso nella scuola, in polemica con i fondamenti della
logica stoica, e cioè il motivo dell'assenso cui si accom- pagnava la
possibilità o meno del criterio del probabile, che a sua volta coinvolgeva la
possibilità o meno della fiducia nell'azione. In due modi, aggiunge Clitomaco,
si può intendere l'affermazione: il sapiente sospende l'assenso; l) che il
sapiente non dà il proprio assenso a nulla; 2) che si trattiene dal rispondere,
senza dichiarare se approva o no, senza negare, senza affermare. Clitomaco
ammette la prima inter- pretazione, c non dà mai il suo assenso: adotta anche
la seconda c, tenendo ferma la sola probabilità, risponde si o no, a seconda
che ciò che si presenta sia piu o meno probabile..., ma solo per quelle
appercezioni che spingono all'azione, e per quelle, mediante cui possiamo,
quando si venga inte~ro gati, rispondere in uno o altro senso, non seguendo
che le apparenze, dato, tuttavia, che non diamo il nostro assenso (Cic.,
Lucullus, XXXII, 104). Sembrerebbe, dunque, che la interpretazione data da
Clitomaco della posizione di Carneade - sulla scia di Carneade egli mostrava
anche come tutte le tesi che sostengono la possibilità di un sapere assoluto
siano controvertibili: cfr. Sesto Empirico, Adv. math., IX, l - s i risol-
vesse sul piano della totale sospensione, allorché si tratta del vero in
assoluto, onde il sapiente non solo non può proclamare alcuna verità, ma,
conseguentemente, neppure accettare una qualsiasi opinione: se tutto è
opinione, nulla è opinione, ché assumendo una qualsiasi opi- 97 nione già si distinguerebbe
tra vero e opinabile. Solo che allora, pro- seguendo coerentemente su questa
via, sarebbe impossibile il criterio del "probabile," sia pur sul
piano dell'azione (dice Sesto che "gli Acca- demici assentiscono a
qualcosa con predilezione e, per cosi dire, con simpatia, accompagnata da un
forte volere": Pyrrh. hypot., l, 230). Se l'una rapppresentazione vale
l'altra, non si capisce come l'una, sul piano del volere, sia da preferire
all'altra, sia piu probabile dell'altra. E per ciò verrebbe a cadere anche la
retorica propugnata da Clitomaco (cfr. Sesto, Adv. math., II, 20 sgg.), che di
contro alla dannosità della retorica comune, basata sofisticamente sulla
possibilità di muovere gli affetti, sosteneva che la vera retorica
consisterebbe nell'avviare a ben pensare, attraverso lo studio e la discussione
delle varie opinioni dei filosofi. Ma se l'una opinione vale l'altra, l'un
giudizio vale l'altro, nep- pure è possibile pensare bene o pensare male, ed
altro non resterebbe che il silenzio. Tali, sembra, le obbiezioni che in seno
alla scuola furono mosse a Clitomaco da altri discepoli di Carneade, i quali
tesero a dare del mae- stro un'interpretazione piu temperata e meno esclusiva.
Su questa linea, per quel poco che ne sappiamo, si mossero particolarmente
Carmada e Metrodoro di Stratonica. Certo, delle molte discussioni che fiorirono
intorno al modo di interpretare il genuino pensiero di Carneade poco o nulla
sappiamo, se non, appunto, che l'Accademia sembrò un "uni- verso
coro" (Sesto Emp., Adv. math., IX, 1). Cosi, di Callide che diresse una
diramazione dell'Accademia a Larissa, di Zenodoro di Tiro che ne diresse una ad
Alessandria, di Hagnone di Tarso che scrisse un'opera Contro i retori, di
Melanzio di Rodi e di Eschine di Napoli, non abbiamo che notizie esteriori
(cfr., per Callide e Zenodoro, lndex herc., XXXV, 36; XXXIII, 8; XXIII, 2; per
Hagnone, Quintiliano, lnst. or., II, 17, 15; per Melanzio ed Eschine, Cicerone,
Lucullus, VI, 16; De Oratore, l, 45; Diogene Laerzio, II, 64). Tutti, comunque,
appaiono impegnati intorno alla questione della "sospensione
dell'assenso" e sulla sua portata pratica, da un lato di contro a certa
verità assoluta colta dagli stoici, di là dalla loro stessa impostazione
logico-empiristica, che non poteva non condurre al silenzio, dall'altro lato di
contro al peri- colo, portando ad estrema conseguenza la "sospensione del
giudizio" sul piano teoretico, di rimanere in silenzio, cioè nell'assoluta
impossi- bilità di pensare e di agire. Entro i termini di tali discussioni si
mossero Carmada e Metrodoro di Stratonica. Di Carmada si dice che fosse
bravissimo oratore, che celebre fosse la sua memoria (cfr. Cicerone, Tusc.
disp., l, 24, 59; De Oratore, II, 88, 360; Lucullus, VI, 16), che, fedelissimo
di Carneade (ne imitava perfino la voce: Cicerone, Orator, XVI, 51), ne
seguisse il metodo (cfr. Cicerone, De Oratore, I, 18, 84),
discutendo le varie opi- nioni, non tanto per far prevalere l'una o l'altra,
quanto per richiamare sempre chiunque ad un controllato atteggiamento critico,
in cui, d'altra parte, consisteva per Carneade, come già per Clitomaco, la
retorica da opporre alla cosiddetta "retorica comune." Ma proprio
perché fosse possibile la riduzione dell'atteggiamento carneadiano a tecnica
retorica, mediante cui, dalla discussione di tutte le opinioni, escludendo ogni
passaggio dall'opinione al vero in assoluto, si potesse assumere, sul piano
pratico, una certa opinione che servisse piu di un'altra, sia nel discorso sia
nellfl spinta all'azione, era necessario scostarsi dalla sospen- sione assoluta
propugnata da Clitomaco. Ugualmente sembra che Me- trodoro di Stratonica -
sottolinea il Dal Pra - " sia stato del parere che conveniva senz'altro
riconoscere l'inevitabil~tà dell'assunzione di qualche opinione e di qualche
posizione; lo scettico stesso non è pertanto che non abbia alcuna opinione ed
alcuna posizione; piuttosto egli attri- buisce alla sua opinione o posizione un
valore ben diverso da quello che gli stoici attribuivano alla loro verità. Per
mantenersi nello scetti- cismo basterebbe pertanto riconoscere la differenza
tra verità ed opi- nione e convenire che non si può dare se non opinione, ossia
una persuasione pragmatica, una certezza che è d'altra parte sufficiente per la
condotta della vita" (Lo scetticismo greco, Milano, 1950, pp. 227-28). In
effetto la discussione si manteneva qui - entro l'àmbito delle scuole di Atene
- sul piano della piu acuta tradizione greca relativa alla problematica logica,
scaturita dalla questione dell'aderenza o meno dei termini del discorso alla
cosa significata. Se si ritiene che il discorso verace sia quel discorso che
corrisponde nel rapporto soggetto-predicato a reali rapporti di inerem:a propri
delle cose, onde, pur usando nomi, i nomi sono tuttavia simboli significanti
realmente le cose e il discorso è tale in quanto riflette il discorso del reale
(in senso aristotelico); allora, posto che rimane sempre in dubbio che la
rappresentazione, l'immagine o il nome, corrisponda a ciò che è, alla cosa, e
che, quindi, lo stesso discorso. sia arbitrario, ne deriva che si debba
sospendere ogni giudizio, cioè che non si debba né affermare né negare qualcosa
di qualche altra cosa, perché ciò implicherebbe sempre l'affermazione o la
negazione di un'inerenza di cui non potremmo dir niente; su questo piano,
probabilmente essendo inadeguato ogni giudizio, si elimina la possibilità del
discorso verace e, per ciò, altro non resta che il silenzio, un pieno ritorno
all'afasia di Pirrone. Oppure, se si ritiene (riallaccian- dosi al tipo di
logica scaturita dalle discussioni intorno all'analitica e all'inerenza
necessaria di Aristotele, e delineatasi attraverso la tema- tica dei sillogismi
ipotetici di Teofrasto e l'implicazione di Diodoro Crono e di Filone
Megarico),,che il discorso si fondi su rappresenta- 99 zioni (già esse giudizi e
proposizioni, e non soggetti e predicati), non perciò analizzabili, sulla cui
veracità ed esistenzialità assumiamo fede in quanto afferrano piu fortemente di
altre, ne deriva che il discorso si costituisce di rapporti tra
rapprèsentazioni-giudizi, la cui implica- zione è dovuta al ricordo e, dunque,
all'anticipazione. Perciò verace o no è il discorso, se corretta o meno è la
implicazione, indipendente- mente dall'adeguazione o meno, nel giudizio, alla
reale ineremea (di qui i sillogismi ipotetici, e ipoteticamente il porsi delle
possibili strutture della realtà); se si ritiene E:iÒ, si può benissimo, sul
piano della verità in sé e della esatta corrispondenza tra rappresentazione e
cosa rappre- sentata, parlare di sospensione del giudizio e di non assenso,
mentre sul piano del discorso si può parlare di probabilità relativamente a ciò
che esso significa, assumendo quel discorso che appare come il meno con-
traddittorio, cioè il piu probabile, il piu credibile (nr.kv6v, pithanòn). In
altri termini, se sul piano del vero non c'è nessun "criterio" che
permette di sostenere che le cose sono comprensibili (per cui può anche darsi
che lo siano), onde non si può parlare né di vero né di falso, sul piano,
invece, delle rappresentazioni, quali si presentano alla mente, indipendentemente
dal loro corrispondere o meno alla cosa, si può par- Jare, relativamente a ciò
che appare, di verità e di falsità. Il remo che nell'acqua appare spezzato e
fuori dell'acqua diritto, può darsi che in sé sia spezzato o diritto: perciò su
questo sospendiamo il giudizio; solo che è vero che ai sensi appare··spezzato
ed è vero che ai sensi appare diritto, ma anche che, se piu evidente è
attraverso l'impres- sione stessa, ch'è diritto, è vero, nel giudizio, che è
diritto ed è falso che è spezzato, e perciò l'assenso è di probabilità (per
l'esempio del remo, o per quello del colore cangiante delle piume del collo
della colomba, cfr. Cicerone, Lucullus, XXV-XXVI). Tale, sembra, la posizione
di Fi- lone di Larissa che, discepolo diretto di Clitomaco, al quale successe nella
direzione dell'Accademia, alla morte di Clitomaco, avvenuta nel 110/109 a. C.,
fu piu vicino alla interpretazione che di Carneade ave- vano dato Carmada (di
cui furono scolari Diodoro e Metrodoro di Scepsi, ma dei quali non abbiamo che
i nomi: cfr. lndex herc., XXXV, 39; Cicerone, De Oratore, II, 88, 360; Plinio,
Nat. hist., VII, 24, 89) e Metrodoro di Stratonica (di cui furono scolari
Metrodoro di Pitane e Metrodoro di Cizico, e anche dei quali non sappiamo che i
nomi: cfr. lndex herc., XXXVI, 11 e XXXV, 33). Cosi: Sesto Empirico (Pyrrh.
hyp., I, 235), brevemente esponendo la tesi di Filone di Larissa, scrive:
"Filone afferma che relativamente al criterio stoico, cioè la
rappresentazione catalettica, le. cose sono in- comprensibili; ma relativamente
alla natura delle cose, esse sono com- prensibili." Il criterio stoico non
garantirebbe cioè se le cose siano o no 100 comprensibili. Ma
proprio questo, appunto perché non si· può dire quando una cosa sia o non sia
compresa, non esclude che le cose in quanto tali siano comprensibili.
"Noi," sottolinea Cicerone, che in questo passo, su sua
testimonianza, si riferisce a Filone, "non neghiamo quello che ·si
presenta chiaro come la luce, ma diciamo che quelle stesse cose che voi
stoicamente dite di percepire e di comprendere, a noi sembrano probabili"
(Le~cullus, XXXII, 105). Di qui deriverebbe la sottile distinzione posta da
Filone tra evidenza e ' percezione: evi- denti o incerte le cose in quanto
presenti alla mente in modo piu o meno forte, ciò non significa ch'esse siano
di per sé percepite e non percepite (cfr. Cicerone, Lucullus, X, 32; Xl, 34). E
cosi, all'abbiezione che Antioco di Ascalona - discepolo dapprima di Filone, ma
poi deci- samente volto a uno stoicismo del tipo di quello di Cleante - avrebbe
mosso a Filone: se assumiamo la proposizione alcune rappresentazioni sono
false, e quindi affermiamo esse non differiscono in nulla dalle vere, si cade
in contraddizione, perché, accordata la prima e riconosciuta dunque una qualche
differenza tra le rappresentazioni, la prima viene negata dalla seconda che
dichiara le rappresentazioni false simili alle vere; Filone avrebbe risposto:
"l'abbiezione sarebbe giusta se toglies- simo del tutto la verità: ma non
lo facciamo; noi discerniamo tanto il vero quanto il falso, solo ch'essi si
presentano sotto l'aspetto della probabilità, poiché non abbiamo alcun segno
che indichi la perce- zione" (Cicerone, Lucullus, XXXIV, 111). Sembra,
dunque, che Filone svolgesse la propria discussione su due piani diversi. Da un
lato, egli, riallacciandosi ad una certa tradizione (da Democrito a Carneade),
negava la possibilità (sia coi sensi, sia con la ragione) di cogliere quelle
che sono le strutture proprie della realtà, che resta di là dalle possibilità
umane, e intorno a cui si sospende ogni giudizio o si parla per via di ipotesi;
dall'altro lato, perciò, entro l'arco del discorso umano, Filone poneva la
possibilità di costituire discorsi piu o meno probabili. Di qui la funzione
della esperienza e della ragionata esperienza e della ragione che, se rimane
sospesa sul piano dell'essere, è valida, con i suoi sillogismi, la sua dial~ca,
la discussione delle opinioni, dei pro e dei contra, sul piano umano: " p
e r navigare, seminare, sposarsi, avere figli, fare infinite altre cose, per le
quali la sola probabilità può essere di guida" (Cicerone, Lucul- lus,
XXXIV, 109). • Si capisce in tal modo perché Filone, andando a ritroso nella
storia del pensiero greco, abbia ritenuto che la genuina tradizione filosofica
si dovesse rintracciare in quei pensatori che avevano messo in discus- sione la
possibilità di cogliere le strutture della realtà, avanzando ipo- tesi e
prospettando ragioni non contraddittorie, che permette~sero la 101 pensabilità del reale, onde
la possibilità di molteplici spiegazioni, ed entro la discussione di queste
l'opzione per quelle che possano servire di piu, che siano utili alla vita, o,
per lo meno, ad una presunta utilità, un presunto bene della vita. E per ciò Filone
poteva sostenere che egli, in effetto, rappresentava il piu intimo platonismo
e, dunque, l'Ac- cademia, interpretando il platonismo da un: lato sul piano dei
dialoghi socratici, dall'altro lato sottolineando dei dialoghi della maturità
di Platone l'aspetto dialettico e problematico, insistendo sul mito e sul
verosimile, compresi come ipotesi di spiegazione, in funzione della vita
pratica e associata, per cui poteva sostenere che in realtà non v'era stata una
prima e una seconda Accademia, ma che unico n'era stato sempre l'intento.
Filone ha sostenuto nelle sue opere - e l'abbiamo ascoltato dalla sua stessa
bocca - che non vi sono affatto due Accademie, e dimostrava in modo
irrefutabile ch'erano in errore coloro che cosi pensavano... Chiamano nuova
quest'Accademia, se nell'antica si deve collocare Platone. Comunque, Platone,
nei suoi scritti, non afferma nulla, discute spesso il pro e il contro,
interroga su ogni argomento, senza mai giungere a qualcosa di certo. Tuttavia,
si chiami pure, se si vuole, antica Accademia· quella di cui ho parlato ora, e
nuova quella che si è continuata fino a Carneade, quarto successore di
Arcesilao, e che non si discostò dai principr del suo fon- datore... Arcesilao
diresse i propd.attacchi contro Zenone, non per per- tinacia, o per ambizione
di vincere, ma a causa dell'oscurità di quelle questioni che avevano condotto
Socrate a confessare la propria ignoranza, e, prima dì Socrate, Democrito,
Anassagora, Empedocle e quasi tutti gli antichi. Sostennero che nulla si può
conoscere, nulla comprendere, nulla sapere; che limitati sono i sensi, deboli
gli intelletti, breve la vita, e la verità, come diceva Democrito, immersa nel
profondo; che tutto dipende dalle opinioni e dalle convenzioni; che nulla può
esser lasciato alla verità; e che, infine, tutto è circonfuso di tenebre. Arcesilao,
cosi, affermava che nulla si può sapere, neppure ciò che Socrate s'era
mantenuto (Cicerone, Va"o, IV, 13; XII, 46 e 44; si cfr. anche Lucullus,
XXIII, dove sono an- cora citati Anassagora, Democrito, Empedocle, Socrate,
Platone, e accanto a loro Metrodorò di Chio, Stilpone, Diodoro Crono, Alexino,
i Cirenaici). Di qui, dunque, il valore dato all'opinione, alle discussioni
dèlle opinioni, mediantt cui determinare ipotesi piu probabili di altre, in una
continua apertura della ricerca, s1 che la ricerca stessa si costituisca come
regola con cui individuare ciò che serve (bene) o non serve (male) alla vita,
al convivere. Non sembra, perciò, un caso, secondo la testimonianza di Stobeo
(Ecl., Il, 40), che Filone, in un suo libro sulla funzione della filosofia,
paragonasse la filosofia alla medicina e il filosofo al medico, che sostenesse
che la f).Inzione della filosofia consiste nell'av- 102 viare a
purgarsi dalle opinioni unilaterali e perciò stesso false (I libro),
determinando quindi i beni e i mali (II libro), quale possa essere il fine -
cioè la felicità - cui l'uomo deve tendere (III libro), quali le varie forme di
vita - per chi, in senso particolare; e come, entro i termini della convivenza
politica, in senso generale, - quali, per l'uomo comune - per chi non è
sapiente - i precetti e le regole da seguire (IV libro). Pur- troppo il rapido
sunto dato da Stobeo e la frammentarietà degli Accademici di Cicerone - nei
quali, sembra, si doveva trattare anche l'aspetto dell'etica di Filone - non
permettono di renderei conto se sul piano pratico e accettando una verosimile
ipotesi, che potesse inter- pretarsi in chiave platonica, Filone abbia proposto
l'ipotesi stoica del- l'ordine entro cui tutto si scandisce ed entro cui
ciascuno deve assu- mere il posto che gli spetta. Tale sembra l'interpretazione
di Numenio (in Eusebio, Praep. ev., XIV, 9, l) e di Agostino (Contra Ac., III,
18, 41), i quali sostengono che Filone dapprima nemico giurato degli stoici,
sarebbe poi passato allo stoicismo (Numenio), riducendo lo stoicismo a
platonismo (Agostino). Senza dubbio Cicerone (Varro e Lucullus), discorrendo
dell'aspro conflitto che sarebbe scoppiato tra Filone e An- tioco di Ascalona,
fa intravedere questo passaggio di Filone. Ad ogni modo, interessante sembra la
notizia (Cicerone) che Filone avrebbe particolarmente sottolineato l'utilità
pratica della piu generale tési stoica dell'ordine, quando da Atene (nell'88.
circa, all'epoca della prima guerra Mitrìdatica) passò a Roma (da dove non si
sarebbe piu mosso, e dove forse mori nel 79 circa), entrando in diretto.
contatto con gli uomini che in quel tempo conducevano la politica romana.
Secondo Cicerone, Filone, dopo essere giunto a Roma, scrisse un'opera in due
libri, che pervenuta nelle mani del suo ex scolaro Antioco di Ascalona che,
allora, si trovava ad Alessandria, ne suscitò grande indignazione. Mentre ero
proquestore ·ad Alessandria - fa dire Cicerone a Lucullo, che fu appunto ad
Alessandria come proquestore nell'87, - con me era Antioco, egià prima di noi
era giunto ad Alessandria Eraclito di Tiro, amico di Antioco, che per parecchi
anni aveva studiato sotto Clitomaco e Filone: egli fu uomo di valore e celebre
in questa filosofia, che, quasi abbandonata, torna oggi alla ribalta. Spesso ho
ascoltato Antioco discutere con lui, ma, sempre, dall'una e dall'altra parte
con dolcezza. Fu proprio allora che i due libri di Filone, recentemente portati
ad Alessandria, per- vennero per la prima volta, tra le mani di Antioco.
Quest'uomo, per na- tura dolcissimo (nulla avrebbe potuto essere piu mite di
lui), violentemente si arrabbiò. Me ne sorpresi, ché fino ad allora non l'avevo
mai visto in quelle condizioni. Appellandosi alla memoria di Eraclito, gli
domandava se quei libri gli sembrassero di Filone, o se ma:i avesse ascoltato
aualcosa di simile, sia da Filone, sia da qualche altro accademico. Eraclito
diceva di no, ma riconosceva lo stile di Filone, né era possibile dubitarne.
Erano presenti anche gli amici miei P. e C. Selio e Tetrilio Rogo, uomini
dotti, i quali assicuravano di avere ascoltato a Roma sostenere quegli stessi
prin- cipi da Filone, e che avevano copiato i due libri dal manoscritto
dell'autore. Antioco trattò allora Filone ancora peggio e alla fine non poté
tenersi dal pubblicare contro il suo maestro un libro intitolato Sosus
(Cicerone, Lucullus, IV, 11-12). Antioco, nato ad Ascalona in Palestina (cfr.
Strabone, XVI, 2, 29), tra il 140 e il 130 (di circa venticinque anni piu
giovane di Filone), venuto ad Atene in gioventu, segu(per molti anni
l'insegnamento di Filone, facendo parte dell'Accademia di cui difese con zelo
le tesi fondamentali, discutendo particolarmente contro la posizione stoica di
Mnesarco (successo nel 110 a Panezio nella direzione della Stoà) e di Dardano.
Circa al tempo in cui Filone lasciò Atene (88 a. C.) per andare a Roma, Antioco
lasciò Atene per recarsi ad Alessandria. Forse era passato prima per Roma.
Certo si legò di amicizia con Lucullo. Nel 79 Antioco era ad Atene, scolarca
dell'Accademia, e là lo ascoltll Cicerone, recatosi ad Atene al tempo della
dittatura di Silla. Nel 74, quando Lucullo fu nominato console e condusse le
truppe durante la seconda guerra mitridatica, che vittoriosamente per Roma si
concluse con la battaglia di Tigranocerta (69 a. C.), Antioco segu(Lucullo in
Siria. Mod nel 68 a. C. Senza dubbio Antioco, come risulta dal Lucullus di
Cicerone - in cui da un lato per bocca di Lucullo si espone la tesi di Antioco,
IV-XIX; e dall'altro lato si difende, per bocca di Cicerone stesso, la
posizione di Filone e dell'Accademia in genere, XX-XLVII, - era passato da un
atteggiamento piu strettamente critico, da una posizione vicina a quella di
Carneade, di Clitomaco e di Filone (del Filone almeno del periodo di Atene) ad
una posizione piu dogmatica, avvici- nandosi decisamente a tesi stoiche:
anch'egli, sembra, al tempo in cui entrò in piu stretti contatti con l'ambiente
romano e particolarmente con un uomo come Lucullo. La malignità di Cicerone,
secondo cui alcuni avrebbero sostenuto che Antioco aveva abbandonati i suoi an-
tichi amori e le tesi di Filone, quando anche lui ebbe scolari e sperll ch'essi
in futuro sarebbero stati detti "antiocheni," è una malignità assai
indicativa quando si pensi che i discepoli di Antioco erano soprat- tutto
romani (cfr. Lucullus, XXII, 69-70). Curiosa sembra allora la rot- tura tra
Antioco e Filone, se essa è dovuta, come pare, all'irritazione che Antioco
provò per il passaggio da parte di Filone allo stoicismo, passaggio documentato
dall'opera di Filone, scritta a Roma, giunta ad Antioco che si trO\'llva ad
Alessandria. Antioco scrisse allora 11 ~osus, in cui, soprUtutto, secondo
quanto riferisce Cicerone, cerca di demo- lire il motivo del
"probabilismo" e della"sospensione." Gli argomenti contro
la tesi del "probabile" e contro la "sospensione" ricalcano
la linea con cui Zenone, Cleante, Crisippo, Antipatro di Tarso sostenevano la
"fantasia catalettica" e l'"assenso" e con cui Platone, nel
T~~teto, affermava che l'atto del giudizio è dovuto all'anima (Cicerone,
Lucullus, VII, 19-22); ma ciò che piu colpisce è il fatto che secondo Antioco,
il "probabile," l"'evidenza," non bastano per assicurare un
certo fonda- mento a un certo tipo di vita, per convincere e persuadere a
vivere secondo l'ordine del tutto. Ma è la conoscenza delle virtU che innanzi
tutto ci assicura che molte cose possono essere percepite e comprese. In esse
sole, diciamo, è la scienza: la scienza, secondo noi, è non solo comprensione
degli oggetti, ma comprensione stabile e immutabile; lo stesso è per la
saggezza, per l'arte di vivere, che ha in se medesima la propria invariabilità.
Se tale invariabilità non implica alcuna percezione e conoscenza, io domando
donde viene e come è nata... Perché l'uomo onesto s'imporrebbe (egole, anche
severe, perché non tradirebbe il suo dovere o la sua fede, se non possiede
alcuna comprensione, percezione, conoscenza, nulla che fondi le ragioni della
sua azione? Sarebbe impossibile che si stimassero l'equità e la fede date ad un
prezzo tale da non indietreggiare dinanzi ad alcun supplizio per osservarle, se
non vi fosse assenso a realtà che possono essere false. Se la saggezza stessa
ignora se è o no saggezza, come, prima di tutto, assumerà il nome di saggezza?
E poi come oserà fare qualsiasi cosa, o agire con fiducia se non avrà nessuna
idea certa da seguire? Poiché avrà dubbi sul termine e il fine dei beni, non
sapendo a cosa riferirli, come potrà essere saggezza? È chiaro anche che
bisogna stabilire un principio che la saggezza deve seguire, quando comincia ad
agire, e che tale prin- cipio dev'essere conforme a natura. Se no, la tendenza
(traduco cosf horml), mediante cui siamo mossi ad agire ed a cercare ciò che ci
è sem- brato bene, non potrebbe esser messa in movimento. Ma la rappresentazione
che la mette in moto deve dapprima apparire ed essere creduta vera, il che
sarebbe impossibile se una rappresentazione vera non potesse esser distinta da
una rappresentazione falsa. Come l'anima potrebbe essere spmta a ricercare un
oggetto se non percepisse se l'oggetto che le appare è con- forme o estraneo
alla natura?... Se la tesi di Filone fosse vera sopprime- rebbe interamente la
ragione che è luce e fiaccola della vita. In ogni ri- cerca, è la ragione che
offre il principio e che conduce la virtU al proprio bene, poiché la virtU non
è che la ragione stessa fortificata da questa ri- cerca. Desiderio di
conoscenza è la ricerca e scoperta è il fine della ricerca. Ma non si scoprono
cose false; anche gli oggetti incerti non possono essere scoperti; si parla di
scoperta quando certi oggetti ch'erano come racchiusi vengono messi in chiaro.
Si comincia cos{ dalla ricerca e si finisce con la 105 percezione e la comprensione.
La dimostrazione (in greco apoàèizis) è defin,ita "un ragionamento che
conduce da oggetti percepiti ad oggetti che non lo erano" (Cicerone,
Lucullus, VIII, 23-26). Su questa base, in effetto, si svolge tutta ·la critica
di Antioco nei confronti degli ultimi Accademici e di ·Filone, per cui
sembrerebbe che, alla fine, la ragione della rottura tra Antioco e Filone debba
es- sere rintracciata nei due diversi modi di assumere la tesi dell'ordine: in
Filone, come ipotesi probabile; in Antioco, come autentico fondamento,
scientificamente determinabile, attrayer~ il procedimento conoscitivo impostato
dagli Stoici. Secondo Antioco, perciò, non solo Filone; aveva tradito il suo
primitivo atteggiamento, scostandosi dalla linea di Car- neade, di Clitomaco,
dello stesso Carmada e di Metrodoro di Strato- Dica (ecco perché Antioco poteva
dire che nel nuovo scritto di Filone,. giuntagli da Roma, non riconosceva piu
il vecchio maestro), ma, assu- mendo la tesi stoico-platonica in forma
ipotetica e probabilistica, distrug- geva quella stessa tesi, ché, potendo
essere altrettanto probabile un'altra, tutte divenivano indifferenti, né piu, o
l'una o l'altra, potevano spin- gere all'azione. Arcesilao aveva messo in
discussione particolarmente lo stoicismo di Cleante (cfr. I vol.), cercando di
mostrare la contradditorietà implicita nell'~ssumere la rappresentazione
catalettica ad un tempo come rap- presentazione adeguata dell'oggetto che
impressiona e come assenso, cioè giudizio. Posto, appunto, che la
rappresentazione è di oggetti, la rappresentazione stessa non può essere
giudizio, ché il giudizio si ha solo nella proposizione, e se la
rappresentazione la poniamo nel senso di Cleante, evidentemente essa non è una
proposizione, se mai un termine della proposizione. Impossibile l'assenso
relativamente a ogni rappresentazione, ogni rappresentazione (non giudizio) si
presenta vera tanto quanto ogni altra rappresentazione, per cui lo stesso
giudizio che si determinerà nel costituire i nessi e le implicazioni tra le
rappresen- tazioni (non a ca$0 Arcesilao fu avvicinato a Diodoro Crono e ai
megarici), non potrà mai esser volto alle strutture e ai nessi in sé dd reale.
Sul piano della verità, dunque, lo stesso stoico, se non vuol ca· dere in
contraddizione è costretto a sospendere il giudizio, o a rima· nere in
silenzio, e perciò stesso a ripiegare, nel campo morale, sul conveniente,
sull'eulogon, o a rimanere inattivo. Se Arcesilao e, poi, Carneade
(polemizzando con Crisippo) avevano svolto le loro discus- sioni sull'epoché
per mettere in contraddizione i fondamenti della tesi stoica, senza di contro
avanzare una loro propria posizione, con Metro- doro di Stratonica c con Filone
si cercò di dare un valore positivo e non piu solo critico nei confronti dello
stoicismo, al "probabile" carnea- 106 diano, assumendo,
perché sia possibile l'azione una probabile ipotesi. E qui Antioco aveva buon
giuoco: la tesi del "probabile," divenuta po- sitiva e non piu
critica, poteva esser ricondotta alla prima tesi della sospensione del giudizio
e perciò all'indifferenza di tutte le rappresen- tazioni, per cui si poteva
ritorcere l'accusa fatta agli stoici, che cioè come gli stoici dovevano
rimanere in silenzio e inattivi, cosi in silenzio e inattivi dovevano rimanere
gli Accademici. Per venir meno all'una e all'altra accusa, Antioco,
riallacciandosi all'interpretazione che della fantasia catalettica di Zenone
aveva dato Cleante, e cioè che la rap- presentazione coincide esattamente con
il rappresentato e che perciò i nessi tra le rappresentazioni ripercorrono i
nessi tra le cose, giungeva, sia pur con altra terminologia (con terminologia
stoica), a rifar sua la logica di tipo aristotelico, e, non rendendosi conto
che, in effetto, la logica degli stoici era una logica
"proposizionale" (di cui, invece, s'era reso conto benissimo
Arcesilao criticando creante), riduceva il discorso stoico sulla realtà in
discorso di tipo aristotelico che, a sua volta, gli faceva interpretare Platone
in chiave aristotelico-stoica. Quali sono le qualità che diciamo percepite dai
sensi, tali, di conseguenza, e cose di cui non si dice che sono direttamente
percepite dai sensi, ma:he in un certo qual modo lo sono: "questa cosa è
bianca, quella dolce, ~uesta emette suoni, un'altra è odorosa, altra ancora è
aspra": tutto ciò lo afierriamo con un atto di comprensione dell'anima,
non mediante i sensi. E poi: "è un cavallo, è un cane." Poi si passa,
per il resto, ad una serie ~he collega insieme i caratteri piu salienti, come
quelle proposizioni che abbracciano una percezione completa di realtà: "se
è uomo, è animale mor- tale partecipe di ragione." Di questo genere sono
le nozioni delle realtà impresse in noi e senza di cui ogni intelligenza, ogni
discussione, ogni problema sono impossibili. Se tali nozioni (in greco ennoiaz)
fossero false o impresse in noi in rappresentazioni tali che le vere non
potessero essere distinte dalle false, come potremmo usarne? Come potremmo
vedere quel che si accorda e quel che non si accorda con una cosa? E alcun
luogo sarebbe lasciato alla memoria, che tuttavia è di fondamento, a un tempo,
non solo della filosofia, ma di tutta la vita e di tutte le arti..Come potrebbe
esserci, infatti, memoria di cose false? Ci si ricorda di ciò che non si è
\'eracemente afferrato con l'anima?... (Cicerone, Lucullus, VII, 21-22).
Antioco cosi, poiché il criterio stoico dimostrava, secondo lui, la coincidenza
tra strutture della ragione e strutture della realtà, cui si giunge mediante le
percezioni, sosteneva che, in effetto, gli stoici ave- vano servito,
approfondendo la genesi del processo conoscitivo, a dar conto della tesi
platonica, secondo cui l'ordine del tutto è razìonale e coincidente con le
strutture del pensiero, onde l'indirizzo dato all'Ac- 107 cademia da Arcesilao prima
(media Accademia), aveva cosutulto un vero e proprio tradimento del piu genuino
pensiero di Platone, che, ora, Antioco, attraverso gli stoici e i peripatetici,
voleva restaurare in funzione anche della vita associata e della moralità, non
a caso rial- lacciandosi a Senocrate, Crantore, Polemone. Sembra allora chiaro,
di qui, come Antioco interpretasse le tesi platoniche del tutto ordinato e
dell'"anima mundi" (Timeo) e la tesi aristotelica della realtà tutta
in atto, nel suo scandirsi in atto-potenza- atto, sulla linea di
Zenone-Cleante, accantonando, d'altra parte, in questa, a sua volta,
interpretazione dello stoicismo in chiave platonico-aristo- telica, certe tesi
piu propriamente stoiche, come quella della confliJgra- zione, probabilmente
anche per influenza degli stoici Boeto di Sidone, Zenone di Tarso, Diogene di
Babilonia (la stessa attività divina che farebbe dopo la conflagrazione? E
ammessa la conflagrazione, non ammetteremmo corruttibile l'incorruttibile
divinità?: cfr. Filone l'Ebreo, De aeternitate mundi, 54), ma derivandone,
attraverso le conces- sioni fatte proprio dagli ultimi stoici al rigidismo
morale primo, una propria interpretazione dell'imperativo stoico: "vivi
secondo natura." E ora, entro il quadro che siamo venuti delineando,
assume un suo particolare significato l'esposizione che per bocca di Varrone,
Cicerone (Varro) fa della posizione di Antioco, che scaturisce dall'interpreta-
zione che ·Antioco dava della vecchia Accademia, di Aristotele e degli Stoici.
Per influenza di Platone, vasto, diverso, ricco, si costitu{ una forma di
filosofia una e identica sotto una doppia denominazione, cioè la filosofia
degli accademici e quella dei peripatetici. Essi, d'accordo sul fondo delle
cose, non differiscono che per il nome. Infatti, se Platone lasciò, per cos{
dire, l'eredità della sua filosofia a Speusippo, figlio di sua sorella, i suoi
discepoli piu brillanti per il sapere e per la dottrina furono Senocrate di
Calcedonia e Aristotele di Stagira... Gli uni e gli altri, completi della fe-
condità di Platone, formarono un sistema ben determinato, ricco e com- piuto ad
un tempo. Accantonarono il socratico dubbio esteso a tutte le cOse e la
consuetudine di Socrate di discutere senza nulla affermare. Cosf av- venne ciò
che Socrate non approvava affatto, che cioè la filosofia si costituf in un'ane,
in un ordine delle cose (ordo rerum), in una dottrina (descrip#o disdplinae).
In principio tale filosofia fu unica, anche se sotto due nomi, ché non vi era
alcuna differenza tra i peripatetici e l'antica Accademia... Stabilivano la
stessa distinzione tra ciò che si deve ricercare e ciò che si deve sfuggire. Triplice
fu la ragione del filosofare ricevuta da Platone: la prima trattava della vita
e dei costumi; la seconda della natura e delle cose occulte; la terza del
ragionamento e del giudizio che discerne il vero dal falso, i termini giusti da
quelli che non lo sono, l'accordo e la repu- gnanza dei termini. Nella prima
parte, per apprendere a ben vivere, ci si rivolgeva alla natura, ci si
raccomandava di obbedirle: in nessun'altra cosa, se non nella natura, va
ricercato quel sommo bene, cui debbono riferirsi tutte le nostre azioni~
Stabilivano che l'estremo termine delle cose da desiderare, il fine dei beni,
consiste nell'aver ricevuto dalla natura tutto ciò che è necessario all'anima,
al corpo, alla vita. Dei beni del corpo, poi, ponevano gli uni nel complesso,
gli altri nelle parti: nel complesso la salute, la forza, la bellezza; nelle
parti l'integrità dei sensi e i vantaggi collegaù a ciascuna delle parti del
corpo, come l'agilità per i piedi, la forza per le mani, la chiarezza per la
voce, e per la lingua chiara scansione dei suoni. Dicevano beni dell'anima
tutto ciò che serve a far penetrare la virtu nell'ingegno, e riferivano gli uni
alla natura gli altri ai costumi. Della natura ritenevano proprie la prontezza
nell'apprendere e la memoria, ambedue dipendenù dall'attività della mente e
dell'ingegno. Ai costumi attribuivano i nostri interessi, e, per cos{ dire, le
nostre consuetudini, le quali in parte si for- mano con un assiduo esercizio,
in parte con la ragione... Tali sono, dunque, i beni dell'anima. Quelli della
vita (terza specie) consistono in certe ag- giunte che possono facilitare la
praùca della virtu. Infatti la virtu (del- l'anima e del corpo) si mostra anche
ill" alcuni vantaggi che non dipendono tanto dalla natura, quanto da una
vita felice. Affermavano perciò che l'uomo è membro della città e del genere
umano, è cioè unito ai suoi simili mediante il vincolo dell'umanità. Ecco ciò
che pensavano del sommo e naturale bene, cui riferivano tutti gli altri beni
che servono ad accrescerlo o a conservarlo, sf come le ricchezze, la potenza,
la gloria, la grazia. In tal modo ponevano tre specie di beni... Questa teoria
comprendeva l'ob- bligQ di condurre una vita attiva e la fonte del dovere
stesso: in altri ter- mini, raccomandava di obbedire ai precetti della natura...
Della natura poi (questo seguiva) dicevano ch'essa va ricondotta a due
principi: l'uno efficiente, l'altro, per cosi dire, che si offre all'azione
modifi- catrice del primo. Nella causa efficiente, vedevano una forza;
l'oggetto sot- tomesso alla sua azione era una specie di materia. Ad ogni modo
non concepivano l'una senza l'altra, ché le parti della materia non sarebbero
coerenù se non fossero trattenute da una qualche forza, e la forza non può
trovarsi fuori della materia, poiché tutto ciò che è deve essere in qualche
parte. Tale unione dei due principi la chiamavano corpo, o qua- lità. Di queste
qualità le une sono primarie, le altre derivate da queste. Le qualità primarie
sono uniformi e semplici; quelle che ne derivano varie e, diciamo, multiformi.
Cosi l'aria..., il fuoco, l'acqua e la terra sono qualità primarie;. da esse
sono scaturite le forme degli animali e di tutte le cose che la terra produce.
Per ciò si chiamano principi e, per tradurre il termine greco, elementi. Ve ne
sono due, l'aria e il fuoco, che hanno in sé forza motrice ed efficiente; le
altre, cioè l'acqua e la terra, ricevono e patiscono in un certo qual modo
l'azione di questa forza. Aristotele poneva un quinto elemento di cui erano
formati gli astri e le anime, avente una sua essenza e che differisce dalle
quattro di cui sopra. Ma subietta a tutte le modificazioni suppongono una certa
materia non 109 avente
alcuna specie e sprovvista di qualità, di cui tutte le cose sono espres- sione,
di cui tutte sono fatte, sostanza di tutti i fenomeni, che può essere
modificata in tutti i modi e in tutte le sue parti: donde segue che, per essa,
perire non è affatto annièntarsi, ma scomporsi nelle sue parti, che possono
essere tagliate e divise all'infinito, poiché nulla v'è in natura di s{ piceòlo
che non possa essere diviso. Aggiungono che i corpi che sono mossi percor- rono
intervalli ugualmente divisibili all'infinito. Da tal moto e dalla materia
sorgono i fenomeni che abbiamo chiamati qualità], che, nella natura
giustapposta e continua, hanno formato il mondo con le sue diverse parti. Fuori
del mondo non v'è alcuna particella di materia, nessun corpo. Chia- mano parti
del mondo tutti gli esseri di cui si compone e che sono tenuti insieme dalla
natura senziente, in cui risiede la ragione, che eternamente dura, poiché nulla
vi è di pio forte che possa distruggerla. Dicono che questa forza è l'anima del
mondo, essa stessa mente e sapienza perfetta: questo chiamano Dio, questa
specie di prudenza che veglia su tutte le cose sottoposte al suo comando, che
ha particolar cura del cielo e che, sulla terra, si occupa anche delle faccende
umane. Talvolta chiamano questa forza necessità, perché nulla può essere
altrimenti da ciò che mediante essa si è costituito, nella catena, per cos{
dire fatale e immutabile dell'ordine eterno. Altre volte, invece, la chiamano
fortuna, poiché produce quell'in- sieme di effetti inattesi, che l'oscurità
delle cause e la nostra ignoranza impediscono di prevedere. Peripatetici e
accademici trattano quindi la terza parte della filosofia, la parte che ha per
oggetto la ragione e la dialettica. Benché sorga dai sensi, il giudizio di
verità non risiede nei sensi. Ritenevano che la mente fosse giudice delle cose:
la consideravano come la sola degna d'essere creduta, perché solo essa
contempla ciò che, sempre, è semplice, uniforme e tale quale è. Questa essi
chiamavano idea, sull'esempio di Platone (e tale termine noi postiamo
esattamente tradurlo con spedes) La scienza, secondo questi filosofi, non
riposa che sulle nozioni dell'anima e sui ragio- namenti. L'opinione sulle
sensazioni non illuminate dalle nozioni]. Per questo approvavano le definizioni
delle cose, e le usavano in tutte le que- stioni controverse. Approvavano anche
le spiegazioni delle parole, cioè le ragioni per cui un certo termine era stato
applicato a un certo oggetto,. il che chiamavano etimologia. Infine, prendendo
per guida gli argomenti, quasi segni infallibili delle cose, giungevano alla
prova e alla conclusione di ciò che volevano chiarire. In questo consisteva
tutta l'arte della dialettica, l'arte in virtU della quale la ragione deduce
conseguenze. Insieme alla dia- lettica, quasi frontalménte ad essa, facevano
progredire l'arte oratoria, che consiste nello sviluppare tutto il seguito di
un discorso composto in modo da persuadere..• [Chiarite le modifiche apportate
da Aristotele e da Zenone di Cizio, si conclude, affermando]: penso come il
nostro amico Antioco, che cioè nella fil~fia di Zenone va veduta una leggera
riforma della vec- chia accademia piùttosto che una nuova dottrina (Cicerone,
Van-o, IV-XII). Varrone, Cicerone e la funzione della cultura A parte Antioco,
o chi per lui, il testo di Cicerone sopra riportato non ha tanto importanza se
considerato a sé, quanto perché in esso è chiaramente delineata una concezione
che sembra oramai divenuta comune, e che, indipendentemente dalle singole
discussioni delle scuole. su singoli argomenti ed aspetti, assume significato
in quanto viene a costituire un sistema di sfondo, una visione abbastanza
generale e ge- nerica (divinità, ordine.dei cieli, mondo nella sua totalità,
uomo e uomo che in quell'ordine del tutto trova i principl, la regola della
vita) che serva da prima ed elementare cultura. Si capisce come qui giuo-
cassero, di là dai loro contesti, testi singoli di Platone (dal Sofista al
Timeo), dell'Epinomide, del primo Aristotele, gli aspetti pio generici della
fisica stoica, in un tutt'uno abbastanzà· coerente che costituiva questa specie
di religione cosmica entro cui dare forma all'ideale di un certo tipo di vita,
proprio della classe colta e' dirigente. È stato giustamente detto che tale
religione del Mondo trascende ormai le dottrine di scuola per ~ivenire il bene
comune di ogni per- sona che abbia partecipato della b "paideia"
greca: "oggi, diremmo, che abbia seguito il suo bravo corso scolastico"
(Festugière, La révélation d'Hermès Trismegiste, II, p. 343). Non solo, ma non
poco in- dicativo sembra il fatto che tali sintesi (di cui già in Cicerone si
riflette l'esposizione manualistica da un lato, dall'altro lato la
presentazione per argomenti) siano state compilate dai loro autori quando,
usciti dai propri diretti impegni nelle loro singole scuole, sono entrati in
contatto con la classe colta e dirigente del mondo romano, rispondendo
evidentemente a ben precise richieste e.dando ad esse. chiarificazione e
consapevolezza, in un arco che va da Polibio a Panezio ad Antioco e Filone. Per
altro verso, invece, in seno alle scuole (particolarmente di Atene: Accademia,
Stoà), si discutevano singoli problemi, donde il nascere, poi, ad uso delle
scuole stesse, di manuali in cui - ad esempio per la scuola stoica - si
elencavano questioni di morale, modi diversi di vita a seconda delle singole
situazioni, sistemazioni delle ricerche della scuola sul linguaggio e sulle
tecniche del dire (cfr. Diogene di Babilonia, Antipatro di Tarso, Cratete di
Mallo, che insegnò a Per- gamo), introduzioni generali alla. stessa dottrina
(cfr. Apollodoro di Sdeucia); oppure - per l'Accademia e ad uso delle
discussioni - si elencavano le opinioni diverse intorno alle piu varie
questioni, le ptolte sentenze da sottoporre a problemae cos1 via (si cfr., ad
esempio, il sopracitato Clitomaco). Tutto ciò, fuori dalle singole scuole,
fuori da precise problematiche che rispondevano a specifica preparaziOne, as-
"sunse entro l'àmbito della cultura romana, la funzione da un lato di lll introduzioni generali,
dall'altro di manuali utili alla preparazione sulle singole materie. E quando
si pensa alla classe che in Roma aveva in mano le redini del governo e al modo
di funzionare della politica romana (non si scordi l'importanza che ebbero
anche i processi), ci rendiamo conto del perché la maggioranza di questi
manuali, di cui è rimasta me- moria, o siano manuali d'introduzione (dacxyoylj,
eisagoghè} alla filosofia (intesa come concezione culturale generale) o manuali
di retorica, di dialettica, o esposizioni di una certa· serie di opinioni o
sentenze su singoli problemi (non a caso in quest'epoca, 1 a.C., si formarono i
cosiddetti Vetusta Placita, una epitome in sei libri delle Opinioni dei fisici
di Teofrasto, che sembra siano usciti dalla scuola di Posidonio), o manuali di
morale e di casistica morale (si vedano sopra i titoli delle opere di Ecatone
di Rodi) cui vanno aggiunti, entro i termini di una preparazione generale,
manuali divulgativi intorno alle singole scienze (particolarmente di
astronomia, di agricolt_ura, di storia naturale), cui potevano servire i clo~ti
acquisiti e le si~gole ricerche dei grandi scien- ziati del m e del u secolo. E
se è vero che tali Introduzioni e Manuali servivano già per i giovani greci,
che venendo alle scuole di Atene, di Alessandria o di Pergamo, non aspiravano
certo a loro volta alla professione dei loro maestri, ma a formarsi, appunto,
una cultura ge- nerale che servisse poi loro ad aprirsi l'accesso ai posti che
offriva l'amministrazione dei singoli regni, ciò è tanto piu vero per i giovani
romani avviati alla carriera politica, nel disfacimento di quei regni stessi.
Le discussioni svoltesi in seno all'Accademia e alla Stoà, partico- larmente in
quest'ultima, per ciò che riguarda i modi di vita, le posi- zioni di Panezio,
di Posidonio, di Filone e di Antioco, le introduzioni e i manuali, le
dossografie e le esposizioni di singole questioni, si ri- flettono in
Cicerone.2 Chiaramente, anzi, attraverso gli aspetti piu 2 Di antica famiglia
di possidenti, appartenente all'ordine dci cavalieri, Marco Tullio Cicerone
nacque ad Arpino, in un'antica villa dci suoi antenati, il 3 gennaio dd 106 a.
C. Giovanissimo, insieme al fratello Quinto, Marco Tullio Cicerone fu condotto
dal padre a Roma pcrch~ vi avesse la migliore istruzione. Sotto la guida
dell'oratore Lucio Licinio Crasso ebbe a insegnanti i maggiori maestri greci
allora in Roma. Avuta nel 90 la toga virile, CiccJ:one prese pane alla guerra
Marsica, comandata da Pompeo Strabone. Tor- nato a Roma prosegui i suoi studi
sotto la guida di Filone di Larissa, scolarca dell'Acca- demia in Atene fino
all'88, stabilitosi a Roma dopo 1'88, c sotto la guida del retore Molonc di
Rodi, mentre, in casa, aveva come precettore lo stoico Diodoto, che in casa di
Cicerone moti nel 49 a. C. Ristabilitosi con Silla dittatore un relativo
ordine, Ciocrone si dette alla carriera oratoria, trattando cause civili c
subito dopo penali. Dell'SI ~ l'ora- zione a favore di Publio Quinzio, dell'SO
l'orazione a favore di Sesto Roscio accusato di parricidio. Preoccupato per
avere difeso Sesto, contro le accuse di Crisogono potente libcrto di Silla,
Cicerone si allontanò da Roma, per un viaggio di "perfezionamento"
112 problematici deil'opera di Cicerone, si delineano alcune
grandi conce- zioni, entro il quadro di quelle visioni d'insieme, di cui
parlavamo, e che, appunto mediante le discussioni delle Scuole, i manuali, le
in- in Grecia. In Atene ascoltò lo scolarca dell'Accademia, Antioco di
Ascalona, successo a Filone di Larissa, il retore Demetrio Siro, gli epicurei
Fedro e Zenone. Lasciata Atene, visitò le scuole di retorica in Asia e fu,
quindi, a Rodi dove s'incontrò di nuovo con Molone di Rodi e dove conobbe
Posidonio. Nel 77 era di nuovo a Roma, "non solo piu esercitato, ma quasi
mutato" (Brutus, 89 sgg.). Cicerone, che nel frattempo aveva spo· sato
Tercnzia, tornò alla carriera oratoria. Nominato questore nel 75, ebbe la
provincia Lilybacum in Sicilia, che tenne con molta abilità e moderazione.
Ritornato a Roma, nel 71 intentò il celebre processo contro Verre che nei suoi
tre anni di pretura siciliana (73-71) 11veva saccheggiata la provincia. Nel1.69
fu eletto edile curule, nel 66 pretore urbano. Disse allora la sua prima
orazione politica (D~ imperio Gnaei Pomp~i). Nd 63, insieme a Gaio Antonio fu
eletto console, con l'aiuto degli ottimati, difendendo poi il partito degli
oligarchi contro quello dei popolari e di Cesare, con quattro orazioni contro
il disegno di legge agraria proposto dal tribuno della plebe Rucio Servilio
Rullo. Fu poi la lotta contro Catilina e la lotta a favore di Murena. Se è vero
che durante il suo con- solato Cicerone aveva reso grandi servigi al partito
degli ottimati, è altrettanto vero, come è stato detto, ch'egli aveva abusato
del potere mandando a morte cittadini romani senza regolare giudizio. Avvenuto
l'accordo di Pompeo con Cesare e Crasso (80), Cice- rone si trovò isolato,
sotto l'accusa di Publio Clodio, che passato ai plebei, nella sua qualità di
tribuna della plebe, nel 59 promosse una legge contro coloro che avevano fatto
uccidere un cittadino romano senza regolare condanna. Cicerone allora (marzo
58) si allontanò da Roma,. mentre Clodio faceva decretare l'esilio di Cicerone
e l'ordine di distruzione della sua casa di Roma e delle ville di Tuscolo e di
Formia. Cicerone si recò a Brindisi, a Tessalonica e quindi a Dirrachio. Nel
57, il console dell'anno, su proposta di Pompeo, revocò l'esilio di Cicerone,
sostenendo ch'egli aveva agito per il bene della Repubblica. Cicerone tornò a
Roma in trionfo, pronunciò ~razioni di ringraziamento dinanzi al Senato e al
popolo e riusd a farsi ricostruire a spese pubbliche le sue case. Legato a
Pompeo, Cicerone che non era piu appoggiato dal Senato, cercò da ora in poi,
appoggi e forza presso i potenti dell'ora, difendendo amici e fautori,
accusando nemici c gente che potevano metterlo in pericolo. Con molta
intelligenza e moderazione resse il proconsolato in Cilicia nel 51. Tornato nel
50 a Roma si trovò in piena lotta tra Pompeo c Cesare. Titubante dapprima, si
decise poi a seguire Pompeo c fu con lui in Oriente. Malato, non combatté a
Farsaglia (48) e, dopo la fuga di Pompeo, rifiutato il comando della flotta, si
recò a Brindisi, dove attese Cesare. Appena Cesare sbarcò (47), Cicerone gli
andò incontro. Cesare smontato da cavallo si accompagnò a Cicerone. Tornato a
Roma si ritirò dalla vita politica. Ucciso Cesare nel 44, Cicerone pronunciò in
Senato un'orazione in favore di una pacificazione c di un'amnistia generale.
Marco Antonio invece eccitò il popolo contro i congiurati. Anche Cicerone fu
costretto a fug- gire d" Roma. La sua lotta contro Antonio è affidata alle
celebri Filippiche. Giunto a Roma Ottavio, che assunse, in qualità di crede di
Cesare, il nome di Cesare Ottaviano, Cicerone tornò a Roma sperando che
Ottaviano salvasse la Repubblica, mantenendo la sua linea politica di difesa
del Senato e degli Ottimati. Ma Ottaviano si accordò con Antonio e Lepido,
proclamandosi triumviri uipublicae costituendae per cinque anni, riserbandosi
ciascuno il diritto di proscrivere i propri avversari. Cicerone fu proscritto
da Ant<.onio. Fuggito da Rom.., si rifugiò nella sua villa di Astura presso
Gaeta, ovc raggiunto da sicari di Antonio, venne ucciso il 7 dicembre del 43.
Se le orazioni di Cicerone, seguite cronologicamente segnano le tappe della sua
attività politica, le altre opere di lui segnano l'arco su cui si venne
scandendo il suo pensiero, i momenti diversi della sua problcmatica e dei suoi
fini, di cui specchio sono le stesse tecniche oratorie di volta in volta usate.
In realtà impossibile è una divisione
113 traduzioni, si c9stituiscono in funzione di certe
esigenze proprie del mondo romano. E quando diciamo mondo romano, non
intendiamo qualcosa di compatto. Tutt'altro: un mondo culturalmente in fieri,
delle opere di Cicerone in retoriche, filosofiche, storiche. Diamo qui, per
utilità, l'elenco cronologico delle opere fisolofico-retoriche e delle
orazioni. IOpt!re retorico-filosofiche Traduzione dell'Economico di Senofonte
(85 a.C.: ne restano alcuni frammenti); traduzione dei Fenomeni di Arato (84
circa: ne restano alcuni frammenti); De inven- tione rhetorica (80: in 2 libri;
tentativo di sistemazione delle tecniche retoriche); De Oratore libri 111 (55:
si dà, oltre alle tecniche, valore alla cultura in un solo nesso di filosofia e
di eloquenza); De Republica (in 6 libri, composto tra il 54 e il 51: doveva
includere 9 libri. Il dialogo si suppone avvenuto nel 129 ed ha per principali
interlo- cutori Scipione Emiliano e C. Ldio. Resta una parte del VI libro,
andata sotto il nome di Somnium Scipionis; possediamo inoltre citazioni e
riassunti di Lattanzio e di S. Ago- stino, alcuni frammenti scoperti da A. Mai
in un palinsesto vaticano. Nel l libro dopo avere discusso della natura dello
Stato e della sua origine, e dopo aver passato in rassegna le tre forme di
reggimenti politici tradizionali, monarchia, oligarchia, democrazia, e delle
loro degenerazioni, si sostiene che ottima è la costituzione romana; nel n
libro si fa vedere come si è realizzata la costituzione di Roma; nel III libro
si dimostra che non c'è Stato senza giustizia; nel IV libro si chiariscono i
fondamenti istituzionali senza di cui non vi sarebbe vita morale; nel. V libro
si delinea quale debba essere la figura dd reggitore, del rector rerum
publicarum; nel VI libro si doveva· definire il princeps: ne è un saggio il
somnium Scipionis); De Legibus (composto tra il 53 e il 51, fu pubbli- cato,
sembra, nel 46; doveva essere in 5 o 6 libri; ne restano 3. Il dialogo si finge
tenuto ad Arpino, nel 52, presso il fiume Fibreno e il fiume Liri; principali
interlocu- tori sonò lo stesso Cicerone, il fratello Quinto e Attico. Nel I
·libro si discute e si defi· nisce il diritto naturale e il significato da dare
alla legge; nel Il libro si dichiara che le leggi civili debbono avere a loro
fondamento le leggi naturali; si discutono poi le leggi religiose; nel III
libro si discutono le leggi dei magistrati; il IV e il V libro dove- vano
trattare dei giudizi e dell'educazione); Brutus o De claris oratoribus in un
libro (composto nel 46: il dialogo, che ha per principali interlocutori
Cicerone stesso, Bruto e Attico, è una specie di storia dell'eloquenza romana,
culminante in Antonio, Crasso e Ortensio); Orator (del 46: vi si delinea il
ritratto dell'oratore perfetto secondo Cicerone, filosofo ed oratore ad un
tempo); De optimo gent!re oratorum (del 46: è un'introdu- zione alle traduzioni
latine, andate perse, che Cicerone fece dell'Orazione di Eschine contro
Ctesifonte e dell'Orazione di Demostene per la Corona); Paradoza Stoicorum (del
46: elenco di tesi retoriche tratte da tesi stoiche in funzione di discussioni
sulla morale); Hortensius (perduto, ma noto fino all'xi secolo: ne restano
frammenti e testi· monianze. Doveva essere una specie di grande introduzione
alla filosofia inspirantesi al Protrettico di Aristotele. Servi nelle scuole
eome introduzione alla filosofia. Fu composto, sembra, tra il 46 e il 45); De
partitione oratoria (45 circa: opera a carattere tecnico e istituzionale);
Consolatio (perduta: ne abbiamo qualche frammento citato da Cicerone stesso e
da Lattanzio. Fu sc:Ìitta nel 45 per consolarsi della morte della figlia
Tullia); Academici libri (Cicerone ne stese due redazioni: gli Academica priora
in 2 libri e gli Academica posteriora in 4 libri; degli Academica priora il l
libro, o Catulus, è per- duto, il n libro, o Lucullus, si è salvato; degli
Acllliemica posteriora si è salvato il l libro, o Varro; abbiamo alcuni
frammenti e testimonianze degli altri libri. Furono scritti nel 45. Vi si
espone criticamente la storia del pensiero degli Accademici e in pa'licolare il
pensiero di Filone di Larissa e di Antioco di Ascalona); De finibus bonorum et
malorum libri V (dd 45; in tre dialoghi - il primo dialogo abbraccia il l e il
n libro; il secondo dialogo il III e IV libro; il terzo dialogo il V libro. Nel
l libro C. L. M. Torquato espone la tesi epicurea secondo cui il bene sta nel
piacere; nel n libro Cicerone confuta la tesi epicurea; nel III libro Catone
espone la tesi stoica secondo cui il bene consiste nella virtU e tutti gli
altri cosiddetti beni sono indifferenti; nel IV libro 114 ove la
grande espansione e le conquiste presentano problemi nuovi, economici e sociali,
per cui lo stesso modo antico di governo entra in crisi, in cui la classe
senatoriale e, ormai, quella degli uomini nuovi Cicerone confuta la tesi stoica
sostenendo che nulla di nuovo se non nelle espressioni. hanno detto gli Stoici,
rispetto ai platonici e agli aristotelici; nel V libro si espone la dottrina
degli· Accademici, o meglio quella di Antioco); Tusculanae Disputationes libri
V (del 45; sono una prosecuzione del De finibus; si rivolgono ad un pubblico
piu esteso che non il De finibus, e, questo, forse, spiega il maggior peso dato
all'ideale dd saggio stoico: nel I libro si dimostra che il saggio non teme la
morte, nel II che non teme i dolori del corpo, nel III e nel IV che è alieno da
ogni passione, nel V che uno è il bene, la virtu, in senso strettamente
stoico); traduzioni del Protagora e del Timeo di Platone (45 circa); De natura
deorum libri Ili (composto tra il 45 e il 44: nel I libro Velleio epicureo
espone la tesi di Epicuro sulla divinità, confutando le tesi di Platone e degli
Stoici ed esponendo le varie teorie sugli dèi da Talete a Diogene di Babilonia;
Vdleio viene quindi confutato da Cotta; nel II libro Balbo espone la tesi
stoica sul divino; nel III libro, di cui sono andate perdute alcune parti,
Cotta confuta la tesi stoica sia relativamente alla natura degli dèi, sia al
loro governo sul mondo, sia al loro inte- ressamento per gli uomini. Cicerone,
infine, sostiene ch'egli attraverso la sua posizione accademica, ritiene
opportuno optare per la tesi di Balbo); De senectute o Cato maior (composto tra
il 45 e il 44, probabilmente finito prima del De natura deor., del De
divinazione e del De fato; il dialogo si finge tenuto nel 150 tra Catone il
Censore, ottantaquattrenne, Scipione Emiliano e C. Lelio, ed ha per oggetto la
difesa della vecchiaia; la prima ispirazione è probabilmente dovuta al I libro
della Rep. di Pla- tone); De divinazione libri Il (del 44; si riallaccia al De
nat. deorum, per confutare la tesi stoica della divinazione. Il dialogo si
svolge tra Cicerone e il fratello Quinto. Nel I libro si espone la storia e la
critica della divinazione, implicante una ferrea ne- cessità. Quinto si
dichiara favorevole alla tesi stoica; nel II libro Cicerone confuta la tesi
stoica); De fato (scritto dopo la morte di Cesare, 44, nel De fato si discute a
fondo la questione del rapporto necessità-libertà, rifiutando sia la tesi
epicurea che quella stoica); Laelius de amicitia (del 44; il dialogo si finge
avvenuto nel 129 in casa di Lelio all'indomani della morte dell'amico di Lelio,
Scipione Emiliano); Topica (scritti nel 44, durante un viaggio per mare da
Velia a Reggio; è un'opera di logica formale e di tecnica retorica); De
officiis libri Ili (composti sulla fine del 44; vi si tratta dei doveri medi,
in una rielaborazione dell'opera di Panezio intitolata IItpl "tOÙ
Xct&-l)xov-ro~. Nel I libro si delinea in che consiste l'honestum, nel II
in che consista l'utile, nel III si chiariscono i conflitti tra honestum e
utile); perduti sono andati, oltre I'Hortensius, il De gloria e il De virtutibus,
ambedue del 44. II. - Orazioni Pro Quinctio (81); Pro Seztio Roscio (80); Pro
Q. Roscio (76); Pro M. Tullio (72-71: non completa); Verrine (70; dalla
Divinatio in C. Verrem al Proemium actionis in Verrem alle 5 accusat. in C.
Verrem); Pro M. Fonteio, Pro.Aula Caecina (tra il 69 e il 67); Pro lege Manilia
o De imperio Gn. Pompei (66); Pro.A. Cluentio (66); De lege agraria contra P.
Servilium, De lege agraria ad. pop. Romanum contra Rullum (63); Pro C. Rabirio
(63); In Catilinam (63); Pro L. Murena, Pro L. Fiacco, Pro P. Sulla, Pro.A.
Licinio.A.rchia poeta (63-62);.Ad Quirites post reditum suum (57); Post reditum
in Senatu (57); Pro domo sua a d Pontifices (57); De haruspicum responsis in
Senatu (56); Pro Cn. Plancia, Pro P. Seztio, In P. Vatinium, Pro M. Coelio, Pro
Lucio Corn. Balbo, Oratio de provinciis consularibus (56); In L. Calpurnillm
Pisonem (55); Pro T. Anneo Milone (52), Pro C. Rabirio postumo, Pro M.
Marcello, Pro Q. Ligario ad Caesarem, Pro rege Deiotaro (50-45), Filippiche (14
orazioni in M. Antonium, del 44). ·si ricordano, infine,. gli epistolari
ciceroniani, raccolti, probabilmente, fin dal 46, dal dotto liberto di
Cicerone, Tirone (Epistolarum libri XVI ad familiares, Ep. libri XVI ad
Atticum, Ep. libri Ili ad Cicer. fratrem, Ep. ad Brutum) ed alcune opere
storiche e poetiche andate perdute, ma, sembra, di nessun valore.] tentano
di mantenere il proprio potere o di rinnovarsi - non senza grossi contrasti
interni - senza perdere le proprie prerogative, cer- cando anche, per la
propria opera o la propria azione, giustifica- zioni ideali. La prima
concezione, d'ordine· generale (trascendendo le singole scuole e le loro piu
profonde differenze), quale appare attraverso l'opera di Cicerone, è quella
delineata come di Antioco: visione di un tutto ordinato, gerarchicamente
scandentesi, ove il divino è la stessa ragion d'essere che fa s(che ogni cosa
si articoli all'altra, in una sola unità vivente e razionale che su tutto si
diffonde (anima mundt) e per cui ciascuna cosa ha la sua ragione (l6gos). Entro
questi termini, in cui si fondevano aspetti platonici (doH'ultimo Platone) e
stoici (particolar- mente la dottrina del principio attivo e del principio
passivo, del l6gos e dei l6goi, della provvidenza, della legge, e la possibile
interpre- tazione di tali dottrine, il cui esito era una concezione legale del
cosmo), e il cui arco va da Panezio ad Antioco di Ascalona, si vede bene il
costituirsi di una concezione, la quale ideologicamente serv(a giustifi- care
un certo modo di intendere la politica e il mos, quali vennero attuati
sull'esempio di Scipione, dalla corrente senatoriale, che prese, appunto, le
mosse da Scipione Emiliano. Non solo, ma tale concezione, sotto l'aspetto
dell'armonia del tutto e della legalità del tutto, giustifi- cava da parte
~enatoriale l'istituzione di un certo "diritto" a diritto universale
e la teorizzazione di un costume e di una libertà che veni- vano perciò assunti
a costume, a bene, a libertà per tutti. Non poi molto lontana da questa, è
un'altra dottrina che traspare da Cicerone, e che sembra sia stata messa a fuoco
da Filone di Larissa. Identico lo sfondo e la strutturazione stoico-platonica,
essa tuttavia sembra rispondere a una diversa esigenza, che rivela, di contro
alla oramai sclerotizzatasi visione di certi conservatori piu rigidi, la possi-
bilità di una maggiore duttilità di una discussione e convinzione che si
realizzi retoricamente. Essa rivela cioè l'esistenza di gente che, pur legata
alla carriera politica e alla corrente senatoriale conservatrice, si rende
conto dei mutamenti avvenuti, che piu vivi sono i contrasti entro la stessa
classe dirigente, nel venire alla ribalta di uomini nuovi e in una carriera
politica alla quaie non si accede piu solo per nascita, ma anche da parte di
chi ha rivelato le proprie capacità nei tribunali e nei processi. Pur optando
per la visione di un tutto ordinato, tale strutturazione tuttavia viene assunta
non come verità assoluta. Tale accettazione dogmatica, utile finché unica era
la voce, diveniva estre- mamente debole, quando, in una discussione piu aperta
si poteva di- mostrare che, portata alle estreme conseguenze, giungeva alla
nega- zione proprio dell'azione (s(come avveniva in certe posizioni dello
stoicismo) e, alla fine, all'impossibilità del discorso e, perciò, ad esau-
rire la propria forza di convinzione. Di qui, invece, l'assunzione di quella
tesi, e oramai comune concezione, come ipotesi, come verità pro- babile: era
cosr possibile la discussione, la contrapposizione di opinioni diverse, il
muovere a quella piuttosto che ad altra posizione e azione, mediante le
tecniche della convinzione, fino a porre quella struttura- zione del tutto e la
relativa acquisita saggezza e modo di vita piu che come essere, come dover
essere, come impegno di realizzazione. E allora accanto al recupero di certo
platonismo, stoicismo, aristotelismo, si chiarisce il recupero di altri aspetti
del platonismo, di quel plato- nismo che poteva essere interpretato, invece che
come essere, proprio come dover essere, insieme al paradossale ideale del
saggio stoico, anch'esso posto come dovere, onde la possibilità di una morale
medi~. di una misura e di una convenienza tutte umane, che, in chi n'è ca-
pace, possono servire come termini medi per raggiungere l'impossibile virtu
perfetta, posta non come principio, ma come termine di realiz- zazione. Tale la
via presa da Cicerone e tale il suo rifarsi a Filone di Larissa e
all'Accademia, piuttosto che al rigido dogmatismo in cui era venuto sfociando
Antioco di Ascalona. Se avessi abbracciato la filosofia dell'Accademia per
ostentazione o per puro gusto di critica, penso che andrebbe condannata non
solo la mia stol- tezza, ma anche il mio costume e il mio carattere. Ché se
nelle piccole cose si biasima la pertinacia e si reprime lo spirito cavilloso,
vorrei, allorché si tratta del fondamento e del fine della mia intera vita,
entrare in conflitto con gli altri, o frustrare gli altri tanto quanto me
stesso? Perciò, se non pensassi essere inconveniente in una tale discussione,
fare quello che tal- volta si· fa quando si discutono le questioni dello Stato,
giurerei per Giove e per gli dèi penati che brucio per scoprire la verità e che
penso come parlo. E come non potrei desiderare di scoprire il vero, dal momento
che provo gradimento se, su di un qualche punto, scopro il verosimile? Ma
proprio perché giudico essere cosa bellissima contemplare la verità, ritengo
vergognosissimo affermare il falso come se fosse una verità. Personalmente,
certo, sono incapace di non affermare mai il falso, di non dare mai il mio
assenso, di non avere mai un'opinione, ma qui si tratta del saggio. Quanto a
me, faccio molte congetture (io non sono un saggio), e non mi volgo a quella
piccola Cinosura [Orsa minore] "guida notturna cui si affidano i Fenici in
alto mare," come dice Arato [Cic., Arat. frg. 7; cfr. Nat. deorum, 2,
106], i quali, tanto piu esattamente si dirigono, quanto piU, per la sua
vicinanza al polo, "ha una breve rivoluzione," ma dirigo i miei
pensieri verso I'Orsa maggiore e le chiarissime stelle di settentrione, cioè
verso ragionamenti in forma larga e non minuziosamente limati. E per ciò mi
capita di andare errando e di navigare nel vago. Ma, come ho detto, non si
tratta di me, ma del sapiente. Quando, infatti, ciò che mi rappresento ha
fortemente scosso la mente e i sensi, lo
accetto e talvolta anche gli do il mio assenso; tuttavia non lo percepisco; ché
nulla ritengo si possa percepire. lo non sono un sapiente; per questo cedo alle
rappresentazioni e non posso resistere loro. Arcesilao è d'accordo con Zenone,
quando pensa che la piu alta forza del sapiente è di stare attento a non essere
afferrato e a non essere ingan- nato. Nulla è infatti. piu lungi dell'idea che
abbiamo della gravità· del sapiente che l'errore, la leggerezza, l'avventatezza
(Cicerone, Lucullus, xx, 65-66). Quando scrisse gli Accademici (nel 45 a. C.)
Cicerone aveva ses- santun anni. In essi, per quel che n'è rimasto (Acad. post.
lib" l, Varro; Acad. prior. lib. Il, Lucullus), alla posizione piu rigida
e pio dogma- tica di Antioco di Ascalona, quale, d'altra parte, si rifletteva.nella
posizione di Varrone reatino e di Lucullo, si contrappone nell'inter-
pretazione del probabilismo di Filone di Larissa (cfr. sopra: si veda anche:
"ci sono molte cose probabili, le quali, per quanto non colte in sé,
tuttavia, dandoci una rappresentazione chiara e distinta, servono a regolare la
vita del saggio": De nat. deorum, l, 12; anche Tusc. disp., V, 33, 82),
una piu duttile concezione, passibile d'essere assunta in funzione retorica,
avente per fine un certo tipo di politica. Cicerone era oramai giunto al pieno della
sua maturità. Se considerati non a sé o come semplice fonte, ma nel complesso
degli scritti di Cicerone, gli Accademici hanno un particolare interesse, in
quanto chiariscono il doppio aspetto di tutto il pensiero ciceroniano: da un
lato l'esigenza di una concezione filosofica, di una riflessione critica che
renda conto, diciamo cosr, di una "saggezza teorica"; dall'altro
lato, anche mediante quella saggezza, la capacità d'inserirsi nel mondo umano,
per mezzo del- l'arte del dire, sr che quello stesso mondo umano si muova,
scendendo, se si vuole, a compromessi, usando tutte le tecniche della piu
scaltrita retorica. Può darsi che in Cicerone non vi sia una
"filosofia," com'è stato detto, che in lui coabitino piu concezioni,
non poche volte in contraddizione tra di loro, ch'esse siano state desunte,
volta a volta, superficialmente, dai manuali e dalle sillogi, ma è anche certo
che in Cicerone si riflette la problematica di un'epoca, o meglio di una certa
classe di uomini, fluida e in lotta, in una certa epoca, nel suo tenta- tivo di
determinare un modo di vita, che andando oltre l'assunzione della cultura come
mezzo, facesse della cultura il fine, in una sintesi di scienza e retorica, in
un pensiero che è davvero tale se è azione. Non è cosr un caso l'abile ripresa
del motivo aristotelico ("e cosr - esclama Cicerone, - l'uomo, secondo
Aristotele, è nato per due fini, comprendere e agire, come un dio mortale -- De
finibus, II, 13, 40) di una ragione teoretica, di una ragione pratica e di una
ragione poietica (cfr. I vol.), ove, relativamente alla retorica, essa, avendo
per campo il mondo del possibile e non del necessario, fa tutt'uno con la
dialettica. Certo, per intendere la-funzione mediatrice di Cicerone, il tipo
ideale di vita da lui affrescato, il significato da lui dato alla cultura e
perciò al rapporto filosofia-retorica, cioè la prospettiva di una poli- tica
illuminata, capace di inserirsi volta per volta nel contrasto degli
avvenimenti, vanno tenuti presenti i momenti estremamente gravi della storia e
della politica di Roma durante l'arco della vita di Cice- rone, dal 106 al 43
a. C. È storia troppo nota per farne cenno qui. Non vanno comunque scordate le
alleanze e le rotture tra uomini in lotta, i conflitti tra i
"populares" e gli aristocratici, e in seno agli aristocra- tici le
lotte in nome del popolo o del senato che gli stessi aristocratici e i
cavalieri ebbero tra loro, pur di assurgere al potere. Entro questi termini si
vede bene il tentativo di Cicerone di ostacolare l'affermazione singolare dell'uno
o dell'altro personaggio - non a caso Cice- rone fu in contrasto con Pompeo e
con Cesare, - in nome di un ordine e di una legalità che conservasse quella
res-publica quale si era deli- neata attraverso Scipione Emiliano, ch'era poi
il tentativo di mante- nere un ordine in cui si determinasse la libertà
d'azione piu che degli aristocratici o dei popolari, degli optimates.
"Tutti sanno," ha scritto giustamente La Penna, "di qual largo
favore godette nell'ultimo se- colo della repubblica romana lo slogan della
libertas: uno slogan usato da parti opposte, con contenuto diverso e
indefinito, uno slogan pluri- valente quasi quanto la libertà e la democrazia
di oggi. Tutti por- tiamo dalla scuola, che spesso campa di sostrati remoti di
cultura, l'immagine di Catone e di Bruto morenti per la libertà, benché a quasi
tutti gli storici sia ormai chiaro che quella libertà era, in fondo, la facoltà
per alcune cricche nobiliari di manipolare elezioni e magi- strature, grazie
alla ineducazione politica e alla fame della plebaglia urbana, le cui esigenze
vere o si manifestavano in esplosioni cieche e inefficaci o influivano in
misura scarsa sulla legislazione. Ma è meno noto... che lo slogan della
libertas non mor1, anzi continuò a prospe- rare sotto l'impero. Augusto
attribuiva a suo merito di vindicare in libertatem rem publicam e gli
imperatori successivi si proclameranno spesso vindici della libertà; nelle
contese per l'impero non vi sarà contendente che non si proclami campione della
libertà del popolo romano contro il tiranno. Tutto ciò è di scarsissimo
interesse; piu interessante è che nel corso dell'impero lo slogan della
libertas, in iscrizioni di monete e anche in qualche testo letterario, vada
sempre piu accostandosi e quasi fondendosi con quello della securitas; e se-
curitas è la tranqu~llità nel godimento dei propri beni, senza paura di nemici
esterni, senza paura di rivolte di schiavi o di agitazioni della plebaglia
rerum novarum cupida, senza preoccupazioni per la cosa pubblica, che è in alto,
in buone mani. Questo processo ideologico era naturale e già chiaro nell'età
augustea..." (Libertas e Securitas, "Belfagor," p. 'Zll). In
effetto tutto questo era già presente in Cicerone. E ciò si chiarisce tenendo
presente la situazione storica, l'autorità degli optimates messa in forse sia
da certi aristocratici e cavalieri che agivano avendo per scopo un potere
personale, sia dalle rivolte popolari, in una struttura sociale in cui il
popolo non c'era; ma anche si chiarisce cosi la funzione data da Cicerone alla
cultura, la tensione a porre, sia pur come dover essere, un ordine e una misura
ideali, per muovere i quali divenivano di grande importanza tutte le tecniche
retoriche, onde la retorica venne pian piano a perdere per Cicerone il
significato di mèra precettistica (come ancora era nel giovanile De
inventione), per assumere la funzione di costituire e di "inventare"
un certo ideale e di convincere ad esso. Se non vanno dimenticati i massacri di
Mario, le molte guerre civili, le proscrizioni di Silla, la politica di Pompeo,
di Crasso e di Cesare, i molti processi, neppure vanno dimenticati, anche in
funzione di questi stessi conflitti, della lotta fra aristocratici e popolari,
i due schemi retorici che n'erano scaturiti: l'uno fondato sulla pura virtus
romana, legato alla sola tradizione del "forte" popolo romano, indi-
pendentemente da ogni cultura, o meglio sganciato dall'ideale di un ordine
costituito, la cui visione è propria del saggio; l'altro fondato invece sulla
concezione del saggio di tipo stoico, in cui alla fine la virtu si distacca
nettamente dalla politica. Di qui, ora, rifacendosi a quello che col tempo era
divenuto un ideale, cioè la figura di Scipione Emiliano, virtuoso perché
saggio, ma saggio perché uomo d'illuminata cultura, mediante cui ordinare lo
Stato verso il bene, sorge l'esigenza di delineare l~ figura dell'oratore quale
uomo politico, che può indicare quello che deve essere l'ordine e il fine da
realizzare, in quanto abbia una vasta cultura generale e tecnica, e perciò
stesso, perché ro- mano, non solo volta a quella greca, ma anche allo studio
della tra- dizione di Roma, dei suoi costumi, della sua lingua, del suo
diritto. Tale, sembra, l'esigenza messa in chiaro da Cicerone. Da un lato,
quindi, l'importanza di una cultura enciclopedica, ed ecco di nuovo, oltre
all'interesse per ascoltare e conoscere i vari maestri delle varie scuole,
recandosi anche nei centri di maggior cultura, Rodi, Alessan- dria, Atene, il
significato dato ai manuali, alle introduzioni, alla discussione delle
questioni, mediante cui formare la propria personalità, cioè la propria
humanitas o cultura; dall'altro lato il valore che assumono le ricerche
dedicate alla tradizione romana, alla sua lingua, alla sua cultura. Assume qui
un preciso significato storico - di cui già ci si rendeva conto nel tempo-
l'opera cosiddetta erudita di Varrone8 reatino, vissuto tra il 116 e il 27 a.
C. A tale proposito, anzi, sembra avere un particolare interesse la delineazione
che Cicerone fa della figura di Varrone e soprattutto della sua importanza per
aver fatto conoscere ai romani la loro storia, le loro antichità,
contrapponendo tuttavia a lui la propria funzione di rendere latino un aspetto
della paidèia greca, costituendo i cardini di una nuova cultura.... Che Varrone
ci dica quello che fa, poiché le sue Muse tacciono piu a lungo del solito. Non
credo che abbia smesso di lavorare, ma penso che nasconda le cose che scrive.
"Niente a~o," rispose Varrone, "secondo mc, anzi, è follia
scrivere ciò che poi si 'Vuole nascondere. Ho, invece, tra le mani una grossa
opera, di cui da tempo mi propongo di dedicare una 3 Nato nel 116 circa a. C. a
Rieti, nella Sabina, da una illustre famiglia plebea, Marco Terenzio Varrone fu
soprattutto uomo di lettere e di vastissima cultura, anche se per un certo
periodo si oc:cupò di politica. Questore nell'86, legato, propretore di Pompeo
nella guerra contro Sertorio (76 e seguenti), uibuno della plebe, pretore nel
68, legato di Pompeo nella guerra contro i pirati (67), Varrone vedeva in
Pompeo il salvatore delle antiche tradizioni repubblicane. Addolorato per
l'alleanza di Pompeo con Cesare e Crasso, segui di nuovo Pompeo contro Cesare
nella Spagna ulteriore (49). Dopo Fàrsalo si ritirò definitivamente dalla vita
politica attiva per darsi tutto agli studi, ma sempre in funzione di Roma. Sia
pur avendo combattuto contro Cesare, sia pur avendo scritto l'elogio di Porcia,
la moglie di·Catone Uticense avversario di Cesare, Cesare, al quale Varrone
aveva dedicato nel 47 le Antìquitates rerum divi,..,m, gli diede l'incarico di
organizzare un complesso di pubbliche biblioteche latine e greche (cfr.
Svetonio, Caes., 44). Morto Cesare nel 44, Varrone rientrò tra i proscritti di
An· tonio. La sua casa e la sua ricchissima biblioteca furono saccheggiate e fu
in quell'oc· casione che molte delle opere di Varrone andarono perdute. Varrone
si dette alla macchia e fu nascosto da amici fidati, tra cui Fufio Caleno.
Amnistiato poté tornare ai suoi studi. Morl nel 27 a. C., l'anno stesso in cui
Ottaviano prese il nome di Augusto. Varrone stesso, secondo Gellio, III, IO,
I7, nel I libro delle Ebdomadi, scrivèva che a 84 anni aveva composto 490
libri: il Ritschl, OfJUJt:., III, 525, riprendendo l'in· terrotto catalogo dei
titoli delle opere di Varrone olfertoci da S. Gerolamo e aggiun· gendo scritti
citati da autori antichi· che non si trovavano nel catalogo di S. Gerolamo,
arriva a citare 70 opere per un complesso di 620 libri. Di tale sconfinata
opera di Varrone resta pochissimo: Libri tres rerum rustìt:iiTUm (scritti a 80
anni); sei libri dei venticinque De linpa latina; un migliaio di frammenti
delle altre opere. Diamo qui un elenco dei titoli delle opere piu celebri di
Varrone: Antiquitates rerum humanarum et divinarum (41 libri); Annalium libri
tres; De vita populi Romani; De gente populi Romani; De Pompeio (3 libri);
Legationum libri 1I1; De iure civili (15 libri); DiscipliniiTflm libri IX (1.
De grammatica; 2. De dialectica; 3. De rheto- rica; 4. De geometria; 5. De
arithmetìca; 6. De astrologia; 7. De musica; 8. De me· dicina; 9. De
architectura); Libri tres rerum rustit:iiTflm; De lingua latina (25 libri); De
poematis (3 libri); De poetis; De Jt:aenicis originibus (3 libri); De
actionibus scae- nicis (3 libri); Quaestìonum Plautinarum libri V; De
lectionibus (3 libri); Suationes (3 libri); Orationes (22 libri); De
proprietate scriptorum (3 libri); De bibliothecis (3 libri); De similitudine
verborum (3 libri); Liber de philosophia; De forma philo· sophiae libri' IIT;
De principiis numerorum libri IX; Logistorici (76 libri); Saturae menippeae (4
libri); Pseudo-tragoetiiar11m (6 libri: tragedie da leggere, non da rap·
presentare); Poemata (I O libri).
121 parte al nostro amico (parlava di me Cicerone); è un
lavoro di una certa importanza, che sto limando e rifinendo. Varrone, dissi io, benché da tempo aspetù questo tuo
lavoro, non oso reclamarlo, ché il nostro Libone, di cui ti è noto l'affetto,
mi ha detto (certe cose non si possono nascondere), che, !ungi
dall'interrompere quest'opera, tu la rimaneggi con grande cura né mai l'abbandoni.
C'è però una domanda che fino ad ora non mi era venuto in mente di farti; ma
ora, che mi son dato all'impresa di trasmet- tere gli argomenti dei nostri
comuni studi, e di illustrare in lingua laùna quell'antica filosofia che è
cominciata con Socrate, dimmi, ù prego, perché tu, che scrivi tante cose,
accantoni questo genere, dal momento poi che in esso eccelli, e che tale studio
e tali quesùoni sono assolutamente superiori ad ogni altro studio e ad ogni
altra arte?" Varrone rispose: "Tu mi parli di un progetto cui ho
spesso pensato, che spesso ho agitato... Vedendo la filo- sofia trattata con
una cura. particolare negli seritti dei Greci, ho ritenuto che quelli dei
nostri concittadini che si sentono attratti da tali studi, se sono erudiù nelle
dottrine greche, leggerebbero le opere dei Greci piuttosto che le mie; mentre
quelli che non hanno gusto per le arù e le discipline greche, non si
curerebbero affatto di un lavoro che non si può comprendere senza conoscere
l'erudizione greca. Per questo non ho voluto scrivere opere che gl'ignoranù non
potrebbero comprendere, e che i dotti sdegnerebbero di leggere. Noi poi, che
rispettiamo come altrettante leggi i precetù della retorica e della dialettica
(due scienze che la nostra scuola mette nel numero delle virtu), siamo
costretti ad impiegare, nonostante la loro novità, alcuni termini che i dotù
preferiscono cercare tra i greci, e che gl'ignoranti non vorrebbero neppure
ricevere da noi. Sarebbe, dunque, un lavoro inutile. Non solo, ma tu, Cicerone,
conosci la nostra fisica: essa abbraccia la forza efficiente e la materia che
questa forza plasma e modifica: abbiamo dun- que bisogno anche della geometria.
Infine, mediante quali termini ·si potrà esprimere e far capire i principi che
concernono la vita, i costumi, ciò che si deve fuggire e ciò che si deve
cercare?... (In questo campo], noi ci riallac- ciamo alla vecchia Accademia...:
quanta sottigliezza ci vorrà per esplicarne le dottrinel Quale spirito e
oscurità nelle nostre discussioni contro gli stoici! Tengo, dunque, per me solo
i miei studi filosofici, e ne faccio, per quanto mi è possibile, la regola
della mia condotta e il diletto dell'animo, d'accordo con Platone che la
filosofia è il piu grande e il piu bel dono che l'uomo abbia ricevuto dagli
dèi. Ma quelli dei miei amici che s'interes- sano di questi studi, li mando in
Grecia, consiglio loro di andare ad attin- gere alla fonte piuttosto che ai
rivi che ne derivano. Quanto alle cose che nessuno aveva ancora insegnato, e
che gli studiosi non potevano trovare in nessuna parte, ho cercato, per quel
che ho potuto (non ammiro granché le mie cos<:), di farle conoscere ai miei
concittadini. Sono ricerche che non si potevano chiedere ai Greci, né, dopo la
morte del nostro L. Elio, ai Latini. Ad ogni modo, le opere della mia
giovinezza, in cui imitatore, non traduttore, di Menippo, ho diffuso qualche
gaiezza, contengono certo cose riprese dal fondo stesso della filosofia e non
poco dalla dialettica; non solo, ma perché i meno dotù, invitati a leggere dall'interesse
dell'argomento, comprendessero piu facilmente tali questioni filosofiche, mi
sono proposto di trattarle nei miei Elogi e nei proemt delle mie Antichità, se,
comunque V l sono ClUSCltO. "SI," risposi, "ci sei riuscito,
Varrone; stranieri nella nostra città, errànti come viaggiatori, le tue opere
ci hanno, per cosi dire, ricondotti a casa, e, grazie a te, possiamo finalmente
conoscere chi siamo e dove viviamo. Sei tu che ci hai rivelato l'età della
nostra patria, la successione dei tempi, i diritti della religione e del
sacerdozio; tu che hai esposto l'amministrazione interna, la disciplina
militare, la disposizione dei quartieri e dei luoghi, tu che ci hai svelato i
nomi di tutte le cose divine e umane, le specie, le fun. zioni e le cause. Tu
hai diffuso luce sui nostri poeti, sulla nostra letteratura, sulla nostra
grammatica. Tu hai composto un poema vario, elegante, quasi perfetto; tu,
certo, hai in piu parti toccato questioni filosofiche, abbastanza per dare
l'impulso, non sufficientemente per istruire..." (Cicerone, Va"o,
I-III, 2-10). Varrone, per quel che ne sappiamo, fu soprattutto un uomo di
studio. Forte di una certa concezione filosofica generale, senza dubbio sulla
scia del suo maestro Antioco di Ascalona (cfr. Cicerone, Va"o, III, 12),
applicò alle proprie ricerche sul mondo antico, greco e romano, il metodo
istorico proprio della scuola peripatetica, cercando d'illumi- nare le sue
ricerche intorno ai costumi, alle leggi, alla religiosità, alla poesia e alla
letteratura, mediante la visione della vita e della virtu propria degli stoici,
dei cinici, e, pare, in particolare di Posidonio. Ad ogni modo sembra che le
molte letture, la sua curiosità di co- noscere le cose umane, attraverso i
monumenti e i documenti, lo ab- biano portato, nei suoi scritti, oltre alla
descrizione e alla schedatura di tutto ciò che aveva ritrovato Varrone servf
agli antichi sf come un'enciclopedia - a determinare come è che l'uomo, in
certe condi- zioni politiche, geografiche, sociali, culturali, costituisce
certi tipi di costume, di religione, di condotta politica. Sotto questo aspetto
si chia- risce come Varrone distingua, senza porre l'uno superiore o inferiore
all'altro, tre tipi di teologia, corrispondenti a tre modi diversi di spie-
garsi da parte dell'uomo la propria esigenza religiosa. Il discorso su dio in
forma di favola (teologia favolosa o poetica) risponde all'esi~ genza del
divino propria degli uomini ignoranti o incolti; il discorso sul divino
interpretato come ragion d'essere del tutto o causa, natura naturans (teologia
naturale), è il discorso proprio degli uomini di cul- tura (filosofi), che
identificano il divino con la stessa ragion d'essere o con le possibili
condizioni che rendono pensabile la realtà, quali che poi ognuno ritenga siano
le strutture del tutto (Varrone accettava la tesi accademico-stoica del divino
come anima mund1); il discorso sulla divinità, rispondente all'esigenza
dell'uomo in soCietà (teologia civile) di trovare un criterio
all'obbligatorietà della legge, può essere in con- trasto, per ragioni
politiche, con la t~ologia naturale (ove molte sono le soluzioni e le
interpretazioni), per cui, proprio in funzione della vita associata, secondo
Varrone, i discorsi della. filosofia intorno al divino e alla natura debbono
rimanere privati o chiusi in seno alle scuole, a meno ch'essi non coincidano
con le strutture legali di una certa comunità, servendo anzi a rendere conto di
tale legalità. Il che, per altra via, sembra spiegare il successo di certo
stoicismo e di certa Acca- demia nell'àmbito della classe romana, dirigente la
vita politica (cfr. per la testimonianza sulle tre teologie, Sant'Agostino, De
Civitate Dei, VI, 2-5). Gli studi storico-eruditi di Yarrone su come è che
l'uomo è uomo, lo portavano, d'altra parte, a sostenere che già gli studi e le
dimostra- zioni dei piu grandi pensatori dimostrano che l'aspirazione naturale
dell'uomo consiste nel realizzare pienamente se stesso (felicità), e che perciò
l'uomo è felice, allorché attua se medesimo sia come anima sia come corpo, ché
l'uomo è un tutt'uno d'anima e di corpo. Vita beata, perciò, si avrà quando
"virtu" (capacità di realizzare sé eccellente- mente) e
"naturalità" (ciò che è bene compiere, che è primo per natura, prima
naturae) coincidono, vita piu beata (beatior) allorché si abbiano anche quei
beni di cui potremmo fare a meno, b~atissima quando non manca nulla. Di qui
anche si capisce perché Varrone, dei due generi di vita (contemplativa e
attiva), ormai luoghi comuni della tradizione, non ritenga compiuto né l'uno né
l'altro, se presi a sé, ma ritenga perfetto il genere di vita misto, la vita
cioè che sia ad un tempo contemplativa e attiva, in cui l'azione scaturisca
dalla rifles- sione e la riflessione sia consapevolezza critica della propria
posizione nel mondo e nel mondo degli uomini. Varrone, da un lato, con la sua
sistemazione del sapere, e, dall'altro lato, attraverso l'ordinamento delle sue
ricerche per discipline, ebbe un'enorme influenza su tutta la cultura
posteriore e sull'organizzazione degli studi. Purtroppo della sua immensa produzione
- sembra abbia scritto oltre 490 libri - si sono salvati Libri tres rerum
rusticarum (che scrisse a 80 anni), sei libri dei 25 De lingua latina, pochi
fram- menti e non poche tracce del suo insegnamento e dei resultati delle sue
ricerche in quasi tutti gli autori posteriori. Cos{ sembra che tra le opere piu
lette e sfruttate siano state le Antiquitates rerum huma- narum et divinarum
(in 41 libri) e gli Anna/es (in 3 libri) - certo anche il De poematis, il De
poetis, il De scaenicis originibus, il De actio- nibus scaenicis, i Quaestionum
Plautinarum libri V, il De jure civili, i Logistorici - mentre notevole
influenza, rispetto all'organizzazione degli studi e degli insegnamenti,
mediante cui costituire il curriculum che formi l'uomo, che lo liberi con una
cultura fondata appunto sulle discipline liberali, hanno avuto i· Dùciplinarum
libri IX, cosi suddivisi: de grammatica, de dialectica, de rhetorica, de
geometria, de arithmetica, de astrologia, de musica, de medicina, de
architectura. Varrone era convinto, si come il suo amico Cicerone, della impor·
tanza della cultura per la formazione dei "cittadini." Solo che Cice-
rone fu piu preso nel giuoco politico che non Varrone. Varrone ebbe, certo,
uffici importanti (fu triumviro capitale, questore nell'86, propretore di
Pompeo nel 76, tribuno della plebe, pretore nel 68, partecipò alla guerra
civile dalla parte di Pompeo), ma, piu portato agli studi e alle ricerche,
pacificatosi con Cesare, al quale nel 47 dedicò. le Antiquitates, abbandonò
ogni velleità politica, proponendosi soprat- tutto l'organizzazione degli studi
(Cesare lo incaricò di mettere in- sieme una pubblica biblioteca). Riusd a
sfuggire alla proscrizione di Antonio. Purtroppo le sue biblioteche andarono
completa- mente distrutte. Altro il temperamento di Cicerone. Senza dubbio piu
ambizioso, egli, fin da giovane, fu attratto dalla carriera politica. Fu, anzi,
in funzione di questa che Cicerone venne elaborando una concezione, che,
riprendendo motivi circolanti nella cultura contemporanea, servisse a mantenere
un ordine e una misura che fossero salvaguardia, nei gravi conflitti, nella
lotta per il potere di singoli individui (popolari o aristocratici) - quando si
tenga poi presente che in effetto non esi- steva un "popolo" - della libertas
della res-publica. Studioso fin da ragazzo di retorica, in funzione di una
possibile carriera politica, e degli aspetti diversi della cultura propria del
suo tempo (egli ascoltò in Roma lo stoico Diodoto, l'epicureo Zenone, fu
particolarmente attratto da Filone di Larissa e dal retore Apollonia Molone),
preso dagli esempi di grandi oratori come Sulpicio, di giu- risti come Scevola,
di uomini politici corne Cotta, della funzione, dive- nuta oramai ideale, di
Scipione Emiliano, Cicerone tese per suo conto a trasformare la figura del
retòre, divenuto oramai solo maestro di retorica, precettista, nell'antica
figura del retore uomo politico, del- l'orator, nel senso di un Demostene, che,
tuttavia, deve inserirsi in una situazione politica e sociale assai diversa, per
la quale perciò si dove- vano far funzionare altri ideali, costituire una
diversa concezione, alla quale potevano servire certi recuperi di Platone e
degli Stoici, assunti entro i termini di una discussione dialettico-retorica
delle diverse ipo- tesi elaborate nelle scuole, mediante la tecnica dei pro e
dei contra, optando per quella tesi che piu sostenibile di altre (piu
probabile) servisse a convincere della validità e della superiorità di un certo
or- dine politico e giuridico. Per questo Cicerqne, non accettando la tesi 125 varroniana che le questioni
piu strettamente filosofiche si debbano discutere in privato o nelle scuole,
affermava· anzi ch'è necessario co- noscere e vagliare tutte le ipotesi, farle
conoscere, latinizzarle, sf che poi, caso per caso, a seconda del conflitto
politico in cui ci si trovi, mediante le arti del dire si possa convincere
(duttilmente assumendo di volta in volta sia il tipo di eloquenza detta
atticistica sia il tipo di eloquenza detta asianica) a quel certo ideale politico,
in funzione se- natoriale, che salvi il "cittadino," la
"res-publica," fondata sulla mi- sura della ragione, per cui ciascuno
abbia il posto che gli compete. Di qui la paura continua di Cicerone (e il
compromesso) nei__confronti di chi potesse assumere, o a nome del Senato o in
nome del popolo, potere personale. - Cicerone fu pompeiana finché Pompeo si
dimostrò difensore del Senato, ancora pompeiana durante la guerra civile, ché
in Cesare egli vedeva il possibile tiranno e non il princeps tipo Scipione
Emiliano; riti- ratosi dalla vita politica durante il periodo in cui Cesare
ebbe in mano il potere, Cicerone riprese la sua attività politica alla morte di
Cesare (15 marzo 44), in appoggio di Ottaviano, che gli sembrò il piu moderato,
il difensore dei diritti del Senato, moderatore della "res-publica,"
contro Antonio. Incluso nelle liste di proscrizione allorché Antonio, Ottaviano
e Lepido si trovarono d'accordo (secondo triumvirato), Cicerone fu ucciso dai
sicari di Antonio nella.sua villa di Formia il 7 dicembre 43. Cicerone se da un
lato appare come un conservatore, un senatoriale, dall'altro lato, certo,
mediante la sua visione platonico-stoicheggiante di un tutto ordi- nato, ove
tutto ha il suo giusto posto, in una ragionevale misura, ove lo stesso universo
si costituisce legalmente ed ove lo stesso uomo politico per eccellenza (cfr.
Somnium Scipionis) è colui che rappresentando il l6gos del tutto diviene una
specie di anima mundi del mondo politico, Cicerone attraverso le sue opere,- da
quelle retoriche a quelle dette filosofiche e giuridiche, ha preparato il
fondamento giuridico e filoso- fico di quella che sarà la concezione imperiale-repubblicana
di Ottaviano Augusto. Entro questi termini si vede bene la linea - anche
cronologica - del pensiero ciceroniano, dal De inventione (85-80) al De
officiis (44-43), che passando attraverso il De Oratore (55), il De republica
(54), il De Legibus (52), le Partitiones oratoriae e il Brutus (46), si compie
nel senso di un affinamento delle tecniche di persuasione e dello studio di
quelle tecniche stesse, mediante l'Orator (46), i Paradoxa stoicorum (46), i
Topica cui convincere, ponendo in discussione le varie ipotesi, per avviare -
tale è per Cicerone la funzione protrettica della filosofia, e sembra che
questo fosse il contenuto del perduto Hor- tensius (46) - a certi presupposti
valori, dialetticamente enunciati e 126 retoricamente discussi che
siano a fondamento della condotta civile quale veniva affrescata nella
Repubblica e nelle Leggi (Academica, De finibus, Tusculanae disputationes, De
natura deorum, Cato maior de senectute, De divinatione, De fato, De gloria,
Laelius de amicitia, De otficiis: opere da Cicerone composte tutte al tempo
della sua forzata inazione politica. Inutile ripetere, ora, quanto ab- biamo
detto cercando di ricostruire quelle che fuorono le componenti culturali del
II-I secolo a. C., e che per necessità di documentazione abbiamo rintracciato
attraverso Cicerone stesso (per la concezione ci- ceroniana della legge, della
r.es-publica, del decoro, dei doveri medi, del- l'honestum, dell'humanitas, del
consensus gentium, cfr. sopra). Certo, con Cicerone, attraverso la dialettica
(in senso soprattutto accademico-filoniano e tecnicamente stoico: "la
dialettica è l'arte che insegna a distribuire una cosa intera nelle sue parti,
a,spiegare una cosa nascosta con una definizione, a chiarire una cosa oscura
con una interpretazione, a scorgere prima, poi a distinguere ciò che è ambiguo
e da ultimo a ottenere una regola con la quale si giudichi il vero e il falso e
se le conseguenze derivino dalle assunte premesse": Brutus, 41, 152), si
determina il t6pos della filosofia intesa come discorso reto- rico-protrettico
in funzione di una certa forma di vita civile e legale, in una opzione
dell'ideale platonico-stoicheggiante di un tutto ragio- nevolmente (piu che
razionalmente) costituito. Filosofia, condottiera dell'esistenza! indagatrice
della virtu! vittoriosa avversaria deì vizi! Senza di te che ne sarebbe non
dico della mia vita, ma di quella del genere umano? Tu hai fatto nascere le
città; hai chiamato a raccolta gli uomini che vegetavano dispersi; li hai uniti
nella convivenza sociale, ottenendo il reciproco rispetto tra vicini ed
insegnando alle fami- glie a federarsi con patti nuziali; tu. hai rivelato agli
uomini le possibilità comunicative del linguaggio e della scrittura. Hai
inventato le leggi, hai suscitato le comunanze, hai dettato i doveri... Meglio
vivere un giorno a norma di filosofia, che tutta un'immortalità da dissennato.
E chi saprebbe aiutarci meglio di te? A te sola dobbiamo la tranquillità del
vivere; tu ci hai salvato dal terrore della morte... (Tusculanae, V, 2, 5-6). E
che si tratti di opzione, di un ordine posto piu che come essere coine dover
essere, di un fine cui convincere e convincersi mediante la dialettica e il
discorso mitico, sembra si chiarisca bene quando si tenga presente la polemica
di Cicerone nei confronti della divinazione, del fato e della simpatia
universale, nei termini in cui derivavano da una massiccia e
naturalistico-razionale interpretazione dello stoicismo teologico. Sotto questo
aspetto Cicerone sembra che rovesci la visione del tutto ordinato e
necessariamente articolato in una simpatia uni-
127 versale, per cui tutto ciò che avviene, avviene come è
bene che sia (Provvidenza), necessariamente (fato), onde si rende possibile la
divi- nazione, ch'era visione propria di certe posizioni stoiche. La questione
di come allora si possa sostenere la possibilità del libero atto umano, era
questione su cui già gli stessi stoici avevano a lungo discusso (in particolare
Crisippo), e su cui gli avversari avevano dato risposte opposte: e si era
assolutamente negato - almeno su di un piano logico - la conciliabilità tra destino
e libertà (si ricordi l’argomento principe di Diodoro Crono, che, contro
Aristotele, giungeva a negare, accettato che tutta la realtà è in atto, il
contingente e il possibile); oppure, negata la possibilità della conoscenza
della strutturazione del tutto (Carneade) o negato che il tutto sia razionalmente
costituito, sca- turendo anzi da un incontro casuale di atomi (Epicuro), si
giungeva ad accantonare la questione dell'ordine in sé, per sostenere che l'or-
dine e la misura sono dovuti alla stessa attività e alle iniziative umane,
mediante cui si sfuggiva al cosiddetto "argomento pigro" (ignava
ratio), ch'era la conclusione cui secondo i megarici (probabilmente i seguaci
di Diodoro Crono) doveva giungere chi sosteneva che il tutto è provvidenzialmente
e fatalmente ordinato. Se per te è destino di gua- rire da questa malattia,
guarirai; sia se ricorrerai a un medico sia se non ricorrerai. Egualmente se
per te è destino non guarire da questa malattia, non guarirai, sia se
ricorrerai a un medico sia se non ricor- rerai. Ora il tuo destino è l'una o
l'altra di queste cose, dunque non serve a niente ricorrere al medico"
(Cicerone, De fato, 12, 28). Non a caso Cicerone, particolarmente nel D e fato
(cfr. anche D e divina- tione), ripropone la lunga discussione sul destino e
sulla libertà, pro- spettando sia le concezioni antologiche (da Crisippo a
Epicuro), sia quelle logiche che negando il possibile e la libertà sul piano.logico
(Diodoro), non escludono su altro piano (allorché si dimostri con Car- neade
che strutture della ragione e strutture della realtà possono non coincidere)
che sia possibile da parte umana volere quell'ordine che, col criterio della
probabilità, si pone come termine di realizzazione, solo miticamente e
idealmente posto dietro le spalle, lasciando all'uomo la possibilità di
costituire quell'ordine idealmente presupposto, a cui con- vincere mediante le
tecniche della persuasione. Tale sembrò allora a Cicerone - nel periodo di pace
fredda con Cesare e di inazione politica diretta - la sua funzione politica
("la filosofia rimase trascurata fino ad ora, né mai brillò nella
letteratura latina; dobbiamo noi darle vita e splendore, e, se nella mia
attività politica io fui utile ai miei concittadini, lo sia, per quanto è
possibile, anche ora che mi sono ritirato a vita privata": Tusc. disp., l,
3, 5). Nella Repubblica e nelle Leggi egli aveva delineato quale doveva essere
lo stato nella sua fondazione e nella sua costituzione giuridica, tenendo
presente l'ideale figura di Scipione, non imperator, non rex, ma princeps,
moderatore e reggitore dell'ordine ragionevole della res- publica, si come la
divinità lo è del cosmo. Ora, a quell'ordine e a quella misura si doveva
convincere per altra via. Non assunta dogma- ticamente alcuna posizione o
concezione già data - ad ogni posizione come tale si può opporre altra
posizione, - si determina il metodo del- l'opzione per una qual certa ipotesi,
a seconda della sua probabilità e del suo possibile successo in funzione di una
certa concezione che serva alla vita politica e associata (Accademici). Tale
atteggiamento scettico, rispetto alla struttura della realtà, portava Cicerone
in una, volta a volta, rigorosa discussione ed esposizione delle tesi opposte,
ad assu- mere quella certa tesi che servisse a quel certo scopo, attraverso una
retorica convinzione (De fìnibus, Tusculanae disp., De natura deorum), si che
l'ordine e la misura prospettati (ch'erano poi l'ordine e la misura
genericamente stoici e platonici) divenissero termini di volontà, azione per
combattere chi volesse rompere quell'ordine politicamente e giuri- dicamente
costituitosi, in un equilibrio sociale, che, d'altra parte, esclu- deva
l'accettazione supina di un ordine necessario che, alla fine, poteva portare
all'indifferenza per tutto ciò che avvenisse, appunto alla pigra ragione (De
divinatione, De fato, De otficiis). In effetto l'opera di Cicerone presenta
costantemente due aspetti: un Cicerone piu intimo, che, in fondo, non crede in
nulla, angosciato - in un'epoca in cui morire era facile, in cui le vecchie
tavole dei valori erano travolte - dall'idea della morte, che attraverso il
successo e l'azione e l'opera personale spera nella gloria, unica eternità
("breve è la vita che da natura abbiamo ricevuto; ma se nobilmente la ren-
diamo, essa lascia sempiterna memoria. Se tale memoria non durasse piu della
stessa vita, chi sarebbe tanto folle da cercare, al prezzo delle piu grandi
fatiche e dei piu grandi pericoli, di raggiungere la lode e la gloria- supreme?...
E cosi, in cambio della. vostra condizione mortale avete ottenuto
l'immortalità": Filippiche, XIV, 12, 32: e sono le ultime parole di
Cicerone), che delinea per sé e per gli altri del suo gruppo, della sua classe,
una specie di modus vivendi, un'etica che si risolve in un giusto mezzo di tipo
aristotelico, e per cui, appunto, la virtu sta, di volta in volta, in un saper
dominare se stessi e le cose con misura, con distacco, in una convenienza che
si rivela fin nel tratto, nella voce, nel modo di vestire e di parlare, in un
vivere civile, che si delinea alla fine in un tipo di morale da
"signori," e, perciò, per cosi dire, in un "galateo"; e un
Cicerone pubblico, uomo politico, orator, che, in fun- zione della classe degli
optimates, tende a difendere un tipo di res- publica, e per cui, su di un piano
retorico vale la pena di ricorrere
129 anche ai piu consunti t6poi dell'ordine e della misura
del tutto, del- l'armonia dei cieli, delle leggi stellari, dell'influenza degli
astri (non si scordi che Cicerone aveva. tradbtto parte del Timeo e i Fenomeni
di Arato),.della funzione civile degli àuguri, onde per il popolo servono la
teologia poetica e la teologia civile delineate da Varrone. Non a caso cosi
Cicerone che, per altro verso (e perché fosse possibile l'azione da parte di
chi aveva le capacità di governo, di con~ro al pericolo del tiranno o di chi
assumesse potere personale), negava la divinazione il fato, ponendo l'ordine e
la misura come termini di realizzazione, poteva sostenere invece nelle Leggi: Credo
che effettivamente esista la divinazione, che i Greci chiamano mantica (II, 13,
32). Lo Stato e il popolo hanno sempre bisogno del con- siglio e dell'autorità
degli ottimati... La istituzione e l'autorità degli àuguri è di vitale
importanza per lo Stato, e dico ciò non perché io sia uno di loro, ma perché è
di vitale importanza mantenere questa· opinione... C'è un privilegio maggiore
della possibilità di interrompere una impresa d'interesse pubblico solo che
l'àugure dica: "Un altro giorno?" C'è cosa piu meravigliosa che
potere imporre le dimissioni di un console? Cosa vi è di piu religioso che
poter dare o rifiutare il diritto di presentarsi al popolo o alla plebe, che
potere abolire una legge ingiusta? (II, 12, 30-31). "Con Cicerone, come
con Platone,".commenta il Farrington, "biso- gna sempre porsi la
domanda: queste sono le parole del legislatore o del filosofo?" (Scienza
e· politica nel mondo antico, trad. it., p. 217, n. 33, Milano, 1960); e
prosegue: "questa era l'attività delle due piu rilevanti figure di
letterati (Varrone e Cicerone) nella Roma degli anni immediatamente precedenti
e seguenti alla morte di Lucrezio. Inoltre la loro elaborata teoria sul
problema di salvare la società conservando e inculcando la superstizione non è
un fenomeno isolato, ma è in armonia con la pratica del governo romano
testimoniata da Polibio e con la teoria politica formulata dai maestri stoici
della classe dirigente romana, dopo che Polibio e Panezio ebbero aperto allo
stoicismo il nuovo mondo d'Occidente" (cit., p. 187). 3. L'Epicureismo a
Roma. Epicurei romam. Filodemo di Gadara. Lucrezio Entro i termini della
problematica ciceroniana, sembra chiaro l'at- teggiamento costantemente
polemico di Cicerone nei confronti dell'epi- cureismo. Cicerone non combatte
tanto l'ipotesi epicurea quale possi- bile ipotesi con cui spiegare la
pensabilità del reale, quanto gli esiti a 130 cui quell'ipotesi
conduce sul piano politico-sociale, particolarmente per quel che riguarda la
tesi dell'ordine razionale e unico del tutto, e la tesi della religiosità della
legge naturale, messe iri forse dalla filosofia di Epicuro, donde derivava
anche la polemica di lui contro la cultura ufficiale, contro la superstizione
usata come strumento politico, ma soprattutto la conclusione che l'uomo,
ciascuno, è responsabile del pro- prio mondo, della costruzione del rapporto
umano, indipendentemente da elaborate discussioni sul divino, sui processi
conoscitivi, sulla dialet- tica e sulla retorica, che sembravano finire in
esercitazioni puramente scolastiche. Va, dunque, ora, tenuta presente la forza
rivoluzionaria dei mo- tivi dell'epicureismo e cioè il deciso sganciamento
dell'uomo da un ordine precostituit.o e razionale per sé; il mondo umano
costituito storicamente dagli stessi uomini entro l'arco della vita umana (e
non si scordi il motivo della convenzionalità del diritto e della giustizia);
la liberazione degli uomini da preconcetti e pregiudizi religiosi e
teologico-politici (da cui la polemica di Epicuro contro un tipo di cultura e
di politica); l'appello di Epicuro ad intendere la natura per quello che la
natura è, ascoltando la "voce delle cose"; la raziona- lità dovuta
alla stessa attività della ragione nella costruzione del pro- prio mondo in un
equilibrio e in una misura che sono conquista e non dati; il risolversi della
realtà, umanamente, nel linguaggio (per cui, poi, in effetto, semanti.camente
la logica epicurea poteva coincidere, escluso che il segno evochi la cosa
coincidendo con la cosa stessa, con la logica stoica del tipo di quella di
Zenone di Cizio). Non solo, ma di qui anche, per i non addottrinati (Epicuro si
rivolgeva a tutti, uomini e donne, non barbari e barbari), l'appello di Epicuro
alla semplicità del- l'insegnamento, a dare quelle poche nozioni non
contraddittorie e intui- tive sulla costituzione della realtà che rendano
capace l'uomo di pen- sare con la propria testa, liberandosi da pregiudizi e
paura, dal mistero della natura, di cui solo pochi eletti possono parlare
(altro aspetto della polemica di Epicuro contro la cultura), e l'appello di
Epicuro all'ami- cizia, all'isolarsi da un certo mondo politico, in un rapporto
di uomini, che, comprendendosi, trovino nel con-vivere (amicizia) il
significato di un mondo costruito dagli uomini stessi,. in equilibrio e serena
armonia (cfr. per quanto sopra, vol. 1).4 4 Degli Epicurei di Atene e scolarchi
del giardino dopo Epicuro sappiamo, in realtà, solo i nomi, e che seguirono e
diffusero il pensiero del maestro. Ne abbiamo l'elenco dal primo scolarca dopo
Epicuro al 51 a. C., anno in cui, sembra, l'Areopago di Atene concesse al
romano Memmio di edificare sull'area occupata dalla Scuola di Epicuro. Essi
sono: Ermarco, Polistrato, Basilide, Demetrio di Laconia, Apollodoro Tiranno
del Giardino, Zenone di Sidone (morto nel 79-78, ascoltato da Cicerone), 131 Gli esiti, dunque,
dell'ipotesi epicurea e ~ella propaganda epicurea preoccupano Cicerone. Egli è
preoccupato perché, spezzato il pregiu- dizio (politicamente utile) di un ordine
già dato, di una divinità che è legge e dell'immortalità dell'anima, mediante
un insegnamento fon- dato su poche e semplici nozioni - possibili di essere
comprese da tutti, - si poteva liberare il popolo dalla catena del divino e
dalla paura dell'aldilà, donde ne sarebbe derivata, disancorata da una razio-
nalità costituita, un'irrazionalità pericolosissima per quella res-publica
difesa da Cicerone: non a caso Cicerone insiste contro gl'indifferenti dèi di
Epicuro, messi "a riposo" (cfr. De nat. deorum, I, 44, 123), non pio
elementi perturbatori dell'operare umano, e contro l'ipotesi dell'incontro
fortuito degli atomi e del clinamen (cfr. De nat. deorum, I, 25, 69-70; De
finibus, I, 6, 19), da cui secondo Cicerone deriverebbe la stessa irrazionalità
del mondo umano: "Come non dovrei meravi- gliarmi," esclama Cicerone,
"che vi sia un uomo capace di credere che elementi solidi e indivisibili,
movendosi di propria forza e aggregan- dosi a caso fra di loro, diano origine a
questo nostro mondo, pieno di tanta armoniosa bellezza? Chi crede possibile
questo, non capisco perché non creda possibile ançhe che, seminando alla
rinfusa una certa quantità di lettere dell'alfabeto, impresse in oro o in
qualsiasi altro Fedro (ascoltato da Cicerone), Patrone (scolarca dal 70 al 51
a. C.). Cfr. oltre nel testo. Cosl, poco o nulla sappiamo della prima
diffusion~:~ dell'epicureismo in Roma, sicura da prima del 173 a. C., se di
quell'anno è l'espulsione da parte del Senato di due epicurei venuti dalla
Grecia Alceo e Filisco (cfr. Ateneo, XII, 68, 547a; Eliano, V.v. hist., IX, 12)
e dei primi epicurei romani, che avrebbero diffuso la dottrina di Epicuro in
latino. Essi sono: Amafinio, Rabirio e Cazio, di cui non altro sappiamo se non
ciò che riferisce Cicerone. Cfr. oltre nel testo. Durante il 1 secolo a.C.
furono in Roma e nel circolo epicureo, formatosi a Napoli e a Ercolano,
Filodemo di Gàdara e Silone. Nato a Gàdara, in Silia, nel 110 a.C. cilca, morto
dopo il 40, non oltre il 30 (Strabone, XVI, 754), discepolo di Zenone di
Sidone, venuto a Roma, Filodemo entrò in dimestichezza di Pisone e con lui,
nella villa di Pisone ad Ercolano, fondò un vero e proprio eilcolo epicureo.
Tra i molti libri epicurei ritrovati in papili nella casa di Pisone ad
Ercolano, molti sono frammenti e testi dello stesso Filodemo. Sono pubblicati:
L'ordinamento dei filosofi (andato sotto il nome di Intlez Herculanensis,
comprendente un Indice degli Accademici, uno degli Stoici, uno dei Socrtllia);
Su Epicwo (llcpl 'Emxoòpou) i Sulla morte (llcpl &«v<iwu) i Sugli tln
(llcpl &c6iv) i Sulla religio- sitìj (llcpl ~lccç) i Sulla musica (llcpl
IJ.O~) i Sugli Stoici (llcpl -r6iv:E-rtn- x6iv); Sui segni (llcpl
cnJILII(c,)" X4l cnJILII~");.Atluersus Sophisttu. Molto poco sappiamo
di Silone, se non che avrebbe fondato, in Napoli, un vero e proprio cilcolo epicureo,
assai vivo durante la metl del 1 secolo a. C. Di lui parlano Cicerone che lo
dice uir optimus et tloctissimus e Vilgilio che lo avrebbe avuto maestro a
Napoli. Su di lui si cfr. Papiro Ercolanmse 312 pubblicato dal Cronert in
Colotes unti Menetlemos, Lipsia, 1906. Il Papiro ercolanense l 044 dA poi
alcune notizie biografiche di ·Filonide epicureo, vissuto nella prima metl del
1 secolo a.C., morto a Laodicea, e, perciò, detto di Laodicea, il quale avrebbe
diffuso in Oriente l'epicurei~mo, convertendo ad esso, me- diante il peso di
ben 125 ofiUScoli (~T«) il re Antioco Epifane. ] metallo, queste si
disporrebbero in terra in modo da comporre lcggi- bilmcnte il testo degli
Annali di Ennio. Non so davvero se il caso riu- scirebbe a tanto da formare un
solo verso. Ma se il concorso degli atomi è da tanto, che dà origine a un
mondo, perché non dovrebbe dare ori- gine anche a tante altre produzioni meno
faticose c meno complicate, come un portico, un tempio, una casa, una città? Mi
pare insomma che chi tanto infondatamente sragiona sul mondo, non abbia mai
get- tato un'occhiata alla meravigliosa bellezza dci cieli. Per me io rinuncio
ad ogni altro troppo elaborato tentativo di spiegazione; mi basta con- templare
con gli occhi la bellezza di tutto ciò che noi affermiamo sta- bilito dalla
divina provvidenza" (De_nat. deorum, Il, 37-38, 93-94, 98: ove va ricordato
che è Balbo a parl~re, esponendo la tesi stoica sostc- nua da Posidonio nel
Ilept.&e&v- Sugli dèi, - in contrapposizione alla tesi ecipurea sugli
dèi, esposta da C. Velleio sulla linea del IIept.&e&v - Sugli dèi -
dell'epicureo Fedro di Atene, nel I libro del De natura deorum). Non solo, ma
Cicerone era preoccupato anche perché il motivo epi- cureo dell'ordine c della
misura dovuti alla stessa attività umana, indi- pendentemente da ogni legge già
data e naturale, poteva portare alla rottura della legge costituita da parte di
uomini, che, avendone la capacità, tendessero ad assumere potere personale
(forse anche di qui la fama di Cesare epicureo), ed infine perché l'epicureismo
poteva dive- nire presso chi s'era nauseato della vita politica quale si
svolgeva in Roma, evasione da quella stessa politica, in conventicole di amici,
che sembravano tradire l'azione civile cui si appellava Cicerone, ma che, per
altro verso, potevano essere d'accordo con Cicerone, contro la tiran- nide
(come fu il caso dell'epicureo Cassio, che uccise Cesare). Sembra, in tal
senso, molto indicativo che Cicerone sostenga di non avere mai letto un rigo
degli epicurei latini che avevano diffuso la dot- trina epicurea tra il popolo,
affermando che sono troppo facili, rozzi, plebei (cfr. Va"o, 2; Tusc.
disp., l, 3, 6; Il, 3, 7-8; IV, 3, 5-7); ch'egli non discuta·mai a fondo le
tesi di Epicuro, apponendogli altre tesi (ad esempio l'immortalità dell'anima,
supinamentc accettata dal Pedone, il motivo dell'ordine e della legge del
tutto, dell'ordine e della perfe- zione dei moti stellari, rivelanti la
divinità che tutti accettano, consensus gentium: cfr. Tusc. disp., I, 11 sgg.;
De natura deorum, Il, 37 sgg.); ch'egli pur ammiri la personalità e l'esempio
della virtu di Epicuro ("e chi nega ch'Epicuro sia stato un uomo buono,
gentile, ben edu- cato? in queste discussioni l'indagine verte sulle sue idee,
non sulla sua condotta; lasciamo alla frivolezza dei Greci codesta moda
bizzarra di far della maldicenza sul conto di quelli da cui dissentono nella
ricerca del vero...; non solo, ma molti Epicurei furono e sono al presente
fedeli 133 nelle amtctzte,
equilibrati e sen m tutta la vita... ma...": D~ finibus); e che, infine,
decisamente affermi che le posizioni epi- curee e il loro linguaggio
"dovrebbero essere proibiti da un c~nsor~ piuttosto che rifiutate da un
filosofo" (D~ finibus, II, 10, 30). Le stesse ragioni che muovevano
Cicerone a condannare le tesi epi- curee, aveva mosso nel 173 o nel 154 (a.
seconda che il console ricordato, L. Postumio, sia quello del 173 o quello del
154 a. C.) il Senato romano a espellere da Roma due epicurei venuti dalla
Grecia, Alceo e Filisco (cfr. Ateneo, XII, 68, 547a; Eliano, Var. hist., IX,
12). "Per avere introdotto costumi licenziosi," si legge in Ateneo:
cioè dottrine che, rispetto al costume romano, sembravano immorali. Entro
questi termini può essere significativo ricordare un testo della Bibbia, cioè
un passo del Lib~r sapientiae, composto circa in questa stessa età in am-
biente ebraico-alessandrino, in cui sono espressi gli stessi timori nei
confronti dell'epicureismo - o comunque di posizioni che con l'epicu- reismo
potevano essere affini per la loro inton~zione mondana - rela- tivamente, anche
se per altra via, al pericolo che per i costumi comporta la negazione
dell'immortalità dell'anima e l'annullamento del pregiu- dizio che Dio sia
signore e legge del tutto. Gli empi con i fatti e con le parole chiamarono a sé
la morte, e cre- dendola amica si consumarono e contrassero con lei alleanza:
perché sono degni di appartenerle. Essi, infatti, non giudicando rettamente,
dissero fra di loro: breve e noioso è il tempo della nostra vita e non v'è
refrigerio alla fine dell'uomo, e non si sa che alcuno sia tornato
dall'inferno. Perché noi siamo nati dal nulla e poi saremo come se non fossimo
stati, perché il fiato delle nostre radici è un fumo: e la parola è una
scintilla che viene dal movimento del nostro cuore. Spenta questa, il nostro
corpo sarà cenere, e lo spirito si disperderà come aura leggera e la nostra
vita passerà come la traccia di una nuvola, e si scioglierà come la nebbia
battuta dai raggi del sole e sopraffatta dal suo calore. E il nostro nome sarà
dimenticato col tempo, e nessuno avrà memoria delle nostre opere. Perché il
nostro tempo è un'ombra che passa, e finiti come siamo non si torna a capo, si
mette il sigillo, e nessuno torna indietro. Venite dunque e godiamo dei beni
pre- senti, e profittiamo delle creature, come della gioventU con
sollecitudine. Empiamoci di vino squisito e di unguenti: e non si lasci
sfuggire il fior(della stagione. Coroniamoci di rose prima che appassiscano:
non vi sia pratò, per cui non passi la nostra cupidità. Nessuno di noi sia
escluso dai nostri sollazzi: lasciamo in ogni luogo i segni della nostra
allegria, perché questa è la nostra parte e la nostra sorte (Libro della
sapienza). In tal senso verrà sempre interpretato, dagli avversari
dell'epicurei- smo, il "piacere" epicureo e in tal modo verranno
giudicate le lorc riunioni amichevoli e conviviali, i loro sodalizi di amici
che, sappiamo 134 si diffusero in Oriente e in Occidente. E cosr
sembra assumere un significato ancora maggiore la lotta degli ebrei di Palestina
contro Antioco Epifane, quando si pensa che probabilmente la diffusione del-
l'ellenismo in quel paese ad opera di Antioco, la sua lotta contro. la
superstizione ebraica (cfr. Maccabei, I) fu, in effetto, dovuta all'epi-
cureismo cui si era convertito il re Seleucida, se diamo valore ad un frammento
in cui si dice che Filonide di Laodicea, epicureo, era riuscito a piegare, in
Antiochia, il re Antioco all'epicureismo: "piegato dall'aggre~sione
di·almeno centoventicinque opuscoli, Antioco dovette soccombere" (cfr. V.
E. R. Bevan, The house of Seleucos, II, pp. 276-7; anche B. Farrington, cit.,
p. 147). Ad ogni modo sappiamo, attraverso Cicerone, che circa nella se- conda
metà del 11 secolo a. C., l'epicureismo, ad opera dei latini Amafinio, Rabirio,
Cazio, si era diffuso in Roma e in Italia, soprattutto presso il popolo (plebs,
dice Cicerone, che è termine preciso e che ha un suo significato giuridico).
Sono, appunto, i testi di questo epicu- reismo facile, plebeo, che evade da
discussioni tecniche, che non si preoccupa di dialettica e di retorica, sono
questi i testi che Cicerone finge di non aver mai letti, e nei quali ci si
sarebbe impegnati, attra- verso un'esposizione della fisica epicurea, a
liberare gli uomini dalla superstizione. Lo studio della sapienza, ovvero
filosofia, è certamente antico presso di noi [romani}, però non riesco a
trovare nomi da citare per il periodo ante- riore a Lelio e Scipione Emiliano. Quando
questi erano giovani, mi ri- sulta che furono mandati dagli Ateniesi, come
ambasciatori presso il senato, lo stoico Diogene e l'accademico Carneade; essi
non si erano mai occupati di politica, uno era di Cirene e l'altro babilonese:
certamente non sarebbero stati tolti al loro insegnamento e scelti per
quell'incarico, se in quei tempi certi nostri personaggi in vista non avessero
dimostrato interesse per la cul- tura filosofica. Essi però affidavano allo
scritto gli altri loro studi, chi il diritto civile, chi i propri discorsi, chi
le memorie degli antenati: ma pre- ferirono attendere a questa dottrina, che
insegna a vivere bene ed è la piu nobile di tutte le arti, con la loro vita piu
che cori i loro scritti. Pertanto quella vera e otti~a filosofia che, iniziata
da Socrate, trovò finora i suoi continuatori nei P~ripatetici ed anche negli
Stoici che sostenevano le stesse idee in modo diveJ1So, mentre gli Accademici
facevano da arbitri nelle loro controversie, non è rappresentata da quasi
nessuna o da ben poche opere in latino, sia perché l'impresa era grande e gli
uomini troppo affaccendati, sia anche perché pensavano che tali studi non
potevano essere apprezzati da gente del tutto profana. Frattanto, mentre quelli
tacevano, prese la parola Gaio Amafinio, e la plebs sotto l'influsso dei libri
da lui pubblicati si rivolse soprattutto a quella dottrina, sia perché era
molto facile da capire, sia perché le dolci attrattive del piacere erano
invitanti, sia anche perché, -non essen-
135 dosi prodotto nulla di meglio tenevano quel che c'era.
Dopo Amafinio molti seguaci della medesima dottrina lo imitarono scrivendo
molte opere, e inva- sero tutta l'Italia; e mentre la miglior prova della
grossolanità di quelle idee sta nel fatto che sono cosi facilmente apprese e
approvate dagli igno- ranti, essi credono che questo confermi la verità della
loro dottrina (Tusc. disp.). C'è una categoria di persone che vogliono essere
chiamate filosofi, e si dice abbian scritto davvero molti libri in latino: io
non li disprezzo· in quanto non li ho mai letti, ma poiché·quegli stessi che li
scrivono dichia- rano apertamente di scrivere senza conveniente determinazione
e ordinata disposizione della materia e senza alcuna accuratezza né eleganza di
stile, io trascuro una lettura che non offre alcun diletto. Nessuno infatti,
sia pur di modesta cultura, ignora che cosa dicono e pensano i seguaci di
quella tale scuola. Perciò, poiché no!Y'si preoccupano essi stessi della
maniera di esprimersi, non capisco perché" debbano essere !ehi se non fra
di loro che hanno le medesime idee. In realtà, tutti leggono Platone e gli
altri della scuola socratica e tutta la serie dei filosofi che da questi
derivarono, li leg- gono anche. coloro che non accettano o. non si entusiasmano
per quelle teorie; ma quasi nessuno prende in mano Epicuro e Metrodoro, tranne
i loro seguaci. Allo stesso modo leggono questi Latini soltanto quelli che
ritengono giuste tali teorie (Tusc. disp., Il, 3, 7-8). Pertanto quei tali leg-
gono i loro libri con quelli del loro ambiente, e nessun altro li prende in
mano se non coloro che pretendono la libertà di scrivere allo stesso modo
(Tusc. disp., I, 3, 6). Amafinio e Rabirio, non seguendo alcuna tecnica,
trattano con stile volgare (vulgari sermone) di ciò che cade sotto gli occhi di
tutti. Non sanno definire nulla, nulla dividere, nulla concludere con retta
interrogazione: ritengono, infine, che non vi sia alcun'arte, né per la parola,
né per il ragio- namento... In fisica, se approvassi Epicuro, cioè Democrito,
potrei espri- mermi con piu facilità di Amafinio. È, difatti, cosa grande,
respinte le cause efficienti, parlare del concorso fortuito dei corpuscoli
(cosi chiamano gli atomi)?... (Varra, Il, S-6). Ogni volta che ci penso, mi fa
spesso mera- viglia la stranezza di alcuni filosofi [Epicurei J che ammirano la
conoscenza della natura ed esultando ringraziano chi per primo la scopri e lo
vene- rano come un dio; si proclamano infatti liberati per merito suo da gravi
padroni, cioè da un terrore continuo ed eterno e da un timore che giorno e
notte li tormenta. Da quale terrore? da quale timore? Quale vecchierella è tanto
pazza da temere codeste fole, che voi evidentemente temereste se non aveste
studiato la scienza della natura, e cioè i "templi acherontei nel profondo
dell'Orco, luoghi pallidi di morte, oscurati da tenebre?'' (Tusc. disp., I, 21,
48). Su testimonianza dello stesso Cicerone, l'Epicureismo, nelle sue linee di
fondo, nella sua polemica contro un certo tipo di cultura ("lo studio
della natura non forma un tipo d'uomo bravo a van- 136 tarsi e a
straparlare e a sc10nnare quella cultura che è tanto ricer- cata dai piu":
Gnom. Vat., 45), nella sua semplicità d'interpreta- zione della natura, opposta
alla complessa interpretazione platonico- stoica, si diffuse, nonostante la
censura senatoriale del 173, in Roma e in Italia, particolarmente presso il popolo;
tuttavia non abbiamo suf- ficienti testimonianze e documenti per potere
affermare il successo politico che avrebbe avuto l'epicureismo presso quel
popolo medesimo in contrapposizione alla classe senatoriale e degli ottimati,
in una ribel- lione contro la superstizione e il timor degli dèi, imposto da
chi aveva in mano il potere, in un'interpretazione di tesi platoniche,
aristoteliche e stoiche. In effetto, a Roma, c'era un popolo (plehs), ma non
esisteva un popolo organizzato, cioè non esisteva un'educazione popolare, tale
da dare al popolo una certa ideologia. Si capisce perciò perché, in Roma e nel
mondo latino, piuttosto che l'epicureismo abbia avuto>Ìn ambienti popolari,
piu successo l'Orfismo, il Pitagorismo (che anzi proprio ora si sarebbero costituiti
a dottrine della salvazione dell'anima, mediante certe pratiche e riti), alcuni
aspetti mistico-irrazionali del platonismo di origine orientale. Tanto piu
chiaro si fa, allora, in Roma, al prin- cipio del 1 secolo a. C., sia di fronte
alla cultura ufficiale, sia di contro alle superstizioni proprie di certo
Orfismo e Pitagorismo, l'appello appas- sionato di Lucrezio (99-95/55-51
circa), la ·sua interpretazione latina del "libro" epicureo (De rerum
natura, ·in 6 libri). A tal proposito sembra, anzi, interessante ricordare che
Cicerone, il quale pare sia stato l'editore dell'opera di Lucrezio (o per lo
meno rivide alcune parti del poema, forse su invito del fratello Quinto e su
proposta di Pomponio Attico, il primo editore di Roma, cognato di Quinto), che
del valore della sua poesia parla al fratello in una sua lettera privata del
54, forse quando mori Lucrezio (Il, 9: Lucreti poemata, ut scribis, ita sunt:
multis luminibus ingeni, multae tamen artis"), mai, in tutta la sua
produzione, faccia direttamente cenno a Lucrezio (anche se per sottinteso piu
di una volta), da un lato fingendo di non avere mai letto i piu antichi
epicurei latini (il che poi non è adatto vero, se in una lettera a Cassio, Ad.
fam., XV, 16, l, 19, l, poteva scher- zosamente discutere dei termini tecnici
usati da quegli scrittori: e la lettera a Cassio è proprio dello stesso anno in
cui Cicerone scriveva le Tusculanae, in cui è detto, appunto, della sua
ignoranza di quei testi); dall'altro lato, cercando di minimizzare l'opera di
Lucrezio, non solo tacendone, ma cercando di ridurla a un lavoro scritto per
igno- ranti, non degno d'essere letto da uOmini di cultura e inutile per il
popolo, per il quale invece è necessaria la "costante guida e l'autorità
degli ottimati" (non sembra un caso che proprio là dove Cicerone cerca di
minimizzare il significato della fisica epicurea, sostenendo che 137 è tesi sragionevole e
assurda, tenga presente, mediante citazione indi- retta o chiaramente allusiva,
proprio certi passi dell'opera di Lucrezio). Tutto questo, in effetto, rovescia
la prospettiva dell'attività cicero- niana. Cicerone, in privato, poteva
benissimo condannare la super- stitio e la religio, che, tuttavia, ritiene
utilissime per ordinare lo Stato verso un certo modello; ma tende a ridurre la
carica rivoluzionaria del libro di Lucrezio, ad annullarne l'efficacia e il
pericolo, relegan- dolo tra le concezioni oramai superate, inconsistenti e da
ignoranti, insistendo sulla popolarità dell'epicureismo, sull'irrazionalità
dell'ipotesi fisica degli epicurei, sul fatto che pnì: essendosi diffuso in
ambienti plebei non ha avuto alcun successo politico. A ben guardare, qui ci
troviamo di fronte ad altro: al pericolo rappresentato da alcuni gruppi di
seguaci dell'epicureismo, scaturiti non dal popolo, ma da certi aristocratici,
in contrasto con la politica di Roma, che trovando nell'epicureismo una valvola
di sicurezza e costruendosi, insieme agli amici, mondi a parte e certo piu
sereni e meno drammatici del quotidiano mondo che si viveva in Roma, lontani da
Roma, nelle proprie ville, potevano destare il sospetto di congiurare, in
quelle loro riunioni, contro la res-publica, contro la morale ufficiale, in una
vita - era l'accusa - dedita al "piacere" e depravata, una volta che
s'erano sganciati dall'ordine del tutto (cfr. in particolare l'In Pisonem di
Cicerone). Entro questo tes- suto prende voce Lucrezio, cercando di ·rendere
davvero popolare - e perciò stesso pericolosissimo - quel verbo di Epicuro, che
poteva vera- mente diventare il principio di un'educazione del popolo, in
maniera assolutamente opposta a quella prospettata da Cicerone in funzione del-
l'equilibrio e dell'armonia legale della res-publica. Di sicuro sappiamo che
sulla fine delu e il principio del 1 secolo a. C. furono presso grandi signori
romani alcuni epicurei (Sirone, Filodemo di Gàdara), che altri furono ascoltati
dai ricchi giovani romani, che si formavano alla carriera, ad Atene. Ad Atene
capiscuola del "giardino" erano stati, dopo Epicuro, Ermarco,
Polistrato, Basilide, Demetrio di Laconia, Apollodoro (detto il "tiranno
del giardino": x~p«Wo~, kepotirannos), dei quali non sappiamo quasi nulla.
Ad Apollodoro suc- cessero Zenone di Sidcine (morto sul 79J78, ascoltato da
Cicerone, maestro di Filodemo di Gàdara), Fedro (anch'egli ascoltato da
Cicerone, e da cui Cicerone riprende la tesi epicurea sugli dèi, svolta nel I
libro del De na- tura deorum ), Patrone, capo del giardino tra il 70 e il 51 a.
C., e dopo il quale non abbiamo piu notizie di scolarchi epicurei ad Atene. Può
essere a tale proposito interessante ricordare che Cicerone proprio nel 51
scriveva a un certo C. Memmio - lo stesso a cui Lucrezio aveva dedicato il De
rerum natura? - per pregarlo, a nome di Attico e a ricordo di Fedro e
dell'amico Patrone ("cum Patrone epicureo mihi omnia sunt, nisi quod in
philosophia vehementer ab eo dissentio"), appellandosi anche al fatto che
per diritto il "giardino" apparteneva alla scuola di Epicuro (cosi
suonava il testamento di Epicuro), di non fare speculazioni edilizie sul terreno
del "giardino" da Memmio stesso comperato, anche se l'Aeropago gli
aveva dato il permesso (Ad. fam., XIII, 1). Evidentemente la Scuola epicurea di
Atene andò dispersa, dopo il 51. Cicerone sostiene ch'egli aveva conosciuto
Epicuro di cui cita libri e massime, attraverso Zenone di Sidone,
"corifeo" di Epicuro secondo Filone di Larissa (Cic., De nat. deorum,
I, 21, 59) e Fedro, anch'egli ripetitore del verbo epicureo ("di Fedro e
di Zenone ho seguito le lezioni, benché null'altro riuscissero a dimostrarmi
tranne il loro zelo e tutte le opinioni di Epicuro mi sono sufficientemente
note": De fin., l, 5, 16. Quando ero ad Atene ero assiduo alle lezioni di
Zenone che il nostro Filone soleva chiamare corifeo degli Epicurei e lo facevo
per suggerimento dello stesso Filone...": De nat. deor., I, 21, 59). Non
sap- piamo quanto di nuovo, rispetto all'originario epicureismo, abbiano detto
gli epicurei di questo tempo. Senza dubbio Zenone, per quel che possiamo
ricavare da alcuni frammenti del suo discepolo Filodemo di Gàdara, approfondi e
chiari la genesi della conoscenza, secondo la linea epicurea, sottolineando il
significato ipotetico della condizione della pensabilità della realtà, in
quanto che a porre gli atomi si giunge per analogia prendendo le mosse
dall'analisi sperimentale delle cose stesse (cfr. Filodemo, Sugl'indizi e sul
modo di servirsene: 7te:pt a"rj(.LE:(Cùv xcxt 01)(.LE:~~ae:Cùv). Del
ragionamento per analogia, fondamento dell'indu- zione, cosi diceva Filodemo:
"Quando giudichiamo: 'poiché gli uomini che sono a nostra portata sono
mortali, tutti gli uomini sono mortali,' il metodo dell'analogia sarà valido
solo se assumiamo che gli uomini che non sono in condizione.di esserci
manifesti sono, sotto tutti i ti- spetti, simili a quelli che sono alla nostra
portata, sicché si deve assu- mere che anch'essi siano mortali. Senza questo
presupposto il metodo dell'analogia non è v.alido" (Degli indizi, Il, 25).
Di qui, forse, induttivamente e per analogia, l'ipotesi che l'incontro fortuito
degli atomi, donde nascono i possibili mondi e il mondo degli uomini
(gratuitamente, per cui allo stesso uomo è data la libertà di costruire il
proprio mondo umano), sia dovuto al clinamen.(sulla que- stione del
"clinamen," di cui non v'è traccia in ciò che oggi leggiamo di
Epicuro, cfr. I vol.). Certo, Cicerone, subito dopo avere citato Zenone e
Fedro, discute e critica come un'assurdità il motivo del "clinamen,"
affermando che tale motivo è l'aspetto piu nuovo - e se ci poniamo dal punto di
vista stoico-platonico, piu contraddittorio - dell'epicurei- smo, che per il
resto Cicerone - si come fa per l'epicureismo romano che riporta a tempi piu
antichi in cui ancora non era conosciuta a Roma la tesi stoico-platonica -
tende a riportare al piu antico demo- critismo (cfr. in particolare De finibus,
I, 5, 18-20). Senza dubbio l'insistenza di Cicerone sul termine "fato,"
l'insi- stenza di Lucrezio sulla "catena necessaria," a cui si
contrappone il "clinamen," fa sospettare un'interpretazione del testo
epicureo dovuta alla polemica nei confronti del "fato" stoico, che,
tuttavia, era posi- zione già implicita nell'antiteleologismo di Epicuro (cfr.
I vol.). Nulla vieta, perciò, di pensare. che il motivo del
"clinamen," nei termini in cui lo conosciamo attraverso Lucrezio,
Cicerone (piu tardi Diogene di Enoanda), sia stato formulato, in una coerente
interpretazione di Epi- curo, proprio all'epoca di Zenone, Fedro, Filodemo di
Gàdara, tutti e tre in polemica contro il sistema stoico e particolarmente
contro la fata- lità che da esso derivava. Se i moti tutti - dice Lucrezio -
fossero concatenati, se il nuovo sem- pre con ordine fisso sorgesse dal
vecchio, e non si desse dai primordia, col deviare, principio a nessun moto che
rompa le leggi imposte dal fato, s{ che, all'infinito, non segua una causa dall'altra,
donde, io domando, qui in terra, donde verrebbe mai ai viventi questo libero
potere, sciolto dal fato, per cui andiamo ognuno là dove ci conduce la nostra
propria volontà? (Il, 253 sgg.). E Cicerone, dopo avere esposto il tema del
"fato," proprio degli stoici, oppone ad esso, anche se polemicamente,
il tema· del "clinamen" epicureo: Ma Epicuro pensa di evitare la
necessità del fato mediante la declina- zione dell'atomo: oltre il peso e
l'urto, vi è dunque un terzo movimento [e qui è chiara la citazione da
Luc:rezio: "Bisogna ammettere che esiste negli atomi oltre la spinta e il
peso, un'altra causa del moto e che di qui, dal clinamen, ci derivi...":
Lucrezio, II, 286 sgg.], allorch~ l'atomo devia dalla verticale dello spazio il
meno possibile (eltJchiston, dice): tale declinazione, se non in termini
propri, almeno in realtà, egli è costretto ad ammet- terla senza causa, poich~
l'atomo non devia sotto l'urto di un altro. Come potrebbe infatti urtare un
altro, se sono tutti trasportati in linea retta dal peso, come vuole Epicuro? E
se l'uno non è mai spinto dall'altro, ne segue ch'essi neppure si toccano.
D'onde risulta, se l'atomo esiste e se declina, che declina senza causa.
Epicuro ha prospettato questa dottrina, temendo, se l'atomo fosse sempre trasportato
da un peso necessario e naturale, che non vi fosse alcuna libertà in noi, eh~
la nostra anima sarebbe mossa solo perch~ costretta dal moto degli atomi.
Democrito, l'inventore degli atomi, ha preferito ammettere che tutto avviene
necessariamente, piuttosto che togliere agli atomi i loro movimenti naturali
(Cic., De fato, X, 22 sgg.). 140 Certo il piu noto degli epicurei
vissuti m Italia fu Filodemo di Gàdara, che, se anche in circoli ristretti,
fece conoscere direttamente Epicuro, ne propagandò le idee, costitu1 una· vera
e propria comunità di amici di Epicuro, intorno al suo protettore Pisone (il
console del 58, nemico di Cicerone: cfr. In Pisonem), nella celebre villa di
Ercolano, ove raccolse una non indifferente biblioteca di libri epicurei. Filodemo,
nato nel 110 a.C., a Gàdara, in Siria (ove sappiamo che mediante Filonide di
Laodicea, che aveva convertito Antioco Epifane all'epicureismo, s'era diffusa
una forte corrente epicurea), proba- bilmente venuto a Roma nel 78, alla morte
del suo maestro Zenone di Sidone, visse fin dopo il 40 a. C., non oltre il 30
(cfr. Strabone, XVI, 754). Il Comparetti, da quando furono ritrovati i papiri
della villa ercolanense dei Pisoni, ha sostenuto che quei papiri dovevano
costi- tuire la biblioteca di Filodemo: gran parte sono opere dello stesso
Filo- demo, di cui molti testi sembrano, piuttosto che lavori destinati· al
pub- blico, veri e proprii appunti, schede (cfr. D. Comparetti, La villa erco-
lanense dei Pisoni, i suoi Monumenti e la sua biblioteca, Torino, 1883; Ch.
Jensen, Die Bibliothek von Herculanum, in "Bonner Jahrb.," pp. 49,
61; R. Philippson, s. v. Philodemos, in Pauly-Wissowa, XIX, 2, col. 2444-2449).
Nella villa dei Pisoni, oltre la biblioteca epicurea fu ritrovata una serie di
statue e tra esse quattro busti con iscritto il nome: Demo- stene, Epicuro,
Ermarco epicureo, Zenone di Sidone. Anche questo è indicativo, ed è. indice
della presenza di una vera e propria comunità epicurea. Intorno a Calpurnio
Pisone, illustre nobile romano, la cui figlia fu la moglie di Cesare, s'era
formato, pernio Filodemo, un cir- colo epicureo. Ed epicureismo significava,
tenendo presenti i fondamenti della dottrina, vivere umanamente, liberarsi dai
pregiudizi, trovare, eva- dendo dalla quotidiana vita politica e dagli affari,
sereni rapporti di amicizia. Dolce è guardare da terra - esclama Lucrezio -
quando i venti scon- volgono l'ampia distesa del mare, l'altrui gravoso
travaglio; non perché faccia piacere che qualcuno si trovi in sofferenze, ma
perché è dolce scor- gere i mali di cui siamo liberi. E dolce è assistere,
senza che tu partecipi al pericolo, agli aspri scontri di guerra in campo
aperto. Ma nulla è pio dolce dello starsene nei ben muniti luoghi, edificati
dalla serena dottrina dei saggi, donde è concesso guardare gli altri dall'alto,
e vederli qua e là vagare, e sbandati cercare la via della vita e manovrare con
l'ingegno e far valere la propria nascita e faticando sforzarsi a gara il
giorno e la notte di giungere alla ricchezza e di acquistarsi il potere. Oh tristi
menti degli uomini, oh ciechi petti1... Pure assai vivo diletto... è ristorar
la persona alle· gramente tra amici, con una spesa non grande, stesi su di un
soflice prato, 141 lungo un
ruscello corrente, sotto le fronde di un alto albero specie se il tempo è bello
e primavera cosparge le verdeggianti erbe di fiori (II, 1-14, 29-34). E Filodemo,
indirizzandosi al suo Pisone, nella festa delle [cadi, dedicata a Epicuro, nel
ventesimo giornò di ogni mese, lo invitava nella sua modesta casa: Domani, nella
sua modesta casetta, canss1mo Pisone, all'ora nona ti invita l'amico amante
delle Muse, per il banchetto dell'annuale vigesima: se perderai manicaretti e
brindisi col vino di Chio, troverai in cambio amici sinceri e ascolterai
discorsi molto piu belli di quelli sulla terra dei Feaci (in Antol. palatina,
Xl, 44). Sappiamo- fin dal tempo del primo epicureismo - di queste riu- nioni
tra amici, di come, non solo ad Atene, ma a Lampsaco, a Miti- lene, in Siria,
si fossero formate delle comunità epicuree (veri e propri tian), di come in
esse si trovasse un rifugio dalla quotidiana vita poli- tica e dalla cultura
ufficiale, intorno al nome di Epicuro, considerato l'umano dio della
liberazione umana,· la divina umanità che sostituiva i vecchi dèi paurosi o il
fato divino l6gos, in una umanizzazione della ragione e· della scienza (donde
il prevalere della fisica sulla aritmetica e la geometria). Di qui, entro
queste comunità, il culto di Epicuro. "Un dio, fu un dio...": dirà
nel suo poema Lucrezio. E lo stesso Epi- curo aveva affermato: "Agisci
sempre come se Epicuro ti vedesse"; e nel testamento aveva lasciato
scritto: "Sia festeggiato secondo il con- sueto il mio genetliaco ogni
anno il decimo giorno del mese di Game- lione e l'adunanza dei discepoli il
ventesimo giorno di ogni mese [la cosiddetta festa delle lcadi], stabilita in
memoria mia e di Metro- doro" (Diogene Laerzio, X, 18 sgg.). E su
testimonianza di Plinio il Vecchio (Nat. hist., XXXV, 5) sap- piamo che ancora
nel 11 secolo d. C., in Roma, si celebravano queste feste: "Epicurei
vultus per cubicula gestant et circumfei:unt secum. Natali eius sacrificant,
feriasque omni mense custodiunt vicesima luna quas icadas vocant" (sul
culto di Epicuro cfr. A. J. Festugière, Epicure et ses dieux, Parigi, 1946;
anche P. Boyancé, L'épicurisme dans la société et la littérature romaines, in
"Bulletin Ass. Budé," Suppl. Lettres d'Humanité, 4, 1960). E già
Epicuro aveva scritto a Meneceo: "Tutti i miei insegnamenti e tutti quelli
della stessa natura, meditali giorno e notte ed anche con un compagno simile a
te" (Lett. a Menec., 134); e aveva detto: "l'uomo sereno procura
serenità a sé e agli altri" (Gnom. Vat., 79). Con il commento dei Libri di
Epicuro, con tl suo approfondi-
142 mento di certi aspetti della dottrina epicurea,
particolarmente per ciò che riguarda le passioni e le condizioni della
conoscenza, Filo- demo istitui in Roma e ad Ercolano, appoggiato da Pisone, un
con- tubernium epicureo (come dirà Seneca: piu che la dottrina di Epicuro, fu
il suo contubernium a educare gli epicurei: Ep., I, 6), una comunità di amici
il "cui accordo tra loro," sosterrà Numenio, "era simile a
quello che deve regnare in una repubblica ben ordinata" (in Eusebio,
Praep. ev., XIV, 5). Secondo il De Witt (Organisation and procedure in
Epicurean groups, in "Class. philology," 1936; Epicu- rean
contubernium, in "Trans. and Proc. of the Philol. Assoc.," 1936),
seguito dal Boyancé (cit.), anzi, il llepl. 7t«pplJa(«ç (Sul libero parlare) di
Filodemo chiaramente indicherebbe l'attività di Filodemo volta a organizzare la
scuola in forma conventuale, costituendo un modello d'ideale vita politica, di
libera vita associata, da opporre alla politica imperante in Roma, sia pur come
esigenza di crearsi mondi a parte, rifugi, appunto, dalla tragica sorte,
dall'inutile e assurdo morire, che ogni giorno poteva colpire chi si dibatteva
nelle lotte politiche della Roma del tempo. Non a caso si deve a Filodemo
(Herc. vol., 1005, 4) la coniazione del termine "quadrifarmaco"
(-re-rp«<pcXp(.L«Xov: tetrafdrma- con) - la medicina composta di quattro
elementi - con cui egli indicava la funzione liberatrice della filosofia
epicurea, mediante la quale l'uomo si cura dal timore della divinità (1. non si
tema la divinità, che la divinità non si occupa dell'uomo), dal tiinore della
morte (2. non si tema la morte, ché quando v'è l'uomo non v'è la morte, quando
c'è la morte non c'è l'uomo), sapendo che facile è il piacere (3. tieni
presente la facilità del piacere), e che breve è il dolore (4. tieni presente
la brevità del dolore). Tutti e quattro gli elementi si trovano approfonditi in
Epicuro (cfr. in particolare Ep. a Menec., 123, 124, 183), ma è senza dubbio
assai indi- cativa la formulazione in massima da parte di Filodemo, il puntare,
ora, soprattutto, sull'aspetto terapeutico della concezione epicurea della
natura e sul rifugio ch'essa offre: sia nei convivi, sia nelle libere discus-
sioni fra amici, sia mediante poesia, con cui ci creiamo dilettevoli mondi a
parte. Tale il significato dato alla poesia da Filodemo e tale l'epicu- reismo
- non dottrinario - di Orazio, che sappiamo aver frequen- tato il gruppo
intorno a Pisone, e, se vogliamo, di Catullo e di tutto il complesso dei poeti
muovi. Sembra facile ora capire cosa inten- ·desse Filodemo quando sosteneva il
valore edonistico della poesia e della musica, si come, per altro verso, di
contro a Diogene di Babilonia (cfr. sopra), la capacità mediante la retorica di
costruire mondi umani, ché non scienza è la retorica, ma un'arte pratica, cioè
l'arte di agire (prasst) in un mondo che non è già dato, ma è dovuto alla
stessa atti- vità dell'uomo, rivelantesi attraverso il linguaggio che ha,
sempre, una 143 realtà
storica, si come la stessa giustizia e il diritto (ch'era, poi, tesi
squisitamente epicurea: cfr. I vol.). Entro questi termini sembra,' cosi,
assumere non poco significato l'ultima parte del V libro del De rerum natura di
Lucrezio,6 in cui, mediante Epicuro, riprendendo l'antica linea che risale a
Empedocle, ad Anassagora, a Democrito, a Protagora, a certe posizioni
sofistiche e socratiche, teofrastee, si sottolinea con forza la storicità della
natura e del mondo umano, di una natura che scaturita dall'accozzo fortuito di
infi- niti atomi, - sottolineiamo che Lucrezio mai usò il termine
"atomo," - s1 come ha dato luogo ad infiniti possibili mondi, ha dato
luogo al mondo degli uomini. E s1 come non v'è perché al sorgere delle cose, se
non gli ipotetici atomi-spérmata e il vuoto, il peso e il "clinamen,"
cui si giunge attraverso l'analisi delle cose, condizioni non contraddit- torie
che rendono pensabile la molteplice e viva realtà, senza ricorrere ad allotri e
superiori principi razionali, proiezioni a posteriori (si come gli dèi o il
divino l6gos) delia umana razionalità, anch'essa, in effetto, Il Poco sappiamo
della vita di Tito LucrC7.io Caro. Non sappiamo a che famiglia appartenesse,
dove sia nato, quali le date esatte della sua nascita e della sua morte.
Seoondo San Gerolamo, che probmilmente deriva dal perduto De viris illuslribtu
di Svctonio, Lucri!Zio sarebbe nato nel 95 a. C.; impazzito per avere bevuto un
filtro amatorio, nei' momenti di lucidi~ avrebbe scritto il,suo poema; si
sarebbe suicidato all'~ di 44 anni. Donato, invece, nella Viu di Virgilio,
anch'egli derivando da Sv~ tonio, afferma che Virgilio, nato nel 70, prese la
toga virile a sedici anni ncllo stesso anno in cui Lucrezio mori. Seoondo S.
Gerolamo, dunque, Lucrezio sarebbe nato nel 95 e morto nel 51; secondo Donato
sarebbe nato nel 98 c morto nel 54. Ad ogni modo, in una lettera di Cicerone al
fratello, Quinto (11, 93}, che ~ senza dubbio del febbraio del 54, si legge un
giudizio su Lucrezio relativo alla pubblicazione del De rerum IIIIIUI'a che
sappiamo essere avvenuta dopo la morte di Lucrczio, ad opera di Cicerone
stesso. C'~ chi ha sostenuto che Lucrczio sia di Roma c chi della Cam· pania
(un circolo epicureo era allora fiorente in Napoli): in rea!~ non sappiamo,
cosf come non si può dire se Lucrczio appartenesse a nobile o a plebea
famiglia. La gente Luac2:ia era allora assai dillusa in tutte le classi, in
tutta Italia. Senza dubbio il poema di Lucrezio ~ incompiuto c ciò dovuto
probabilmente alla•sua morte. Sulla notizia di San, Gerolamo che Lucrczio
sarebbe impazzito per un filtro amatorio (certo tali pozioni erano molto in uso
nella Roma del tempo), che avrebbe scritto il poema nei momenti di lucidi~
alternati da momenti di cupa' depressione c angoscia (alcuni testi del poema
rivelano depressione, incubi visionari,, allucinazioni, d'altra parte pre·
senti anche in Epicuro: cfr. IV, 1125 sgg.; lll, 1055 sgg.; l, 127; IV, 35
sgg.}, che si sarebbe suicidato, si ~ molto discusso c fanwticato. Il De rerum
n/llura, in sci libri, formalmente incompiuto, fu dedicato da Lucrczio a
Mcmmio. Sembra che il Mcmmio di Lucrczio sia Gaio Mcmmio, questore nel 77,
pretore nel 58, che amante della letteratura greca, non di quella romana,
colto, intel- ligente, piacevole conversatore, pigro c impaziente di lavoro
intellettuale (cfr. Cice- rone, Brutus, 247}, oondussc con sé (57-56) quando fu
proprctorc della Bitinia alcuni poeti, tra i quali Catullo. E sarebbe quello
stesso Mcmmio che quattro anni piu wdi, esiliato da Roma per brogli elettorali,
ad Atene, ottenuto il diritto dall'Areopago di costruire sull'arca ovc sorgeva
la casa c il giardino di Epicuro, rifiutò a Pauonc, allora scolarca del
Giardino, il favore di non profanare quel luogo sacro agli Epicurei (cfr. Cicerone,
Ad fam., XIII, 1)] scaturita nel tempo, cosi, di fatto, ci sono gli uomini. E
se ipotetica- mente gli uomini scaturiscono da incontri e particolari
disposi~ioni di "semina," per cui dapprima si può mitizzare una certa
genesi del- l'uomo ancora non uomo, finché in una qualche organizzazione dei
"semi," come sono nati certi mondi e certi animali, nella lotta per
la vita oggi estinti, ed altri tipi di bestie, rimaste bestie (cfr. V,
773-924), nasce il primo mondo 1egli uomini, piu che di uomini ancora di
"be- stioni," viventi in istatc ferino, alla fine, sempre per una
qualche for- tuita aggregazione dei semi vitali, scaturisce la razionalità e,
ad un tempo, il linguaggio, e attraverso il linguaggio, questo o quel lin-
guaggio, l'uomo reale, e solo da allora la sua storia, il processo me- diante
cui è l'uomo che r;~.zionalizza la realtà. Perché cosi e non altri- menti? Non
sappiamo, risponde Lucrezio: "non è possibile sapere ciò che avvenne
prima, se non per quel tanto che il raziocinio ne scopre" (V, 1445).
L'unica ipotesi è l'ipotesi epicurea, sostiene Lucrezio, me- diante la quale ci
rendiamo conto non solo del costituirsi sdrammatiz- zato della realtà, ma anche
di come l'uomo è uomo entro i termini della sua stessa realtà umana (ché prima
del nascere e di là dalla soglia del morire, è umanamente il nulla, è altra
realtà) tutt'uno di anima e di corpo, di come per rispondere alle proprie
esigenze sono nate le verità degli uomini, dalle verità dell'uomo· primitivo e
ferino, vivente nelle selve, alle verità dell'uomo razionale e sociale, che ha
proiettato tali verità oltre sé in cielo, perdendo alla fine se stesso (donde
poi la superstizione del divino signore, del divino che come padrone si occupa
delle cose umane, la superstizione dell'anima immortale, che avrà premi o
castighi nell'aldilà). Al modo erratico delle fiere, volgendosi il sole per
molti lustri nd cielo, menavano lunga vita... Stavano nei boschi, ndle caverne
dei monti, nelle foreste... Non conoscevano l'uso di costumanze e di leggi:
ciascuno pren- deva di proprio istinto la preda messagli innanzi dal caso,
assuefattosi a vivere e a campare da sé solo. Entro le selve all'amplesso
Venere univa gli amanti... Si procurarono in seguito capanne e pelli e fuoco e
si ridusse la donna, congiunta all'uomo, ad u·n solo connubio, e i padri videro
nascere i propri figlioli... Poi, con gesti e suoni inarticolati fecero capire
il [loro] giusto... Ma chi spinse gli uomini a foggiare con vari suoni il
linguaggio fu la natura, e il vantaggio produsse i nomi delle cose. Quasi allo
stesso modo in cui l'impotenza evidente a formulare la parola induce i bambini
a gestire, come fanno quando col dito segnano le cose evidenti: perché ciascuno
capisce di che si possa servire... Pensare che qualcuno abbia asse- gnato alle
cose i loro nomi e che di H gli uomini abbiano appreso i primi vocaboli, questo
è un uscir di cervello [cfr. in particolare il Cratilo di Platonel· Come poteva
costui indicare tutto con le voci, e modulare vari suoni, se, nel contempo,
nessun altro era in grado di farlo? E poi, da dove a costui venne l'idea del
vantaggio, da dove ebbe, sin dall'origine la facoltà di sapere ciò che voleva e
di scorgerlo perfettamente distinto, se fino allora nessuno aveva usato il
linguaggio? E non poteva, uno solo, piegare i molti e costringerli, vinti, a
imparare di buon animo i nomi posti alle cose; non si istruiscono i sordi né si
convincono con la logica a fare quanto debbono: e poi non lo soffrirebbero, né
lascerebbero mai che troppo a lungo ed invano voci dal suono inaudito
rintronino loro le orecchie. Infine, è proprio cosi strano che l'uomo, in cui
voce e lingua erano in piena efficienza, usasse per indicare le cose, varie
secondo le percezioni, la voce?... Se le diverse impressioni fan che le bestie,
che pur non hanno la parola, emettano voci diverse, quanto è piu ovvio che
l'uomo abbia cosi, con le varie voci, potuto iÌidicare la varietà delle cose! (V,
930, 956, 960, 1011, 1020, 1028-1034, 1041-1059, 1089-1090). Lascia che
lottando lungo lo stretto sentiero dell'ambizione, si logorino a vuoto e sudino
sangue, essi che parlano per bocca d'altri, ed apprendono le cose piuttosto da
ciò che sentono, che dalla propria esperienza, oggi non meno di ieri, non meno
d'oggi, domani... Piu facile ora è capire come l'idea degli dèi si sia diffusa
tra i grandi popoli, e abbia stipato delle are sue le città, ed abbia indotto a
introdurre i sacri riti del culto, solenni, quelli che ancora oggi sono in auge
fra tanto progresso e in centri si grandi, onde ancora oggi negli uomini è
insito quello spavento che erige in tutta la terra nuovi delubri agli dèi, e vi
fa correre nelle festività tutti quanti. Sin da quei tempi, in effetti~ gli
uomini vedevano da svegli, ma piu nei sogni, col corpo mirabilmente ingrandito
numi d'aspetto stupendo. E poi che, a quanto appariva, essi movevan le membra
ed emettevano terribili voci, ap- propriate alla enorme forza e allo splendido
aspetto, a loro, dunque, per questo, attribuivano il senso e li facevano
eterni, giacché se ne rinnovava sempre la vista, e la forma restava sempre
immutata, e poi perché giu,di- cavano che, tanto forti com'erano, nessuna forza
potesse agevolmente sop- primerli. E giudicavano che avessero ben piu propizia
la sorte, perché il timore di morire non li affliggeva, e compivano - cosi
vedevano in sogno - molte e mirabili imprese senza che mai li prendesse
stanchezza alcuna. Scorgevano inoltre che i movimenti del cielo e le diverse
stagioni si avvicendavano con successione uniforme, e non potevano conoscere
per quali cause. Ne uscivano dunque affidando agli dèi tutto, e facendo che
tutto fosse guidato dal cenno divino. E posero in cielo le sedi e i templi dei
numi, perché si vedono evolv,ere la notte, in cielo, e la luna: la luna, il
giorno e la notte, ed i severi notturni segni, e le erranti notturne faci del
cielo, e i volanti fuochi, le nubi, le piogge, la neve, il sole, la grandine, i
venti, i fulmini, i rapidi fremiti e i minaccevoli vasti fragori. Ah, da quando
fece dipendere dagli dèi tali fatti, e vi aggiunse il fiero sdegno, infelice
umanitàl Da quel tempo quanti lamenti a lei stessa, quante ferite a noi, quali
lacrime ai nostri nipoti, essi non hanno partorito! Ed ostentar di girare,
velato, intorno ad un sasso, ed accostarsi agli altari tutti, e cader faccia a
terra davanti ai templi dei numi,.e alzar le palme, e del sangue di 146
numerosi quadrupedi sparger le are ed appendere voti su voti, codesto
pro- prio non è religione: ma religione è saper penetrare a cuore tranquillo i
fenomeni. Quando, in effetto, osserviamo i doni del firmamento immenso, e
l'etere immobile sopra le stelle che brillano, e ripensiamo al cammino che
fanno il sole e la luna, comincia allora a destarsi e a levare la testa nel
cuore oppresso dagli altri mali anche quella inquietudine, se per noi forse non
sia l'onnipotenza dei numi quella che volge con vario moto le candide stelle:
perché ci rende perplessi l'oscurità del problema, se ci sia stato un principio
generatore del mondo e sino a quando potranno durare le mura del cielo a questa
loro fatica del movimento affannoso: o se, per caso, non possano, scorrendo con
l'infinito volo del tempo, dotate d'eternità dagli dèi, sfidare invece le salde
forze del tempo infinito. D'altronde a chi non si agghiaccia l'animo per la
paura dei numi?... Sino a tal punto una occulta forza cal- pesta le umane cose,
e si vede che vilipende e beffeggia per proprio conto gli splendidi fasci e le
terribili scuri (V, 1130-1135, 1161-1235). Ma, prima assai che potesse foggiare
col suono politi canti e dar gioia agli orec- chi, l'uomo imitò con la voce il
limpido gorgheggiar degli uccelli, e il vento che sibila nei vuoti calami
apprese ai campagnoli per primo come soffiare nelle vuote canne. Impararono in
seguito poco per volta i soavi lamenti ch'escono dal flauto quando lo toccano
con le dita, sonando, dal flauto che si trovò dai pastori per i boschi impervi
e le selve, e i monti e i luoghi deserti durante gli ozi beati. Cos{ pian piano
col tempo si manifesta ogni singola cosa e il raziocinio la poeta al lume del
giorno. Accarezzavano lo spirito quei suoni e lo dilettavano...: hanno anche
appreso a tenere distinti i ritmi... Ma non è possibile sapere ciò che avvenne
prima, se non per quel tanto che il raziocinio ne scopre. L'uso ed insieme i
continui sforzi dell'alacre ingegno all'uomo che progrediva passo per passo
insegnarono a poco a poco la nau- tica, l'agricoltura, il diritto, l'arte di
fare le fortezze, le strade, le armi, e cose simili, gli agi e i conforti,
quanti ve n'è della vita, la poesia, la pittura e la ingegnosa scultura.
Grandemente, in tal modo, il tempo svela ogni cosa singola e il raziocinio la
porta al lume del giorno. Perché scoprivano che un vero prendeva luce
dall'altro, finché con le arti non ebbero raggiunto l'ultimo vertice (V,
1377-1389, 1406-1407, 1445-1456). Questo, sembra, il motivo chiave
dell'epicureismo di Lucrezio, questo suo appello, di contro alla filosofia teologica
ed ai pericoli insiti in essa per il libero farsi degli uomini, per la stessa
comprensione della natura (vera religione è "saper penetrare a cuore
tranquillo i fenomeni": V, 1203), il suo appello all'esperienza e alla
ragione, all'umanizzazione della scienza, mediante cui l'uomo può creare il suo
mondo, conside- rare la natura per quello che la natura è, operando su di essa,
diremmo in una libera "inter-azione," per un fine che non è dato, ma
che è di volta in volta dovuto alla stessa razionalizzazione umana, operante,
con le tecniche, su di una realtà non già preordinata, ma spontanea e feconda
di tutte le possibilità. Questo il sentimento dell'epicureismo di Lucrezio, e
perciò la sua venerazione per Epicuro che "purgò gli animi con i suoi
precetti veridici, e al desiderio e al timore prescrisse un limite e fece
chiaro qual fosse il supremo bene a cui tutti tendiamo e additò per quale via
vi si può giungere diritti, con poca strada, onde è neces- sario che non i
raggi del sole, non le lucide frecce del giorno spazzino via questo terrore
dell'universo con le sue tenebre, ma la conosunza razion.ale della natura: sed
naturae species ratioque" (VI, 24 sgg.: ove va notato che gli ultimi tre
·versi tornano nei proemi ai libri l, Il, III, oltre che nel VI). E qualora si
tenga presente il modo con cui, da Varrone a Cicerone, si venivano recuperando
certi aspetti di Platone, di Aristotele, dello stoicismo, nella costruzione di
una religio, in funzione di una certa classe politica - anche se in efletto, e
Cicerone n;è testi- monianza, i loro autori credevano in altro, - in un'epoca
drammatica, in un'epoca in cui la morte eta davvero.sempre gratuitamente
presente, si capisce bene da un lato l'appello ad Epicuro salvatore ("
mentre l'umanità conduceva sulla temi una vita infame e abietta a vedersi, op-
pressa dal peso di una religione il cui volto mostrandosi dall'alto delle
regioni del cielo, minacciava i mortali con il suo orribile aspetto, per primo
un uomo greco [Epicuro] osò levare il suo sguardo mortale contro di essa e per
primo contro di essa insorgere: né lo trattenne ciò che si diceva degli dèi, né
i fulmini né il cielo con il suo rombo minac- cioso ": l, 62-69);
dall'altro lato l'esigenza e il dovere di far conoscere a tutti il libro di
Epicuro: Venere, stringiti a Marte, mentre giace, con l'intatto tuo corpo,
implo- rando, inclita, per i romani una pacifica tregua; che con la patria
turbata, né noi con cuore tranquillo potremmo attendere all'opera, né per
seguir tali cose, l'illustre germe di Memmio [cui il poema è dedicato], negar
potrebbe se stesso alla salt~ezza di tutti (1, 37-44)... Né mi nascondo ch'è
opera estremamente difficile esporre in versi latini le ardue scoperte dei
Greci, specie perché dovrò spesso usare vocaboli nuovi - tanto il nostro
lessico è povero, e cosi nuovo è il soggetto. Eppure l'animo tuo e il gaudio,
che mi prometto, di una soave amicizia mi persuade che non debbo badare a
fatiche di sorta, e che le notti serene io vegli cercando con quale canto, con
quali parole, ti faccia splendere nella mente h vivida fiaccola, onde tu
penetri a fondo i piu reconditi veri. E veramente bisogna che non i raggi del
sole, che non le lucide frecce del giorno spazzino via questo terrore
dell'animo con le sue tenebre, ma la razionale conoscenza della natura: sed
naturae species ratioque (l, 136-148). E cosr non vanno scordati del De rerum
natura due altri punti fon- damentali. Bisogna tener presente, innanzi tutto,
l'insistenza ancora 148 maggiore che non in Epicuro, sull'atomo,
condizione perché sia pensa- bile la realtl, non come atomo geometrico o.matematico,
ma come centro di vita, come seme vitale, onde in ogni cosa è insito uno
speciale potere: il che, non solo spiega meglio l'affermazione prima che
"nulla si genera dal nulla," cioè da una pura quantità che
all'infinito è zero, ma anche il fatto che le qualità si costituiscono dal modo
in cui le po- tenze seminali si organizzano e si dispongono mediante
gl'incontri. Viene da questo la paura che opprime gli uomini tutti: scorgono in
cielo ed in terra prodursi vari fenomeni, fatti, dei quali non possono scor-
gere punto le cause, e che riportano quindi alla potenza di un dio. Ma se
tocchiamo con mano che non può naseere nulla dal nulla, allora piu chia-
ramente sapremo comprendere quello che andiamo indagando: donde: ogni cosa si
generi e come ognuna si generi, senza l'intervento di un dio... Se non vi fosse
per ogni singola specie il suo germe, come si avrebbe un'origine certa e
distinta per gli esseri? Ma poiché viene ciascuno d'essi da un germe specifico
si forman là, di là balzano fuori alla luce del giorno dove sono insiti i primi
corpi e la loro materia, né può ciascuno prodursi da ciascun seme, per questo:
ché in ogni cosa è insito uno speciale potere. Perché vedremmo prodursi di
primavera la rosa-, d'estate il grano... se non perché cofluendo, al tempo
giusto, certi semi, erompe quanto si fa... dal fecondante connubio... A poco a
poco crescono gli esseri tutti, da un germe specifico... (1, 151 sgg.). In
secondo luogo, bisogna tener presente la distinzione, nell•uomo, tra la forza
vitale (anima), che unisce le membra e ovunque è diffusa, e la sua
organizzazione in quella che diciamo razionalitl (animus), o mente (III, 94
sgg.), che, insieme, costituiscono l'Anima, ch'era il modo d'interpretare epicureamente
il motivo di un tutto vitale e fe.. condo implicito nel motivo dell•anima mundi
di origine stoico-platonica. Come, negli esseri vivi, in ogni viscere suole
trovarsi un succo, un odore, un colore speciale; ma dall'insieme di tutti si
forma un solo organismo, si forma una sola essenza, cosf,_ commisti, il calore,
l'aria e la occulta potenza del vento, aggiuntavi quella nobile forza che a
loro compane il moto d'ini- zio, donde dapprima negli organi si desta il moto
del senso, che si cela riposta nelle tenebre dell'essere, e di cui nulla piu
addentro nel corpo a noi non s'immilla, diremmo, che è l'anima stessa
dell'anima tutta. E come, occulta, è.commista nel nostro corpo e negli arti
tutti la forza dell'animo e la potenza dell'anima perché risulta composta
d'atomi piccoli e rari, cosi, formata di minimi, ti si nasconde questa energia
senza nome, l'anima stessa di tutta l'anima, quasi, che domina nel corpo
intero. In tal guisa il vento e l'aria e il calore debbono, mischiati negli
arti, darsi reciproco slancio, e soggiacer gli uni agli altri, e sovrastarsi a
vicenda, cosf però che risulti di tutti un unico tutto, onde il calore ed il
vento e la potenza dell'aria, cia- scuno per sé, non distruggano il senso e non.lo
disgreghino, cos{ distaccati (III, 267-289). L'insistenza di Lucrezio sulla
seminalità specifica degli atomi, sulla ricchezza potenziale di ogni seme e
sulla vitalità feconda d'onde si generano sempre infiniti mondi, questi mondi,
e tra essi il mondo degli uomini dà il metro di come Lucrezio ha interpretato
Epicuro. Il ragio- namento è lo stesso di Democrito fino a porre a condizione
della pensa- bilità della realtà gli atomi e il vuoto (cfr. I vol.): dalle cose
visibili, divisibili, agli atomi invisibili, elementi primi non piu divisibili,
ma, appunto perché tali (altrimenti giungeremmo allo zero, al nulla incon-
cepibile), si postula la condizione epicurea degli atomi-semi (libro I); per il
resto, dal rapporto atomi vuoto, dalla spontaneità del movimento degli atomi,
precisato come "clinamen," al concetto del peso e del costi- tuirsi
delle cose e delle qualità, dei mondi e del mondo dell'uomo (libro Il), da cui
comincia - perché è un fatto - la razionalità e l'opera dell'uomo, che è
natura, nella natura, in un unico processo, dalla concezione dell'anima,
costituita di atomi leggeri, tutt'uno con il corpo alla dottrina della
sensazione e degli éidola (libri III e IV), alla conce- zione della mortalità
dei mondi creati e della caducità del mondo, alle possibili molte ipotesi su
ciascun fenomeno celeste e al sorgere della vita sulla terra (donde poi la
storia del mondo umano, dall'uomo ferino all'uomo razionale e padrone delle
arti) (libro V), alla spiegazione dei fenomeni meteorologici e dei morbi e
delle epidemie (libro VI), Lu- crezio segue la traccia del De natura di Epicuro
(di cui, ricordiamo, s'è trovata una copia in 37 libri, ad Ercolano, nella
~iblioteca della villa dei Pisoni). Ma, dietro, sempre, rimane in Lucrezio la
meraviglia della scoperta, che dovrebbe essere chiara a tutti, che dovrebbe
definitivamente scacciare ogni alambiccata costruzione metafisico-teologica,
ogni timore in una suprema legge, negli dèi o in un astratto l6gos. Allorché si
tenga questo per verità, si fa chiaro che la natura, da sola, in tutto priva di
despoti superbi e libera in tutto, agisce in ogni sua cosa d'iniziativa
propria, senza interventi di dio (II, 1094 sgg.). Scientificamente, cioè
razionalmente, possibile l'ipotesi di Epicuro, ne vien fuori da un lato che il
fondamento della natura - natura na- turans - non è sottoposto ad alcuna legge,
ad alcuna necessità razio- nale a priori, a nessun proiettato rapporto di causa
ed effetto, ivi impli- cita la necessità di porre cause prime (efficiente,
formale, materiale, fi- nale), ma che l'ipotetico fondamento, cui si giunge
induttivamente per analogia, è una infinita ricchezza, una fluidissima
spontaneità; e, dal- l'altro lato, che la realtà quale è, quale si costituisce
(natura naturata), è ad un tempo la stessa natura naturans sempre possibile di
cangia- mento e di modificazioni qualitative (di qui il motivo del farsi con-
tinuo: II, 293-336), su cui è possibile operare (di qui l'inno a V enere ge-
nitrice, che apre il poema), ché, in effetto, atomi-semi, vuoto, peso,
clinamen, sono postulati, sono i fondamenti, ma non esistono: esiste la natura;
esistono gli infiniti mondi, le loro genesi, le loro storie, la genesi degli
animali, la loro evoluzione, la loro lotta per la vita, la loro estinzione o la
loro sopravvivenza, la genesi e l'evoluzione dell'uomo, e poi la storia
dell'uomo, da quando l'uomo è uomo, quest'organizzazione di semi che ha dato
luogo alla ragione; e ad un tempo, insieme, esi- stono i semi e le loro
connessioni e organizzazioni. Da un lato, come dietro le cose e i mondi quali
sono nelle loro organizzazioni, si vede mentalmente questo pullulare vitale,
instabile, di semi (atomi), il cui complesso. è ciò che Lucrezio chiama
"materia," i loro incontri spon- tanei e infiniti (" clinamen
"), il loro organarsi, donde questo o quel mondo, questa o quella cosa,
questa o quella specie e qualità; dall'altro lato si vedono nascere le cose
stesse e i mondi, la spiegazione naturale e razionale delle cose, dei mondi,
dell'esserci naturale dell'uomo - in- dipendentemente da ogni miracolistico
intervento, - e da quella stessa vitalità (anima), nell'uomo, la mente,
!'animo, la razionalità che è un modo con cui si è venuta organando quella
vitalità. La razionalità stessa, perciò, è "storica," positiva, si
come i linguaggi e i costumi, le tecniche, mediante cui l'uomo istituisce il
proprio mondo, costituisce quell'equi- librio di anima e corpo,
quell'equilibrio tra uomini, che non ha nulla di già dato dietro le spalle, ma
è dovuto all'attività dell'uomo. La feli- cità dell'uomo non sta, dunque,
nell'adeguarsi a un ordine già dato, ma nel volere, di volta in volta,
quell'equilibrio e quella misura (il "piacere"), che è una sua
conquista, in una prosecuzione razionalizzata dell'opera della natura, che è
serenità, in una comprensione e in un rispetto della natura ("religio"),
per cui, alla fine, la virtu sta proprio in questo comprendere la natura, in
questa critica della religione co- smica e dei miti, in questa umanizzazione e
razionalizzazione della scienza, mediante cui nella costruzione della propria
società, si effettua un'armonia, un giusto mezzo tra anima e corpo; e in tale
armonia con- siste il "piacere," di là da ogni estetizzante
"eroismo," oltre ogni edu- cazione basata sul culto della virtus,
degli exempla, dei mores maiorum. Si vede bene, cosi, come il piacere e la
misura lucreziano-epicurea non siano né la virtu eroica dello stoico, né il
"conveniente," il decoro, la "signorilità" prospettate da
Cicerone; Cicerone per il popolo, per la plebs voleva la superstitio, l'ordine
imposto dagli ottimati, m nome del divino e delle leggi, o l'equilibrio dovuto
alla ca- pacità di un uomo, di un princeps, di cui si potesse dire che è
l'incar- nazione della legge suprema, della legge cosmica, e perciò stesso
salvatore, correttore" dello Stato, mentre per un verso la filosofia si
risolve in retorica e, per altro verso, in forme consolatorie o di edifi- cante
conforto sacerdotale-religioso. Proprio di qui il conflitto tra ciceronianesimo
e lucrezismo, tra due concezioni che, alla fine, non ammettono alcun discorso
comune, si di- verso e opposto è il fondamento, l'ipotesi da cui prendono le
mosse l'uno e l'altro, ~ non in un punto, nella comune consapevolezza di una
disperata e drammatica situazione·storica, in un terror della morte, che rende
tutto vano, nell'un discorso risolta in u n coraggioso appello all'uomo e alla
sua razionalità, in un appello alla scienza, in un risolversi dell'uomo entro
il suo stesso mondo umano; nell'altro discorso, nella speranza di un ordine
proiettato retoricamente nei cieli, che si delineerà, poi, in una salvazione
che non dipenderà neppure dalla capacità umana di adeguarsi all'eterno ordine
della legge divina, ma sarà dovuta o a forze magiche e irrazionali (certo
neopitagorismo, gnosticismo, certo neoplatonismo e ermetismo del 1-n sec. d.
C.), o ad un gratuito inter- vento dello stesso dio, della persona di Dio
(primo cristianesimo). Per secoli, certo, si è taciuto di Lucrezio, e perduto è
andato, anche, il De rerum natura di Egnazio, che, sembra, fosse un seguace di
lui. Non va dimenticato, comunque, che ciò che noi ancora leggiamo è quello che
la stessa censura della storia ha salvato. Ad ogni modo, a parte ii· rigo di
Cicerone nella citata lettera al fratello Quinto, gli ac- cenni di Cornelio
Nepote (Biografia di Attico, 12), di Vitruvio (IX, Proemio, 41), di Ovidio
(Am., l, 15, 23-24; Trist., Il, 425-26) e di Papinio Stazio (Silv., Il, 776:
"docti furor arduus Lucreti"), l'unica fonte bio- grafica è quella
celebre.di San Girolamo, in cui si dice che Lucrezio sarebbe morto suicida per
pazzia a causa di un filtro amoroso, e che avrebbe composto alcuni libri del
poema durante gl'intervalli della sua follia: "Titus Lucretius poeta
nascitur: qui postea amatorio poculo in furorem versus, cum aliquot libros per
intervalla insaniae conscripsisset, quos postea Cicero emendavit, propria se
manu interfecit anno ae- tatis XLIV" (Chron. Euseb., VII, 1). Non altro
sappiamo della vita di lui, e incerte sono anche le date della nascita (99-95)
e della morte (55-51) (cfr. sopra, Vita). Sembra che Girolamo abbia usato per
tali notizie il De viris illustribus di Svetonio, il che darebbe attendibilità
alla notizia. Certo i cristiani conoscevano bene il De rerum natura (cfr.
Arnobio, Lattanzio) e di esso discutevano in forma polemica, sf come - in fondo
per le stesse ragioni - il poema lucreziano era stato discusso e minimizzato da
Cicerone, il quale non poche volte afferma che gli epicurei sragionano. Di qui
a sostenere, ricostruendo la vita del poeta all'uso dei biografi antichi, che
Lucrezio era folle, il passo è breve. Non si è forse detto (Vita Vergi/ii di
Donato), ad esempio, che Virgilio, il cantore dei campi, nacque in un maggese?
(ed anche questa notizia di Donato non è forse ricavata dal serissimo
Svetonio?). In effetto, Lucrezio sembra che non abbia avuto, sul piano della
for- mazione di una paidèia popolare, alcun successo, anche se certamente
Lucrezio fu in polemica con il suo tempo e cercò di operare almeno attraverso
certi uomini (forse Memmio, Attico) che, per la loro posi- zione, ne avrebbero
avuto la possibilità. E proprio sotto questo aspetto non va sottovalutata la
polemica di Cicerone nei confronti dell'epicureismo, e, ancora una volta,
l'affermazione ciceroniana che gli argo- menti degli epicurei non vanno
discussi filosoficamente, ma eliminati con un decreto legge. È stato detto -
Farrington, cit., p. 194 - che "nel caso di Lucrezio, il fatto essenziale
è che in un'età in cui lo scrittore piu colto (Varrone) e lo statista piu
eloquente (Cicerone) erano d'accordo sulla utilità d'ingannare il popolo in
fatto di religione, egli rivolge le forze della sua cultura e della sua
eloquenza a sostenere l'opinione contraria. Manifestò apertamente l'intenzione
di fare quanto è possibile a un uomo per liberare la mente umana dai vincoli
della religione, e scongiurare i suoi compagni di non macchiare la loro anima
con quell'abominio." Eppure, non va sottovalutato, accanto al Cicerone
uomo politico e legislatore, la cui opzione per un certo mo- dello filosofico
e_ culturale assume un significato preciso quando lo si veda in funzione di una
certa politica e di una certa difesa, l'altro aspetto di Cicerone, problematico
e scettico, la funzione da lui data alla filosofia come possibilità di proporre
un ordine che è dover essere, e, alla fine, sia pur per altra via, un rifugio
dalla tristezza della vana vita quotidiana. Lucrezio moriva tra il 55 e il 51;
Cicerone verrà ucciso nel 43. Quella decina d'anni fu ancora peggiore di quella
in cui Lucrezio scrisse il suo poema, ancora piu pericolosa. Si chiarisce
allora come l'influenza lucreziana, insieme a quella di Sirone e di Filodemo di
Gàdara, si sia piuttosto sviluppata in senso negativo, cioè in una giustifi-
cazione dell'abbandono dalla vita politica attiva, in un rifugio in con-
venticole di amici, o nel crearsi mondi a parte mediante la poesia. Sembra,
perciò, di non poco interesse il fatto che proprio coloro che sappiamo essere
stati i maggiori epicurei romani sono morti vittime delle lotte civili, o, a
poco a poco, si sono tutti ritirati dalla politica attiva. Poco o nulla sappiamo-
dopo Amafinio, Rabirio, Cazio - dei primi: T. Albucio, ritenuto un grecomane,
che per un certo periodo fu propretore per la provincia di Sardegna, e che,
condannato per estor- sioni, si rifugiò ad Atene, abbandonando ogni velleità
politica, detto da Cicerone "perfectus epicureus," (Brutus) e autore
di scritti a carattere epicureo; C. Velleio, senatore e tribuna della plebe nel
91, a cui Cicerone nel De natura deorum fa difendere la tesi epi- curea; Tito
Pomponio Attico (nato nel 109 a.C.), di nobilissima fa- miglia, compagno di
studi di Cicerone'e, poi, sempre, suo amico (ad Attico Cicerone dedicò il De
amicitia e il De senectute, e a lui scrisse moltissime lettere, raccolte in 16
libri), evitò la vita politica: per sfug- gire anzi alle lotte interne, dall'87
al 65 visse ad Atene e, tornato in Roma, rimase neutrale durante le guerre
civili, facendosi editore, il primo editore romano. E cosi, lontano da Roma, ad
Atene, dedito agli studi, visse un altro epicureo, Lucio Saufeio (nato nel 110
circa), cdsf L. Calpurnio Pisone - intorno a cui, presso la sua villa di
Ercolano, s'era formato il notissimo circolo epicureo, avversatissimo da
Cicerone (cfr. In Pisonem), il quale a fosche tinte dipinge il suo gregge
epicureo, il suo porcino circolo, ma anche la sua semplicità di vita - che
console nel 58, censore nel 50, s'era adoperato per impedire la guerra tra
Cesare e Pompeo, e nel 43 rinnovò i suoi sforzi per impedire nuove guerre
civili, dopo il 43 definitivamente abbandonò ogni azione, rifugiandosi nella
sua villa di Ercolano, insieme agli amici epicurei. Vibio Pansa, amico di
Cicerone, tribuna e console, mori nel 43, a Modena, combat- tendo contro
Antonio; L. Manlio Torquato, pretore, console, procon- sole, senatore,
pompeiana, si uccise nel 46; Statilio mori a Filippi, nel 42 a. C.; Cassio, che
insieme a Bruto, stoico, uccise Cesare, si suicidò a Filippi; Egnazio, seguace
di Lucrezio, che tenne in Roma una scuola di retorica e di grammatica,
abbandonò Roma e, insieme a Rutilio Rufo, si recò a Smirne. Papirio Peto è
posto da Cicerone (Pro Sestio, 20-23) tra i combibones epicurei. "Ad
uomini tormentati dalle miserie di guerre civili atroci," ha scritto il
Boyancé, L'épicurisme, cit., p. 514, "dal crollo delle tradizioni
ancestrali, la vita epicurea offriva una specie di porticciolo e di rifugio.
L'ambizione scatenata faceva l'infelicità ad un tempo di coloro che n'erano
presi e di coloro ch'erano condannati a servire loro da stru- menti. Tale
ambizione era gravida di scacchi e di rischi mortali. Quanti pochi tra gli uomini
illustri di questo tempo sono in effetto pacifica- mente morti nel loro letto!
Nessuno dei triumviri del primo triumvirato, né Crasso ucciso in una guerra
lontana, ove l'aveva trascinato la sua ambizione, né Pompeo assassinato a
Farsalo da un re satellite, né Cesare crivellato di colpi in pieno Senato. Dei
due piu grandi avversari dei triumviri, l'uno, Catone, si era suicidato a
Utica, l'altro, Cicerone, do- veva esser messo a morte dai sicari di Antonio.
Si comprende che la vita non era mai apparsa piu minacciata nelseno stesso
della città e mai l'insegnamento di Epicuro sul timore della morte non era
apparso 154 piu attuale. Né tanto piu, anche, era sembrato, in
presenza delle incoe- renze e dei crimini della storia, che gli dèi si disinteressassero
degli uo- mini. O se ci s'immaginava che intervenissero nei loro affari, quali
mai dèi sarebbero stati! Quali dèi crudeli e gelosi! Il messaggio di Epicuro si
fece ascoltare in tale atmosfera, in virtu di filosofi greci come Filo- demo o
Sirone, in virtu anche di Lucrezio." Non solo, ma se Lucrezio aveva
sottolineato con forza l'aspetto rivoluzionario dell'epicureismo, aveva anche
tracciato il modello di una "vita" epicurea, che, a parte i
fondamenti dottrinari, si avvicinava non poco al modello di "vita"
stoico, sganciato anch'esso dai suoi fondamenti dottrinari e rispondente, piu
tardi, quando dopo Ottaviano Augusto e Tiberio il principato si trasformò
davvero in impero e in dispotismo, all'esigenza di fuga dal mondo, per cui un
Seneca potrà essere stoico accettando in gran parte certi aspetti del modello
di vita epicureo, mentre i circoli epicurei, in Roma, assumeranno sempre di piu
il carattere di chiese, di isole, di rifugi. Aveva, dunque, cantato Lucrezio: E
tu potresti, talora, dire anche questo a te stesso: "O miserabile, chiuse
gli occhi persino il buon Anco, che fu migliore di te per tanti aspetti; e in
gran numero di poi morirono re, principi, gente potente che in mano ebbe le
sorti di grandi popoli. Ed anche colui [Serse] che un giorno apri per l'ampio
mare una strada, e sull'acqua fece passar le legioni... E il fulmine di guerra,
lo Scipionide che fu il terror di Cartagine, rimise l'ossa alla terra, come il
piu vile dei servi. Aggiungici i pensatori, gli artisti e quanti han seguito le
Muse... Finito il lume mortale, mori lo stesso Epicuro... Saresti dunque tu
ch'esiti e che ti crucci al morire?... Quando potessero gli uomini, al modo
come nell'animo sentono il peso che con la propria gravezza li opprime, cosi
sapere da che causa ciò avvenga, e donde la macina, direi, si grande del male
ci sta sul petto, vivrebbero non come i piu vivono oggi, che ignorano quello
che vogliono e non domandano di meglio che mutar sempre di luogo, come se fosse
possibile, cosi, deporre il fardello. Questi, venutogli a noia lo stare in
casa, esce fuori dai sontuosi palazzi e torna subito indietro, perché non trova
affatto che si stia meglio fuori. Quello, sferzando i puledri, corre di furia
alla villa come dovesse salvare il fabbricato che brucia, e già sbadiglia che
ancora non ne ha toccato la soglia, o casca morto dal sonno e cerca a letto il
riposo, oppure volta e rientra di gran carriera in città. A se stesso cosi
ciascuno sfugge; ma, contro voglia, a se stesso ciascuno resta legato, al sé
cui non si sfugge; e, com'è logico, lo odia, perché non vede il malato qual è
la causa del male. Se la vedesse, ciascuno, lasciata ogni altra faccenda, si
sforzerebbe anzitutto di penetrare la natura, perché v'è in giuoco lo stato del
tempo· eterno, non quello di un'ora sola, e la sorte in cui dovranno trovarsi,
per il tempo eterno che avanza dopo la morte, i mortali (III, 1028-1074). E
proprio per questo, al principio del.secondo libro, Lucrezio aveva detto,
delineando la possibile vita del saggio epicureo: Dolce è guardar dalla riva,
quando i venti sconvolgono l'ampia distesa del mare, l'altrui gravoso
travaglio, non perché faccia piacere che uno si trovi a soffrire, ma perché
scorgere i mali di cui siamo liberi è dolce: e dolce è assistere, senza che si
partecipi al rischio, agli aspri scontri di guerra in campo aperto: ma nulla è
dolce piu dello starsene nei ben muniti luo- ghi che edificò la serena
speculazione dei saggi, donde è concesso guardare gli altri dall'alto... (Il,
1-9). Tale, anche per le sempre piu gravi vicende politiche, fu, dopo Lu-
crezio, la linea su cui si posero i gruppi degli epicurei della nuova
generazione. A parte Orazio, particolarmente interessante e indicativa sembra
la doppia faccia di Virgilio (70-19 a. C.), che, epicureo da gio- vane (almeno
come atteggiamento), vicino al circolo napoletano di Si- rone e di Filodemo, si
venne poi indirizzando a una visione del mondo e delle vicende umane (anche se
non dottrinariamente) di carattere stoi- cheggiante. Nel V componimento del
Cataleptqn, Virgilio, giunto a Napoli, dopo il suo soggiorno a Roma, dove s'era
iniziato agli studi di retorica, ed entrato in contatto con Sirone e con quella
scuola, di- chiara di avere volto le spalle alle "ampullae rhetorum"
(v. 1), a quella cultura che, in Roma, doveva avviarlo alla carriera politica
(inanis cymbalon iuventutis: v. 5), per abbracciare, contro la "natio
scholasticorum" (v. 4), gl'insegnamenti di Sirone: nos ad beatos vela
mittimus portus, magni petentes docta dieta Sironis, vitamaue ab omni
vindicabimus cura (8-10). Si era nel 45 a. C. Le Bw;oliche, composte tra il 41
e il 39, se da un lato indicano ancora l'influenza epicurea nell'ideale di una
pacificante natura, in cui rifugiarsi ("Tityre, tu patulae recubans sub
tegmine fagi, silvestrem tenui meditaris musam avena..:": l, l sgg.),
dall'altro lato mostrano (cfr. IV, V, VI), di contro alla possibile
disperazione epicurea (il mondo umano lasciato a se stesso), la speranza
nell'immortalità çlel- l'anima, che porterà all'uomo una serenità piu alta,
l'esigenza di com- prendere la natura come un tutt'uno con l'uomo (con accenti
molto vicini all'anima mund; di Lucrezio, alla sua umanizzata e vi- vente
natura, ma già reinterpretata in senso stoico), onde nelle Geor- giche
(composte tra il 37 e il 30, e su invito di Mecenate e di Augusto), e tanto
piu, poi, nell'Eneide, riappare il motivo della Provvidenza, della pietas,
della purificazione dell'anima immortale attraverso il do- lore e la morte,
della speranza in un al di là in cui saranno premi o pene (la descrizione
dell'Ade orfico è in genere ricavata dal VI del- l'Eneide), del destino di
Roma, dell'imperium di Roma che, mediante il suo princeps (il simbolico pio
Enea), porterà pace, ordine e civiltà nel mondo, compiendo la ragion d'essere,
la legge del tutto: tu regere imperio populos, romane, memento - hae tibi erunt
artes - pacique imponere morem, parcere subiectis et debellare superbos (Aen.,
VI, 851-53). Se è, senza dubbio, vero, com'è stato detto e si ripete che
"il poeta partito da posizioni epicuree, attraverso la meditazione del
dolore come retaggio comune all'umanità, è giunto ad intendere
provvidenzialmente il destino e a ravvisare nel mondo la legge di una superiore
giustizia che è legge di superiore bontà" (L. Alfonsi, s. v. in
Enciclopedia filosofica), è altrettanto vero che non va scordata l'ascesa al
potere di Au- gusto, di quell'Ottaviano del quale già nelle Bucoliche Virgilio
aveva detto: "un dio, oggi, a noi dette questi ozt" (1, 6). Se il
modello di vita, assunto da Orazio, entro i termini dei rifugi epicurei, si
scoloriva in un atteggiamento di pacato intimismo e di sor- ridente umiltà
(forse la celebre dichiarazione di Orazio d'essere un "porco del gregge di
Epicuro," Epist., l, 4, 16, va veduta nel significato che gli antichi
davano a porco, l'animale che si contenta di poco: cfr. Pla- tone, Repubblica,
372d; ma non va scordato peraltro il Carmen saecu- lare), il modello di vita
virgiliano finiva in unl.accettazione del supremo ordine, dell'equilibrio
nuovo, della rinnovata pietas, della religio, voluti da Augusto, e
identificantisi in lui - in un compimento del cicero- niano ideale scipionico -
correttore e salvatore della patria, princeps della res-publica, pater patriae.
4. Politica e cultura all'avvento di Augusto Cesare fu ucciso il 14 marzo del
44 a. C. Dopo quattordici anni di nuove lotte terribili, di proscrizioni e di
gratuite morti, di alleanze e rotture, nel 30 a. C., dopo la battaglia di Azio,
Ottaviano rimase arbitro della situazione. Sembrò, certo, che solo attraverso
lui e la sua abile e privata politica fosse possibile ricostituire l'equilibrio
e l'armonia, avere la pace. Egli apparve cosi come un patrono, protettore dei
sudditi e, perciò, moderatore e princeps. Si sarà veduta, in lui, non solo la
possi- bilità di salvar(' la res-publica, ma, dando ad Augusto il patronato
uni- 157 versale, l'unica
possibilità di una pax e di una libertas, anche se relati- vissime, che pur
erano molto, rispetto al terrore di prima. Paolo Frezza, commentando come
Augusto presenta il suo potere nelle Res gestae: (l l, Annos undeviginti natus
exercitum privato èonsilio et privata i m pensa comparavi, pel" quem rem
publicam [ a do ]minatione factionis oppressam in libertatem vindica[vi]. - XXV
2. Iuravit in mea verba tota Italia sponte sua et me he[lli], quo vici ad
Actium, ducem depoposcit. Iuraverunt in eadem ver(ba provi]nciae Galliae
Hispaniae Africa Sicilia Sardinia. - XXXIV l. In consulatu sexto et septimo,
p[ostquam bella civil]ia extinxeram, per consensum universorum (potitus rerum
omni]um, rem publicam ex mea potestate in senat[ us] populique Romani arbitrium
transtuli); e richiamando la cosiddetta lex de imperio Vespasiani: ("la
legge ricorda ad uno a uno i poteri straordinari conferiti da senato e dal
popolo a Vespasiano: ciascuno di questi poteri o facoltà eran stati esercitati
anche da Augusto: e il documento si riferisce a questo fan. come precedente
della concessione attuale"); ha finemente sottolineato il duplice aspetto
con cui si determina potere di Augusto e il possibile conflitto tra il principe
e le magistr ture della Città Stato, donde l'esigenza da parte del legislatore
di dete minare la "costituzionalità del potere del principe: la sua
commensur bilità con la conformazione dei poteri costituiti ed attribuiti in
ser all'ordinamento della città-stato" (Frezza, Per una qualificazione is;
tuzionale del potere di Augusto, in" Atti e Memorie dell'Accad. Tosca.t di
Scienze e Lettere la 'Colombaria'," XXI, Firenze, 19: pp. 112-3). Da un
lato Augusto, privatamente salvatore della res-publica, del Stato-Città (e,
dunque, di tutte le sue magistrature), perciò stesso p· essere acclamato
patrono protettore, onde i cittadini si assoggettano lui come clienti; dall'altro
lato Augusto ritrasferisce le potestà su di assunte, con un atto di sua
volontà, all'arbitrio del senato e del popolo romano. Solo che Augusto, proprio
perché acclamato universalmeJ princeps e patrono (non particolarmente, come nel
caso del rappo cliente patrono) e ritrasferendo al Senato e al Popolo, con un
atto propria volontà, la potestà assunta, rimaneva arbitro dello Stato proc
mandosi ragion d'essere (heghemonikon, princeps) dello stesso Stato, svincolava
da ogni legame giuridico-istituzionale, e assumeva cosi in tutto il potere,
essendo egli cioè l'istituzionalità medesima, egli al 158 là del Senato e del
Popolo, con il suo potere esplicantesi attraverso il Se-. nato e il Popolo,
egli, appunto, princeps rei publicae. Con ciò, evidente- mente, la Città-Stato
cessava d'essere tale, mentre i cittadini cesseranno d'essere cittadini per divenire
sudditi e i magistrati magistrati pèr dive- nire via via funzionari dell'impero
e del sovrano. " La necessità che il principio polarizzatore delle
istituzioni dello Stato-Città, e il principio regolatore delle istituzioni del
principato, rima- nessero l'uno all'altro opposti, ed insieme la necessità di
ottenere da una sintesi dei due opposti principi, le soluzioni dei problemi in
cui si pre- sentava il contenuto della nuova esperienza dello Stato: questa è,
se non m'inganno, l'antinomia da cui si genera l'evoluzione storica del
principato, ed in cui si puntualizza il limite- della consapevolezza che gli
artefici dell'ordinamento nuovo ebbero dell'esperienza di cui essi stessi erano
i modellatori. Del quale ordinamento il carattere fonda- mentale è dunque la
duplicità. Da una parte il primordiale sistema istituzionale del potere del
principe, che si riassume nella elementare affermazione di un sol soggetto di
tutto il potere di fronte ad una totalità di sudditi, nella quale tende a
scomparire la differenza fra il suddito e il civis. Da un'altra parte il
raffinato. ma non piu autonomo, sistema istituzionale dello Stato-Città, in
cui, come in un prisma, il totale e totalitario potere del principe si scompone
in una molteplicità di settori di azione, di competenze, di limiti
istituzionali all'esercizio del potere medesimo... Lo sviluppo della storia del
principato, di cui la storia giuridica è un aspetto, si incarica di dimostrarci
che, a misura che il potere del principe si va consolidando come ordinamento, ossia
come sistema di rapporti costanti, lo Stato-Città, come soggetto com- presente
nella formula dell'equilibrio dinamico della costituzione del principato...
tende a scomparire. L'allontanamento dei cittadini dal- l'esercito, e dei
senatori dai comandi militari, l'accesso dei provinciali al trono imperiale, e
l'immissione sempre piu massiccia di provinciali nelle file della classe
dirigente, la formazione di una nuova solida gerar- chia di alti ufficiali
dell'impero, ai quali soltanto incombe la funzione di governo, agli ordini del
sovrano, sono, com'è noto, i fenomeni com- plementari del progressivo
scomparire del senato e della magistratura di Roma dalla direzione politica
dell'Impero" (Frezza). Ci siamo un momento soffermati, da un lato sulla
situazione psi- cologica che ha potuto determinare l'accettazione del potere di
Augusto, e, dall'altro lato, sulla stessa determinazione della qualificazione
istituzionale-giuridica del suo potere, perché sembra che tutto questo possa
servire a spiegare - attraverso le componenti culturali, di cui si è veduto il
confluire e l'intrecciarsi tra il I I e il r secolo a. C., - il prevalere in
quest'ultimo scorcio di secolo, e ancora nel primo quaran- 159 tennio circa del 1 d.C., di
posizioni stoico-platoniche, entro la linea che abbiamo visto svilupparsi con
Cicerone, e che esattamente rispon- devano e servivano a ben precise situazioni
politiche, particolarmente quali si erano venute determinando con il prevalere
di Augusto e con la sua linea tattica. Non sembra cosi un caso che Augusto
riprendesse il termine di princeps, che si proclamasse primus inter pares,
proprio per il motivo, che sopra abbiamo visto, di porre sé al di sopra (donde
il titolo di augustus) e al di là del Senato e del Popolo, assumendo in tal
modo un potere extra res-publica, per cui davvero si costituiva un'egemonia dei
due termini e delle magistrature, dei quali Augusto rimaneva l'egemone, il
princ~tJs. Il termine heghemonik_6n, già da Ci- cerone reso in latino con
principatum, stava a indicare, nelle posizioni stoiche di questo periodo, la
ragione universale, non come principio a ~ ma come atto unificante una
molteplicità, secondo un ordine, ed esplicantesi mediante diverse funzioni,
onde si poteva dire che la ragione del tutto (il 16gos) veniva a porsi prima
inter pares, in sé riassumendo le parti e dando alle parti. il loro giusto
posto nell'or- dine del tutto. E tale, si come Cicerone aveva fatto apparire
l'Emi- liano, Augusto, anche se con abile sottinteso, voleva fare apparire sé,
ragion d'essere dello Stato, principio d'ordine e di equilibrio, non uomo del
senato e del popolo (cui rende la res--publica), ma di ambedue cor- rettore e
principe. E si badi - anche questo è indicativo - che nei paesi ellenistici
(non in Roma) Augusto veniva chiamato basiléus, re, e ciò tanto piu si
chiarisce quando si pensa al significato che al re si era venuti dando nelle
monarchie ellenistiche (cfr. sopra). E cosi non è, forse, solo un caso che il
filosofo di corte, assunto da Augusto, suo consigliere e consigliere (una
specie di confessore) della moglie di Augusto, sia stato uno stoico, Ario
Didimo di Alessandria (vissuto tra il 69 a. C. e il primo decennio del 1 secolo
d. C.: cfr. Diels, Dox., 80). E qui è forse interessante riferire un estratto
dell'Epitome di Ario Didimo, riportato da Eusebio (Praep. ev., XV, ·15, 1-9),
in cui Ario Didimo, in sintesi, delinea la concezione generica dello stoicismo:
Chiamano dio l'intero cosmo con le sue parti. E dicono che il cosmo è unico,
limitato, vivente, eterno e divino. In esso infatti sono contenuti tutti i
corpi, e nessun vuoto esiste in esso. ~ chiamato cosmo non 5olo il qt~ale
costituito da tutta la sostanza esistente; ma anche ciò che secondo un'ordinata
disposizione ha una struttura di tal genere. Perciò, secondo la prima
definizione, dicono che il cosmo è eterno; secondo l'ordinata dispo- sizione,
lo definiscono generato e mutevole secondo infiniti periodi, passati e futuri.
E la qualità costituita da tutta la sostanza esistente è il cosmo eterno e
divino. Ma è detto cosmo anche l'insieme costituito di cielo, aria, 160
terra, mare e delle nature che sono in ciascuno di questi elementi. t
detto cosmo anche il domicilio degli dèi e degli uomini, ovvero l'insieme
costi- tuito (dagli dèi e dagli uomini), e dalle cose che sono nate in vista di
quelli. Infatti, a quel modo che diciamo città in due sensi, come domicilio e
come insieme degli abitanti e dei cittadini, cosf anche il cosmo è come una
città costituita di dèi e uomini, in cui gli dèi hanno il governo e gli uomini sono
i sudditi. Tra gli uni e gli altri v'è comunione, perché partecipano della
ragione, che è legge di natura. Tutte le altre cose sono nate in vista di
quelli. E in accordo con tutto ciò bisogna ritenere che degli uomini si prenda
cura dio che governa l'universo [si confronti anche Platoae, Leggi,. 899d sgg.,
903b sgg.], che è benefico, buono, amante degli uomini, giusto,, e che ha tutte
le virtu. Perciò il cosmo è detto anche Zeus, essendo per noi l'autore della
vita (z~n). In quanto dio fin dall'eternità governa tutte le cose
ineluttabilmente con una ragione concatenata, è detto Fato. t detto Adrastea,.
poiché niente può sfuggirgli [apodidrtiskein]. t detto Provvidenza, perché ha
cura di ciascuna cosa secondo i singoli interessi. Cleante credeva che· parte
dominante [egemonica] del cosmo fosse il sole, perché è il piu grande· degli
astri e quello che massimamente contribuisce al governo dell'universo,. dando
origine al giorno, all'anno e alle altre divisioni di tempo... Crisippo·
identificò questa parte con l'etere purissimo e semplicissimo, perché è il piu
mobile di tutti gli elementi e trascina in giro l'intera traslazione del' cosmo
(Dossografi greci, a cura di L. Torraca, Padova, 1961, pp. 249-50).. Certo
bisogna tener presente che quando si dice stoicismo o plato- nismo, o stoicismo
platonico, o anche aristotelismo stoicheggiante o· platonizzante, in effetto
diciamo qualcosa di molto vago, se non inten-· diamo una vaga visione
d'insieme, uno sfondo culturale, ormai cristal-· lizzatosi ed estremamente diffuso
sia nelle scuole, sia in manualetti di. massime, sul tutto e sulla vita
pratica, circolanti presso il popolo, com'è· largamente testimoniato. Tale
visione d'insieme e legale di un universo• vivente, poteva poi servire, sia sul
piano del diritto e del potere poli- tico, sia sul piano dei singoli
insegnamenti e dell'avviamento nelle scuole, da un lato ad una morale comune e
religiosa, dall'altro lato alle tecniche formali del dire (grammatica, retorica
e dialettica) e alle sin- gole tecniche pratiche (le cosiddette singole
scienze); essa risulta compen- diata in manuali che, usando cognizioni e
notizie acquisite, assumono l'aspetto di repertori e di centoni. Se ciò si vede
bene, nel suo aspetto particolare, ad esempio nel tipo di geografia descrittiva
e umana di Strabone (63-25 a. C.), a carattere enciclopedico e informativo, ove
non v'è piu nulla degli interessi mate- matico-scientifici che avevano mosso un
Eratostene e piu tardi Cratete di Pergamo e Agatarchide di Cnido, altr.ettanto
bene ci rendiamo conto di tutto questo anche dalle testimonianze e dai pochi
frammenti che poS5ediamo di Eudoro di Alessandria e di Ario Didimo. Vissuti
nella seconda metà del 1 secolo a. C., il primo piu vicino a forme platoniz-
zanti tipo Antioco di Ascalona (ad Antioco successero nello scolar- cato
dell'Accademia, mantenendosi sulla stessa sua linea, Aristone di Ascalona, dal
68 al 51, ascoltato da Bruto e da Cicerone, e Teomnesto di Naucrati), il
secondo a forme stoicheggianti (sembra che lo stoi- cismo ufficiale della scuola
di Atene si sia mantenuto, con gli scolarchi successi a Panezio, Mnesarco,
Apollodoro di Atene, Dionisio, Anti- patro di Tiro, sulla linea di Panezio),
l'uno e l'altro hanno scritto dossografie, opere filosofiche a carattere
enciclopedico, commenti al Timeo, di Platone, alle Categorie e ad alcune parti
della Metafisica di Aristotele (Eudoro: cfr. Simplicio, Schol. in Arist., 6la,
25; Plutarco, De anim. procr. in Tim., III, 2; Alessandro, Metaph., 44, 23),
epitomi (Ario Didimo: cfr. Doxographi del Diels). Entro, appunto, questa
concezione comune platonico-stoica, con ve- nature proprie alla scepsi della
nuova Accademia, in senso ciceroniano (cfr. sopra: e Ario Didimo in Stobeo,
Ecl.; Diels, Dox.), si determinava un tipo di cultura enciclopedica, per cui
poteva servire Aristotele (partico- larmente i libri di logica, usati come
introduzione all'arte del retto ragionare, e i libri naturalistici, biologici,
zoologici, meteorologici), sr come Panezio o Posidonio, e, in specie, i
commenti scolastici ai grandi testi, e, insieme, le dossografie, le epitomi, le
raccolte di questioni trat- tate per problemi e divise per scuole, secondo un
capostipite nella cui linea si facevano rientrare i successori (tale metodo
s'era diffuso, sul- l'esempio di Teofrasto, tra il 111 e il u secolo a. C.,
mediante la Successione dei filosofi: dtcx3o:x,~ -rClv cpr.ì.oaO<p(J)V, del
peripatetico Sozione originario di Alessandria, che aveva distinto due scuole,
l'ionica e l'italica, e che fu una delle fonti maggiori cui attinsero i compilatori
posteriori, fino a Diogene Laerzio). Un esempio di tali motivi è rappresentato
dall'edizione che delle opere scolastiche di Aristotele, ritrovate nel 133
a.C., a Scepsi (cfr. sopra, I vol.), consegnate dagli eredi di Neleo al libraio
Apellico (che dal 100 circa, portatele ad Atene, le offrf in pubblica lettura)
requisite da Silla nell'86 a. C., fece, insieme al grammatico Tirannione,
Andro- nico di Rodi (scolarca dal 70 al 50 a. C.: dopo Critolao erano stati
scolarchi Diodoro di Tiro ed Erimneo, dei quali poco o nulla sappiamo). Basti,
nel sen~ di cui sopra parlavamo, ricordare quel che Porfirio dice del criterio
usato da Andronico: "Egli divise le opere di Aristotele e di Teofrasto in
argomenti (1tpor:yjL«u(~), mettendo insieme sotto titolo comune le specula~ioni
che trattavano argomento affine (-r~Ì4; o!x&tcxç 01to-&éaetç etç
-rcxù-ròv auvcxycxyci>v) (Vita di Plotino, 24, 138); e basti pensare
all'ordine con cui si venne a costituire il corpus aristote- lico (Organon,
Fisica, De coelo, De genesi et corruptione, Meteorolo- gica, De anima, Parva
naturalia, libri sugli Animali, Metafisica, Etica Nicomachea, Magna moralia,
Etica Eudemea, Politica, Retorica, Poe- tica). Se da un lato è chiaro l'intento
di volere istituire il libro della scuola peripatetica (altrettanto sintomatico
è che proprio in quest'epoca venga edita, a cura di Attico e di Dercillide,
sulla linea dell'edizione di Aristofane di Bisanzio, l'opera di Platone, divisa
in tetralogie, da cui riprese poi Trasillo, vissuto sotto l'imperatore Tiberio,
il cui Corpus platonicum sarebbe poi quello giunto fino a noi), dall'altro lato
è chiaro l'intento di offrire una enciclop.edia delle scienze unificate, in un
unico sistema. E ciò non significava affatto che, a cornice del quadro aristo-
telico, della divisione della filosofia (come cultura di fondo) in logica,
fisica, etica, non potesse servire la struttura generale dell'universo, entro i
termini teologico-ontici e del tutto vivente, dell'ultimo Platone, di certi
stoici e dell'Aristotele di alcune parti della Metafisica, oltre quello ch'era
stato il platonismo, il primo stoicismo, l'aristotelismo. Di qui, anche,
l'importanza delle introduzioni alle visioni totali di un cosmo ordinato e,
perciò, all'astronomia; e le relative sinopsi sco- lastiche. Edizioni di testi,
dunque, introduzioni generali, sillogi. Certo quel che colpisce, e che rivela
tutto un modo di pensare rispondente a certe precise esigenze, è ciò che si
pubblica, sono i testi che circolano e si commentano: Platone, Aristotele; il
complesso della visione stoica quale si era venuto conformando nel tempo; per
altra via si costrui- scono testi pitagorico-matematici, testi religiosi che
vanno sotto l'eti- chetta di testi orfici, particolarmente si commenta, e non è
poco indi- cativo, il Timeo di Platone, le Categorie di Aristotele, testi di
astro- nomia; mentre si vanno perdendo, o si accantonano, almeno ufficial-
mente, le altre linee che avevano costituito altre filosofie e concezioni. Non
è forse senza interes_se ricordare a tale proposito il nome di Boeto di Sidone
(detto " peripatetico, " per non confonderlo con Boeto di Sidone
stoico), discepolo di Andronico di Rodi, amico di Strabone, successo, sembra,
alla morte di Andronico nello scolarcato del Peri- pato di Atene. Egli avrebbe
scritto una serie di commenti, a carattere interpretativo e divulgativo, alle
opere di Aristotele, con particolare riguardo alle Categorie (cfr. Ammonio, In
Cat., 5). Fondamentàli testimonianze di tutto questo sono tre opere, di non
alto valore scien- tifico, L'introduzione ai fenomeni (Eta«y(J)yYJ et<; -.a
ql«tV6fUV«), composta tra il 70 e il 63 a. C., di Gemino di Rodi, la Teoria
circolare dei corpi celesti (Kux).~x1J.3-e:(J)pt« (l&-r&6:ip(J)v) di
Cleomede (1 a.C.), e, infine, il De mundo (Ilept x6a(lOU), che andato sotto il
nome di Ari- stotele e inserito nel Corpus aristotelico, venne compilato tra la
seconda metà del I secolo a.C. (certo dopo l'edizione di Aristotele da parte di
Andronico, e dunque, dopo il 40 a. C.) e il I secolo d. C. (ri- sulta già noto
nella Dialexeis di Massimo di Tiro, la cui attività si svolse tra il 180 e il
190 d. C., ma già contro di esso avevano polemiz- zato Taziano, morto nel 172 e
Atenagora, morto nel 177, mentre nel De mundo si rilevano chiare influenze di
alcuni testi di Filone l'Ebreo, vissuto tra il 25 avanti e il 40 dopo Cristo:
ma su tutto questo, e sulle varie tesi cfr. Festugière, cit., vol. Il, pp. 477
sgg.). I primi due testi sono vere e proprie introduzioni scolastiche al-
l'astronomia, ove, in effetto, non v'è nulla di nuovo, ma dove colpisce il
tentativo di inquadrare le descrizioni dei fenomeni celesti (si badi che si
resta sempre sul piano descrittivo) entro una piu ampia conce- zione
dell'universo, che è, poi, quella stoico-aristotelica, con non pochi spunti
ripresi dalla tradizione che proveniva dal Timeo platonico, dal- l'Epinomide e,
probabihnente, da alcune ricerche di Posidonio, ch'era pur sempre un tentativo
di razionalizzazione dell'Universo. Il De mundo ha maggiori velleità, e si
presenta come delineazione compiuta e sistematica dell'ordine del tutto, una
specie di libro sapienzale, in cui se da un lato si sfruttano le conclusioni
aristoteliche sul piano fisico-meteorologico (mondo superiore, immobile e
ordinato, regione sublunare corruttibile e disordinata, etere quinto elemento,
eternità del mondo), dall'altro lato si sfruttano certe tesi stoiche (il
pneuma, la Prov- videnza, Dio legge dell'universo, l'universo come l'insieme
del cielo e della terra con tutti gli esseri ivi contenuti), e certe tesi
platoniche (Dio principio, mezzo e fine), in funzione di una unità sistematica,
mediante cui si po~eva - sul piano di un Antioco - vedere in Ari- stotele e
nello stoi~ismo un compimento del platonismo. Sotto questo aspetto, il De
mundo, che si apre con un elogio della sapienza (I), per passare quindi a
descrivere la struttura dell'universo, i suoi elementi, le regioni di tali
elementi, i fenomeni propri a ciascuna regione (11-IV), sostenendo l'unità ed
eternità del Cosmo, il suo ordine, la sua unica ragion d'essere (V), che è la
stessa divinità, trascendente (l'altis- simo) e immanente a un tempo, che tutto
governa e donde provengono tutti gli effetti, Dio, platonicamente principio,
mezzo e fine del tutto (VI-VII), poteva assumere, davvero, la funzione di libro
di scuola, ov'era, in linee chiare e facili, esposta quella cultura di fondo di
cui abbia,mo parlato. Altri punti del De mundo, ha sottolineato il Festu- gière
(cit., pp. 513-14), avranno un gran posto nella letteratura teolo- gica dei due
primi secoli dell'Impero, e particolarmente nell'ermetismo, e cioè: l'eminente
dignità di Dio; l'unicità di Dio; la polionimia di Dio. Dirà Seneca. Gli
Etruschi, antenati dei romani, hanno riconosciuto lo stesso Giove, come noi,
moderatore e guardiano dell'universo, anima e soffio vitale del mondo, signore
e architetto di tale produzione, colui al quale ogni nome si addice. Vuoi
chiamarlo Destino? Non t'in- gannerai: da lui tutto dipende, egli causa delle
cause. Vuoi chiamarlo Provvidenza? Sarà detto bene: per suo consiglio si è provveduto
ai bisogni di questo mondo, s1 che nulla ne turba il cammino ed egli senza
ostacolo svolge il corso delle proprie azioni. Vuoi chiamarlo Natura? Non è
errato: da lui tutto è nato, il soffio di lui ci anima. Vuoi chiamarlo Mondo?
Non avrai torto: egli è questo Tutto che vedi, che penetra ciascuna delle sue
parti, che è a fondamento di sé e di tutto ciò che è in lui" (Naturales
quaest., Il, 45). Aveva detto Varrone: "Bisogna tener presente che tutti
gli dèi e le dèe sono il solo Giove, o che, come vogliono alcuni, tutte queste
cose siano parti di Dio, o che siano potenze di Dio, secondo l'opinione di
coloro che fanno di Dio l'anima del mondo. Tutta la vita universale è la vita
d'uno stesso Essere vivente, che contiene tutti gli dèi che sono po- tenze,
membri, o parti" (fr. 15 b Agahd). Il De mundo si colloca, anche
cronologicamente, tra questi testi di Varrone e di Seneca, rispecchiando assai
chiaramente la koinè cultu- rale-politica quale si venne configurando tra la
fine del 1 secolo a. C. e la prima metà del I secolo d. C., e l'importanza, piu
che scientifica teologi~politica, assunta dagli studi di astronomia e di
questioni na- turali, che, per il resto, usando notizie acquisite, si delineano
in ma- nuali di volgarizzazione e in repertori scolasticamente utili, in summe
di un sapere ormai istituzionalizzato. E cosi sembra di non poco inte- resse il
termine architetto usato da Seneca per indicare la divinità, che se da un lato
richiama la moralità come architettura di aristotelica memoria, dall'altro lato
dà il significato esatto di questa visione misu- rata e normativa
dell'universo, cui ha da adeguarsi l'uomo e la società e l'opera stessa
dell'uomo, indipendentemente ormai, in una certa atmosfera culturale acquisita,
da dimostrazioni e da prove, valida, invece, come dato di fondo su cui poi
ciascuno deve svolgere il proprio mestiere, mettere a frutto le proprie
particolari cognizioni. E qui, in ispecie, pensiamo alla prima scuola
filosofica che si apri in Roma, proprio tra la fine del I secolo a.C. e i primi
anr1i del I d. C., fondata da Quinto Sestio (nato circa nel 70 a. C.), cui
successe, nella direzione, il figlio Sesto (forse Sertius Niger, indicato da
Plinio quale fonte dei libri dodici, tredici, ventuno-trenta, trentadue-trenta-
quattro, della su.a Storia naturale) e, perciò, detta poi la "Scuola dei
Sestii." Breve fu la durata della Scuola. Per quel poco che sappiamo di
essa, attraverso Seneca, che, nel 18-20 d. C., fu discepolo di Sozione di
Alessandria, aderente alla Scuola dei Sestii; e di Fabiano Papirio, anch'egli
della Scuola, e di cui Seneca dice che non fu "filosofo cattedratico, ma
vero filosofo all'antica" (De brevitate vitae, X, l) e per qualche
testimonianza di Stobeo, possiamo -indicare la Scuola come configurantesi entro
i termini del piu generico stoicismo, che soprat- tutto doveva servire da
fondamento all'insegnamento etico, alla forma- zione del cittadino, e da
fondamento all'insegnamento di materie par- ticolari: questioni naturali,
politiche, retoriche, di medicina (ricor- diamo di Fabiano i titoli pervenutici
di alcune sue opere: Libri cau- sarum naturalium, De animalibus, Libri
t:ivilium), di cui abbiamo un esempio nell'opera di Aulo Cor~elio Celso della
Scuola dei Sestii. Celso, vissuto tra Augusto e Tiberio, scrisse una grande
enciclopedia, di cui non è rimasto che il volume De re medica, già esso
estremamente indicativo di un metodo e di un tipo di richlesta (gli altri
volumi erano dedicati all'agricoltura, all'arte militare, alla retorica, alla
filosofia e al diritto). Il De re medica (in otto libri) non è affatto opera
origi- nale - si pensa anche che sia la traduzione di un'opera medica in greco,
torse, secondo Max Wellmann, Celsus, in "Philol. Untersuch.,"
Berlino, 1913, di un certo Cassio, andata persa - ma, a parte il suo valore
come fonte per la storia della medicina e delle scuole medi- che (1), è una
preziosa opera divulgativa e descrittiva, che poteva servire non poco ad una
preparazione specifica, soprattutto per la sua precisione nella descrizione dei
sintomi delle malattie e dei mezzi di guarigione (11-IV), tanto dietetici che
farmaceutici (V-VI: veri e propri trattati di farmacologia), degli interventi
chirurgici (VIi: è per la prima volta descritta l'operazione della cateratta) e
delle malattie delle ossa (VIII). D'altra parte non va qui scordato il medico
Asclepiade (vissuto circa tra il 124 e il 45 a. C.), di Prusa, in Bitinia, che
nella prima metà del I secolo a. C., fbndò in Roma la prima, privata, scuola di
medicina (pubblicamente una Schola medicorum venne eretta in Roma solo nel 14
d. C.). Asclepiade, che aveva studiato ed esercitato. in molte città di Oriente
e in Alessandria, che aveva risentito le influenze delle teorie di Erasistrato
(cfr. I vol.), ritenne, ed è ciò che qui interessa, che la dottrina epicurea
degli atomi (da Asclepiade detti 6nco1) e della formazione delle cose e loro
costi- tuzione a seconda della disposizione e organizzazione degli atomi
stessi, fosse l'unica dottrina che poteva permettere al medico di ope- rare
sulla natura del corpo umano, ristabilendo, di volta in volta, certi equilibri,
o determinandone, mediante un'intelligente esperienza, altri migliori, curando,
appunto, "mediante la stessa natura," soprat- tutto per mezzo della
dieta, s(da ricostituire la simmetria degli atomi mediante mezzi sicuri,
rapidi, _piacevoli (cfr. Plinio il Vecchio, Nat. hist. XXVI, 7, 3 sgg.). Non è
un caso, tuttavia, che Asclepiade, in epoca piu tarda, al tempo in cui anche in
medicina prevalse la teoria 166 pneumatica, di chiara ispirazione
stoica, sia stato detto un ciarlatano (Plinio, Galeno), e accomunato al suo
discepolo Temisone di Laodicea, che abbandonata ogni teoria generale, dette
avvio alla cosiddetta scuola dei metodisti, assumendo come metodo (donde il
nome della scuola) l'osservazione, mediante cui determinare i caratteri propri
a ciascuna malattia, e fondandosi sulla "tensione" dell'organismo
rivelantesi at- traverso il battito del polso. Certo egli cercò soprattutto di
compiacere alla sua ricca clientela, mentre i medici piu seri, da Eraclide di
Taranto (principio del I a. C.) ad Apollonia di Cizio (metà del I a. C.),
appar- tenuti ambedue alla scuola empirica, cercarono soprattutto di descri-
vere le acquisizioni da essi fatte mediante la pratica e la somma delle loro
esperienze, sottoposte a verifica, finché proprio al principio del I secolo d.
C., poco dopo la pubblicazione dell'opera di Celso, avremo che anche la
medicina si ispirerà, per lo stesso fondamento teorico dell'arte, per il
fondamento della fisiologia e della patologia, al sistema stoico (la scuola
pneumatica, rifacentesi ad uno scritto del Corpus hip- pocraticum, il De
flatibus, fu fondata cla Ateneo di Attalia). Ad ogni modo, se, come pare, gli
altri volumi dell'enciclopedia di Celso avevano gli stessi caratteri del volume
dedicato alla medicina, seml:>ra esattamente confermato quanto sopra
dicevamo. E ciò tanto piu risulta vero, quando pensiamo alla stessa attività
degli scienziati tra il I a. C. e il principio del I d. C., che, sempre meno
teorici, o meglio usando teorie già acquisite, appaiono soprattutto come dei
tecnici, dei meccanici, degli ingegneri, dei pratici, che perfezionano
strumenti e operano, a cominciare dai tecnici. di Alessandria (Ctesibio, Filone
di Bisanzio) a finire ai tecnici romani, costruttori di strade militari, di
monumenti, di porti, di fognature, di macchine belliche (cfr. l'Archi- tettura
di Vitruvio), rispondenti alle esigenze politiche, militari, urba- nistiche di
Roma (cfr. Prefazione di Vitruvio), al grande alessandrino Erone (vissuto nella
seconda metà del I secolo d. C.), anche se man- tenendo quella visione
d'insieme, quello sfondo culturale, quella cre- denza in un tutto ordinato e
architettonico, quale anche si rivela nel celebre De architectura (del 25-23
a.C.) del grande tecnico e archi- tetto Vitruvio Pollione, vissuto tra il tempo
di Cesare e di Augusto e a loro legato. Vitruvio era convinto che la misura
delle costruzioni umane ("l'architettura è costituita: dall'ordinamento,
che in greco si dice -r&~r.ç, e dalla disposizione che i greci dicono
8t&.&eatc;; e dal- l'euritmia, la simmetria, il decoro, la
distribuzione detta in greco o[xovo!J.(ot, l'ordine"; l, 2, l), deve
essere adeguata alla misura del tutto, espressione di una certa umana cultura e
civiltà, di cui l'espres- sione è l'architettura (cfr. Prefazione e I libro
cap. 1), d'onde, anche per Vitruvio, l'importanza di una cultura enciclopedica,
non solo 167 perché
l'architetto possa realizzare tecnicamente le proprie opere (per cui
l'architetto deve avere cognizioni di geometria, di prospettiva, di disegno, di
meccanica, dei materiali, dei climi, delle situazioni delle città, di storia,
delle acque, e cosf via), ma perché tale cultura sta a fondamento di ogni
scienza, s1 come di ogni consapevole opera umana. La scienza dell'architetto si
accompagna a molteplici conoscenze e a istruzioni varie... Essa nasce dalla
pratica e dal ragionamento (e.r fabrica et ratiocinatione). La pratica: è una
continua e minuziosa meditazione dd- l'uso, che si ottiene mediante le mani,
con l'aiuto di un q1,1alche genere di materia buona per essere plasmata. Quanto
al ragionamento: è ciò che può dimostrare ed esplicare, mediante la
penetrazione della ragione, le cose che si eseguiscono... Né l'ingegno senza la
scienza, né la scienza senza l'inge- gno può fare un compiuto artefice.
L'architetto deve essere letterato, abile nel disegno, istruito in geometria;
deve conoscere le leggende, deve avere con zelo ascoltato i filosofi, sapere di
musica, non essere ignorante di medicina, sapere le decisioni dei giureconsulti,
conoscere l'astrologia e le leggi dd cielo... Potrà, forse, sembrare curioso
agli inesperti che la natura possa approfondire e contenere nella memoria si
gran numero di scienze. Ma quando si saranno resi conto che tutte le scienze
hanno tra loro una connessione e uno scambio di contenuti, capiranno come ciò
possa facil- mente avvenire. La scienza universale (encyclios disciplina),
infatti come un sol corpo ~composta di queste membra. Cosi coloro che fin dalla
tenera età vengono avviati a conoscenze molteplici, riconoscono in tutte le
branche delle lettere gli stessi caratteri e le mutue relazioni di tutte le
scienze, donde giungono piu facilmente alla nozione di tutte le cose (1, l,
1-2, 9, 44-45). Di Enesidemo sappiamo molto poco. Sappiamo che nacque a Cnosso,
nell'isola di Creta (cfr. Diogene Laerzio, IX, 116) - secondo Fozio,
Myriobiblon o Bibliotheca, 170a, sarebbe nato ad Egea;- che per un certo
periodo insegnò ad Alessandria (Aristocle, in Eusebio, Praep. ev., XIV, 18, 22)
- il che può essere abbastanza interessante relativa- mente alla conoscenza che
Filone di Alessandria poteva avere del- l'opera di Enesidemo; - che dapprima
seguace dell'Accademia se ne sarebbe poi distaccato, ritenendo che in effetto i
nuovi accademici piu che accademici fossero degli stoici (Fozio, cit.): il che
fa pensare che, secondo anche la testimonianza di Sesto, Pyrrh. hipot., l, 235,
il quale sostiene che Antioco di Ascalona aveva ridotto l'istanza scettica del-
l'Accademia a un neo-stoicismo, la polemica di Enesidemo e il suo polemico
prodamarsi pirroniano, per cui dette alla sua opera princi- pale il titolo
Discorsi pi"oniani, fossero rivolti proprio contro l'equi- voca posizione
di Antioco e la diffusione afilosofica del suo insegna- mento nella cultura romana.
Secondo Fozio, Enesidemo avrebbe dedi- cato i Discorsi pirroniani "a un
certo suo collega accademico, di nome Tuberone, romano di nascita, di famiglia
illustre, che aveva avuto ma- gistrature civili non volgari" (Fozio, Myr.,
169b). A parte un Tu- 2 Di Enesidemo sappiamo che nacque a Cnosso, nell'isola
di Creta, che insegnò ad Alessandria, e che scrisse un'opera intitolata
Discorsi pi"oniani, di cui abbiamo un sunto nel Myriobiblon (o
Bibliotheca,Bt(3Àto~~x-~) di Fozio (Fozio dice Enesidemo na- tivo d.i Egea).
Fozio dice anche che Enesidemo dedicò la sua opera a un certo Tuberone, uomo
noto per famiglia e per cariche. Sulla questione dell'epoca in ctJi sarebbe
vissuto Enesidemo (il 1 sec. a. C. o il 1 sec. d. C.) cfr. sopra nel testo.
Altri titoli di opere perdute di Enesidemo sono: Contro la saggezza, Intorno
alla ricerca, Schizzo introduttivo al pir- ronismo, Elementi, Prima
introduzione. Si veda nel testo anche la questione dei disce- poli di Enesidemo
(Zeucsippo di Poli, Zeucsis, Antioco di Laodicea, Apelle), insieme al problema
della loro cronologia ed a quella di Agrippa, di cui non abbiamo alcuna notizia
biografica. 179 berone piu
antico, della illustre famiglia conosciamo Lucio Elio Tu- berone, amico di
Cicerone, legato di Q. Cicerone (proconsole in Asia nel 61-58), culturalmente
vicino all'ambiente ciceroniano, e il figlio di Lucio, Quinto Elio Tuberone,
che,' insieme con il padre, fu pompeiano e avversario di Cesare, ma che,
riconciliatosì con Cesare, abbandonata la diretta vita politica, visse in Roma,
occupandosi di studi storici, fin verso la fine del 1 secolo. Nulla vieta di
pensare che il Tuberone cui fa cenno Fozio sia Quinto Elio, che, vissuto nel-
l'ambiente ciceroniano, poteva benissimo essere considerato accademico, ma che
poi, anche per influenza di Enesidemo, avrebbe potuto libe- rarsi
dall'Accademia stessa, divenuta eccessivamente dogmatica e stoi- cheggiante. In
effetto, dal lucido sunto che Fozio dà degli otto libri dei Discorsi pirroniani
appare con chiarezza che la polemica di Enesi- demo è soprattutto volta contro
i qeo-accademici, "stoici contro altri stoici" (Pozio, cit.), in un
appello al pirronismo, quale termine ideale di un piu serio e consapevole modo
di ~osofare, volto non tanto alla costruzione di una qualsivoglia concezione della
realtà, ma alla com- prensione critica delle capacità e delle possibilità
umane, in uno studio dei modi mediante cui l'uomo, ciascun uomo, a seconda
della sua situazione (fisica e sociale), costituisce una certa concezione che
viene poi spacciata per unica e vera. E di tale atteggiamento che, attraverso
la polemica nei confronti della Nuova~Accademia, va oltre la Nuova- Accademia,
in una radicale e sistematica discussione di ogni cultura conformisticamente
cristallizzatasi, è testimonio anche Sesto Empirico, sulla fine del I I secolo
d. C. (" Antioco introdusse la Stoà nell'Acca- demia, talché si disse di
lui che nell'Accademia trattava la filosofia stoica": Pyrrh. hypot., l,
235). Sesto Empirico, per altro, distinguendo tra scettici "piu
antichi" e scettici "piu recenti" (Pyrrh. hypot., I, 36, 164),
sostiene che spetta ai piu antichi di avere classificato dieci modi (tropi)
mediante cui non si può nòn giungere alla "sospensione del giudizio"
(cit., I, 36), mentre spetta ai piu recenti di averne clas- sificati cinque
(cit., l, 164). E siccome altrove Sesto afferma (Adv. math., I, 345) di avere
esposto nelle lpotiposi pirroniane i dieci tropi "secondo Enesidemo,"
si è di qui arguito che Sesto ponga Enesidemo tra gli scettici piu antichi. Una
testimonianza di Aristocle (n sec. d. C.) pone, invece, Enesidemo tra i
pensatori "recenti" (in Eusebio, Praep. ev., XIV, 18, 22). Questo e
la constatazione che Cicerone non citi Enesidemo (un testo del Lucullus, X, 32,
tuttavia, è sembrato al Couissin, Le stoicisme de la nouvelle Académie, p. 263,
un accenno, anche ·se sprezzante, alla posizione di Enesidemo) hanno messo in
dubbio l'epoca in cui Enesidemo sarebbe vissuto (primo secolo avanti 180
o primo secolo d. C.?). Che Cicerone non citi Enesidemo è sembrato grave
allo Zeller, il.quale sottolinea che Cicerone, molto vicino ai neoaccademici
Filone di Larissa, Antioco di Ascalona e a Lucio Elio Tuberone, cui Enesidemo
dedica i Discorsi, avrebbe dovuto discutere il pirronismo di Enesidemo, mentre
invece afferma che il pirronismo era da tempo passato (De Oratore, III, 62). Si
può, d'altra parte, far l'ipotesi che Cicerone, come non cita Lucrezio
riducendolo al piu an- tico epicureismo, cosi si sgombri il terreno da
Enesidemo che discute la validità scientifica del "probabilismo,"
mediante cui Cicerone ri- prendeva la concezione generale dello stoicismo,
riducendo Enesidemo ai piu antichi pirroniani. Non solo, ma bisognerebbe essere
sicuri che il Tuberone di cui parla Fozio sia Lucio Elio e non, invece, il
figlio Quinto Elio (Fozio non precisa), perché in tal caso i Discorsi pirro-
niani potrebbero essere stati scritti dopo la morte di Cicerone. Quanto,
infine, al "recente" di Aristocle e all'"antico" di Sesto
(ma, in fondo, quel "piu antichi" è molto generico e sta ad indicare
la conclusione di un processo di sistemazione dei tropi scettici, rispetto ad
altre piu recenti sistemazioni, tanto è vero che Sesto non fa nessun nome,
mentre cita, Pyrrh. hypot., I, 180-181, Enesidemo per dire che suoi sono gli
otto tropi mediante cui sovvertire i ragionamenti intesi a spie- gare le cause,
su cui si fonda la superbia dei dogmatici), si è giusta· mente pensato che
Enesidemo "avrebbe potuto apparire recente ad Aristocle che lo raffrontava
con Pirrone e antico a Sesto che lo raf- frontava con filosofi a lui
posteriori" (M. Dal Pra, Lo scetticismo greco, Milano, p. 278). I Discorsi
pirroniani sembra, dunque, che siano stati scritti nella seconda metà del 1
secolo a. C. Essi rinnovano, in un'atmosfera cul- turale, adagiatasi,
attraverso Antioco e Cicerone, in una generica con- cezione stoico-platonica,
accettata dogmaticamente come sfondo di una cultura comune e conformisticamente
scolastica, anche se posta da al- cuni come verità "probabile," una
corrente scettica (come atteggia- mento critico che " a ogni ragione
oppone una ragione di egual valore": Sesto, Pyrrh. hypot., l, 8,
"senza dogmatizzare, nel significato che altri dànno alla parola dogma,
cioè assentire a qualcuna delle cose che sono oscure e formano oggetto di
ricerca da parte delle scienze": Sesto, cit., I, 13), che non si sarebbe
mai spenta é che, secondo Diogene Laerzio (IX, 115-116), dopo Timone di
Fliunte, avrebbe avuto i suoi maggiori rappresentanti in Tolomeo di Cirene,
Sarpedonte, Eraclide, dei quali in realtà non sappiamo nulla (Eraclide sarebbe
stato maestro di Enesi- demo: ma quale Eraclide, il medico Eraclide di Taranto,
il medico Eraclide di Eritrea?). Ad ogni modo, ammesso ch'Enesidemo sia vissuto
piu tardi, biso- gnerebbe allora sostenere che prima di Filone l'Ebreo già vi
fosse stato un pensatore che ha ripreso e diffuso gli antichi argomenti di
Pirrone e di Timone, in polemica contro i neoaccademici e lo stoicismo gene-
rico, contro il diffuso dogmatismo scolastico. Egli,.tuttavia, traspor- tando
questi elementi su di un piano gnoseologico e logico, piu vicino a Carneade e
ad Arcesilao che non a Pirrone, avrebbe criticamente ordi- nato i tropi (dei
cosiddetti tropi di Enesidemo in Filone ne rintrac- ciamo almeno otto),
mediante cui mostrare la necessità della "sospen- sione del giudizio"
(epochè), anche nei confronti del "probabilismo," forse praticamente
e politicamente utile, ma teoreticamente e scienti- ficamente un compromesso,
al servizio dello stesso stoicismo, tropi, che come furono ripresi da Filone
l'Ebreo, sarebbero stati ripresi e organicamente sistemati da Enesidemo, anche
se con un fine assai diverso. In effetto, sia attraverso Filone l'Ebreo, sia
attraverso il sunto che degli otto libri dei Discorsi pirroniani dà Fozio, sia
attraverso ciò che di Enesidemo dice Sesto Empirico (anche Diogene Laerzio),
ricaviamo che sulla fine del I secolo a. C. e sul principio del I d. C., come
da un lato si venivano compilando le "summe" del sapere stoico,
platonico, aristotelico, o piu generici manuali ove si delineavano concezioni
d'in- sieme, cosi, dall'altro lato, si vennero ordinando in un complesso orga-
nico gli argomenti propri alla tradizione scettica, che, appunto, di con- tro
alle evasioni ed alle acritiche costruzioni di certo stoicismo plato- nizzante
e aristotelizzante, dimentico dei piu complessi e scientifici problemi di
logica e di gnoseologia, rappresenta l'aspetto piu scientifico e validamente
filosofico di quest'età. "In origine, lo Scetticismo mirava," ha
scritto il Robin, "alla salute nella saggezza; ma ·a poco a poco la sua
dialettica assunse un signi- ficato prevalentemente metodologico... Analisi
rigorosa e infaticabil- mente esauriente di tutti gli aspetti di un problema;
abilità dialettica senza pari; probità intrattabile di uno spirito ché rifiuta
d'ingannarsi da sé; risoluta ostilità contro la teoria e gli apriorismi di
qualsiasi genere; rispetto del fatto puro, insieme con la sollecitudine di
notarne scrupolosamente le relazioni e di utilizzarlo per la pràtica... In
origine il suo metodo era una discipìina morale, il cui fine era la
tranquillità dell'animo; in seguito, fu anche, e soprattutto, una disciplina
dello spi- rito scientifico. Mai si atteggiò a ribelle, né cercò lo scandalo;
l'umiltà del suo quietismo gli fece accettare la vita qual è; il suo rispetto
del fatto lo condusse a trattare i fatti collettivi, costumanze e leggi, alla
stregua di fatti naturali. Di fronte all'intolleranza dottrinale ed alla 182
tirannide dei pregiudizi di scuola, il suo atteggiamento critico
espresse uno sforzo audace per rendere autonoma la scienza, chiedendole di
applicarsi soltanto a detèrminare con rigore i suoi procedimenti tecnici, in
vista della pratica utile" (Robin, La pensée grecque et les origines de
l'esprit scientifique, trad. it. Storia del pensiero greco, Milano, pp. 553,
554-55). Tale il nerbo delle argomentazioni di Enesidemo, che, di contro
all'atteggiamento platonico-stoico, cui con Antioco di Ascalona si era risolta
l'Accademia di Arcesilao e di Carneade, si appella al primo scetticismo
pirroniano, anche se, in effetto, la sua istanza critica assume un ben diverso
colorito svolgendosi sul piano dell'indagine critica delle condizioni che
permettono il giudizio, in un'analisi del linguaggio filosofico e in una
discussione della liceità del passaggio dal discorso umano (che può essere
molteplice e di volta in volta diverso) al discorso dd tutto. Non a caso
Enesidemo ripercorre criticamente le tappe su cui si fonda il
"criterio" stoico. Innanzi tutto, pur ammesso che i dati del giudizio
siano la presenza alla coscienza delle impressioni, proprio perché nulla giustifica
l'affer- mazione che l'impressione, l'apparire (fenomeno) alla coscienza di
qual- cosa corrisponda ad una presunta cosa in sé quale è in sé, né che l'una
impressione sia piu vera dell'altra - ogni animale, ogni uomo può avere
impressioni diverse, anche a seconda della sua costituzione fi- sica, -'- nulla
giustifica che il giudizio, o come affermazione o nega- zione di una
rappresentazione - tenendo presente che ogni rappre~ sentazione presa a sé non
è un giudizio, per cui ciascuna non è né vera né falsa, - o come discorso fra
le rappresentazioni, corrisponda all'oggetto che ci rappresentiamo o allo
strutturarsi della realtà in rap- porti di inerenza. Di qui scaturisce la
critica sia alla logica propo- sizionale di tipo stoico (in cui l'uso predicativo
dell'essere sarebbe dovuto ad un rapporto di identità) sia all'analitica di
tipo aristotelico (in cui l'uso predicativo dell'essere sarebbe dovuto;~ un
rapporto di inerenza). I celebri dieci. tropi, che sembrano elaborati da
Enesidemo, sono diretti, appunto, a determinare che le impressioni in quanto
tali non sono giudizi, che è dubbio corrispondano all'oggetto rappresentato, e
che, pertanto, neppure servono come dati del discorso, né in senso
aristotelico, perché dovremmo prima ammettere un rapporto di ine- renza reale
tra il soggetto e il predicato, rispondenti a oggetti per sé, né in senso
stoico perché dovremmo prima ammettere che, almeno nel· l'uomo, in tutti gli
uomini, la rappresentazione a richiama sempre la rappresentazione b e cos1 via.
Dagli scettici piu antichi - scrive Sesto Empirico - sono comunemente
tramandati i dieci modi [tropi], per mezzo <{ei quali pare effettuarsi la
sospensione del giudizio [epochè], che chiamano anche, con vocaboli sino- nimi,
regole [16goi] e figure [t6poi]. E si riferiscono: l) alla varietà che si nota
negli animali; 2) alle differenze che si riscontrano negli uomini; 3) alle
diverse costituzioni dei sensi; 4) alle circostanze; 5) alle posizioni,
agl'intervalli, ai luoghi; 6) alle mescolanze; 7) alle quantità e composizioni
degli oggetti; 8) alla relazione; 9) al verificarsi continuamente o di rado;
IO) alle istituzioni, costumanze, leggi, credenze favolose e opinioni dogma-
tiche. Accettiamo questa serie dandole un.valore convenzionale... Dicevamo
essere la prima regola quella secondo la quale le stesse cose non producono le
medesime rappresentazioni sensibili, in conseguenza della differenza degli
animali. Questo lo deduciamo dal modo differente del loro generarsi e dalla
differente costituzione dei loro corpi... Se le medesime cose appaiono dif-
ferenti ai differenti animali, potremo, sf, dire quale noi percepiamo l'og-
getto; ma quale esso sia in realà, ci asterremo dal giudicare (Pyrrh. hypot.,
I, 36-78; cfr. anche Filone l'Ebreo, De ebrietate, 170-171; Diogene Laerzio,
IX, 79-80)... Il secondo modo, come dicevamo, riguarda le differenze che si
riscontrano negli uomini. Infatti, anche se, per ipotesi, si ammette che gli
uomini sono piu degni di fede degli anÌir'..ali, troveremo che si arriva alla
sospensione del giudizio pure per quanto si riferisce alle differenze che sono
tra di noi. Delle due parti di cui si dice che consta l'uomo, anima e corpo,
per l'una e per l'altra· noi differiamo l'una dall'altro... Pertanto è
necessario, anche in forza delle differenze che sono tra gli uomini, arrivare
alla sospensione del giudizio (Pyrrh. hypot., l, 79-89; cfr. anche Filone
l'Ebreo, De ebrietate, 175 sgg.; Diogene Laerzio, IX, 80-81). Terzo modo è
quello che dicevamo riferirsi alla diversità delle sensazioni. Che le sensa-
zioni differiscano tra loro è manifesto... Ciascuno dei fenomeni sensibili
impressiona variamente. i nostri sensi; cosi la mela ci si mostra liscia,
profu- mata, dolce, gialla. t oscuto; pertanto, se essa possieda,
effettivamente, que- ste sole qualità, o se possieda una qualità unica e.ci
appaia differentemente in conformità della differente costituzione degli organi
del senso, oppure se possiede piu qualità di quelle che app~ono, e alcune non
cadano sotto i nostri sensi (Py"h. hypot., I, 9I-95; anche Diogene
Laerzio, IX, 81)•.. Il quarto modo è quello che si denomina dalle circostanze
(chiamiamo cir- costanze i diversi modi di essere). E diciamo ch'esso va
considerato nel fatto di trovarci in uno stato naturale o innaturale,
nell'essere svegli o addor- mentati, in rapporto all'età, all'essere in moto o
in quiete, all'odiare o amare, al versare nell'indigenza o esser sazi,
all'essere ubriachi o sobri, alle predisposizioni, all'essere coraggiosi o
paurosi, addolorati o contenti... Noi assentiamo maggiormente a ciò che ci sta
davanti e c'impressiona nel pre- sente, che a ciò che non ci sta davanti... t
impossibile dirimere questa discre- panza di rappresentazioni. E invero, chi
preferisce una rappresentazione a un'altra, una circostanza a un'altra, o lo fa
senza giudicare e dimostrare, o giudicando e dimostrando. Ma non lo può fare n~
con l'intervento né senza l'intervento di un giudizio o di una dimostrazione:
in questo secondo caso non sarebbe degno di fede. Se recherà un giudizio sulle
rappresenta- zioni, lo farà, indubbiamente, sulla base di un criterio. Ora
questo criterio egli dir~ che è vero o falso; se falso, egli non meriterà fede;
se, invece, dirà che è vero, o affermerà che il criterio è vero senza recare
una dimostra- zione, oppure lo sosterrà in base ad una dimostrazione. Se lo
affermerà senza recare dimostrazione, non meriterà fede; se in base a una
dimostra- zione, sar~ assoll'tamente necessario che anche la dimostrazione sia
vera, se no, non meriter~ feè~. Ora dirà egli la vera dimostrazione assunta per
la conferma del criterio, in seguito a un giudizio o senza di questo? Se senza,
non meriterà fede; se in seguito a un giudizio, è manifesto ch'egli dir~ di
aver giudicato in base ad un criterio, del quale criterio cercheremo la
dimostrazione e il criterio di questa, poiché sempre la dimostrazione, per
essere confermata, avrà bisogno di un criterio, e il criterio avrà bisogno di
una dimostrazione, per essere dimostrato vero; né la dimostrazione può essere
vera, se non è preceduta da un criterio vero, né il criterio può essere vero,
se la dimostrazione non è riuscita, prima, a convincere. Cosi, criterio e
dimostrazione cadono nel diallele, in cui si scopre che né l'uno né l'altra
meritano fede: l'uno, infatti, attendendo conferma dall'altra, e questa da
quello, resta che entrambi non meritino, ugualmente, fede. Se, pertanto, né
senza dimostrazione e criterio, né in base a questi può uno preferire rap-
presentazione a rappresentazione, non sarà possibile decidere tra le rappre-
sentazioni sensibili, che sono differenti secondo le differenti disposizioni.
Talché, anche per quanto si riferisce a questo modo, si arriva alla sospen-
sione del giudizio sulla natura degli oggetti esteriori (Pyrrh. hypot., l,
100-117; anche Filone l'Ebreo, De ebrietate, 178 sgg.; Diogene Laerzio, IX,
82). Il quinto modo è quello che si riferisce alle posizioni, agl'intervalli e
ai luoghi; e invero, secondo ciascuno di questi, le stesse cose appaiono
differenti... Ora, poiché tutti i fenomeni si percepiscono in un dato luogo, a
una tale distanza, in data posizione, onde deriva una grande differenza nelle
rispettive rappresentazioni sensibili..., necessariamente, anche per questo
modo, riusciremo alla sospensione del giudizio (Pyrrh. hypot., l, 118 sgg.;
anche Filone l'Ebreo, De ebriet., 181 sgg.; Diogene Laerzio, IX, 85-86, che dà
questo tropo come settimo)... Il sesto modo è quello che si riferisce alle
mescolanze, per il quale si conclude che, poiché nessuno degli oggetti cade
sotto i nostri sensi di per sé solo, ma insieme con qualche altra cosa, forse è
possibile dire quale sia la mescolanza formata dall'oggetto esteriore e
dall'altra cosa insieme a cui viene percepito, ma non potremo dire quale sia
l'oggetto esteriore nella sua realtà pura... A causa delle mescolanz_e, i sensi
non percepiscono quali siano, esattamente, gli oggetti esteriori. E nemmeno
l'intelletto, perché i sensi, sue guide, lo ingannano. Ma forse lo stesso
intelletto effettua una sua propria mescolanza nell'intendere ciò che viene
annunziato dai sensi (Pyrrh. hypot., l, 124-127; cfr. Diogene Laerzio, IX,
84-85, che dà questo tropo come sesto)... Il settimo modo è quello che si
riferisce alla quantità e costituzione degli oggetti, intendendo comunemente
per costituzione, la composizione. Che anche per questo modo si sia co- stretti
a sospendere il giudizio intorno alla natura reale delle cose, è manifesto. Per
esempio, la raschiatura di corno caprino, guardata cosi sem- plicemente, fuori
del composto, appare bianca, guardata, invece, nel com- posto del corno appare nera...
Il rapporto quantitativo e costitutivo confonde la percezione della realtà
esteriore (Pyrrh. hY,pot., l, 129 sgg.; anche Filone l'Ebreo, De ebrietate, 189
sgg.; Diogene Laerzio, IX, 86, che dà questo tropo come ottavo)... L'ottavo
modo è quello della relazione, e per esso in- feriamo che, tutto essendo
relativo, noi dovremo sospendere il giudizio sulla reale natura delle cose.
Bisogna notare che anche qui, come altrove, noi adoperiamo la voce
"è," in luogo di "appare," intendendo dire, appunto:
"tutto appare in maniera relativa." Ora questa relatività si afferma
in due modi: in un primo modo rìspetto al giudicante (poiché l'oggetto esterno
e giuditato appare relativamente al giudicante), in un secondo modo rispetto a
quello che si percepisce insieme con l'oggetto, come ciò che è a destra
rispetto a ciò che è a sinistra. Come tutto sia relativo, ab- biamo discorso
anche precedentemente; cosi, rispetto al giudicante, ab- biamo detto che ogni
cosa appare cosi o cosi, relativamente a questo ani- male e a quest'uomo e a
questo senso e· a quella tale circostanza. Rispetto a quello che si percepisce
insieme con l'oggetto, abbiamo detto che ogni cosa appare cosi o cosi
relativamente a questa mescolanza, a questo luogo, a questa composizione, a
questa quantità e posizione. Ma anche con ragio- namento proprio si può
concludere che tutto è relativo, in questa maniera. Ciò che è assoluto
differisce da ciò che è relativo, oppure no? Se non differisce è anch'esso
relativo; se differisce, poiché tutto ciò che differisce è relativo (si dice,
infatti, che differisce relativamente a ciò da cui diffe- risce), anche
l'assoluto è relativo... Tutto appare relativamente a qualche cosa. Ne segue
che dobbiamo sospendere il giudizio intorno alla natura delle cose (Py"h.
hypot., l, 135-140; Filone l'Ebreo, De ebrietate, 186 sgg.; Diogene Laerzio,
IX, 87-88, che dà questo tropo come decimo)... Il nono modo è quello che
concerne gli incontri continui o rari di una cosa... Le cose rare paiono
preziose, quelle abituali e abbondanti nient'affatto (Pyrrh. hypot., I, 141,
144; cfr. anche Diogene Laerzio, IX, 87, che dà questo tropo come nono)... Il
decimo modo, che ha attinenza, specialmente, con i fatti morali, è quello che
si riferisce agl'indirizzi, ai costumi, alle leggi, alle credenze favolose e
alle opinioni dogmatiche... Opponiamo ciascuna di queste cose, ora a se stessa,
ora a ciascuna delle altre. Per esempio, oppo- niamo costume a costume: alcuni
Egiziani tatuano i bambini, noi, invece no... Opponiamo legge a legge: presso i
Romani chi ha rinunciato alla sostanza paterna, non paga i debiti del padre,
invèce presso i Rodiesi li deve assolutamente pagare... Opponiamo indirizzo a
indirizzo (per indi- rizzo s'intende una scelta di vita o di altro) quando
l'indirizzo di Diogene contrapponiamo a quello di Aristippo, o quello dei
Laconi a quello degli ltalici. Opponiamo credenza favolosa a credenza favolosa,
quando diciamo che talora è Zeus che è denominato il padre degli dèi e degli
uomini, talora, invece, Oceano... Le opinioni dogmatiche (accoglimento di
qualche cosa, che sembra essere confermata da un ragionamento o da una dimo-
strazione) opponiamo le une alle altre, quando diciamo che, secondo alcuni, 186
uno solo è l'elemento delle cose, secondo altri, invece, infiniti sono
gli ele- menti; che per gli uni l'anima è mortale, per gli altri immortale; ché
per gli uni le cose umane sono governate dalla pro-. v1denza degli dèi, per gli
altri questa provvidenza non esiste. [Si opp~ngono poi costumi a leggi; leggi a
condotta; costumi a credenze favolose; costumi a opinioni dogma- tiche, e cosi
via]... Se tanta discordanza v'è nelle cose, non potremo affer- mare quale sia
nella su:~ rc::altà l'oggetto, ma solo quale esso appaia in rap- porto a questo
indirizzo, a questa legge, a questo costume, e in rapporto a ciascuno degli
altri fatti. Anche per questo è per noi necessario sospen- dere il giudizio...
(Pyrrh. hypot., I, 145-163; anche Filone l'Ebreo, D~ ~bri~ tate, 193 sgg.;
Diogene Laerzio, IX, 83-84, che dà questo tropo come quinto). Secondo Sesto
Empirico i dieci tropi possono, in effetto, ridursi a tre ("ci sono tre
modi che comprendono tutti questi: quello che di- pende dal giudicante - i
primi quattro, poiché ciò che giudica è ani- male o uomo o sensazione o si
trova in una qualche circostanza - quello che dipende dal giudicato - il
settimo e il decimo, - e un terzo che dipende da entrambi- il quinto, il sesto,
l'ottavo e il nono"), e, in ultima analisi, ad uno solo: "a loro
volta questi tre si riducono a quello della relazione, talché questo sarebbe il
piu generico: gli altri tre, invece, e i dieci, in questi compresi,
specifici" (Pyrrh. hipot., I, 38-39). I tropi di Enesidemo non hanno
alcuna pretesa positiva. "Abbiamo opposto ai dogmatici ragionamenti che
paiono persuasivi, non per assi- curare che siano veri..., ma per condurre alla
sospensione, col fare appa- rire l'uguale forza persuasiva di questi discorsi e
di quelli dei dogma- tici" (Sesto Empirico, Pyrrh. hypot., Il, 79).
Attraverso essi Enesidemo constata che ogni costruzione e ogni discorso che
presumono d'essere "veri" e, perciò, unici, basandosi su
rappresentazioni, sempre relative e cangianti, e che, dunque, non sono giudizi,
ma puri enunciati, non sono in sé né veri né falsi. Sono sempre costruzioni e
discorsi, validi "storicamente," insignificanti e senza senso
teoreticamente, donde l'im- possibilità di un sapere assoluto. Tutta la
difficoltà - insormontabile - sta nel dubbio che la rappresentazione, o idea,
che è tale in quanto sia "parola" significante un'affezione, corrisponda
a ciò di cui è rappre- sentazione e parola, per cui, poi, lo stesso discorso,
in quanto articola- zione di rappresentazioni, è dubbio che corrisponda al
discorso della realtà, tanto piu che sia il "senso," fonte delle
rappresentazioni, sia la "ragione" (l6gos), intesa come attività
unificatrice e giudicatrice del complesso dei "veri" (enunciati),
afferrante la "verità," dovrebbero prima giustificare se stessi,
trovare cioè in sé il criterio per cui si può essere certi del "vero"
e della "verità." E qui va tenuto presente che la polemica si rivolge
al concetto che di "vero" era stato sostenuto dagli stoici, cioè nei
confronti del Vi!'ro inteso come munciato (incor- poreo), distinto dalla
verità, intesa come scienza avente in sé il com- plesso dei veri, e dovuta
all'attività egemonica (razionale), che è cor- porea (cfr. Sesto Empirico,
Pyrrh. hypot., Il, 80-84). Resta, perciò, dubbia qualsiasi tesi sulla struttura
della realtà, e, pur a.ttunessa una qualsivoglia realtà, resta in dubbio sia il
vero sia la verità. L'uomo non ha altro mediante cui giudicare... se non il
senso e l'intel- letto...: solo che i sensi non comprendono gli oggetti
esterni, ma, se mai, solo le proprie af!ezioni, e la rappresentazione dunque
sarà dell'af!ezione del senso, che differisce dall'oggetto. E poi i sensi sono
impressionati i n modi opposti dagli oggetti: ora, ciò che è discorde e
contrastante non è criterio, ma ha bisogno esso di un giudice... (Sesto
Empirico, Pyrrh. hypot., II, 48, 73-74; Adv. math., VII, 346). E quanto all'intelletto:
donde saprà se le af!ezioni del senso siano simili agli oggetti sentiti, non
imbattendosi mai con oggetti esterni né rivelandogliene i sensi la natura, ma
solo le proprie af!ezioni?... Non solo, ma se neppure vede se stesso
esattamente, ma è in divergenza sulla propria essenza, il modo della
generazione, il luogo in cui è, come potrebbe comprendere con esattezza alcun
che d'altro?... Essendoci tante divergenze sull'intelletto..., se osiamo
giudicare con u n intelletto... togliamo via l'oggetto·della ricerca: se con
altro, non è piu vero che con l'intelletto s'abbiano a giudicare le cose
(Pyrrh. hypot., II, 73-74, 57-60). Enesidemo, poi, propone anche le seguenti
aporie. Se vi è qualcosa di vero o è sensibile (atla31yt6v) o intelligibile
(vo'l)'t'6v), o intelligibile e sensibile, oppure né sensibile né
intelligibile, né l'una cosa e l'altra ad un tempo... Che non vi sia il
sensibile cosi lo argomentiamo: dei, sensibili alcune cose sono generi, altre,
invece, aspetti singoli (c(3Tj); i generi sono qualità comuni inerenti ai
singoli oggetti, si come certe qualità deij'uomo ineriscono ai singoli uomini e
certe qualità del cavallo ai singoli cavalli; gli aspetti sono proprietà dei
singoli, come di Dione, di Teone, di altri. Se, dunque, il sensibile è vero,
ciò sarà af!atto comune ai molti, o insito in ciò che è proprio,dei singoli;
solo che non può essere né comune né inerente alla proprietà, per cui il vero
non è sc;nsibile. Inoltre, come ciò che è visibile può essere compreso con la
visione, e l'udibile è conosciuto con l'udito, l'odorabile con l'odorato, cosi
anche il sensibile si conosce con il senso. Il vero non si conosce comunemente
con il senso: il senso è infatti arazionale (~Àoyo<;), e il vero non si
conosce senza la ragione, onde il vero non è sensibile. Ma neppure è
intelligibile, ché nulla sarà vero dei sensibili, il che è, di nuovo, un
assurdo. Infatti, o l'intelligi- bile potrà essere percepito comunemente da
tutti o individualmente da alcuni. Ma non può accadere che il vero sia percepito
intelligibilmente da tutti in forma comune, né da alcuni individualmente: non
può essere in nessun modo compreso da tutti comunemente e se compreso
individual- mente da uno o da altri, ciò non è degno di fede ed è oggetto di
contestazione. Il vero, dunque, non è intelligibile. Ma neppure è, ad un tempo,
sensibile e intelligibile: il vero è o affatto sensibile e affatto
intelligibile, o in parte sensibile e in parte intelligibile. Ma dire che il
vero è affatto sen- sibile e affatto intelligibile, è cosa che non può
avvenire: i sensibili sono, infatti, in contrasto con i sensibili,
gl'intelligibili con gl'intelligibili, e, vice- versa, i sensibili con
gl'intelligibili e gl'intelligibili con i sensibili, e sarà necessario se tutte
le cose sono vere, che ogni cosa sia e non sia, sia vera e sia falsa, per cui,
di nuovo, bisognerà ritenere che sia un'aporia affermare che parte del
sensibile sia vero e che vero sia parte dell'intelligibile. Ci si domanda,
infatti, se sia non contraddittorio dire che tutte le cose vere o tutte le cose
false siano sensibili: sono ugualmente sensibili e non una di piu l'altra di
meno. E, cosi, ugualmente intelligibili sono gl'intelligibili, e non uno piu
l'altro di meno. Non solo, ma non tutti i sensibili possono essere detti veri,
né tutti falsi. Non vi è, dunque, il vero... (Sesto Empi- rico, Adv. math.,
VIII, 40, 48). In altri termini, ogni definizione (enunciato) e ogni discorso,
che presumano significare l'essenza e il discorso della realtà, sono, in
e.ffetto, insignificanti, senza senso, sono cioè non giudizi (di qui la
"sospen- sione," l'epochè). Da questa serie di argomentazioni (i
dieci tropi, le aporie sul "vero"), che Fozio (cit.), nel suo sunto
dei Discorsi pi"oniani, dice facevano parte dei primi tre libri, si vede
bene come Enesidemo passi ad altre due serie di argomentazioni: le prime volte
a mostrare l'im- possibilità di giungere alle cause per via indiretta, ossia
mediante i segni, giungendo cioè a porre le cause attraverso i fenomeni
significanti quelle cause stesse, ché non v'è criterio per cogliere la
coincidenza tra significante e significato, ch'era, com'è noto (cfr. I vol.),
un grosso pro- blema a lungo discusso nella scuola stoica ("nel quarto
libro Enesi- demo mette in discussione i segni delle cose oscure...":
Fozio, cit.); le seconde (che Sesto Empirico raccoglie in otto trop•) volte a
sovvertire i ragionamenti intesi a spiegare le cause per via diretta ("nel
quinto libro... propone argomenti per dubitare delle cause, dicendo che nes-
suna cosa è causa dell'altra...": Fozio, cit.). Nell'una e nell'altra
serie di argomentazioni è evidente la critica non solo al passaggio proprio
degli stoici dal logico all'antico, ma anche il passaggio dal visibile
all'invisibile proprio dell'ipotesi atomistica dell'epicureismo. Già in
Crisippo la dottrina dei segni si prestava a una doppia inter- pretazione (cfr.
I vol.). Posto che l'impressione non è un puro calco che direttamente stampa
nell'anima l'immagine della cosa, ma che ogni rappresentazione è una
modificazione, che ci a.fferra a seconda della sua evidenza, e a cui diamo
l'assenso, non tanto perché corrisponde o meno all'oggetto (che già dovremmo
conoscere per sapere se corrisponda o no all'impressione). ma in quanto
fortemente presente, ogni rappresentazione è un segno, da un lato
"rammemorante" una impres- sione, dall'altro lato
"rammemorante," data quella rappresentazione, altra rappresentazione,
che si lega alla prima (" rammemorativo è quel segno che, osservato già
insieme con il significato, per esserci dato insieme con tutta evidenza... ci
conduce al ricordo della cosa osservata insieme, che ora non ci si dia con
evidenza, com'è del fumo e del fuoco, vedendo una ferita si dice che c'è stata
una ferita": Sesto Empirico, Pyrrh. hypot., Il, 97-102). Sotto questo
aspetto, la dottrina del segno poteva sfociare in una chiara " logica
proposizionale" e scientificamente in una ricerca fondata, appunto, sui
segni rammemorativi (come av- venne per l'indirizzo medico ~mpirico e metodico,
ai quali, piu tardi, si rifecero proprio gli scettici), ove la veracità o meno
del discorso non presume affatto significare il discorso stesso della realtà.
Non possiamo dire se già in Crisippo (cfr. I vol.), ma; certo, subito dopo di
lui, nella scuola stoica la rappresentazione venne interpretata in quanto segno
indicativo dell'oggetto stesso, rispecchiante l'oggetto che ha provocato
l'impressione; non solo, perciò, lo stesso discorso significherebbe il di-
scorso della realtà, ma una impressione-rappresentazione verrebbe a
significare, per analogia, una verità nascosta di cui non si è avuta im-
pressione, una cosa oscura per natura, da cui, gradatamente si giunge a porre
cause e principi primi ("indicativo, invece, dicono il segno non osservato
insieme con la cosa designata in maniera evidente, ma che per la propria natura
e costituzione segnala ciò di cui è segno: cos~, per esempio, i movimenti del
corpo sono segni dell'anima": Sesto Empirico, Pyrrh. hypot., Il, 101). È
chiaro che la critica degli scettici piuttosto che all'interpretazione del
"segno" come rammemorante, si rivolgesse al segno interpretato come
indicativo e significante da un lato la cosa per sé, dall'altro lato la causa e
la causa dèlla causa. Noi ~ dirà Sesto Empirico - non parliamo contro ogni
segno, ma solo contro l'indicativo, come quello che sembra essere state
inventato dai dogmatici (Pyrrh. hypot., Il, 102)... Il segno indicativo è
inconcepibile, poiché dicono che è relativo al significato e-mdatore di esso. Se
è rela- tivo deve assolutamente esser compreso insieme con il significato, come
il sinistro con il destro, il sopra con il sotto, ecc. Se invece è rivelatore
del significato, deve assolutamente esser compreso prima di esso, perché,
conosciuto prima, possa poi condurci alla conoscenza della cosa resa nota da
lui. Ma è impossibile conoscere una cosa, che non può essere conosciuta prima
di quella, per mezzo della quale dovrebbe invece essere compresa: impossibile
quindi concepire un relativo, che sia anche rivelatore della cosa relativamente
alla quale si concepisce... Impossibile dunque concepire il segno indicativo...
(Pyrrh. hypot., II, 118-120).. Sembra che questa già fosse stata la critica di
Enesidemo, se Sesto Empirico (cfr. Adv. math., VIII, 49 sgg.) può sostenere che
Enesidemo a coloro che affermavano che la causa si coglie non attraverso i
sensi immediatamente, ma per analogia attraverso i segni indicativi, rispon-
deva che ciò è contraddittorio, posto che la rappresentazione è dall'im-
pressione, ché mai si può avere rappresentazione di ciò di cui non vi è
impressione; poiché, d'altra parte, questa o quell'impressione non modifica
tutti allo stesso modo, pur dando valore al segno rammemo- rativo, resta in
dubbio la sua universalità, su cui si fonda la pretesa ch'esso segno indichi e
significhi l'universalità oggettiva delle conse- cuzioni. In realtà - obbietta
lo scettico - il segno è solo un fatto che ne ricorda un altro di cui è stato
in passato il concomitante (passato) o ce ne fa aspettare un altro (futuro)
(cfr. L. Robin, cit., p. 553), senza pretendere ad alcuna verità. Enesidemo,
nel IV libro dei Discorsi pirroniani cosi dice: se le rappre- sentazioni delle
cose [fenomeni] ugualmente appaiono a tutti coloro che sono stati ugualmente
modificati e i segni indicano quelle attuali rappre- sentazioni, è necessario
che anche i segni appaiano a tutti coloro che sono ugualmente modificati. Ma i
segni non appaiono ugualmente a tutti coloro ugualmente modificati, per cui i
segni non sono segni delle rappresenta- zioni (Sesto Empirico, A d v. math.,
VIII, 215 sgg.). La critica scettica si rivolge cosi all'illusione che
l'argomentazione per analogia abbia validità scientifica sul piano della verità
oggettiva, si rivolge cioè alla gratuita trasformazione di una constatata
"conse- cuzione" in una concatenazione causale risalente a ipotetiche
cause prime per sé, agenti e costituenti la realtà. Di qui gli otto tropi di
Enesidemo mediante cui mettere in dubbio la possibilità di passare dai dati
dell'esperienza alla loro causa di cui non si ha affatto espe- rienza, per, poi,
viceversa dimostrare i dati mediante quelle cause. Come enunciamo i modi della
SO)ipensione del giudizio, cosi, anche, alcuni espongono i · modi, per i quali,
dubitando delle spiegazioni delle cause particolari, si arresta la superbia dei
dogmatici, dovuta, particolar- mente, a queste spiegazioni. Enesidemo insegna a
tal proposito otto modi, per i quali, confutando qualunque dogmatica
spiegazione di cause, egli crede di farla apparire difettosa. E sono, secondo
lui: l) quello per il quale il genere della spiegazione della causa,
aggirandosi tra le cose che non cadono sotto i sensi, non ha una conferma palese
dalle cose che cadono sotto i sensi; 2) quello per il quale, essendo largamente
consentito di spie- gare in molte maniere la causa cercata, alcuni la spiegano
in una maniera sola; 3) quello per il quale di fatti che accadono ~on un
ordine, adducono cause che non ammettono ordine alcuno; 4) quello per il quale,
percependo come accadono le cose sensibili, credono di aver percepito, anche,
come accadano quelle che non cadono sotto i sensi, mentre le cose che non
cadono sotto i sensi, forse, si compiono in modo uguale alle cose sensibili, e,
forse, in modo non uguale, ma proprio e distinto; 5) quello per cui tutti, per
cosf dire, spiegano le cause seguendo ce~e loro proprie ipotesi intorno agli
elementi primi, piuttosto che una via comunemente ammessa e accettata; 6)
quello per cui spesso accolgono quello che si spiega con le loro proprie
ipotesi, tralasciando quello che è contrario ed ha la medesima forza di persuasione;
7) quello per cui spesso adducono delle cause che contrastano, non solo con i
fenomeni, ma anche con le loro proprie ipotesi; 8) quello per cui spesso,
essendo ugualmente incerto e quello che sembra· apparire in un dato modo e
quello che è oggetto dell'indagine, sulla base di nozioni incerte costruiscono
le loro dottrine ugualmente incerte. Soggiunge, poi, che non è impossibile che
alcuni, nel rendere ·ragione delle cause, falliscano secondo altri modi misti,
dipendenti da quelli che abbiamo enumerali (Sesto Empirico, Pyrrh. hypot., l,
180-184). Se mediante gli otto tropi, riferiti da Sesto come propri di Enesi-
demo, è messa in discussione la possibilità dell'inferenza dall'effetto alla
causa - ed è evidente qui la polemica non solo contro gli Stoici, ma anche
contro l'epicureismo e l'induzione aristotelica, - per cui si giunge alla
sospensione del giudizio anche relativamente alle cause, tanto piu semplice
diveniva ora la discussione che <;onduce al dubbio sulla possibilità di
spiegare gli effetti, partendo da cause che pur si sono dimostrate puramente
ipoteùche, di dimostrare che l'una causa possa pro- durre un effetto e che,
alla fine, il rapporto di causa ed effetto sia proprio della stessa struttura
della realtà e non dovuto ai rapporti ram- memorativi tra le impressioni
ricevute. Anche queste sembrano argo- mentazioni svolte da Enesidemo, che Sesto
Empirico, il quale appunto cita Enesidemo, approfondisce (Adv. math., IX,
218-266), insieme a tutta una serie di argomentazioni contro la sillogistica aristotelica
e la dia- lettica stoica (cfr. Pyrrh. hypot., II, 113-118, 134-166, 199-197;
Adv. math., VIII, 300-315, 367. sgg., 391-395; anche Dal Pra, op. cit., pp.
308-312). Veniva di qui, infine, entro i termini della sistemazione in un sol
corpo delle argomentazioni degli scettici, la problematica delineata da
Enesidemo sulla possibilità di definire l'essenza del Bene e delle con- dizioni
che permettono una vita virtuosa (secondo Fozio, cit., del bene e delle virtu
Enesidemo parlava negli ultimi libri, VI, VII e VIII, dei suoi Discorsi
pirroniani). Secondo Sesto Empirico (Adv. math., X, 42) 192
Enesidemo avrebbe escluso l'esistenza del Bene, almeno nel senso di un
bene per sé quale veniva definito dai dogmatici, sostenendo - come risulta da
Diogene Laerzio, IX, 107, e da Aristocle, in Eusebio, Praep. ev., XIV, 19, 4 -
che il bene, non avendo una sua essenzialità, consiste in uno stato d'animo
dovuto alla sospensione del giudizio (Diogene Laer- zio, cit.), che determina
un certo piacere (Aristocle, cit.). Ipoteticamente possibile ogni discorso
sull'essenza della realtà (tanto è possibile dire che il fondo della realtà è
costituito di atomi, quanto dire che, al limite, sono da porre una materia
passiva e un principio attivo), ipoteticamente possibile ogni discorso
sull'essenza dd Bene, teoreticamente è da sospendere ogni giudizio sulla realtà
e sul bene, cercando, piu umilmente, di non ingannare se stessi e gli altri,
ricon- ducendo l'indagine sul piano umano, entro i limiti del mondo e del
linguaggio umani. Le conclusioni di Enesidemo tendono a mostrare non tanto che
l'una o l'altra concezione filosofica è falsa, ché, allora, si sarebbe dovuto
delineare quale fosse la "verità,• ma che tutte le concezioni si
dimostrano alla fine indimostrabili, cioè non giudicabili e perciò stesso senza
senso, assurde, contraddittorie, qualora pretendano d'imporsi, l'una o l'altra,
come "verità," e, quindi, su questo piano, inutili. Certo, entro
questo quadro, è difficile vedere come Enesidemo abbia potuto affermare che
l"'indirizzo scettico è una via che conduce alla filosofia eraclitea, in
quanto," commenta Sesto, "l'apparire dei fatti con- trari circa lo
stesso oggetto precede l'esistere di fatti contrari circa lo stesso oggetto, e
gli Scettici dicono, appunto, che fatti contrari appaiono intorno allo stesso
oggetto, mentre gli Eraclitei, partendo dall'appru;:ire, arrivano anche alloro
esistere" (Sesto Empirico, Pyrrh. hypot., l, 210). Sesto, e si capisce,
vede in questo una contraddizione da parte di Ene- sidemo ed esclude assolutamente
che una posizione scettica p<)ssa sfo- ciare in una posizione di tipo
eracliteo, che, proprio perché pone a fondamento dell'essere il divenire e i
contrari, è anch'essa una posi- zione definitoria di una realtà non fenomenica
e perciò è una posizione dogmatica. Né Fozio, che riassume i Discorsi
pirroniani, né Diogene Laerzio, né Aristocle accennano a una fase eraclitea del
pensiero di Enesidemo. Di una posizione dogmatica di Enesidemo (l'anima sepa-
rata dal corpo e in esso infusa dopo la nascita, in senso stoico) parla
Tertulliano (De anima, 25). Certo un riflesso dell'eraclitismo scettico si
trova in Filone l'Ebreo, che sfrutta l'argomento dell'eraclitismo in funzione
scettica, ricavandolo, sembra, da Enesidemo. In realtà, di un presunto eraclitismo
di Enesidemo parla solo Sesto, che, nel testo sopra citato, dice solo che
secondo Enesidemo l'indirizzo scettico poteva ribal- tarsi in una posizione
dogmatica di tipo eracliteo, trovandovi un proprio fondamento ontico, e questo
sembrerebbe avvenuto piu che in Enesidemo nei seguaci di Enesidemo ("se
arrivassero all'asserzione che intorno allo stesso oggetto esistono fatti
contrari, partendo da qualcuna delle espressioni scettiche, per esempio
'nessuna cosa si può compren- dere,' oppure, 'niente do per certo,' potrebbe
essere vera la conclusione dei seguaci di Enesidemo. Solo che...": Sesto
Emp., Py"h. hyp., l, 211). Tuttavia Sesto, in altri testi, anche se. per
incidenza, dice come propria di Enesidemo una o altra tesi eraclitea (si veda,
ad esempio, A.dv. math., V, 349-50: "segaendo Eraclito, Enesidemo
affermava che la dianoia è fuori del corpo"; A.dv. math., X, 216-217:
"seguendo Eraclito Enesi- demo disse che il tempo è corpo... Cosi nella
Prima Introduzione..."; A.dv. math., X, 233: "Enesidemo dice che per
Eraclito l'essere è aria"; cfr. anche IX, 337; VIII, 8), alcune delle
quali risultano però piu vicine allo stoicismo·che all'eraclitismo, altre come
piu proprie dei seguaci di Enesidemo. D'altra parte lo stesso Sesto non discute
quelle tesi eraclitee come facenti parte dì un sol corpo di pensiero, ma,
dicevamo, inciden- talmente, come testimonianze di quello che poteva essere
l'eraclitismo di Enesidemo. Non solo, ma Sesto non dice mai che quelle tesi
eraclitee fossero svolte da Enesidemo nei Discorsi pi"oniani, mentre una
volta accenna a un'altra opera di Enesidemo, per noi perduta, la Prima
Introduzione. Tutto ciò ha dato l'avviò a una lunga discussione
sull'eraclitismo eli Enesidemo e a una molteplicità di ipotesi. C'è chi ha
sostenuto che lo scetticismo di Enesidemo sarebbe sfociato in una posizione
dogmatica di tipo eracliteo, o ch'egli avrebbe trovato nell'eraclitismo il
fonda- mento dello scetticismo, e c'è chi ha sostenuto che Enesidemo sia pas-
sato da una prima fase eraclitea, anch'essa rivelataglisi dogmatica a. una
seconda fase accademica, per giungere infine a un accentuatC] scettici- smo,
alla "sospensione" definitiva, riallacciandosi alla posizione car-
neadiana. Certo, quest'ultima ipotesi (Sesto nelle lpotiposi pi"oniane, l,
210, non dice affatto che Enesidemo sia passato dallo scetticismo
all'eraclitismo: cfr. sopra), sostenuta dal Dal Pra (op. cit., pp. 314-330, al
quale rimandiamo anche per la minuta esposizione e discussione delle varie
ipotesi sostenute: dal Saisset, allo Zeller, al Diels, al Pap- penheim,
all'Arnim, allo Hirzel, al Natorp, al Patrick, al Goedeckemeyer, al Brochard,
al Capone-Braga), è, forse, la piu probante. In effetto nulla vieta di pensare
che certe tesi eraclitee siano state accettate da Enesidemo non nei Discorsi
pi"oniani, ma in altra opera, come appare da Sesto, la quale potrebbe
essere stata composta da Enesidemo in età giovanile. A parte l'episodio
dell'eraclitismo, sembra; in realtà, ch'Enesidemo, nella sua polemica nei
confronti dei "dogmatici," abbia raccolto e siste- 194
mato gli argomenti e i tròpi già delineatisi attraverso l'esposizione che
della "sospensione del giudizio" aveva offerto Clitomaco, il
discepolo di Carneade, andando sino in fondo, cioè evitando - per non cadere
nel possibile dogmatismo della nuova Accademia - il "probabile" e
l'"ipotesi"; o l'opzione, per rendere possibile l'azione e il
discorso, di una qualche opinione, fondata sul criterio della
"probabilità" (dr. s<r pra), Enesidemo cosi poteva dichiarare
fallita ogni presunzione della filosofia, costretto, in effetto, a rimanere su
tutto in silenzio (afasia), in un ritorno, davvero, all'originaria posizione di
Pirrone, che, in realtà, veniva ad essere una critica ed un'analisi del
linguaggio. Duplice è- l'interesse che presenta, storicamente, la posizione di
Enesidemo: da un lato, sulla fine del 1 secolo a. C., egli, pienamente
innestandosi nell'atmosfera_ culturale di quel tempo, viene sistemando in un
corpo unico il complesso dei tropi, delle aporie, dei problemi, propri delle
posizioni scettiche, che probabilmente s'erano'già venuti delineando con
Tolomeo di Cirene, che avrebbe ripreso le-fila della posizione scettica
rifacendosi ad Arcesilao (Diogene Laerziò, IX, 115); dall'altro lato, entro i
termini di una certa cultura, oramai, cristallizza- tasi, divenuta patrimonio
comune, comune concezione, dogmaticamente accettata, Enesidemo mette in crisi,
proprio attraverso la sua stessa sistemazione, quella cultura, quella
coni:ezione di fondo. Preso a sé Enesidemo non ha l'importanza che viene ad
avere, se considerato entro i termini della cultura quale si er,a venut:t
determinando tra la fine del 1 secolo a. C. e il principio del 1 d. C. E ciò
tanto piu sembra esàtto. quando si tenga presente che Enesidemo non fu un
fenomeno isolato. Innanzi ttttto sappiamo ch'egli ebbe dei seguaci (ai seguaci
di Ene- sidemo, senza farne il nome, accenna anche Sesto Empirico). Di essi fa
il nome Diogene Laerzio (Zeucsippo di Poli, Zeucsis, Antioco di Laodicea: IX,
106, 116): non piu che il nome, perché per il resto Dio- gene li allinea tutti
sul piano della posizione di Enesidemo, volti tutti, cioè, alla sistemazione
dei tropi mediante cui giungere alla sospensione del giudizio, alla
constatazione che ogni proposizione che presuma indicare un'essenza o un ne~so
di essenze è un non-giudizio, basandosi soltanto sull'esperienza, o meglio sul
fenomeno. ' Di Zeucsippo di Poli, nella Locride, non sappiamo nulla. Di Zeucsis,
suo seguace, che avrebbe conosciuto l'opera di Enesidemo, Diogene Laerzio (IX,
106) dice che' scrisse un'opera intitolata Duplici discorsi (titolo
significativo, già usato, non a caso, da un sofista del v secolo a.C.}, che
testimonierebbe un'attività simile a quella di Enesidemo, in una raccolta di
ragioni pro e contro questioni molteplici, mediante cui eli- mina~e ogni
pretesa di giungere all'affermazione di un'unica verità, e che richiama la
definizione data da Sesto Empirico dello scetticismo: 195 Lo scetticismo esplica il suo
valore nd contrapporre i fenomeni c le percezioni intellettive in qualsiasi
maniera, per cui, in seguito all'ugual forza dei fatti e delle ragioni
contrapposte, arriviamo, anzitutto, alla sospen- sione del giudizio, quindi,
all'imperturbabilità (Py"h: hypot., I, 8). Di Zeucsis fu, a sua volta,
seguace Antioco di Laodicea e di lui un certo Apelle che avrebbe composto un
libro, intitolato Agrippa ("Apdle, nd suo Agrippa, e Antioco di Laodicea,
pongono solo i feno- meni": Diogene Laerzio, IX, 106). Sappiamo inoltre
che la fonte da cui attinge Diogene Laerzio, per ricostruire il pensiero di
Timone di Fliunte, fu il grammatico Apollonide di Nicea (dr. Diogene L., IX,
109), che compose un commento ai SiUi di Timone dedicato all'imperatore
Tiberio. Anche questa è una notizia interessante, che dimostra la dif- fusione
del rinnovato scetticismo sul principio dd I secolo d.C. e che può essere
indicativa dd periodo in cui vissero e operarono i seguaci di Enesidemo. Come
sembra (dr. A. Goedeckemeyer, Die Geschichte des griechischen S!(eptizismus,
Lipsia, p. 137; anche Dal Pra, op. at., p. 333), Zeucsis e Antioco di Laodicea
furono contemporanei di Apollonide di Nicea; infatti, da un lato, Diogene
Laerzio (IX, 116) subito dopo Antioco cita Apelle autore di un'opera su
Agrippa, e dice che seguace di Antioco di Laodicea fu Menodoto di Nicomedia,
che, medico, rifacendosi allo scetticismo dette un fondamento scientifico e
metodico alla medicina, in un atteggiamento strettamente empirico,
riallacciandosi ai medici della tradizione empirica, vissuti, appunto, nel I
secolo d. C., e dall'altro lato sappiamo anche che Menodoto visse tra 1'80 d.C.
e il 150 circa. Cosi, evidentemente, Apelle dovrebbe avere scritto la sua opera
entro queste date, per cui dovremmo, anche se approssimativa- mente, collocare
l'attività di Agrippa (già noto e che deve avere avuto un'importanza di primo
piano sul rinnovato scetticismo, se Apelle de- dicò al suo pensiero un'opera)
sulla metà del I secolo d. C. Sesto Empirico non cita mai il nome di Agrippa,
anche se ne rife- risce i cinque tropi, che sappiamo essere stati da lui
formulati attraverso quanto ne dice Diogene Laerzio (IX, 88-89), che, per
altro, attinge nel- l'esposizione dei cinque tropi, a Sesto Empirico. In realtà
Agrippa - ddla cui vita, nascita, luogo di origine, insegnamento, nulla sap-
piamo - non avrebbe aggiunto niente di nuovo alle linee fondamen- tali
dell'atteggiamento scettico che tra Enesidemo e Agrippa si venne ordinando e,
soprattutto, si venne costituendo in un appello alla criticità della ricerca,
in un netto rifiuto della filosofia intesa come concezione universale, in una
programmatica indagine mediante cui la filosofia viene intesa come metodologia
delle condizioni che permettono un pos- sibile sapere. Sotto questo aspetto si
capisce perché Sesto, pur esponendo i cinque modi di Agrippa, o meglio
delineando i momenti mediante cui si sono venuti istituendo gli argomenti
principali della posizione metodologica, non faccia il nome di Agrippa, e
parli, invece, di scettici piu "recenti" rispetto ai "piu
antichi," delineando l'arco entro il quale, da Enesidemo ad Agrippa, lo
scetticismo ha assunto la sua fisionomia di empirismo critico-logico. I. cinque
tropi di Agrippa prendono, in tal senso, un particolare rilievo, ché, con
estrema chiarezza, riassumono e sistemano tutto il lavorio di precisazione dei
modi con cui rimettere in discussione le conclusioni di una concezione, frutto
di tutta una cultura e di una tradizione, con cui rimettere in discussione ogni
soluzione metafisica. "Tali modi gli Scettici piu recenti espongono, non
già perché respin- gano i dieci, ma per confutare, con maggior verità, con
questi e con quelli, la temerità dei dogmatici" (Sesto Empirico, Pyrrh.
hypot., 1,177). Gli Scettici piu recenti tramandano questi cinque modi della
sospen- sione del giudizio: l) quello che dipende dalla discordanza; 2) quello
che rimanda all'infinito; 3) quello che dipende dalla relazione; 4)
l'ipotetico; 5) il diallele. · Il modo che dipende dalla discordanza è quello
per cui troviamo che intorno a una cosa proposta esiste una discordia
insolubile, nella vita e nei filosofi; onde, non essendo in grado né di
preferire né di resping::re nessuna opinione, finiamo col sospendere il
giudizio. Il modo per il quale si cade nell'infinito, è quello in cui ciò che
si reca a prova della cosa pro- posta, noi diciamo che ha bisogno, a sua volta,
di prova, e questo~ a sua volta, di un'altra prova, all'infinito; si che non
avendo noi da dove comin- ciare un'argomentazione, ne consegue la sospensione
del giudizio. Il modo che dipende dalla relazione è quello in cui diciamo che
l'oggetto ci appare cosi o cosi, in rapporto al giudicante e al resto che
insieme con esso oggetto viene. percepito, e ci asteniamo dal giudicare quale
esso sia real- mente. Si ha il modo ipotetico, quando i dogrp.atici, rimandati
all'infinito, cominciano da qualche cosa che essi non concludono per via di
argomen- tazione, ma pretendono di assumere, cosi semplicemente, senza
dimostra- zione, per una concessione. Nasce il diallele, quando ciò che deve
con- fermare la cosa cercata, ha bisogno, a sua volta, di essere provato dalla
cosa cercata: allora, non potendo assumere nessuno dei due per concludere
l'altro, sospendiamo il giudizio intorno ad ambedue (Sesto J!.mpirico,
Py"h. hypot., I, 164-169). Il commento piu pertinente sui cinque tropi di
Agrippa è quello di Sesto Empirico, che merita il conto di riportare, insieme
ai due tropi che Sesto dice elaborazione ultima dovuta sempre agli ~cettici piu
recenti. Dice, dunque, il testo relativamente ai cinque tropi: 197 Che ogni ricerca si possa
ricondUrre a questi tropi, lo dimostreremo brevemente cosi. La cosa proposta o
è sensibile o è intelligibile: qualunque essa sia, v'è intorno ad essa
discordanza. Infatti alcuni afferJBjllO che solo il sensibile è vero, altri,
solo l'intelligibile, altri, in parte il sensibile, in parte l'intelligibile.
Ora che si dice? che questa discordanza è solubile o insolubile? Se insolubile,
affermiamo che bisogna sospendere il giudizio, ché intorno a ciò in cui v'è
insolubile dissenso, è impossibile pronunciarsi. Se solubile, domandiamo sulla
bl!se di che si risolverà. Cosi, per esempio, il sensibile... si giudicherà
sulla base di un sensibile o di un intelligibile? Se sulla base di un
sensibile, poiché appunto la nostra ricercà verte sui sensibili, anche questo
avrà bisogno di altra cosa che lo comprovi. Se anche questa è seJ:lSibile, a
sua volta, essa pure avrà bisogno di un'altra cosa che la comprovi, e cosi
all'infinito. Che se il sensibile dovrà essere giudicato sulla base di un
intelligibile, poiché anche sugl'intelligibili vi è discordanza, anche questo
intelligibile avrà bisogno di giudiziQ e Ji prova. E sulla base di che sarà
provato? Se sulla base di un intelligibile, si ricadrà, ugualmente,
nell'infinito; se sulla base di un sensibile, poiché a prova di un sensibile è
stato assunto un intelligibile, e a prova di Wl intelligibile è stato assunto
un sensibile, si induce il diallele. Se, poi, colui che con noi disputa, per
fuggire questa difficoltà, credesse di assumere, per concessione, e senza
dimostrazione, qualche cosa, a dimostrazione di ciò che segue, farà capo al
modo ipotetico, che non può dare risultato. E invero, se colui che suppone
merita fede, noi, anche, supponendo il contrario, non saremo meno degni di
fede. Se, poi, colui che suppone, suppone qualche cosa di vero, lo renderà
sospetto assumendolo per ipotesi, senza accompagnarlo con una argomentazione;
se qualche cosa di falso, il pun- tello dell'argomentazione sarà marcio. Che se
il supporre giova in qualche modo per provare, supponga egli senz'altro ciò che
è oggetto dell'indagine, e nòn qualche altra cosa, per mezzo della
quale··argomenti quello su cui vette il discorso. Se; invece, è assurdo
supporre quello che è oggetto d'in· dagine, sarà assurdo supporre, anche, ciò
che lo trascende. Che poi tutti i sensibili siano, anche, relativi, è chiaro:
sono, infatti, relativi al senziente. Dunque, è manifesto che qualunque cosa
sensibile ci sia proposta, è facile ricondurla ai cinque modi. Alla stessa
maniera si ragiona per l'intelligibile. Se si dice che la discordanza è
irrisolvibile, ci si concederà che bisogna sospendere su di essa il giudizio.
Se si tenterà di risolverla, e lo si farà in base a un intelligibile,
spingeremo il ragionamento all'infinito; se in base a t:n sensibile, al
diallele: poiché essendo, a sua volta, il sensibile oggetto di discordanza, né
potendo esso in base· a un sensibile venir giu- dicato (ché, per tal modo, si
cadrebbe nell'infinito), avrà bisogno di un intelligibile, come l'intelligibile
di un sensibile. Chi, poi, in conseguenza di ciò, assumesse qualche cosa per
ipotesi, metterà, nuovamente, capo all'as- surdo. Ma anche relativi sono
gl'intelligibili: ché si dicono intelligibili relativamente all'intelligenza, e
se fossero, in realtà, tali, quali si dicono, non ci sarebbe discordanza di
opinioni. Dunque anche l'intelligibile è 198 stato ricondotto ai
cinque modi. Perciò è necessario che assolutamente si sospenda il giudizio
intorno alla cosa proposta... Tramandano anche due altri modi di sospensione.
Perché, tutto ciò che si comprende, o pare essere compreso di per sé, o si
comprende in base ad altro... Ora, che nulla si comprenda di per sé, dicono
evidente dal disaccordo tra i fisici su tutte le cose sensibili e
intelligibili: disaccordo indirimibile, non potendo noi valerci di criterio, né
sensibile né intelli- gibile, per essere ciascuno, quale che pigliamo, non
degno di fede, perché controverso. Perciò neppure da altro ammettono che si
possa comprendere alcunché. Ché se l'altro, da cui si comprenda, abbisognerà
sempre d'essere compreso da altro, si mette capo al diallele o all'infinito; se
invece si volesse assumere alcunché come compreso di ·per sé, e da esso
comprendere un altro, s'oppone il non poter nulla comprendersi di per sé, per
le ragioni già dette (Sesto Empirico, Pyrrh. hypot., l, 169-179).
"Agrippa," scrive il Dal Pra, "nei confronti di Enesidemo,
presta meno attenzione agli aspetti analitici della discordanza ed ha una mag-
giore preoccupazione sistematica; egli è mosso principalmente da un intendimento
di sintesi e, si direbbe, di deduzione. Muove dalla ricerca delle maniere
tipiche fondamentali in cui può tentarsi la fondazione di un sistema dogmatico,
nel tentativo non soltanto di abbracciare nella sua critica il maggior numero
possibile di posizioni dogmatiche stori- camente definite, ma anche di
includere quelle future e possibili. La sistematica della sospensione insomma
obbedisce in Agrippa a criteri molto piu rigorosi e universali che non in
Enesidemo. Agrippa ha anche conservato qualche cosa dei tropi di Enesidemo; ha
infatti con- siderato la questione della discordanza esistente sia nella
filosofia che nella vita (tropo primo da raffrontare col secondo di Enesidemo)
come anche la questione della relatività (tropo terzo da raffrontare con l'ot-
tavo di Enesidemo); già nella formulazione di questi tropi appare la maggiore
vigoria di Agrippa, la maggiore incisività e comprensività della sua
delineazione; entrambi i motivi conservati sono tali che di fronte ad essi si
può essere già indotti alla sospensione; ma siamo qui soltanto ad un primo
passo della considerazione sistematica della sospensione; bisogna vedere come i
dogmatici, superando questo punto, si accingano alla costruzione dei loro
sistemi e quali tipi di giustifica- zione essi siano soliti addurre di essi;
bisogna vedere, anzi, in quante diverse maniere sia possibile a un dogmatico
tentare la giustificazione del suo sistema. Ora queste maniere, secondo
Agrippa, sono tre: o una giustificazione che risultando apparentemente
autonoma, finisce per svolgersi in due direzioni: o verso un processo
all'infinito o verso una ipotesi iniziale; oppure una giustificazione che,
rinunciando all'auto- nomia, ricorre alla eteronomia, aprendosi inesorabilmente
verso_ il dial- 199 lde. Se
pertanto il dogmatico non vorrà accogliere il rilievo degli infi- niti
contrasti che si verificano nella filosofia e ndla vita, e vorrà pro- cedere
oltre, si troverà nella necessità di avviarsi per una di queste tre strade:
processo all'infinito, ipotesi gratuita, diallde; ed ognuna di queste tre
strade conduce alla sospensione dd giudizio. In tal modo Agrippa ha abbozzato
una sistemazione delle condizioni formali del dogmatismo, in termini non
empirici, ma universali. La paJ;"te forse piu importante dd suo discorso è
quella che mostra il dogmatico, di- remo cosi, in azione, alla ricerca della
strada su cui fondare il suo sistema: la pri!Da tappa è costituita dal
riconoscimento eventuale che il contrasto, da cui si muove, non è dirimibile;
la seconda tappa è costi- tuita dal tentativo di fondare il sensibile sul
sensibile e l'intelligibile sull'intelligibile (processo all'infinito per la
sostanziale omogeneità dei termini su cui si vorrebbe costruire la prova); la
terza tappa è data dal tentativo di fondare il sensibile sull'intelligibile e
l'intelligibile sul sensibile (diallele ed eterogeneità dei termini su ~ui si
vorrebbe gio- care per la prova); la quarta tappa finalmente è data dal
tentativo di uscire sia dal processo di rinvio omogeneo, sia da quello a.
diallele, mediante l'assunzione, senza dimostrazione di una ipotesi; e questa
quarta tappa si ricongiunge alla prima, in un circolo dal ·quale il dog- matico
non ha via di uscita. Agrippa ha pertanto articolato la sua sfi- ducia nella
costruzione dogmatica, prospettando tutte le forme fonda- mentali in cui essa
poteva organiizarsi; tale sfiducia si è venuta cosi differenziando ed è
diventata rispettivamente: affermazione del con- trasto, vanità
dell'allargamento su terreno omogeneo a sfere sempre piu larghe
d'un'affermazione che, allargandosi, non perde la sua arbi- trarietà; vanità
del cosiddetto processo logico o dimostrativo, con la persuasione che esso non
è mai altro che un circolo, senza alcun pro- gresso possibile; vanìtà
dell'evidenza e sua relatività. L'istanza critica espressa in questi termini da.Agrippa
risulta dunque piu ampia, pi6 forte, pi6.organica e precisa di quella espressa
da Enesidemo; Agrippa è riuscito a staccarsi con maggior sicurezza dalla
considerazione con- tingente; di questa o quella posizione dogmatica, per
inv.::stire pi6 diret- tamente il dogmatismo nella sua generalità" (op.
cit., pp.. 339-41). Di non poca importanza è poi ricordare che, entro i termini
Enesi- demo-Agrippa (seconda metà del I secolo a. C., prima metà del I d. C.),
1'indirizzo scettico che si viene costituendo in metodo, si incontra con
l'indirizzo della medicina empirica. Certamente separati in principio
(l'indirizzo medico teorico e l'indirizzo medico empirico, in contrasto tra di
loro, risalgono a Ippocrate: sappiamo già il significato filosofico e
metodologico che la medicina assunse proprio dai tempi di lppocrate: cfr. I
vol.). Probabilmente la denominazione • medici teorici" (loghil(6t), 200
risale a un'opera in sei libri del medico Eraclide di Taranto, del
I se- colo a. C., intitolata La scuola empirica. Eraclide di Taranto, che fu
discepolo di Tolomeo di Cirene, con il quale, sembra, si sia, di contro
all'Accademia, restaurato l'originario pirronismo, avrebbe metodologi- camente
fondato l'indirizzo empirico della medicina, rifacendosi a Filino di Cos (metà
del I I I sec. a. C.), Serapione di Alessandria (fine del III, inizio del n a.
C.), Glaucia di Taranto e Apollonio il Vecchio (n sec. a. C.) (dr. I vol.).
Serapione - scrive Celso - primo fra tutti professò che la medicina non ha nulla
a che fare con la scienza razionale, ponendola soltanto nella pratica e nelle
scienze sperimentali... Coloro che prendono il nome di em- pirici, a motivo
dell'esperienza, tengono conto delle cagioni manifeste, come necessarie; e però
sostengono essere ozioso disputare intorno alle cause occulte e alle funzioni
•naturali, essendo la natUra incomprensibile. Non potersi poi comprendere è
chiaro per le discordi opinioni di coloro che ne hanno discorso, non avendosi
potuto ottenere consenso in tale que- stione, né tra filosofi, né tra gli
stessi medici. Se si considerano le ragioni, tutte possono sembrare probabili;
se si considera la cura, ciascuno vanta le sue guarigioni: non è perciò
possibile negar fede alla disputa o all'au- torità di alcuno (Celso, De re medica,
l, proemio). Anche se non possiamo dire se l'Eraclide, maestro di Enesidemo, di
cui parla Diogene Laerzio (IX, 116), sia Eraclide di Taranto, certo è che dopo
Eraclide ed Enesidemo l'indirizzo scettico e l'indirizzo della medicina
empirica s'influenzarono vicendevolmente, finché con Meno- doto i due indirizzi
confluirono in un unico metodo di ricerca scienti- fica. Sappiamo che dopo
Eraclide di Taranto, proseguirono sulla sua linea, durante la prima metà del 1
secolo d. C., Diodoro che compose un'opera intitolata Questioni empiriche, Lico
di Napoli, Zopyro di Alessandria, Archibio, Apollonio di Cizio e un certo
Zeucsis. Il Robin (Pyrrhon et le scepticisme grec, Parigi, p. 188; anche Dal
Pra, op. cit., pp. 354 sgg.), tenendo presente il sunto che dell'opera intito-
lata Dictyaca di Dionigi di Egea, vissuto sulla fine del 1 secolo d. C., offre
Fozio (Myriobiblion, 211, 168b, sgg.), in cui "dialetticamente," d4:e
Fozio; su di una stessa: questione di medicina si avanzano cin- quanta argomenti
pro e contra, e ricordando che Diogene Laerzio nel- l'elenco dei seguaci di
Enesidemo (IX, 106, 116) pone uno Zeucsis, detto dai "piedi a
squadra" (goni6pus), dicendolo autore di un'opera inti- tolata Duplici
discorsi, in cui evidentemente si mettevano in discus- sione varie opinioni con
il metodo dei pro e dei contra, suppone che lo Zeucsis medico sia da
identificare con lo Zeucsis scettico. Non sa- premmo certo dire. Certo è che la
vicinanza tra medici empirici e indi- 201
rizzo scettico, senza dubbio chiarissima in Menodoto, è indicativa
dell'atteggiamento metodologico assunto nel I secolo d. C. dallo scet- ticismo,
di contro alla filosofia verbosa, in una precisazione di quelli che sono i
limiti e le possibilità della ricerca, che non può non svol- gersi, per essere
utile e scientificamente valida, sç non sul piano umano, nella determinazione
di nessi e rapporti che si possono cogliere solo entro i termini dei
"segni rammemorativi," ragionando sui dati del- l'esperienza, donde i
tre punti fondamentali del metodo empirico della medicina, del resto già
presenti nel tripode empirico di Serapione di Alessandria: autopsia
(osservazioni e ricerche del medico fatte in per- sona), historie (raccolta
sistematica delle osservazioni fatte ~a altri medici), mimesi o, se vogliamo,
semiotica (dall'un segno di una ma- lattia, simile ad altro segno, determinare
volta per volta il quadro cli- nico della malattia e il rimedio pratico da
adottare), indipendente- mente dallà ricerca di cause fondate sù concezioni
generali e filosofiche (su cui si fondavano i medici dogmatici), per cui poteva
servire la polemica e l'appello all'autonomia del discorso scientifico, mai
chiuso in una dottrina definitiva, sempre aperto a nuova ricerca (sképsis), de-
lineati dall'indirizzo del neo-scetticismo, che, pur per polemica rifa- cendosi
al primo scetticismo di Pirrone e di Timone, assume di fronte alla cultura
quale si era venuta configurando tra la fine del I secolo a. C. e il principio
del I d. C~ ben altro atteggiamento piu strettamente logico-metodologico. La
conclusione sull'insignificanza e l'illogicità di qualsiasi discorso, che
voglia significare il discorso del reale (quale ch'esso si creda dimostrare che
sia), poneva in·crisi tutta una cultura acquisita, la fiducia nei risultati di
certe scienze (fisica, astronomia) e perciò stesso i fondamenti di un'educazione
enciclopedica; si rivelav, inoltre, la presunzione di poter stabilire quella
stessa educazione su basi precostituite, in un passaggio gratuito dal logico
all'ontico, richiamando ad una consapevolezza critica che spezzasse ogni
istitu- zionalizzazione del sapere. Certo, pur discusse criticamente le
possibilità umane di cogliere (di là da ciò che si presenta nella
rappresentazione dei sensi e della ragione e in ciò che mediante l'attività
soggettiva si viene costruendo) l'essenza delle cose e la ragion d'essere del
tutto, il discorso della realtà, negato che sul piano ontologico si possa dire
il "vero," che perciò non esistono né il vero né la verità, proprio
nella negazione di un qualsiasi passaggio dal logico all'ontico, restava
fissata e presupposta l'esistenza di una realtà, ignota e oscura, oltre le
possibilità dell'umano discorso e dell'umana comprensione, ma senza dubbio
essa, in quanto realtà, se. afferrabile, fondamento della verità e della
condotta della vita. Si sarebbe potuto, sul piano scettico, andare piu in là:
una cosa è giun- 202 gere a negare la possibile conoscenza della
realtà (il· che presuppone già una realtà: materia, anima, Dio), altra cosa,
non presupponendo alcuna realtà, vedere come si pongono, discorrendo, le
realtà. In altri termini, giunti alla sospensione del giudizio sulla realtà, si
sarebbe po- tuto, rovesciando il discorso, fermi restando gli argomenti
scettici nei confronti del dogmatismo, vedere come si costituisce la realtà
attra- verso il giudizio stesso, come, attraverso il giudizio, e la storia dd
giu- dizio, si costituisce questa o quella fisica, questa o quella matematica,
questa o quella condotta di vita: non vere se si presuppone una realtà - sia
pur ignota e acatalettica, -vere se si possono vedere, nel tempo, come
costruzioni, in cui si annulla la dualità soggetto-oggetto. Di fatto ciò non
avvenne. Di. fatto il richiamo, fondamentale, dello scet- ticismo a una piu
approfondita consapevolezza critica, si risolveva, nelle sue conclusioni
estreme, da un lato in un'esatta dimostrazione che ogni pretesa filosofica a
significare la realtà è un non-giudizio, una proposizione senza senso,
dall'altro lato in una assoluta "sospen- sio~e dd giudizio," ché,
accantonando la realtà (e perciò presuppo- nendola) e negando verità e
significanza a ogni giud,izio - proprio perché ritenuto sul piano della realtà,
- portava alla negazione di qualsivoglia "fisica" o di qualsivoglia
ipotesi che potesse rendere pen- sabile e costruibile la realtà (donde.anche la
critica al cosiddetto dogmatismo dell'ipotesi epicurea),.e; per le stesse
ragioni, l'accanto- namento, nell'imperturbabilità, raggiunta appunto con la
"sospensione del giudizio," di ogni tipo dì condotta morale, onde
l'accettazione, in una rinnovatasi pigra ratio, di qualsiasi costume
storicamente de- terminatosi ("lo scettico, senza preconcetti dogmatici si
attiene all'os- servanza della vita comune, e, perciò, nelle cose opinabili si
mantiene impassibile, e in quelle che sono di necessità mediocremente
patisce": Sesto Empirico, Py"h. hypot., III, 235). Tutto ciò non solo
dimostra l'influenza del neoscetticismo, ma sembra anche spiegare in che senso,
accantonata appunto la pretesa di cogliere mediante i sensi o la ragione
l'essenza della realtà e la verità, ma sempre presupposta la realtà, si tentino
altre vie che possano giustifi- care la presenza di quella realtà umanamente
ignota e nascosta, che permettano, anche se su altro piano, di cogliere quella
realtà, o di es- serne còlti; la realtà allora, sciolta da ogni razionalità,
poteva benissimo essere intesa come assoluta trascendenza, oltre i sensi e la
ragione, essa stessa fonte di razionalità, o come assoluta libertà e perciò
assoluta persona, e su essa e per essa conformare la propria condotta· di vita
(di qui il prevalere dell'esperienza detta religiosa). D'altra parte, le
possibili vie imboccate, a cominciare da quella assunta da Filone l'Ebreo, che
ebbe poi grandissi1,11a influenza, non si possono vedere bene, se non si
tenga presente anche la storia di Roma e dei paesi assog- gettati a Roma,
particolarmente dalla morte di Tiberio (!/ d.C.) ìn poi, soprattutto per ciò
che riguarda la pOlitica individuale e assoluti- stica dei singoli imperatori e
la situazione sociale, o, gia prima con Filone l'Ebreo, la situazione storica
in cui, con l'avvento dell'Impero, s'era trovato; in Alessandria,
n·"popolo ebreo.•l. Cultura e crisi politica al principio del l secolo d.
C. Il corso dd 1 secolo d.C. presenta, evidente, una crisi morale, che, ad un
tempo, risponde ad una piu profonda crisi politica e sociale. Se le strutture e
la potenza dello Stato romano rimangono forti, se la sua cultura
istituzionalizzatasi apparentemente risponde ai fini dd- l'Impero quale si era
costituito con Augusto, in effetto, da Tiberio in poi, i contrasti interni si
fecero sempre piu drammatici. Alcuni impe- ratori giustificarono
il proprio potere assoluto mediante la propria pro- clamazione a divinità
(onde la loro simpatia per certi culti e misteri orientali, dalle religioni di
Iside e &rapide, a quelle di Cibele, di Attis, di Sabazia e di Mitra) ed il
loro contrasto, in particolare, con lo Stoi- cismo, in cui si vedeva la
concezione di uno Stato universale e di.un diritto, l'opzione per una condotta
di vita e per una cultura che pote- vano minare la politica stessa dei singoli
imperatori. Sono dati precisi. Già con Tiberio fu bandito da Roma lo stoico
Attalo e messo a morte, perché repubblicano, Cremuzio Cordo ("egli lodava
Bruto e diceva C. Cassio l'ultimo dei romani": Tacito, Annali, IV, 34
sgg.), mentre Caligola fece uccidere Giulio Cano, e Seneca, perseguitato da
Claudio, fin! poi per uccidersi sotto Nerone, mentre venivano mandati a morte
Trasea Peto, anch'egli ritenuto emulo di Bruto (Tacito, Ann., XVI, 22) e
Rubellio Plauto, accusato, come riferisce Tacito, d'esser seguace della
"arrogante setta degli Stoici, che rende turbolenti e desi- derosi di
disordini." Musonio Rufo e Cornuto vennero esiliati. Nel 71, sotto Vespasiano,
tutti i filosofi vennero espulsi da Roma, mentre Dione Crisostomo, ancora
insegnante di retorica, scriveva il Discorso con- tro i filosofi, "peste
della città e dei governi," e, nel 93, Domiziano espulse di nuovo da Roma
i cultori di filosofia preoccupato per gli effetti della retorica, qualora
questa non rimanesse sul piano pura- mente scolastico, di esercitazione. Il
potere, d'altra parte, si restringeva sempre piu nelle mani di pochi, cultura e
retorica dovevano servire ai funzionari dello Stato (e appunto per essi si
apriranno in Roma e nei suoi domini le scuole, che verranno poi sempre in
for~pa maggiore controllate dall'imperatore), le popolazioni divennero sempre
piu povere e la schiavitu strumento economico, mentre in tutto l'Impero schiavi
e militari circolano, provenienti dai paesi piu diversi, recando con sé
esperienze, culti e culture, religioni diverse. Cosf, entro tale atmo- sfera
generale, entro i diversi sostrati sociali in cui ci si muove, a seconda anche
dell'imperatore e della sua corte entro la quale per sorte si vive, si capisce
come la filosofia potesse soprattutto esser coltivata, da un lato come guida
alla vita, rifugio, consolazione, dall'altro lato come rifles- sione su
esperienze religiose, quale indice di salvazione, di liberazione dal guaio di
esser nati uomini. Di qui, sempre, entro l'ambiente greco romano, fin dal
principio del 1 secolo d. C., la ripresa di certi asP-C=tti dello stoicismo,
del pitagorismo, del platonismo stoicheggiante, e, in altri sostrati sociali,
il recupero di suggestioni magiche, teurgiche, oracolari, di certe posizioni
che si configurano nel cosiddetto gnosticismo, il costituirsi, accanto al
commento dei libri del passato (Platone, Aristotele), dei testi ermetici,
orfici, il riapparire dei misteri, e, infine, non ultima, la suggestione del
Cristianesimo. Sotto questo aspetto, la critica scettica, fin da Enesidemo,
sembra abbia avuto una notevole influenza e funzione. Ad esempio, proprio
rifacendosi a Enesidemo (o almeno ad argomentazioni scettiche che furono poi
sostenute da Enesidemo), dando a lui ragione nei confronti dei superbi ed atei
dogmatici, un Filone l'Ebreo poteva rimettere in discus-- sione il problema
della verità, ma inserendosi, sotto tutt'altro aspetto, in tutt'altra
esperienza e tradizione, delineando il motivo della "rivela- zione,"
mediante cui, poi, recuperare certi motivi della vecchia cultura. Per altra
via, un Seneca, in una situazione politica cangiata, entro i ter- mini di una
crisi di una cultilra, poteva, proprio riallacciandosi alla pole- mica scettica,
trovare i fondamenti della condotta della vita in uno stoi- cismo, che, in
realtà, non ha piu nulla a che fare con lo stoicismo della scuola. In certe
esperienze religiose di origine orientale si cercò, di là dalla ricerca
razionale, di fronte al suo fallimento, di trovare il fonda~ mento della vita e
della propria salvazione. Pur accettando l'istanza scet- tica, pur convinti che
inafferrabile è l'essenza e la struttura della realtà, si accantonava anche la
via dell'ipotesi probabile, utile a determinare di volta in volta, non solo una
possibile fisica, ma una possibile condotta di vita, cui convincere (com'era
stato il caso di Filone di Larissa e di Cicerone), e per cui era necessaria una
retorica in senso ciceroniano. Essa avrebbe avuto bisogno però di un foro, di
una piazza, di un'assem- blea, Ove fosse stato possibile discutere e
convincere, foro e piazza che 230 non esistevano piu (non si
scordi che molti filosofi, un Seneca, ad esem- pio, sotto Caligola, un Giunio
Rustico, sotto Domiziano, furono perseguitati o condannati a morte, per certi
loro discorsi pubblici). La retorica perciò si venne trasformando di nuovo in
esercitazione o in tipo di inse- gnamento scolastico, come si vedrà bene in
Quintiliano, il cui ciceronia- nesimo sarà estremamente istituzionale (non a
caso l'autore del Dialogo degli oratori, attribuito a Tacito, ma certo
contemporaneo di Quinti- liano, poteva sostenere che la verace efficacia della
retorica si era venuta perdendo con il prevalere del dispotismo). E cos{ si capisce
ché insieme alla retorica, entro l'ambito scolastico,.si sviluppassero
discussioni di grammatica e di dialettica; da qui, soprattutto, il commento dei
libri logici di. Aristotele, la cui applicazione poteva, poi, essere ben
lontana dai contenuti aristotelici, tanto che il commento ai libri della logica
aristotelica poteva incontrarsi, formalmente, con certi aspetti della logica
stoica. Per altro verso, invece, si poteva far di nuovo viva l'istanza cinica e
l'ultima retorica rimasta: la presentazione·di esempi, di modelli di vita. 2.
Astronomia e astrologia al principio del l secolo d. C.: loro esiti. Manilio
Particolare interesse assume ora, entro questi termini, il delinearsi della
interpretazione, in chiave stoico-platonica, dei molti aspetti con cui erano
penetrate nel mondo occidentale - fin da Platone con certezza - le concezioni
astronomico-teologiche di origine orientale, ove non vanno scordati i nomi di
Beroso, di Asclepiade Mirleano, l'opera dello pseudo Nechepso-Petosiride,
attraverso i cui scritti sappiamo che circolarono già dal secondo secolo a. C.,
in ambiente alessandrino molti dei piu impres- sicmanti motivi
magico-astrologici. Sul piano delle concezioni astrono- miche, è abbastanza
facile scorgere, fino a:l principio del I secolo d. C., due grandi linee, che,
por, nel corso del I secolo, vennero fondendosi, dando luogo a esiti piu
strettamente magici. Da un lato vediamo Ia linea, scaturita
dall'interpretazione dei movimenti, dei significati e fini delle stelle, che
risale ai secondi pitagorici, al Timeo e all'Epinomide (in cui chiara appare la
sostituzione del vecchio culto degli dèi olimpici con il nuovo culto degli
astri, manifestazione dell'ordine e delle leggi della suprema ragione divina) e
che prosegue con l'interpretazione clean- tea del logos spermatikos, che, fuoco
supremo, si realizza attraverso i fuochi e le luci stellari (Inno a Zeus), con
i Fenomeni di Arato e poi con i manuali di origine stoica sui segni celesti e
sulle influenze delle stelle sulla terra. Dall'altro.lato vediamo la linea scaturita
dallo sforzo di rendersi conto dei movimenti stellari in ter~ini razionali,
"salvando i fenomeni," e che, se anche d'origine
pitagorico-platonica, venne svolgen- dosi su di un altro piano, su di un piano
fisico in traduzione geometrico- matematica, perché fossero possibili calcoli e
misure, e in ipotesi che rendessero conto degli apparenti errori,
indipendentemente dal ricercare supreme ed allotrie ragioni (e pensiamo qui ad
Eudosso di Cnido, Era- clide Pontico, e poi ai grandi astronomi di Alessandria,
fino a.Ipparco di Nicea e, almeno parzialmente, a Posidonio, nel suo tentativo
di "fami- liarizzare l'universo"). Si capisce bene, d'altra parte,
come a quella che dicevamo la linea platonico-stoica potessero servire i
calcoli e le misure deil'altra linea, che determinando, appunto mediante i
calcoli, la neces- sità dei movimenti, le risultanti dei loro rapporti e cosi
via, razionaliz- zava e rendeva possibile la divinazione, giustificando la
necessità entro cui si scandiscono il ritmo e l'ordine divini. Anche se
indirettamente ed in forma alquanto sospetta, sappiamo che Posidonio (cfr.
sopra) cercò di inquadrare certi risultati fisici e matema- tici entro i
termini dell'ipotesi fisica dello stoicismo. Secondo Simplicio (In Phys Arist.,
Il, 2, p. 291, 34 sgg. Diels), che riprende un testo di Ge- mino (Epitome dei
Meteorolog•), riportato da Alessandro Filopono, Posi- donio, occupandosi del
sole e degli astri, ne avrebbe determinato il movi- mento, valendosi del metodo
geometrico e matematico. Egli cioè avrebbe considerato pesi, grandezze e tempi
di movimento, per formulare ipotesi che servissero a spiegare i fenomeni del
cielo, ad esempio l'irregolarità del movimento del sole (cfr. Simplicio, Fisica
di Arist., cit.). Sembra, anzi, che Posidonio per spiegare ed illustrare i moti
degli astri abbia costruito una sfera. (cfr. Cicerone, De natura deorum, Il,
34, 88: "La sfera, che re- centemente ha costruito il nostro caro amico
Posidonio, riproduce in ogni sua rivoluzione gli stessi fenomeni relativi al
sole, alla luna e ai cinque pianeti che avvengono ogni giorno e notte in cielo:
chi dubiterà, ve- dendo tale sfera, ch'essa è dotata di una ragione
perfetta?"). D'altra parte, se la sfera rendeva conto delle apparenze e
permetteva calcoli e misure, non permetteva di rendere ragione dei movimenti
stessi. Biso- gnava per ciò, sostiene sempre Simplicio, rifacendosi a
Posidonio, "muo- vere dai principt generali delle qualità del movimento,
dal principio della 7tOL'Jj'rLX1j 8uvcx(Lr.t;, determinando l'essenza del cielo
e degli astri" (Sìm- plicio, Fisic. Arist., cit.). Ora, accanto
all'ipotesi stoica, probabilmente formulata da Cleante, secondo cui la ragion
d'essere del tutto è un prin- cipio attivo, un fuoco vitale, ragione seminate
che ovunque si diffonde, costituendo un tutto necessariaemnte ordinato,
"ragione, unica di tutti, che si svolge e vive per l'eternità,"
"comune ragione che in tutti pene- tra, ugualmente toccando il grande
[sole] e i minori lumi" (Inno a Zeus, 21 sgg., 16 sgg.), non vanno
scordate le ipotesi aristotelica ed epi- 232 curea. Se da un lato
Aristotele, nella sua sistemazione cosmologica, era ricorso all'ipotesi di un
primo motore immobile, dall'altro lato Epicuro, di contro al teleologismo
platonico-aristotelico, aveva sostenuto l'impos- sibilità, sul piano
sperimentale, di formulare qualsiasi ipotesi generale, sottolineando, di contro
all"'unica spiegazione," il valore delle "molte- plici
spiegazioni." "I segni dei fenomeni celesti ce li forniscono i feno-
meni che accadono presso di noi e che si vede bene come e dove acca- dono, e
non i fenomeni celesti stessi, che possono avvenire in molte maniere"
(Epicuro, Lettera a Pitocle, 86, 8; 87, 8). Entro i termini di un meccanicismo
casuale si eliminava ogni necessaria determinazione, ci si liberava dal
concetto della provvidenza divina. "E non si chiami in causa la natura
divina... Se non si farà cosi, ogni indagine sulle cause dei fenomeni celesti
sarà vana, come è avvenuto a certuni che ignorando il metodo delle possibili spiegazioni
caddero in vuote argomentazioni, perché credevano al metodo dell'unica
spiegazione" (Epicuro, Lettera a Pitocle, 97, 4, 12). Proprio di contro
alla tesi epicurea - di cui sappiamo le preoccu- •pazioni che suscitò per i
suoi esiti politici, sganciando l'uomo e le cose da ordini precostituiti, da
una ragion d'essere universale, per cui e cieli e mondi e uomini apparivano
scaturiti a caso, onde si accusò Epi- curo di sragionevolezza e di empietà di
contro a Epicuro, dunque, sembra che Posidonio abbia avanzato l'ipotesi del
tutto animato e vi- vente, secondo la tesi della "simpatia
universale." Egli si sarebbe cosi riallacciato, · relativamente agli
ordini e ai movimenti stellari, a certi testi del Timeo e dell'Epinomide,
interpretati mediante la concezione fisico-animistica di Cleante e di Arato, in
una visione cosmologica in cui poteva rientrare anche la sistemazione
aristotelica, una volta che il motore immobile, Dio, non fosse piu concepito
come un concetto, una condizione logica, ma come forza attiva, l6gos spermatik6s,
che non esiste se non nel suo manifestarsi, e di cui, fin dalle stelle,
cominciando dal sole, tutte le cose sono aspetti e determinazioni. Si vede bene
cosi come Achille Tazio, discutendo il significato dei Fenomeni di Arato,
interpretasse la tesi posidoniana come l'unica ipo- tesi valida da potersi
sostenere contro l'ipotesi degli Epicurei, secondo cui gli astri non sono
affatto animati ("Posidonio polemizza con gli Epicurei, i quali negano che
gli astri siano animati, perché racchiusi nei corpi. Secondo Posidonio non sono
i corpi a racchi.udere le anime, ma le anime i corpi, ché le anime son come la
colla che tiene unita se stessa e le cose di fuori": Achille Tazio,
Isagoge in Phaen. Arati, 13, ed. Maas). Sotto questo aspetto, dando ad anima il
significato di forza, di calore vitale, organizzante, sembra chiaro in che
senso si potesse, sia pur analogicamente, spiegare il movimento in sé ponendo,
al limite, un 233 princip10
di vita, una forza attiva, non a caso.detta fuoco, inesistente in sé se non
appunto nella sua stessa estrinsecazione. I movimenti de~li astri costituiscono
perciò ·gli stessi moti d,ell'intelligenza divina, e gli astri sono essi stessi
fuoco (secondo Stolieo Posidonio scriveva che gli "astri sono a&JL«.&ei:ov,
corpo divino, fatti di etere splendente e infuo- cato, mai in.quiete, ma sempre
in movimento circolare": Stobeo, Ecl., I, 24, 5 W.), corpi divini, come
fuoco è Dro, onde tutte le cose, avendo ciascuna la propria ragione seminale,
il proprio fuoco, la propria luce, la propria anima, sono, sia pur ìn gradi
sempre piu affievoliti, riper- cussioni e riflessioni dei fuochi, delle luci
siderali. Già qui si saldano le due linee di cui sopra parlavamo, e..se da un
lato ·si ren<;leva possibile lq sfruttamento. dei risultati geometrico-mate-
matici, dall'altro lato si potevano rendere razionali le suggestioni di certa
magia astrologica, di origine sacerdotale, che si era venuta dif- fondendo
attraverso i cosiddetti Caldei, per cui, in fine, al vecchio impe- rativo
"vivi secondo natura," si poteva sostituire l'imperativo "vivi
secondo le stelle," secondo la tua stella, ché ciascuno, ·concepito' sotto
il riflesso di un certo fuoco stellare, in una certa situazione e congiun-
zione di stelle, assume per riflesso quel fuoco, quella figura siderale, ha il
suo destino che è destino divino, comprensibile da parte di chi conosce l'ora
(oroscopo) delta ct>ncezione e.Ja posizione delle stelle, e sa, seguendo il
moto delle stelle, fare i giusti calcoli, prendere le giuste misure, ché
l'istante della nascita determina quello della morte: "Na- scentes
morimur, finisque ab origine pendet";. "Fata regunt orbem, certa
stant omnia lege" (Manilio, Astronomicon, IV, 16, 14; cfr. F. Cu- mont,
Les religions orienta/es, Parigi, pp. 196 sgg.). Da un lato, dunque, di contro
alla libertà di Epicuro che fa l'uomo responsabile del suo morido, lanciato in
una infinità·di mondi, si tende, "familiarizzando" l'universo, di
ricondurre l'universo a una sola unità e a una sola legge, di cui,
"microcosmo" nel "cosmo," l'uomo è parte in una
cospirazione di parti in funzione del tutto ("simpatia"); dal-
l'altro lato, entro i termini di questa concezione, si tende, recuperando
calcoli e misure dell'astronomia, recuperando la simbolica dei numeri e la
geometria dei pitagorici, a· razionalizzare il costituirsi e il destino di
tutte le cose, compreso l'uomo. Si veniva cosi:· a delineare la possibi- lità
di uria scienza della. natura e di una teologia scientifica, che risol- veva in
sé l'aspetto pragmatico-magico di molte credenze astrologiche diffuse dai
cosiddetti Caldei, ed ove si poteva considerare la stessa divi- nazione e
predizione del futuro non solo rispetto all'universo, ma all'uomo, come frutto
di una serie di conoscenze e' come vero e proprio possesso di un complesso di
tecniche. Abbiamo di proposito lasciato nel vago l'apporto delle. credenze 234
astrologiche, delle pratiche magiche, delle superstizioni
religiose, di certe concezioni e misteri, provenienti dall'Oriente, proprio
perché tutto questo è estremamente vago, e perché, in realtà, non possediamo
docu- mentazioni precise. Possiamo dire solo questo, che con il termine Caldei,
sia in Roma sia in Grecia (in Grecia fin dal tempo di Platone) si sole- vano
indicare quei sapienti, indipendentemente ormai dalla loro ori- gine, che
soprattutto sfruttarono sul piano del sapere da un lato, almeno in principio,
concezioni astronomiche di origine babilonese, dall'altro lato gli esiti che
tali concezioni potevano avere sul piano della divina- zione e della previsione
basate sui fenomeni celesti (cfr. Diodoro Siculo, Il, 29 sgg.). Che
naturalmente molti di costoro, giuocando sulle superstizioni popolari, fossero
rimasti quei tali mendicanti, sacerdoti imbroglioni e indovini di cui parla
Platone (cfr. Repubblica, 364b), è certo, come risulta da non poche
testimonianze. D'altra parte è senza dubbio vero che notevole, entro l'àmbito
di tali ricerche astrologiche, fu l'influsso di certe religioni (pensiamo qui
particolarmente al maz- deismo e al mitracismo) e di certe raccolte relative
alle influenze delle piante, delle pietre, degli astri, di provenienza
orientale (da Ostane, da Zarathustra), diffuse in Egitto da Petosiride (sembra
di lui un'opera di astrologia del n secolo a. C.: cfr. Catai. codd.
astrologorum graec., VII, 129-151) e da Beroso, sacerdote babilonese di Bel,
autore di Babi- lonicà, dedicati ad Antioco I Sotèr (tra il 280 e il 260 a.
C.), ad un tempo interprete di antiche teorie babilonesi. Ricordiamo qui, per
la sua vicinanza con certe concezioni stoiche (e perché è un chiaro indice di
come sia difficile distinguere provenienze e separazioni precise) la dottrina,
di origine siriaca, dei grandi cicli annui che si scandiscono sulle rivoluzioni
celesti dando luogo al concetto dell'eternità divina che, operando mediante le
stelle e le loro influenze, è onnipotente su cose, uomini, popoli (cfr. Catai.
codd. astro/. graec., V, l, p. 210). "Il primo postulato dell'astrologia
caldea è che tutti i fenomeni e gli avve- nimenti di questo mondo sono
necessariamente determinati dalle in- fluenze siderali. I cangiamenti della
natura come le disposizioni degli uomini sono fatalmente soggetti alle energie
divine che risiedono nel cielo. In altri termini, gli dèi sono onnipotenti;
sono i padroni del Destino che sovranamente governa l'universo. Tale nozione
della loro onnipotenza appare come lo sviluppo dell'antica autocrazia che si
rico- nosceva ai Baal. Costoro erano concepiti ad immagine di un monarca
asiatico, e la terminologia religiosa si compiaceva di sottolineare l'umiltà
dei loro servitori rispetto ad essi. Non Si trova in Siria nulla d'analogo a
ciò che esisteva in Egitto, ove il prete riteneva di poter costringere i suoi
dèi ad agire ed osava perfino minacciarli" (F. Cumont, Les reli- gions
orienta/es dans le paganisme romain, p. 155). Sotto questo aspetto, non vanno dimenticate le suggestioni di certi
rituali egiziani, che me- diante la precisione delle parole sacre incantano ed
obbligano le potenze superiori, donde il valore dato alle parole evocatrici e a
certi gesti dd rituante, di cui non pochi lasciti ritroviamo in quei testi che
poi riflui- rono nel Jilorpo ermetico (cfr. Boll, Sphaera, p. 372; Cumont,
cit., pp. 114 sgg.; Festugière, cit., vol. I), mentre per altra via si poté
intra- vedere la possibilità d'inventare tecniche mediante cui operare su
quella stessa fatalità astrologica, spezzandone la catena (donde, poi, nel n
se- colo d. C., la teurgia e la magia scientifica). E cosi, entro quest'àmbito
della astrologia, va ora sottolineata l'importanza che vengono assu- mendo, non
pìu in senso mnemonico, non piu solo lasciti di totem e dì primordiali magie
amuletiche, le figure delle stelle (la vergine, i gemelli e cosi via) e le
figure delle stelle di provenienza persiana, in un insieme di animali
fantastici (la cosiddetta "sfera barbarica"),-donde, poi, l'aspetto
mimetico della magia, l'imitazione della figura e della ragione del proprio
astro. Tutti questi aspetti, in principio senza dubbio separati, di prove-
nienze diverse, operanti in ambienti sacerdotali, sulla fine del I se- colo a.
C. vengono diffondendosi - non sembra un caso la polemica di Filone l'Ebreo nei
confronti dei Caldei che riducono il divino al complesso delle stelle, s(come
non è un.caso l'ironia degli scettici, già fin da Carneade, nei confronti delle
pretese dell'oroscopia, - vengono laicizzandosi e, interpretati in chiave
stoica, si risolvono in una vera e propria teologia razionale, scientifica, nel
tentativo di una spiegazione della fatalità. Sotto questo aspetto si vede bene
come l'astrologia sul principio del 1 secolo d. C. potesse penetrare e fosse
accettata in Roma nell'ambiente stoicheggiante di Augusto e di Tiberio.
Testimonianza precisa di questo incontro di tradizioni diverse astro- logiche,
interpretate e sistemate entro i termini dello stoicismo, sembra essere il
poema in cinque libri (Astronomicon) di Manilio,l composto l Nulla ~ stato
tramandato della vita di M. Manilio. Ch'egli sia vissuto ed abbia composto il
suo poema A.stronomicon, in 5 libri, tra Augusto e Tiberio lo si oonget- tusa
da alcuni accenni che si ritrovano nella sua stessa opera. Nel proemio vi ~ un
chiaro accenno ad Augusto, si come di Augusto anoora vivo Manilio parla nel
libro II, 509, affermando che il Capricorno rifulse nel giorno in cui Augusto
uaoque. t ricordata la disfatta di Varo, avvenuta nel 9 d. C., come avvenimento
recente. Nel IV libro si accenna chiaramente a Tiberio come da poco succeduto
ad Augusto (Au- gusto mori nel 14 d. C.). Nel V libro, infine, sembra si
accenni all'incendio del teatro di Pompei, avvenuto nel 22 d. C. Poich~ il V
libro appare chiaramente interrotto si ~supposto che Manilio sia morto,
appunto, nel 22. A proposito degli interessi per un certo tipo di questioni
astronomiche occorre qui fare il nome di C. Giulio Cesare Germanico, nato nel
15 a. C. da Nerone Claudio Druso ~anico e da Antonia Minore, adottato nel 4 d.
C. da Tiberio contemporaneamente, a sua volta, adottato da Augusto, morto nel
19 d. C. Uomo di ampia cultusa, autore di contra il 9 e il 22 d. C., a Roma, in
un riconoscimento, talvolta commosso e pieno di stupore di fronte alla fatalità
del tutto, dell'architettura del- l'Universo e della sua razionalità (del cui
scandirsi fatale incarnazione è l'imperatore: si vedano gli accenni ad Augusto,
e a Tiberio), in una netta contrapposizione allo sconcertante e libero
costituirsi degli infi- niti mondi epicurei, alla libera mater, feconda e
libera materia da cui tutto liberamente si genera, di lucreziana memoria (non a
caso alla struttura esterna del poema di Lucrezio si avvicina in antistrofe il
poema di Manilio). Sorge ogni astro secondo la propria luce e osserva un ordine
preciso nel suo nascere e nel suo tramontare. Nulla v'è di piu meraviglioso, in
s1 gran massa, che questo razionale ordine e il fatto che ogni cosa obbedisce a
leggi fisse... Chi potrebbe credere che tutto questo avvenga senza· uo nume e
che il mondo sia stato creato da minime particelle [gli atomi], unite alla
cieca? Non è opera del caso, questa, ma ordine che proviene da un nume possente
(Manilio, I, 476-479, 492 sgg.). Difficile è dire, relativamente alla
costruzione che dell'Universo offre Manilio, sia per l'aspetto piu propriamente
geografico, sia per quello piu strettamente astronomico, quanto egli si sia
servito delle opere di Posidonio - in par.ticolare, si è detto, delle Meteore,
del Protreptico, dell'Oceano. - Certo, abbastanza evidentemente si rintraccia
la linea che va dal Timeo, all'Epinomide, ai Fenomeni di Arato, in una inter-
pretazione genericamente stoica, in chiave teologica. Ma v'è di piu: in Manilio
è indubbia una traccia di motivi astrologici di origine orien- tale. In un
codice Angelico (grec. 29, sec. xv, c. 120: cfr. Cumont, Cat. cod. astrol., VI,
p. 188; F. Boll, Sphaera, p. 53), è esposta una dot- trina di Asclepiade
Mirleano (del 1 sec. a.C.: cfr. B.A. Miiller, De Asclepiade Myrleano, p. 22)
sulle costellazioni della sfera barbarica e sull'influsso che tali
costellazioni hanno sugli uomini nati sotto di esse, dottrina che ritroviamo in
Manilio (V, 262 sgg.); non solo, ma, se- condo Firmico Materno (Proemio, III
libro, 4), alcuni motivi Manilio li avrebbe ripresi dagli scritti di Nechepso e
Petosiride; in realtà in un frammento di Nechepso e Petosiride (Riess, 363)
ritroviamo proprio gli stessi motivi trattati da Manilio (III, 190 sgg.) sulla
Fortuna e l'oro- scopo, risolti mediante la disposizione dei segni siderali, i
dodekate- moria, le sorti dei dodici luoghi. Ma ciò che piu colpisce è la
sistema- medie in greco e di epi8fammi in latino e in 8fCCO, ottimo oratore,
Germanico libera- mente rielaborò iJIOeDli di Arato: abbiamo 700 versi del
rifacimento dei Fenomeni, modifi· c:ati in funzione delle nuove scoperte in
campo astronomico; e circa 200 versi di un'oJ)era sempre di argomento
astronomico, probabilmente un rifacimento di Prognostica da inclu- dere nei
Fenomeni, a loro completamento.
237 zione del tutto entro i termini di un ordine razionale,
di cui appunto tutto - dai cieli, alle influenze stellari, ai conflitti tra le
costellazioni - è rivelazione, manifestazione di una unica ratio gubernans. In
tal senso, già notevole come indicazione, è una pur breve traccia della
struttura e del contenuto del poema, che, per la morte dell'autore (22 circa d.
C.), rimase interrotto (il V libro è incompiuto): I libro: forma e origine del
mondo, i quattro elementi (fuoco, aria, acqua, terra), posizione della terra
nel cosmo; cielo, zodiaco, asse del mondo, stelle artiche, natura delle
costellazioni, distanza tra lo zodiaco e la terra, grandezza delle dodici parti
dell'eclittica, circoli paralleli, meridiani, oriz- zonte, eclittica, via
lattea. - Il libro: dodici segni zodiacali (~cf>3tot) loro na- tura, loro
posizione, loro subordinazione ai dodici dèi (Minerva, Venere, Apollo,
Mercurio, Giove, Cerere, Vulcano, Marte, Diana, Vesta, Giunone, Nettuno), loro dominio
sulle membra umane, rapporti reciproci tra di loro, amicizia e discordia nelle
costellazioni, simile a quella che v'è sulla terra, influssi dei sidera cognata
su chi è nato sotto di essi, dodel{atemoria, gli otto luoghi. - III libro: le
dodici sorti, tra cui la Fortuna che determina le loro combinazioni coi dodici
segni, oroscopia, i segni tropici (Cancro, Capricorno, Ariete, Leone). - IV
libro: figurazioni dei segni zodiacali, a seconda delle quali si determinano i
costumi, la condotta, il destino degli uomini, sistema geometrico dei decani,
in una ripartizione ternaria dei segni zodiacali; sorgere dei segni, località
ordinate sotto il potere dei do- dici segni (geografia astrologica),
conflagrazione universale, cosmo e micro- cosmo (l'uomo). - V libro: sistema
del sorgere degli astri (paranatéllonta), visione ordinata del tutto, anche nel
conflitto degli astri, ché su tutto do- mina una piu profonda ragione, in un
solo scandirsi, in cui l'universo appare fatto sul modello dello Stato
augusteo. "Non è opera del caso, questo, ma ordine che proviene da un nume
possente" (1, 492); "questo dico e questa ragione, che tutto governa,
trae dalle eterne stelle gli esseri animati della terra" (Il, 82-83). E
l'uomo, microcosmo nel cosmo, poiché l'anima umana emana dagli astri, essi
stessi fuoco del divino fuoco, principio di vita del tutto, attra- verso la
contemplazione dell'universo e delle sue leggi, dispiegamento del divino e
della sua fatalità, l'uomo può, ripercorrendo le ragioni del tutto, accettare
il proprio fato, serenamente. "Soltanto nell'uomo di- scende Dio e vi
alita e vi ricerca se stesso. Chi potrebbe conoscere il cielo se non per dono
del cielo? Chi potrebbe trovare Dio, se non chi è parte lui stesso, di
Dio?" (II, 108 sgg.). Lo sforzo di Manilio appare consapevolmente rivolto
a risolvere su di un piano razionale la fatalità, a far rientrare tutto
nell'ordine, siste- mando in unità e ragione, in un unico impero, i diversi
aspetti con cui era penetrata in Roma l'asttologia e l'oroscopia, ch'egli
svuot~ del 238 suo mordente magico e operativo. Sotto questo
aspetto non sembra un caso che il discorso intorno alle stelle e alla loro
fatale influenza (se vo- gliamo astrologia) si risolva entro i termini di una
descrizione delle "leggi" degli astri (astronomia), manifestazione
del divino ordine e della divina ragione, non "nascosti," non
"volontari," e sui quali per- ciò non v'è alcuna possibilità di
operare, nessuna possibilità mediante evocazioni di modificarne la volontà, ché
la divina ragione è tutta rive- lata a chi sappia contemplarla: Lo stesso Dio
non vieta al mondo il volto del cielo e i suoi aspetti e il corpo svela, e
sempre volgendosi s'imprime e si offre perché possa essere ben conosciuto,
perché a chi contempla insegni come si muova e lo costringa ad osservare le sue
leggi. Lo stesso mondo gli animi nostri chiama alle stelle, né soffre che i
suoi legami rimangano nascosti, poiché svelati essi sono. Chi mai potrà credere
ch'empio sia conoscere quello che ci è concesso di contemplare? Non disprezzare
le tue forze perché sono in un piccolo corpo: ciò che vale è immenso. Sf come
poche quantità d'oro valgono piu di molti cumuli di bronzo, sf come il
diamante, un punto di pietra, è ancor piu prezioso dell'oro, sf come la piccola
pupilla ha la capacità di abbracciare il cielo tutto, e minimo è ciò che gli
occhi vedono, mentre guardano le massime cose; cosi la sede dell'animo, posta
sotto il tenue cuore, domina per tutto il corpo da un angusto limite. Non
chiedere la quantità della materia, ma considera le potenze che la ragione
domina, non il peso: tutto la ragione vince - ratio omnia vincit (IV, 920-32).
Fata regunt orbem, certa stant omnia lege (IV, 14). Divinità svelata il Tutto,
il discorso sugli astri, incarnazioni delle leggi, diviene $Cienza, studio dellç.
rifrazioni e riflessioni dei lumi stel- lari: la stessa oroscopia e divinazione
divengono calcolo, studio di rapporti geometrici e matematici. Di qui il
recupero di molti aspetti della sistemazione della cosmologia di origine
pitagorica (con particolare rife- rimento al fuoco), che si vien componendo con
la cosmologia della fisica stoica, in una strutturazione dell'universo che
poteva essere benissimo quella offerta dal sistema aristotelico. In Manilio,
effettivamente, c'è in forma quanto mai massiccia, l'esito di uno degli aspetti
della fisica e della teologia stoiche, in una sistema- zione, manualistica, dei
momenti con cui si erano venute determi- nando, in linee diverse, le ricerche
astronomico-astrologiche. E tale esito è la matematizzazione del fatalismo in
una coraggiosa consequenzialità - che sembra essere la novità che Manilio si
gloria di introdurre in Roma, - che se toglieva ogni possibilità sia alle cose
che agli uomini, senza alcuna preoccupazione per i problemi impliciti nella
soluzione di una universale casualità, cosi presenti e acuti· in Crisippo e
ancora in Cicerone (cfr. De divinatione), giustificava,' per altro verso, il
signi- ficato dell'impero di Augusto e di Tiberio, di quell'impero che appa-
riva realizzazione della ragion d'essere del tutto, di quella ragione che il
tutto ordina, fatalmente governando. Sotto questo aspetto di non poco momento
sembrano i versi con cui si apre il poema maniliano: Mi accingo, in poesia, a
derivare dal cosmo le divine arti e lç stelle consapevoli del fato che rendono
diversi i casi degli uomini, secondo celeste ragione: e, primo, con nuovi
carmi, commuovo l'Elicona e le selve che ondeggiano pei verdeggianti vertici,
recando inconsueti sacri- fici da nessuno mai prima ricordati. Ma tu, Cesare,
principe e padre della patria, che reggi questo mondo obbediente ad auguste
leggi e che assumi la dignità di Dio in una terra che ti si è affidata come a
un padre, dammi animo, dammi forze per cantare tema sf alto (1, 1-10). E,
sempre sotto questo aspetto, altrettanto indicativi sembrano i versi,
sottolineati dal Farrington (Scienza e politica nel mondo antico, cit., trad.
it., pp. 200-201), che si trovano sulla fine del V libro, con cui s'interrompe
il poema, ché, appunto, conclusasi la sistemazione del- l'universo in un ordine
fatale, in cui ai gradi e alle gerarchie stellari corrispondono i gradi, le
gerarchie, i privilegi della società terrena, Manilio esclama: Ma se fosse
stata concessa al popolo che costttutsce la maggioranza, una forza
proporzionata al suo numero, tutto l'universo sarebbe andato in fiamme (V, 742
sgg.). Entro i termini di tale necessità, di tale ferrea causalità,
l'astrologia e la teologia scientifica, potevano da un lato risolvere io ìina
disperata accettazione consapevole l'inesorabile situazione umana, in un'adeguazione,
da parte di ciascuno, al giuoco delle proprie sorti; dall'altro lato esse
sembravano, dal punto prospettico di chi aveva io mario il potere - essendo
nato in una felice congiunzione stellare - giustificare agli occhi dei piu quel
potere stesso, rompendo il quale si sarebbe rotto con- tro la medesima ragione
divina. E non era, questo, argomento di per- suasione politica da scartare,
mentre era ancora da scartare l'esito opposto alla fatalità, cioè la
possibilità, presupposta una volonta nelle stdle e perciò stesso nella
divinità, di operare mediante culti e simboli, rituali e tecniche su queste
volontà, modificandole. Se, dunque, ancora al tempo di Augusto e di Tiberio si
videro di malocchio, da parte della classe al potere, certi riti e culti
d'origine egiziana, si capisce, invece, l'importanza data all'astrologia
caldea, in- terpretata in chiave stoico-platonica, l'importanza data alla
divinazione, l'introduzione nelle corti degli astrologi, di chi, sapendo fare i
calcoli, poteva giustificare certe azioni, anche una cèrta politica. È stato
finemente sottolineato (Cumont, op. cit., pp. 217-18) che se un Destino
irrevocabile s'impone, nessuna supplica può cangiarne la volontà; il culto è
inefficace e le preghiere non sono altro, per riprendere un'espres- sione di
Seneca, che le "consolazioni di un animo ammalato, ché irre- vocabilmente
il fato consuma il proprio diritto [ius suum, ove assume un suo particolare
significato il termine diritto], né può essere smosso da alcuna preghiera"
(Nat. quaest., II, 35). "E, senza dubbio, alcuni adepti dell'astrologia,
come l'imperatore Tiberio, accantonano le prà- tiche religiose, persuasi che la
Fatalità governa tutte le cose ('circa deos ac religiones neglegentior, quippe addictus
mathematicae plenu- sque persuasionis cuncta fato agi': Svetonio, Tiberio, 66)...Si
erige a dovere morale l'assoluta sottomissione alla sorte onnipotente, la
gioiosa rassegnazione all'inevitabile, e ci si accontenta di venerare, senza
chie- derle nulla, la superiore potenza che regge l'universo... Le masse, tut-
tavia, non s'elevarono a quest'altezza di rinuncia" (Cumont, cit., p.
218). È vero, ma non bisogna schematizzare. In realtà qui si pone un problema
meno semplice. L'altro aspetto dell'astrologia, la possibilità di operare sul
destino e sulle cose, sugli dèi, anche se già da tempo presente in certi culti
d'origine egiziana o in sistemazioni fisiche che, recuperando suggestioni
magiche sul potere di piante, di pietre, di colori~ si muovevano sul piano
dell'atomismo seminale (vedi sopra, Bolo di Mende), si viene diffondendo in
forma laicizzata in epoca pio tarda, dalla seconda metà circa del n secolo d.
C. in poi; e, sempre in epoca pio tarda (seconda metà del 1 secolo d. C.) si
diffondono, di con- tro all'accettazione di un inesorabile fato, anche quei
culti e riti egi- ziani, quei culti mitriaco-solari, che spezzavano la
razionalità e la cau- salità, propagati proprio da certi imperatori (la cui
politica e il cui fondamento di potere erano ben diversi da quelli di Augusto e
ancora di Tiberio). E allora duplice diviene la questione, considerata storica-
mènte. La magia e il suo diffondersi in ambienti popolari se dapprima può
essere indicazione di una sia pur inconsapevole rivolta alla impo- sizione di
un inesorabile fatalismo, viene poi accolta da certi imperatori proprio in
contrasto con quella visione causale e necessaria di un tutto che limitava, e
non poco, il loro assoluto ed arbitrario potere, onde certi ritorni ad un
naturalismo razionalistico-teologico hanno il sapore di una ribellione a
precise situazioni storiche, in un appello ad un tipo di moralità in
contrapposizione ad altri, ove l'opzione per una certa concezione (la stoica,
come sarà per Seneca) ripropone la possi-
241 bilità di una scelta entro un complesso di condizioni
date, di mosse date, ma pur sempre possibili; mentre, per· altro verso, la
razionalizza- zione di certe forme teurgiche, mimetiche, alchimistiche, la cui
linea si vede bene da Plotino a Proclo, assume un significato in un tentativo
scientifico di risolvere il rapporto uomo-necessità e fatalità del tutto, in un
serio accantonamento della teurgia magica e irrazionale. Infine, se teniamo
presente l'aspetto piu strettamente matematico-logico del- l'astrologia, in uno
sforzo di risolvere in calcoli e misure i rapporti tra le stelle e delle stelle
con la terra, donde la possibilità della divina- zione e dell'oroscopia in
termini scientifici, per cui, liberata dal suo alone sacerdotale, l'astrologia
assume il carattere di un'ipotesi fisico- matematica in termini causali, ci
rendiamo conto del perché Vettio Valente (n sec. d. C.) dicesse che
"l'astrologia è la regina delle scienze" (Anthologiarum libri, ed.
Kroll, Berlino, p. 241), e perché, ancora una volta, astrologia e astronomia
potessero risolversi in unità con Claudio Tolomeo (u sec. d. C.), il grande
sistematore dei risultati del- l'astronomia (Almagesto) e dell'astrologia
(Tetrabiblos). A tal proposito, anzi, come indicazione del significato
scientifico dato allo studio degli astri, per determinarne le leggi e la loro
influenza necessaria sul mondo e sugli uomini, mediante calcoli
geometrico-mate- matici, sembra interessante riferire le seguenti parole del
Cumont: "Se i teorici [da Carneade in poi, i cui argomenti furono ripresi,
ripro- dotti e sviluppati sotto mille forme dai polemisti posteriori: gli
uomini che muoiono insieme in una battaglia o in un naufragio sono tutti nati
in uno stesso momento avendo avuto la stessa sorte?...] non giun- sero a
dimostrare la falsità dottrinale dell'apostelesmatica, !~esperienza doveva
provarne il vano sforzo. Senza dubbio numerosi hanno dovuto essere gli errori e
provocare crudeli disillusioni. Avendo perduto un bambino di quattro anni, al
quale era stato predetto un brillante de- stino, i ~uoi genitori
"stigmatizzano nel suo epitaffio il 'matematico mentitore la cui gran fama
ha preso in giro ambedue' (Corp. iscr. lat., VI, 27.140). Ma nessuno pensava di
negare la possibilità di tali errori. Abbiamo dei testi in cui gli stessi
facitori di oroscopi spiegano candi- damente e dottamente come si sono
ingannati, per non aver tenuto conto di un dato del problema (cfr. Palco in
Cat. codd. astr., I, 106-7), e, nel u secolo, Vettio Valente amaramente si
lamenta dei detestabili imbroglioni, che, erigendosi a profeti senza una lunga
preparazione necessaria, rendono odiosa o ridicola l'astrologia che osano
invocare (Vettio Valente, V, 9: Cat. codd. astr., V, 2, p. 32, ed. Kroll).
Bisogna ricordarsi che l'astrologia non era solo una scienza
(~LO"t'ijtJ.TJ), ma anche una tecnica(~), come la medicina" (Cumont,
cit., pp. 203-4). La figura di Demetrio «cinico" Giunti a questo punto
sembra difficile parlare in termini esatti di stoicismo, di platonismo, di
pitagorismo, ché ognuna di queste conce- zioni, in effetto, serve oramai non
piu che ad evocare certi principt isti- tuzionalizzati, certe scelte e opzioni
in favore di problematiche e di esi- genze assai diverse, per cui veniamo ad
avere, sia pur sotto il nome di Pitagora, di Platone, o di alcuni Stoici (anche
se certi testi sono real- mente ricalcati da testi platonici o stoici)
posizioni che, se davvero vo- gliamo rendercene conto, meglio sarebbe spogliare
di quelle etichette, riferendoci volta a volta a questo o a quel Platone, a
questo o a quello stoico (sottolineando quali testi di Platone o di stoici o di
Aristotele o della tradizione pitagorica sono sfruttati) filtrati attraverso
questa o quella figurazione storica. Non solo, ma ancora piu difficili appaiono
tali schematizzazioni quando si pensa che in realtà, almeno dal prin- cipio del
1 secolo d. C., le stesse scuole (l'Accademia, il Liceo, la Stoà) sono venute
meno, o sussistono per inerzia. Di scolarchi della Stoà, dopo Antipatro di Tiro
(morto nel 45 a. C. circa) non abbiamo piu notizia, se non, sotto Adriano e
Antonino Pio, di un certo Coponio Massimo; nel I I secolo d. C., di Aurelio
Eraclide Euripide e di Giulio Zosimiano; nel m secolo di Ateneo, Miwnio,
Calliete. Poi basta. Lo stoicismo con tutto il suo complesso dottrinario
costituitosi nei secoli è divenuto altro. E cosi, dopo Teomnesto di Naucrati,
fiorito nel 44 circa a. C., poco o nulla sappiamo di scolarchi veri e propri
dell'Accademia (Ammonio di Egitto, vissuto sotto Nerone, maestro di Plutarco di
Cheronea; Cal- visio Tauro, vissuto al tempo di Adriano e di Antonino Pio;
Attico, vissuto sotto Marco Aurelio: il discorso si farà diverso per la scuola
Alessandrino-romana, per quella Siriaca e di Pergamo, e per la scuola di Atene
e di Alessandria). E lo stesso va ripetuto per il Peripato. Di non poca importanza
è sotto questo aspetto la testimonianza dello stesso Seneca,2 che se da un lato
denuncia il fatto che piu non 2 Nato a Corduba, in Spagna, nel 4-3 a. C., da
Anneo Seneca, letterato di fama, retore, storico dell'eloquenza, e da Elvia,
donna di cultura, particolarmente interessata di studi filosofici, Lucio Anneo
Seneca, fu condotto a Roma, ancora bambino, da una zia materna, moglie di
Vitrasio Pollione, che fu in seguito prefetto d'Egitto per sedici anni, dove
soggiornò anche Seneca. Dei due fratelli di Seneca, il maggiore, Marco Anneo
Novate, che adottato dal retore Giunio Gallione, ne prese il nome, percorse la
carriera consolare e fu console e proconsole deii'Acaia (dopo la mone del
fratello Lucio, al quale era legato da profondo affetto, si uccise: a lui
Seneca aveva dedicato il De ira, il De vita beata e il perduto De remediis
fortuitorum); il fratello minore, Mela, di cui Seneca parla poco, ebbe per
figlio il poeta Lucano. Da giovinetto Lucio Anneo Seneca ebbe a soffrire non
poco per la cagionevole salute, minacciata anche 243 esistono le vecchie scuole,
dall'altro lato - sia pur riprendendo un motivo ciceroniano, ma per altro fine
- confessa che egli, in realtà, non è né stoico, né platonico, né altro, in
senso stretto. dalla sua continua applicazione negli studi. In Roma ascoltò
dapprima Sozione di Alessandria e Sestio il Giovane, poi Attalo, Papirio
Fabiano ~ il cinico Demetrio. Su consiglio del padre che temeva per la salute
del figlio, che preso dagl'insegnamenti di Sozione si era dato ad una
"vita pitagorica" eccessiva, e che temeva che il figlio fosse
accusato di pratiche occulte, Lucio Ann~ Seneca si dedicò alla carriera
oratoria ed a quella politica. Nominato questore nel 31 o 32 d. C., anche per
aiuto della zia, Seneca entrò in Senato ove fu ammirato per la sua eloquenza e
sapienza. Nel 39, una sua troppo libera orazione in Senato irritò l'imperatore
Caligola, che avrebbe voluto sopprimerlo. Seneca · si salvò per intercessione
di una favorita dell1mperatore, la quale sostenne eh'era inutile uccidere un
uomo già vicino alla morte per malattia. Ritiratasi dalla vita politica attiva,
Seneca rimase in contatto con la corte imperiale, godendo, come egli stesso
confessa (Cons. aJ Hellliam, V, 4), di potenza, di onori, di denaro. Si legò allora
di amicizia con Giulia Livilla, figlia minore di Germanico, sorella di
Caligola. Fu proprio la sua amicizia per la dignitosa principessa, che mai
volle adulare l'imperatrice Messalina, moglie dell'imperatore Claudio, che, nel
41, rovinò Seneca. Messalina, gelosa di Giulia, per l'influenza ch'ella aveva
sull'imperatore Claudio, riuscl a far sospettare Giulia di adulterio, tanto da
farla cacciare da corte e, poco dopo, da farla uccidere. Seneca fu coinvolto in
·questa losca faccenda. Forse si disse di lui ch'era stato amante di Giulia.
Seneca fu da Claudio condannato al- l'esilio e relegato in Corsica. Nove anni
durò l'esilio di Seneca. Egli ne fu richiamato nel 49, dopo la morte di
Messalina, da Agrippina, figlia di Germanico, nuova impe- ratrice. Tornato a
Roma, Seneca fu assunto da Agrippina in qualiti di precettore e, poi, di
consigliere del figlio Domizio che Agrippina aveva avuto da un suo precedente
matrimonio con Gn. Enobarbo. Domizio, fatto sposare ad Ottavia, figlia di
Claudio c di Messalina, e adottato dall'imperatore Claudio, fu contrapposto
dalla madre Agrip- pina, per la successione al trono, a Britannico, figlio
legittimo di Claudio c di Messa- lina. Morto Claudio nel 54, avvelenato, a
quanto sembra, da Agrippina, Domizio, col nome di Nerone, sal! al trono
imperiale (nel 55 Nerone fece uccidere Britannico). Seneca, insieme a Burro,
prefetto del pretorio, si sforzò, e in parte riusc!, d'indirizzare, su di un
piano di onesti e di dirittura morale e politica, l'azione del giovane impe-
ratore, sottraendolo all'infausto potere della madre. In effetto Seneca, tra il
55 e il 60, fu la reale guida della politica imperiale. Dopo la tragica fine di
Agrippina, fatta uccidere dal figlio (59 d. C.), Nerone si sottrasse sempre di
piu alla benefica influenza di Scneca, nel suo desiderio di un potere assoluto.
Lo stesso Senato, d'altra parte, si oppose a molte delle propOste di riforma,
tra cui una finanziaria a favore del popolo, avanzate da Seneca. G~ nel 58
Seneca era stato attaccato dai suoi nemici, attraverso Suillio che lo accusava
di avere accumulato in quattro anni esose ricchezze, di essersi incamerate
erediti estorte a vecchi incapaci, di avere usato usura sulle province c
sull'intera Italia. Seneca riuscl a far esiliare Suillio nelle isole Baleari.
Una chiara risposta a tali accuse l'abbiamo nel De vita beata. Dopo la morte di
Burro, avvenuta nel 62 - c'è chi ha sospettato per veleno propinatogll da
Nerone, - Scneca, avendo compreso che ogni suo tentativo sarebbe ormai fallito,
che la sua stessa vita era in pericolo, offerte le sue ricchezze
all'imperatore, gli chiese, ad un tempo, di abbandonare la corte. Nerone
rifiutll sia le ricchezze sia le dimissioni di Seneca, che, ruttavia, si ritirò
a vita·allatto privata, accantonando ogni lusso e fasto e vivendo, soprattutto
in campagna, dedito solo agli srudi e a scri- vere. Dopo la morte di Burro e
l'allontanamento di Seneca, sempre piu scellerato c terribile divenne il
governo di Nerone'. Si ordi allora una congiura, di cui a capo fu il nobile
Calpurnio Pisone. Vi aderirono cavalieri, senatori, soldati, donne, tra cui
l'eroica liberta Epicari. Sembra che Seneca, sia pur conoscendo la cosa, non
abbia avuto alcuna parte attiva nella congiura. I congiurati avevano intenzione
di liberani di Nerone e di nominare in sua vece Pisone. Ci fu anche chi pensò a
Scneca come 244 I rami della grande famiglia filosofica si
appassiscono per mancanza di polloni. Le due Accademie, l'antica e la nuova,
non hanno piu pontefice che le continui. In chi ritrovare la·tradizione e la
dottrina pirroniane? L'illustre, possibile imperatore. Scoperta la congiura,
molti dei suoi aderenti furono condannati a morte: tra essi Calpurnio Pisone e
Plauzio Laterano. Anche Sencca accusato di segreti accordi con Pisone - fu
condannato a morte. La sua morte fu esempio di grandezza morale, l'ultimo
appello di Sencca. Era l'anno 65 d. C. Anche se molte, non tutte le opere di
Sencca sono pervenute. Alcune sono andate perse (Ad Gallionem fratrem de
remediis fortuitorum, ricordato da Tertulliano, di cui, nel Medioevo, si fece
una rielaborazione dallo stesso titolo; De matrimomo, di cui si serv{ San
Girolamo 'per comporre l'epistola Ad /ouinianum; Villl paJris; Edortationes e
De officiis di cui fece uso nel VI secolo Martino di Brancara per la sua
Formula honestae vitae o De quattuor virtutibus); di altre abbiamo frammenti o
parti (orazioni fatte in lode di Messalina, per Plauzio Laterano; discorsi
composti per Nerone ai pretoriani, al Senato, in onore di Claudio, forse anche
quello al Senato per giustificare la morte di Agrippina; poesie, epigrammi; De
immtllura morte, Quomodo amicitia continenda sit, De superstitione dialogus;
probabilmente i Mora/es libri philosophiae non sono un'opera a si: andata
persa, ma una citazione per indicare il complesso delle opere morali; De motu
terrarum, De situ lndiae, De situ et sacris Aegyptiorum, ' De forma mundi). Nel
Medioevo andarono sotto il nome di Seneca florilegi e raceoolte di sentenze (De
copia verborum, ricavato dal De officiis e dalle Lettere a Lucilio; Monita Senecae,
Liber de moribus, Proverbia Senecae, ricavati dalle opere morali di Sencca; in
reald i Proverbia, costituiti di 149 sentenze in ordine alfabetico da N a Q,
derivano dal Liber de moribus, e furono redatte per proseguire le Sentenze, in
ordine alfabetico· da A a N, di Publio Siro). Quintiliano divide le opere di
Seneca in Orationes, Poemllla, Epistulae, Dialogi. Nei Oialogi Quintiliano
faceva rientrare tutte le opere filosofiche, anche quelle non a carat- tere
dialogico, tranne le Epistulae ad Lucilium. La tradizione manoscritta, invece,
ha raccolto sotto il titolo di Dialogi i seguenti scritti: De prouidentia, De
constantia sapientis, De ira libri tres, A d Marciam de consolatione, D e uitll
bealll, De otio, De tranquillitllle animi, De brevitllle uitae, Ad Polybir<m
de consolatione, Ad Helviam matrem de consollllione. Conosciuta gi~ da San
Girolamo e da S. Agostino, senza dubbio apocrifa ~ la corrispondenza tra Seneca
e San Paolo, composta da un cristiano; come apocrife sono le Notae Senecae. ln
ordine approssimativamente cronologico le opere di Seneca pervenute sono:
Consolatio ad Marciam (certo posteriore ·all'avvento al trono di Caligola,
sembra. sia stata composta tra il 37 e il 40; 'è scritta per consolare Marcia,
figlia dello stoico Cremuzio Cocdo, che, accusato da Sciano di lesa maesd per
avere parlato nei suoi Annali con troppa libem, per sfuggire alla condanna, si
suicidò; Marcia ottenne da Caligola di pubblicare gli Annali del padre, epurati
delle parti pericolose; madre di due figlie e di due figli, Marcia restò
profondamente depressa per la morte dei due maschi, particolarmente del
secondo, Metilio; la Consolatio è composta, appunto, per dare conforto a Marcia
colpita dalla sventura della morte di Metilio); De ira (com- posto certo sotto
Caligola, sembra che lo serino, in tre libri, mutilo dell'inizio del primo,
dedicato al fratello Anneo Novato, sia stato pubblicato subito dopo la morte di
Cali- gola, verso il 41; è un'analisi minuta e precisa delle umane passioni, di
cui la piu funesta è l'ira); Comolatio ad Helviam (probabilmente del 42 o 43,
per consolare la madre, rimasta vedova, dal dolore per l'esilio del figlio in
Corsica); Consolatio ad Polybium (mutila del principio, composta tra il 43 e il
44, in Corsica, per conso- lare il potente liberto di Claudio, Polibio, che
avrebbe potuto farlo tornare dall'esilio, del dolore per la morte di un
fratello); Epigrammi (alcuni scritti durante l'esilio in Corsica); De
bretJitate vitae (sembra del 49, al ritorno dall'esilio; dedicato a Paolino, prefetto
dell'annona, forse il padre di Pomponia Paolina che sar~ la seconda moglie di
Seneca;· il tema fondamentale dello serino è la "tesi che a torto gli
uonini si ma impopolare, scuola di Pitagora non ha ti'Ovato rappresentante
alcuno. Quella.dei Sesti, che la rinnovava con un vigore tutto romano, seguita
alla sua nascita con entusiasmo, è già morta. Di contro, quale cura, quali
sforzi perché il nome di un sia pur minimo pantomimo non vada per- duto! (Nat.
quaest., VII, 32). Chi ci ha preceduto non dev'essere nostro padrone, ma nostra
guida. La verità è aperta a tutti e non è possesso di nessuno: molto n'è
rimasto ancora per i futuri (Epist., 33, 11). Che male c'è a utilizzare· i
filosofi lagnano della brevità della vita, perch~ sono essi che la rendono tale
sciupandola con una prodigalità insensata in occupazioni vuote e inutili, ivi
comprese per alcuni le ricerche erudite, e nel compiacere alle loro passioni e
ai loro vizi"); De elementi~~ (indi- rizzato a Nerone da poco imperatore,
sembra sia stato scritto tra il 55 e il 56; secondo il Pr~c, poco
coovincentemente, sarebbe stato composto nel 54-55: l'opera è stata divisa in 2
libri; nella prima parte si discute il valore della clemenza, particolar- mente
opportuna per un sovrano; nella seconda parte - pervenuta mutila - si defi-
nisce la clemenza, distinguendola dalla misericordia, compassione, e dalla
venia, per- dono); De constantia sapientis (dedicato ad Anneo Sereno, prefetto
tligilum; non si sa esattamente quando sia stato scritto, certo tra il 55 e il
58; vi si dimostra che il saggio non può ricevere n~ in;,.;a n~ eontumeli{l);
De beata t1ita (sembra del 58, perché nella risposta ali"accusa che i
filosofi non conformano la propria vita alle teorie sostenute, si è veduta una
risposta alle accuse rivolte da Suillio contro Seneca; è giunto mutilo
dell'ultima parte; vi si disegna il ritratto del saggio ideale ed il conflitto
mocale, proprio del saggio reale); De otio (scritto nel 62 circa, è giunto
mutilo della prima e dell'ultima parte; vi si difende la tesi dell'opportunità
di riti- rarsi dalla vita politica attiva, qualora i casi lo.rendano
necessario); De wanquillitate animi (dedicato a Sereno, fu composto nel 62 o
nel 63; è una precisa disamina dell'uomo conBitto morale, e del conflitto tra
vita attiva e vita contemplativa, tra otium e negotium); De twotlidentia (certo
·dell'ultimo periodo, fu forse scritto nel 62 o nel 63; è dedicato a Lucilio,
scrittore, probabilmente autore del poemetto Aetna; Seneca, abbandonàta la
questione che il mondo non sottostà al caso ma è retto dalla Provvidenza, qui
tenta dimostrare che il corso del tutto è retto da una legge eterna, per
rispondere meglio alla domanda di Lucilio perché se il mondo è retto dalla
Prov- videnza, tanti guai càpitano agli uomini buoni; il centro dello scritto
s'impernia sulla tesi che non vi sarebbe vita morale senza conBitto e senza
ostacoli); De bene/ieiis (dedicato ad Ebuzio Liberale, in 7 libri, è
dell'ultimo periodo della vita di Seneca, probabilmente del 62 i libri I-IV,
del 63-64 i libri V-VI e il VII, che è chiaramente un completamento; vi si
discute a fondo, attrave~so l'esame di chi davvero sia bene- ficante e chi
beneficiato, il rapporto servo-padrone); Natfll'ales ()uaestiones (ne sono
rimasti 7 libri degli 8 che doveva contenere; sono dedicate a Lucilio e furQno
com- poste tra il 62 e il 64, il libro VI certo dopo il 63 perché vi si ricorda
il terremO(o di Pompei avvenuto in quell'anno; accanto a una descrizione dei
fenomeni naturali non poche volte Seneca cerca d'inquadrare l'opera mediante
riflessioni morali); Epi- stulae morales ad Lueilium (sono 124 lettere, divise
ora in 20 libri, scritte all'amico Lucilio tra il 60-62 e il 65; rappresentano
forse la piu alta opera di filosofia morale del pensiero romano). Notissime
sono le tragedie· di Seneca: Hercules, Troades (o Hecuba), Phoenissae (o
Thebais), Medea, Phaedra (o Hippolytus), Oedipus, Agamennon, Thyestes, Her-
cules Oetaeus. Citiamo infine il Ludus de morte Claudii, da Dione chiamato
Apol(oloeynthosis, l'inzueeamento di Claudio, ossia la consacrazione della
zucca (alla deificazione, apo- theosis, di Claudio, decretata dal Senato,
Seneca, in questa sua satira· menippea, com-. posta in prosa e· in versi,
rispondeva che, in effetti, era quella la deificazione di una zucca: lo scritto
è del 54 circa). delle altre scuole nella misura in cui sono nostri? (De ira,
l, 65). - Non mi lego ~ nessuno dei maestri stoici: ho anch'io diritto di
giudicare (De vita beata, III, 2). - Non mi sono dato la legge di non far nulla
contro il detto di Zenone o di Crisippo..., ed eco possiamo farci dei comandi
di Epicuro in mezzo al campo di Zenone (De otio, III, l; I, 4).- Possiamo
discutere con Socrate, dubitare con Carneade; riposarci con Epicuro, vin- cere
l'umana natura con gli Stoici, oltrepassarla con i Cinici (De brev. vit., XIV,
2). - Non mi sono alienato nessuno: di nessuno io porto il nome (Epist., 45,
4). - Non parlo con te la lingua stoica...; permettimi di usare parole comuni
(Ep., 13, 4; 59, 1). - Le anime piu celebri costituiscono una vera e propria
famiglia; scegli quella in cui vuoi entrare (De brev. vit., XV, 3). In realtà
l'opzione di Seneca per certi aspetti dello Stoicismo, il suo gusto per
commosse rievocazioni di esempi di uomini, vissuti e morti da uomini, per la
delineazione di certe figure di pensatori, le cui con- cezioni siano state
coerentemente vissute (Epicuro, Demetrio cinico), assumono un senso ed un
significato di validità, qualora se ne veda la genesi in certe situazioni
precise entro i termini della tormentata vita di Seneca, che ha vissuto e
operato in un periodo e in un ambiente estremamente tormentato e drammatico.
Sembra cosi di potersi rendere contò del significato dato da Seneca alla
"filosofia," intesa non come "concezione" o scienza per sé,
ma come cultura, come riflessione cri- cica, formatrice, attraverso la stessa
attività del pensiero, della persona umana - diremmo non come "filosofia
teoretica" né come "filosofia della morale," ma essa stessa
filosofia come moralità - educatrice e, perciò, liberatrice, consolatoria.
"La filosofia non sta nelle parole, sta negli atti: forma e plasma
l'anima, dispone la vita, regola le azio9i;... senza di lei nessuno pu~ vivere
intrepidamente, nessuno senz'affanni" (Ep. a Luc., 16, 3). "Pur
concedendo a Posidonio d'aver portato un gran contributo alla filosofia, non
posso ammettergli che la filosofia abbia trovato le arti di uso co- mune, né
saprei darle la gloria dei mestieri fabbrili... La sapienza sta piu in alto,
non delle mani maestra, ma delle anime" (Ep. a Luc., 90, 7, 25-26). Il
pensiero di Seneca e, in conclusione, il suo àppello a una vita ra- gionevole
(non eroica - gli eroi si ammirano e si presentano come esempi, - non puramente
passionale, cioè non riflessa) non è scaturito né da un'esercitazione
scolastica anche in filosofia ci perdiamo in cose inutili, impariamo per la scuola
anzi che per la vita (Ep. a Luc., 106, 12) - né dal gusto per una costruzione
non contraddittoria, o perfettamente corrispondente ad analisi logiche e
linguistiche, ma da una continua
riflessione su esperienze di vita: dalla presenza, nella vita, del dolore,
della paura, da una o da altra precisa situazione umana, in un certo ambiente,
in una certa ora, dalla riflessione sulla propria vi- gliaccheria,
dall'esperienza - vivissima in Seneca - che l'uomo è non un tutt'uno, ma un
insieme di linee spezzate, contraddittorie. Di qui l'impossibilità di
presentare la concezione di Seneca sul tutto e sulla realtà come rispondente o
meno a una precostituita • filosofia>" estraendo dalle opere di lui -
ognuna delle quali risponde a situazioni precise e individuabili nel tempo,
onde andrebbero lette cronologicamente - una specie di sentenziario morale,
unico e valido sempre. Tutta questa folla che litiga nel foro - scriveva Seneca
in una delle sue prime opere, la Consolazione a Marcia, - che si (diverte] nei
teatri e prega nei templi, cammina verso la morte a passi piu o meno· rapidi:
un solo cenere eguaglierà le cose che ami e che veneri e quelle che disprezzi.
Questo significa il famoso detto che figura tra gli oracoli pitici:
"Conosci te stesso." Che cosa è l'uomo? Un fragjle vaso che si può rompere
a qual- siasi scossa, a qualsiasi colpo: non è necessaria una grave tempesta
per distruggerti: dovunque andrai a sbattere ti infrangerai. Che cosa è l'uomo?
Un corpo debole, fragile, nudo, senza difese naturali, bisognoso del soc- corso
altrui, esposto a tutte le ingiurie della sorte... Da quando vediamo la prima
volta la luce, entriamo nel cammino della morte e ci andiamo avvicinando alla
mèta fatale... Niente è piu fallace della vita umana, niente è piu insidioso:
nessuno sarebbe disposto ad accettarla, se non gli venisse data quando non è
ancora in grado di capire... (Cons. a Marcia, 11, 2-3; 21, 6; 22, 3). E che?
Pretendo di essere un saggio - esclama Seneca in un'altra delle sue prime
opere, la Consolazione alla madre Elvia;- nient'af- fatto. Se avessi il diritto
di professarmi tale direi che non sono infelice... (5, 2). Io non sono un
saggio - dirà ancora Seneca ne La vita felice, venti anni dopo circa - e non lo
sarò. Esigi dunque da me non che stia alla pari con i migliori, ma che sia il
migliore dei malvagi: a me basta togliere qual- cosa ogni giorno dai miei vizi
e rimprover~rmi i miei errori. Non sono giunto alla perfetta sanità morale e
neppure vi giungerò...: io vivo spro- fondato in difetti di ogni genere (De
vita beata, 17, 3-4). La riflessione di Seneca si muove, sempre, da si.tuazioni
singolari e precise, da fatti di esperienza o da determinate impressioni e
condizioni psicologiche: dal tentativo di consolare una madre per la perdita
del suo bambino (Ctmsolatio ati Marciam, composta tra il 37 e il 41 circa) a
quello di consolare sua madre Elvia per il dolore ch'essa prova per l'esilio
cui, per avvenimenti politici, è stato costretto, lui, Seneca (Ctm- solatio ad
Helviam, del 42 o 43); dal compromesso di aecattivarsi Po- libio - liberto di
Claudio - che può farlo rientrare dall'esilio in Cor- 248 sica,
consolandolo per la morte di un suo fratello (Ccmsolatio ad Po- lybium, del 43
o 44); alla riflessione sull'assurdità dell'ira (De ira, com- posta, contro
Caligola, certo dopo la morte di lui, 41, in cui Seneca, denunciando la
disumanità dell'ira, vede in essa gran parte dei mali della storia, il velen~
che spezza i rapporti umani e scioglie la società: "finché viviamo tra gli
uomini rispettiamo l'umanità!": III, 43, 5); alla riflessione sulla
brevità della vita {De brevitate vitae, del 49 circa, dopo il ritorno a Roma
dall'esilio) e su quella che può essere una vita compiuta (De vita beata,
posteriore all'esilio, quando ancora Seneca esercitava la sua funzione di
consigliere di Nerone, del 58 circa); al tentativo di delineare per Nerone lo
schema di una ideale condotta di vita politica in nome della società umana (De
clementia, del 55, poco dopo l'avvento di Nerone); alla riflessione sul proprio
fallimento poli- tico che lo ha costretto a ritirarsi dalla vita politica
attiva {De constantia sapientis, De otio, De tranquillitate animi, De
beneficiis, De provvi- dentia, opere scritte tutte tra il 59 e il 61);
all'ultima meditazione sulla natura e sul divino (Natura/es quaesticmes, in VII
o VIII libri, composti tra il 62 e il 64); in un continuo approfondimento e
colloquio di sé con sé che diviene educazione, costruzione di sé, liberazione e
perciò stesso discorso con altre anime, educazione e liberazione degli altri:
insieme; ogni volta ricominciando da capo, discendendo ogni volta agli inferi
della propria coscienza, in un ·sempre aperto conflitto morale (di qui la
stessa forma dialogica di alcune opere di Seneca - Ccmsolatio ad Marciam,
Ccmsolatio ad Polybium, Consolatio ad Helviam, De provi- dentia, De constantia
sapientis, De vita beata, De otio, De tranquillitate animae, De brevitate
vitae, De ira, - che non è solo artificio retorico, e che assume il suo
significato piu alto, di ragionamento insieme e di avviamento, nelle bellissime
Lettere a Lucilio, composte tra il 63 e il 65, l'anno della morte di Seneca).
Seneca, certo, non fu un predicatore. L'opera sua è l'opera di un ~orno
tormentato e tormentante, vissuto in un'epoca tormentata, in mezzo a gente (la
corte di Caligola e di Claudio prima, di Nerone poi) estre- mamente complicata,
di là dal bene e dal male, almeno secondo i vecchi parametri. Sotto questo
aspetto Seneca rappresenta davvero la coscienza di una certa situazione
storica, la crisi di un certo complesso di valori, dando voce, appunto, e senso
a tutta un'epoca, anche se, di volta in volta, egli ha preso le mosse da
particolari situazioni, da singolari com- promessi e dubbi. Parlando in termini
di retorica, diremmo che le "tesi" di Seneca sono la conclusione
delle "ipotesi" ch'egli, di volta in volta, ha posto in discussione.
Non va intanto scordato che Lucio Anneo Seneca era 249 figlio di un celebre uomo di
lettere, oratore, storico dell'oratoria, Anneo Seneca di Cordova. Oratore era
anche un suo fratello, Marco Anneo Novato,(adottato dal senatore Giunio
Gallione, ne assunse il nome), che fu console e proconsole dell'Acaia (a lui
Seneca dedicò il De ira, il De vita beata, il De remediis fortuitorum, perso,
citato da Tertulliano, Apol., 50). La madre di Seneca, Elvia, fu donna di cultura,
particolar- mente interessata alla filosofia. Ella avviò il figlio a tali
studi. Seneca, da bambino, giunto a Roma dalla Spagna - dov'era nato nel 34 a.
C., a Cordova - insieme a una zia materna, moglie di Vitrasio Pollione -
prefetto per sedici anni dell'Egitto, dove per un certo periodo fu anche
Seneca, - se da un lato s'interessò vivamente per gl'insegnamenti prima di
Sozione di Alessandrja e di Sestio il giovane e poi di Attalo, di Papirio
Fabiano e di Demetrio cinico, dall'altro lato, spintovi soprat- tutto dal padre
- che temeva per·la salute cagionevole del figlio, il quale preso
dagl'insegnamenti del pitagorico Sozione conduceva un'ec- cessiva morigerata
"vita pitagorica," e per i pericoli che in quel tempo correvano i
pitagorici, sospetti di pratiche occulte, - si dedicò alla car- riera oratoria
ed a quella politica. Nominato questore, nel 31 o 32, anche per aiuto della zia
("dalle -sue braccia fui condotto a Roma, per le sue affettuose e materne
cure ritornai alla salutè dopo una lunga malattia, per la mia elezione a
questore ella usò la sua influenza, e lei, che non trovava neanche l'ardire di·
parlare e salutare ad alta voce, per amor mio vinse la sua timidezza; né la sua
vita ritirata, né il suo riserbo campagnolo in mezzo a tanta sfrontatezza
femminil!!, né l'indole sua pacifica e solitaria, l'arrestarono: e per me essa
divenne ambitiosa": Cons. ad Helv., 19, 2), Seneca entrò in Senato, ove fu
ammirato per le sue capacità oratorie. "Narra Dione Cassio che nell'anno
39 d. C. Seneca, 'uomo che i romani tutti del suo tempo ed altri molti superava
per sapienza,' corse pericolo di morte non per alcuna sua colpa, ma perché in
Senato, al cospetto di Cesare (Gaio, detto Caligola), aveva pronunziato una
bella orazione. Ma il principe, pur avendone decisa la morte, lo risparmiò
cedendo ai consigli di una favorita la quale assicurava che Seneca, preso da
consunzione, sarebbe morto fra poco (cfr. Dione Cassio, LIX, 19, 7). L'aneddoto
di Dione è oscuro: ma esso nasconde una qualche dignitosa azione del giovane
senatore, che invano chiederemmo quale sia stata alla meschina e acri- moniosa
testimonianza di quello storico. [La principale testimonianza sulla vita di
Seneca è quella di Tacito: Tacito parla di Seneca con piu avveduto criterio,
senza predilezione, con un certo studioso riguardo delle fonti piu ostili e con
la sospettosità propria della sua indole. La narrazione di Dione è inquinata
dalla palese avversione che egli nutre per Seneca e dalla meditata ed infida
malignità delle fonti cui attinge. Perdute sono le Storie civili di Plinio,
nemicissimo a Seneca, ed è per- duta l'opera di Fabio Rustico, che Tacito
ricorda come lo storico a Seneca piu favorevole, Annali, XIII, 20; poche
notizie si ricavano da Svetonio]. Sarebbe infantile credere che una condanna a
morte fosse solo dovuta al malumore invidioso di Gaio per una bella orazione di
Seneca; un imperatore di Roma, fosse anche Caligola, non può condan- nare a
morte un senatore per un successo oratorio, quando questo non sia pure un
successo politico; e Seneca dovette allora parlare molto, anzi troppo
liberamente in quel consesso a cui invano piu tardi cercò di restituire la
perduta e mai piu ripresa dignità. Seneca si vendicò inesorabilmente di
Caligola che in tutte le opere ci presenta come il tipo del piu miserabile e
bestiale tiranno (cfr. De ira, I, 20; III, 18-20; Ad Helv., 10, 4; Ad Polyb.,
17, 3; De tranq. an., XIV; De brev. tlitae, XVIII; De const. sap., XVIII; De
benef., IV, 31; Nat. quaest., IV, pref., 17)" (C. Marchesi, Seneca,
Messina, pp. 10-12, 3). Seneca, allora, abbandonò l'azione diretta, mediante
l'avvocatura, e abbandonò la pubblica carriera politica, sia per il pericolo
corso, sia perché si rese conto che molto piu efficace sarebbe stata in quella
certa si- tuazione politica la sua azione, mediante altro tipo di convinzione.
Sotto questo aspetto sembra chiaro in che.senso si possa dire, che, in realtà,
Seneca non abbandonò né la vita politica né l'oratoria. Ogni sua opera, anzi,
fu un'intelligentissima e abilissima orazione, in un'ana- lisi minuta e
concreta delle passioni umane, nel tentativo di indirizzare, entro i termini di
una precisa concezione dell'uomo e della natura umana, coloro cui si rivolgeva,
fosse pure se stesso, ad essere uomini sul serio tra uomini, sapendo, d'altra
parte, sia per esperienza personale sia conoscendo a fondo uomini e cose del
suo tempo, quanto complicato, difficile, non umano ---conflitto di passioni,
spezzato, non tutto un blocco - sia l'uomo. Vicinissimo a Cicerone, soprattutto
nell'intenzione di operare mediante la parola su di un certo gruppo di uomini
in fun- zione di un certo ideale politico e di un certo ideale di uomo, nel ri-
tenere la filosofia cultura con cui formare l'uomo, liberarlo dalle sue paure,
dal timor della morte, renderlo uomo (si veda, ad esempio, il topos della
filosofia salvatrice, della filosofia senza di cui nessuno può vivere da uomo,
senza affanni, senza il terrore della morte: Cicerone, Tusculanae disp., V, 2,
5-6; Seneca, Ep. a Luc., 16, 3; da cui anche il topos della consolatio), in uno
sforzo e in una fatica con cui l'uomo costituisce sé razionalmente, volta a
volta, in una conquista personale (donde l'avvicinamento di Seneca ad Epicuro);
Seneca è da Cicerone lontanissimo nel modo di intendere la funzione retorica
dena filosofia, ché altra è venuta ad
essere la situazione.politica, l'ambiente, gli uo- mini su cui operare, altro
l'impegno. Sottilissimo studioso delle passioni umane, Seneca che, su sua con-
fessione, aveva sentito profondamente la lezione di Sestio il Giovane, di
Sozione, di Fabiano Papirio, di Demetrio, che vide attraverso Cali- gola e
Claudio far lentamente naufragio quella respublica, delineata da Cicerone,
apparentemente realizzata da Augusto, per ciò che gli fu possibile, tentò di
formare sé e gli altri come uomini: uomini che po- tessero, in un reciproco
rispetto costituire una verace res-publica, in una misura ed armonia, poste
come dover essere. Di qui i due motivi su cui s'intreccia tutta la meditazione
di Seneca: da un lato una descri- zione dell'uomo - triste, infelice,
combattuto, impaurito degli altri, e perciò desideroso di prevalere sugli
altri, ma che anche fugge da se stesso; - dall'altro lato l'uomo quale dovrebbe
essere, vincitore di ~ in quanto conflitto di passioni,
"con-vinzione" di passioni, in una mi- sura che dovrebbe essere la
stessa razionalità, in ciò eguale agli altri uomini, ciascuno a suo modo, in
un'armonia e ordine che ci trascende dal di dentro, che si pone come dovere da
realizzare, e che trova il suo fondamento in una ideale razionalità del tutto.
Già in tal senso si ve- dano le prime due opere di Seneca, la Consolatio ad
Marciam, del 39, e il De ira del 41 circa, dedicata al fratello Novato. Scrive
Seneca nella Consolatio ad Marciam (XXXI, 6): "A ciascuno viene dato ciò
che gli era stato promesso: i fati seguono il loro corso e non aggiungono né
tolgono mai nulla a quanto una volta per tutte hanno stabilito... Da quando
vediamo per la prima volta la luce, entriamo nel cam1nino della morte. I
destini compiono la loro opera"; e nel De ira (III, 43, l, 5):
"Perché non mettere ordine in codesta tua breve vita e renderla tranquilla
per te e per gli altri? [L'uomo irato è un folle, chi non sa porre ordine in
sé, chi non scopre sé in quanto ragione, cioè misura, è uomo rotto nelle passioni,
è in realtà non uonto]...Fin tanto che respiriamo, finché viviamo tra gli
uomini, rispettiamo l'umanità." Di qui, anche, due altri motivi dell'atteggiamento
senechiano. Una qual certa contraddizione tra l'ordine del tutto stoicamente
scandentesi in una necessità fatale, che fa si che ogni aspetto della realtà
sia là dove è bene che sia, in un'adeguazione della ragion d'essere di cia-
scuna cosa alla ragione d'essere, all'egemonico del tutto, e la possibi- lità
da parte umana di adeguarsi volontariamente a quell'ordine. Posto che tutto è
fatale, che tutto è come deve essere, anche le passioni, anche l'uomo
disarticolato e spezzato nella sua molteplicità, non possono es- sere,
nell'ordine, se non come sono. Non si vede bene perciò come l'uomo possa - se già
nell'ordine non è scritto - da folle, da sragio- 252 nevole, da
groviglio di passioni, passare all'ordine, rendersi conto, rea- lizzarsi
secondo ragione, come cioè possa passare dal male al bene; e anche come, la
società rotta, ove predominano queste o quelle passioni, dove predominano
questi o quegli uomini, possa trasformarsi in società, come riconoscimento
dell'eguale per tutti ordine sociale, fatto a mo- dello del presunto ordine
sociale del tutto. 2) Un conflitto sempre presente in Seneca, tra quel mondo
assoluto e come posto dietro le spalle, tra un dovere assoluto, per cui è esclusa
ogni possibilità d'azione onde il "saggio" stoico resta avulso da
ogni società umana, fuori di qualsiasi sfera d'azione, - è esclusa ogni
possibilità di convinzione, di educazione, è escluso lo stesso conflitto
morale; e quello stesso ordine e misura, quella uguaglianza, cui si giunge, non
in quanto data, e in quanto ad essa ci si adegui per via puramente conoscitiva,
ma in quanto essa si scopre, si pone attraverso lo stesso conflitto morale,
nell'atto in cui ciascuno oltrepassa _la lotta delle passioni, componendo le
pas: si~ni stesse, in un ordine che non c'era prima, ma che, appunto, si troya
"nuovo," attraverso la stessa riflessione. La filosofia perciò non è
filosofia della morale, ma filosofia morale, che prospetta, non piu dietro le
spalle, ma dinanzi agli occhi, termine di realizzazione, l'ordine e la razionalità
della stessa natura. Tale razionalità, dunque, non è piu un dato, ma una
"invenzione," che permette sia la comprensiòne delle oscillazioni e
dei conflitti, sia, attraverso il dialogo e la riflessione comune, la
composizione della plu- ralità delle ragioni, l'avviamento, la possibilità
della convinzione, in una sempre rinnovantesi apertura. Entro un certo tipo di
cultura - l a koiné culturale stoico-platonica, di cui abbiamo parlato, ancora
vi- vissima in Roma al tempo della giovinezza di Seneca, tra Augusto e Tiberio,
- entro i termini di una precisa situazione sociale,· quale si era determinata
tra la fine dell'impero di Tiberio e il periodo in cui ebbero in mano le sorti
di Roma Caligola, Claudio e quella terribile donna che fu Agrippina, in tale
conflitto stanno il mordente e il signi- ficato della morale senechiana. Non
solo, ma anche sembrano emergere di qui molte delle oscilla- zioni di Seneca,
sia entro i limiti della sua concezione, sia, per altro verso, relativamente
all'ambiente e agli uomini per i quali Seneca ha scritto, fino, pare, a
giungere, talvolta, ai piu gravi compromessi in funzione, certo, del tentativo
di modificare se stesso e gli altri. E quando si dice altri, bisogna pensare
non ad astratti altri, ma a questo o quel- l'amico, in questa o quella
situazione: al fratello Novato, cui sono dedicati i l D e ira, i l D e vita
beata; a Sereno, cui sono dedicati i l De constantia sapientis, il De otio, il
De tranquillitate animi; a Paolino, cui
è dedicato il De brevitate vitae; a Ebuzio Liberale, cui è dedicato il De
beneficiis; a Lucilio, cui sono dedicati gli Epistolarum moralium libri e le Natura/es
quaestiones; e, per altro verso, soprattutto quando Seneca fu maestro e
consigliere di Nerone, a Nerone per il quale Seneca scrisse il De clementia,
l'anno dopo l'avvento di Nerone al potere, dal quale dipendevano quegli altri.
Non a caso nel Proemio del De Clementia (1,2), Seneca fa dire a Nerone:
"Sono io che decido della vita e della morte delle genti; il destino e la
condi- zione di tutti sono nelle mie mani; quel che la. Fortuna spartisce a
ciascun mortale, lo fa conoscere per, bocca mia; al mio responso è subordinata
la letizia delle città e dei popoli; nessuna regione è prospera se non per mia
volontà, se non per mio favore... Caduta e nascita delle città si decidono nel
mio tribunale." Sapendo usare certe tecniche, co- noscendo la psicologia
di Nerone, si tentava di realizzare in altro modo quello Stato e quella società
entro la quale e per la quale Seneca operava. Certo, ogni situazione implica
dei compromessi e delle tecniche d'azione diverse, pur di realizzare, anche
approssimativamente, certi fini. Di qui, nel tentativo di educare all'ideale
"saggio" stoico, il trasfor- marsi del rigidismo della morale stoica,
posta, appunto, non piu come dato, ma come "inventio," dovuta alla
stessa capacità (propria del- l'uomo) di costituirsi come ordine razionale, per
cui ciascuno può, co· gliendo i propri limiti, le proprie condizioni, senza
dubbio dati, entro questi, realizzare se stesso, conoscendo la propria natura,
volta a volta scegliere le proprie mosse, anche se esseJ nelle loro
possibilità, sono date. Se chi latra contro la filosofia, dirà come il solito:
"Perché parli da forte piu di quanto da forte tu non viva? Perché fai la
voce sommessa davanti al piu potente e stimi il denaro uno strumento necessario
o ti turbi per un danno ricevuto e piangi alla notizia che ti è morta la moglie
o l'amico, e ti preoccupi del tuo buon nome e ti offendi delle chiacchiere
malevole? Perché i tuoi fondi sono coltivati piu di quanto non richiedano le
necessità naturali? Perché non ceni conforme alle regole che predichi? Perché
le tue suppellettili sono cosi eleganti? Perché in casa tua si beve del vino
che ha piu anni di te?... Perché hai fatto piantare alberi che da- ranno solo
ombra? Perché tua moglie porta alle orecchie il reddito di un ricco casato?
Perché i tuoi giovani servi sono vestiti di abiti preziosi? Per- ché in casa
tua è un'arte quella di servire a tavola e l'argenteria non è disposta come
viene a caso, ma il servizio è cos{ accurato, e ha persino uno scalco
specializzato?..." Se vuoi rincarerò la dose dei rimproveri e mi muoverò
piu rimbrotti di quel che immagini: ma per ora ti rispondo: "lo non sono
un.saggio e non lo sarò. Esigi dunque da me non che stia alla pari con i
migliori, ma che sia migliore dei malvagi: a me basta togliere qualcosa ogni
giorno dai miei vizi e rimproverarmi i miei errori..." "Però,"
tu dirai, "in un modo parli e in un altro vivi." Questo rimprovero, o
mali- gni, o nemici dei piu virtuosi, fu già mosso a Platone, a Epicuro, a
Zenone: tutti quelli predicavano di vivere non come essi stessi vivevano, ma
come avrebbero dovuto vivere. Parlo della virtU, non di me, e quando mi scaglio
contro i vizi, comincio dai miei: quando potrò, vivrò come dovrei. Continuerò a
lodare non la vita che conduco, ma quella che so che bisognerebbe condurre;
continuerò ad adorare la virtU e a seguirla, se pure arrancando a una bella
distanza... (De vita beata, XVII-XVIII). Di qui anche un'altra apparente
oscillazione di Seneca: da un lato l'esigenza propria del "saggio"
stoico di ritirarsi dalla.,vita mondana, dall'altro lato l'esigenza, anche a
costo di venir meno alla rigidezza del- l'unica virtu stoica, di operare nel
mondo, di modificare, attraverso la parola, l'esempio, anche il compromesso, la
societa di fatto. Nella sua altezza, nella sua comprensione che tutto è come
deve essere, che tutto è bene e che perciò non vi è nulla da fare, il
"saggio" da tutto mona- sticamente si ritira, non piu uomo tra
uomini. Solo che cosi: egli viene, alla fine, a disprezzare tutti,
nell'orgogliosa affermazione che, tranne il saggio, il resto dell'umanità è
folle, sragionevole. In un'evasione da questo mondo, per il "saggio"
tutto' è indifferente. Ma era qui implicita una grave contraddizione, di cui
Seneca chiaramente si rende conto. Il pericolo della "vita stoica" è
ch'essa: si risolve in una "pigra ratio," e che nel riconoscimento
che tutto è indifferente, che il solo saggio è razionale, di là dalle passioni,
in realta, alla fine, non si com- prende piu che tutto, proprio perché è come deve
essere, perché è na- tura, è bene (o meglio, in sé né bene né male), e, perciò,
che nulla è disprezzabile, nulla indifferente. Se Tizio o Caio, io stesso,
siamo piu presi dall'una cosa che dall'altra, patiamo (amiamo o odiamo) una
per- sona piu di un'altra, spezzati in tante ragioni o passioni, ché le pas-
~ioni sono, per cosi dire, ragioni in libertà - saremo avari o eccessiva- mente
generosi,.irosi, violenti, vili, ecc. - in modi esclusivi ed univoci;:erto, su
di un piano polemico, possiamo dire a Tizio o a Caio, a me >tesso, che quelli
che si ritengono beni, quell'esclusiva ricchezza, quel- l'esclusivo amore o
odio, sono indifferenti. Eppure quei beni che in sé non sono né beni né mali,
neppure sono indifferenti se considerati sul piano del conflitto morale. Sotto
questo aspetto sembra chiaro in che senso Seneca possa dire che il bene e il
male stanno in noi e tocchi a ciascuno di comporre se stesso in unità. Non
solo, ma un altro peri- colo, proprio dello stoicismo è che il richiamo a
vivere secondo la ra- gione universale, venga, in conclusione, ad annullare
l'affermazione, sempre stoica, che; ciascuno viva secondo la sua ragione, cioè
secondo ciò che, sia pur nell'ordine totale, a ciascuno compete. L'annullamento
della propria ragione nella ragione universale porta a non vivere piu secondo
una ragione, a non comprendere piu alcuna ragione, e, perciò, al di- sprezzo
per cose e uomini, in un atteggiamentò piu cinico che stoico. In realtà, per
Seneca, comprendere cose e uomini, comprendere che ciaseun uomo nasce in una
certa condizione e situazione che non dipen- dono da noi, comprendere che
l'uomo è non unità, ma molteplicità, implica non una mèra contemplazione di un
ordine astratto, ma la volontà di un ordine che si scopre attraverso la stessa
riflessione, at- traverso il faticoso tentativo di porre in sé misura, di volta
in volta, cogliendo la propria misura entro i nostri limiti e le nostre
condizioni, per cui quell'ordine si rifà nuovo ogni volta come termine di
realizza- zione, per ciascuno, entro le proprie condizioni e limiti, diverso.
Di qui l'esigenza senechiana di agire, di inserirsi, almeno finché ciò è
possibile, è utile, non controproducente, in una certa situazione umana,
scegliendo di volta in volta i propri mezzi di azione, per avvicinare sé e gli
altri, ciascuno per ciò che gli compete, a quell'armonia sociale, specchio
della ragion d'essere del tutto, entro cui, una volta rovesciati i terriùni,
ognuno non perde se stesso, in un ideale reciproco rispetto, in cui consiste la
virtU, cioè l'eccellente realizzazione di ciascuno in quanto uomo, e perciò la
piu genuina tranquillitas, onde, appunto, la virtu, insiste Seneca, è premio a
se stessa (recte facti fecisse merces est: Ep. a L., 81, 19; cfr. anche De
clementia, I, 1). L'appello di Seneca ad essere se stesso, a non essere presi
dalle sin- gole passionì univocamente, a costituire sé e a scoprire sé
razionalità, implica l'allontanamento dalla folla, dalla massa degli uomini,
ché vi- vere la vita degli altri, della folla, significa perdere se medesimi,
vivere ancora una volta secondo passione, in un annullamento nell'anonimo,
entro i termini di un'abitudine, significa non vivere socialmente (e folla può
anche voler dire un ristretto gruppo di gente). Il che non significa affatto
ritirarsi nel deserto: significa anzi, per quel che è possibile, per quel che
le circostanze e il destino concedono, tentare di sciogliere gli altri in
persone, essere utili agli altri, quando gli altri ne abbiano bi- sogno, senza
di cui, in realtà,· non c'è verace società, poiché fin quando v'è folla, v'è
solitudine assoluta. Non solo, ma l'appello ad essere se stessi significa anche
tentare di realizzare un'autèntica vita associata, nel reciproco rispetto, ché
ogni uomo, pur diverso dall'altro, quanto piu è se stesso, è uguale all'altro
in quanto uomo (per cui, sotto questo aspetto, non vi sono né servi né
padroni); significa, finché è possibile, agire e modificare, attraverso il
consiglio e la parola, su ·chi abbia in mano il potere per avviare lo Stato
terreno ad uniformarsi alla Città celeste (De otio, IV). Altrimenti, quando tale
azione può diventare inutile e controproducente, lo stesso ritirarsi da:lla
vita politica in atto insieme agli amici può essere l'indicazione del modello
di un'auten- tica vita politica. Ritirati in te stesso quanto puoi l - esclama
Seneca, scrivendo a Lucilio, negli anni del suo costretto abbandono della vita
politica diretta. - Tratta coloro che ti potranno fare migliore, accogli coloro
che tu puoi fare migliori; sono vantaggi reciproci codesti, e gli uomini mentre
insegnano, imparano. Il desiderio vanitoso di fare brillare il tuo ingegno non
ti porti in mezzo al pubblico per leggere e dissertare. Ti consiglierei di
farlo se tu avessi merce degna di codesta gente; non vi è nessuno che ti possa
intendere: uno, forse, o due. Ma, dirai, per chi allora ho imparate tante cose?
Non temere, non hai perduto l'opera tua se le hai imparate per te stesso '(Ep.
a Luc., 7, 8-9). Chi non ha sollecitudine per alcuna cosa, sa vivere per se
tesso. Ma chi ha fuggito gli uomini e gli affari, che le delusioni hanno
allontanato dal mondo, chi non ha saputo resistere alla vista degli altri pio
felici, chi come animale timido e inerte si è nascosto per paura, costui non
vive per sé, ma, turpitudine suprema, per il ventre, il sonno, la libidine: non
vivere per nessuno è non vivere neppure per sé (Ep. a Luc., 55, 4-5). E quando
Seneca sperava, forse, ancora di potere attwamente agire, cos{ scriveva nel De
tranquillitate animi: Ecco quale deve essere la condotta del saggio: quando la
fortuna pre- vale e gli toglie la possibilità di agire, non volga subito le
spalle e non fugga senza le armi cercando un nascondiglio, quasi ci fosse un
luogo in cui la fortuna n~tn·possa raggiungerlo, ma si dia ai pubblici affari
con maggior misura e scelga un'occupazione nella quale possa ancora essere
utile alla città. Non può fare il soldato: aspiri alle cariche civili. Deve
vivere da privato: faccia l'oratore. Gli è stato imposto il silenzio: giovi ai
cittadini con la muta assistenza. È pericoloso persino entrare nel foro: in
casa, agli spettacoli, nei banchetti, si comporti da buon compagno, da fedele
amico, da convitato temperante. Gli sono inibiti i doveri del cittadino:
adempia quelli dell'uomo. Per questo, noi [stoici], con animo grande, non ci
siamo rinchiusi dentro le mura di una sola città, ma uscimmo al con- tatto
dell'orbe intero, e dichiarammo nostra patria il mondo, per potere dare alla
virto uri can:tpo pio vasto d'azione. Ti è stato precluso il tribu- nale e ti
si interdicono i rostri e i comizi? Volgiti a guardare quale distesa di ampi
spazi si allarghi dietro di te, e quanta folla di popoli: per grande che sia la
porzione che ti precluderanno, te ne rimarrà sempre una pio grande... Combatti
con la voce, con l'incitamento, con l'esempio, con l'anima. Anche con le mani
tagliate trova modo di soccorrere i suoi chi 1 ~siste e aiuta con il grido. Tu
fai qualcosa di simile: se la sorte ti ha allont-.'lato dalle prime posizioni
della vita pubblica, tieni duro lo stesso e aiuta cvn la tua voce, e se
qualcuno ti comprime la gola, resisti ancora e aiuta col silenzio. Non è mai
inutile l'opera di un buon cittadino. Lo si ode, lo si vede. Con lo sguardo,
con il cenno, con la costanza silenziosa, con l'ince- dere stesso egli serve...
Credi poco utile anche l'esempio di colui che vive bene nel proprio ritiro? La
cosa di gran lunga migliore è, anzi, alternare il riposo con gli affari,
ogniqualvolta la vita attiva sia preclusa o da circo- stanze fortuite o dalle
condizioni della città. Tutte le vie non saranno mai sbarrate al punto che non
vi sia spazio per un'azione onesta. Puoi forse trovare una città piu misera di
Atene quando i Trenta Tiranni la stra- ziavano?... Eppure là, tra il popolo,
c'era Socrate, e consolava i padri pian- genti ed esortava coloro che
disperavano della repubblica e minacciava ai ricchi, timorosi per i loro beni,
il lontano castigo della loro perniciosa ava- rizia, e offriva un grande
esempio a· quanti lo volevano imitare, cammi- nando libero tra i trenta
despoti. Tuttavia Atene stessa uecise in carcere quell'uomo, e la libertà non
seppe sopportare la libertà di colui che aveva impunemente sfidato una schiera
di tiranni. ·Questo perché tu sappia che, anche quando lo Stato è oppresso,
l'uomo saggio ha occasione di mostrarsi, ma anche quando è prospero e felice
poiché regnano la crudeltà, l'invidia e mille altri vizi. A seconda dunque
della situazione politica, nel modo che la fortuna lo consentirà, o ci
espanderemo o ci raccoglieremo in noi stessi, ma comunque ci muoverc;mo, e non
ci intorpidiremo, paralizzati dal timore. ·Anzi, sarà vero uomo colui che,
quando i pericoli lo minacciano da ogdi parte, e le armi e le catene gli
risuonano d'intorno, non lascerà spezzare dall'urto la sua virtU e non la
celerà: seppellirsi non è salvarsi. Diceva bene, mi sembra, Curio Dentato,
quando affermava che preferiva essere morto che vivere da morto: il peggio dei
mali è togliersi dal numero dei vivi prima di morire. Ma, se ti imbatterai in
un momento della vita pubblica meno facile, dovrai fare in modo di rivendicare piu
tempo al ritiro e agli studi e, come durante una navigazione pericolosa, ti
dirigerai subito a un porto, e, senza aspettare che gli affari ti congedino, te
ne staccherai spon- taneamente. Dovremmo poi esaminare anzitutto noi stessi,
quindi i compiti cui stiamo per accingerci, infine le persone per le quali e
con le quali li svolgeremo. Per prima cosa è necessario valutare noi stessi,
perché quasi sempre ci sembra di potere piu di quello che in realtà possiamo
(De tran- quillitate animi, IV, 2 sgg., V, VI, 1-2). Non a caso, di qui, quando
davvero fu preclusa a Seneca l'azione diretta negli affari ddlo Stato,
l'avvicinamento ad Epicuro, l'appello di Epicuro all'amicizia, di contro alla
falsa politica in atto, a quell'Epi- curo di cui Seneca dice (Ep. a Luc., 6, 6)
che piu che la dottrina fu il suo contubernium a educare gli epicurei, in una
comunità di amici il "cui acooi:do tra loro era simile a quello che deve
regnare in una repubblica bene ordinata" (Numenio, in Eusebio, Praep. ev.,
XIV, 5, 4); e va sottolineato che sempre piu spesso ritorna il nome di Epicuro
nelle opere scritte, appunto, al tempo del suo forzato ritiro (De oiio; De bre-
vitate vitae, Epistole a Lucilio). Ancora da. vecchio, Sen;:ca ricordava i suoi
primi maestri, confes- _sando l'enornit: impressione che i loro discorsi, la
loro vita, il loro esempio, avevano fatto su di lui fanciullo e giovinetto.
Quando udivo Attalo parlare.:ontro i vizi, contro gli errori, contro i mali
della vita, spesso sentivo compassione dell'umano genere e stimavo sublime quel
filosofo, piu alto di ogni altez~a umana. Egli si proclamava re, ma piu che re
egli mi sembrava:! Egli che poteva chiamare i re a dar conto della loro
condotta. Quando poi cominciava a raccomandare la po- vertà, e·a dimostrare
che, tutto quello che va oltre il nostro bisogno, è un peso inutile a portarsi,
spesso avrei voluto uscire povero dalla scuola. Quando cominciava a schernire i
piaceri, a lodare la castità, la sobrietà, la purezza.della mente che si
astiene non solo dagli illeciti, ma anche dagli inutili piaceri, veniva la
voglia di mettere un limite alle esigenze della gola e del ventre. In me, caro
Lucilio, qualcosa è rimasta, poiché a tutti quegli inse- gnamenti ero andato
con grande entusiasmo; senonché, tornato alla vita cittadina, poco rimase di
tanti bei propositi... Poiché ho cominciato a dirti con quanto maggiore
entusiasmo comin- ciai da giovane lo studio della filosofia che non lo
continuai da vecchio, non mi'vergognerò di confes5àrti quale amore mi abbia
ispirato Pitagora. Sozione diceva per quale ragione Pitagora si astenesse dalle
carni e per quale ragione poi se ne astenne ·Sestio. I motivi di tale
astensione sono diversi per l'uno e per l'altro, ma per l'uno e per !;altro
degni di ammira- zione. Sestio credeva che per alimentarci ne abbiamo
abbastanza, anche senza ricorrere a versare sangue e che l'uccisione delle
bestie volta alla sod- disfazione dei nostri gusti, diventa una scuola di
crudeltà.'.. Pitagora, invece, parlava ·di una parentela esistente tra tutte le
cose e dei rapporti delle anime trasmigranti da una in un'altra forma. Secondo
lui, nessun'anima si an- nienta... Sozione, dopo aver esposto queste dottrine
con ampiezza di argo- menti, "non credi," soggiungeva, "che le
a~ime sono distribuite in diversi corpi, e che quella da noi chiamata morte
altro non è che un'emigrazione? Non credi che in questi animali domestici o
selvaggi o abitanti nelle acque viva un'anima, che altra volta appartenne a un
uomo? Non credi che nulla va distrutto in questo mondo e che si tratta solo di
un cambiamento di luogo? e che non solo i corpi celesti si volgono per
determinate orbite, ma anche gli animali vanno soggetti alle loro vicende, e
che le anime sono spinte per i loro cieli? Questa fede l'hanno avuta uomini
grandi. Pertanto sospendi il tuo giudizio e lascia indeciso tutto il problema.
Se le cose dette sono vere, astenendoti dalle carni ti sarai serbato innocente,
se false, sarai stato un uomo frugale. Che ci perdi a prestarvi fede? Ti avrò
tolto il cibo dei leoni e degli avvoltoi?". Spinto da questi discorsi,
incominciai ad aste- nermi dalle carni e dopo un anno non solo non trovavo
difficolt~ in. questa oratica, ma Ci sentivo gusto. Mi pareva di ave!e la mente
piu svelta, sebbene oggi non saprei dirti se tale fosse realmente. Vuoi sapere
come fu ch'io smisi quest'uso? la mia gioventu cadde nei primi anni dell'impero
di Tiberio, quando i culti stranieri erano oggetto di persecuzione e
l'astinenza dalle carni di alcuni animali era considerata come indizio di
partecipazione a quelle superstizioni (Ep. a Luc., 108, 13-15, 17-22). Di
Fabiano Papirio, oratore e giurista, vissuto sotto Augusto e Tiberio, sempre
attraverso Seneca sappiamo che dalla retorica passò alla filosofia pitagorica,
interpretata in chiave stoica (Ep. a Luc.; 58, 6; 100, 8 sgg.), che famoso per
vita et scientia (Ep. a Luc., 40, 12), condusse una vita da vero
"stoico," ritenendo che piu alta di ogni erudizione (De brevi- tale
vitae, XIII, 9) fosse l'educazione dell'anima, cui serve da un lato l'esempio
della propria vita, dall'altrouna sobria eloquenza (Ep. a Luc., 100, 10-11),
cht non deve trasformarsi in insegnamento di tipo profes- sorale, ma
determinarsi in una persuasione psicologica e morale. Egli non fu, esclama
Seneca (De brevit. vie., X, l) "f;losofo cattedratico, ma vero filosofo
all'antica." Attraverso la figurazione che ne dà Seneca - non abbiamo
altre fonti, - di Fabiano Papirio, di Sozione di Alessandria, di Attalo è dif.
ficile dire se siano stati pitagorici o stoici. In realtà, ora, il termine
stoico sta ad indicare piu un atteggiamento di vita che non una dot- trina;
atteggiamento di vita che si fonda su di una concezione generale che assume
pochi principi, facili a raggiungere analogicamente, e che potevano essere
desunti da certe volgarizzate posizioni, ch'erano state effettivamente ela~rate
entro la scuola stoica: un principio attivo e pas- sivo (Dio e la materia),
dalla cui tensione scaturisce l'articolarsi e il co- stituirsi in ordine di
tutta la realtà, di cui ogni aspetto è un momento dd divino IOgos (si confronti
sopra la silloge di Ario Didimo). In tal senso, comunque, potevano essere
interpretate anche certe pagine di Platone e di Aristotde (cfr. in tal senso
Ep. a Luc., 58 e 65). Non solo, ma entro questi termini, poco importava essere
platonici, o aristotelici, o stoici in senso stretto; o meglio, lo si era, per
quel che il termine stoicismo, pitagorismo, platonismo evoca in funzione di un
tipo di vita da contrapporre al comune modo di vivere irriflesso. Tipico
esempio di tale atteggiamento fu l'amico di Seneca, Demetrio, del quale Seneca
non poco senti l'influenza. Demetrio, vissuto nd 1 sec. d. C., contemporaneo di
Seneca, fu detto • Cinico." ~ stato soste- nuto ch'egli piu che cinico
sarebbe stato stoico, per la sua fede in un or- dine provvìdenziale, a cui,
abbandonando le cose di questo mondo (indifferenti tutte), l'uomo ha da
adeguarsi, in una lieta sopportazione del dolore e delle avversità. Per ciò che
in realtà si può ricostruire del pensiero di Demetrio, attraverso le uniche
fonti che abbiamo su di lui, cioè Seneca (De beneficiis, VII, l, 3; 8, Ì; 11;
Epi.rt. a Luc., 20, 9; 67, 14; 91, 19; De providentia, 3, 3; 5, 5) ed Epitteto
(Dissert., I, 25, 22), possiamo dire che Demetrio fu "cinico" nel
senso in cui, portando alle conseguenze estreme la logica di Zenone di Cizio,
"cinico" era stato Aristone di Chio (cfr. I vol.). In altri termini,
Demetrio, proprio attraverso lo studio della logica stoica, si rese conto
dell'impossibilità del passaggio dal discorso umano ad un presunto
discors~della realtà, per cui la realtà, presa in sé, resta sempre al di fuori
di. noi, e per cui unica realtà è quella umana, o meglio quell'ordine che
scaturisce dall'egemonia delle passioni e per mezzo di cui l'uomo si libera
dalle passioni stesse; egli, perciò, poteva, ma.solo su di un piano indicativo,
postulare, simile all'ordine che la ragione stessa costituisce, un ordine
supremo é provvidenziale, presen- tando se stesso, di volta in volta, come
esempio di saggio, di uomo libero, appunto, dalle passioni, dalle adulazioni di
quella ch'era la quo- tidiana vita della Roma._di Caligola, di Claudio e di
Nerone. La natura ha fatto nascere Demetrio in questi nostri· tempi per dimo-
strare ch'egli non può essere corrotto da noi, mentre noi non possiamo essere
educati da lui, uomo perfetto nella sua saggezza, anche s'egli per primo lo
nega, assolutamente coerente nel suo modo d'agire, di un'elo- quenza adeguata
ai piu forti pensieri, senza ornamenti, senza faticosa ricerca d'espressione,
ma che con superba fieqezza, nella foga della ispirazione, persegue
l'esposizione di idee personali. Se a Demetrio la Provvidenza ha dato simile
costume e talento, lo ha fatto perché alla nostra generazione non mancassero:
il modello né rudi lezioni. Se un qualche dio offrisse a Demetrio i nostri beni
in assoluta proprietà, ma a condizioni che non ne potesse far dono, egli,
certo, li ripudierebbe, dicendo: "No, non mi lego ad un simile peso, di;c.."ui
non potrei sbarazzarmi, né l;lscio che il mio essere, da tutto s~a'nciato,
affondi nel profondo pantano delle ricchezze. Perché offrirmi il male di tutti?
Che neppure accetterei per farne dono, ché molte cose vedo le quali sarebbe
ingiusto dare... Lasciami libero, lascia ch'io prenda queste altre ricchezze,'
le mie •vere ricchezze: il regno ch'io conQsco è il regno della sapienza,
grande, sicuro; io, cosf tutto posseggo, tutto ciò che anche gli altri possono
avere..." (De benefieiis, VII, 8, 2-9; 10, 6). Quando C. Cesare gli volle
far dono di 200.000 sesterzi, li rifiutò ridendo... In tale occasione Demetrio
ebbe una parola· di sublime grandezza, parola dettata dalla sorpresà allorché
vide Gaio [Caligola] abbastanza pazzo da credere di potere a tal ·pre~zo
cambiare un'anitna come la sua. "Se era deciso a provarmi," disse,
"non sarebbe stato affatto di troppo per simile esperienza, l'offerta
dell'impero" (De benefieiis, VII, 11). Demetrio, i l migliore degli
uomini, si accompagna sempre a me, ed io, trascurando la compagnia dei grandi
porporati, converso pieno di ammirazione per quel seminudo. E come non
ammirarlo? Mi sono accorto che nulla gli manca. Qualcuno può disprezzare tutto;
invece ad avere tutto nessuno ci riesce.
261 La via piu breve per arrivare alla ricchezza è quella di
disprezzarla. Quanto al nostro Demetrio, egli vive, non come chi disprezza ogni
cosa, ma come chi ne lascia ad altri il possesso (Epist. a L., 63, 3). Non a
caso, sotto questo aspetto, furono ritenuti "stoici;" e tali si
proclamarono, uomini come Trasea Peto ed Elvidio Prisco, difensori del Senato,
assertori della libertas della Res-publica, tantò che l'uno, Trasea Peto, sotto
Nerone, l'altro, Elvidio Prisco, sotto Vespasiano, ci rimisero la vita.
L'accusa contro Trasea Peto fu ch'egli faceva parte di "quella setta che
ha generato un tempo i Tuberone e i Favonio, nomi odiosi anche all'antica
repubblica; essi vogliono la libertà per sovver- tire gli ordinamenti
dell'impero. Invano avrai tolto di mezzo Cassio, se sopporterai di vedere
crescere in potenza gli emuli dei Bruti... Egli non ha mai fatto sacrifici
propiziatori per la salute del principe o per la sua divina voce; da tre anni
non ha piu posto piede nella Curia... Egli non attende ormai che agli affari
dei suoi clienti... Un tale atteg- giamento è già un'opposizione nel nome di un
partito: secessio iam id et pars est (Tacito, Annali, XVI, 22). E Tacito,
narrando il momento della morte di Trasea, alla presenza di Demetrio, cosi
dice: Trasea, allora, esortò i presenti, che si abbandonavano a pianti e a
lamenti, a ritirarsi in gran fretta per non correre il pericolo di compro-
mettere la propria sorte con quella d'un condannato... Come il sangue sprizzò
fuori, Trasea, spargendolo sul terreno, fece avvicinare il questore e
"libiamo," disse, "a Giove liberatore. Tu, o giovane, guarda e
fai che gli dèi tengano lontano da te l'infausto presagio. Sei, per altro,
nato. in tempi l).ei quali è pur necessario rinvigorire lo spirito con esempi
di fermo corag- gio." Dette queste parole, poiché la lentezza della morte
gli recava atroci tormenti, volse gli occhi a Demetrio... (Annali, XVI, 34-35).
Da Attalo a Fabiano Papirio, da Demetrio a Trasea Peto, si vede bene l'arco del
significato assunto dal termine "stoicismo": esempio di vita ordinata
e misurata, adeguantesi ad una postulata ragio!l d'essere, ad un postulato
ordine del tutto, ancora al principio dell'Impero, oppo- sizione politica,
esempio di una vita libera, da Caligola in poi. Entro i termini estremi di
quest'arco si muove lo "stoicismo epicureo" di Seneca. Se egli,
appunto, da un lato attraverso Sozione, Attalo, Fabiano Papirio, e per altro
verso attraverso Demetrio poteva delineare quella che avrebbe dovuto essere la
vita ideale dell'uomo, in una particolare accezione (non teoretica) dello
stoicismo, dall'altro lato, rendendosi conto che ogni concezione vale per
quello che essa ha di successo, in certe ben precise situazioni, cercò, finché
gli fu possibile, di convincçre a quell'ideale, operando su amici, e,
soprattutto, ripetiamo, su Nerone. Formatosi entro i termini di un generico
"stoicismo" di sfondo, Seneca si servi di tale concezione per
formulare quello che avrebbe do- vuto essere l'"uomo ideale" e, per
altra via, lo Stato e la società ideali, indipendentemente dai piu gravi
problemi teoretici, impliciti nei vari aspetti assunti dalla posizione stoica.
Se altra fosse stata la prima edu- cazione di Seneca, egli avrebbe potuto
benissimo accogliere, in funzione della sua polemica morale, anche l'ipotesi
epicurea. In realtà Seneca non si preoccupa affatto di quella che sia la
struttura in sé della realtà, rendendosi conto anzi - vicinissimo in questo a
Demetrio - di come tale questione, dibattuta nelle scuole, sia divenuta una
questione logico- grammaticale, e come proprio le analisi logiche, in gran
parte condotte proprio dagli stoici e dagli scettici, abbiano portato a dimostrare
l'im- possibilità di ogni passaggio dalle parole alle cose. Ora, puntando sulla
scolastica distinzione della filosofia in fisica, logica, etica, Seneca taglia
via la fisica come scienza a sé - su questo piano egli si riduce a una pura
descrizione dei fenomeni fisici e delle opinioni: cfr. N aturales quaestiones -
assumendo quella "fisica" che poteva apparire meno contraddittoria
quale fondamento di una certa etica, fondandosi su di una logica che rendesse
conto che lo stesso ben pensare è ben vivere, per cui vita etica è ad un tempo
vita logica. Seneca rifiutava cosi quella logica che tutto risolvendo in sé, in
una mèra realtà di parole, si pre- cludeva ad ogni significato e senso delle
cose, sofisticamente. Di qui, sembra, la polemica di Seneca nei confronti del
diffuso neo-pirronismo e dello stesso stoicismo logico, che davvero potevano
finire nel silenzio e nell'inazione, anche se, su di un piano conoscitivo, egli
accettava la sospensione del giudizio sui fondamenti primi (decreta) della
realtà, se non quando questi potevano servire alla formazione di una vita misu-
rata. e razionale, a determinare certi modi di vivere (praecepta). Sia pur
detto fra parentesi, non sembra senza interesse che Seneca, con linguag- gio
giuridico, chiami decreta i principi stessi su cui legalmente si costi- tuisce
la realtà, e praecepta, appunto, le norme del vivere, i cui limiti sono
determinati dai decreta (cfr. Ep. a L., 95). Cosi, ad esempio, dopo avere a
lungo discusso, molto acutamente e con molta precisione, sul significato di -rò
ISv, tradotto in latino con essentia e con quod est, e su come si debbono
assumere i termini genere e specie, e dopo aver fatto vedere il significato di
genere, specie, quod est, idea, idos, in Platone, in Aristotele, in alcuni
Stoici (cfr. Ep. a Luc., 58), cosi esclama Seneca, rivolgendosi a Lucilio:
Dirai: "A cosa possono giovarmi codeste sottigliezze?" Se lo chiedi a
me, nulla. Ma come un cesellatore distrae e solleva gli occhi a lungo intenti e
affaticati, e, come si suole dire, li ristora, cosf noi dobbiamo di quando
in 263 quando concedere
riposo al nostro animo e dargli nuove. forze con 't!ualche.divertimento. Ma pur
questi divertimenti non siano ozio: anch'essi, se saprai profittarne, potranno
offrirti qualche utilid... çhe còsa meno con- tribuisce alla trasformazione dei
costumi,.::be i problemi avanti trattati? Come mi possono rendere migliore le
idee platoniche?.Che posso cavare da esse, per infrenare le mie passioni?
Eppure basta anche questo,. che Pla- tone nega la realt~ di tutto ciò che ·è
soggetto ai nostri sensi, e ci infiamma e ci attira. Dunque noi abbiamo da fare
con fantasmi, che solo per qualche tempo offrono una certa apearenza, ma non
hanno né stabilita né solidiù... Rivolgiamo l'animo a auello che è ~erno..;
(Ep. a Lue., 58, 25 sgg.). E ancora, nella lettera 65 a Lucilio, dopo avere
discusso il motivo delle cause, esponendo la tesi degli Stoici,· Seneca
afferma: • Dicono gli Stoici che nella natura due sono gli elementi, da cUi
nascono tutte le cose, la causa e la materia; la materia è inerte, pronta a
tutto ciò che se ne '-:uol fare, immobile se nessuno la muove: la causa,
invece, cioè la ragione, dà forma alla materia, la elabora a suo piacere e ne
trae le opere sue; bisogna, dunque; che vi sia· il principio onde una cosa è
fatta e il principio che la fa, questo è la. causà, quello la materia;... le
cose tutte sono il risultato dell'elemento.paziente e della forza ·agente; per
gli Stoici l'uniça causa è la. forza agente" (Ep... U4C., 65, 2-4);
discutendo Aristotele dichiara che quattro sono le cause per Aristo- tele: la
materiale, l'efficiente, la formale, la finale (id., 65, 4-7); di Pla- tone,
poi, dtce che: • aDe quattro cause Platone ne aggiunge una quinta, che chiama
idea, ed il modello che l'artefice ha tenuto di fronte a sé nell'eseguire
l'opera, che aveva deliberato di fare; non ha importànza poi se questo modello
egli l'abbia avuto sotto gli occhi fuori. di sé, oppure concepito nella suà
immaginazione e tenuto cos{ presente: que- sti esemplari di tutte le cose Dio
li ha in se.stesso, e di tutte le cote che deve fare abbraccia il numero e la
misura: egli è pieno di tutte queste misure, da Platone chiamate idee,
iJlUilOitali~ immutabili, instan- cabili; cinque sono dunque, come dice
Platone, le ç.ause: quella di che, quella da che, quella in che, quella su che,
queU::"pr.r· che; fi.òalmente quella che da tutte queste deriva"
(id., f5, t-.ill). Seneca, dopo aver concluso che pio semplice è ridurre tutta
la folla -delle cause ad t-..na sola, a ciò senza di cui nulla è, causa prima
pc:l ciò ed oi>erante, Dio, • poiché quelle che avete messo innanzi non sono
molte e singole caUse, ma dipendono insieme da una sola, da quella che
opera" (id., 65, 12), cosi, alla fine dice: Ed ora pronuncia la tua sentenza,
o, co~'è piu comodo in simili. pro- blemi, di' pure che non ci vedi chiaro e
rimandaci a nuove indagini. Mi dirai: "Che gusto è il tuo ·a perdere il
tempo in siffatli problemi, che no ti liberano da nessuna passione, che non
scacciano dal tuo animo nessuna cupidigia?• lo, in verità, dò la preferenza a
quei problemi che rendono tranquillo l'animo e all'esame di me stesso e
soltanto dopo mi occupo di questo Universo. Neppur ora io sciupo, come credi,
il mio tempo; poiché tutte le discussioni di tal genere, se non sono spezzettate,
se non si disper- dono in queste vane sottigliezze, innalzano e sollevano
l'animo... E la filo- sofia conforta l'anima con la contemplazione della
natura, innalzandola dalla terra alle regioni celesti... Tale contemplazione
non poco contribuisce a liberare l'animo: sicuramente l'Universo consta della
materia e di Dio, il quale stando in mezzo ad esso lo governa come signore e
come guida.•. Quel posto che tiene Dio nel mondo, lo tiene nell'uomo l'anima...
Siamo perciò forti contro i casi della sorte... Che è la morte? O la fine o un
paS- saggio. Di non esistere piu non temo, perché è lo stesso che non aver
comin- ciato ad esistere; né di passare altrove, perché in nessun luogo potrò
stare cos(a disagio (Ep. a Lue., 65, 15 sgg.). Le Lettere a Ludlio sono tarde,
di quando già Seneca era stato cO- stretto ad abbandonare la vita politica e
sempre pi6 profonda in lui s'era fatta, è stato detto, la "nausea dd
secolo,• ma, certo, ancora qui, l'opzione per una divinità reggitrice del
tutto, l'ipotesi che tutto pro- venga daii'Uno (Dio), uno Che non è se non nel
suo realizzarsi in atto nell'ordine dell'Universo, in una interpretazione
stoica del Timeo di Platone ("Dio è la mente dell'Universo, è tutto ciò
che vediamo e tutto ciò che non vediamo: egli solo è tutte le cose•: Natur.
quaest., l, praef., 13), per cui Dio non è nessuna cosa, ma essendo la ragion
d'es- sere di tutte, tutte le trascende, avendo in sé tutte le forme, unità e
molteplicità ad un tempo, Uno e intelletto e anima (sotto questo aspetto si può
parlare, accanto a uno stoicismo epicureo di Seneca, di un suo stoicismo
neoplatonico); ancora nelle tarde Lettere a Ludlio e nelle tarde Questioni
naturali, tale ipotesi resta consapevolmente tale, ipotesi: cioè. credibile in
quanto utile a vivere da uomini, speranza e non con- clusione scientifica, ché
su tale piano, in realtà, l'analisi della logica e del linguaggio, dovrebbero
anzi portare a SQSpendere ogni giudizio. Anche gli uomini piu grandi ci
lasciarono opinioni, non soluzioni defi- nitive, ma problemi da risolvere...
Certo perdettero molto tempo in chiacchiere e cavilli e in sottigliezze
sofistiche, inutili esercizi dell'ingegno. Noi facciamo dei nodi, intrecciamo
parole a doppio significato per darne poi la soluzione. Abbiamo poi tanto tempo
da impiegare? Sappiamo morire? Bisogna attendere con tutte le forze della
nostra mente a guardarci dalle insidie non delle parole, ma delle cose. Che mi
vai facendo distinzione tra vocaboli affini, che possono trarre in inganno
soltanto in una disputa? Il nostro errore è intorno alle cose e su queste mi
devi illuminare (Ep. a L., 45, 5). Non filologia è la filosofia (Ep. a Luc.,
108, 24), non cavilli di parole,
265 capziose dispute, di cui se arrivo a scoprire il segreto
del giuoco, non mi ci diverto piu (Ep. a Luc., 45, 8). Nessuno pnò vivere
felice, se guarda solo a se stesso, se tutto fa convergere al proprio
vantaggio: bisogna tu viva per il tuo vicino, se vuoi vivere per te. Questo
vincolo sociale, che unisce gli uomini tra di loro e che attesta esservi una
legge che abbraccia tutto il genere umano, se è osservato con diligenza
scrupolosa, giova mol- tissi~o anche a mantenere quella piu stretta società,
che è l'amicizia, e della quale ti parlavo. Colui che sente di avere molte cose
in comune con un altro, solo perché questi è un uomo, avrà tutto in comune con
l'amico. Questo, ottimo Lucilio, vorrei che sapessero insegnarti codesti
cavillatori: quali sono i miei doveri verso un amico, quali verso un uomo
qualunque, anziché in quanti modi possa esprimersi il concetto di amico e
quanti signi- ficati abbia la parola uomo... Invece mi si storce il senso delle
parole e mi si dànno delle sillabe staccate. Ah sf, se non avrò costruiti
arguti sillogismi e raccolto entro una falsa conclusione una menzogna scaturente
da una premessa vera, non potrò distinguere quello che devo seguire da. quello.che
devo sfuggire. Mi vergogno, a questa età, di divertirmi a scherzare in ma-
teria cosf grave! Mus (topo) è una sillaba; il topo (mus) rode il formaggio;
dunque la sillaba rode il formaggio. Ammettiamo ch'io non riesca a scio- gliere
questo nodo: qual pericolo mi sovrasta da simile ignoranza? Senza dubbio c'è da
temere che qualche volta prenda due sillabe nella trappola o che, se sarò
trascurato, un libro mi mangi il formaggio, a meno che non sia piu ingegnoso
quest'altro sillogismo: mus (il topo) è una sillaba: la sillaba non mangia il
formaggio: dunque il topo (mus) non mangia li formaggio (Ep. a Luc., 48, 2~. Si
può, certo, dire per il I secolo ciò che, acutamente è stato detto per il xv
secolo - senza dubbio, per alcuni aspetti e situazioni storiche vicino al I d.
C. - essere falso che la filosofia vada cercata nelle opere dei suoi maestri
ufficiali, ossia nei commenti di Aristotele e non nei dialoghi morali, nei
trattati politici, nelle discussioni sulla poesia e cosi di seguito. In realtà,
"la ricerca filosofica delle scuole era giunta al limite di un tecnicismo
esasperante, ·che attraverso una raffinatezza estrema arrivava si a un culmine,
ma senza possibilità di sortl!. La per- fezione di una logica che sostituiva i
suoi calcoli e i suoi segni alla realtà dell'esperienza si esauriva in una
conclusione. E quando la via è chiusa, il ritorno alle origini, ai principt, e
la ricerca di altre dire- zioni, si impongono... Il rivolgersi a campi diversi
da quello logico e fisico, ossia al mondo dell'esperienza morale e artistica;
il ritorno dalle esasperazioni teologiche - di una teologia ridotta a
dialettica - alla ricchezza della carità, dell'amore come diretto contatto con
Dio: ecco le caratteristiche di un momento culturale ben definito" (E.
Garin, Cultura filosofica toscana e veneta del secolo X V,
"Rinascimento," Seconda Serie Vol. Il, Firenze, p. 65). Tale, mutando
quel che è da mutare, l'esperienza di Seneca, assai vicino, per altra via, di
fronte alle chiusure del diffuso scetticismo, nella ricerca di nuove direzioni,
che premevano, alla problematica di Filone l'Ebreo, e a quella che, già dal
tempo di Seneca, si delinea in una ripresa di certi motivi platonici,
pitagorici e stoici, anche se diverse furono le conclusioni di Seneca.
<:;ondannato, fin dalla nascita, alla morte, disperso nei suoi fantasmi, che
sono, nell'immediatezza, le cose e le passioni, preso da questo o da quel
fantasma, s1 come un folle che si fissa su una o altra delle infinite immagini
che lo costituiscono, sempre perciò deluso, sempre nel terrore d'essere
sopravanzato da altri, chiuso nelle sue stesse parole, dolore, disperato,
determinato dalla nascita a una o ad altra situazione, schiavo dei propr~ fantasmi,
re o servo che sia, tutti schiavi, illusione tutto, l'uomo, per chi appunto si
sia reso conto ch'egli è nulla di fronte al tutto ("chiunque esso sia, o
dio possente tra tutti o ragione incor- porea, artefice di tante meraviglie, o
divino spirito diffuso con uguale intensità per tutte le cose, le piu grandi
come le piu piccole, o infine fato e immutabile concatenazione di cause tra
loro connesse": Conso- latio ad Helviam, VIII, 3), l'uomo desta
un'infinita pietà. Ma proprio questa uguaglianza universale degli uomini,
molteplici e diversi, per quanto molteplici, diverse, disarticolate sono le
umane passioni e gli umani fantasmi, è il fondamento comune· per cui,
attraverso l'educa- zione di sé (la filosofia in senso senechiano, che non è
sapienza), sco- prendo sé come ragione, cioè come capacità di con-vincere la
passione, l'uomo si libera da sé, costruendo se stesso uomo ("difendi il
posto che ti ha assegnato la natura; quale chiederai: quello di uomo": De
constantia sapientis, XIX, 4), in un rapporto articolato con gli altri uomini,
costituendo una societas, che rivela e postula ad un tempo l'or- dine razionale
del tutto, in una comune razionalità, che rende tutti - quanto piu ciascuno è
se stesso, quanto piu misuratamente, cioè razionalmente, compie ciò che gli è
proprio - uguali, per cui alla pietà si sostituisce il rispetto, che è rispetto
dell'altro, non tanto per ciò che egli è, ma per quello che può essere. Cosa
sacra è l'uomo all'uomo. Come comportarci con gli uomini? Quali precetti
daremo? Di non spargere il sangue umano? quanto poco è non nuocere a chi
dovresti giovare! porgere la mano al naufrago, mostrare la via allo sperduto,
dividere il pane con l'affamato? Per dire tutto ciò che va fatto ed evitato...,
eccoti una formula del compito dell'uomo: tutto quel che vedi, che contiene il
divino e l'umano, è tutt'uno; noi siamo tutti mem- bra di un grande corpo. La
natura ci generò parenti, dandoci una stessa origine e uno stesso fine. Essa ci
ingenerò un mutuo amore e ci fece socie- voli... E quel verso: "Son uomo,
nulla di umano ritengo estraneo a me"
26i (Terenzio, Heautantimorumenus, l, 54], ci sia nel cuore
e sul labbro. Abbia- molo in comune: siamo tutti nati. La nostra società è tale
quale una volta di pietre, che cadrà, se le pietre non si appoggiano a vicenda
e cosf si sosten- gano (Ep. a L., 95, 33, 51-53}. La riflessione su se stesso,
sul proprio dolore,. sull'uomo conflitto di passioni, disperso in una
molteplicità di se stessi e di fantasmi, se da un lato porta alla pietà,
dall'altro lato, attravero questa, porta a com- prendere che l'uomo, mediante
se stesso, in quanto capacità di realiz- zarsi secondo ragione - cioè in una
misura che è conquista e libera- zione, - si libera da sé essendo davvero sé.
Tra i molti magnifici detti del nostro Demetrio, questo... mi risuona e vibra
tuttora nell'orecchio: niente -dice -m i pare piu infelice, che colui cui
nessuna avversità mai sia capitata; poiché non ebbe modo di provare se stesso
(De provitlmlia, III, 3). Hai passato la vita senza lotta: nessuno saprà mai
quel che avresti potuto. Neppure tu stesso. Occorre la prova per conoscersi (De
prov., IV, 3-7). Per non adirarti con i singoli individui, a tutti devi
perdonare, all'intero genere umano concedere indulgenza... n saggio sa che
nessuno nasce saggio, ma tale diventa... Pertanto il saggio, sereno ed equo
verso gli errori, non è nemico, ma correttore dei colpevoli... Non è da uomo di
senno odiare chi erra, altrimenti odierebbe se stesso... Quanto è piu vasta la
norma morale che q11ella giuridica? Quante cose non esigono la pietà,
l'umanità, la liberalità, la giustizia, la fede, che restano tutte fuori della
legge?... Piu misurati ci farà il guardare dentro di noi, se ci chiederemo: non
ho forse io stesso fatto alcun che di simile? Non ho mai peceato? Posso io
condannare codeste colpe? (De ira, II, 10, 14, ~8). Solo attraverso il peceato
si giunge all'innocenza (De clemmlia, l, 6). Chi è passato attraverso questa
esperienza, chi ha coscienza che l'uomo può realizzare sé non piu in forma
dispersa, ma coerentemente, sa che il suo ufficio, il suo dovere è di
consolare, attraverso la medita- zione sul dolore, sulle passioni, sulle
sitlgole esperienze, sulle illusioni, l'uomo disperato (cfr. le Consolaziont) e
di avviare sé e gli altri, pro- spettando quale dovrebbe essere il saggio, a
tale saggezza, agendo, entro i limiti delle proprie possibilità, perché si
realizzi quella societtu che libera e fa dell'uomo un uomo rispettoso
~ell'altro, della comune ragione, specchio della postulata universale ragione
di essere, mediante cui si costituisce la res-puhlica cosmica, il cosmico
Impero. Di qui la distinzione senechiana tra sapienza e filosofia: la sapienza
è un ideale, la filosofia uno strumento, riflessione sulle proprie espe- rienze
di vita e, ad un tempo, per ciò, liberazione dalle proprie unila- teralità,
convinzione e persuasione, retorica verace e consolazione, imVC- 268
gno sociale, da distinguere nettamente dalle arti dette liberali, utili,
ma nella loro unilateralita, non tali da formare l'uomo virtuoso (cfr. Ep. a
L., 88). Sembra chiaro, ora, in che senso da un lato Seneca descriva l'uomo
qual è di fatto, in questo mondo, in questa situazione politica, e, dal-
l'altro lato, accanto alle indicazioni mediante cui l'uomo può liberarsi da
questo suo attuale non essere uomo, prospetti l'uomo quale dovrebbe essere, di
volta in volta disegni il ritratto del saggio, del sapiente, dd- l'uomo
consapevole di sé, misura, coerenza di sé con sé (constantia tra- duce Seneca
l'homologhla zenoniana), e prospetti l'ideale rod~, l'ideale impero universale,
che, a sua volta, si scopre adeguato alla postulata ragion d'essere del tutto,
per cui, infine, accanto all'uomo quale dovrebbe essere, si pone la divinita
qual è, in quanto termine di realizzazione, dovere e impegno. In ogni suo
scritto Seneca, o per accenni o rievocando l'esempio di celebri figure o di
proposito, disegna e prospetta il ritratto di quello che deve essere l'uomo, il
"saggio" - anche nelle Tragedie, in cui il personaggio di Ercole
assume la funzione dell'eroe stoico (cfr. R. Che- vallier, Le milieu.rtoiden à
Rome au r siècle après J.-Ch., in "Bulletin de l'Association Budé,"
Suppl. Lettres d'humanité, XIX, 1960, p. 547). Basti qui ricordare alcuni passi
del De con.rtantia sapientir ed una pagina della Lettera 66 che sembra
riepilogare i peculiari tratti del sapiente. Gli Stoici, che hanno scelto la
via piu degna per un uomo, non si curano che essa sembri piacevole a coloro che
la iniziano, ma che al piu presto li liberi e li conduca sull'alta vetta, che
si innàlza al di sopra di qualsiasi tiro d'arco e domina persino la fortuna...
Libertà è sollevare l'animo al di sopra delle ingiurie, rendersi capaci di
ricavare solo da noi stessi le nostre gioie, e staccarsi dalle cose esteriori,
per non passare la vita nell'inquietudine come fa l'uomo che teme il riso e la
lingua di tutti (De constantia sap., l, l; XIX, 3). Tale il saggio: un animo,
che vede il vero, esperto nd conoscere quello che si deve fuggire e quello che
si deve cercare, che delle cose fa stima non secondo l'opinione generale, ma
secondo il loro valore intrinseco, che osserva tutto l'Universo e ne fa oggetto
delle sue meditazioni, sentinella vigile dei propri pensieri e dei propri atti,
grande e impetuoso nella giu- stizia, sordo ugualmente alle minacce e alle
adulazioni, inconcusso nella buona come nell'avversa fortuna, superiore a tutte
le contingenze e a tutti gli accidenti, ~issimo e ben regolato nella sua
compostezza e nella sua forza, sano e semplice, imperturbato e intrepido, che
non si piega per vio- lenza, che non si inorgoglisce e non si abbassa per
vicende di fortuna: un tale animo è la virtU in persona; questo sarebbe il suo
volto, se si presen- tasse sotto un'unica forma e in un insieme tutta intera si
mostrasse. Del resto essa offre molti aspetti, che si manifestano secondo i
diversi casi della vita e le diverse attività. Il som,mo bene non può
decrescere, né alla virtu è concesso andare indietro; ma assume qualità'
diverse secondo la natura degli atti che sta per compiere (Ep. a L., 66, 6). E
non dire, come dici di solito, che questo nostro sapiente non lo si trova in
nessun luogo. Noi non ci foggiamo una gloria vana per l'ingegno_ umano e
neanche vagheg- giamo il fantasma ideale di un essere inesistente: come lo
descriviamo, cosf l'abbiamo prodotto e lo produrremo, di rado forse e uno solo
a lunghi "inter- valli di tempo: del resto io mi domando se Marco Catone
[uticense]... non superi addirittura il nostro modello... (De constantia sap.,
VII, 1). Ora, come Seneca delinea due uomini, l'uomo qual è e l'uomo quale
dovrebbe essere (donde, per altro verso, si costituisce il conflitto della vita
umana), cosi egli, per la prima volta chiaramente, parla di due Stati, di due
res publicae, la Città degli uomini quali sono e la Città degli uomini quali dovrebbero
essere, in una prospettiva dello Stato universale, specchio, appunto, dello
Stato cosmico, per il quale il saggio deve lavorare, in nome del diritto
naturale c che può costituire un saggio e giusto cosmo statale. Convinciamoci
che esistono due res publicae: l'una grande e veramente publica, che comprende
gli dèi e gli uomini, e nella quale non siamo con- finati in questo o in
quell'angolo, ma misuriamo con il sole i confini della nostra città; l'altra è
la res publica a cui ci ha iscritto la condizione della nostra nascita (potrà
essere quella di Atene o di Cartagine o di qualsiasi altra città) e non
abbraccia tutti gli uomini, ma solo determinati uomini. Taluni lavorano
contemporaneamente per ambedue gli Stati, il grande e il piccolo, altri solo
per il piccolo, altri infine solo per il grande. Questo Stato piu grande
possiamo servirlo anche vivendo ritirati, e forse anche meglio, ricercando che
cosa sia la virtu; se una sola o parecchie; se siano la natura o lo studio a
rendere buoni gli uomini; se questo insieme di terre, di mari e di tutto ciò
che sta tra i mari e le terre, sia unico, o se la divinità ne abbia disseminati
altri del genere nell'Universo; se la materia da cui nascono tutte le cose, sia
una sola e compatta, oppure diffusa e con parti di vuoto mescolate alle solide;
dove risieda la divinità; se contempli inerte o muova la sua opera; se
l'avvolga dal di fuori o sia immanente al tutto; se il mondo sia immortale o da
considerare tra le cose caduche e nate solo per un certo tempo. Chi riflette su
questi problemi, quale servizio rende alla divinità? Evita che la sua opera
rimanga senza testimoni. Noi siamo soliti dire che il sommo bene consiste nel
vivere secondo natura. La natura ci ha generati per ambedue i compiti: per
contemplare e per agire,. (De otio, IV, 1-2). Senza l'azione non esiste
contemplazione (De otio, V, 8). Di qui, per una via pio universale e meno
legata all'esistenza di una certa classe che non quella di Cicerone, di coptro
alla tirannide, di contro al conformismo dettato dalla paura, il richiamo di
Seneca al motivo del cosmopolitismo stoico e al diritto naturale, fondamenti di
una res publica umana, e, nei confronti dell 'imperatore, alla concezione
stoico-platonica del monarca filantropo, per cui l'essere imperatore è un
dovere. Ma di qui anche il delinearsi del motivo del tirannicidio; con il
conseguente richiamo a Cassio, e del suicidio politico, donde la sempre
maggiore esaltazione della figura di Catone Uticense, e su di un piano di
diritto naturale, se non di diritto positivo, la proclamazione dell'abolizione
della schiavitu. Poche righe prima del testo del De otio sulle due Repubbliche
- ricordiamo che il De otio, insieme al De constantia sapientis e al ·De
tranquillitate animi, è dedicato ad Anneo Sereno, che dalle Lettère a Luci/io,
composte tra il 62 e il 64, sappiamo essere morto da non moltissimo tempo,
Lettera 63, per cui si pensa che le tre operette siano del 61-62 circa: degli
anni in cui Seneca fu costretto ad abbandonare la sua diretta influenza su
Nerone, - Seneca scriveva: Epicuro dice: "il saggio non si accosterà alla
vita pubblica a meno che non intervenga una situazione particolare."
Zenone dice: "egli si accosterà allaita pubblica se non interverrà
qualcosa ad impedirglielo." - Qui seguirò il parere degli stoici... perché
la questione di per se stessa vuole che io segua la loro opinione: seguire
sempre il parere di uno solo è proprio della fazione, non del Senato [nel
momento in cui Seneca scriveva il De otio è questa una frecciata abbastanza
indicativa]. - Epicuro, dunque, vuole l'otium di proposito, Zenone, se
interviene un motivo [è anche questo un richiamo assai significativo alla
posizione di Seneca]. E i motivi possono essere molti: se lo Stato è troppo
corrotto perché ci si possa trovare rimedio, o se è oppresso dai mali, il
sapiente non si sforzerà inutilmente e non spre- cherà se stesso senza poter
servire a nulla. Se avrà poca autorità e poca forza e lo Stato lo respingerà,
se la salute gli sarà di ostacolo, come non metterebbe in mare una nave in
avaria, come non si arruolerebbe essendo infermo, cosi non intraprenderà un
cammino che sa già impraticabile. Cosi anche colui che è ancora nuovo di
esperienza e non si è ancora esposto alle tempeste, può rimanere al riparo e
darsi subito allo studio... In realtà ciò che si esige dall'uomo è che serva
agli uomini: se è possibile a molti, altri- menti a pochi, altrimenti ancora a
se stesso. Infatti, rendendosi utile agli altri, egli agisce nell'interesse
comune: come chi si rende peggiore non nuoce solo a sé, ma anche a tutti coloro
che avrebbe potuto giovare essendo mi- gliore, cosi chiunque fa del bene a se
stesso giova per ciò solo anche agli altri, perché viene costruendo un essere
che potrà riuscir loro di giovamento (De otio, III, 2, l, 3-5). È questo un
testo piuttosto importante, perché chiarisce ancora una volta il senso con cui
Seneca assume certe posizioni stoiche, il
significato dato da Seneca alla filosofia come riflessione sulle proprie
esperienze, attraverso cui ci modifichiamo e ci costruiamo uomini, pro-
spettando Ja possibilità di realizzare l'uomo quale dovrebbe essere in rapporto
con gli altri uomini, in funzione di una res publica hominum, cui giovano, a
seconda delle istituzioni e per esse, modi diversi di azione, sia pure il
ritiro dall'azione, o la presentazione di certi esempi di vita; ma anche perché
in esso è molto chiaramente indicata la vita morale come problematica, come
conflitto, COII}e dilacerazione della coe- renza stessa, ché talvolta la
coerenza sta nell'incoerenza, e perché qui, molto chiaramente, Seneca presenta
il proprio caso, la sua stessa espe- rienza e problematica, come la
problematica dell'uomo, quale che sia la situazione in cui ciascuno, sempre,
viene· a trovarsi: ciascuno, sempre, in una sua certa situazione storica
diversa. Già dal tempo della questura e dei suoi primi discorsi in Senato,
Seneca fu tenuto in conto di pensatore e di parlatore di razza, il maggior uomo
di cultura che avesse Roma in quel tempo. Dopo il pericolo corso per la sua
libera orazione in Senato, salvatosi per intervento di una favo- rita di
Caligola, Seneca dovette certo comportarsi con molta prudenza e tatto (dirà piu
tardi nel De constantia sapientis: "Talvolta anche, per sdegno contro i
potenti, sveliamo i nostri sentimenti con eccesso di libertà! Ma non è libertà
il non tollerare nulla: questo anzi è un errore": XIX, 3), se riusc{ a
mantenere un posto di non poca importanza presso la corte, particolarmente
legato di amicizia con Giulia Livilla, figlia minore di Germanico, sorella di
Caligola. Egli allora godette, senza dubbio, come lui stesso confessa nella
Consolatio.alla madre Elvia (V, 4), di potenza, di onori, di danaro. Ma fu
proprio la sua amicizia per la dignitosa principessa, che mai volle adulare
l'imperatrice Messa- lina, che, nel41, rovinò Seneca. Messalina, gelosa della
bellezza di Giulia, e dell'influenza che Giulia aveva sull'imperatore Claudio,
riusc{ a fare sospettare di adulterio Giulia, tanto da farla cacciare da corte,
e, poco dopo, da farla condannare a morte. Seneca fu coinvolto in questa losca
montatura: forse si disse di lui ch'era stato amante di Giulia. Certo è.-:he
Seneca, a causa di Messalina, fu condannato all'esilio e venne rele- gato in
Corsica (•Non frutti di autunno né spighe d'estate né ulivo d'inverno; mai di
primavera l'ombroso ristoro di un ramo: non pane né un sorso d'acqua né il
fuoco per l'ultimo ufficio. Due cose sole son qui: l'esilio e l'esule":
Epigramma, II, Haase). Fu durante l'esilio che Seneca scrisse la Consolatio
alla madre Elvia, che è, ad un tempo una consolatio a se stesso, e la
Consolatio a Polibio, in cui Seneca, con molta dignità, fa il tentativo di
farsi richiamare. Uccisa Messalina, nel 48, assurse a potenza Agrippina, figlia
di Germanico, che da un suo matri- monio con Gn. Enobarbo aveva avuto un figlio,
Domizio. Agrippina, mediante sporche trame, riusd, morta Messalina, a farsi
sposare, nel 49, dall'imperatore Claudio, suo zio. Agrippina, allora, fece
revocare l'esilio di Seneca, per farlo tornare a Roma, in qualità di precettore
del figlio Domizio.:t storia nota. Agrippina riusd, dopo loschi delitti, a far
spo- sare il figlio Domizio con Ottavia figlia di Claudio e di Messalina, e,
quindi, a fare adottare da Claudio Domizio, divenuto suo genero, con-
trapponendo, per la successione al trono, Domizio a Britannico, figlio
legittimo di Claudio e di Messalina. Con il nome di Nerone, Domizio passava a
far parte della gente Claudia. Nel 51, fu data a Nerone, che non aveva ancora
compiuti quattordici anni, la toga virile. Agrippina aveva richiamato Seneca
dall'esilio, in parte per fare cosa grata al pub- blico che riteneva
ingiustamente condannato da Messalina un uomo di gran valore, in parte perché
sperava, legandolo a sé, di averlo consigliere delle sue trame politiche e
perché educasse il figlio a seconda dei suoi intenti. Nota è la fine di
Claudio, fatto, forse, avvelenare in segreto da Agrippina e note la
proclamazione di Nerone a imperatore (nel 54, a 17 anni) e la fine di
Britannico, nel 55, fatto uccidere da Nerone. ~Seneca fu lontano da tali
intrighi. Tacito che non si arresta, non che dinanzi alle colpe, dinanzi
<?-i sospetti delle colpe, non ne fa menzione: ed egli attinge con
preferenza alle fonti storiche piu ostili a Seneca. Seneca, che Agrippina
revocò dall'esilio per averlo consigliere delle sue trame poli- tiche e maestro
di Nerone, restò maestro di Nerone; consigliere di Agrippina era un uomo in
tutto degno di lei, il liberto Pallante. Quale fosse in quelle circostanze il
contegno di Seneca non sappiamo. Sappiamo però che piu tardi, morto Claudio e
proclamato Nerone imperatore, Agrippina, che già si credeva sovrana assoluta
dell'Impero, dovette su- bito accorgersi che il suo ambizioso edificio era
crollato: chi l'aveva abbattuto era Seneca" (Marchesi, cit., p. 30). Non
pare si possa essere cosf ottimisti come il Marchesi, ma certo è che furono
quelli, gli anni in cui Seneca, godendo di un certo ascendente sull'animo del
giovanis- simo Nerone (d'altra parte invidioso dello strapotere della madre),
avendo cosf, insieme ad Anneo Burro, prefetto del pretorio, uomo misu- rato ed
essenzialmente onesto, in mano la possibilità di dirigere in un certo senso lo
Stato, si adoperò a migliorarne le condizioni, ad avviare Nerone ad essere
principe nel senso stoico di moderatore, di guida, di egemonico di una res
puhlica hominum. Sotto questo aspetto assumono un loro preciso significato le
pagine violentissime di Seneca contro il tiranno (particolarmente Caligola, già
chiaramente discusso nel De ira) e l'operetta, morto Claudio, contro il principe
inetto, burattino, strumento di macchinazioni (Claudio, ap- punto, cosf
sarcasticamente e comicamente descritto nel Ludus de morte Claudii, da Dione
chiamato Apokolocynthosis, l'inzuccamento di Claudio, cioè la consacrazione
della Zucca: alla deificazione, apotheosis, di Claudio, decretata dal Senato,
Seneca rispondeva che, in effetto, era quella la deificazione di una zucca). Se
le pagine, sparse in tutta l'opera di Seneca, contro Caligola e lo scritto
contro lo sciocco e inetto Claudio, tendono a dimostrare quello che un
imperatore non deve essere, il De cle- mentia, scritto per Nerone, l'anno dopo
la sua assunzione all'Impero, quando era consigliere politico e ministro,
rappresenta da un lato il tentativo di delineare quello che l'imperatore deve
essere, dall'altro lato, com'è stato detto (Marchesi, cit., p. 59), "il
programma postivo di un vero uomo di Stato." Ben consapevole di precise
situazioni, di non trascurabili ostacoli, di condizioni, in cui "si fanno
cose che ottengono approvazione e che poi vengono punite" (De clementia,
l, 4}, in cui "una persona non può andare a un pranzo con animo lieto,
sapendo che persino nel brindare ha bisogno di controllare ogni parola"
(De clem., l, 36}, nel De clementia Seneca opera con estrema cautela, ma sempre
in funzione di realizzare, entro i limiti del possibile, uno Stato armonico,
ove vada salvo il rispetto umano, la possibilità di costituire una res-publica
hominum, mediante l'opera politica e riformatrice, interna ed estera, di Nerone
("Un saggio non farà l'elemosina s1 come la maggior parte di coloro che
vogliono passare per compassionevoli; ma tutto ciò che darà lo darà come uomo
che fa parte agli altri di beni comuni a tutti": De clementia, II, 4, 2).
Ciò che piu ha colpito del De clementia è stato in genere il suo aspetto
formale, l'apparente adulazione di Seneca che presenta un Nerone potentissimo
autocrate che, consapevole della sua enorme potenza, sa usarla a fin di bene,
per costituire una società ordinata, e che consapevole della sua funzione di
principe - in senso augusteo - in cui si assomma la nostra comune umanità,
opera secondo il principio del monarca filan- tropo (cfr. sopra), con demenza,
che Seneca chiaramerite distingue dalla misericordia (compassione) e dalla
venia (perdono}, identificandola con la giustizia sociale. In realtà bisogna
tener presente che il De clementia fu scritto quando Nerone aveva diciotto anni
appena e che molti dei delitti, fino allora avvenuti, erano stati opera di
Agrippina. Presentare Nerone sotto la veste del principe giusto e filantropo
clemente (quando ancora vivissimo era il ricordo in Roma della ip.clemenza di
Caligola e di Claudio, e il timore per Agrippina), dell'uomo consapevole del
suo dovere di sovrano in funzione di una giustizia sociale, fu, proprio nei
confronti del giovane e ambizioso Nerone, una mossa politico-retorica
estremamente abile, un impegnare Nerone ad un'azione che fosse in contrasto con
la pericolosissima linea seguita da Agrippina. In effetto Nerone, nei primi
cinque anni del suo regno, si dimostrò clemente, moderatore degli abusi,
accortissimo in politica finanziaria, nel tentativo di sollevare le classi meno
ricche limitando gli abusi fiscali, fino a giungere alla proposta
dell'abolizione di tutte le imposte dirette (proposta che fu bocciata dal Senato:
una delle poche volte che il Senato seppe opporsi, rivendicando, per timore di
perdere le proprie ricchezze, la sua libertà). Non solo, ma Nerone si dimostrò
rispettoso delle pre- rogative del Senato e delle procedure giudiziarie, mentre
cercò di risol- vere, in favore dei libecci, il problema della schiavitu.
"Intorno a quel tempo (56), si discusse in Senato"- scrive Tacito-
"circa l'arroganza dei libecci e si insistette nel chiedere che fosse data
ai patroni la facoltà di revocare la libertà a coloro che si erano resi
colpevoli di ingratitudine. Non mancavano i fautori di questo provvedimento, ma
i consoli non osarono prenderne l'iniziativa all'insaputa del principe, al
quale, tut- tavia, notificarono il consensodel Senato a tale disposizione.
Nerone era incerto se dovesse farsi promotore di questa proposta, poiché
discordi erano i pareri dei pochi intorno a lui; alcuni si indignavano perché
l'irriverenza accresciuta con la libertà si era scatenata a tal punto che ormai
i liberti godevano gli stessi diritti dei patroni, ne discutevano da pari a
pari le opinioni... [Ci fu chi fece la proposta di revocare a tutti i liberti
la libertà]... Altri, invece, pensavano che la colpa dei pochi dovesse esser di
rovina soltanto a loro e che non era il caso di meno- mare i diritti di tutti,
poiché era evidente che la classe dei liberti era ormai diffusissima. Da essa
in gran parte venivano le tribu urbane, le decurie, i dipendenti delle
magistrature e dei sacerdozi, ed anche le coorti arruolate in Roma; non diversa
origine avevano moltissimi cava- lieri e parecchi senatori, tanto che, se si
fossero posti a parte i liberti, sarebbe stata manifesta la scarsezza di uomini
liberi. Ben a ragione gli antichi, pur ponendo una gerarchia di ordini sociali,
avevano conside- rato la libertà come un bene di tutti... Poiché prevalsero
tali opinioni, Cesare rispose per scritto al Senato, ordinando di dar corso ai
processi contro i liberti caso per caso..., ma che non si prendesse alcun
provvedi- mento generale di deroga..." (Tacito, Annali, XIII, 26-ll).
Tacito non fa il nome di chi sostenne di rispettare la libertà dei libecci,
sottintendendo che per natura siamo tutti schiavi e tutti liberi. Certamente il
consigliere che decise Nerone a favore dei liberti fu Seneca, ché alcune espressioni
riferite da Tacito sono molto vicine a quelle sene- chiane, che leggiamo sia
nel De beneficiis sia nella Lettera 47 a Lucilio. Ho provato molto piacere a
sentire da quelli che vengono di costf che tu tratti i tuoi schiavi molto
familiarmente, e ciò conviene alla tua saggezza e alla tua educazione. Sono
schiavi? Uomini sono. Schiavi? Sono compagni di tetto. Schiavi? Umili amici.
Schiavi? Compagni di servitu, se consideri che la Fortuna ha ubTUale potere su
di essi e su di noi... Quanti di questi schiavi non hanno alla loro mercé il
padrone di una volta... Va ora a disprezzare un uomo di tale fortuna, quando.tu
stesso potresti cadere in quello stato, nel momento stesso che lo disprezzi!
Non voglio cacciarmi in un argomento troppo vasto e venire a ragionare intorno
~ modo come si debbono trattare gli schiavi, verso cui ci mostriamo tanto
superbi, crudeli, arroganti, Tuttavia in poche parole ti dico: "Comportati
verso gli umili come vorresti che si comportassero i grandi verso di
te..." Ti sbagli, se credi che io sia per respingere alcuni perché sono a
piu vile opera addetti, come per esempio quel mulattiere o quel bifolco: non li
giudicherò dal loro mestiere, ma dai loro costumi. I costumi ognuno se li dà
egli stesso, i mestieri li distribuisce il caso... Quel che di servile può aver
loro attaccato il commercio con persone volgari, sarà corretto con la compagnia
di persone piu educate. L'amico, caro Lucilìo, non cercarlo solo nel foro o nel
senato... Ma è uno schiavo! Che importa, forse è libera l'anima sua._ Mostrami
chi non sia schiavo: uno lo è della libidine, l'altro dell'avarizia, l'altro
dell'am- bizione, tutti della paura... Nessuna schiavit6 è piu spregevole di
quella che si abbraccia volontariamente... Qualcuno dirà ora che eccito gli
schiavi alla rivolta e tento d'intl~bolire l'autorità dei padroni per aver
detto: nutrano per i padroni piu reverenza che paura... (Ep. a Luc., 47). In
queste ultime parole sembra di rintracciare l'eco del ricordo della seduta del
56. Senza dubbio piu preciso è il ricordo di quella seduta e l'approfondimento
della questione nel De benefiçiis. Nel De beneficiis, scritto nel 56 circa,
l'anno, appunto, in cui Seneca nel Consiglio di Corte difese i liberti di
contro agli interessi del Senato e di contro a chi soste- neva che lo schiavo
essendo tale per natura non pu~ acquistare alcun diritto verso il padrone né
alcun titolo di benemerenza, Seneca dice: Sostenere che uno schiavo non può in
nessun caso esser benefattore del padrone, significa ignorare il diritto umano.
Ciò che importa è il senti- mento, non la condizione giuridica di colui che dà.
A nessuno è preclusa la virtU: a tutti è accessibile, tutti ammette, tutti
invita, liberi, liberti, schiavi, re, esiliati: essa non ha preferenze né per
case né per censi, si contenta dell'uomo nella sua nudità... t un errore
credere che la servit6 penetri in tutto l'uomo: la parte migliore ne è intatta.
L'anima è interamente libera. La fortuna ha consegnato al padrone solo il corpo
(De beneficii$., III, 19-20). Noi abbiamo tutti la stessa ~rigine. Nessuno è
piu nobile di un altro, se non chi abbia ingegno piu retto e piu adatto alle
buone arti. Coloro che espongono nel vestibolo le immagini degli antenati e gli
alberi genealogici sono piuttosto noti che nobili. Per gradini, o splendidi o
oscuri, ciascuno di noi risale a una sola origine... Chi oserà chiamare schiavo
qualcuno quando egli stesso è schiavo della libidine o della gola, anzi servo
comune di tutte le femmine adultere?... (De beneficiis, III, 28). [E nella
lettera 31, 11, ancora Seneca scriverà: "Esser virtuoso è possibile tanto
ad un cava- liere romano, quanto a un liberto, quanto a uno schiavo."
"Ma che signi- 276 fica cavaliere, liberto, schiavo? Sono
parole nate o dall'ambizione o dal- l'ingiustizia. Da ogni angolo della terra è
possibile slanciarsi verso il cielo" j. L'appello di Seneca al sovrano,
finché gli fu possibile, e la sua influenza diretta - entro i termini di
un'abile convinzione, per riuscire ad un qualche successo - si mossero nel
tentativo di determinare una· giustizia civile- obbedienza formale alle leggi.
stabilite nel tempo dalle città terrene, - valida nella misura in cui sia
capace di far proprio il contenuto di fraterna uguaglianza e di comunione umana
che è proprio della giustizia naturale (cfr. E. Garin, Giustizia, in
"Revue internati~ naie de philosophie," 41, 1957, pp. 282-283). A
parte le reali intenzioni di Nerone.e i compromessi, cui, volta a volta, possa
essere addivenuto Seneca, certo è che il motivo fondamen; tale di Seneca è
stato quello di rendere gli uomini consapevoli di sé, esseri razionali, ove per
"ragione" si intende non un dato, ma la capa- cità comune a tutti,
che ci fa tutti uguali, di riflettere sulle proprie esperienze umane,
attraverso cui essere ciascuno se stesso in rapporto agli altri, non piu
passioni unilaterali, ma articolazione e società, ché tale è l'uomo in quanto
razionalità. E questo, per Seneca, deve essere l'impegno dell'uomo, di ciascuno
per quanto a ciascuno compete, cia- scuno consapevole dei propd limiti e
perciò, entro questi, delle proprie possibilità. Se sotto questo aspetto sembra
chiaro in che senso Seneca interpreti l'affermazione stoica, che la virtU
consiste nel vivere secondo ragione" e coerentemente, altrettanto chiara
appare la dialettica senechiana tra la tesi che l'uomo è tale in quanto viva
socialmente e la tesi che l'uomo è tale in quanto fugga la folla, donde, per
altro aspetto, deriva la dialettica tra l'affermazione che siamo tutti schiavi
e l'affermazione che sianlo tutti liberi; in conseguenza, se da un lato, sia
pure come· estrema ratio politica, come esempio, quando non sia piu possibile
vivere da uomini, né avviare - anche attraverso i pio gravi compr~ messi,
sacrificando se stesso, ad essere liberi - è valido il suicidio, dall'altro
lato suprema forma di viltà è il suicidio in quanto fuga dal proprio impegno
umano, dal proprio essere sociale, atto unilaterale, e, ·perciò, irrazionale.
Infelice, sei schiavo degli uomini, schiavo delle cose, schiavo della vita: una
servitU è la vita, se manca la virtU del morire (Ep. a Luc., 77, 15). Pensare
alla morte: chi dice questo, comanda di pensare alla libertà. Chi ha imparato a
morire ha disimparato a servire: è al di sopra di ogni potere, certo al di
fuori. Quale carcere, guardia o catenaccio c'è piu per lui? ha libera la porta
(Ep. a Luc., 26, 10). Chiedi quale sia la via alla libertà? Qualsiasi vena del
tuo corpo (De ira, V, 15). 277
Ma anche quando la ragione induca a farla finita, non si deve prendere la
spinta all'impazzata e di corsa. L'uomo forte e saggio non deve fuggir... dalla
vita, ma uscirne. E soprattutto eviterà quella passione troppo comune...,
l'inconsulta inclinazione a morire, che spesso prende anche uomini generosi e di
fiera indole, spesso gl'ignavi e gli abbattuti; gli uni disprezzano la vita,
gli altri non ne reggono il peso (Ep. a Luc., 24, 24-25). Talora, anche se vi
siano cause incalzanti, bisogna, sia pur con tormento, richiamarsi alla vita
per amore degli altri... È grandezza d'animo riattaccarsi alla vita per amore
degli altri, e spesso i magnanimi l'hanno fatto... Chi non tenga conto della
moglie o dell'amico, per restare ancora in vita..., non è un forte (Ep. a Luc.,
104, 3-4). Alcune delle proposte di riforma sociale, suggerite da Seneca,
ebbero successo, altre no. Non sappiamo esattamente quale sia stata la parteci-
pazione di Seneca nella drammatica lotta per il potere tra Agrippina e Nerone,
culminata, com'è noto, con l'uccisione, ordinata da Nerone, di Agrippina (59).
Certo è che dopo la morte di Agrippina, Nerone ascoltò sempre di meno Seneca, e
dopo la morte di Burro - fatto avvelenare, sembra, da Nerone,- sostituito con
l'inetto Fenio Rufo e con il terri- bile Tigellino, Seneca non ebbe piu alcuna
voce e fu costretto a ritirarsi, anche se ufficialmente Nerone respinse le sue
dimissioni e non volle che Seneca gli facesse dono delle sue ricchezze (si
confronti il colloquio tra Seneca e Nerone riferito da Tacito: Annali, XIV,
53-56). "La morte di Burro rese vano ogni influsso di Seneca, perché i piu
saggi consigli non avevano piu lo stesso potere, ora ch'era venuta meno, per
cosi dire, l'altra guida del principe e Nerone era spinto dalla sua
inclinazione verso i peggiori elementi. Costoro cominciarono subito ad
attaccare con varie accuse Seneca, affermando che voleva aumentare ancora le
sue ricchezze, che aveva già accumulato in modo eccessivo per un privato, e
dicendo che faceva di tutto per attirare a sé le sim- patie dei concittadini,
osando quasi primeggiare di fronte al principe... e sostenendo che le cose
buone dell'lmpero.erano dovute a lui..." (Tacito, Annali, XIV, 52).
"Seneca si allontanò dalla vita politica, facendo rare apparizioni in
città, come se fosse trattenuto in casa a causa della salute cagionevole, o
perché occupato negli studi di filosofia" (Tacito, Ann., XIV, 56). Furono
questi gli anni del De otio, del D~ tranquillitate animi, del De prQtlidentia,
del De beneficiis, delle Naturales quaestiones, e delle Epistulae mora/es ad
Lucilium. In realtà Seneca, attraverso la sua opera, proponendo se.stesso come
esempio di problematica morale e di dubbio (conloquor tecum, unQ scrutabimur:
Ep. a L., 67, 2), proponendo la vita come conflitto e dia· lettica, sia pur per
altra via proseguiva nel suo insegnamento. "Anche quando lo Stato è
oppresso, l'uomo saggio ha occasione di mostrarsi. A seconda della situazione
politica, nel modo che la fortuna lo consen- tirà, o ci espanderemo o ci
raccoglieremo in noi stessi, ma comunque ci muoveremo e non c'intorpidiremo,
paralizzati dal timore" (De tran- quillitate animi, V, 3-4). Ciò che si
esige dall'uomo è che serva agli uomini: se è possibile a molti, altrimenti a
pochi, altrimenti ancora a se stesso" (De otio, III, 2, l, 4). Particolare
interesse assumono ora, anche relativamente alla situa- zione e allo stato d'animo
di Seneca in quest'epoca, le Naturales quae- stiones. Chi vada ripercorrendo i
vari motivi della riflessione senechiana, senza volere costruire un ben
ordinato sistema di Seneca, si rende sem- pre meglio conto che la ricerca di
lui si muove tutta entro l'àmbito del mondo degli uomini: da un lato nel
riconoscimento che l'uomo è limite, dolore, disperazione, groviglio di
unilaterali passioni, molteplicità; dal- l'altro lato nel riconoscimento che
l'uomo si rivela a se stesso, attraverso la riflessione sulle passioni, sui
propd fantasmi, su se medesimo, capa- cità di rendersi consapevole di sé, di
costituire sé come ragione, cioè come possibilità di con-vinzione delle
passioni, in un ordine che è misura e coerenza, di volta in volta, misura e
coerenza sociali, per cui la rifles- sione medesima (filosofia) costituisce
l'uomo come misura, istituisce un costume (mos) che è, ad un tempo, costume
sociale, come rispetto e dovere, consapevolezza del proprio compito, entro i
propd limiti (mora- lità). Sotto questo aspetto si vede bene perché, in fondo,
a Seneca non interessasse chiudersi in una o altra sistemazione apparentemente
scien- tifica, in una o altra ben definita e definitiva concezione
dell'Universo e della Natura- una avrebbe potuto essere l'ipotesi epicurea,- se
non perciò che l'uno o l'altro aspetto di una o di altra concezione potevano
servire a rendere conto della formazione morale e sociale dell'uomo. Cosi,
l'opzione di Seneca per l'aspetto piu semplice di certo stoicismo di scuola -
tutta la realtà scaturisce quale deve essere dalla tensione del principio
attivo e di quello passivo, costituendosi in un ordine, per cui ciascuna cosa
assume un suo perché, una sua ragione entro i termini della ragion d'essere
universale, la natura naturante- si determina non come dato a priori, ma come
scoperta, attraverSQ la stessa scoperta (mediante la riflessione su se stessi)
dell'uomo come razionalità. In tal senso la ragion d'essere del tutto si pone
piu come ipotesi che come dato, come termine che si coglie attraverso noi
stessi e che, perciò, ci trascende dal di dentro. E qui, in realtà, il discorso
si fa diverso da quello stoico - se mai piu vicino, forse, a quello di Panezio
e di Posidonio, - anche se ven- gono riprese certe argomentazioni, certi t6poi
stoici, che, poi, non solo sono degli stoici (ad esempio, accanto alla
riflessione su se stessi, la riflessione sul tutto che si rivela ordinato e
scandito in leggi, da cui l'ipotesi di una suprema legge che provvede a tutto);
e il discorso si fa quello di alcuni stoici, nel senso che quell'ordine, quella
legge del tutto, quella stessa provvidenza non sono posti su di un piano
antico, ma, ripetiamo, su di un piano etico, cioè si rivelano e si scoprono
attraverso la stessa riflessione etica, divenendo termini di speranza, non di
dimo- strazione scientifica. Altro è perciò il piano della fisica, altro quello
della logica. E se da un lato la riflessione etica prospetta l'uomo come
razionalità, mediante cui l'uomo si libera da se stesso passioni, frantumi e
fantasmi; dall'altro lato rende consapevole l'uomo dei suoi stessi limiti,
della sua condizione estremamente infelice e determinata, consapevo- lezza
senza di cui, comunque, non vi sarebbe moralità, ma ancora una volta passione e
tracotanza. Compromettere la realtà ad un ordine già dato e necessario,
sostenere che tutto è già fatalmente costituito, sarebbe stato negare la stessa
possibilità della vita morale, la possibilità di ren- dersi consapevoli di sé,
di educarsi e di correggersi; si come sarebbe stato un negare la moralità, la
stessa esperienza umana, sostenere la libertà, la mancanza di un qualsivoglia
limite, di una qualsivoglia con- dizione. Non a caso su di un piano ontico e
fisico, anche relativamente all'immortalità o no dell'anima, Seneca non
conclude mai, sospende il giudizio, ponendo le varie tesi come ipotesi; mentre
sul piano di una quotidiana esperienza chiarisce che Jòuomo è limite, è
chiusura, è nulla di fronte all'immensità dell'infinito Universo; solo che,
appunto, tale sentirsi nulla, tale riflessione sulla propria miseria, sulla
infinita natura che circonda e schiaccia l'uomo, fa sorgere nell'uomo - e anche
questa è un'esperienza- la consapevolezza di sé come capacità, entro i propri
limiti, di costituirsi razionalmente, cioè moralmente. Se da un lato, dunque,
poteva scrivere in una delle sue prime opere (Consolatio ad Marciam, 19, 5):
'"Liberazione di ogni ambascia è la morte: piu in là non si estende
l'umano dolore. Essa ci ripone in quella pace nella quale fummo prima di
nascere_, La morte non è né bene né male: quello può esser bene o male che è
qualche cosa; ciò che per se stesso è nulla e ogni cosa riduce in nulla non ci
rimette a fortuna: non può esser misero chi è nulla"; se ancora molto dopo
scriveva: '"Non v'è differenza alcuna tra il non nascere e il morire; ché
uno è l'effetto: non essere" (lAt. a Luc., 54, 5); '"l'anima lascia
questa vita per una vita migliore, destinata a rimanere nella calma luminosa
delle cose divine; oppure esente da ogni incomodo, si ricongiungerà alla sua
natura e ritor- nerà nel gran tutto" (lAt. a Luc., 61, 16); dall'altro
lato, posto che la realtà della vita umana ha i suoi termini tra la nascita e
la morte, giunto alla fine della sua vita, Seneca scrive: '"Mi compiacevo
l'altro giorno di pensare, anzi di cr~d"~ all'immortalità dell'anima, e
credevo volentieri alla opinione dei grandi uomini che di una cosa tanto
consolatrice ci danno piuttosto la promessa che non la prova: e mi abbandonavo
a tanta speranza, dabam me spei tantam" (Lett. a Luc., 102, 1-2). Entro
questi stessi termini, l'indagine sulla natura non ~ per Seneca un'indagine
mediante cui determinare principi che rendono pensabile, cioè scientificamente
conoscibile, la realtà, ma è meditazione sulla natura; mediante cui liberarsi
dalle umane distrazioni e dispersioni, mediante c;UÌ rendersi conto di quanto
misero, nullo, piccolo, sia l'uomo quoti- diano, tutto preso dalle sue
passioni, dai suoi fantasmi. E, ancora una volta, tale visione della natura,
infinita, ordinata nelle sue leggi, che smaga l'animo dell'uomo, avvia l'uomo a
scoprire sé come ragione, a postulare che tutto sia retto da un'infinita
ragione, passando analogi- camente dal noto all'ignoto. Se ti vuoi persuadere
che la natura ha voluto essere contemplata e non solo guardata, pensa al luogo
che ci ha assegnato: ci ha posti nel suo centro, offrendoci la visione completa
dell'universo; e, per rendergli agevole la contemplazione, non solo ha creato
l'uomo eretto, ma perché potesse seguire gli astri dal loro sorgere al loro
tramontare ·e volgere il suo viso a seconda del moto dell'universo, gli ha dato
un capo rivolto verso il cielo e un collo flessibile. Poi, facendo ruotare i
segni zodiacali (sei durante il giorno e sei durante la notte), ha dispiegato
dinanzi all'uomo tutta se stessa, per ispi- rargli, attraverso la visione delle
cose che gli offre, il desiderio di contem- plare anche le altre. Infatti noi
non scorgiamo tutte le cose né le vediamo nella loro giusta grandezza, ma il
nostro sguardo si apre la via all'investi- gazione e· riesce a gettare le
fondamenta del vero, cos{ che la ricerca può passare dal noto all'ignoto e
concepire qualcosa di piu antico ancora del mondo... (De otio, V, 4-5). E anche
questa è una spertmza e un'esperienza. Una speranza in quanto l'ordine e la
razionalità si pongono come un bene da realizzare; una esperienza in quanto la
scoperta della presenza in sé della propria razionalità, la capacità di porre
in sé misura e armonia ~ tanto lontano dall'essere un fatto umano, che si
rivela come presenza di un valore super umano. Tale il Dio di Seneca: da un
lato la ragion d'essere del tutto, del tutto nella sua totalità razionale e
ordinata, in senso stoico; dall'altro lato, la possibilità nell'uomo di
costituirsi razionalmente, lo stesso sorgere della coscienza come consapevolezza
di sé, dei propri limiti ed entro questi del proprio impegno. Di qui, da una
parte, U rifiuto dell'ipotel!i fisica di Epicuro, che smarrisce l'uomo nel
caso, dal- l'altro lato l'appello epicureo ad un annullamento dell'uomo
nell'eterno riposo del nulla. Certo, a tale concezione di Dio, immanente e
trascendente a un tempo, Seneca chiaramente giunse nell'ultimo periodo della
sua medi- tazione, anche se fin dal principio poneva come ipotesi la tesi
stoica di un tutto frutto della tensione del Logos (Dio), principio attivo, e
della materia (quantità, principio passivo). Nelle ultime opere, dal De bene-
ficii.r alle Lettere a Lucilio alle Questioni naturali, sempre piu Seneca
insiste sull'esperienza del divino in noi, inteso come la stessa coscienza, e
sulla meditazione intorno ai fenomeni della natura (donde le Quae-.rtione.r
natura/es, che per il resto sono una descrizione di fenomeni) che, di là dalla
nullità dell'uomo, rivelano la presenza di una suprema e provvidente divinità.
~ sembrato cosi che in Seneca vi sia un'oscillazione tra due conce- zioni di
Dio: un Dio inteso come natura naturan.r, mente dell'Universo, tutto ciò che si
vede e non si vede, rettore e custode dell'Universo, signore e artefice di
quest'opera, al quale ogni nome conviene (cfr. Nat. quae.rt., l, praef. 13, 14;
Il, 45), sempre in atto ed entro cui si svolgono in pro- cesso circolare tutte
le vicende delle cose, il nascere e il perire, neces- sariamente; e un Dio
trascendente, esigenza e speranza, posto oltre la natura. Certo è che la
meditazione su Dio di Seneca non è una teologia, né una rivelazione da.parte di
Dio come lo sarà nel çristia- nesimo. Si capisce, comunque, in che senso Seneca
abbia avuto un'enorme influenza sui pensatori cristiani, tanto che di lui essi
potranno dire, Seneca.raepe no.rter; mentre, per altra via, si scrisse, tra il
IV e il v secolo, una serie di lettere che si finse essere un epistolario tra
Seneca e San Paolo. "Tra la filosofia di Seneca e la religione di S.
Paolo," ha scritto il Marchesi, "è un abisso; per Seneca l'uomo
redime se stesso con l'opera della ragione, per San Paolo si lascia redimere da
Dio nell'abbandono della fede; nel Cristianesimo Dio è il salvatore degli
uomini, nella dot- trina di Seneca l'uomo è il salvatore di se stesso... Per
Seneca è la.rapientia che distrugge ogni culto positivo, vale a dire ogni
supersti- zione, con lo spietato· esercizio della ragione. Dicono che Seneca
sia tanto vicino al Cristianesimo coloro che, dimenticando del Cristianesimo
l'essenza positivamente religiosa, giudicano soltanto attraverso alcune formule
vaghe di moralità e di umanità... [Chi sa quale sarebbe stato] il giudizio di
Seneca, se accanto al seggio di suo fratello Gallione in Corinto [che doveva
giudicare Paolo] avesse sentito annunciare da San Paolo che Gesu era il Cristo
morto e risuscitato per affrancare gli uomini dalla legge del peccato e della
morte" (Marchesi, cit., p. 420). In realtà la problematica senechiana sul
divino è un altro aspetto della meditazione di Seneca sull'esperienza morale
dell'uomo. Su questa linea sembrano particolarmente interessanti e indicativi
due testi di Seneca: l'uno relativo all'indagine scientifica, in cui chia-
ramente appare come Seneca, nettamente distingua il tipo della ricerca scientifica
dal tipo della: ricerca filosofica (il tipo della ricerca scientifica.si fonda
sull'ipotesi e sulla descrizione del fenomeno, lasciando aperta la possibilità
di altre ipotesi, di altre ulteriori ricerche; la ricerca filo- Sofica, invece,
si fonda sulla meditazione di se stessi, ed è strumento per costruire se
stessi, attraverso la meditazione stessa, per cui, appunto, la filosofia non è
né la fisica né la logica, né la matematica, ma è da un lato moralità e
dall'altro lato consolatio, o, sotto questo aspetto, con- vinzione, cioè retorica
e politica); l'altro testo relativo alla meditazione sulla natura come capace
di liberare l'uomo dalle sue ostinate illusioni, in una rivelazione a sé del
divino come esigenza e presenza di una mancanza, che è la scoperta della stessa
consapevolezza e della razio- nalità, della possibilità umana della constantia.
Nel primo testo, che si trova nelle Naturales quaestiones, discu- tendo sulla
natura delle comete, dopo aver esposto l'ipotesi di Epigene, seguace di
Aristotele, secondo il quale le comete si formano come una specie di fuoco
trascinato in alto da un vortice, e l'ipotesi di Apollonio di Mindo, suo
contemporaneo, secondo cui le comete sono astri sepa- rati come il sole e la
luna, e dopo aver rifiutato l'ipotesi di certi stoici secondo i quali le comete
son fiamme improvvise, Seneca, che in parte propende per l'ipotesi di Apollonio
di Mindo, cosi conclude: Perché dovremmo sorprenderei se un fenomeno cosmico
tanto raro come quello delle comete non può venire inquadrato nell'àmbito di
leggi regolari, e se non ne possiamo conoscere né l'inizio né la fine, poiché
esse compaiono a intervalli di tempo tanto grandi?... Giorno verrà che le cose
ancor celate a noi trarrà alla luce il tempo e la diligenza di piu lungo corso
di secoli; a cosf grande ricerca non basta una sola età... Molte cose ignote a
noi sapranno le genti delle età future... (Nat. quaest., VII, 25, 30-31). Nel
secondo testo, cui àlludevamo, dice, invece, Seneca: Quando ci saremo sollevati
alla vera grandezza [la grandezza della natura], quante volte vedremo marciare
degli eserciti a vessilli spiegati, e la cavalleria, come fosse gran cosa, ora
lanciarsi in esplorazione all'avan- guardia, ora riversarsi alle ali, potremo
ripetere volentieri: "Va il nero sciame pei campi" [Virgilio, Eneide,
IV, 404]; evoluzioni di formiche sono le nostre: nessuna differenza è fra esse
e noi, tolta l'estrema esiguità del loro corpo. Su di un solo punto noi
navighiamo e combattiamo e stabiliamo i nostri imperi, minimi imperi, anche se
avessero per limite i due oceani; sopra di noi sono gli spazi grandi, che
l'anima solo può possedere. t tanto l'errore dei mortali che alcuni di essi
guardano il mondo, questo miracolo di bellezza, di armonia e di bontà, come un
prodotto fortuito, in balla del caso, e perciò tumultuoso in mezzo ai fulmini,
alle nubi, alle tempeste e a tutti gli sconvolgimenti della terra e
dell'atmosfera: e non è solo pazzia
283 dd volgo codesta, ma di uomini che hanno professato la
sapienza. Alcuni, pure ammettendo l'esistenZa di un'anima umana previdente e
moderatrice, credono che questo grande tutto, del quale anche noi siamo parte,
è privo di intdligenza ed è mosso dal caso o dalla natura ignara di· quello che
fa [ove è evidente i l rifiuto ddl'ipotesi fisica dell'epicureismo]...
Osservare queste cose [se vi sia un dio che abbia fatta la materia o se l'abbia
soltanto adoperata, se l'idea preceda la materia o la materia l'idea, se Dio fa
tutto ciò che vuole, oppure no, se dalle nubi del grande artefice escano opere
difettose non per difetto dell'arte ma della materia ribelle all'arte e cos{
via], osservare. queste cose, studiarle, vegliare su di esse, è oltrepassare i
limiti della mortalità e trasferirsi a pi6 alto destino; e se nessun altro
frutto rica· veremo da codesti studi, ci basterà soltanto sapere che tutto è
angusto allor- ché avremo misurato Dio (Natura/es quaest., I, praef., 10-17). E
cos{ Seneca esclama in una Lettera a Luci/io (41, 1-2): Non c'è bisogno
d'innalzare le mani al cielo, né pregare il custode dd tempio che ci lasci accostare
alle orecchie del simulacro, perché meglio ci esaudisca: vicino a te è Dio, con
te, dentro di te... Un sacro spirito risiede entro di noi, osservatore e
custode della nostra malvagità e bontà; e nella Lettera 73, 16: Ti meravigli
che un uomo vada verso gli dèi?.Dio va verso gli uomini, anzi, pi6
propriamente, viene negli uomini: nessun'anima senza Dio è vir- tuosa. Semi
divini sono diffusi negli umani corpi (Miraris hominem ad deos ire? Deus ad
homines venit, immo quod est propius, in homines ve- nit: nulla sine deo mens
bona est. Semina in corporibus humanis divina dispersa sunt...). Dopo la morte
di Burro (62 d. C.) e l'allontanamento di Seneca, sempre piu scellerato e
terribile divenne il governo di Nerone. Le ucci- sioni e i delitti si
susseguirono alle uccisioni e ai delitti. Si ordf allora una congiura. Capo di
essa ne fu Calpurnio Pisone. Vi aderirono "a gara senatori, cavalieri,
soldati e anche donne, tanto accesi da odio contro Nerone, quanto da simpatia
per C. Pisone" (Tacito, Ann., XV, 48). La delazione di un liberto e la
debolezza di due congiurati che non seppero resistere allo spavento delle
torture - mentre la liberta Epicari, torturata, eroicamente si uccise piuttosto
che parlare - fece scoprire la congiura. Ci fu chi rivelò che capo della congiura
era Pisone - si pensava anzi, se la cosa fosse andata, di proclamare Pisone
impe- ratore - e si aggiunse anche il nome di Seneca, "forse per
procurarsi il favore di Nerone che odiava Seneca e che cercava ogni mezzo per
sopprimerlo" (Tacito, Ann., l.c.). Sembra, comunque, che una parte dei
congiurati avesse realmente pensato a Seneca piuttosto che a Pisone come
possibile imperatore. Non sappiamo niente di un'azione diretta di Seneca. Di
fatto sappiamo che Seneca, accusato di accordi con Pisone, fu condannato a
morte, come a morte furono condannati Calpurnio Pisone e Plauzio Laterano. Era
l'anno 65 d. C. Nerone comandò di andare da Seneca con l'ordine di morire...
Seneca, impavido, chiese che gli portassero le tavole del testamento e, poiché
il centurione rifiutò, si volse agli amici dichiarando che, dal momento che gli
si impediva di dimostrare la sua gratudine, lasciava a loro la sola cosa che
possedeva e la piu bella, l'esempio della sua vita. Se avessero di questa con-
servato ricordo, avrebbero conseguito la gloria della virtU come compenso di
amicizia fedele. Frenava, intanto, le lacrime dei presenti ora col sem- plice
ragionamento, ora parlando con maggior energia e, richiaD'laJI.dO gli amici
alla fortezza dell'animo, chiedeva loro dove fossero i precetti della saggezza,
e dove quelle meditazioni che la ragione aveva dettato per tanti anni contro la
fatalità della sorte. A chi mai, infatti, era stata ignota la ferocia di
Nerone? Non gli rimaneva ormai piu, dopo avere ucciso madre e fratello, che aggiungere
l'assassinio del suo educatore e maestro. Come ebbe rivolto a tutti queste
parole ed altre dello stesso tenore, abbracciò la moglie e, un po' commosso
dinanzi alla sorte che in quel momento si com- piva, la pregò e la scongiurò di
placare il suo dolore e di non lasciarsi per l'avvenire abbattere da esso, ma
di trovare nel ricordo della sua vita vir- tuosa dignitoso aiuto a sopportare
l'accorato rimpianto del marito perduto. La moglie dichiarò, invece, che anche
a lei era stata destinata la morte, e chiese la mano del carnefice. Allora
Seneca, sia che non volesse opporsi alla gloria della moglie, sia che,fosse
mosso dal timore di lasciare esposta alle offese di Nerone colei che era
unicamente diletta al suo cuore: "Io ti avevo mostrato," disse,
"come alleviare il dolore della tua vita, tu, invece, hai preferito
l'onore della morte: non sarò io a distoglierti dall'offrire un tale esempio.
Il coraggio di questa fine intrepida sarà uguale per me e per te, ma lo
splendore della fama sarà maggiore nella tua morte." Dette queste parole,
da un solo colpo ebbero recise le vene del braccio. Seneca, poiché il suo corpo
vecchio e indebolito dal poco cibo offriva una lenta uscita del sangue, si
recise anche le vene delle gambe e delle ginocchia, e abbattuto da crudeli
sofferenze, per non fiaccare il coraggio della moglie e per non essere
trascinato egli stesso a cedere di fronte ai tormenti di lei, la indusse a
passare in un'altra stanza. Anche negli estremi momenti non essendogli venuta
meno l'eloquenza, chiamati gli scrivani, dettò molte pagine, che testualmente
divulgate tralascio di riferire con altre parole. Pertanto Nerone, non avendo
alcun rancore personale contro Paolina, moglie di Seneca, dette l'ordine
d'impedirne la morte perché non si accre- scesse l'odiosità della sua ferocia.
All'imposizione dei soldati, i servi e i liberti legando le braccia trattennero
il sangue a lei che non sappiamo se di tutto ciò avesse o no la sensibilità...
Visse ancora pochi anni, conservando sacra
memoria del marito, nel volto e nel corpo bianco di quel pallore che era segno
palese della vitalità perduta. Seneca, frattanto, protraendosi la morte lenta,
pregò Anneo Stazio da lungo tempo amico suo e famoso per l'arte medica, di
propinargli quel veleno [cicuta] già da tempo provveduto, col quale si facevano
morire gli Ateniesi condannati i~ pubblico giudizio. Avutolo, lo trangugiò
invano perché il gelo aveva già invaso le membra e il corpo era ormai
refrattario all'azione del veleno. Alla fine, entrò in una vasca piena d'acqua,
spruzzandone i servi piu vicini a lui\~ dicendo di fare con quel liquido
libazione a Giove liberatore. Fu portato poi in un bagno a vapore dove mori
soffocato. Fu cremato senza alcuna solenne cerimonia funebre, come aveva
prescritto nel suo testamento, quando ancora nel pieno della ricchezza e della
potenza aveva dato disposizioni intorno alle sue ultime volontà (Tacito,
Annali, XV, 61-64). E non molto tempo prima della sua condanna, certo dopo la
sua caduta in disgrazia, quando si era ritirato da quella vita politica che non
era piu politica e per la quale non c'era piu nulla da fare, se non con
l'esempio di una verace vita ragionevole e perciò stesso, per altro verso, di
una verace vita politica, cosi scriveva Seneca a Lucilio (Lett. 26), quasi
concludendo il suo discorso, la sua riflessione in cui consiste la stessa
moralità: Vicino al momento della prova, vtcmo a quell'ultimo giorno che deci-
derà di tutti i miei anni, cosf veglio su me stesso e mi parlo. Fino a oggi,
dico, non ho fatto nulla di sicuro né con gli atti né con le parole, indizi
lievi e ingannevoli dell'animo. Alla morte affiderò il mio profitto. Pertanto
io mi preparo coraggiosamente a quel giorno in cui, messo da parte ogni
artificio, giudicherò di me stesso, e farò vedere se il mio coraggio era nel
cuore o sulle labbra, se fu simulazione o commedia la mia sfida gettata alla
fortuna. Non conta nulla la stima degli uomini: essa è sempre dubbiosa ed è
accordata tanto al vizio quanto alla virtu; non contano gli studi di tutta la
vita: la morte sola è il giudice nostro. Le dispute filosofiche, le dotte
conversazioni, i precetti della sapienza non dimostrano la vera forza
dell'animo: anche gli uomini piu vili hanno linguaggio da ero~. Le opere tue
appariranno solo all'ultimo tuo sospiro. Accetto questa condizione: non temo il
tribunale della morte (Lett., 26, 4-7). Per
chi non si affidi a semplicistiche e nette distinzioni manuali- stiche nel
delineare la formazione della cultura nell'arco di tempo che va dalla seconda
metà del I secolo agli inizi del m secolo d. C., sembra difficile insistere su
precise posizioni, diverse le une dalle altre, chiara- mente distinguibili per
èaratteristiche proprie. Parlare di "neopitago- rismo, " di
platonismo medio, di stoicismo cinicheggiante, di gnosticismo, di ermetismo e
cosi via, come di blocchi avulsi da un comune terreno e da comuni reciproche
influenze, che non si scandi- scono nel tempo e non rispondono a comuni
esigenze, è falsare il signi- ficato di una viva cultura, di problemi concreti,
niente affatto cristallizzati, quali, invece, appaiono a noi nella noia di una
tradizione scola- sticizzatasi. Non solo, ma altrettanto fuorvianti sono le
stesse denomi- nazioni indicative: platonismo, stoicismo, pitagorismo. Tali
denominazioni non indicano nulla: se mai possono evocare uno o altro aspetto di
uno o altro platonismo o stoicismo o pitagorismo determina- tisi storicamente.
Sappiamo che se già in Platone vi sono molti Platone, se già in Aristotele vi
sono molti Aristotele, molti sono stati poi, dopo Platone e dopo Aristotele, i
platonismi e gli aristotelismi, s1 come molti, nel tempo, sono stati gli
stoicismi, per non parlare dei modi diversi con cui ha giuocato la leggenda di
Pitagora. Dopo Platone e dopo Aristotele, di Platone e di Aristotele si sono
andati riprendendo, volta a volta, quegli aspetti che piu rispondevano a certe
esigenze e problematiche, in funzione di concezioni che con Platone e
Aristotele, considerati sto- ricamente, non avevano piu nulla di comune.
Abbiamo veduto quale Platone e quale Aristotele abbiano potuto tener presenti
certi stoici e come quegli stessi aspetti di Platone o di Aristotele si siano
potuti trasfigurare, in interpretazioni che a loro volta sono venute trasfigurando le originarie
posizioni stoiche (si ricordi, ad esempio, la storia dell'Accademia profilata
da Filone di Larissa ·e la storia dell'Accademia profilata invece da Antioco di
Ascalona: cfr. sopra). Abbiamo cos1 veduto come sul piano del tentativo -
d'altra parte già implicito nell'ultimo Platone - di rendere pensabile
l'Essere, costitUito dal mondo delle idee, si sia sciolto l'Essere stesso in
quantità misurabile e traducibile in termini numerici: di qui, pio tardi, si è
potuto rico- struire tutta la realtà scandendola in numeri e figure
geometriche. E se questo, per un verso, è stato detto • pitagorismo," per
altro.verso quello stesSo pitagorismo, nel suo tradurre le leggi del tutto in
numeri, ha potuto servire sia all'astronomia di. tipo stoico sia allo stesso
stoicismo, nella sua interpretazione fisico-matematica del Timeo di Platone (si
cfr., per esempio, già èicerone, Rep,ubblica, I, 15). Per altra via, la critica
acuta e inesorabile delle condizioni, che rendono possibile il ragionare umano,
portava a mettere in dubbio l'adeguazione dell'intelletto e della cosa -
condizione prima perché sia possibile la conoscenza delle strut- ture ddla
realtà in quello che la realtà è, e ch'era stata, sia pur in via ipotetica, la
tesi prima di Platone, - in una precisa dimostrazione che ogni concezione del
tutto è opinabile e controvertibile. Non si scordi, qui, la linea che va da
Arcesilao a Carneade, i quali, non a caso, inter- pretano il platonismo nel suo
aspetto problematico e aporetico, socrauco; e piu ancora la linea che va da
Enesidemo ad Agrippa tra il I a. C. e il I d. C. Poiché, in fondo, gli stessi
scettici presuppongono l'esistenza di una realtà per sé, oltre le possibilità
umane, si vede bene di qui, in oppo- sizione al neo-pirronismo che finiva con
l'estraneare l'uomo dalla realtà, involgendolo in un puro giuoco di parole,
dove tutto è giuoco di parole, la ripresa di certi motivi platonici,
pitagorici, aristotelici. Cos(, renden- dosi conto della validità ddla critica
scettica, si accetta quella realtà presupposta, giungendovi, per analogia, in
termini logici, cioè optando per quelle concezioni che appaiono meno
contraddittorie e piu capaci di dare una forma e un senso alla vita (da Antioèo
di Ascalona ad Ario Didimo a Seneca, che hanno potuto essere a un sempò stoici
e platonici). Oppure, sempre entro i termini di un platonismo e di uno
stoicismo di sfondo, che accetta la concezione di un tutto ordinato e scandentesi
in ben fisse e precise leggi, la v~sione degli astri e dei mondi regolati da
leggi e cos1 via, che è oramai un t&pos, cui poteva servire certo primo
Aristotele ç> certo Aristotele fisico, interpretato in chiave stoica (si
ricordi lo pseudo aristotelico De mundo, composto appunto nel I secolo d.C.),
si poteva sostenere che, proprio perché l'uomo è incapace e limite, proprio
perché l'umana ragione resta sul piano umano, è quella stessa verità
trascendente che scende all'uomo, che all'uomo si rivela (si pensi a Filone
l'Ebreo e, per altro verso, ancora a Seneca). Oppure, ancora - certo in
ambienti piu popolari, meno intellettual- mente scaltriti - abbiamo il recupero
di Pitagora mago e taumaturgo, di quello che il Dodds ha detto il Pitagora
sciamano, egli stesso consi- derato piu che anima in senso greco (forza vitale
e unifiéatrice), anima divina, personale, trascendente, che si incarna di volta
in volta in uo- mini che, esprimendo perciò il verbo di Pitagora, essi medesimi
novelli Pitagora, si presentano come salvatori, facitori di miracoli, profeti.
D'altra parte va sottolineato che entro questi termini, entro questa esigenza
comune, non è neppure un solo aspetto dell'interpretazione di Platone né un
solo aspetto dell'interpretazione del pitagorismo né di Aristotele che vengono
assunti. A seconda delle difficoltà, nel tenta- tivo di spiegarsi la realtà e
il suo significato in funzione dell'umano vi- vere e della umana condizione, a
seconda degli stessi ambienti nei quali e per i quali si cerca di operare,
delle tradizioni, delle polemiche in ari ci si viene a trovare, ci si appella a
uno o altro aspetto delle inter- pretazioni di Pitagora, o di Platone o di
Aristotele. O ci si rifà all'ul- timo Platone dialettico (Teeteto, Parmmide,
Sofista, Filebo), puntando su di una certa interpretazione dell'Essere Uno che
si costituisce in una molteplicità; o al Plat~me interpretabile come avente
posto una relazione con l'Uno, con il divino in termini intuitiv~, mistici. O
ci si appella al pitagorismo pi6 strettamente matematico,· capace di rendere
conto in ter- mini numerici e di misure (in ciò razionali) della stessa visione
plato- nico-stoica di un universo uno e inolteplice a un tempo, sia esso poi
do- vuto all'atto proprio di un Dio trascendente e che tale resta o di un Dio
che tale si costituisce e si riconosce nello stesso costituirsi della realtà
tutta; oppure ci si rifà a un pitagorismo interpretabile come spiegazione della
stessa "platonica" unione mistica mediante il motivo della purifi-
cazione delle anime divine, distinte e altre dai corpi, dalla materia, in un
conflitto fra.i due principi del Bene e del Male, dal quale si sfugge se,
ele.tti dal dio, si compiono certi esercizi (ascen), si· conduce una certa vita
("vita pitagorica"), cos1 che non poco suggestivi divengono certi
misteri orientali e l'interpretazione in questa chiave dei misteri greci
(dionisismo e orfismo) e di quelli egiziani, insieme agli aspetti cultuali
operativi dell'astrologia. Di qui la presentazione di esempi di "vita pi-
tagorica," di esempi di vita ascetica, oppure di uomini che sostengono di
essert Pitagora reincarnato, che compiono miracoli e cos{ via. Ma anche, di
qui, in ambienti a pi6 alti livelli, attraverso la ripresa del pita- gorismo
matematico-geometrico, del platonismo dialettico, dell'Aristo- tele protrettico
e di certe parti piu platoniche della Fisica e della Meta- fisica, ma anche
degli aspetti piu formali della logica (Categorie, Topici, Primi tmaliticr),
che, innestandosi ad alcune parti della logica stoica, po- tevano servire da
esercizio e introduzione, da avviamento alla visione platonico-stoica, insieme
agli aspetti piu teologici e ontici della fisica stoica, si fa il tentativo di
oltrepassare il mondo umano, per giustificare proprio quel mondo umano che le
correnti critico-scettiche ed epicuree abbandonavano a se stesso: le une
chiudendo l'uomo nelle sue stesse parole, negandogli ogni contatto e senso
della realtà e della vita; le altre dando all'uomo una responsabilità paurosa,
in una rivolta al di- vino ch'era, pur sempre, una rivolta alle autorità
costituite, in un am- biente, in cui, di fatto, non v'era un popolo, in quanto
mancava il concetto e la coscienza della sua realtà, o meglio altra n'era la
coscienza. Sono, questi, motivi assai diffusi, tra il I e il 11 secolo d. C.,
che si intrecciano e si trovano talvolta giustapposti in uno stesso autore. Non
solo, ma di essi già chiara traccia si ha, come abbiamo veduto, in Filone
l'Ebreo, che certo sfruttava una tradizione interpretativa ormai cristal-
lizzatasi; in certi testi magico-astrologici e magico-alchimistici di ori- gine
egiziana; in testi che costituiranno poi il corpus ermetico; nell'in-
segnamento della Scuola romana dei Sestii (tra pitagorica e stoica); nel
diffuso metodo allegorico, nella diffusissima simbolica dei numeri e nelle
molte pratiche magico-terapeutiche (cfr. sopra). In altra sede sarebbe ora il
caso di riportare tutta una serie di testi (da Cicerone, da Ario Didimo, da
Manilio,. da Filone, da Seneca, da passi astrologici e chimici certamente del I
a. C.) per confrontarli con tutta un'altra serie di testi ripresi da Moderato
di Gade (I d. C.), da Nicomaco di Gerasa (I d. C.), dall'autore dei Theologumma
(I d. C.), dalla Tavola di Cebete (I d. C.: opera attribuita al pitagorico
Cebete di Tebe, scolaro di Socrate, in cui si dà un'interpretazione allegorico-
simbolica di tono pitagorico-stoico delle raffigurazioni dipmte in un quadro),
da Apuleio (n d. C.), da Plutarco (n d. C.), da Numenio di Apamea (11 d.C.).
Vedremmo coincidenze impressionanti, ma soprat- tutto ci renderemmo conto di
come una certa tradizione culturale, par- ticolarmente formatasi tra il 11 e il
I secolo a. C. (vedi sopra), sfruttando e ritagliando testi pio antichi
(Platone, Aristotele, il •pitagorismo" pla- tonico-matematico, lo
stoicismo di tipo Cleante - si veda in tal senso Antioco di Ascalona), giuochi
ora, tra il I e il 11 secolo d. C., in fun- zione di una comune esigenza, ma in
un approfondimento e sviluppo dell'uno e dell'altro motivo, a seconda non solo
dei livelli sociali, ma anche della formazione culturale dell'uno o dell'altro
autore e dell'am- biente in cui ciascuno si _è venuto a muovere. Entro questi
limiti si possono, forse, riprendere i termini pitagorismo e stoicism in senso
molto lato,- qualora con l'uno e l'altro termine ci si riferisca a pio motivi,
confluenti, ad ogni modo, in una comune concezione, diversificantesi
relativamente ai modi di intendere lo strutturarsi della realtà. Cos(possiamo
anche dire pitagori••anli e 290 platonizzanti quelle posizioni
che, nel tentativ(\ di rendere pensabile la intuita ragion d'essere del tutto,
sulla scia della antica interpretazione di Speusippo e di Senocrate, traducono
il discorso del reale in termini numerici e geometrici, donde tutta una
simbolica di numeri. Solo che in tal caso, ed è molto indicativo, in realtà non
ci si riferisce diretta- mente alla figura di Pitagora, ma al Pitagora quale
avrebbe risuonato in Filolao ed Archita, da cui avrebbe, a sua volta, ripreso
Platone (par- ticolarmente il Platone del Timeo) e da Platone poi certe
posizioni stoiche e lo stesso Aristotele. Non a caso già dal 1 secolo a. C., a
parte la notevole diffusione ch'ebbe il Timeo, erano circolati testi sotto il
nome di Archita di Taranto (De mundo, De principio, De ente, De intel- lectu et
sensu, De sapientia: cfr. framm. in Stobeo, Ecl., I, 41,2 e 5, 48,6; Il, 2, 4
W.; Giamblico, Protr., 3), di Onato di Crotone (De deo et divino: cfr. fr. in
Stobeo, Bel., l, l, 39 W.), e un opuscolo Sull'anima del mondo, attribuito a
Timeo di Locri, che è, senza dubbio, un'inter- pretazione stoica del Timeo di
Platone, e molte altre opere andate sotto il nome di Pitagorici antichi, che
vennero raccolte dal re Giuba II di Numidia (50 a. C.-23 d. C.) (si confronti
Cicerone, Rep., l, 15 e la sintesi di Antioco di Ascalona). Si vede bene come,
in questa direzione "pitagorismo," "platonismo,"
"stoicismo," potevano servire a rendere conto di una visione ordinata
e armonica della realtà, tale, appunto, in quanto possibile d'essere mi- surata
(razionalizzata) e per cui. i numeri divenivano i simboli stessi delle cose, la
ragion d'essere della realtà, e dove assumeva un suo si- gnificato scientifico
l'astrologia e la divinazione, lo studio delle rifrazioni dei lumi stellari (da
cui anche gli studi di ottica e di diottrica), lo studio di tecniche, mediante
cui operare su quei numeri stessi, sulle anime- n!Jmeri, sui dèmoni-numeri,
interpretati come leggi intermedie tra la suprema ragion d'essere (la monade) e
il costituirsi delle cose sensibili, in un ordinamento (di diade in diade)
della informe materia (appunto perché informe, essa non numero, non ragione,
non essenza). E qui si ripresentava il grosso problema dell'eternità del mondo
uno nell'unità di Dio sempre in atto, ove i cangiamenti sono interni a ciascuna
realtà nell'ordine del tutto -per cui in effetto nulla cangia, - o del mondo le
cui qualità si scandiscono nel tempo attraverso la·tensione qualificante del
principio primo, che agisce, mediante il realizzarsi dei modelli in atto in
lui, sulla informe materia, da cui il processo del mondo e una degradazione del
mondo fino al limite materia, l'ostacolo che resta e su cui, perciò, si può
operare. Entro questi termini ci si rende conto della polemica tra coloro che
sostengono l'interpretazione del tutto in chiave stoico-aristotelica (ove forse
giuocava ancora una certa tesi di Panezin) e coloro che sostengono la tesi del
mondo che ha una realtà 291
temporale, in un conflitto tra il principio attivo e la materia informe e
pura quantità dalla cui tensione si costituiscono in gradi le qualità,
pensabili in quanto numerabili, numeri che divengono le stesse leggi
dell'esserci fisico, geometrico delle cose, oppure in quanto costituirsi di
cose, rifrazioni del principio divino, anime divine, in una graduazione fino al
limite materia (stoicismo interpretato in chiave platonico-pitago- rica: forse
con influenze di Posidonio). Sotto questo secondo aspetto sembrano evidenti il
significato e l'im- portanza dati alla magia operativa da un lato e, dall'altro
lato, interme- diario il filosofo, che in sé rivive l'anima di Pitagora, egli
dèmone, l'im- portanza data all'insegnamento purificatorio, incantatorio,
terapeutico, in funzione degli incolti, sui quali piu facile è, mediante certe
tecniche, operare una purificazione, sapendo giuocare sulle forze occulte,
nervose (demoniache e divine), o sulle diete e abitudini di vita, sulle
incanta- gioni musicali, danzatorie, e cultuali. E si badi che in questo
secondo caso, invece di rifarsi al pitagorismo razionale, a un modo
d'interpretare il Timeo, risalendo ad Archita e a Filolao, ci si rifà
direttamente a Pitagora, o meglio al Pitagora della leggenda (che sembra già
risalire alla perduta Vita di Pitagora di Aristotele), alla "Vita di
Pitagora," di Pitagora "sciamano," anima personale che s'incarna
di volta in volta, che si allontana per certi periodi dai oorpi, che compie
miracoli, di Pitagora, in realtà, medico e iatrosofista, sr come lo fu
Empedocle, a cui, appunto, ora, Pitagora viene avvicinato (cfr. I vol.). Non a
caso - sotto questo secondo aspetto - fino dal I secolo a. C. erano circolati
un De Pythagora, un De IIÌrtute e un De pietate attribuiti a Theano (d. SudoJ,
Stobeo), la leggendaria sc6lara di Pitagora/ mentre si scri- vevano versi,
sostenendo ch'erano dello stesso Pitagora. Basti, qui, rileg- gere i 71 versi
dei Detti aurei (Xpua« ~).: Onora anzitutto gli dèi, come vuole la legge e
rispetta il giuramento. Onora quindi gli eroi gloriosi e i geni terrestri,
agendo in conformità delle leggi. Abbi rispetto per i tuoi genitori e per
quanti maggiormente ti sono legati da parentela. Fatti amico di chi è migliore
di te per virt6... La Potenza abita vicino alla Necessità. Sappi ciò e abituati
a dominare le seguenti pas- sioni: il ventre, il sonno, la lussuria, l'ira...
Sii giusto nell'agire e nel par- lare... Non ti comportare sconsideratamente.
Sappi che è destino di tutti 1 Ricordiamo qui anche un De virtulibus del 1 sec.
d. C.,. scritto sotto l'inftucnza di Antioco di Ascalona, attribuito a Theagcs
(cfr. in Stobco, Ecl., III, l, 117, W.); un De pnulenlia et felicilllte (cfr.
in Stobeo, D, 8, 24), attribuito a Critone; un De animi lrtmquillilllte
attribuito a lpparco (Stobco, Ed., IV, 44, 81); un De virtute, attribuito a
Mctopo di Sibari (Stobeo, Ed., III, l, 115); un De re publica c un De
felicitate (Stobeo, Ecl., IV, 39, 26; IV, l, 93-95; IV, 34, 71) attribuiti a
Ippodamo di Turii; un De vita (Stobeo, Ecl., IV, 39, 27) attribuito a Eurifamo.]
morire. Le riccb,ezze sappi ora acquistarle, ora perderle••• Non si deve tra-
scurare la salute del corpo, ma bisogna essere moderati nel bere, nel man-
giare, negli esercizi. Chiama misura quella che non ti nuocer~. Abituati a una
vita semplice... Ottima è la moderazione... [Attraverso una vita ordi- nata e
misurata ci si colloca] sulle orme della divina vimi: sf, per colui che alla
nostra anima rivelò la tetraJc.tys, fonte dell'eterna natura... Cono- scerai
che in tutto c'è una uguale natura, s{ che nulla tu speri d'impossibile e nulla
ti sfugga... Saprai che gli uomini soffrono per mali ch'essi stessi si
procurano: infelici, che avendo vicini i beni, non li vedono e non li odono. e
pochi sanno come liberarsi dai mali... Oh padre Zeus, ceno tu potresti libe-
rare tutti da molti mali, se a tutti mostrassi qual è il loro Dèmone [la pro-
pria condizione]. Ma tu stai di buon animo, perché divina è la stirpe degli
uomini, ai quali la natura, svelando i suoi misteri, mostra ogni cosa. E se tu
in pane apprenderai queste cose, conseguirai ciò che io ti prescrivo, e
guarirai e libererai l'anima da questi travagli. Astienti dai cibi di cui -ti
parlai; nelle purificazioni e nella liberazione dell'anima agendo con giwti-
zia, e considera ogni cosa ponendo in alto la ragione, ottima guida. Che se,
lasciato il corpo; giungerai al libero etere, sarai ·un dio immonale e
incorruttibile, non piu un mortale. Cosi, d'altra parte, apriva il suo Commmto
ai D~ti aurei Ierocle di Alessandria (metà del v secolo): "La filosofia è
purificazione e perfe- zione della vita umana; purificazione dalle affezioni
della bruta ma- teria e del corpo monale; perfezione in quanto restituisce
all'uomo la beatitudine propria della vita e lo riconduce a farsi simile alla
divinità (7tpbç ~v.k(«V 6tJ.o(6>atV~" Sembra, infine, interessante
ricordare che questo secondo aspetto della ripresa pitagorica, in funzione
educativa e precettistica, a cui poteva servire anche la CII vita
platonica" e CII stoica" - interpretata in senso
purificatorio-terapeutico, - soprattutto lo troviamo nelle aree, di- remmo,
culturalmente depresse, piu che nella vecchia Grecia, in quei paesi ove la
cultura si manteneva ai livelli delle classi superiori. 2. Tra platonismo e
pitagorismo. Da Alessandro Poliistore allo pseudo- OC'ello. Moderato di Gades e
NiC'oma&o di Gerasa Rintracciamo, cosi, una netta linea che risale al I
secolo a. C. circa, a carattere piu strettamente razionalistico-matematico, in
una inter- pretazione di motivi platonico-stoici, in funzione di una
comprensione logica del tutto, dell'unica divinità. Tale linea - a parte il
fiorire dd complesso di trattatelli pseudo pitagorici cui abbiamo fatto cenno -
si scandisce dal pitagorico Alessandro Poliistore di Mileto, vissuto nel 293 I secolo a. C., che compose
un'opera sui Simboli pitagorici é una Successione dei filosofi (sfruttata da
Diogene Laerzio), al trattatello Sulla natura del Tutto (mpl Tijç -rou
1tor.vròç cpoaewc;); opera senza dubbio di scuola, certo composta nel I secolo
d. C., attribuita al pitagorico Ocello lucano, i cui scritti sarebbero stati
conosciuti da Platone attraverso Acchita (è dimostrato che le lettere che
Platone e Acchita si sarebbero scambiate e da _cui si rileva la notizia
dell'interesse di Pla- tone per Ocello, furono messe in circolazione proprio
tra il I a. C. e il I d. C.; e che non senza significato è il voluto
accostamento tra Pla- tone e i pitagorici Archita e Ocello). L'operetta dello
pseudo-Ocello si può, per altro verso, avvicinare al De mundo dello pseudo-Aristotele.
In ambedue le opere troviamo lo stesso sforzo di risolvere in ter- mini
razionali l'unità e molteplicità dell'Universo in una sola unità in cui
giuocano - come abbiamo già veduto per il De mundo - motivi stoici,
aristotelici, platonici. Opera divulgativa, il trattatello Sulla natura del
Tutto riproponeva in termini drastici la questione dell'Uno tutto, tutto in
atto, aristotelicamente, o l'altra questione dell'Universo tempo e gradualità.
Entro questi termini si svolgerà la linea del "pita- gorismo
platonico" e del "pitagorismo aristotelico," in realtà tra di
loro molto piu vicini, nel comune sfondo stoico, di quanto possa sem- brare a
prima vista, anche se talvolta di contro all'unità che tutto risolve in sé si
opporrà una realtà ribelle, una materia, che spieghi di contro al razionale e
al comprensibile, e per ciò stesso Bene, l'irra- zionale, l'incomprensibile,
cioè l'assurdo, il Male, portando ad estreme conseguenze il rapporto
Intelligenza-Necessità del Timeo platonico e la morale tensione stoica tra
azione e passione, in cui consiste la virtu come fatica e pena, ed ove è senza
dubbio presente una certa ispira- zione del dualismo iranico (cfr. poi
Plutarco). Dice, dunque, Alessandro Poliistore, secondo quanto riferisce Dio-
gene Laerzio: Alessandro, nelle Successioni dei filosofi afferma di aver
trovato anche queste cose nelle Memorie pitagoriche. Principio di tutte le cose
è la mo- nade: dalla monade nasce la diade infinita, che sottostà come materia
alla monade che è causa; dalla monade e dalla diade infinita nascono i numeri;
dai numeri i punti; da questi le linee, da cui le figure piane; dalle figure
piane le figure solide; da queste i corpi sensibili, i cui elementi sono quat-
tro: fuoco, acqua, terra, aria che mutano e si svolgono per il tutto, e da
questi risulta il cosmo animato, intelligente, rotondo che contiene al centro
la terra anch'essa rotonda e abitata... Nel cosmo v'è luce e tenebra in parti
uguali, e caldo e freddo, e secco e umido; quando prevale il caldo v'è l'estate,
quando il freddo l'inverno (quando il seeco la primavera e quando l'umido
l'autunno); se il freddo e il caldo sono in equilibrio si hanno le 294
parti piu belle dell'anno... L'aria che è intorno alla terra è immobile e
mal- sana e tutto quanto è in essa è mortale; ma l'aria altissima è in eterno
moto e pura e salubre e tutto quanto è in essa è immortale e perciò divino. n
sole e la luna e gli altri astri sono divinità, ché in essi prevale il caldo
che è causa di vita. Vi è affinità tra uomini e dèi, per il fatto che l'uomo
partecipa del caldo; ed è questa la ragione per cui la divinità è nostra
provvidenza. Il fato governa il tutto e le parti... Tutta l'aria è piena di
anime, ritenute dèmoni ed eroi, da cui sono mandati agli uomini i sogni e i
segni di malat- tia e di salute e non solo agli uomini, ma anche alle greggi e
a tutte le altre bestie. E per essi si fanno le purificaziorii e i sacrifici
apotropaici e ogni specie di divinazione e vaticini e simili... La virtu, la
sanità fisica, ogni bene e la divinità sono armonia; perciò anche l'universo è
costituito secondo armonia. Anche l'amicizia è uguaglianza armonica... La
purità si consegue con i riti della purificazione (Diogene Laerzio, VIII,
24-33). Nell'opuscolo Sulla natura del Tutto dello pseudo-Ocello si pone che il
tutto è sempre in atto e che il nascere e il perire delle cose è interno
all'ingenerato ordine dell'Universo, in una trasmutazione degli elementi. Tutto
è perciò calcolabile e riducibile a leggi che co- stituiscono la stessa
espressione in atto della Legge suprema, in una tensione tra principio attivo e
passivo, che molto chiaramente indica l'ispirazione stoica di origine
paneziano-aristoi:elica, risolta in termini pitagorici: A me sembra che il
tutto non sia stato prodotto e che sia ingenerato... Chiamo complesso (6Àov)
ciò che viene detto tutto ('rò 1tiv). l'ordine nella sua totalicl (-rò
x6cr(J.OV). Esso è l'insieme compiuto e perfetto della na- tura e di tutte le
essenze. Nulla è al di fuori di lui. Se qualcosa esiste, esiste in lui· e con
lui. Comprende tutti gli esseri diversi, gli uni come parti, gli altri come
produzioni accidentali. Ne segue che le cose contenute nel mondo hanno
afli.nicl e accordo con lui. Il mondo, invece, non ha alcuna aflinità e alcun
accordo con se stesso; tutte le altre cose sussistono, avendo una natura non
perfetta in sé, avendo ancora bisogno di legame con le cose che esistono fuori
di loro, come gli animali con la respirazione, la vista con la luce... t nel
tutto o nell'universo che ha luogo la generazione e la causa della
generazione... [Entro l'Uno tutto, monade, si distinguono le diaài, le quali si
risolvono neWuno stesso, costituendo comunque le parti dell'uni- verso e la
loro opposizioneJ•.. Tutto ciò che è, sarà, ché la natura è sempre da un lato
attiva e in moto, e, sempre, dall'altro lato, passiva e in riposo; sempre da un
lato governa, sempre, dall'altro, è governata... [Entro tale universoJl'uomo,
in ciò che lo riguarda, deve essere considerato come avente un rapporto diretto
con la struttura dell'Universo stesso, sf ch'essendo parte di una famiglia, di
una città, e soprattutto del mondo, deve supplire a ciò che sta per venire
meno, se vuole adeguarsi alla società, alla politica 295 e alla divinità... [Di qui,
in tale adeguazione alla politèia cosmica, ove tutto è armonia e misura, la
virtU intesa come rapporto sociale, misura e armonia] (Ocello, I, 2 sgg., ed.
Harder). Entro questi termini assumono un particolare inteiesse le pagine di
Sesto Empirico (Adv. math., X, 260-284) sul significato del numero, ove, certo,
Sesto si riferisce alla corrente platonico-pitagorica di que- st'epoca, tesa a
interpretare in termini numerici (razionali) i termini componenti la realtà e
la ragion d'essere del tutto, per cui era neces- sario postulare l'identità tra
quelli che sono i modi di funzionare della ragione umana (anima) e le leggi
(traducibili in numeri), ragion d'essere delle cose, a loro volta risolventisi
nella ragion d'essere dd tutto (l'uno o divinità), per cui l'uomo, avendo in sé
il divino numero dell'anima, può ricostruire e percorrere il discorso
matematico della realtà, fino a identificarsi, intuitivamente, con quell'uno
tutto che è il divino, divenendo appunto simile a Dio, nel suo tendere
all'ugua- glianza divina (7tpÒç ~v &&tcxv 6!Lo(waLv). Tale sembra,
attraverso i frammenti che possediamo dei suoi Com- menti pit;agorici
(ITu&otyopLxotl axoÀot(), in undici libri (in Porfirio, Vita Pythagorae,
48-51; in Simplicio, In Phys; Arist., p. 230, 41-231, 25 Diels; in Stobeo,
Ecl., l, 49, 32 W.), la posizione di Moderato,2 nato a Gades (Cadice), vissuto
nel 1 secolo d. C., parente di Giunio Moderato Columella, il celebre autore del
De rustica. Molto finemente Moderato di Gades pot~va rendere pensabile il
rapporto stoico, principio attivo (spirito) e principio passivo (materia),
risolvendo i due principt fisici (forze) in principi aritmetico-geometrici.
Egli cosr interpretava la ma- teria (certo aveva presente il Timeo di Platone)
non come realtà per sé, ma come spazio,.cioè come indefinita estensione logica,
condizione perché sia pensabile ogni possibile costruzione, la cui altra
condizione è la qualificazione, la misurabilità, ci~ la numerabilità. Si vede
bene cosr come per Moderato sia possibile il discorso intorno all'ineffabile
Uno tutto, solo se esso viene simbolicamente indicato come un· numero, matrice
di tutto il numerabile, esso di là dall'essere e dall'essenza, per cui esso è
potenzialmente tutto. Tale, anche secondo Moderato di Gades che raccolse in
undici libri i plaeita dei Pitagorici, il significato della dottrina dei
numeri... Poiché, con li Iberico, nato a Gades (Cadice}, vissuto nel 1 secolo
d.C., Moderato, parente di Giunio Modetato Columella, autore del De re rustica,
visse a Roma. Scrisse in greco un'opera in undici libri, intitolata Commenti
Pitagorid (Ilu&cxyopucotl axo>.cd), di cui sono rimasti alcuni frammenti
in Porfirio (Vita Pytllag.}, Simplicio (In Pllyt.}, Stobeo (Ed.).] il discorso,
è impossibile spiegare con chiarezza i principi primi, difficilissimi sia ad
essere compresi sia ad essere espressi, ci si rifugiò nei numeri per rendere
piu esplicita la tesi pitagorica. Si imitarono cosi gli studiosi di geo- metria
e i grammatici. I grammatici, infatti; per esprimere gli elementi e le loro
possibilità ricorrono ai segni e sostengono che questi sono i primi elementi
dell'apprendere. Eppure essi dicono, poi, che quei segni non sono gli elementi,
ma che mediante quei segni si possono conoscere i veri ele- menti. Lo stesso
fanno gli studiosi di geometria: incapaci di esprimere con parole le forme
incorporee, si valgono delle figure disegnate. Essi dicono, ad esempio, che
questo che disegnano è un triangolo, solo che non intendono questo triangolo
qui, che si vede con l'occhio fisico, ma quello espresso da questa figura,
concepibile mediante essa, e mediante cui la mente può rap-. presentarsi il
concetto del triangolo. IIl medesimo esempio si trova nella pagina sopra citata
di Sesto Empirico, Adv. Math., X, 249, 259-260.] Lo stesso fecero i Pitagorici
in relazione alle forme prime... Non potendo espri- mere in parole le forme
incorporee e i principi primi, fecero appello alla dimostrazione mediante i
numeri. Essi cosi chiamarono uno il concetto di unità, identità, uguaglianza,
causa della cospirazione delle cose, della loro simpatia e conservazione
dell'universo, che si comporta sempre nel mede- simo modo, secondo ·una stessa
legge. Uno è, difatti, ciò che si trova nei particolari e che esiste in quanto
unità e cospirazione delle parti, parteci- pando della causa prima (Porfirio,
Vita di Pitagora, 48 sgg.). D'altra parte, l'unità o identità o uguaglianza
(simbolicamente in- dicate con uno), senza di cui non potremmo parlare di nulla
(ciascuna cosa è tale in quanto è una), non sarebbero senza l'alterità, la
differenza, la distinzione (simbolicamente indicate con due), per cui ciascuna
cosa è una (non potremmo dirla una, se non la opponessimo ad altra). Chiamiamo,
invece, due i l dualistico concetto di diversità, disugua- glianza,
divisibilità, mutabilità, cangiamento. E tale è, appunto, la natura della
dualità nelle cose particolari... Infine, poiché esiste in natura qualcosa che
è fornito di principio, di mezzo e di fine, che è uno e due, a tali forme e
nature attribuirono il numero tre, per cui qualsiasi cosa avesse un ter- mine
medio veniva detto triforme, tre, ovverossia perfetto (Porfirio, Vita di
Pitagora, 50-51). Poiché, dunque, l'uno non è senza il due, e la dialettica dei
due termini è il tre, l'Unità (Monade), proprio in quanto potenzialmente tutto,
non è se non in atto, cioè se non si pone come altro da sé, di fronte a sé
(diade), per cui entro l'Unità si pone - in immagine sotto l'Unità che la
contiene- la monade seconda, l'Unità della molteplicità, il mondo delle forme
intelligibili, delle Idee. In sé non reali né l'uno né il due, le due Monadi
sono in quanto presenti all'anima, terza
297 unità che logicamente segue dalla prima e dalla seconda
monade, e che, perciò, partecipa della Unità prima e della unità-molteplicità
(intelli- gibili). Termine medio l'Anima, iQ essa s'incentra l'Universo: volta
da un lato verso le specie e attraverso queste verso l'Uno tutto, dal- l'altro
lato, davvero coglie l'Unità prima, in quanto m'Scorre l'Uno mediante le forme,
cioè in quanto si volge alla molteplicità che, co- stituendo il discorso delle
forme, è la sensibilità, la figurazione, la cui condizione è lo spazio informe,
l'estensione pura, la materia, essa stessa dunque essenziale in quanto
nell'intelligibile, esistente non per sé, ma come riflesso (ombra) della
materia che è ndl'intelligibile. Anche se filtrata attraverso Porfirio, sembra
ora di notevole inte- resse la testimonianza di Simplicio sul motivo
dell'Uno-Intelletto-Anima- Materia, secondo Moderato di Gades. Moderato,
seguendo i Pitagorici, dichiara che l'Unità (1tpé;)-rov lv) è al di sopra dell'Essere
(-rò c!vatt) e di ogni essenza (1t«aatV oùatatV), mentre il secondo uno (-rò 3è
3e:U-rcpov lv), in cui consiste ciò che è [che è in quanto è definito] e
l'intelligibile (&tep l<JTt -rò ~V't'c.>ç ~v xatl VO'Yj't'6v), dice
essere la specie (-ra ct3YJ); il terzo uno, infine, egli sostiene consistere
nel principio vitale (-rò ljiuxtx6v), che partecipa dell'uno e della specie,
mentre la natura che viene dopo questa, costituita dai sensibili non parte-
cipa piu dell'uno e degli intelligibili, ma, per dire cos{, di essi si adorna,
ombra riflessa della materia che è negli intelligibili, materia ch'essendo del
primo non essere è solo quantità, per cui si trova ancora pi6 in basso (~a
xat-r' l!Lql«atv ixctv(J)v xcxoa!Llja&ott, Tljt; lv atÙ't'o'Lç GÀYJt; -rou IL~
~not; 7tp6>-r(J)t; lv -réj) 1toaéj) ~not; oGaY)t; axtata!L« xatl frt ~ov ~(X
~YJxutatt; xatl ci1tò -roU-rou). Anche Porfirio, nel secondo libro de La
materia, riproponendo la tesi di Moderato, ha scritto che "volendo la
ragione mona- dica (6 b.ltati:ot; Myot;), come dice Platone, costituire da se
stessa la genera- zione degli esseri, stabiH la quantità di tutte le cose
(-rljv 1tOa6't'YJ't'at 1tM(J)V), come privazione di se stessa, privandola
appunto della sua razionalità e intelligibilità. Moderato ha chiamato ciò
quantità amorfa, indistinta, senza figura, atta a ricevere forma, distinzione,
qualità, e cos{ via. Sembra, egli dice, che Platone abbia dato piu nomi a
questa quantità, dicendola ricetta- colo informe e invisibile e 'riluttante al
massimo a partecipare dell'intelli- gibile,' afferrabile a stento 'con un
regionamento bastardo' e cos{ di se- guito. Tale quantità, dice Moderato, e
tale specie (c!3ot;), intuite come pri- vazione della ragione monadica, di ciò
che abbraccia in sé tutte le ragioni degli esseri che sono, è,esempio della
materia dei corpi, che, diceva Mode- rato, i Pitagorici e Platone chiamavano
quantità, ma che in effetto non va intesa come quantità intelligibile (-rò
6>t; c!3ot; 1toa6v), ma come privazione, dispersione, estensione e cos(via,
come deviazione dell'essere e, perciò, male, in quanto fugge dal bene..."
(Simplicio, In Phys., p. 230, 41-231, 25, Diels). In realtà tutto sempre in
atto, logicamente l'Unità vivente è affer- rabile entro i termini di una
Unità-alterità in cui ripercorrere i mo- menti logici, che si possono scambiare
in simboli numerico-geometrici: unità (uno), alterità (due), unità
dell'alterità, anima (tre), numerabilità che implica l'indefinita quantità,
l'idea dell'estensione non definita (ir- razionale), perché sia possibile la
misurazmne (materia-spazio), cioè i termini geometrici, costituenti, mediante i
loro rapporti, figure piane e solide, i corpi, che possono dunque cangiare,
comporsi e ricomporsi, ma le cui essenze restano sempre i numeri. \ Sembra ora opportuno
sottolineare il significato di due motivi, che si ricavano da Moderato, il cui
sviluppo avrà grande importanza nella storia dell'interpretazione da un lato
del rapporto Essere-Uno e Intel- ligibili, dall'altro.Jato della materia. Posto
che l'Essere, in quanto fon- damento e ragione (causa) di tutto non può non
essere che Uno, l'Uno in quanto tale è al di là dell'esistere e delle essenze,
egli causa delle essenze e delle esistenze. L'Uno perciò ha in sé tutte le
possibilità. Entro questi termini, riprendendo il concetto della monade
pitagorica e il discorso delle idee-numeri di Speusippo e di Senocrate,
sembrava potersi risolvere l'aporia del Parmenide di Platone. Certo, dopo il
Parmenide e il Teeteto, anche Platone (Sofista, Filebo) suggerisce la
possibilità di interpretare l'Essere non piu come una massiccia realtà, ma come
unità dialettica, cm:Ìle pensiero uno che è tale in quanto discorso
esplicantesi, per cui le stesse idee tutte potenzialmente nel- l'uno-pensiero,
sono in quanto guise (e proprio per questo non piu idee nel senso, ad esempio,
del Pedone), leggi - traducibili perciò in numeri - della esplicazione stessa
del Pensiero. Una simile interpreta- zione del Parmenide - Teeteto - Sofista -
Filebo, filtrata attraverso il motivo della monade-diade, sviluppato dai
pitagorici del I secolo a. C., e il motivo del l&gos spermatik6s stoico,
rendeva pensabile la ragion d'essere del tutto, il divino uno che ha
potenzialmente in sé, se cosr vogliamo dire, il mondo intelligibile (mondo
delle idee, perciò non piu inteso come a sé, idee qualità accanto a idee
qualità, indiscorribili). Le idee, dunque, appunto perché tutte nell'Uno,
nell'Uno-pensiero, nel- l'Uno-pensiero sono- qualora si assuma logicamente
l'Uno come a sé, condizione prima - indiscernibili. Proprio perché capacità di
dare forma, sono, nell'Uno, informi. Esse sono solo in quanto esplicazione
dell'Uno, che non è se non in quanto esplicazione, se non in quanto alterità.
Sotto questo aspetto sembra esatta la tesi del Dodds secondo cui con Moderato
di Gades si avrebbe una prima interpretazione neo- pitagorica del Parmenide. di
Platone, della quale vi sarebbero tracce in una correzione che Eudoro di
Alessandria (fine del I secolo a.C.: cfr. sopra) fece di un passo di Aristotele
(Metafisica, l, 988a, 10-11) discutendo delle cause di Platone. Dice
Aristotele: "le specie sono cause delle altre cose,. s1 come delle specie
è causa l'uno" (-rcì: ycì:p d31) 't'OU -n m'" othr.ot 't'O~ ~or.ç,
't'O~ 3'et3ea'v 't'Ò l.v). Secondo Alessandro di Afrodisia (In Metaphis., ed.
Hayduck), Eu- doro avrebbe corretto cos1: "delle specie e della materia
cau,sa è l'Uilo" ('ro~ 3'e:t3eaLv -rò lv X«l 't'7j 6>..n). Il Dodds,
concludendo, vede nel- l'Uno di Moderato di Gades l'origine
dell'"Uno" neoplatonico (Dodds, The Parmenides of Plato and the.
origin of the Neoplatonic ((One, in "Class. Quart.). Bisogna qui
aggiungere che una volta risolto l'Uno platonico nell'assoluta monade che ha in
sé tutte le possibilità (il mondo intelligibile), la stessa interpretazione
della ma- teria quale si trova nel Timeo, si imposta su di un piano diverso:
anche la materia cioè poteva non piu essere considerata come realtà a sé
informe, ma come uno degli intelligibili dell'Uno. L'essenza materia si poteva
considerare come l'idea estensione, la forma dell'informe, condizione della
realizzabilità delle forme, la cui esistenza diviene l'om- bra riflessa
dell'idea materia. Che tale interpretazione del rapporto Uno-mondo delle idee
di Pla- tone fosse interpretazione diffusa, o almeno una delle possibili inter-
pretazioni che circolavano nel 1 secolo d. C., è testimoniato, oltre che da
Filone l'Ebreo, da Seneca, che, proprio perché la riferisce con un. semplice
accenno, accanto ad altre interpretazioni, la fa intendere come tesi abbastanza
nota. Dice Seneca: il mondo delle idee è "il modello che ha avuto
l'artefice davanti a sé nell'eseguire l'opera, che aveva deliberato di fare.
Non ha importanza poi se egli questo mo- dello l'abbia avuto sotto gli occhi
fuori di sé, oppure concepito nella sua immaginazione e tenuto cosi presente.
Questi esemplari di tutte le cose Dio li ha in se stesso, e di tutte le cose
che deve fare abbraccia il numero e.la misura: egli è pieno di tutte queste
figure, da Platone chiamate idee, immortali, immutabili, instancabili"
(Lett. a Ludlio, 65, 7). Non solo, ma sempre in Seneca troviamo anche la
possibile in- terpretazione della materia intesa non come realtà a sé, bens1
come realtà dovuta allo stesso Dio (cfr. Natura/es quaestion~s, l, Praej., 16)
motivo, d'altra parte, presente in Filone l'Ebreo, come già abbiamc veduto,
anche se in Filone sia il mondo intelligiliile sia la materia sonc dovuti ad un
atto di volontà di Dio persona. E allora, la testimonianu di Simplicio, che
riferisce la testimonianza di Porfirio sulla materia quale è intesa da Moderato
di Gades, assume una sua prospettiva sto- rica abbastanza notevole e sembra
chiaro in che senso Moderato possa dire che la materia esistente non è realtà
per sé, non partecipa in quanto assunta per sé né dell'uno né degli intelligibili,
ma è ombra ri- flessa della materia che è negli inteUigibili, e in che senso
Eudoro cor- 300 regga la
frase aristotelica, affermando che l'uno è causa degli intelli- gibili e della
materia. Entro questi termini si trasforma qui sia il concetto platonico di
materia amorfa, di puro ricettacolo a sé, di madre che accoglie in sé tutte le
cose (cfr. Timeo, 50 b-à), sia il concetto aristotelico di materia intesa come
soggetto (u7toXE((Uvov) (Fisica, l, 9, 192 a, 31; Metaf., VIII, l, 1042a, Zl),
o anche come potenza (dr. Platone, Timeo, 50 b; Aristotele, Metaf., VII, 7,
1032a, 20), sia il concetto stoico di materia sostanza prima (dr. Diogene
Laerzio, VII, 150) intesa come quantità passiva (Diogene L., VII, 134) su cui
si esplica l'azione qualificatrice del principio attivo;. o meglio, pur
mantenendosi il concetto di materia soggetto, potenza, quantità, essa in quanto
pensabile (non con un ragionamento bastardo), cioè in quanto avente essere, non
può non essere che risolta nell'uno stesso, divenendo materia intelligibile,
idea di estensione, condizione, insieme agli altri intelligibili, dell'uno, che
non è tale se non nella sua stessa esplicazione e discorso (Uno--Intelletto-
Anima-Materia), per cui non c'è piu bisogno di prendere la materia come realtà per
sé, come ente irrazionale opposto all'ente razionale. Vera e propria
introduzione a una teoria dei numeri, nei termini di quelli che erano stati i
risultati della matematica greca è l'Introdu- zione aritmetica,
•ApL&(L7JTLX~ &taqwylj, dell'arabo Nicomaco di Ge- rasa,8 vissuto a
cavallo del I-II secolo d. c. (Nicomaco nel suo Ma- nuale di armonia cita
Trasillo, scrittore di cose musicali vissuto sotto Tibcrio, mentre Cassiodoro
nel De artibus ac disciplinis liberalium lil- terarum, c. IV, Migne Patr. lat.,
vol. 70, p. 1208, afferma che Apuleio di Madaura, vissuto nel n secolo,
tradusse in latino la diligente espo- sizione della disciplina aritmetica di
Nicomaco di Gerasa). L'intento di Nicomaco di Gerasa è volto a determinare su
di un piano logico le condizioni che permettono l'arte di combinare i numeri
(non a caso il titolo della sua opera fondamentale, di cui pos- sediamo due
libri, è intitolata •ApL&(L7JTLX~ Elacxywylj, cioè lntrodu-?:ione alfarte
dei numen). Come Euclide definisce il punto, quale con- dizione e termine di
qualsivoglia costruzione geometrica, cos1, indipen- dentemente da ogni
raffigurazione geometrica (sensibile), Nicomaco, definito il numero, deduce
tutte le ·possibili combinazioni dei numeri da quell'unica definizione di
numero ("numero è molteplicità rac- BDiNicomaco,v~nellas econda metà del1secolo,
nato a Gerasa, sappiamo molto poco. Della sua lntroduaio arithmetic11 sono
rimasti due libri; intero è perve- nuto il MtmUIIle di amioni11; delle sue
altre opere (Theologi11 arithmetic11, lntrodUt:tio lfeometl'i~~e, lntrodUt:tio
111tronomi~~e) non sono rimasti che frammenti. Nicomaco scrisse anche una Vitti
di PiiiiKor•, una Vitti di Apollonia di TilltJII e un trattatello Sui riti
egisitmi. 301 chiusa entro
term1ru, o un ms1eme di unità, o un flusso, X,U!J.«, di quantità, costituito di
unità; la prima divisione del numero è il pari e il dispari": lntr.
an"tm., l, VII). Tale deduzione, o meglio ex-plica- zione della molteplicità
implicita nell'unità si determina in un perfetto giuoco di combinazioni e
separazioni di numeri, di rapporti e propor- zioni, per giungere, infine,
attraverso tale costruzione, risultante dd discorso logico tradotto in simboli
numerici, a ricostruire la realtà entro questi stessi termini, ove i principt,
impliciti nell'unico principio (unità), divengono, appunto, gli stessi principi
logici, simbolicamente assunti come numeri. L'importanza storica di Nicomaco di
Gerasa consiste da un lato nella sistemazione, in un sol corpo dottrinario, dei
risultati, sparsi nel tempo, del sapere aritmetico - di qui lo sfruttamento
deÌle sco- perte matematiche da Archita a Filolao e via di seguito, entro la
linea dei cosiddetti pitagorici, per essi intendendosi, in fondo, i
matematici;- dall'altro lato nel non indifferente sforzo di presentare un
possibile tipo di ragionamento, un tipa di logica (matematica) che poteva, in
via ipotetica e simbolica spiegare - indipendentemente dal ricorrere alle
figurazioni geometriche - le essenze non corporee, cioè le leggi su cui si
scandisce il ritmo della realtà. Nicomaco risolveva in tal modo le aporie
implicite nell'Unità posta dal Parmenide di Platone, in un discorso
aritmologico che spiegava, per altro, ·1o stesso snodarsi dal- l'Uno del
discorso del tutto in termini geometrici (sensibili), svelando cosi il mito del
Timeo (1, 2, l; II, 18, 4), puntando sul significato dato al numero
nell'Epinomide (1, 3, 5; dove si cita Epinomide 991d: "ogni figura, ogni
sistema numerico, ogni composizione armonica, sf come l'accordo di tutte le
rivoluzioni astrali, necessariamente rivelano, a chi apprende tutto questo
seguendo il vero metodo, la loro unità, e tale unità si manifesterà quando
rettamente si apprenda, mai per- dendo di vista l'unità medesima: a chi
rifletta apparirà, infatti, che un solo naturale vincolo articola tutti i
fenomeni; chi altrimenti intra- prende tali studi dovrà invocare la
fortuna..."). Non solo, ma per altra via, posta la possibilità della
predicazione qualora appunto si risol- vano in numeri le condizioni stesse del
pensare, Nicomaco poteva, come chiaramente risulta dal primo paragrafo del I
libro della Intro- duzione aritmetica (I, l, 3, ove gli elementi immutabili si
avvicinano non poco, nell'esser presentati come una lista di categorie, alle
categorie di Aristotele), interpretare numericamente le categorie di
Aristotele, identificandole con le stesse condizioni del discorso aritmetico dd
tutto. E ciò tanto pio è chiaro quando.si tenga conto che le dieci categorie si
potevano assumere come l'interpretazione logico-discorsiva della de- cade o
tetrakt'Ys (quaternaria) pitagorica (cfr. I volume), in un giuoco 302
di proporzioni, mediante cui riannodare le dieci condizioni su cm s1
svolge l'universo (cfr. II, 22 e 1-22). La tetrak.t'Ys veniva rappresentata in
una figura avente 10 punti messi in forma di triangolo che ha quattro punti per
lato.-:\, la cui somma l + 2 + 3 + 4 è uguale a 10. La tetrak_t'Ys cosf,
racchiudendo in sé i numeri delle tre propor- zioni musicali (ottava 2: l;
quinta 3: 2; quarta 4: 3) e delle quattro specie di enti geometrici (punto =l;
linea= 2; superficie= 3; solido= 4), veniva ad essere la condizione di tutte le
cose (non si scordi che in questo periodo circolava un libro sulle categorie
che si diceva scritto da Archita. Su tutto questo si veda F. E. Robbins e L.
Ch. Karpinski, in Nicomachus of Gerasa, Introduction to Arithmetic, Nuova York,
1926, pp. 94-5). L'aspetto della traduzione in termini sensibili-formali delle
essenze numeriche-incorporee dei loro rapporti e combinazioni, sembra, per quel
poco che ne sappiamo, che Nicomaco l'abbia studiato nella sua Introduzione
geometrica (cosf almeno appare da una citazione dello stesso Nicomaco, in Intr.
aritmetica, Il, 6, 1). Se da un lato, dunque, Nicomaco di Gerasa,
nell'Introduzion~ aritmetica, ha determinato le condizioni di un discorso della
realtà in termini di essenze puramente intelligibili, nell'Introduzione
geometrica avrebbe determinato le condi- zioni perché ·sia possibile il
discorso della realtà sensibile. Ci rendiamo conto in tal modo di come Nicomaco
di Gerasa potesse identificare {sin dalla prefazione alla Introduzione
aritmetica, I, cc. 1-6) il divino - per Dio s'intende ciò senza di cui nulla è
- con il numero. Se nel numero, in quanto unità (monade) sono implicite tutte
le possi- bilità (forme), l'uno è suprema ricchezza, onnipotenza, da cui tutto
si dispiega (cfr. l, 16, 8; Il, 8, 3; 9, 2), esso fondamento e causa di tutte
le forme della realtà, dei loro rapporti e proporzioni. In tale senso, dunque,
Dio e numero-unità coincidono, sf come coincidono l'unità del pensiero che si
dispiega nel suo discorso matematico-numerico e l'unità divina che si dispiega
nel discorso della realtà. D'altra parte, in un testo dei Theologumena
arithmeticae se non è di Nicomaco, sembra almeno derivare da lui, si sostiene
che Dio è come un "seme che ha in sé la possibilità di tutte le cose"
(xatl 6·n "t'Òv 3e6v q>Y)aLV 6 N'XO!LatXoç.qj
~~oov<XS'!q>otp!J.O~e,v, mtep!Lat"t'U (Wçmt<XpxoV"t'atn<XVTat"t'eXh
.qjq>6ae'6V"t'at (Theol. arithm., ed. Ast, p. 4), sf come la monade,
l'uno o seme di tutta la possibile costruzione logica della realtà. Sembra,
cos{, che se da un lato mediante il discorso aritmologico e il discorso
geometrico, Nico- maco tendeva a risolvere su di un piano puramente logico l'Uno
del Parmenide e il mito del Timeo, dall'altro lato poteva rientrare entro la
medesima spiegazione la tesi stoica del “logos spermatikos”. Il divino principio
attivo, da cui tutto deriva, poteva benissimo assumere il signi- ficato
dell'unità potenza, perdendo, certo, nella traduzione in numero- unità, il suo
valore di forza (spirito) fisica e spontanea (donde, poi, da parte di alcuni
interpreti di Platone la polemica contro il materialismo degli stoici, con il
conseguente problema della materia, principio oppo- sto, dunque, all'immateriale
Uno divino). In realtà, platonismo (Parmenide, Timeo, Epinomide), pitagorismo
(aritmologia e geometria), stoicismo (il principio che ha in sé tutte le
possibilità che portava a interpretare il mondo delle idee platoniche come
forme potenzialmente tutte presenti in Dio, in quanto ragion d'essere), si
venivano ad incon- trare in unico sistema, nella possibilità di una teologia
logico-aritmo- logica (Theologumma arithmeticae) cui servivano da introduzione,
ma anche da dimostrazione, la teoria aritmetico-geometrica, la teoria musi-
cale (abbiamo un Manuale di armonia di Nicomaco), lo studio dei rapporti delle
leggi stellari (possediamo di Nicomaco alcuni frammenti di una Introduzione
alrAstronomia). In altri termini, le vecchie disci- pline platoniche in
funzione dell'educazione del filosofo: geometria (piana e solida), aritmetica,
teoria musicale, astronomia, venivano siste- mate, dando la precedenza
all'aritmetica, entro cui sono implicite la teoria musicale, la geometria e
l'astronomia, quale avviamento alla comprensione scientifica del divino, cui,
per altro, potevano servire, sul piano pratico, dei rapporti umarii, della
propaganda e convinzione, la grammatica, ·la dialettica e la retorica.
Pitagora- scrive Nicomaco nella prefazione all'Introduzione aritmetica-
definisce la sapienza conoscenza e scienza della verità implicita nella realtà,
concependo la scienza, sicura e immutabile comprensione di ciò che sta a
fondamento (,moxe;(!U'/OV) e di ciò che nell'Universo permane sempre identico a
sé e non cessa mai d'essere, neppure per poco. Tali sarebbero gli immateriali
(!u>.at), quelli cioè per la cui partecipazione ciascuna cosa omo- nima, e
perciò nominabile, è detta, assumendo per questo una sua realtà (-r63c n) (l,
1-2)... Poich~, dunque, della quantità (7t6aov) un aspetto è veduto in se
stesso, non avendo alcuna relazione ad altro, come pari, dispari, numero
perfetto·e cosf via, e un altro aspetto è concepibile in fun- zione di altro e
in relazione ad altro, come doppio, maggiore, minore, uno e mezzo, uno e un
terzo e cosf via, evidentemente due dovranno essere i metodi scientifici
mediante cui esaminare a fondo la quantità: il metodo aritmetico che ha per
oggetto la quantità in se stessa, e la teoria musicale che ha per oggetto la
quantità relativa. Ancora: quanto alla grandezza (7tYJÀ(xov), poiché l'una è in
quiete e immobile e l'altra in un movimento di translazione, di conseguenza due
sono le scienze che studieranno con esattezza la grandezza: la geometria ciò
che è immobile e quieto; l'astro- nomia (atpa.LpLx-lj, sfairiché), ciò che si
muove circolarmente. Senza queste 304 è impossibile trattare con
esattezza le forme dell'essere o scoprire la verità nelle cose, nella cui
conoscenza consiste la sapienza. Senza di queste, insomma, è impossibile
filosofare rettamente. "Come il disegno contribuisce con la tecnica alla
retta teoria, cosi le linee, i numeri, ·gli intervalli armonici e le
rivoluzioni dei cieli, coadiuvano l'apprendimento del ragionamento scien-
tifico (A6yov aocp6v)," come dice il pitagorico Androcide [autore di uno
scritto Sui simboli, come risulta dai Theologumena arithm., ed. Ast, p. 40.
Sono quindi citati Archita, Sull'Armonia, in Diels, I, 330 sgg.; e 1'Epino-
mide, 991 d sgg.]. Tali studi [geometria, aritmetica. astronomia, teoria
musicale] è chiaro che assomigliano a scale e a ponti che consentono alla mente
umana il passaggio dai sensibili e dagli opinabili agli intelligibili e agli
scibili, e da quelli che sono i primi consueti nutrimenti infantili, fisici e
sensoriali, ci permettono il passaggio aWinconsueto e a ciò che è estraneo ai
sensi (1, 3, 1-6). Orbene, quale delle quattro discipline metodologiche è
necessario apprendere per prima? Quella che per natura precede le altre,
evidentemente è per diritto principio e fondamento e ha, rispetto alle altre,
la funzione di madre. E questa è l'arte dei numeri [aritmetica], e non solo
perché... preesisteva nella mente del Dio archetipo come ordine cosmico ed
esemplare, mirando al quale, come a un disegno e a un archetipo, il demiurgo
dell'universo ordina le opere materiali e fa in modo ch'esse realizzino i
propri fini; ma anche perché è prima per natura in quanto implica in sé le
altre discipline, senza esserne implicata (I, 4, 1-2). Pitagorismo, educazione
e retorica. Apollonio di Tiana nella rico- struzione di Filostrato di Lemno e
il trattato su "Il Sublime" Gia entro questi termini, se passiamo
all'aspetto predicatorio-tera- peutico, usato piu che in funzione scolastica in
funzione educativa, si vede bene l'importanza data alle figure e alle
leggendarie vite di Pita- gora e di Platone, e alla presentazione di esempi di
vita (non a caso lo stesso Nicomaco di Gerasa scrisse una Vita di Pitagora e
una Vita di Apollonio di Tiana, insieme ad un trattato sui Riti egiziam). In
realtà, e ce n'è buon testimonio Seneca, già con Nigidio Figulo (cfr. sopra) e
poi, soprattutto, con la Scuola dei Sestii (cfr. sopra), certe suggestioni
pitagoriche - almeno in Roma - erano usate in funzione educativa. Basti
ricordare che Sozione di Alessandria, della Scuola dei Sestii, dopo avere
cercato di mostrare, per incitare alla frugalità e a una vita misurata, che
l'anima è immortale, che essa imparenta tutti, uomini e animali, per cui nulla
va distrutto, che non si tratta che di cambiamento di luogo, riprendendo i
vecchi t&poi pitagorici della trasmigrazione delle anime e quelli
platonico- stoici, per cui non solo i corpi celesti si volgono per determinate
orbite, 305 ma anche gli
animali vanno soggetti alle loro vicende e che le anime sono spinte per i loro
cieli, concludeva: "Se le cose dette sono vere, astenendoti dalle carni ti
sarai serbato innocente, se false, sarai stato un uomo frugale. Che ci perdi a
prestarvi fede?" (Seneca, Lett. a Luc., 108). E qui viene spontaneo il
richiamo ai Versì aurei dello pseudo-Pitagora (cfr. sopra), o ai Sacri discorsi
(r a. C.), o all'Inno al numero (anch'esso del I a. C.). Assunta una certa
dottrina - e particolarmente suggestiva per la sua sacralità e misteriosità
poteva essere l'ipotesi pitagorica della po- tenza del numero, chiara agli
iniziati, cioè a chi vi si era introdotto mediante la geometria, l'aritmetica,
·la musica, l'astronomia, - essa serviva, mediante appunto suggestioni, sacri
discorsi, tecniche terapeu- tiche, sapientemente usate (magiche agli occhi dei
piu) ad avviare i piu ad una certa condotta di vita, cui potevano servire certi
riti e certa liturgia.~ in tal senso assai indicativa la difesa che Apuleio (n
sec. d. C.) fece di se stesso contro l'accusa d'essere un mago. Mago si:, egli
dirà, se per mago si intende sacerdote, chi abbia studiato, chi, conoscendo le
leggi e la ragion d'essere degli avvenimenti, sappia a fondo le leggi del rito,
le regole dei sacrifici, le teorie del culto. Mago no, se per mago si intende
"in senso volgare (more vulgan) chi abbia commer- cio con gli dèi
immortali, e mediante l'incredibile forza dei suoi incan- tesimi sappia fare
tutto ciò che vuole" (Apuleio, Apologia, 26). Certo, agli occhi del volgo,
un uomo che, conoscendo certe tecniche, riesca, ad esempio, a far ri.tornare in
sé chi sia caduto in catalessi, evidente- mente viene preso per un uomo
soprannaturale, per risuscitatore di morti. Entro questi termini va
considerata, almeno nel I e ancora al principio del n secolo d. C., la linea di
coloro che si appellano al nome e alla figura di Pitagora, come è il caso di
Apollonio di Tiana. Ma in funzione educativa, nel tentativo di curare le anime,
di dare una forma e un senso alla disperata vita degli uomini, tutti uguali per
natura, ci si poteva anche appellare ad altre concezioni - la stoica, ad
esempio, in modo assai generico, - prospettando, difronte all'impossi- bilità
umana di oltrepassare i limiti e le costruzioni della propria ra- gione, la
fede nell'imperscrutabile mistero di una divinità che tutto ordina per il bene.
E qui, come di fatto fu, potevano incontrarsi sia pitagorici come Apollonia di
Tiana, sia cinici come Demetrio (non a caso Demetrio, oltre che di Seneca, fu
amico di Apollonia), sia stoici come Musonio Rufo ed Epitteto (di cui è celebre
la vena cinica, ravvi- cinabile al cinismo stoico di un Aristone di Chio), in
una comune oppo- sizione sia nei confronti della quotidiana vita unilaterale e
passionale del volgo, sia nei confronti del modo di vita delle classi superiori
e degli imperatori, che concepiscono il potere in modo personale e indi~ 306
viduale. Il discorso si farà diverso da Nerva (imperatore dal 96
al 98) a Marco Aurelio (imperatore dal 161 al 180), con il quale sembrò
realizzarsi l'antico ideale stoico del re filosofo. La presentazione della vita
di Apollonia • vissuto nel I secolo d. C., nato a Tiana, in Cappadocia, educato
a Tarso, scolaro, sembra, di Eutidemo di Fenicia e di Eusseno di Eraclea, la
dobbiamo alla Vita, in otto libri, che di lui scrisse, nel m secolo d. C.,
Flavio Filostrato di Lemno, su invito dell'imperatrice Giulia Domna, moglie di
Set- timio Severo, alla cui corte Filostrato, dopo avere insegnato ad Atene
sulla linea neo-sofistica, venne accolto. Non va scordato che Filostrato di
Lemno, su sua stessa confessione, si pone tra i neo-sofisti - si deve anzi a
lui la distinzione tra sofistica antica e "nuova sofistica," che
Filostrato, autore di una Vita dei Sofisti, fa cominciare nel I secolo d. C.
con Dione di Prusa. - Filostrato per "sofistica" intendeva la
capacità di suscitare, attraverso la conoscenza delle tecniche retoriche e del
pub- blico cui si doveva parlare, certi affetti e di sopirne altri, indipenden-
temente da qualsiasi contenuto, in una precisa coscienza del valore tera-
peutico della parola e della sapiente descrizione della vita di certi per-
sonaggi, che possano incantare e meravigliare, e servano da avviamento,
rispondendo a esigenze proprie di certe mentalità, ambienti, situazioni. Se,
come è oramai chiaro, la Vita di Apollonia rientra nel genere del romanzo
biografico ellenistico, essa, d'altra parte, mutando quel che è da mutare, cioè
la mentalità dei possibili lettori, le loro mutate esi- genze, vuol essere un
saggio di alta retorica, un encomio del tipo del- l'Encamio di Elena di gorgiana
memoria. Filostrato insiste con forza nel sostenere che Apollonia non fu un
mago, nel senso volgare, che le sue doti taumaturgiche, i suoi miracoli,
l'avere egli guarito e resusci- tato, le sue previsioni e cosi via, perfino il
suo essere riapparso dopo morto a un tale, in sogno, per dimostrargli che
l'anima è immortale, non sono frutto di magia operativa, ma della sua
"sapienza," si come di sapienza e· non di magia furono frutto le
azioni miracolose com- piute da Pitagora, da Anassagora, da Democrito, da
Empedocle, sa- pienza che rivela il divino, o meglio la possibilità dell'uomo
che vivendo puro fa si che la propria anima, scintilla divina, appunto perché
divina, conosca le leggi e le ragioni della divinità. Apollonio - scrive
Filostrato - entrò nella via battuta da Pitagora, ma nella sua ricerca della
sapienza vi è un carattere ancora piu divino, ed egli si 4 La Suda attribuisce
ad Apollonia di Tiana una Vita di Pitagora (dr. anche Porfirio e Giainblico:
cfr. "Rhein. Mus.," 1879, p. 554; 1880, p. 23), un Inno a Mnemosine,
un Testamento, lni•iazioni, Sacrifici (cfr. Eusebio, Praep. ev., IV, 12·13),
Oracoli, Lettere. è sollevato ben al di sopra dei re del suo tempo [non si
scordi che anche Se- neca, parlando di Attalo, sottolineava - Lett. a Luc., 108,
13 sgg. - ch'egli era al di sopra di qualsiasi re, e cosf, sempre parlando di
cinici, dirà Epitteto - Diatribe, III, 22, 53]. Nonostante egli sia vissuto in
un'epoca né troppo lontana né troppo vicina alla nostra, in realtà non si
conosce ancora quale sia stata la stia filosofia... Alcuni, avendo egli avuto
rapporti con i maghi di Babilonia, i Brahamani dell'India e i Gimnosofisti
dell'Egitto, pensano che sia stato un mago, e che la sua saggezza non sarebbe
stata che una forma di violenza.:a. una calunnia che deriva dal fatto ch'egli è
mal conosciuto. Empedocle, Pitagora stesso, Democrito, hanno frequentato i
maghi, hanno detto molte cose divine, eppure non se n'è fatto ancora degli
adepti della magia. Platone fece un viaggio in Egitto, riprese molto dai
sacerdoti e dagli indovini di quel paese, se ne servi come un pittore che dopo
aver preso un abbozzo vi mette di suo ricchi colori, é tuttavia non si è fatto
di Platone un mago, sebbene nessun uomo sia stato come lui, a causa della sua
sapienza, oggetto d'invidia. Anche se Apollonia ha presentito e previsto piu di
un avvenimento, non lo si può accusare d'essersi dato alla magia, altrimenti
bisogna rivolgere la stessa accusa a Socrate, al quale il suo dèmone ha fatto
spesso prevedere l'avvenire, ad Anassagora di cui si rife- riscono parecchie
predizioni... Tutto ciò che ha fatto Anassagora non v'è difficoltà ad
attribuirlo alla sua alta sapienza. Per Apollonia, invece, non si vuole che le
sue predizioni siano effetto della sua sapienza, e si sostiene.-:be tutto
quello che ha fatto, l'ha fatto per magia. Non posso sopportare tale errore,
divenuto volgare. Ecco perché mi sono proposto di dare qui dettagli precisi
sull'uomo, sui momenti in cui ha pronunciato certe parole o ha fatto certe
azioni, infine sul genere di vita che ha valso a questo sapiente la famadi un
essere al di sopra dell'umanità, di un essere divino (Vita tli Apollonio, I,
2). Vivrò da pitagorico, disse Apollonia, ancora giovinetto al suo maestro
Eusseno. "Grande impresa," rispose Eusseno, "ma da dove
comincerai? ". "Farò come i medici," disse Apollonia, "la
loro prima cura è di purgare: prevengono cosf le malattie o le
guariscono." A partire da quel momento non si nutri piu con carni..., si
nutrf di verdure e·di frutta, dicendo che tutto qò che dà la terra è puro...
Camminò a piedi nudi, non si vesti che con abiti di lino..., si lasciò crescere
i capelli e divenne assiste-nte dd medico Esculapio... (Vita tli Ap., I, 7-8).
Filostrato di Lemno ha certo tenuti presenti alcuni dati reali della vita di Apollonio:
la sua educazione a Tarso, il suo soggiorno a Ege presso il tempio di
Esculapio, la sua vita e il suo insegnamento itine- ranti. Apollonio avrebbe
soggiornato in Babilonia, poi in India presso i Brahamani, quindi in Ionia, in
Grecia, a Roma, al tempo delle per- secuzioni di Nerone contro i filosofi, poi
in Spagna, ancora in Grecia, in Egitto, dove si sarebbe incontrato con
l'imperatore Vespasiano, in Etiopia, dove avrebbe conosciuto i gimnosofisti.
Allontanato da Roma per ordine di Tigellino, perseguitato da Domiziano, sarebbe
sparito sotto Nerva. Abilmente giuocando su questi dati, sui racconti dei
miracoli operati da Apollonia, sulle sue previsioni, sulle conoscenze ch'egli
avrebbe avuto dei vari tipi di religione orientali e occidentali, sui suoi
presunti contatti con tutti i re dei paesi visitati - in Babilonia con il re
Vardano; in India con il re Fraote; presso i Brahamani con il loro supremo
sacerdote !arca; in occidente, sotto Nerone, con Tigel- lino e con Domiziano il
tiranno da cui venne perseguitato: assai indi- cativo sembra che, invece, con
Vespasiano e con Tito sarebbe entrato in relazione di maestro e di iniziatore,
- Filostrato ha costruito la vita semplice di un saggio, di un curatore e
guaritore di anime, di un uomo a contatto col divino per la sua purezza di
vita. "Egli ha voluto," cosf Filostrato conclude la Vita di
Apollonia, "che, conoscendo la nostra natura, lietamente si vada verso il
fine che ci hanno fissato le Parche" (VIII, 31). Non va per altro scordato
che la Vita è stata scritta da un retore del m secolo, preoccupato di far colpo
su di un certo ambiente, su cui Filostrato sapeva quanto poteva giuocare il
meraviglioso e il sublime. Entro i termini delle discussioni sulle tec- niche
retoriche tra la fine del I secolo a. C. e il I secolo d. C. si era avuto uno
spostamento dalla retorica intesa come dimostrazione e fondata soltanto sui
fatti e sulle argomentazioni credibili (n(a-rEtt;), come fu il caso della
retorica oSOstenuta da Apollodoro di Pergamo (ancora con Cecilio di Calatte e
il suo contemporaneo Dionigi di Alicarnasso, si proclamava soprattutto
l'importanza della disposizione e dell'armonia délle parole, della metafora, in
stretta osservanza e imi- tazione dei classici), alla retorica affettiva, per
cui si sa giuocare sulle passioni, convincendo non mediante argomentazioni
razionali, ma con l'entusiasmo, la passione, l'emozione, suscitando la
meraviglia, come fu il caso.della retorica proclamata dall'avversario di
Apollodoro di Pergamo, Teodoro di Gadara. Entro l'àmbito culturale e sociale,
entro i termini di diffuse esigenze morali e religiose, proprie del I e del n
secolo, si capisce come al di fuori delle scuole e dell'insegnamento ufficiale
della retorica (rappresentato in forma istituzionalizzata e scle- rotizzata da
Quintiliano) abbia prevalso l'insegnamento e la tesi di Teodoro di Gadara. Di
un discepolo di Teodoro, Ermagora di Temno, sembra che sia il trattatello Sul
sublime (nepl G~J~ouç), un tempo attri- buito a Cassio Longino (retore del m
secolo d. C.) e a Dionigi di Alicarnasso (in un codice vaticano si scoprf che
già gli antichi non sapevano se fosse di Dionigi o di Longino: mentre prima si
era letto che Il sublime era di Dionisio Longino, nel codice vaticano si legge
di Dionisio o di Longino; sulla vessata questione dell'attribuzione si veda ora
anche D. A. Russell, Introd. a Loginus, On the sublime, Oxford). Contro la
tradizione della retorica in senso aristotelico (rappresentata ancora da
Cecilia di Calatte) il Sublime insiste sul pathos, si come, di contro alla
retorica intesa come avviamento all'ordine sociale e poli- tico in senso stoico
(si pensi a Diogene di Babilonia), all'utile morale, il Sublime insiste sullo
straordinario, il meraviglioso, il sublime ap- punto. "Veramente
ammirevole è.rempre, per gli uomini, lo straordi- nario" (35, 5). "Il
fine della fantasia poetica è la sorpresa, mentre quello dell'oratoria è
l'evidenza: entrambe comunque ricercano il pate- tico e il concitato" (15,
2), insieme alla grandezza del discorso. E l'evidenza, in campo oratorio, la si
ottiene non "a capriccio, procedendo anzi con metodo (2,.2), usando certe
tecniche da cui far scaturire il sublime (già definito da Teofrasto come uno
dei possibili stili retorici). Bisogna su~citare grandi pensieri, facendo
innamorare di ciò di cui si vuol persuadere. Di qui l'importanza data alla
passirme e all'entusia- smo. Grandi pensieri e passioni si suscitano mediante
certe appropriate figure del pensiero e dell'espressione, mediante l'altezza
dell'elocu- zirme e la scelta di un argomento tale da costituire una
composizirme (crov&eatt.;), che, ispirando i piu alti pensieri, vada oltre
il quoti- diano vivere, creando mondi di superiore grandezza (sublimi), velando
cosi gli artifici retorici. Se il Sublime dello pseudo-Longino rispose
all'esigenza di certi retori posti· difronte a un certo pubblico, la Vita di
Apollrmio di Filo- strato risponde esattamente all'esigenza di altri argomenti
mediante cui, suscitando il meraviglioso e il sublime, trasportare il lettore
in una vita sublime, sospesa tra la realtà e il mistero. E qui bisogna
ricordare che Filostrato scrisse anche gli Eroici, un dialogo sui geni e le
ombre della guerra di Troia, in cui ancora piu scoperto è il gusto per lo
"straordinario," e dove, per altro verso, si presentano gli eroi del
passato, si come nella Vita di Apollonia si presenta la figura di Apollonia.
Non solo, ma è altrettanto interessante sottolineare che l'autore del Sublime,
nel 1 secolo, d'accordo con l'autore del Dialogus de oratorihus (forse Tacito)
e con Seneca, sostiene che la decadenza della oratoria.e della letteratura, il
prevalere in certi ambienti della pura imitazione, l'aver ridotto l'eloquenza
all'applicazione di fredde regole, è frutto della situazione politica attuale,
della perdita della libertà, del conformismo generale e della mancanza di alti
e nobili ideali per ·i quali battersi. "Allo stesso modo che - se è vero
quel che si dice - le gabbie in cui si allevano i Pigmei, chiamati nani, non
solo impediscono ai rinchiusi la crescita, ma anche contraggòno loro la lingua
per la museruola posta intorno alla bocca, cosi anche la ~chiavitu, sia pur la
piu legit- tima, potrebbe qualificarsi gabbia dell'anima e comune prigione di
tutti" (44, 5). Di qui, non solo l'importanza data al "sublime"
come stile, ma all'arte come capacità di chi altamente senta, di suscitare mediante
immagini, di là da argomentazioni logico-matematiche, rap- presentazioni di
cose e di persone che riescano a convincere pio di ogni ragionamento. Se entro
quest'àmbito si vede bene nel giro di un secolo e mezzo, in mutate condizioni
d'animo, la funzione assunta dalla retorica di certi neosofisti, intesa al
"sublime,".rompendo contro la vita quotidiana, mediante il miracoloso
e il meraviglioso, si capiscono gli intenti della esercitazione retorica e
romanzesca della Vita di Apollonio scritta nel III secolo da Filostrato di
Lemno. Non a caso, perciò, Filostrato di Lemno deve avere scelto la vita di
Apol- lonio di Tiana. Anche se molte cose sono state da lui inventate, certo
una qualche tradizione popolare, giuocando sui dati reali e sulle reali azioni
di Apollonio, doveva avere trasmesso, idealizzata, la figura reale del Tianeo.
In effetto, un'attenta lettura della Vita di Apollonio ci presenta un Apollonio
non tanto filosofo di professione, quanto maestro di vìta, maestro itinerante,
che, assunto a modello Pitagora, del quale sembra che abbia scritto una Vita,
ed Empedocle - iatrosofisti e medici - esperto di tecniche mediche e
incantatorie, di certi tipi di religioni orientali, con le sue parole, con i
suoi atti " sublimi," presenta se stesso in "stile
sublime," dando agli altri, ai piu che vivono o entro i ter- mini di una
conformistica morale corrente o entro i termini di una religiosità fatta di
superstizioni, di sacrifici, la "purga" adatta, per prevenire o
curare i pio dalla loro malattia morale-religiosa. Sotto que- sto aspetto
sembrano non poco interessanti da un ·Iato i continui rap- porti che, si dice,
Apollonio avrebbe avuto con re e signori dì paesi, fino allo scontro con Nerone
e Domiziano, e, dall'altro lato, l'acco- stamento con figure come quella di un
Demetrio cinico, e il'suo insi- st~re, come risulta anche da fonti diverse da
quelle di Filostrato, con- tro la superstizione, contro la religiosità ridotta
a sacrifici e a puri rituali, il che, d'altra parte, era stato, nella stessa
epoca circa, uno dei maggiori punti d'impegno dell'insegnamento di Seneca.
Secondo Euse- bio, Apollonio di Tiana cosf scriveva in una sua opera tramandata
sotto il titolo Sui sacrifici: lo credo che si osservi il culto conveniente
alla divinità, e che solo cos{ all'uomo è concesso averla propizia e benevola
in qualsiasi circostanza, se al Dio che diciamo Primo e che è Uno e separato da
tutte le cose e che dobbiamo riconoscere superiore a tutti gli aii.ri, non si
immolino vittime, non si accendano lampade, non si consacri alcuna delle cose
sensibili. Dio non ha bisogno di alcuna.cosa... Con lui adopera solo la parola
migliore, cioè quella che non esce dalle labbra, e da lui, che è il migliore
degli esseri, invoca i beni mediante ciò che in noi v'è di migliore:
l'intelletto, che non ha bisogno di nessun organo... (Eusebio, Praep. evan.,
IV, 13). 311 E in una
lettera, che, tra le molte apocrife, sembra proprio di Apol- lonia, si legge:
Se gli dèi non hanno bisogno di vittime, cosa si dovrà fare per avere i loro
favori? Credo si debba avere l'animo ben disposto a beneficare gli uomini, per
quanto è possibile, secondo i loro meriti... (Ep., 26).. Su piani diversi, ma
in situazioni simili, Seneca, Demetrio, Musonio Rufo, Apollonia di Tiana (il
nuovo Pitagora) potevano "benissimo incontrarsi. E cosi non è un caso che
piu tardi, quando la figura del Cristo si era oramai cristallizzata, nel IV
secolo, !erode Sossiano di Biti- nia potesse sostenere che Filostrato, nella
sua Vita di Apoll~nio, aveva voluto mostrare come accanto ai Vangeli era
possibile fare l'encomio della tradizione che aveva costruito la figura di
Apollonio, e come accanto all'encomio di Cristo si poteva scrivere l'encomio di
Apollonio (il Cristo pagano), l'uno e l'altro vicini nelle stesse intenzioni
puri- ficatorie popolari · (Porfirio, anzi, giunse, nella sua opera Contro i
Cristiani, ad opporre la figura di Apollonio a quella di Cristo, soste- nendo
che Apollonio rappresentava il vero Salvatore), mentre altri, i cristiani,
potevano tentare di recuperare Seneca - arrivando a co- struire un epistolario
tra lui e San Paolo,. - ed Epitteto, di cui non poche volte fu detto ch'era
cristiano. 4. Lo Stoicismo a Roma nel l secolo d. C. Lucio Anneo Cornuto.
Musonio Rufo. Epitteto Interessantissima è la narrazione, da parte di
Filostrato, dell'am- biente e dell'atmosfera politica, della corruzione morale
e religiosa, in Roma, al tempo di Nerone, quando, si dice, vi fu anche Apollonia
(libro IV, 35-47). D~ questa narrazione viene fuori un Apollonia moderatore di
co- stumi, che propone se stesso quale esempio di vita misurata e saggia,
simile alla figura e all'atteggiamento di Demetrio, quale risulta anche da
Seneca. E ne viene fuori pure una delineazione della "filosofia"
intesa come riflessione morale, come avviamento a restituire l'uomo a se
stesso, alla propria dignità e libertà, alla propria razionalità, cJoè al
divino, in opposizione alla corruzione imperante, in gran parte dovuta all'atteggiamento
dell'imperatore. Entro questi termini, anzi, lo stesso Filostrato spiega la
paura che l'imperatore e i suoi accoliti sentivano nei confronti della
"filosofia": un controllo coraggioso del loro ope- 312
rato, un'azione seducente sul Senato da un lato e sul popolo dall'altro
lato, e quindi un'attività antipolitica, antistatale, antireligiosa. A parte
Seneca, abbiamo già accennato a illustri vittime della poli- tica imperiale, e
alla preoccupazione da parte del governo romano nei confronti di certe prese di
posizione, ritenute, a torto o a ragione, frutto di tesi filosofiche
interpretate o come magico-demoniache e distruggitrici dei culti religiosi
correnti, o, nel richiamo, particolar- mente da parte stoica, all'antico
concetto della res-publica romana in senso scipionico-ciceroniano, come
estremamente pericolose per la isti- tuzione imperiale, a carattere
assolutistico-personale. Entro questi ter- mini, in una ancor forte
oscillazione sul concetto d'impero, al suo fondamento giuridico, e al
fondamento giuridico-istituzionale del po- tere - se l'imperatore debba essere
tale per discendenza o per elezione, se il potere sia sempre del Senato e del
Popolo romano facenti capo all'Augusto, o se l'Augusto è egli lo Stato, il re
divino in senso orien- tale - si vede bene lo scontro tra il lento e faticoso
costituirsi della istituzione imperiale e, di volta in volta, anche a seconda
dell'impera- tore, del ·suo contrasto con il Senato, certe nette prese di
posizione, rappresentate da certe concezioni, o cinico-popolari o
stoico-senatoriali. E se con "filosofi" s'intese indicare maghi e
indovini e cinici, con "filosofi" s'intese anche indicare coloro che
per un verso o per l'altro si opposero alla politica imperiale, soprattutto con
il loro atteggia- mento, con l'esempio della loro condotta; e questi, lo
fossero o no, vennero indicati con il nome di stoici, e furono soprattutto
personalità romane, uomini politici, gente di governo. Ricordiamo qui, ancora
una volta, i casi clamorosi di Trasea Peto (condannato a morte da Nerone nel 67
d. C.; cfr. sopra) e di Elvidio Prisco, genero di Trasea Peto: Elvidio Prisco,
questore dell'Acaia nel 51, tribuno della plebe nel 56, per il suo
atteggiamento apertamente antimperiale, fu bandito da Roma nel 66; rientrato in
Roma sotto Gaiba, accusò il delatore di Trasea Peto; fatto pretore nel 70,
fortemente si oppose alla politica di Vespasiano, per cui venne di nuovo
esiliato e, poi, condannato a morte nel 70. Ma, entro questa linea, non vanno
scordati i casi di Rubellio Plauto (33 circa-62 d. C.), che, per la sua
opposizione al governo di Nerone, venne condannato a morte, accusato da
Tigellino "di far parte dell'arrogante setta degli stoici, che rende
turbolenti e desiderosi di disordini" (Tacito, A nn., XIV, 57); di Borea
Sorano (console designato nel 52, proconsole d'Asia prima del 63), che venne
accusato presso Nerone perché amico di Rubellio Plauto, e che fu condannato a
morte insieme alla figlia Servilia accusata di pratiche magiche; di Egnazio
Celere, condannato a morte nel 69, da Vespa- siano. E cosf non è poco
indicativo che Vespasiano, dopo la condanna
313 di Elvidio Prisco, abbia nel 71 bandito da Roma tutti i
filosofi, tranne Musonio Rufo, a suo tempo cacciato da Nerone, insieme a
Cornuto, fatto rientrare da Gaiba; e che nell'85 Domiziano abbia fatto uccidere
Materno per le sue coraggiose parole contro i tiranni, Giunio Rustico perché
aveva composto un elogio di Trasea Peto da lui ritenuto un santo (t&p6v) e
di Elvidio Prisco, e lo stesso figlio di Elvidio, allonta- nando di nuovo da
Roma tutti i filosofi, mentre nel 93 circa mandava a morte Erennio Senecione,
perché aveva scritto una vita di Elvidio Prisco. Fu, anzi, dopo tali
avvenimenti - ed anche questo è indica- tivo - che il retore Dione di l>rusa
(30-117), detto Crisostomo (dal- l'aurea bocca), che pur aveva detto i filosofi
"peste della città e dei governi," si converti alla filosofia, con
particolar propensione per la tesi stoico-platonica e cinica, mentre Plinio il
giovane riconosceva il valore della opposizione da parte dei filosofi,
ammirandone il coraggio (cfr. Epist., l, 10; III, 11, 3). Tale sembra, in
effetto, la funzione assunta dalla "filosofia" nel 1 secolo d.C.,
particolarmente a Roma e nel mondo dominato da Roma, soprattutto dal tempo di
Nerone a quello di Domiziano, quale che poi fosse la dottrina di 'Sfondo scelta
a fondazione di una certa attività moralizzatrice: la stoica, la platonica, la
pitagorica, la cinica; o meglio, nessuna delle quattro come tali, ma l'una o
l'altra entro l'accezione che abbiamo visto sopra, indipendentemente da scuole
e tradizioni precise. Sembra chiaro, allora, l'appello di tutti, da Seneca ad
Apollonio, da Demetrio a Musonio Rufo a Epitteto, alla fraternità, alla
benevolenza, l'appello all'abbandono della vita dispersa e di ciò che era
divenuta la vita politica, il richiamo a conoscere se stessi, il continuo
ricordo di Socrate (si veda,' ad esempio, Seneca, De tranquilli- late animi,
VI, 1-2). Entro questa atmosfera a'Ssumono un loro particolare significato
l'insegnamento di Musonio Rufo, tutto volto - sul piano di un gene- rico
stoicismo di sfondo - a formare l'uomo virtuoso, e la robusta, coraggiosa
personalità e la problematica morale di Epitteto. A tale proposito, per meglio
intendere quella che fu una conce- zione stoica di sfondo, merita il conto
ricordare Lucio Anneo Cornuto, nato a Leptis, vissuto a Roma, contemporaneo e
amico di Musonio, maestro di Persio Fiacco (34-62), dopo la morte del quale si
fece edi- tore delle Satire di lui, e di M. Anneo Lucano, nipote di Seneca,
nato nel 39 (fatto uccidere da Nerone nel 65), che, nella Farsalia, non poche
volte rivela motivi stoici. Cornuto, insieme a Musonio, fu esi- liato da Nerone
nel 65. Sappiamo ch'egli fu uomo di cultura, che scrisse in greco e in latino
opere letterarie, tra cui famose alcune sue interpretazioni di Virgilio,
insieme a un De figuris sententiarum e 314 a un De enuntiati011e
vel de ortographia, e opere di retorica precetti- stica, tra cui una dal titolo
Arti retoriche (TéxvocL pYJ-rOptxoc(). Egli scrisse anche un'opera contro le
categorie di Aristotele e un Escurso di teologia greca {'E7tt8po!J.1J -rwv
xoc-rclt ~v 'EJJ..'I)vtx~v 8-eoÀoylocv 7totpoc8e:8o(Lévwv), l'unica opera di
lui conservatasi. Nel suo complesso assai prolissa, monotona e, certo, di non
aÌto significato, l'Epidramè ha un suo particolare valore come documento, da un
lato, proprio nel suo essere un manuale divulgativo e un com- pendio di opere
precedenti sulle divinità del pantheon greco - allego- ricamente interpretate
entro i termini della teologia fisica stoica, - della diffusione di quella che
dicevamo la generica concezione stoica di sfondo (certa terminologia
cristallizzata è molto indicativa); dal- l'altro lato, del modo in cui venivano
recuperate le antiche divinità m funzione della ratio physica stoica. Basti un
esempio: Il cielo tutto intorno avvolge la terra e il mare e tutto quel che si
trova sulla terra e nel mare... Come noi siamo governati dall'anima, cosi lo è
l'Universo; anche l'Universo ha un'anima che lo avvolge, e questa viene detta
Zeus, soprattutto perché egli vive nel tutto, ed è causa di vita ai viventi;
per questo si dice anche che Zeus su tutto regna, sf come si po- trebbe dire
che pure in noi l'anima e la natura ci governano... (Epidromè, l, 1-3; 2, 1-7,
ed. Lang). Da quel poco che conosciamo di Musonio Rufo,5 ricaviamo ch'egli
soprattutto si volse all'insegnamento, inteso come preparazione al ben vivere,
come cura per i malati dell'anima, come formazione dell'uomo G Discendente di
una famiglia equestre, ongtnaria di Volsini (Bolsena), C. Mu- sonio Rufo nacque
intorno al 30 d. C. Nel 60 circa lo troviamo in Asia Minore, dove aveva seguito
Rubellio Plauto, ch'egli assisté quando Rubellio Plauto fu eostretto a
togliersi la vita per ordine- dell'imperatore. Rientrato in Roma, nel 65-66,
fu, in seguito alla congiura di Pisone, condannato all'esilio, insieme al suo
amico Cornuto, c confinato nell'isola di Gyaros (Cicladi). Richiamato a Roma da
Gaiba, visse abbastanza serenamente sotto Vespasiano. Espulso anche da Vespasiano,
che pur lo aveva risparmiato da una precedente espulsione, avvenuta nel 71,
Tito lo richiamò in Roma dove sembra che sia morto non piu tardi del 102.
Soprattutto dedito all'insegnamento, pare che Musonio non abbia lasciato alcuno
scritto. Del suo insegnamento orale restano appunti e frammenti: apoftegmi,
brevi trattazioni filosofiche (cfr. Plutarco, Aulo Gellio, Epitteto in Arriano,
Stobeo); lezioni vere e proprie (Stobeo) (si vedano ora raccolte da Hense, M:
Rufi Reliquiae). Sembra che la fonte comune da cui sono state tratte le
citazioni da Musonio, sia un volume di lezioni di lui, composto da un certo
Lucio, e le citazioni che di Musonio fece nel suo insegnamento orale, il
discepolo di Musonio, Epitteto (Arriano raccolse l'insegnamento di Epitteto).
Di un'opera intitolata Memorabili tli Musonio, composta, a quanto pare da
Valerio Pollione di Alessandria, del tempo di Adriano, non resta alcuna
traccia. Falsa è ritenuta una lettera di Musonio indirizzata a Pancratide. onesto (k.alol(agathos), la cui cultura e
riflessione morale lo rende misurato e rispettoso di se stesso e degli altri:
"in realtà, pratica di virtuosità è la filosofia, e non altro"
(tpù.oaotp(cx xatÀox&:ycx3-~ 4CM"tv bt~'t"')3euatç xcxt oòa~
l'"pov) (M. Rufi Reliquiae, IV, 10, ed. Hense). Dedito al solo
insegnamento, sembra che Musoruo non abbia scritto niente. Di lui possediamo
apoftegmi, brevi trattazioni filosofiche, brevi lezioni: alcuni apoftegmi sono
riportati da Arriano che li avrebbe ripresi dalle parole di Epitteto; altri, insieme
a vere lezioni, si tro- vano in Aulo Gellio, in Plutarco, in Stobeo. La fonte
principale di tali citazioni - particolarmente lunghe quelle. riferite da
Stobeo - sembra sia uno scritto di un certo Lucio, fiorito sotto Adriano,
seguace di Musonio, che ne avrebbe ripreso e sistemato le lezioni. Nessun
ricordo resta di un libro intitolato Memorabili di Musonio, scritto da un certo
Pollione, dell'età di Adriano. Grande fu l'influenza dell'insegnamento di
Musonio Rufo sui con- temporanei, particolarmente su alcuni uomini della classe
superiore di Roma, cui lo stesso Rufo apparteneva, che, dall'insegnamento di
Musonio, traevano il fondamento ideologico alla loro opposizione poli- tica,
come fu per Rubellio Plauto (Musonio fu presente alla sua morte nel 60), Borea
Sorano, Minucio Fundano. E se per l'aspetto etico- sociale molto risenti lo
schiavo Epitteto dell'insegnamento di Musonio, per la concezione del sovrano
ideale, da opporre al sovrano attuale, quale, ad esempio, Domiziano, molto
risenti dell'insegnamento di Musonio l'oratore Dione di Prusa, mentre profonda
fu l'influenza di Musonio nel tratteggiare l'ideale del saggio (uomo o donna),
misu- rato, di buone maniere, dal tratto signorile, in un sapiente distacco,
come almeno ci è presentato da Plinio il giovane, che descrive il saggio
atteggiamento del suo maestro Artemidoro, genero di Musonio, e dello stoico
Eufrate di Tiro (cfr. Plinio, Epist., III, ·u; l, 10). Tante sono - scrive
Plinio - le qualità che primeggiano e rifulgono in Eufrate, da essere notate e
ammirate anche da gente mediocremente colta. Egli discute con sottigliezza,
solidità, bella forma e sovente raggiunge quell'elevatezza e pienezza di
espressione che sono proprie di Platone. Ricco, vario, soprattutto persuasivo,
è· il suo parlare: si aggiunga un'alta persona, un nobile aspetto, capelli
abbondanti, una candida barba fluente, le quali cose se possono essere
considl."rate casuali e di poco conto, gli conciliano tuttavia grande
venerazione. Nessuna rozzezza nel modo di vestire, nessuna durezza nel tratto,
una grande serietà; trattare con lui ispira rispetto, non timore. Una grande
purezza di vita e pari affabilità: egli persegue i difetti, non gli uomini, e
coloro che sbagliano non li punisce, ma cerca di correg- gerli... (I, 10). Senza
dubbio ritrattino di maniera - divenuto oramai un t&pos - esso sembra,
comunque, riflettere abbastanza bene quale fosse l'ideale dell'uomo per bene,
per una società per bene, in un mondo piuttosto per male. Musonio Rufo,
cavaliere romano, discendente da una famiglia equestre di Volsini (Bolsena),
nacque nel 30 circa. Nel 65-66, all'indo- mani della congiura di Pisone, venn!!
da Nerone mandato in esilio a Gyaros (piccola e impervia isola delle Cicladi).
Tacito annota: "Lo splendore del nome fu la ragione perché fossero banditi
Verginio Flavo e Musonio Rufo, l'uno perché affascinava i giovani con l'elo-
quenza, l'altro con i precetti della filosofia" (Ann., XV, 71). La breve
annotazione di Tacito è assai indicativa. Essa conferma che l'insegna- mento di
Musonio, per quanto dato con molta misura, in particolare ai giovani, poteva da
un lato apparire, nella sua concezione di quello che ha da essere l'uomo, un
rimprovero continuo all'imperatore, e dall'altro lato nella delineazione di
quello che deve essere il sovrano, non tale se non è a un tempo uomo sul serio,
cioè filosofo, una ripresa del vecchio ideale stoico dello Stato, da opporre
allo Stato attualt;. L'estremo conservatorismo e i precetti di Musonio,
ispirantisi, come dicevamo, a un originario e vago stoicismo di sfondo (uno
l'universo, manifestazione della divina ragion d'essere," per cui tutto si
trova là dove è bene che sia in una necessaria catena, fatalmente scandentesi),
il suo continuo invito alla purezza della vita, all'amore reciproco, per- fino
al rispetto di norme igieniche (in tal senso vanno · presi certi suoi inviti
alla frugalità, all'astensione dalle carni e cosi: via, che· hanno fatto
parlare di un suo pitagorismo, o, per certa sua rigidità, di ci- nismo),
assumono un loro mordente e una loro portata di rivolta, qua- lora si consideri
l'ambiente e gli uomini in mezzo ai quali e per i quali Musonio ha operato.
Posto che "filosofia" è cultura e consapevolezza di sé, dei propri
limiti e perciò stesso delle proprie possibilità entro quei limiti, e che
dunque essere filosofo significa attuare pienamente la propria nai;Ura di uomo,
in forma eccellente, esser filosofo vuol dire essere virtuoso, per cui tutti,
in quanto tutti siamo uomini, siamo cioè esseri che hanno la capacità di essere
ragionevoli, tutti abbiamo per natura, cia- scuno per ciò che gli compete, la
possibilità di essere virtuosi, il seme della virtu, O"ltép!J.ot
&.pe:rijt; (II, 7-8, Hense). Dovere dell'uomo è, quindi, ragionare, cioè
sviluppare tale.~eme, che a tutti è ugalmente comune, onde tutti hanno il
dovere d'essere "filosofi," gli uomini come le donne (III), i poveri
come i ricchi, i sudditi come i sovrani (VIII). Avviare gli altri a filosofare,
tale il dovere del saggio, di fronte a chi, preso dall'immediatezza sensibile,
preso dall'una o dall'altra cosa, vive nella passione, è disperso, non è
se stesso. E per questo, per avviare gli altri a pensare, a rendersi chiare le
prPPrie idee, Musonio riteneva non necessari né molti discorsi né molte
dottrine, ma, soprattutto, l'esempio da un lato, e, dall'altro lato,
l'esercizio (VI), cioè l'insegnare e l'imparare a ragionare (logica), mediante
cui ci si forma uomini (I e II). Di qui la tesi fondamentale di Musonio, che
venne poi sviluppata e approfondita, in un richiamo all'antico stoicismo, tipo
quello di Ze- none di Cizio e di Aristone di Chio, da Epitteto. Posto che,
entro i termini della tradizione stoica - in un'accettazione piu dommatica che
riflessa - in natura tutto è bene, ché tutto è momento necessario del
realizzarsi dell'unica ragione, il problema grosso consiste, allora, nel
risolvere il rapporto necessità universale e capacità, nell'uomo, in quanto ha
in sé un seme di ragione, di adeguarsi o meno, liberamente, a quell'ordine e a
quella necessità. Ancora una volta si ripresentava il vecchio problema
implicito in una coerente posizione stoica: il pro- blema del fato e, quindi,
di conseguenza, il problema ·se all'uomo è dato, almeno entro certi limiti, il
potere di agire, se v'è una zona su cui potere operare, anche se tale possibilità,
rendendosene consapevoli (e sarebbe già questa un'attività propria), consiste
nell'accettare lieta- mente l'ordine stesso del tutto, tutto ciò che avviene.
La virtu (bene) consisterebbe, dunque, nel sapere usare. la ragione, il vizio
(male) nell'esser preso dalle cose, nel dare alle cose e ai sentimenti un
valore unilaterale, disordinato, nello sragionare, per cui tutte le cose sono
indifferenti, considerate dal punto prospettico della ragione, in rela- zione a
ciò che nel vizio è detto bene, che nel vizio fa piacere. Ne deriverebbe
perciò, entro i termini del piu antico stoicismo, che ogni azione essendo
positiva, la differenza tra virtu e vizio sta non in ciò che facciamo, ma nel
come agiamo, o meglio nel come accettiamo, nell'intenzione (vedi I vol.: Zenone,
Cleante, Crisippo). Si ammetta che tutta la realtà si costituisce mediante la
ragion d'essere del tutto secondo una necessità, e che, perciò, tutto è bene, o
meglio come deve essere, in sé né bene né male e che tale è la natura; si
ammetta anche, come dato di esperienza, che l'uomo da un lato è passione, cioè
è di volta in volta preso da questa o da quella rappresentazione, che si
accavallano in lui, trascinandolo indifferentemente, in opposte dire- zioni,
per cui l'uomo è incoerente, e non da lui dipendono le cose, e che dall'altro
lato, invece, ha la capacità di coordinare quelle passioni, di non essere piu
preso da questa o da quella, ma di costituire sé in unità e coerenza, valutando
le stesse rappresentazioni in un ordine per cui ciascuna nel discorso si
colloca dove è bene che sia; ne segue che non incoerentemente si può concludere
che la libertà umana con- siste, appunto, in questa sperimentata capacità di
vivere secondo ra- 318 gione, o meglio in questa esperienza di una
capacità di scelta tra l'essere preso da questa o quella rappresentazione, e
l'agire, pur sempre entro i medesimi dati, rendendosi conto, attraverso il
discorso e un retto ragionare, delle stesse passioni, che, in quanto comprese,
ricollo- cate nel loro giusto posto, cessano di essere passioni, in un'unica
vita secondo ragione. In tale direzione sembra si debba interpretare l'ap-
pello alla r~gione e al vivere filosoficamente da parte di Musonio, e,
soprattutto, un frammento - va detto che è un testo ricavato da un'opera Sull'amicizia
di Epitteto, andata perduta, - in cui Musonio sostiene che bisogna saper
distinguere tra ciò che è in potere nostro (~q/ ~fL'i:v) e ciò che non lo è
(oùx ~q:/ ~fL'ì:v)(cfr. XXXVIII, Hense). In nostro potere è il sapere usare le
rappresentazioni, da cui la giusta valutazione delle cose, e perciò la
liberazione dalle passioni, dalla vita dispersa, dall'amore unilaterale per
questa o per quella cosa, che, in questo senso, rimanendo incomprese e, dunque,
altre da noi, restano non in nostro potere. Sembra cosf chiaro perché per
Musonio, onori cariche e cosf via non siano beni, perché non siano beni i
piaceri immediati, tutto ciò che è dovuto alla vita dispersa, esteriorizzata,
ma che l'unico bene in cui consiste l'unica libertà possibile, e perciò l'unica
virtu e felicità, stia in ciò che dipende da noi, cioè nel saper pensare, nel
vivere secondo ragione, nel nostro modo di atteggiarsi nei con- fronti della
realtà, nel cui atteggiamento consiste l'esperienza della volontà
come-intenzione. Se in tale interiorizzazione della realtà e degli avvenimenti,
se in tale capacità di valutare rettamente cose e avvenimenti, consiste la
comprensione, il vivere filosoficamente, virtuosamente, l'insegnare agli altri
a sviluppare la razionalità, quel seme di virtu che è proprio a tutti per
natura, è dovere del saggio, dell'uomo. In questo senso Musonio indirizzò tutta
la sua vita, in questo sentire l'insegnamento come dovere, sia nei confronti
dei giovani, sia degli adulti, che in quanto presi dalle passioni, in realtà sono
non uomini, sono come ammalati che hanno bisogno di cure. E in un mondo quale
fu quello di Roma tra Caligola, Nerone e Domiziano, si capisce che Musonio
vedesse ovunque amma- lati gravi, per i quali erano necessarie drastiche
medicine, per avviarli ad essere razionali. Di qui il suo appello al bene
comune, al rispetto per l'uomo in quanto possibilità d'essere razionale. Per
ciò egli sotto- linea l'importanza che gli ·schiavi siano trattati non come
cose ma come uomini, che come cose e strumenti di piacere non siano considerate
le donne, bensf come "uomini," e·che quindi il matrimonio non sia
solo un contratto, ma anche un valore (XIIIh-XIV), da cui la condanna dell'uso
di abbandonare i figli non desiderati ("meglio tanti fratelli che tanto denaro,"
esclama una volta). Se tali debbono essere gli uo- 319 mini, se non v'è società
senza reciproco rispetto, fondato sul ricono- scimento di una.possibile comune
razionalità, tanto piu dovrà essere virtuoso, cioè "filosofo," chi ha
in mano il governo dello Stato, l"'uomo regio" (~cxaLÀLxÒç
&vl)p), sosteneva Musonio, come appare da una sua lezione andata sotto il
titolo Anche i re debbono studiare filo- sofia (VIII). Per Musonio non si
tratta tanto di delineare quale debba essere il sapere proprio dei sovrani, nel
senso in cui tale questione è trattata nel Politico di Platone, quanto di
mostrare che il sovrano giusto è il sovrano che sia "filosofo," cioè.virtuoso
sf come tutti gli altri uomini. "Ammesso che funzione dell'uomo regale è
di sapere reggere bene le nazioni o le città e d'essere degno di governare gli
uomini, chi, chiediamo, piu del filosofo saprebbe reggere bene una città, o chi
piu di lui sarebbe degno di governare gli uomini? Poiché, se veramente è
filosofo, sarà saggio, misurato, magnanimo, capace di rendersi conto di ciò che
è giusto e di ciò che conviene, di effettuare le sue decisioni e di reggere a
dure fatiche" (VIII). Dopo la morte di Nerone (68 d. C.), Musonio, che
anche durante l'esilio nell'isola di Gyaros aveva continuato il suo insegnamento
rivolto a tutti coloro (e furono molti), che attirati dalla sua fama erano
andati a trovarlo, fu richiamato a Roma dall'imperatore Gaiba. Dopo gli
effimeri governi di Gaiba, Otone, Vitellio (68-69 d. C.), è noto che Vespasiano
(70-79), nel tentativo di riportare l'impero alla pace, s'ispirò a un governo
simile a quello di Augusto. Se cosf dapprima non vide di malocchio soprattutto
certe posizioni stoiche, di cui sembra che par- ticolarmente apprezzasse quella
di Musonio, in un secondo momento, allorché l'opposizione di Elvidio Prisco,
che pur sempre vedeva nel- l'Imperatore non il princeps, ma il tiranno, un
governo personale, parve ispirarsi proprio a tesi stoiche e ciniche,
Vespasiano, ritenendo estrema- mente pericolosi gl'insegnamenti stoici per
l'unità dell'Impero, nel 71 bandf tutti i filosofi tranne Musonio, che,
tuttavia, allontanò pi6 tardi, nel 75. Sotto Tito (79-81), che riprese la
politica pacificatrice del padre, cercando di dare all'Impero anche un
fondamento ideologico, Musonio venne richiamato a Roma. Altre notizie di lui
non si hanno. Proba- bilmente morf prima del bando dei filosofi, ordinato nel
94 dal fratello e successore di Tito, Domiziano (81-96), che deCisamente si
volse ad un ~ccentramento di tutto il potere nelle proprie mani. Tra i pensatori
e i maestri che nel 94 furono costretti ad abbandonare Roma, vi fu il piu
intelligente e solido discepolo di Musonio, Epitteto.., il Diflicile è
precisare le date della vita di Epitteto. Se nella Suda si legge che Epitteto
visse lino all'avvento di Marco Aurelio (161 d.C.), la aonologia del suo
editore Arriano porterebbe a spostarne la nascita in epoca un po' piu antica.
Nato nel 320 Egli non si spostò molto né dalla concezione né dal
tipo di insegna- mento di Musonio. Epitteto, come Musonio, non pretese mai di
dare ).m'esposizione sistematico-scolastica di una certa dottrina. Di volta in
volta, prendendo spunto da domande di discepoli o da quesiti posti da chi si
recava da lui, dal saggio, per averne consigli, si intratteneva in discussioni
brevi e serrate, ove ogni volta, sia pur da punti di vista diversi, si
ripresentano gli stessi motivi - alcuni àei quali riprendono, portati alle
estreme conseguenze, quelli prospettati da Musonio - approfonditi nelle loro
varie facce, in un atteggiamento rocratico, al quale non poche volte Epitteto
si richiama. Specchio fedele delle con- versazioni di Epitteto, di questo suo
modo di insegnare attraverso la rappresentazione viva della formazione di un
certo ragionamento, at- traverso il dialogo e la discussione, in situazioni
precise, in un concreto e vivo rapporto di uomini vivi tra uomini vivi, è il
complesso degli appunti che un seguace di Epitteto, il ·generale romano Arriano
di Nicomedia, ha raccolto e, poi, pubblicato (sembra che Arriano abbia, di
volta in volta, stenografato le conversazioni del maestro). Dice lo stesso
Arriano nella lettera prefatoria alla sua raccolta, dedicata a Lucio Gellio:
Non ho redatto i discorsi (Myo') di Epitteto come si potrebbe redigere materia
di tal genere e neppure li· ho pubblicati, io che dico di non averli redatti.
Ma tutto quello che ho sentito dire da lui, trascrivendolo, per quanto fosse
possibile con le stesse parole, ho cercato di serbarmelo per il futuro a
ricordo (~o!Lvi)!L«-rct) del suo pensiero e dd suo libero parlare. Quindi,
com'è naturale, tali note hanno l'andamento di quel che uno dice all'altro per
bisogno spontaneo e non di quel che si potrebbe redigere per destinarlo in
futuro a lettori. In tale forma, dunque, io non so come, contro la mia volontà
e a mia insaputa, capitarono in pubblico. Per me, certo, non ha im- 50 circa, a
Jerapoli, nella Frigia meridionale, schiavo, forse figlio di schiavi, giovane
fu condotto a Roma, dove fu servo di Epa&odito, liberto di Nerone. Ancor
prima d'essere liberato da Epa&odito, Epitteto ebbe il permesso di
ascoltare le lezioni di Musonio Rufo, probabilmente dopo il secondo ritorno di
Musonio dall'esilio, al tempo dell'imperatore Tito. Epitteto ricordò sempre
Musonio come suo unico maestro. Sembra che dall'SO in poi Epitteto, ormai
libero, abbia tenuto in Roma le sue lezioni, finché nel 94 fu espulso da Roma
su decreto di Domiziano, insieme a tutti i filosofi, matematici e astrologi.
Epitteto si ritirò a Nicopoli, in Epiro, dove prosegui il suo insegnameuto,
fino alla morte, avvenuta tra il 125 e il 130. Epitteto non scrisse nulla. Le
sue lezioni, dialoghi, discorsi, consigli, commenti di testi, trascritti da
Arriano di Nicomedia, suo discepolo, al tempo di Nicopoli, furono poi
pubblicati da Arriano subito dopo la morte di Epitteto, in un complesso di
libri andati sotto il nome di Diatrib~. Arriano compone anche una specie di
summa delle massime capitali di Epitteto, andata sotto il nome di Enchiridion o
Manuale. Frammenti ci sono pervenuti per opera di Auto Gellio (2), di Marco
Aurelio (3), di Arnobio (1), di Stobeo (23). Sulla questione delle Diatribe
sulle altre possibili raccolt e dilezioni di Epitteto confronta sopra il testo.
] portanza se apparirò un redattore incapace; per Epitteto, poi, ancora meno,
se taluno avrà a disdegno il suo linguaggio, giacché si vedeva chiaramente che,
anche parlando, niente altro cercava se non di eccitare al meglio i suoi
ascoltatori. Se, quindi, per lo meno a tal fine riuscissero questi discorsi
(>.Oyo~), otterrebbero, io penso, quel che debbono ottenere i discorsi dei
filo- sofi: altrimenti, sappiano quelli, nelle cui mani essi giungono, che,
quando Epitteto li profferiva, l'uditore di necessità provava i sentimenti
ch'egli voleva fargli provare. Se poi da sé non riescono a tal fine, forse ne
sono io la causa, forse è destino che sia cosf. Addio. Non sappiamo quale
titolo abbia dato Arriano alla sua raccolta. Egli nella lettera citata usa due
termini: Discorsi (l6got) e Memorie (Hypamnimata). La tradizione ha dato
all'opera il titolo di Diatribe (à~or.-rp~~or.(). Solo che molti autori antichi
che parlano di Diatribe di Epitteto, parlano anche di Dissertationes
(dialécseis), di Hypam- némata, di Omilie, di Apomnemoneuta, di Scholai (cfr.
Aulo Gd- lio, l, 2, 17, 19; Marco Aurelio, Ricordi, l, 7; Fozio, Bibl., in
Comm. Enchiridion, ed. Schenkl, test. VI; Simplicio, Comm. Enchir., ed. Scenkl,
test. III; Damascio, ed. Schenkl, test. IV). Fozio sostiene, inoltre, che Arriano
avrebbe scritto otto libri di Diatribe di Epitteto e dodici libri di Omilie
(conversazioni). Senza dubbio la raccolta di Arriano (dia- tribe) quale è
giunta (in 4 libri) è mutila. Aulo Gellio (XIX, l, 14-15) parla di un quinto
libro; l'Enchiridion o il Manuale (l'altra opera di Arriano, che è una specie
di summa dei motivi fondamentali delle Diatribe) contiene molti passi e motivi
che non hanno riscontro nei quattro libri che leggiamo, cos{ come un frammento
di Stobeo (fr. l, in Stobeo, Ecl., Il, l, 31 W.), testo certamente estratto
dalle Diatribe, non corrisponde a nessun passo dei nostri quattro libri. Posto,
dunque, che l'opera originaria di Arriano fosse in piu di quattro libri (otto o
do- dici), ci si è chiesti se gli autori antichi indicassero con gli altri
titoli (Omilie, Hypomnimata, Apomnemoneuta, ecc.) altre opere o redazioni diverse,
o le stesse Diatribe. Non abbiamo una documentazione tale da poter essere
certi. Si resta sempre nel campo delle ipotesi (per le varie discussioni e
ipotesi, cfr. J. Souilhé, Introduzione a Epict~te, Entretiens, coli.
"Belles Lettres," Parigi). L'opinione, oggi, maggiormente diffusa -
già sostenuta nel 1741 da J. Upton, Epicteti quae supersunt Dissertationes, II,
Londra, p. 4, - è che sotto i numerosi titoli riferiti dalla tradizione ~i
indicas- sero non opere diverse di Arriano, ma sempre la raccolta che ha poi
assunto il titolo di Diatribe. "Se si pensa alla libertà con cui gli
antichi citavano le loro fonti, non ci stupiremo che una sola raccolta sia
stata indicata in tanti modi, tenendo inoltre presente che molte copie erano
322 già circolate prima che l'autore ne consentisse lui stesso la
pub- blicazione... D'altra parte, i termini 8Lcx-tpL~-Ij,
ax_oì..1j,.8L<Xì..e!;Lt;, O(LLÀ(cx hanno significati molto prossimi e sono
spesso usati come sinonimi" (Souilhé, cit., p. XVIII). Il dubbio resta, se
mai, per i dodici libri delle Omilie, citati da Fozio, accanto agli otto libri
delle Diatribe e all'En- chiridion. Certo i frammenti che troviamo in Stobeo
dovevano far parte dei libri perduti delle Diatribe. Ad ogni modo è molto
indica- tivo, in quanto è già un'interpretazione del significato del pensiero
di Epitteto, del suo modo e del fine d'insegnare, che abbia prevalso il titolo
Diatribe. Il termine diatriba, che in origine era sinonimo di dialogo o di
discorso, in senso educativo (cfr. già in Platone il termine usato per indicare
i discorsi di Socrate ai suoi concittadini: Apologia, 37d; Clitofonte, 406a),
si allargò poi a significare tanto dialogo, trat- tato morale non dialogico,
lezione, dissertazione su argomenti diversi (di retorica, di musica,.di
matematica, di fisica), quanto predica e soprattutto predica di tipo popolare
(in questo senso, con i cinici, il termine assume un significato tecnico). Ad
ogni modo, sia che con diatriba s'intendesse la discussione e il dialogo in
senso socratico, sia la dissertazione e la lezione su argomenti diversi, sia la
predica popo- lare, la diatriba ha sempre indicato un rapporto diretto e
concreto tra maestro e discepoli, indipendentemente da qualsiasi forma di
insegna- mento professorale, sistematico, in organizzazione scolastica. In
altre parole con diatriba s'intendevano le riunioni - e quindi, poi, anche il
luogo di tali riunioni, in questo senso detto schola- presso un qualche
pensatore dal quale ci si recava come da maestro e consigliere, capace di dirigere
il dibattito, di far pensare, di formare la personalità, in un libero rapporto,
anche se, naturalmente, il maestro indirizzava a una sua certa concezione, ma
non appunto esponendo in forma sistema- tica e dogmatica una precisa dottrina.
Sotto questo aspetto, relativa- mente alla raccolta degli insegnamenti di
Epitteto, riferiti da Arriano (anche la divisione in libri è accidentale,
estrinseca, ché in ogni libro, anche se da punti di vista diversi, ritornano
gli stessi motivi, facenti tutti perno su due fondamentali: quel che dipende e
quel che non di- pende da noi; e la problematica della libertà), il titolo che
ha prevalso, Diatribe, è esatto. Esso sta già ad indicare ciò che, in effetto,
Epitteto intendeva con filosofia: capacità, attraverso un retto insegnamento,
di sviluppare in forma corretta la comune ragione, mediante cui l'uomo forma se
stesso uomo, per cui sapiente è chi sa pensare, e poiché saper pensare
significa ad un tempo saper vivere, la filosofia non è tanto descrizione della
realtà, o scienza, ma moralità; la filosofia perciò non è normativa, ma
formatrice nel suo determinarsi come appello, che non dà contenuti, ma si
richiama al vivere secondo ragione, mediante certe tecniche retoriche che
5<: da un lato si rifanno ·ai dialogo socr~ tico, ·dall'altro lato si
determinano in una dis'cussione che finge il dibat- tito giudiziario o
conflitti di idee tra personaggi di un dramma (il che era proprio della
diatriba popolare). Quando nel 94, costretto ad allontanarsi da Roma per
decreto di Domiziano, che bandiva tutti i filosofi, matematici astrologi,
giunse a Nicopoli (la città della vittoria,. in Epiro, fondata da Augusto in
ricordo della vittoriosa battaglia di Azio), ove apri una nuova scuola,
divenuta presto un centro di discussioni ("diatriba"), dove
moltissimi si recavano per avere consigli o sciogliere dubbi morali (le
Diatribe e il Manuale rispecchiano questo periodo del suo insegnamento), Epit-
teto aveva quarantaquattro anni circa. Già uomo nel pieno della ma- turità,
portava con sé sia l'esperienza del mondo di Roma tra Nerone e Domiziano
("non è troppo sicura l'occupazione del filosofo, special- mente ora, a
Roma": Diatribe, Il, 12, 17), sia l'approfondimento e il ripensamento
dell'insegnamento del suo maestro Musonio Rufo. Epit- teto era nato intorno al
50, ad Jerapoli, la città santa, centro della religione di Cibele, nella Frigia
meridionale. Schiavo - c'è chi ha sostenuto che il s~o stesso nome, epitteto,
indicasse la sua condizione di schiavo, - figlio di schiavi, almeno secondo
un'antica iscrizione (in Schenkl, Epict. Diss., p. VII, test. XIX), Epitteto fu
condotto a Roma ancora giovanetto e comperato da Epafrodito, liberto di Nerone,
che faceva parte delle guardie del corpo dell'Imperatore, e che aiutò Nerone a
suicidarsi (Svetonio, Nerone, 49, 5; Domiziano, 14, 2). Rimaniamo incerti sulle
diverse notizie trasmesseci intorno ai rapporti tra Epitteto ed Epafrodito.
Prepotente nei confronti dei propri schiavi, Epafrodito si sarebbe divertito a
tormentare anche Epitteto. Si narra (Celso, Ori- gene, Gregorio Nazianzeno) che
giunse un giorno a spezzargli una gamba. "Questa gamba si spezzerà,"
avrebbe commentato Epitteto, mentre Epafrodito lo tormentava: " T e
l'avevo detto che si sarebbe spezzata," avrebbe concluso Epitteto, còme se
non si trattasse del proprio arto, ma di urta dimostrazione sulla causa e
l'effetto (cfr. Celso, in Origene, Contro Celso, VII, 53). Troppo stoico-cinico
è questo aneddoto per non avere il sapore di ricostruzione a posteriori, per
delineare la figura di Epitteto stoico, che si sapeva zoppo fin dalla gioventu
(cfr. Simplicio, in Schenkl, cit., p. VII, test. XLVII). La Suda, invece, molto
meno pittorescamente, riferisce che l'infermità di Epitteto era dovuta ai
reumatismi. Certa resta, invece, l'importanza ch'ebbe per Epitteto l'esperienza
del rapporto servo-padrone, in un'ap- profondita meditazione sul significato
della libertà e su ciò che dipende o no dall'uomo. Entro questi termini va
veduto il rapporto Epitteto- Epafrodito. E, forse, anche l'aneddoto della gamba
spezzata e della impassibilità di Epitteto tende ad interpretare tale rapporto,
non su di un piano personale, ma, prendendo le mosse da un'esperienza con-
creta (il fatto d'essere schiavo), su di un piano etico-metafisico. In effetto,
sul rapporto necessità-libertà, realtà.che è quella che è, ineso- rabile, da
cui dipendiamo - e che per ciò ci è estranea e, qualora la si comprenda,
indifferente - e riflessione sulla umana capacità, nella consapevolezza dei
nostri limiti e della nostra non libertà, di poter determinare un nostro modo
di vita che dipende da noi, qualora si sappia ragionare, non facendosi prendere
dai fantasmi, onde tutti siamo ad un tempo servi e padroni, a seconda
dell'atteggiamento che assumiamo nei confronti delle cose, su tale rapporto si è
svolto e approfondito il pensiero di Epitteto. E, probabilmente, proprio queste
prime discussioni, che Epitteto ebbe con Epafrodito (e traccia di esse è,
appunto, l'aneddoto della gamba), spinsero Epafrodito a permettere ad Epitteto,
ancor prima di concedergli la libertà, di frequentare Mu- sonio Rufo. Senza
dubbio, nell'insegnamento di Musonio, Epitteto trovò chiarita gran parte della
sua problematica umana. "Quando Musonio parlava - dirà ancora a distanza
di tempo Epitteto, - noi, seduti accanto a lui, credevamo davvero, ognuno per
sé, che qual- cuno gli avesse parlato· dei nostri difetti: cosf fortemente egli
era legato alla realtà, cosf vividamente poneva davanti agli occhi di ciascuno
le sue debolezze. ~ una clinica, uomini, la scuola di un filosofo: non si deve
uscirne gioiosi, ma pieni di dolori..." (Diatrib~, III, 23, 29-30). E fu a
Musonio ch'egli dovette l'impostazione stoica della sua medita- zione, tenendo
soprattutto conto da un lato di Zenone di Cizio (l'indagine sul retto pensare
che è, ad un tempo, retto vivere), e, dall'altro lato, di Crisippo (il problema
del rapporto fato-libertà), che lo ripor- tavano all'altro aspetto del problema
logico e del problema della li- bertà (essere se stesso), impostato dai
cinico-socratici (Antistene, Ari- stone di Chio, ove.di Aristone non va
dimenticata la tesi del giuoco delle parti). Basta scorrere le Diatrib~ per
rendersi conto che tra gli au- tori pio citati sono Zenone di Cizio e Crisippo,
che di Cleante si citano i versi sul Fato, che non si accenna affatto a Boeto,
a Panezio, a Posidonio, che si sorvola su Archedemo e Antipatro, mentre non
poche volte è citato Diogene di Sinope, Socrate, Antistene, Platone socratico,
Senofonte. Sembra, anzi, che accanto alle discussioni, ai con- sigli, ai
dialoghi con i.suoi uditori, suscitati di volta in volta da singole domande, da
singole questioni poste sul tappeto (Diatrib~), Epitteto svolgesse nella sua
scuola, a Nicopoli, vere e proprie "lezioni," ch'egli cioè leggesse e
commentasse testi, di Zenone e particolarmente di Cri- sippo (dice il
BonhOffer, Di~ Ethik d~s Stoikers Epicta, p. 2, che il •libro sacro,"
heiliger Kod~:c, di Epitteto era l'opera di Crisippo, 325 mentre il Bruns, De schola
Epicteti, pp. 3 sgg., finemente sottolinea contro la tesi dello Zahn, Der
Stoìk_er Epik_tet u. sein V erhaltnis zum Christentum, p. 37, secondo cui
Epitteto avrebbe tenuto solo conferenze e dialoghi, che i termini
OCVotyLyv6laxe:LV e OCv<iyvCliO"!J.ot, piu volte usati nelle Diatribe
per indicare un modo di insegnamento, non sono sinonimi di 3~a3otL, ma
significano, mantenendo il loro valore originario, la lezione, la lettura o
prelezione e l'esplicazione dei testi). Sulla linea, dunque, dello soicismo
cinico piu che su quella dello soicismo in chiave platonica, Epitteto svolse il
suo insegnamento in un impegno essenzialmente educativo. Probabilmente sviluppo
di un motivo proprio di Musonio, è l'insi- stere di Epitteto sull'educazione
come formazione dell'uomo, me- diante l'educazione a sapere correttamente
pensare, che lo riporta, appunto, a Zenone di Cizio e a Crisippo. Tutti gli
uomini, in quanto animali razionali, hanno una comune ragione, hanno le stesse
guise, gli stessi modi, che, formalmente, sono condizioni del comune pen- sare.
Tali modi, tali guise o principi, su cui si fondano i discorsi, tali prenozioni
{7tpoÀ~IjieLç, prolép,seis) o idee prime, proprie di tutti, e su cui tutti
siamo d'accordo, e sulle quali non siamo in contraddizione, sono, in quanto non
contraddittorie, rappresentazioni sempre vere. La contraddizione, il falso, e
perciò il disaccordo, nascono nell'applica- zione delle "prenozioni"
ai casi particolari. Le prenozidni sono comuni a tutti gli uomini, e prenozione
non con- traddice a prenozione. Chi di noi in realtà non ammette che il bene è utile,
e anche desiderabile, e che in ogni circostanza si deve ricercarlo e seguirlo?
Chi di noi non ammette che il giusto è bello e conveniente? Allora, quando
sorge la contraddizione? Nell'applicare le prenozioni ai casi particolari:
quando uno dice: "Ha agito bene, è valoroso" e l'altro "No, ma è
dissennato. Ecco in che modo gli uomini si contraddicono tra loro. Certo
Giudei, Siri, Egiziani e Romani, non si contraddicono sul fatto che la santid
va sti- mata sopra tutto e perseguita in ogni occasione, ma sulla questione se
è conforme a santid o no cibarsi di carne suina... L'educazione filosofica con-
siste nell'apprendere ad applicare le prenozioni naturali ai casi particolari
in maniera congruente a natura e, per il resto, nel distinguere tra le cose,
quelle che dipendono da noi e quelle che non dipendono da noi (Diatr. l, 22,
1-4, 9-10): Né vere né false le rappresentazioni prese a sé (ogni oggetto si
determina e assume realtà nella rappresentazione, e, perciò, nel suo esser
detto, donde l'importanza di tener sempre conto dei nomi, s{ che l'un nome non
evochi altra rappresentazione, e non derivino al discorso la contraddizione,
l'equivoco e il paralogismo sofistico), rappresentazioni anche le nozioni
morali, il vero e il falso stanno nel discorso, cioè nel giudizio. D'accordo,
sotto questo aspetto, con i cinici (Antistene) e con gli scettici, ma entro i
termini della soluzione della logica di Zenone di Cizio (che permette la
predicazione: logica pro- posizionate), Epitteto può sostenere che la
"ragione" è un "sistema di rappresentazioni diverse"
(Diatr., l, 20, 5-6). "Per questo," aggiunge Epitteto, "compito
del filosofo, il piu importante e il primo, è sag- giare le rappresentazioni e
distinguerle e nessuna accogliere che non sia stata saggiata" (Diatr., l,
20, 7). "Cominciamo con la logica allo stesso modo che, per misurare il
grano, cominciamo con l'esaminare la misura. Se, infatti, non determiniamo
dapprima che cosa è il moggio, se non determiniamo dapprima che cosa è la
bilancia, come potremo piu misurare o pesare qualcosa? E nel nostro caso, se
non conosciamo con esattezza e precisione il criterio delle altre cose,
criterio grazie al quale le conosciamo, ne potremo conoscere qualcuna con
esattezza e precisione? Com'è possibile?... Compito della logica è discernere ed
esaminare il resto, e, si potrebbe dire, il misurarlo e pesarlo. Chi l'afferma?
Solo Crisippo, Zenone e Cleante? E Antistene non l'afferma? Chi ha scritto che
l'osservazione dei termini è l'inizio dell'educazione filosofica? [cfr. Diogene
L., VI, 3] E Socrate non l'afferma? Di chi scrive Senofonte [Mem., IV, 6,
l] che incominciava dall'osservazione dei termini, quale fosse il significato
di ognuno?" (Diatr., l, 17, 6-12). Irragionevole e folle, e, dunque,
passionale, schiavo, è chi vien preso, di volta in volta, da questa o da quella
r!lppresentazione, chi non sa connetterle, rendendosi conto delle proprie
rappresentazioni, e obbiet- tivarle in un discorso vero, dominando cosf le
rappresentazioni stesse. Su questa linea, perciò, si capisce come Epitteto
ritenga incoerenti anche gli scettici, i quali per negare valore di
obbiettività a qualsiasi ragio- namento (tutti, sul piano del vero, possibili
perché arbitrari, nessuno piu vero dell'altro, oò3~ (LWOV: Il, 11, 15),
ricorrono ad un ragionamento che può convincere della loro tesi in quanto non
viene meno alle co- muni condizioni che rendono verace un ragionamento, e gli
epicurei, relativamente alla loro tesi che l'uomo è felice qualora viva non so-
cialmente, ché, anche essi, per sostenere questo si servono di ciò che vogliono
togliere (la socialità, cioè il discorso stesso) (cfr. Il, 20). Le proposizioni
vere ed evidenti, sottolinea Epitteto, le adoperano di necessità anche quelli
che le contraddicono: anzi la prova piu grande dell'evidenza di un'affermazione.è,
si può dire, il fatto che sia trovata necessaria e utilizzata da quello stesso
che la contraddice" (Diatr., II, 20, 1). Se formalmente, dunque, vi sono
delle condizioni comuni e neces- sarie (prenoziom) che permettono il discorso,
il discorso verace e quel discorso che, trovando il suo contenuto nelle
rappresental:ioni, connette l'una all'altra le rappresentazioni in un sistema,
ove le une e le altre rappresentazioni si articolano in 11:on contraddizione
con le condizioni stesse. Sapere pensare, dunque~ e a questo deve avviare
l'educazione filosofica, consiste da un lato nel ricercare e sistemare le
prenozioni, dall'altro lato nel sapere usare le proprie rappresen- tazioni
(xpljar.<; cpcxvrcxat&v ), mediante cui ci liberiamo dalla pas- sione e
dalla unilateralità, in una obbiettivazione che ci dà la misura e il valore
delle cose, indipendentemente da come esse apparivano nella prima immediata
rappresentazione (opinione). La particolare struttura dell'intelletto ci mette.in
grado di non ricevere le impronte delle cose, soggiacendo ai sensibili, ma
anche di fare una scelta di esse, di sottrarre, di aggiungere, di comporne
altre da noi, di passare dalle une alle altre che in qualche modo sono affini
(Diatr., I, 6, 10). E se tutti gli animali hanno rappresentazioni, la
differenza tra l'animale irrazionale e l'animale razionale (l'uomo) è che
mentre l'ani- male irrazionale usa le rappresentazioni che lo attraggono e lo
spin- gono ad agire (mangiare, bere, riposare, accoppiarsi, compiere ciascuno
quante altre cose rientrano nell'ambito del proprio agire: Diatr., I, 6,
13-14), l'uomo non solo usa le rappresentazioni, ma ha anche la capa- cità di
rendersene conto, di comprenderne l'uso, liberandosene e, perciò, sapendo agire
razionalmente. Il che non significa, che, dunque, l'uomo non deve mangiare,
bere, riposarsi, accoppiarsi e cosi via, ma che deve rendersene conto,
collocando ogni rappresentazione e affezione al suo giusto posto, sapendo
quello che ciascuna vale. E se l'animale irrazio- nale realizza pienamente sé
in quanto vive secondo le sue rappresen- tazioni-passioni, l'uomo realizza sé,
vive secondo natura, in quanto comprendendo l'uso delle rappresentazioni,
costituisce sé razionalmente e, perciò, comprende sé e gli altri, ponendo sé e
gli altri e le cose al loro giusto posto, nòn facendosi prendere piu dall'una
che dall'altra cosa, piu dall'uno istinto che dall'altro. Questa è quella
ch'Epitteto chiama contemplazione (8-Ec.>p(cx), che consiste, appunto, nella
com- prensione, in una visione (&ec.>p(cx) obbiettiv.a di un sistema di
rap- presentazioni, che è "intelligenza (1tcxpcxxoÀoò&eau;) e tenore
di vita conforme a natura: badate dunque a non morire senza aver contem- plato
queste realtà" (Diatr., l, 6, 21-22). ("Filosofare consiste nell'esa-
minare e nel considerare le norme" che permettono il pensare verace e per
ciò necessario e universale, ·comune a tutti gli esseri razionali: "usare
tali norme, una volta conosciute, è dovere dell'uomo dabbene": Diatr., II,
11, 24.) Certo, il modo come si costituiscono le rappresentazioni, com'esse
vengono sussunte dalle "prenozioni," se le prenozioni, sia pur for-
malmente, siano vere e proprie idee innate, quali siano i modi con cui si
articolano correttamente tra di loro le rappresentazioni, tutto questo è appena
accennato da Epitteto. Probabilmente, per quel che sappiamo, tali questioni
egli le doveva approfondire ed esporre nelle "lezioni," e poiché, per
sua stessa testimonianza, sappiamo che leggeva testi di Zenone e di Crisippo,
diremmo che tecnicamente Epitteto doveva esporre la logica entro i termini di
Antistene-Zenone-Crisippo. D'altra parte ciò che piu interessava Epitteto era,
mediante la logica, avviare gli altri ad essere uomini, a non vivere
unilateralmente e pas- sionalmente. E questo fu soprattutto il compito delle
diatribe. E cos(dalle diatribe non riusciamo a sapere quale fosse la concezione
epitte- tiana dell'Universo, se non ch'egli analogicamente, tenendo presente il
fatto che la ragione è attività unificatrice che costituisce il tutto in un
unico discorso, riprendendo l'ipotesi dello stoicismo antico - ancora qui
Zenone e Crisippo - sosteneva che il tutto è come un unico di- scorso, retto da
un'unica ragione, s(come fosse una "città sola." Questo mondo è una
città sola, come pure la sostanza di cui è stato composto, e cosi una sola è la
necessità di un movimento periodico e di un ritirarsi di alcune cose dinanzi
alle altre: queste si disperdono, quelle spuntano, queste rimangono nello
stesso posto, quelle si muovono. Tutte le cose sono piene di amici, in primo
luogo di dèi, poi di uomini intima- mente uniti per natura tra loro: e bisogna
che alcuni rimangano insieme tra loro, che altri se ne vadano, che alcuni
godano di chi rimane con essi, che gli altri non si addolorino di chi se ne va
(Diatr., III, 24, 9-11). Tutte le cose formano un'unità... (Diatr., I, 14, 2).
Uomo sono, parte del tutto, come l'ora è parte della giornata. Debbo giungere
come l'ora, e, come l'ora, scomparire (Diatr., II, 5, 13). In questo senso
Epitteto è molto preciso: uno l'universo nella sua totalità, una la ragion
d'essere del tutto e la sua sostanza, il cangia- mento, il nascere e il morire,
avvengono entro la stessa unità del tutto. Mietere le spighe significa la
distruzione delle spighe, non dell'Universo, si come il cader delle foglie, o
il seccarsi del fico e l'appassirsi dell'uva. Si tratta, in tutti questi casi,
di mutamenti da uno stato precedente in uno diverso: non distruzione ma
ordinata disposizione e amministrazione. Quale è l'andar via dal proprio paese,
un piccolo mutamento, tale è la morte, un mutamento piu grande, ma non da ciò
che è al presente, verso il nulla, ma verso ciò che al presente non è.
"Non sarò piu allora?" No: ma sarai una cosa diversa da quella di cui
al presente il mondo ha bisogno. Perché anche tu nascesti non quando hai
voluto, ma quando il mondo ebbe bi-
329 sogno (Ditur., III, 24, 91-94). "Vai!" dove?
Non in luoghi terrificanti, ma là donde sei venuto, verso amici e parenti,
verso gli dementi naturali. Quanto fuoco era in te, ritornerà in fuoco, quanto
era terra in terra, quanto aria in aria, quanto acqua in acqua. Non c'è Ade,
non Acheronte, non Cocito, non Piriflegetonte, ma tutto è pieno di dèi e di
potenze divine. E chi è in grado di riflettere su ciò e guardare il sole, la
luna, gli astri e prendere diletto dalla terra e dal mare non è abbandonato piu
di quaDJ:o sia senza aiuto... (Diatr., III, 13, 14-16). Dalla constatazione che
la ragione è attività unificatrice e sistema di rappresentazioni-oggetti,
Epittéto passa a poter sostenere che, dunque, la stessa struttura su cui si
titma la realtà è attività unificatrice, me- diante cui tutto ha un suo posto,
tutto avviene come deve avvenire, fatalmente, ma, perciò stesso,
provvidenzialmente ("di ogni cosa che accade nel mondo è facile lodare la
provvidenza, purché si abbiano queste due qualità, la capacità di vedere nel
loro insieme i singoli av- venimenti e il sentimento della riconoscenza...
Dalla struttura dei ~ari prodotti siamo soliti riconoscere che sono
indubbiamente opere di un artista, e non costruite a caso e gli oggetti
visibili, e la visione e la ·luce non lo rivelano(... E la particolare
struttura dell'universo che ci mette in grado di non ricevere semplicemente le
impronte delle cose soggiacendo ai sensibili, ma anche di fare una scelta tra
esse... Tutto questo non fa pensare ad un supremo artista?": Diatr., l, 6,
7-11). Tutto, dÙnque, nel suo esserci, nel suo nascere e perire, nella sua
sostanza, è come parte di un organismo vivente, ha una sua funzione e una sua
ragione. Si capisce, cosi, come Epitteto possa identificare la divinità (ancora
una volta intesa come ciò senza di cui nulla è, la condizione del tutto) con la
ragione, dandone la stessa definizione: quale è la natura di Dio? è
intelligenza, scienza, retta ragione. Solo qua, dunque, assolutamente, èerca
l'essenza del bene" (Diatr., II, 8, 2-3). Ora, se la ragione era stata
definita "sistema di rappresentazioni diverse," e se le
rappresentazioni sono impressioni che in quanto com- prese si costituiscono
come abbietti, non in una semplice recezione delle impronte, ma mediante
l'intelletto in una scelta, sottrazione, somma, composizione di esse, Dio, in
quanto ragione e intelligenza, si costituisce come "sistema di oggetti
diversi," e perciò come attività unificatrice che sceglie, somma, sottrae,
compone, per cui tutto deriva da lui, tutto in lui ha la sua funzione, e tanto
piu l'uomo che scopre sé come ragione, come capacità non solo di usare le
rappresentazioni, ma di saperle usare ("ti abbiamo dato una parte di
noi," fa dire Epitteto a Zeus, "questa facoltà impulsiva e repulsiva,
desiderativa e avversativa, in una parola la facoltà che sa usare le
rappresentazioni... 330 Solo quel che è piu importante di tutto, e
che domina il resto, gli dèi l'hanno fatto dipendere da noi, e, cioè, il retto
uso delle rappresenta- zioni:. le altre cose non le hanno fatte dipendere da
noi": Diatr., l, l, 12 e 6-8). Qui, sembra, la chiave per intendere,
relativamente all'uomo, da un lato la concezione di Epitteto su ciò che non
dipende e su ciò che dipende da noi (dr. particolarmente Diatribe, I, l e
Manuale, 1), dal- l'altro lato sul fato, sul tutto, che è quello che è, e sulla
libertà; sul non comprendere, sull'essere presi dai dati, dalle impressioni,
asistemati- camente (irrazionalmente), per cui siamo schiavi, soggetti, e, non
in- tendendo, non sapendo usare, scegliere le rappresentazioni, applicare
correttamente le prenozioni, siamo scelti; e sulla comprensione che è libertà,
liberazione dall'errore, accantonamento di ciò che non di- pende da noi,
avvicinamento a Dio, scelta. E se pur tutto resta quello che è, se pur ciascuno
resta quello che è, l'uomo, almeno, per sua natura, in quanto •ragione,"
pur rimanendo quello che è, può essere scelto o scegliere, può essere padrone o
schiavo: "quel che è piu importante di tutto, e che domina il resto, gli
dèi l'hanno fatto dipendere da· noi, e, cioè, il retto uso delle
rappresentazioni" (Diatr., I, l, 6-8); e tale è il fine dell'uomo: l'uomo
deve terminare là dove termina nei nostri riguardi la natura, ed essa termina
nella teoria e nell'intelligenza e in un tenore divita conforme alla
natura" (Diatr., 1; 6, 20-21}. Bada, dunque, alle rappresentazioni, vigila
su di esse. Non è poco ciò che va custodito: si tratta del rispetto, della
lealtà, della tranquillità, d'una condizione d'animo scevra da passioni, da
dolori, da timori, da turbamenti, in breve, della libertà... Sono libero e
amico di Dio, s{ che gli obbedisco spontaneamente. Niente di tutto il resto
devo acquistare, non il corpo, non gli averi, non le cariche, non la
reputazione, in una parola, niente. E Dio, poi, neppure vuole che io
l'acquisti. Se voleva, quei beni li avrebbe fatti per me: ora, invece, non li
ha fatti... Custodisci il bene che è tuo in ogni occasione: il bene di tutto il
resto, secondo quanto t'è concesso, nei limiti voluti dalla ragione, e di
questo solo contèntati. Se no, sarai infelice, di- sgraziato, soggetto a
impedimenti e a ostacoli... (Diatr., IV, 3, 7-12). Epitteto prende le mosse da
una constatazione: se da un lato è vero che l'uomo è un complesso di
rapprc.sentazioni, dall'altro lato è altrettanto vero che l'uomo ragionando
scopre sé come ràgione, che ha in se stesso, nel suo stesso svolgersi, il
criterio della propria vali- dità - "la sola facoltà raziocinante,
prendendo se stessa a oggetto di studio, comprende se stessa, la natura, la
potenza, il valore che ha venendo in noi": Diatr., I, l, 3-4, - e scopre
sé come capacità di ob- biettivare e articolare e sistemare le sue stesse
rappresentazioni; finché è solo un insieme disordinato di
rappresentazioni-impressioni, l'uomo è passivo e dominato; allorché,
ragionando, ordina e sistema è egli a dominare, rendendosi conto del valore di
ogni cosa, che tutto ha nel discorso un suo posto, che alcune cose sono in
nostro dominio e altre no. Le cose sono di due maniere; alcune in poter nostro,
altre no. Sono in poter nostro l'opinione, il movimento dell'animo,
l'appetizione, l'avver- sione, in breve tutte quelle cose che sono nostri
propri atti. Non sono in poter nostro il corpo, gli averi, la riputazione, i
magistrati, e in breve quelle cose che non sono nostri atti. Le cose poste in
nostro potere sono di natura libere, non possono essere impedite né
attraversate. Quelle altre sono deboli, schiave, sottoposte a ricevere impedimento,
e per ultimo sono cose altrui. Ricordati che se tu reputerai per libere quelle
cose eh sono di natura schiave, e per proprie quelle che sono altrui,
t'interverrà di trovare quando un osta- colo quando un altro, essere affiitto,
turbato, dolerti degli uomini e degli dèi... Per tanto, a ciascuna apparenza
che ti occorrerà nella vita, innanzi a ogni altra cosa avvezzati a dire: questa
è un'apparenza, e non è punto quello che mostra di essere. Di poi togli· ad
esaminarla e farne saggio con quegli espedienti chè tu sai, e prima e
massimamente vedere se appartiene alle cose che sono in nostra facoltà, ovvero
a quelle che non sono... (Manuale, 1). Gli uomini sono agitati e turbati non
dalle cose, ma dalle opinioni ch'essi hanno delle cose... t da uomo, non addottrinato
nella filo- sofia l'addossare agli altri la colpa dei travagli suoi e propri,
da mezzo addottrinato l'addossarla a se stesso, da addottrinato non darla né a
se stesso né agli altri (Manuale, IV). Evidente è, per Epitteto, che tale
duplice modo d'essere dell'uomo, irrazionale e razionale, dominato e dominante,
che tale situazione tragica dell'uomo - "cosa altro sono le tragedie se
non la narrazione in verso epico di quel che provano uomini affascinati dagli
oggetti esterni? Diatr., I, 4, 26- è dovuta, per natura- ed è un'esperienza-
alla possibilità stessa dell'uomo di voler ragionare oppure no, ad un'opzione
dell'uomo, possibile certo solo allorché l'uomo si rende conto ch'egli è
ragione, cioè giudizio (ma è, appunto, in tale rendersi conto, che non è una
deduzione, che consiste la libertà; di qui per Epitteto l'importanza
dell'insegnamento della logica e della dialettica e la·sua repugnanza contro
coloro che imparano filosofia per ornamento o per professione). In altri
termini, ogni uomo, in quanto scopre sé come ragione, può scegliere tra
l'essere schiavo o l'essere padrone, tra vivere passionalmente (contro natura)
o vivere secondo ragione, in un'armonia e giudizio delle passioni stesse
(secondo natura). In tale senso Epitteto sostiene che la stessa ragione, in
quanto discorso è or- dine, è scelta, o, se vogliamo, volontà
(7tpo1X(p&atc;, proairesis), si come, analogicamente posto Dio come ragione
del tutto, Dio è volontà in 332 quanto ragione, cwe m quanto
giudizio, e non come persona (libertà assoluta) in senso cristiano, si come
talvolta si è voluta interpretare la divinità epittetiana. È il tuo giudizio
che ti determina necessariamente, e cioè la scelta (pro- airest) che forza la
proairesi. Se Dio avesse assoggettato a impedimento o necessità, o da parte sua
o da parte di altri, il frammento del suo essere che ha staccato da sé per dare
a noi, non sarebbe piu Dio né piu si prenderebbe cura di noi, come deve... Se
vuoi sei libero; se vuoi, non bia- simerai alcuno, non accuserai alcuno, tutto
accadrà secondo la volontà tua e, insieme, di Dio (Diatr., l, 17, 26-28).
Nessuno può credere che una cosa gli sia utile senza sceglierla? No. E com'è
che [Medea] dice: "SI, bene intendo quali mali sto per fare, ma il mio
corruccio supera la mia ragione"? (Euripide, Medea, 1078-79]. Perché
proprio indulgere al suo corruccio e vendicarsi dello sposo ella ritiene piu
utile che salvare i figli. Ma si è in- gannata! Mostrale chiaramente che si è
ingannata e non lo farà: ma fino a quando non glielo mostri, che cosa può
seguire se non le apparenze? Niente. Perché allora irritarti con lei, se si è
sviata, l'infelice... (Diatr., I, 28, 6-8). L'essenza del bene
["nell'intelligenza, nella scienza, nella retta ragione... cerca l'essenza
del bene": Diatr., II, 8, 2-3] consiste in una qual certa proairesi [in un
certo qual modo di atteggiarsi], il male in una qual certa proairesi. Che sono,
allora, le cose esterne? Oggetti coi quali venendo a contatto la persona morale
realizzerà il proprio bene o il ·proprio male. Come realizzerà il bene? Se non
dà importanza agli oggetti. Perché, se i giudizi sugli oggetti sono retti,
fanno la persona morale buona, se storti e stravolti, cattiva (Diatr., l, 29,
1-3). La libertà e la scelta o volontà di Epitteto non è né arbitrio né li- bertà
in senso assoluto, ma atto razionale che in quanto tale, in quanto giudizio e
obbiettivamente, è, appunto, proairesis. D'altra parte, proprio il fatto che
l'uomo può scoprire sé come ragione, che, a sua volta, tale si scopre e si
giudica ragionando (cfr. Diatr., l, l, 3-4), fa si che si possa porre come in
atto una ragione che ci trascende dal di dentro, sempre in atto compiuta in se
stessa (Dio). Perfetto dunque Dio in quanto ragione, la ragione umana, aspetto
o frammento di quella divina, non è perfetta come la divina, per cui mentre
tutto è in possesso di Dio, non tutto è 'in possesso dell'uomo, se non il
rendersi ragione, il comprendere ("si deve organizzare il meglio possibile
quel che dipende da noi e di tutte le altre cose usare come esige la loro natura;
come esige la loro natura? come Dio vuole": Diatr., l, l, 17), che,
distaccando l'uomo dalle sue stesse rappresentazioni immediate e unilaterali,
gli fa intendere e valutare da un lato ciò che è in suo possesso (il pensare
che è ad un tempo scelta e volontà) e, dall'altro lato, ciò che non è in suo
possesso (il nascere e il morire, avere questo o quel corpo, esser nato maschio
o femmina, da questi o da quei genitori, servo o libero, storpio o diritto, in
questo secolo o in altro, ricco o povero e cos(via). E allora, quelle ste~se
cose che non sono in nostro possesso, a cui tendiamo finché re- stano
rappresentazioni asistemate, in libertà (alogiéhe), onde appaiono beni, per cui
le desideriamo o da esse rifuggiamo (passioni), nell'atto che le intendiamo
divengono mali se desiderate, ma, in quanto com- prese per ciò che sono, né
beni né mali (indifferentt). Questo, sembra, il significato, riallacciandosi a
Zenone, a Crisippo, ad Aristone di Chio, dell'aspetto "cinico" dello
"stoicismo" di Epit- teto. Va qui, d'altra parte, tenuta presente
l'affermazione di Giovenale, secondo cui la diffidenza, in quest'epoca, tra
cinicj e stoici, consiste in una differenza di classe sociale, in una
distinzione di "tunica" piu che di modo di atteggiarsi: "Stoica
dogmata... a Cynicis tunica distantia" (Satire, XIII, 121-122); e va
tenuto presente un capitolo (22) del III libro delle Diatribe, in cui si
delinea quella che dev'essere la figura ideale del saggio, del cinico
(dell'uomo che per nascita non ha nessuna posizione sociale o che riconosce che
la sua unica posizic;>ne è appunto quella del "saggio"), ma non
interpretato secondo il clichl del cinico giullare, di quelle molte figurine di
filosofi popolari di cui parla efficacemente Dione Crisostomo ("dei
cosiddetti Cinici v'è gran numero nella città;... ai crocevia, negli angiporti,
all'ingresso dei templi, questi uomini radunano e traviano schiavi e marinai ed
altra simile gente, snocciolando scherzi e grande varietà di pettegolezzi e di
arguzie volgari: in realtà essi non fanno alcun bene, ma gran male•: Dione,
Oraz., 32, 10). In effetto, il "cinico" che ha presente Epitteto
(forse Demetrio: dr. sopra) è lo stoico di stretta osservanza, l'uomo che,
consapevole di non avere una sua qual certa. posizione sociale - come, ad
esempio, fu il caso di Epitteto, - realizza veramente se stesso, ché altro egli
non possiede, in quanto mostra agli altri, anche col suo modo esteriore di
vivere, che è un simbolo (privo di tutti quelli che si dicono beni: casa,
famiglia, affetti), cosa significa essere libero, ai ricchi e ai poveri, ai
potenti e ai deboli, indicando a tutti, e in ciò consiste la sua parte - il che
non significa che ~utti debbano assumere la·sua parte,- che tutti, essendo
ciascuno a suo modo, possono essere liberi in quanto accettino, comprendendola,
la propria parte. Nella comprensione razionale che tutto - uomini e c~e - è
quale dev'essere, ciascuno al suo posto, il cinico non propende piu per una
cosa o una persona piu di un'altra, onde, sotto tale prospettiva, tutto è per il
cinico indifferente, tutto e tutti vanno né condannati né esaltati, ma
compresi. Sotto questa prospettiva si vede bene come Epitteto potesse dire. Abbi
cura di ricordare a te medesimo il vero essere di ciascheduna cosa che ti
diletta o che tu ami o che ti serve ad alcun uso, incominciando dalle piu
piccole. Se tu ami una pentola, dirai a te stesso: io amo una pentola;
perciocché se ella si spezzerà, tu non avrai però l'animo alterato. Se tu
bacerai per avventura un tuo figliuolino o la moglie, dirai teco stesso: io
bacio un mortale; acciocché morendoti quella donna o· quel fanciullino, tu non
abbi però a turbarti (Man., III). Chiunque avverte in maniera evi- dente che
per l'uomo misura di ogni azione è l'apparenza... non si adirerà con nessuno,
non si irriterà con nessuno, non ingiurierà.nessuno, non bià- simerà nessuno,
non odierà né offenderà nessuno (Diatr., I, 28, 10). Chi 'vuole divenire cinico
non basta si metta la "divisa" del cinico (mantello corto, bisaccia e
mazza), ma deve "purificare la parte ege- monica dell'anima e disporre una
tale linea di condotta: ora la ma- teria con cui ho da fare è la mia mente,
come il falegname ha il legno, come il calzolaio ha il cuoio: mio compito è il
retto uso delle rappresentazioni. Il povero corpo non ha nessun rapporto con
me: le sue parti neppure. La morte? Venga quando vuole, sia di tutto il corpo,
sia di una parte. L'esilio? E dove mi possono cacciare? Fuori del mondo, no
davvero. E dovunque andrò H c'è il sole, H la luna, H le stelle, i sogni, i
presagi, i colloqui con gli dèi. Però, pur avendo raggiunto tale perfezione, il
vero cinico non se ne può con- tentare, ma deve sapere d'essere stato inviato
da Dio, in qualità di messaggero, _per mostrare agli uomini, che, in rapporto
al bene e al male si ingannano e cercano l'essenza del bene e del male là dove
non è, e non badano dove è... In realtà il cinico è esploratore di cosa è amico
agli uomini, di cosa nemico, e, quindi, condotta un'esplorazione accurata, deve
venire ad annunciare la veri~, senza essere sbigottito dalla paura... Perciò,
all'occorrenza, egli deve potersi levare in piedi e, salito sulla scena
tragica, pronunciare le parole di Socrate [Platone, Clitofonte, 407 a-h]:
'Ohimé, uomini, dove vi lasciate trascinare?'; che fate, disgraziati?
V'aggirate, come ciechi, di su e di giu; v'incam- minate per un'altra strada
dopo avere abbandonato la vera, cercate altrove ciò che rasserena e rende
felici, dove non esiste, e non prestate fede a un altro che ve lo mostra.
Perché cercarlo nelle cose esterne? Dov'è che siamo liberi? Nel giudizio. Coltivate
allora questa cosa, prendetevi cura di essa, cercate qui il bene. E come è
possibile che viva sereno chi non possiede niente, chi è nudo, senza casa,
senza focolare, sordido, senza schiavi, senza città? Ecco, Dio vi ha mandato
uno che, a fatti, ve ne dimostri la possibilità. 'Guardatemi: sono senza casa,
senza città, senza beni, senza schiavi: il mio giaciglio è la terra: non ho
moglie, non figli, non una casetta, ma la terra soltanto e il cielo e un solo
mantelletto. Eppure, che mi manca? Non sono senza dolori? non sono senza
timori? Non sono libero? Quando uno di voi mi ha visto fallire nei miei
desideri, quando cadere nelle mie avver- sioni? Quando ho biasimato Dio o uomo,
quando ho rimproverato qualcuno? Forse uno di voi mi ha visto accigliato? Come
tratto quelli che vi mettono paura o meraviglia? Non come schiavi? Chi, veden-
domi, non ritiene di vedere il suo re e il suo padrone?' Ecco le parole degne
di un cinico, eccone il carattere, eccone il proposito (Diatr., III, 22,
19-49). Se la delineazione dell'atteggiamento del cinico è la delineazione di
una figura ideale di uomo, che giuoca la sua parte, compiendo il suo dovere,
ciascuno, ·ognuno rimanendo al posto che natura gli ha dato, può, entro i suoi
limiti, attuare se stesso, compiere il suo dovere, non unilateralmente
(nell'esclusiva, ad esempio, maniera cinica), per cui su di un piano piu largo,
l'aspetto cinico di Epitteto si risolve di nuovo entro i termini della morale e
della misura stoiche. Deriva di qui un altro motivo fondamentale del pensiero
di Epitteto, quello della libertà, su cui, accanto al motivo del saper usare le
rappresenta- zioni e al motivo della conseguente distinzione tra ciò che
dipende da noi e ciò che non dipende, Epitteto ha piu insistito (nelle Diatribe
il termine "libero" e il termine "libertà" sono usati ben
130 volte: cfr. Oldfather, Epiktctus, I, p. XVII), in una precisa
determinazione della libertà come libertà da e non COII)e libertà di. Mediante
la logica e l'appello ad esercitarsi nello studio di come funziona la ragione
("ai piu sfugge che Io studio dei ragionamenti amfibologici e ipotetici, e
ancora di quelli che procedono mediante in- terrogazione, e, in una parola, di
tutti i ragionamenti ·di questa ma- niera, è in relazione al dovere":
Diatr., I, 7, 1), da un lato la raziona- lità scopre il tutto come un
ordinamento e un sistema di rappresenta- zioni e, dall'altro lato, la
razionalità, in quanto ci trascende dal di dentro, si pone come ordine e
sistema del tutto, onde tutto è come deve essere, tutto è parte in funzione di
un fine che è la stessa razio- nalità (la divinità). Posto, dunque, che in
questo tutto l'uomo, sco- prendo sé come razionalità, e, perciò, come figlio di
Dio, avente sempre in sé un aspetto della divinità, può scegliere tra il vivere
preso dalle sue rappresentazioni e passioni, indiscriminatamente, e il vivere
se- condo la sua stessa natura (che è, dunque, un dovere), cioè razional-
mente, ne deriva la doppia considerazione epittetiana della realtà e della condizione
umana. Se uno riuscisse a compenetrarsi in modo convenìente di questo pensiero,
che veniamo da Dio tutti, e tra i primi, e che Dio ~ padre degli uomini e degli
dèi, credo che nulla di ignobile o di meschino sarà desiderato da lui... Ma
poiché al momento della generazione sono mescolati insieme questi due elementi,
il corpo comune con gli animali, la ragione e conoscenza comune con gli dèi,
altri inclinano a quella parentela infelice e mortale, pochi a questa divina e
beata... Che sono, infine? Un misero omuncolo e miserabile è il mio corpo. Ma
pur essendo miserabile hai un elemento superiore al miserabile corpo. Perché,
dunque, allontanando tal cosa ti at- tacchi a questo? (Diatr., I, 3, l, 3-6).
Non sai che piccola parte sei rispetto al tutto? Questo secondo il corpo;
mentre secondo la ragione non sei peg- giore né migliore degli dèi: che la
grandezza della ragione non si misura in lunghezza né in profondità, ma in
pensieri. Non vuoi, dunque, dove sei uguale agli dèi, ivi porre il bene? (Diatr.,
I, 12, 26). Guarda chi sei. Innanzi tutto un uomo, cioè· un uomo che non
possiede niente piu impor- tante della proairesi, ma a lei subordina il resto,
e tale volontà possiede libera da schiavitU e da soggezione. Osserva, dunque,
da chi ti distingui per la ragione.·Ti distingui dalle bestie selvagge, ti
distingui dalle pecore. Non solo, ma sei cittadino del mondo e parte di questo
mondo, non delle ultime ma delle prime, perché puoi comprendere il governo
divino e riflettere sulle conseguenze. Quale allora è la funzione del
cittadino? Di non avere nessun interesse personale, di non prendere decisioni
su nessuna cosa quasi fosse isolato, bensf di agire come la mano o il piede,
che se ragionassero e com- prendessero l'ordine naturale, giammai altrimenti si
muoverebbero o desi- dererebbero o si contrapporrebbero al tutto. Per ciò ben
dicono i filosofi che se l'uo~o virtuoso prevedesse il futuro, coopererebbe
alle malattie, alla morte, alle mutilazioni, perché si renderebbe conto che
tutto questo gli è stato asse- gnato dall'ordinamento universale e che è piu
importante il tutto della parte, la città del cittadino... (Diatr., II, 10,
1-5). Di fatto l'uomo, come tutte le cose, come ogni avvenimento è quello che
è, né buono né cattivo; ognuno, come ogni cosa, nell'economia dell'Universo,
nel giudizio divino, riceve una sua parte, piccola o grande che sia, è passivo,
è apparentemente un'isola abbandonata a se stessa, tirato di qua e di là dalle
passioni, per cui tutto è vano, tutto, sotto questa prospettiva, disprezzabile
(in tale rappresentazione della realtà e dell'uomo il linguaggio di Epitteto è
senza dubbio quello cinico; tutto è già dato, nulla è da fare, onde cade ogni
speranza, la capacità di sperare che le cose possano essere diverse da quello
che sono, libere; mondo senza poesia, donde la tristitia stoica). Solo che, per
altro verso, se attraverso la ragione, la cui scoperta è non una deduzione, ma
un'esperienza viva che si rivela mediante lo stesso ragionare, l'uomo ha la
capacità di giudicare, cioè di scegliere, ordi- nando e obbiettivando,
cogliendo ogni rappresentazione-oggetto per quella che è, l'uomo si libera
dalle passioni, dall'errore, dall'assumere una rappresentazione per quello
ch'essa non è. Sotto quest'altra prospettiva, quella stessa realtà che fino a
che resta estranea, incompresa, è male, disordinata, irrazionale, si trasfigura
in una realtà buona, desiderabile, amata, in un amore ordinato, nell'unico
amore per l'unità di Dio, rimanendo perciò indifferenti tutte quelle
rappresentazioni" che condurrebbero ad una vita unilaterale, dominata da
questa o da quella rappresentazione (interessi esclusivi per gli onori, per la
salute, il corpo, per la vita dei nostri cari e degli altri uomini,
dimenticando ch'essi sono mortali, sf come rompibile è una pentola di coccio, e
cosf via), che, appunto, per ciò, seguitano a non dipendere da noi. In realtà,
per Epitteto non si tratta tanto di due modi di essere, ma di due modi
prospettici di considerare la stessa realtà. Nel primo caso, pur facendo e
considerando le stesse cose siamo determinati, agiamo fatalmente, siamo agiti
(irrazionalità); nel secondo caso, pur facendo e considerando le stesse cose,
siamo, non subiamo. Nel primo caso non ci solleviamo dalla vita di cose tra
cose, nel secondo caso, obbiettando e scegliendo, giudicando, ci solleviamo
alla vita razionale, alla vita divina. Da un lato tutto è necessario,
dall'altro lato, pur rimanendo tutto necessario abbiamo la possibilità (e in
questa possibilità consiste la libertà) di valutare quella. stessa necessità,
per cui non la subiamo, ma riconoscendola la vogliamo. "Tu non devi
cercare che le cose pro- cedano a modo tuo, ma volere che vadano cosf come
fanno, e bene starà" (Manuale, VIII). "Se vuoi, sei libero; se vuoi
non biasimerai alcuno, non accuserai alcuno, tutto accadrà secondo la volontà
tua e, insieme, di Dio" (Diatr., l, 17, 29). Si capisce allora come, sotto
que- sto aspetto, per Epitteto ragionare sia volere, libera accettazione di una
realtà che è quella che è, voluta dalla stessa razionalità in cui consiste la
divinità (sulla libertà in particolare si confronti la piu lunga delle
diatribe, la prima del IV libro). Gli uomini sono agitati e turbati non dalle
cose, ma dalle.opinioni che hanno delle cose (Man., IV). L'essere zoppo s{ è
impaccio della gamba, ma non della disposizione dell'animo (Man., IX). Quando
tu vedi qualcuno che pianga o per la morte di alcun suo congiunto o per la
lontananza di un figliuolo o perdita della roba, guarda che l'apparenza non ti
trasporti in guisa che tu pensi che questo tale, a cagione delle cose
estrinseche, patisca alcun male vero. Ma tu distinguerai teco stesso
subitamente e dirai: questo è tribolato e afflitto, non dall'accaduto, poiché
questo medesimo non dà niuna tribolazione a un altro, ma dal concetto ch'egli
ha dell'accaduto (Man., XVI). Ricordati che colui che rampogna o percuote, non
offende esso, ma l'opinione che si ha che ·questi cotali offendano. Sicché
quando tu ti senti montare la collera contro uno, pensa che la tua propria
immagi- nazione è quella che ti sprona all'ira, e non altri (Man., XX).
Sopporta e astienti (framm. X, in Aulo Gellio, Noct. Att., XVII, 19). Si
chiarisce cosi la dottrina epittetiana dell’apparenza (fantasia) (cfr. Man.,
1), mediante cui Epitteto sottolinea cosa significhi la distin- zione tra ciò
che dipende e ciò che non dipende da noi. In altri ter- mini, la nostra
lnancanza di libertà dipende da una comprensione inadeguata delle cose, da
ricondursi ad una nostra comprensione imprecisa. Possiamo avere una cognizione
delle cose che è una cognizione fantastica, apparente. Se, per esempio, si
stabilisce un errato rapporto causale, la nostra stessa attività, tesa a
ottenere certe risonanze, in rela- zione a quell'apparenza si svolgerà in
maniera errata e infelice (cfr., ad esempio, Diatribe, IV, l, 43-50), per un
errore che è un errore pro- spettico. Si vede bene, di qui, come la distinzione
tra esteriorità (ciò che non dipende da noi) è interiorità (pensiero, volontà e
cosi via) consiste nel non comprendere e nel comprendere. Se, come sostiene
Epitteto, il vero sta nel giudizio, in una scelta per cui tutto si costi-
tuisce in un sistema di rappresentazioni, l'essere delle cose, l'essere di
tutto è nel giudizio, e quindi nello stesso discorso, in noi, e, qui, esten-
sivamente e per analogia, in Dio. L'esteriorità, ciò che non dipende da noi,
sta nell'incomprensione, in qualcosa che resta per sé, sganciato, no~ giudicato
(irrazionale) e che, dunque, ci domina. Non si tratta di due realtà, ma: di due
nostri modi diversi di atteggiarsi nei confronti della stessa realtà. Le cose
comprese, proprio in quanto com- prese, divengono nostre, anche se, appunto
perché comprese, ci ren- diamo conto che non dipendono da noi (l'avere questo o
quel corpo, l'essere bello o brutto, maschio o femmina, ecc.). E allora,
compren- dendo, sappiamo anche quale, nella grande commedia del tutto il cui
supremo regista è Dio, è la nostra parte (grande o piccola), realiz- zando bene
la quale, tutti, ciascuno per ciò che gli compete (ed in questo consiste la
nostra libertà: cfr. Diatr., IV, 1), siamo uguali, schiavi o re, uomini o
donne, grandi o piccoli uomini, socraticamente, rendendoci con ciò davvero
utili agli altri e a sé. E cosi quanto piu si ama se stessi, cioè la
razionalità, tanto piu si amano gli altri, si vuole sé e gli altri come fini.
Sovvengati che tu non sei qui altro che attore di un dramma, il quale sarà
breve o lungo, secondo la volontà del poeta. E se a costui piace che tu
rappresenti la persona di un medico, studia di rappresentarla acconcia- mente. Il
simile se ti è assegnata la persona di uno zoppo, di un magistrato, di un uomo
comune. Atteso che a te si aspetta solamente di rappresentare bene quella qual
si sia persona che ti è destinata: lo eleggerla si appartiene ad un altro
(Man., XVII). Se il pilota ti chiama, corri tosto alla nave senza voltarti,
lasciata stare ogni cosa (Man., VII). Questi i motivi fondamentali del pensiero
di Epitteto (e questi sono i motivi che in breve, in forma gnomica, Arriano ha
riepilogato e sistemato nel Manuale, riprendendoli dall'opera maggiore, le Dia-
tribe). Di qui, d'altra parte, l'importanza data da Epitteto all'insegna-
mento, inteso come insegnamento a· saper ragionare, mediante cui liberare gli
uomini dal loro vivere da schiavi, delineando, infine, un vero e proprio
processo attraverso il quale, dallo studio della logica e dalla scoperta del
modo di funzionare della ragione, si giunga con essa - in cui, dunque sta il
bene - a quella misura e dominio delle passioni in cui consiste l'uomo verace,
simile a Dio (cfr. Diatr., Il, 17, 29-34; III, 2; 12; 26, 14; IV, 10, 13; l,
12, 24 sgg.). Innanzi tutto, per Epitteto, la funzione della ragione è di
calcolare i nostr.i desideri, s(da distinguere quelli che davvero lo sono, in
quanto dipendono da noi, da quelli che ci attirano in quanto abbiamo calco-
lato male, scambiando ciò che non dipende da noi per ciò che dipende da noi (in
realtà, questi ultimi, compresi, cessano di essere desideri, divenendo i loro
oggetti indifferenti, ché nessuna cosa la quale non dipenda da noi, che sia,
cl1tpoadpnov - aproaireton, - può essere de- siderata). In secondo luogo,
obbiettivati i desideri, che consistono nel- l'esigenza di realizzare ciò che
dipende da noi, la ragione, mediante l'educazione filosofica, ordinando e
scegliendo, determina quale delle nostre inclinazioni (6p!L-IJ), o delle nostre
repulsioni '(clfOP!LiJ) è con- veniente o meno; indicando di volta in volta ciò
che conviene, quali sono perciò i nostri doveri (xoc.&;;xov), onde sappiamo
come agire, come realizzare bene la nostra parte, sia nei confronti degli altri
che di se stessi ("da uomo pio, da figlio, da fratello, da padre, da
citta- dino": Diatr., III, 2, 4). In terzo luogo, infine, la ragione sarà
capace, dominati i desideri o le avversioni, le inclinazioni o le repulsioni,
indi- rizzando s{ che ciascuno giuochi come deve la propria parte, di vedere sé
come sistema di "rappresentazioni," in una comprensione del tutto,
che è visione (teoria) pacata del tutto; in una accettazione in cui con- siste
la piu profonda religiosità (in tale tripartizione della filosofia il maggiore
storico di Epitteto, il Bonhoffer, ha veduto l'aspetto piu originale di lui,
che non si trova né negli stoici antecedenti, né in Musonio, né nei cinici:
Epictet u. die Stoa, p. 27; cfr. anche Souilhé cit., pp. LII sgg.). Non
dovremmo, mèntre vanghiamo, o ariamo, o JÌlangiamo, cantare l'inno a Dio?
"Grande è Dio, percM ci ha largito strumenti adatti a lavo- rare la terra:
grande è Dio, perché ci ha dato le mani, la gola, il '\lentre, perché ci fa
crescere senza che ce ne accorgiamo, perché ci fa respirare mentre
dormiamo." Questo bisognerebbe cantare in ogni occasione e can- 340
tare l'inno piu sublime e piu divino che, cioè, egli ci ha dato la
facoltà di comprendere tali cose e la via retta per usarle. Ebbene? Poiché la
maggior parte di voi è cieca, non era necessario che ci fosse chi tenesse
questo posto e in nome di tutti cantasse l'inno a Dio? E che cos'altro posso
io, vecchio storpio, se non inneggiare a Dio?· se fossi un usignolo, compirei
la mia parte di usignolo, se cigno, quella di cigno. E invece sono un essere
ragionevole: devo inneggiare a Dio. Ecco la mia parte: io la compio e non
diserto il mio posto, per quanto mi è concesso, e anche voi esorto a cantare
questo stesso canto (Diatr., I, 16, 16-21). - Mi basta poter levare le mani a
Dio e dirgli: "le facoltà che ho ricevuto da te per comprendere il tuo
governo e seguirlo non le ho trascurate: non ti ho disonorato, per parte mia.
Guarda come ho usato i sensi, come le prenozioni. Ti ho mai biasimato? sono
stato scontento di qualche avvenimento o l'ho desiderato altrimenti? ho mancato
alle mie relazioni con gli altri? Ti ringrazio di avermi fatto na- scere, ti
ringrazio di quanto mi hai dato: il tempo che ho usato le tue cose mi basta.
Riprendile e assegnami il posto che vuoi: perché erano tutte tue. tu me le hai
date" (Diatr., IV, 10, 14-16). Epitteto mori nel 125-130 circa, a
Nicopoli, da cui non si era piu mosso dal giorno del suo arrivo, esiliato da
Roma (94). A Nicopoli, ove visse_ solo, tutto dedito all'insegnamento, egli
godette di gran fama, rispettato e onorato da tutti. Solamente da vecchio
avrebbe preso con sé una donna, perché lo aiutasse ad all~vare un orfano che
aveva adot- tato (Simplicio, In Epicteti Enchiridion, Schenkl, test. LII). Che
il suo insegnamento sia stato un insegnamento di vita - basato, certo, su di
una precisa concezione - e non un insegnamento strettamente scolastico, è
dimostrato anche dal fatto che dei suoi moltissimi disce- poli e ascoltatori -
a parte Arriano che fu con lui per molti anni a Nicopoli, e che probabilmente
pubblicò le Diatribe e il Manuale subito dopo la morte di Epitteto - nessuno
fece professione di filosofo, se non un certo Jerocle stoico, autore di
un'Etica e di Filosofumena (se ne vedano i frammenti in Stobeo, Ed.). Va,
d'altra parte, osservato che dopo l'uccisione (96 d.C.) di Domiziano, la
politica dei principi, relativa al fondamento del potere dell'Impero, venne
cangiando, tanto che si delineò la possibilità di assumere a fondamento ideologico
la tesi politica dello stoicismo, sia sul piano politico sia sul piano piu
strettamente giuridico. Già questo vediamo con l'imperatore Cocceio Nerva
(96-98), il quale cercò di riaccattivarsi il Senato e con i suoi successori
Traiano (98-117) e Adriano (117-136), che con l'istituzione ufficiale del
Consilium principis svuotò gran parte del potere del Senato, avviando l'Impero
ad una vera e propria unità statale, non piu esclusivamente personale. Sembra
perciò non un caso che anche l'imperatore Adriano si sia recato a Nicopoli a
chiedere consigli al celebre "saggio" Epitteto (cfr. Spartiano, Vita
Hadriani, 16, 10).Difficile è dire se Dione di Prusa 1 in Bitinia, detto
dall"' aurea bocca" (crisostomo), nato nel 40 circa, morto poco dopo il
114, sia stato uno stoico, un cinico, un platonico. Egli fu, senza dubbio, un
grande retore, il primo e, forse, il maggior rappresentante di quella corrente
che Filostrato di Lemno definirà neo-sofistica. Uomo di cul- tura, aggiornato
nelle varie correnti di pensiero del suo tempo, seppe, di volta in volta,
sfruttare i motivi piu vari e le piu varie tesi, in fun- zione di un suo
principio, che chiaramente traspare da tutte le sue Orazioni: la cultura come
elevazione morale, attraverso cui in un con- sapevole distacco dalle "verità,"
-in una misura faticosamente raggiunta, e perciò in una comprensione delle
"ragioni" umane, determinare nella vita sociale e nella stessa
pratica di governo le norme riconosciute come virtu nella vita privata: quella
misura, appunto, che, di volta l Nato a Prosa, in Bitinia, nel 40 d. C., ricco
e intelligente, colto in filosofia e in retorica, Dione, detto per la sua
eloquenza "crisostomo" (dall'aurea bocca), venne presto a Roma.
Esiliato da Roma, su decreto di Domiziano, nell'82, proibitogli anche il sog·
giorno in Bitinia, condusse fino al 97, morte di Domiziano, vita oscura e
peregrina. Reintegrato nei suoi diritti, Dione dapprima soggiornò nella sua
patria, poi tornò in Roma. Fu in rappono e contatto diretto con Traiano e con
gli uomini della sua eone, servendo come meglio poté gl'interessi di Prosa, ove
piu e piu volte si recò. Nel 110-111, come risulta da una lettera di Plinio il
Giovane a Traiano (ad Traian., 81), Dione era a Prosa. Poi ne sappiamo piu
niente. Mori, probaoilmente, cittadino romano, con il cognome di Cocceiano, nel
114. Tutta la sua opera è raccolta in un insieme di 80 orazioni (l.6yoL),
comprendente discorsi realmente pronunziati, trattati morali, filosofici,
politici, in forma di discorsi. Fuori della raccolta rimangono un'opera Sui
Geti, una In favore di Omero contro Plalone, e due scritti di critica: Contro i
filosofi e A Musonio. Particolarmente interes- santi sono le cosiddette
orazioni diogeniche (VIII-X), le quattro Sul regno (I-IV), la XXXII (Agli
Alessandrim), le due Tarsiche (XXXIII, XXXIV), l'Olimpica (XII), la Boristmica
(XXXVI) e l'Euboica {Vll). 7 in volta, si concreta come cortesia e
generosità, benevolenza e perdono, rispetto per la verità e l'onestà (cfr.
Sinclair, cit., p. 420). Discendente da una famiglia di elevata condizione,
Dione, quando ancora viveva a Prusa, partecipò alla vita politica del suo
paese, usando la sua eloquenza e la sua arte in aiuto dei propri amici (cfr.
Oraz., 46, 8).. A Roma, dove giunse ancora giovane, si legò di amicizia con gli
uomini piu in vista della città e, sembra, anche con l'imperatore Tito. Dato il
suo modo di intendere la cultura e il conseguente modo di intendere la politica
e la vita sociale come misura e intelligente equi- librio, si capisce, in
principio, il disprezzo di Dione, in Roma, per i "filosofi" cinici e
stoici in particolare, per il loro atteggiamento di opposizione nei confronti
del governo, ch'egli doveva vedere come rottura di quell'ideale vita sociale,
libera e spregiudicata, ch'egli, nella sua posizione ellenistica, riteneva di
potere attuare entro i termini delle antiche poleis greche. In realtà, Dione
non poteva sopportare, com'egli stesso dice, i cosiddetti cinici, quei
perdigiorno della filosofia, che si trovano ovunque nella Città ("ai crocevia,
negli angiporti, all'in- gresso dei templi, questi. uomini radunano e traviano
schiavi e marinai e altra simile gente, snocciolando scherzi e grande varietà
di pettegolezzi e di volgari arguzie. In tal modo essi non fanno alcunché di
bene, anzi un gran male": Oraz., 32, 9). Ma quando, su decreto di
Domiziano, fu colpito, come tanti altri filosofi, accu- sati di complotto
contro lo Stato, dalla relegatio in perpetuum, e per quindici anni (dall'82 al
96, morte di Domiziano) dovette, in esilio, girovagare, senza potere neppure
mettere piede nella natia Bitinia (il p'restigio da lui goduto in Bitinia
avrebbe potuto essere pericoloso per Domiziano), travestendosi, assumendo falsi
nomi, pur di proseguire nel suo insegnamento e di tentare la pacificazione tra
le città in lotta tra di loro, e venne scambiato per quei tali
"filosofi" ch'egli aveva di- sprezzato e nei quali aveva veduto la
peste per l'armonia delle città, Dione nella sua lotta contro il tiranno,
comprese il significato sia del- l'opposizione cinica sia dell'opposizione
stoica al governo, rendendosi sempre meglio conto che proprio il sistema di
governo tipo quello di Domiziano, da Dione accomunato a quello di Nerone e·di
Caligola, spezzava ogni possibilità di vita politica e sociale. È stato detto
che Dione si converti: allora alla filosofia. In effetto Dione rimase quel
grande avvocato ch'egli era. Approfondile proprie idee circa le condizioni che
possono permettere una vita comune, sia tra privati cittadini, sia tra città e
città, sia tra città e città e il governo centrale - e in tal senso, entro i
termini della nuova situazione politico-sociale, Dione è davvero ravvicinabile
ai sofisti antichi, - cercando di determinare il significato 8 di
cosa voglia dire vivere bene (il bene) e cosa vivere male (il male),
proponendosi conseguentemente il vecchio problema se l'esilio sia dav- vero un
male o se il male consista nel non saper vivere razionalmente. E cosi egli si
trovò sulla linea, sullo axii!J.IX,delle discussioni proprie degli stoici e dei
cinici suoi contemporanei (cfr. Oraz., 13). Nella tormentosa strutturazione e
costituzionalizzazione dell'Im- pero, che soffriva, relativamente alla
fondazione del suo potere di fronte al Senato e al popolo di Roma,
dell'equivoco con cui, con Augusto, era nato, la grave esperienza di Domiziano
portò i suoi successori, già con Cocceio Nerva (96-98), piu sensibilmente con
Traiano (98-117) e con Adriano (117-136), in maniera ancora piu approfondita
con An- tonino Pio (138-161) e Marco Aurelio (161-180), a definire - se non il
grosso problema dell'ereditarietà o dell'elezione; in questo periodo risoltosi
con l'adozione, che fu, in fondo, un compromesso - la fun- zione del principe e
la funzione stessa dello Stato, in un assolutismo in cui l'imperatore non è né
un tiranno né un padrone, né un monarca di tipo orientale, ma il supremo
magistrato dell'imper9. Di qui, sia pure per ragioni politiche, la sempre piu
ampia provincializzazione, lo slargamento della cittadinanza, l'apertura del
Senato, che perde sempre di piu il suo potere di classe di una Città-Stato, a
uomini di origini diverse - per cui il Senato assume sempre piu la forma di un
organo consultivo, - fino alla logica conseguenza della constitutio anto-
niniana (con Caracalla nel 212). È stato detto che "la provincializza-
zione - e quel che è stato spesso chiamato 'imbarbarimento' dell'im- pero - non
sono conseguenze di una poco avveduta politica di Adriano e dei suoi
successori, ma piuttosto il necessario effetto dell'inclusione in uno stato
unitario, sotto il governo dell'Urbs, di genti di varia cul- tura. Nel vasto
organismo dell'impero si è svolto uno scambio di ele- menti etnici e culturali,
nel quale le civiltà superiori hanno assimilato forme diverse di cultura e
nello stesso tempo si sono trapiantate in altre sedi, arricchendosi e
rinvigorendosi di nuove energie. Il processo iniziatosi nell'età ellenistica
prosegue su scala maggiore, favorito dal- l'unità politica e amministrativa. E
diventa quindi sempre meno soste- nibile il principio augusteo della preminenza
dell'Italia sulle provincie: già Cesare aveva decisamente impostato una
politica intesa· ad assimi- lare i sudditi ai cittadini. Piu conservatore - per
principio o per pru- denza politica - e meno aperto allo spirito cosmopolitico
ellenistico, Augusto ha svolto una politica contraria al livellamento; ma ha
pure avvertito che un ampliamento dell'impero avrebbe di necessità compro-
messo il sistema gerarchico da lui fondato. Non solo le vicende mili- tari, ma
già le esigenze della vita economica suggeriscono ai suoi suecessori una
diversa politica, qual era del resto segnata dagli ideali filosofici del tempo
e dai sempre piu intensi scambi culturali nell'àrn- bito dell'impero" (G.
Pugliese-Carratelli, La crisi dell'impero nell'età di Galliena, in "La
Parola del Passato," IV, 1947, pp. 52-3). Sotto questo aspetto, già con
Traiano, sembra chiaro in che senso gli imperatori del n secolo abbiano
ascolato soprattutto le voci dell'op- posizione stoica, che potevano dare loro
le condizioni che ne giustifi- cassero il potere. "La maggioranza di
·coloro che avevano avversato il governo dei Flavii non erano ostili al
principato in sé, ma il loro atteggiamento nei riguardi di esso corrispondeva
piuttosto a quello di Tacito. Essi lo accettavano, ma desideravano che fosse il
piu pos-sibil- mente vicino alla ~atarJ..e:(at stoica e il piu possibilmente
diverso dalla tirannide, identificata con la tirannide militare di Caligola e
di Nerone in particolare e con quella di Domiziano. Con l'ascensione di Nerva e
di Traiano si concluse la pace tra la massa della popolazione dell'im- pero, e
specialmente le classi colte della borghesia cittadina, e il potere imperiale...
Ciò che avvenne fu un nuovo adattamento del potere im- periale alle condizioni
reali, non una riduzione di esso" (M. Rostovzev, Storia economica e
sociale dell'Impero romano, Firenze, pp. 140-141). Non fu, perciò, un caso che,
poco dopo la morte violenta di Do- miziano, Dione di Prusa sia stato
reintegrato nei suoi diritti civili e che, dopo aver soggiornato qualche tempo
nella sua città, ove par- tecipò attivamente alla vita politica di quella
municipalità, sia rientrato in Roma chiamatovi dall'imperatore Traiano,
divenendo alla fine cit- tadino romano e consigliere e propagandista delle idee
politiche del- l'imperatore, soprattutto nei paesi greco-orientali, dividendosi
tra Roma e Prusa (100-110). Dione, attentissimo alla situazione politica del
suo tempo, si rese conto che per rendere possibile la convivenza (d'altra parte
necessaria) tra le esigenze di libertà e di autonomia delle antiche
"p6leis" greche (che Dione sempre difese: cfr. le Orazicmi bitiniche)
e la città di Roma, bisognava che da un lato le città greche accettassero il
potere di Roma e che, dall'altro lato, Roma fondasse il suo impero, non sul
potere personale e tirannico di una città sulle altre, ma su di un potere
capace di rendere uno lo Stato, in un'armonia di "nazioni," mediante
cui ciascuna si articoli all'altra, a somiglianza dell'ordine co- smico, retto
in unità per sua stessa natura da un unico principio, ragion d'essere del tutto
(e tale avrebbe dovuto essere, sia pure per analogia, l'imperatore). Di qui il
passo a prospettare come possibile Stato, rispondente alla natura, e perciò
vero e divino, la "politèia regale" di tipo stoico, eia- 10
baratasi tra la fine del 1 secolo a. C. e il 1 d. C., era breve e tale
che poteva servire ai nuovi intenti politici e giuridici di.Traiano. Padre e
benefattore (1tcx-rljp xcxt e:ùe:pyé't"rjt; ), non padrone (8e:m6't"rjt;
) dei suoi governati, l'imperatore, scelto in quanto uomo di ragione e perciò
non dio, ma simile al dio supremo, ragione d'essere del tutto, egli opera in
accordo col Dio, assumendo il suo potere come un dovere, in un'attività che è
fatica (7tovot;) e non piacere (~8ov-lj), realizzando in armonia i diversi
compiti cui ciascuna città, ciascuna classe, ciascun cittadino - che non va
perciò ritenuto schiavo, ma libero - sono chiamati, circondato da amici e
consiglieri (il Senato), da uomini virtuosi, che partecipino alla cura degli
affari dello Stato (cfr. Sul regno, orazz. 1-3). Un "sapiens," un
"filosofo" dovrebbe essere il vero uomo di governo, personificazione
della ragione vivente del tutto, ma poiché ciò accade di rado, un sapiens sia
almeno chi consiglia il principe (cfr. Oraz., 49, 4), a meno che - e sa- rebbe
ideale - il principe non si circondi, per legge e non a suo ar- bitrio, di un
organismo permanente di filosofi, costituenti un consiglio del principe (cfr.
Or'az., 49, 7-9). Senza dubbio Dione riprese il motivo del re filantropo, e non
solo certe tesi stoiche, che nella delineazione di uno Stato ideale egli poteva
sostenere ispirarsi al discorso platonico (l'unica costituzione perfetta, ove
ragione e legge sono tutt'uno, è la politèia degli dèi del cielo, in cui
ciascuno fa bene Ciò che gli compete e a modo suo, senza interferire
nell'attività àltrui in una reciproca collaborazione in funzione del tutto:
cfr. Oraz., 36, Boristenica, ma anche la concezione di sfondo, genericamente
stoica, di cui abbiamo par- lato, quale, ad esempio, appare dallo
pseudo-aristotelico De mundo che Dione sembra abbia avuto presente (cfr.
Sinclair, cit., p. 422): un dio unico, ragion d'essere o natura che ha la
potenza (86vcxJ.Lr.ç) di costituire il tutto in un cosmo, in un ordine, avendo
nell'una mano sole, luna, stelle, e, nell'altra, aria, acqua, terra e fuoco,
ponerìdo equilibrio tra le forze contrastanti, si che ciascuna cosa attui ciò
che le è proprio, in una equa distribuzione delle parti (laoJ.LoLpt~), e, per
ciò stesso, in un equo governo (6J.L6voL~), specchio di quello che, dunque, ha
da essere un impero universale, retto da un'unica potenza razionale. Tale, per
analogia - e che di analogia si tratti lo dichiara lo stesso Dione: cfr. Oraz.,
36, - deve essere lo Stato degli uomini ov~ ~imile sia l'im- peratore a quella
che nell'universo è la divinità, e ove ciascuno - e in ciò tutti sono uguali -
sia libero di attuare pienamente ciò che gli compete, in una reciproca
collaborazione, in funzione del tutto, che non sarebbe senza la giusta
distribuzione. delle parti, s{ che appunto l'impero somigli al cosmo, sia
un'eucosmia. •Questa," racconta ai suoi concittadini Dione, riferendo un
suo discorso ai Boristeni, abitanti 11 presso il Mar Morto,
"questa è la teoria dei filosofi. Essa indica una buona e amichevole
comunità di dèi e di uomini; essa chiama a partecipare alla legislazione e alla
cittadinanza non tutte indiscriminata- mente le creature viventi, ma coloro che
posseggono ragione e intel- letto. Essa offre un'organizzazione sociale di gran
lunga migliore e piu giusta di quella stabilita dagli Spartani, secondo la
quale non è permesso agli Iloti diventare cittadini di Sparta: naturale motivo
per cui essi sono sempre pronti a ribellarsi" (Oraz., 36, 38). Tutto ciò
non è nuovo. La novità è che tutto ciò divenga ora la base su cui si viene
fondando ideologicamente l'impero da Traiano a Marco Aurelio, e che ciò abbia
voluto e approva.to Traiano. E questo risulta non solo dalle Orazioni l e 11 di
Dione (non a caso egli scri- vendo intorno al104, pur non nominando Traiano,
dice: "Della divina e benedetta costituzione che ora vige, conviene che io
parli con il mas- simo rispetto"), ma anche dal fatto che queste orazioni,
dette dinanzi a Traiano, sembra che per ordine di Traiano siano state piu volte
ripetute da Dione nelle maggiori città dell'Oriente, e che in gran parte esse
coincidano con il Panegirico di Traiano scritto da Plinio; in quegli stessi
anni circa. Nel mutamento di indirizw governativo, da parte imperiale, in
un'adeguazione alle reali esigenze soprattutto delle ZQOe greco-orien- tali, e
in un venire incontro all'opposizione, ch'era poi un rafforza- mento del potere
imperiale, nella trasformazione dell'Impero in Stato unitaiio e in una sempre
maggiore esautorazione del Senato, che non è piu il Senato-classe, quale poteva
essere ancora al tempo di Augusto, Dione Crisostomo ebbe, certo, non poca
importanza. 'E la sua impor- tanza sta soprattutto nell'avere, riprendendo
motivi sparsi, coordinato quei motivi e delineato il tipo di Stato upitario e
universale, che se da un lato poteva servire alla politica di Roma, dall'altro
lato salvava certe autonomie e libertà dei paesi soggetti, dando, ad un tempo,
un significato e un fondamento giuridico al potere e alla figura dell'Impe-
ratore. Come il divino regge il tutto in unità, secondo legge, per cui re è
stato detto il tutto (lo si personifichi in Zeus, o sia chia- mato Uno), ché
tutto, secondo ragione e per sua stessa natura, distri- buisce come è bene che
sia, cosi uno è l'imperatore, reggitore, che tutto distribuisce, secondo legge,
come è bene che sia, non despota privato, ma, egli incarnazione della stessa
ragion d'essere dell'impero, non uomo privato, ma egli stesso Io Stato, per il
quale deve sacrificare i propri interessi individuali, per cui la vita
dell'imperatore ed ogni sua azione è fatica e dovere. Tutto questo, certo, può
suonare assai retorico, ma fu questa, senza dubbio, la linea su cui si posero
gli imperatori da Traiano ad Adriano, da Antonino Pio a Marco Aurelio. E ciò
risulta non solo dal Pan~girico di Plinio, ma anche, sulla via indicata da
Dione, dalla celebre Orazion~ ai Romani di Elio Aristide (originario della
Misia, nato nel 117, morto nel 190 circa), che, due ger.erazioni piu t:r'rdi,
non scrive piu dell'imperatore regnante, ma abilmente cerca di mostrare il
valore di tutto il sistema politico di Roma, oramai affer- matosi, che concilia
il prinCipio della Città-Stato classica con il prin- cipio dell'imperialismo.
"Vostra scoperta (~~pov dlp1J(J.Ct) è stato il sistema politico
dell'impero" (A Roma, 51); "Tutti coloro che vivono sotto il vostro
impero, e con ciò io intendo l'intero mondo ('quello che era noto come il
confine della terra, quello stesso è ora semplicemente il muro del vostro
giardino': 26), voi li avete divisi in due gruppi: i governanti e i governati.
Tutti coloro, in qualsiasi località, che sono piu colti, di migliore famiglia,
piu influenti, voi li avete fatti vostri pari per cittadinanza e perfino per
parentela, e gli altri li avete assog- gettati a loro. Né.il mare né alcuna
vasta distesa di terra possono impe- dire a uno di diventare cittadino romano;
nessuna distinzione c'è in questo tra Europa e Asia; tutto è alla portata di
tutti. Nessuno che sia idoneo a una carica e in cui si possa avere fiducia è
straniero. Si è stabilita una universale democrazia mondiale sotto un unico e
ottimo dominatore e organizzatore, e tutti confluiscono come a un comune luogo
di raduno cittadino nel venire a ottenere soddisfazione alle loro varie
richieste" (A Roma, 59-60). Tutto ciò proveniva da parte imperiale e
rappresentava la propa- ganda dell'Impero, in una trasformazione dello Stato
delineatosi con Augusto, in uno Stato imperialistico. E non pochi, certo,
furono coloro che seguitarono a vedere in Roma la conquistatrice (fa dire
Tacito a Galcaco, nella Vita di Agricola, 30: questi romani, questi
"raptores orbis," dove fanno piazza pulita, "ubi solitudinem
faciunt," questa chiamano pace, "pacem appellant") e molti
furono gli stessi romani che pur riconoscendo la "missione del loro impero
nella diffusione del buon ordine, sentivano duramente quanto profondo fosse il
divario tra quanto proclamavano di fare ~ quanto facevano in realtà" (H.
Fuchs, Der geistig~ Widerstand g~g~n Rom, Berlino, 1938, p. 18; cfr. anche
Sinclair, rit., pp. 434-36). Ciò non toglie che la nuova politica impe- riale,
abilmente propagandata, se da un lato ha subito l'influenza di una certa
concezione, anche nel modo di vita e di condotta degli impe- ratori, che - per
politica· o per intima convinzione - hanno saputo giuocare la propria parte
(pensiamo ad Adriano, a Antonino Pio e in particolare a Marco Aurelio), abbia,
dall'altro lato, fortemente influen- zato alcuni aspetti della stessa cultura
quale" si viene configurando nel u secolo. Entro quest'àmbito, se ci
rendiamo conto del significato politico della cessazione da parte degli
imperatori delle persecuzioni.nei con- fronti dei filosofi, sembra anche chiaro
perché gli imperatori si siano adoperati per aprire, sia in Roma sia nei
maggiori centri culturali del- l'Impero, scuole pubbliche, ove i maestri erano
stipendiati dallo Stato. Già Vespasiano aveva, per primo, istituito, in Roma,
due cattedre "ufficiali, una di retorica latina [il cui primo titolare fu
Quintiliano], l'altra di retorica greca, alle quali era annesso uno stipendio
annuale di centomila sesterzi, prelevati dal fisco imperiale" (Svetonio,
Vesp., 18); Adriano, su consiglio della madre Plotina, che sembra avesse
simpatie per l'epicureismo, dette facilitazioni legali alla comunità epicurea
di Atene (lscr. Gr., 2, 11, 1099); Marco Aurelio, infine, istitu(ad Atene con
sovvenzioni prelevate dal fisco imperiale, cinque cattedre: una di retorica,
una di filosofia platonica, una di filosofia stoica, una di filo- sofia
aristotelica e una di filosofia epicurea (lo stipendio dei filosofi era di
sessantamila sesterzi all'anno, quello del retore di quaranta- mila). Dal terzo
secolo in poi, ·il controllo da parte imperiale sulle scuole, non solo su
quelle istituite dallo Stato, ma anche su quelle municipali, si fece sempre piu
pressante. Con Giuliano "questo inter- vento fin(col divenire regola
generale; egli decide che nessuno potrà insegnare, se non dopo essere stato
approvato da un decreto emesso dal consiglio municipale e debitamente
ratificato dall'autorità dell'impera- tore (Cod. Theodos., 13, 3, 11); il quale
si assumeva cos(un diritto di vigilanza sull'insegnamento in tutto l'Impero...
La decisione si colle- gava a tutta una politica religiosa; ma, privata del suo
spirito anti- cristiano, conservò il suo vigore sotto i successori di Giuliano,
come testimonia la sua inserzione nel Codice Teodosiano; soltanto con Giu-
stiniano sarà soppressa, come inutile, l'esigenza della sanzione impe- riale -
Cod. Just., 10, 537" (Marrou, cit., p. 403). - Intanto, tra la fine del 1
e il 11 secolo, anche per la maggiore possi- bilità concessa alle varie
tendenze, sia pure nell'istituzione di cattedre che avevano il compito di
preparare, mediante la diffusione della cul- tura sia in Occidente che in
Oriente, i futuri funzionari dell'Impero, in una comune concezione e fede in un
ordine universale - comunque poi si ritenesse che a quella visione si potesse
giungere, - si è cercato, per un verso o per l'altro, recuperando certe
tradizioni piuttosto che altre - ove non vanno dimenticati i luoghi di origine
e la formazione dei singoli autori, - di sistemare in unità motivi molteplici e
diversi, esperienze e concezioni e culture. greche, orientali, romane, in
funzione di una cultura, anch'essa davvero imperiale. Plutarco di Cheronea
Un'analisi delle opere di Plutarco di Cheronea,2 in Beozia, vissuto tra il 46
circa e il 125 d. C., volte contro gli stoici (Le contraddizioni degli stoici,
Sulle nozioni comuni: contro gli stoici, Gli stoici si espri- 2 Nato a
Cheronea, in Beozia, nel 46 circa, da una facoltosa e severa famiglia,
Plutarco, compiuti i primi studi in patria, si recò ad Atene dove ebbe a
maestro Ammonio di Alessandria, vissuto sotto Nerone e Vespasiano, che lo avviò
al plato- nismo, all'aristotelismo e, sembra, all'interesse per i misteri
egiziani e greci. Nella sua piena maturità Plutarco farà di Ammonio
l'interlocutore principale della E di Delfi, riferendo una conversazione
avvenuta nel 67, l'anno in cui Nerone venne in Grecia (E di Del/i, 385b). Dopo
il suo soggiorno ad Atene, Plutarco fu ad Alessandria, in Asia, certo piu volte
a Roma, dove entrò in contatto con le maggiori personalità della poli- tica e
della cultura (tra il 75 e il 90) e dove fu particolarmente benvoluto
dall'impe- ratore Vespasiano. A lui si legarono di amicizia e in parte ne
seguirono la concezione, Q. Soccio Senecione, console nel 99 e nel 107, che
molto contribui alla vittoria di Traiano sui Daci (a lui Plutarco dedicò le
Vite parallele, il De profectibus in virtute, le Quaestiones conviviales); C.
Minucio Fundano, senatore, console nel 107, proconsole d'Asia al tempo di
Adriano (124-25), uomo di cultura, con particolari simpatie per il platonismo e
il pitagorismo (Piutarco ne fece il maggiore interlocutore del De cohibenda
ira); Favorino d'Arles (cfr. dopo), a cui P1utarco dedicò il De primo frigido,
facendolo inoltre interlocutore delle Quaestiones conviviales. Come suo scolaro
Plutarco ricorda anche un certo Lucio Tirreno pitagorico. Rientrato presto in
patria visse tra Cheronea e Delfi. Ebbe missioni politiche, fu arconte di
Cheronea, e dal 95 in poi sacerdote delfico. Fu nominato cittadino onorario di
Atene. Celebre, Plutarco mori nel 125 circa. Il catalogo di Lamprias (detto
cosi perché attribuito al figlio di Plutarco, il cui nome, come quello del
nonno era Lamprias; in realtà il catalogo ~ del m-rv secolo) enumera 200 opere
di lui: molte di esse non sono autentiche, mentre altre, riconosciute auten-
tiche non vi sono comprese. Con il tempo le opere di Plutarco sono state divise
in due gruppi: Le Vite parallele (46 biografie accoppiate di un greco e di un
romano, piu 4 isolate); Opere morali (vi ~ raccolto, impropriamente, tutto il
resto della produzione di Plutarco, dagli scritti a carattere filosofico morale
a quelli filosofico religiosi, pole- mici, critici, filologici, pedagogici).
Essendo impossibile enumerare gli scritti contenuti nelle Opere morali in
ordine cronologico, seguiamo qui l'ordine tradizionale, mettendo tra parentesi
le opere di cui si discute l'autenticità o che sono certamente apocrife e che
vanno oggi sotto la denominazione di scritti dello Pseudo Plutarco: De
educatione puerorum libellus, De audiendis poetis, De recta audienda ratione,
De adulatore et amico, De profectibus in virtute, De inimicorum utilitate, De
amicorum multitudine, De fortuna, De virtute et vitio, Consolatio ad
Apol/onium, De sanitate praecepta, Coniugalia praecepta, Septem sapientium
convivium, De superstitione, Regum et imperatorum apophthegmata, Apophthegmata
laconica, Antiqua instituta laconica, Lacaenarum apophthegmata, De mulierum
virtutibus, Quaestiones romanae, Quaestiones graecae, (Collecta parallela
graeca et romana), De fortuna Romanorum, De Ale:randri Magni fortuna aut
virtute, De gloria Atheniensium, De lside et Osiride, De E delphico, De Pythiae
oracu/is, De defectu oraculorum, Virtutem noceri poue, De virtute morali, De
cohibenda ira, De tranquillitate animi, De fraterno amore, De amore probis,
Animine an corporis affectiones sint peiores, An vitiositas ad infelieitatem,
sulficiat, De garrulitate, De curiositate, De cupiditate divitiarum, De vitioso
pudore, De invidia et odio, De se ipsum citra invidiam laudando, De sera
numinis vindit'ta, De fato, De genio SOt"ratis, De e:rilio, Consolatio ad
u:rorem, Convivalium disputationum libri not'em, Amatorius liber, Amatoriae
narrationes, Cum principibus philosophandum esse, A d prineipem ineru- ditt~m,
Anseni Res pub lit ' agerenda sit, Pra e u p t agerenda e Rei publicae, De u n
i 1 1 s in Repubblit'a dominatione, populari statu et paut"orum imperio,
De vitando aere alieno, (Deum oratorum vitae), De comparatione Aristophanis et
Menandri Epitome, De 15 mono in maniera piu assurda dei poat) e
contro gli epicurei (Contro Colote, Non potersi t1it1ere gioiosamente secondo
Epicuro, Del t1it1ere nascosto), chiarisce, meglio di una lettura diretta e
isolata delle sue opere piu celebri, il significato del platonismo e del
pitagorismo di Plutarco, la sua interpretazione di un aspetto di Platone,
formatasi entro i termini di una precisa atmosfera culturale. Troppo spesso una
lettura isolata, e ritagliata da tutto un contesto, delle opere piu note di
Plutarco ha dato luogo a retoriche ricostruzioni di un Plutarco che rivive in
un ultimo canto del cigno il significato piu profondo del misti- cismo e della
teologia dell'antica Grecia, in una consapevole malinconia per la sua prossima
fine e per cui non a caso ci si sofferma sulla famosa narrazione plutarchea ove
viene drammaticamente annunciato: Il gran dio Pan è morto! (De dt:fectu
oraculorum, 419a-c). I due gruppi di opere polemiche di Plutarco nei confronti
dello stoicismo e dell'epicureismo sembra siano state composte al tempo della
prima formazione di lui ad Atene, sotto la guida di Ammonio di Ales- sandria,
maestro all'Accademia, al tempo di ~erone (di Ammonio non altro sappiamo se non
ciò che dice lo stesso Plutarco, cioè ch'egli dava di Platone
un'interpretazione molto "plutarchea,"· in funzione di una coerente
costruzione religiosa). È già questo un dato assai indicativo e i due gruppi di
opere vanno storicamente esaminati non solo per ricavarne una serie di
preziòsissime testimonianze sul pensiero stoico e su testi e concezioni di
singoli stoici, s{ come sul pensiero epicureo, ma anche perché, attraverso
esse, da un lato si rileva un metodo di indagine e di discussione e, dall'altro
lato, quale fosse l'intenzione e quali fossero alcune soluzioni di Plutarco. A
tali soluzioni, anzi, egli giunse attraverso la di~ussione delle varie testi
stoiche cd epicuree, di cui, volta a volta, cerca mostrare la contraddittorietà
interna c perciò stesso la non vcracità c la necessità di assumere altra
posizione, vera perché non contraddittoria, che è per lui quella
platonico-pitagorica. Il che, per altro, non 'gl'impedisce di recuperare qùci
motivi stoici cd epicurei cd aristotelici che non sembrano in contraddizione
nell'àmbito di un platonismo, interpretato in chiave religiosa c tale da
spiegare esperienze c credenze religiose di origine orientale (egiziana e
iranica), Herodoli mtdipilale, Quaestiones tlllhlrales, De facie in orbe
lutu~e, De primo frigido, Aqu " " ipis sit ulilior, De solenia
ammalium, Brwu ralione fili, De carnium esu, Plt#onicae quaesliones, De animae
procrealiotte in Timaeo Plt#onis, De re/1f'BfUUIIÌU stoicorum, Stoicos
absurdiora poni~ dicere, De commumbw notims advvnu Stoicos, Non posse suviter
vivi secundum Epiewri decreta, Advernu Colotna, De lt#enta vivendo, De musica.
Alquanti frammenti di opere perdute sono pervenuti (cfr. in vol. Vll Moralia,
ed. Bernardakis, Lipsia, 1896). Certamente apocrifi sono l'lruiÌif4tio Traiam,
il De fluviis, il De vita et poesia Homm e il De placitis philosophorum libri
quinque. riconducendole ad una VISione unitaria, nei termini della patria religione
delfica, della paidèia greca, per riprendere le parole dell'Epino- mide
platonica, a proposito dell'assunzione nel sistema platonico delle scoperte in
campo astronomico degli studiosi di oriente. Senza dubbio Plutarco ignora le
posizioni stoiche piu recenti e il loro significato politico, mentre nella sua
polemica si serve particolar- mente delle piu note tesi stoiche ed epicuree,
divenute, ormai, entro l'àmbito delle scuole di Atene, t6poi di esercitazioni,
discussi secondo il metodo proprio della media e della nuova Accademia
(sappiamo, per altro, che nell'Accademia si erano compilate antologie di passi
stoici, raccolti come testi di discussioni: ma, certo, come risulta da altre
opere di lui, Plutarco conosceva direttamente i testi dei grandi Stoici'). Si
tralascino pure le piu minute discussioni attraverso cui Plutarco vuoi
dimostrare che ogni tesi stoica è in contraddizione con se stessa e che perçiò
è.assurda, contro il senso comune, pur se pronunciata in nome delle
"comuni nozioni," che assurda, ad esempio, è la tesi stoica che una è
la realtà e ad un tempo molteplice, che l'Uno dio, spirito vivente, è ad un
tempo ciò che dà individualità e qualità a tutte le cose, per cui il divino non
è ed è tutte le cose, onde dio è ad un tempo immor- tale in quanto dio e
mortale in quanto cose, che tutte si distrugge- ranno nella conflagrazione
universale e cosi via; si tralasci anche la discussione antiepicurea, che si
fonda sul vecchio luogo comune che inaccettabile è la tesi epicurea perché
spiega la nascita della realtà da un atto assolutamente libero, cioè non
razionale e perciò inspiegabile; ad ogni modo ciò che piu colpisce della
confutazione plutarchea, in particolar modo nei confronti degli stoici, è
ch'egli, accantonando l'aspetto piu fine dello stoicismo, cioè il motivo del
t6nos che su di un piano strettamente logico risolve in unità la dialetticità
della natura - e, per ciò stesso, non tenendo conto che su di un piano
altrettanto razionale, l'altra soluzione possibile era l'ipotesi epicurea -
vede come contraddittorio il tentativo stoico di mediare nell'unità della
natura gli aspetti molteplici della natura stessa, là risolvendo il bene e il
male, che io realtà non sono che errori di prospettiva, gli istinti e la
ragione, come ragion d'essere degli istinti stessi. Ciò che Plutarco viene
accan- tonando, e che gli scettici mettono, invece, in primo piano, è che le
due concezioni, l'epicurea (effettivamente antiplatonica, antiaristotelica e
antistoica) e la stoica (non a caso, dopo l'ipotesi di Cleante, passibile
d'essere interpretata come un'interpretazione naturalistica della conce- zione
platonica, o come un approfondimento dd!'Aristotele interprete di Platone) si
potevano considerare, in realtà, come le due tesi piu convincenti, l'una e
l'altra razionali, anche se su due piani diversi. Di qui si poteva giuocare tra
le due posizioni (la platonico-aristotelico-stoica e la epicurea)
contrapponendole tra di loro, contrapponendo -come dirà Sesto Empirico:
Ipotiposi Pirr., I, 8..:.... ragioni a ragioni, o in una sospensione del
giudizio sul piano metafisico, o in una assunzione del probabile in funzione retorico-politica.
Plutarco, invece, punta sulla presunta contraddittorietà di mediare i due
piani, senza con ciò annullare la divinità una nella molteplicità, e senza fare
della molteplicità altrettanti momenti- dell'unica forza divina, riducendosi
cosf il divino a fisicità e a tempo, e risolvendo con ciò il male nel bene, o
facendo sf che il male altro non sia che un errore logico e che tutto avvenga e
sia come deve avvenire e come deve essere. Egli cosf ritiene di poter risolvere
la questione, mantenendo la dualità, in una interpretazione - attraverso il
mistero egiziano di Osiride-lside-Tifone e il dualismo zoroastriano, intesi
allegoricamente di certi testi di Platone, non a caso i piu equivoci del Timeo
e alcuni delle Leggi su l'anima buona e l'anima malvagia, che ancora oggi sono
stati avvici- nati al dualismo iranico. Sincero o meno, certo si è che Plutarco
ha teso ad assumere entro i termini dell'antica paidèia religiosa dell'ari-
stocratico Apollo Delfico i motivi e le esperienze religiose orientali (egi-
ziane e iraniche), rimaste, se non ignote (tutt'altro!), non risolte in una
concezione pacificante. Plutarco, cosf, sfruttando le prime pagin_e del Timeo
sull'antica sacerdotale sapienza egiziana, delle Leggi sulla dualità tra
principio del bene e principio del male, dell'Epinomide sulla ripresa delle
scoperte astronomiche dei barbari, ìn funzione della reli- gione delfica,
riprende e lancia la leggenda del Platone egiziano e del Platone orientale, che
avrebbe risolto in termini razionali gli aspetti piu oscuri della religiosità,
donde, per altro, attraverso Platone, l'in- terpretazione simbolico-allegorica
dei riti e dei culti dei misteri egi- ziani, in un continuo riferimento ai
misteri e alla mitologia dei greci (cfr. particolarmente De Iside), per cui
potev~ servire anche gràn parte della simbolica dei numeri di origine
pitagorico-alessandrina, e, nel- l'interpretazione del significato degli dèi e
dei loro nomi, l'allegorismo di origine stoica. Bastino alcuni esempi: Gli
stoici asseriscono che lo spirito che feconda e alimenta è Dioniso, quello che
percuote e distrugge è Heracles, quello che riceve è Ammon, quello che pervade
la terra e i suoi frutti è Demetra e Kore, quello che pervade il mare è
Posidone. Gli Egizi, combinando con queste interpreta- zioni naturalistiche
taluni elementi dottrinali derivati dall'astronomia, cre- dono che Tifone
significhi il mondo solare, e Osiride quello lunare... Al diciassette del mese
cade la morte di Osiride, secondo il mito egi- ziano, cioè quando il plenilunio
si rivela nella massima compiutezza. Perciò i Pitagorici chiamano questo giorno
"barriera" e, in generale, hanno un 18 aborrimento
estremo per questo numero, perché il numero diciassette si frappone tra il
sedici, quadrato, e il diciotto, rettangolo, oblungo non equi- latero - alle
quali figure soltanto accade di avere i perimetri uguali in valore numerico
alle superfici ~ pone una barriera tra l'uno e l'altro, e li distingue tra loro
e, precisamente, rompe la proporzione di uno e un ottavo, diviso come è in
disuguali intervalli... I Pitagorici esprimono le loro cate- gorie con una
grande varietà di termini: per essi il Bene è l'Uno, il De- terminato, il
Costante, il Diritto, l'Impari, il Quadrato, l'Uguale, il Destro, il Luminoso;
il cattivo invecè è la Diade, l'Indefinito, il Movimento, il Curvo, il Pari,
l'Oblungo, il Disuguale, il Sinistro, l'Oscuro. - Inoltre i Pitagorici
adornarono anche numeri e figure con denominazioni di dèi. Chiamarono, i~fatti,
il triangolo equilatero col nome di Atena, nata dal vertice [capo di Zeus], e
Tritogenia, poiché esso è diviso da tre perpendicolari tirate dai suoi angoli.
Il numero uno lo chiamano Apollo... Il due lo chiamano contesa e audacia; il
tre giustizia... La cosiddetta "tetraktys," cioè il trentasei, costi-
tuisce, com'è fama diffusa, il "piu alto giuramento" e ha ricevuto il
nome di "mondo," poiché è formato dai primi quattro numeri pari e dai
primi quattro numeri dispari sommati insieme... (De lside, 367 c, e-f; 370 e,
381 f-382 a). Sotto questo aspetto, nel tentativo di conciliare in una sola
reli- gione delfico--apollinea la religione ellenica con certi aspetti delle
reli- gioni di oriente (non va, per altro, scordato che Plutarco dal 95 circa
in poi fu, in Cheronea, sacerdote a vita del tempio dell'Apollo delfico e che
certi tentativi di pacificazioni religiose in una coinè potevano, tra l'altro,
essere anche un servizio reso al nuovo indirizzo della poli- tica imperiale:
indicativo è che Plutarco sia stato onorato da impera- tori quali Traiano e
Adriano), sembra che Plutarco abbia, in funzione di tale accordo, ricostruito e
allegoricamente interpretato da un lato la religione egiziana di lside e
Osiride (De lside), dall'altro lato abbia cercato di mostrare il significato
riposto dell'Apollo delfico (De E apud Delphos), degli oracoli (De Pythiae
oraculis; De d4ectu oraculorum), ed abbia, in tale chiave, interpretato, come
dicevamo, certi testi del Timeo (De animae procreatione in Timaeo) e delle
Leggi, accanto alla ricostruzione di un Platone sacerdote-filosofo della
religione delfica. Sembra ora non poco indicativo, a testimonianza di quanto
sopra abbiamo detto, sottolineare il ·seguente passo del De lside: "Questo
nostro trattato è inteso a conciliare appunto la credenza religiosa degli Egizi
con questa nostra filosofia." (37la). Plutarco ha ricostruito il mito
egiziano di Osiride-Iside-Tifone, insistendo nell'affermazione che il mito
egizio va assunto in maniera allegorico-simbolica, si come gli aspetti cultuali
e rituali in cui sono impegnati i suoi sacerdoti. 19 Iside è dea
eletta per sapienza e davvero amante di sapienza - filosofa, - come il nome
stesso vuole perfino indicare, dea alla quale intelligenza e conoscenza si
addicono nel piu alto grado. A dir vero, lside è parola ellenica e parimente
Tifone; costui è nemico alla dea, gonfio e borioso, come il ·suo nome stesso
esprime, per ignoranza e illwione; riduce a brandelli e disperde la sacra
scrittura, che la dea invece raccoglie e ricompone e affida agli ini- ziati,
poiché il processo di divinizzazione, che avviene mediante un tenore di vita
costantemente saggio... avvezza a sopportare gli inflessibili rigori dei riti
liturgici nel tempio. Finalità di tali liturgie è la conoscenza di Colui che è
Primo, è signore, è realtà intelligibile, di colui che la dea ci invita a
cercare, poiché egli è accanto a lei, in intima comunione. Il nome stesso del
tempio promette apertamente conoscenza e intelligenza dell'essere; ri· sponde
al nome di Iseion, a indicare che noi sapremo la verità dell'essere allorché ci
accosteremo, con atteggiamento di ragione e di pietà, ai riti sacri della
dea... (351 f-352 a). Allorché, dunque, ascolterai i miti che gli Egizi narrano
sugli dèi - vagabondaggi, smembramenti e tante altre vi· cende del genere - tu,
o Clea [sacerdotessa a Delfi, cui Plutarco dedica il De lside; a Clea è
dedicato anche il Mulierum virtutes], devi ricordare quanto siamo venuti
dicendo e non credere che il fatto cos{ raccontato sia realmente avvenuto nella
maniera in cui viene tramandato. Tali, a un di presso, sono i punti capitali
del mito... Ecco, qui c'è qualcosa che non ho bisogno di menzionarti: se gli
Egiziani hannò tali opinioni e rife- riscono tali racconti su ciò che per
natura è bea~o e incorruttibile (in accordo con il quale dev'essere conformato
il nostro concetto del divino), nella con· vinzione che si tratti di fatti e di
eventi realmente accaduti, oh, allora "bisognerebbe davvero sputare e
tergersi la bocca" [in Trag. graec. fragm., 354], per usare la parola di
Eschilo. E, in verità, tu stessa detesti tali per· sone che serbano ancora
opinioni cosi abnormi e barbariche sugli dèi. Che però tali miti non somiglino
affatto a quelle vaghe fantasticherie e.a quelle vane favole, quali gli
scrittori di versi e di prosa traggono da se stessi a guisa di ragni, tessendo
e stendendo le loro malferme primizie letterarie, e che al contrario serrino in
sé esposizione di dubbi e di esperienze,.tu lo capirai da te stessa. Proprio
come gli scienziati dicono che l'iride risulta dal fenomeno di riBessione del
sole e deve le sue varie gradazioni di colore al nostro sguardo, che si ritira
dal sole e si volge alla nube, cos{, parimenti, il mito, per noi di quaggiu,
non è altro che riBesso di una verità superiore, che torce il pensiero umano in
una direzione sensibile. Tanto accennano velatamente i loro sacrifici (358
f-359 a). Il mito egizio, perciò, va compreso come contrapposizione tra il
divino principio dell'ordine e del bene (nella coppia Osiride-lside), l'Apollo
delfico, e il principio del male e del disordine (Tifone), l'ele- mento
titanico, e in una salvazione dell'anima allorché essa, vincendo il male, e
conoscendo il divino, come Iside raccoglie in sé e conserva l'unità dispersa
del Dio, in un'aspirazione da parte del sacerdote d'Iside 20 (il
filosofo) alla sapienza di Iside e al suo amor femminile ad essere posseduta
dal Dio (Osiride) e al suo desiderio di raccogliere in unità Osiride spezzato e
frantumato dal male. Plutarco, quindi, dopo avere avvicinato tale significato
del mito egiziano alla mitologia iranico- caldea e a certi testi - distaccati
dai loro contesti - della filosofia greca, particolarmente si rifà a due passi
di Platone, la pagina 35 a del Timeo e la pagina 896d delle Leggi: Platone, in
piu luoghi, quasi nascondendo e velando il suo pensiero, chiama i due principi
antagonistici "Identità" e "Alterità" [Timeo, 35a]; ma
nelle Leggi [896 d], allorché era già molto avanti negli anni, si espresse non
piu per enimmi e per simboli, ma concretamente, con termini precisi, affermando
che il mondo non è mosso in virtu di una sola anima, ma, pro- babilmente, ad
opera di piu anime e, in tutti i casi, da non meno di due: delle quali una è
quella che produce il bene, e l'altra, antagonista alla prima, è artefice di
tutto ciò che è t:ontrario; egli lascia, altresf, sussistere anche una terza,
che è una natura in certo senso intermedia, la quale non è priva di anima, di
ragione, di moto spontaneo, come alcuni credono, ma dipende ed è sospesa ad
entrambe, e aspira all'anima migliore, perennemente, e la brama e la persegue.
Dimostrerà tutto questo il seguito del nostro trattato, inteso a conciliare
appunto la credenza religiosa (teologia) degli Egizi con questa nostra
filosofia. t un fatto che il divenire e la composizione di questo nostro
universo risultano dalla mescolanza di forze antagonistiéhe, che non sono,
però, equi- librate esattamente,· perché la prevalenza appartiene alla forza
del bene; non è, tuttavia, ammissibile che la torza del male perisca del tutto,
dal momento che essa è, in gran parte, innata nel corpo del mondo, e, pure in
gran parte, nell'anima dell'universo, in un duello perenne con la potenza del
bene. Ebbene, nell'anima intelligenza e ragione, vale a dire ciò che fa da
guida e signoreggia su tutto quanto si ha di meglio, si identifica con Osiride.
Cosf nella terra, nel vento, nell'acqua, nel cielo, negli astri, ciò che è
ordinato, stabilito, sano, come si rivela attraverso le stagioni, le
temperature, e i cieli, tutto questo è emanazione di Osiride e immagine riBessa
di lui. Tifone, per contro, è la parte dell'anima soggetta a passioni, è
l'elemento titanico, e irra- zionale e volubile; ed è la parte dell'elemento
corporeo che è mortale e mor- bosa e torbida, come si rivela attraverso le
cattive stagioni e le intemperie e gli oscuramenti di sole e le scomparse di
luna; cos{ si manifestano le esplo- sioni e le turbolenti rivolte di Tifone.
Tutto ciò è espresso altres{ dal nome con cui chiamano Tifone: Seth, che
significa: ciò che tiranneggia, ciò che violenta (370 f-371 b). Se, dunque,
secondo Plutarco t. ripugnante alla ragione risolvere tutta la molteplicità
nell'unità del principio attivo che implica una pas- sività su cui operare, la
quale passività deve perciò essere senza forma (materia), per cui, alla fine,
si nega sia il divino principio sia la realtà 21 molteplice, ché,
pres1 m sé, vengono a non essere piu né il pnnc1p10 attivo e qualificante né
l'informe pura quantità; e se altrettanto ripu- gnante è l'ipotesi epicurea che
spiega la nascita degli infiniti mondi, l'esistere, mediante un principio
inspiegabile, irrazionale; l'unica pos- sibilità è porre a fondamento del tutto
da un lato si un principio attivo, l'essere uno, come condizione della
pensabilità del reale, ma dall'altro lato anche una materia che non sia senza
forma, poiché altrimenti essa sarebbe nulla e lo stesso dio sarebbe perciò
causa di nulla, oppure dando egli forma e qualità alle cose che sono, tra cui è
anche il male, dio, per definizione essere e perfezione, sarebbe causa del
male. In verità, le origini dell'universo non vanno poste nei C<?rpi
inanimati, come vogliono Democrito ed Epicuro. E neppure fanno da artefice di
una materia non qualificata e non differenziata, come vogliono gli stoici,
un'unica ragione e un'unica provvidenza superna, esercitante il dominio su tutte
le creature. Fatto sta che è impossibile che qualcosa cattiva, per piccola che
sia, entri nell'esistenza, là dove Dio è causa di tutto; ed è ugualmente
impossibile che qualcosa di buono, là dove Dio è causa di nulla... Di qui,
ancora, questa antichissima sentenza, che da teologi e legislatori trapassa in
poeti e filosofi, senza che se ne sappia la prima fonte; essa ha con sé una
fede ferma e indelebile e non solo nella storia e nelle tradizioni, si anche
nei riti e nei sacrifici, diffusa dappertutto tra i b:rrbari e tra i Greci:
che, cioè, l'universo non è già librato, per sola virtU meccanica, di per se
stesso, senza un intel- letto, senza una ragione, senza un pilota; né poi v'è
una sola ragione che domina e regge, per cosi dire, con timone e con docili redini.
No. Al con- trario, la natura ci offre tante esperienze, e tutte miste di mali
e di beni, o, meglio, essa in una parola, non ci dà nulla, quaggiu, che sia
"puro"; né, d'altra parte, c'è un custode di due grandi vasi che,
alla maniera di una dispensiera, distribuisca a noi i nostri scacchi e i nostri
successi in mistura; ma è accaduto - quasi risultato di due opposti principi e
di due forze antagonistiche, una delle quali ci guida lungo un diritto cammino
a destra, mentre l'altra ci fa girare alla rovescia e indietro - che la nostra
vita. sia complessa, e cosi pure l'universo... Perché quèsta è la legge di
natura, che nulla entri nell'esistenza senza una causa, e, se il bene non può
fornire una causa per il male, allora segue che la natura debba avere in se
stessa la fonte e l'origine particolare, distinta, del male, proprio come ne ha
una, tutta sua, del bene. Tale è il pensiero dell'umanità e dei suoi piu nobili
sa- pienti. Questi, infatti, credono che vi siano due principi divini, quasi
rivali tra loro: l'uno artefice dei beni, l'altro dei mali. E c'.è chi chiama
il primo, migliore, dio; e l'altro, dèmone; cosi per esempio, il mago
ZOroastro, di cui si narra che vivesse cinquemila anni prima della guerra di
Troia. Ebbene, questi chiamava il primo Horomazes, l'altro Arimanios; e
spiegava, poi, che l'uno rassomigliava, nel campo sensibile, alla luce piu che
ad altro elemento; e l'altro, per contro, alle tenebre e all'ignoranza; e che
tra l'uno e l'altro, intermedio, era Mitra, chiamato perciò dai Persiani "Mediatore"
I Persiani poi moltiplicano racconti favolosi sui loro dèi... I Caldei dichia-
rano che, tra i pianeti ch'essi chiamano dèi tutelari della stirpe, due sono
benefici, due malefici, e gli altri tre, intermedi, sono buoni e cattivi ad un
tempo. Le credenze dei Greci in proposito sono ben note a tutti (De Iside, 369
a-370 d). Le citazioni e le pezze di appoggio di Plutarco sono molto indica-
tive, molto ben collocate e fatte al momento opportuno. Si capisce cosi come,
per altro verso, egli, nel suo tentativo di far rientrare le religioni egiziana
e persiana - in un'interpretazione simbolico-allegorica dei loro miti e delle
loro credenze, simile sotto parecchi aspetti a quella operata sui testi ebraici
da Filone l'Ebreo - entro i termini della reli- gione delfica, puntasse, si
come Filone, su Platone interpretato in chiave teologico-religiosa. Non solo,
ma nella chiara esigenza di Plu- tarco di costituire una possibile pace
culturale nella convinzione di un'unica sacerdotale pia philosophia, di contro
al naturalismo stoico e di contro a quella che sembra, per chi assuma a
fondamento della realtà un principio razionale e intelligente, l'irreligiosità
e l'assurdità degli epicurei (simili, alla fine, nel loro ateismo, o meglio nel
loro credere gli dèi indifferenti, a coloro che, per ignoranza, in una loro
volgare religiosità, temono il divino e i dèmoni, ove va sottolineato che il
ter- mine tradotto con "superstizione" è in greco timore della
divinità, 3etat30tt!Lov(cx: cfr. Plutarco, De superstitione), si capisce anche
come egli si riferisse da un lato al concetto piu generale ed elastico del
divino di Platone e dall'altro lato, invece, a certi singoli testi di Platone
tratti dal Filebo, dal Timeo, dalle Leggi. Tali testi, interpretati a ritroso,
cioè entro· una linea costituitasi dopo Platone, potevano servire, ap- punto,
all'intento di Plutarco, dando un fondamento filosofico, cioè convincente in
quanto razionale, a quello che Io stesso Plutarco dice il buon senso, il comune
senso religioso di tutti gli uomini, che, se non educato, degenera o
nell'ateismo o nella superstizione (cfr. De superstitione). Non dobbiamo
pensare che gli dèi siano diversi tra loro, da popolo a' popolo; che siano,
cioè, dèi barbari e dèi greci o dèi australi e dèi settentrio- nali. No, ma
come il sole e la luna e il cielo e il mare· sono comuni a tutti, mentre sono
chiamati da chi in un modo e da chi in un altro; cosf, pari- menti, le fhrme
del culto e le denominazioni, diverse le une dalle altre, a seconda delle varie
costumanze, sono, pur sempre, espressione di un'unica razionalità, che le ha
tutte nobilmente ordinate, e di un'unica Provvidenza, che veglia su di esse, e
di potenze ancillari preordinate su tutte. Di piu, gli uomini si avvalgono di
simboli consacrati- e chi ricorre a simboli oscuri e chi ricorre a simboli piu
trasparenti - guidando il pensiero sulla strada 23 pcrigliosa che
conduce al divino. Alcuni, infatti, vanno completamente fuori strada c
s'ingolfano nella superstizione (3etat30ttjLOV(at); altri sfuggono, per cosf
dire, da quel pantano che ~ la superstizione, ma.piombano, d'altro canto, come
in un dirupo scosceso: l'ateismo. Ecco pcrch~, in questa ma- teria, occorre
soprattutto che noi adottiamo, come guida sacra in tali misteri, le ragioni che
derivano dalla filosofia c consideriamo santamente, ad una ad una, le
tradizioni c le liturgie; sf che... non erriamo interpretando in un differente
spirito quel che i costumi religiosi stabilirono nobilmente sui sacrifici e le
feste. [Tutti, comunque, ammettono che bisogna far risalire ogni cosa a una
ragione] (De /siJe, 337/-378 b). Solo che, rifiutata l'interpretazione stoica
della materia, Plutarco si ritrova di fronte alla difficoltà di opporre'
all'essere che è, un essere che in quanto opposto all'essere o è essere come
l'essere, uno con esso, o è non essere, cioè non è. A meno che, di nuovo, non
si ricorra, in un'interpretazione del Timeo, a porre come condizioni logiche,
da un lato il divino, principio ordinatore, e, dall'altro lato, una quantità
neu- tra (materia) come possibilità di assumere tutte le forme, non logica-
mente deducibile e di cui, per riprendere l'espressione platonica, non si può
discorrere se non con un "ragionamento bastardo." ·Plutarco cosi
viene accostando testi platonici assai equivoci, in cui Platone sa benissimo di
avanzare delle ipotesi, tanto è vero ch'egli imposta la questione su di un
piano "'descrittivo," cioè mediante il mito, e in Pla- tone
rispondenti a momenti diversi e a p~oblematiche diverse, e li risolve in una
sola interpretazione. Si delinea cosi l'interpretazione di Platone da parte di
Plutarco e la sua costruzione: l. Il divino principio, l'essere che è, il bene
(l'Apollo delfico, luce e armonia, corrispondente all'Osiride egiziano e
all'Horomazes zoroastriano): Errano i nostri sensi, per ignoranza dell'essere
reale, a· dar essere a ciò che appare soltanto. Ma allora che ~ l'essere reale?
L'eterno. Ciò che non nasce. Ciò che non muore. Ciò in cui neppure un attimo di
tempo può introdurre cambiamento. Qualcosa che si muove e che appare simultaneo
con la materia in movimento, qualcosa che scorre perpetuamente c irresistibil-
mente come un vaso di nascita c di morte: ceco il tempo! Persino le parole
consuete, il "poi," il "prima," il "sarà," l'"accadc"
sono la spontanea con- fessione del suo non-essere. Infatti, ~ ingenuo e
assurdo dire "~" di qualcosa che non ~ entrato ancora nell'essere, o
di qualcosa che ha già cessato di essere... Di contro, dire dell'Essere che ~. "Esso
fu" o "Esso sarà" ~ quasi un sacrilegio. Tali determinazioni,
invero, SQno flessioni e alterazioni di ciò che non nacque per durare
nell'essere. Ma il dio -occorre dirlo? - "~"; ~. dico, non già
secondo il ritmo del tempo, ma nell'eterno, che ~ senza moto, senza tempo,
senza vicenda; e non ammette ~~ prima n~ dopo, né futuro né passato, né età di
vecchiezza o di giovinezza. Egli è uno e nell'unità del presente riempie il
"sempre": ciò che in questo senso esiste realmente, quello
"è" unicamente: non avvenne, non sarà, non cominciò, non finirà. Occorre,
allora, che nel modo ora spiegato i fedeli rivolgano al dio il saluto e
l'invocazione: Tu sei (d,e~), o anche, per Zeus, Ct>me alcuni antichi
dicevano: "Sei Uno" [Tu sei,. ei: tale l'interpretazione che Plu-
tarco dà dell'epsilon, della "e," iscritta sul frontone del tempio
delfico, dopo avere, d'altra parte, sottolineato le possibili interpretazioni
che, giuocando in chiave platonico-pitagorica si possono dare di epsilon,
inteso come la lettera, indicante in greco, il numero cinque: i cinque accordi
dell'armonia; i cinque intervalli melodici; i cinque mondi - terra, acqua,
aria, fuoco, etere; - la pentade - punto, linea, superficie, altezza = tetrade
o solido, piu anima = pentade o essere vivente; - i cinque generi del Sofista:
l'ente l'identico, l'altro, il movimento e la stabilità: "Taluno, a quanto
sembra, precorse Platone nello scrutare tali cose e quindi consacrò al dio la
~:;, segno e simbolo del numero che esprime la. realtà. Del resto, Platone
aveva ben compreso che persino il Bene si rivelava in cinque forme (nel
Filebo): prima è la moderazione; seconda, la proporzione; terza,
l'intelligenza; quarta, le conoscenze, le arti, le opinioni vere sull'anima;
quinta, il piacere, ove mai esista, puro e immune da ogni mescolanza con il
dolore." Sintesi di tutto ciò, la E sembra simbolizzare per Plutarco
l'Essere Uno del dio; il solo dio è, tu sei: cfr. De E Delph., 389 c-392 a].
"Sei Uno," poiché la divinità non è moltitudine, come ognuno di noi,
congerie svariata e intruglio di infinite ibride passioni. Al contrario, l'Ente
vuoi essere uno, come l'Uno vuoi essere ente. Se l'es~re ammettesse un altro,
questi, naturalmente, differirebbe dal primo, e pertanto entrerebbe nel
divenire, cioè nel non essere: perciò sta bene al dio il primo dei nomi e éosl
pure il secondo e il terzo: Apollo, in- fatti, per cosi dire, rifiuta la
pluralità e nega la molteplicità; leios vuoi dire.che è uno e solo; quanto a
Febo, è certo che cosi gli antichi chiamavano tutto ciò che fosse puro e
casto... (De E Delph., 392 e-393 c). - Ma Osiride, il dio, in se stesso, è
lontanissimo dalla terra, incontaminato, incorruttibile, puro da ogni materia
che soggiaccia alla distruzione e alla morte. Alle anime umane, fino a che,
quaggiu, sono imprigionate dai corpi e dalle pas- sioni, non è dato partecipare
del dio, se non rispettando quel limite in cui sia dato loro giungere a
un'oscura visione di lui,.per via di pensiero, attraverso la filosofia (De
lside, 382 f); 2. La materia, neutra in quanto potenza (la nutrice platonica;
l'Iside egiziana). Il principio attivo come disordine (non materia, in sé né
buona né cattiva), bens1 attiva (l'anima malvagia delle Leggi di Pla- tone;
Tifone egizio; l'Arimanios wroastriano): Iside, in verità, è il principio
femminile della natura ed è suscettibile di ricevere ogni forma di generazione,
in quanto è chiamata da Platone "nutrice 25 e ricettacolo
comune" [Timeo, 49e-5la], e da molti altri è chiamata con una infinità di
nomi, per il fatto ch'essa, in virtu della ragione,' volge e rivolge se stessa,
accogliendo ogni tipo di forma e di idea. Essa ha un innato Eros verso colui
che è il primo e supremo signore di tutte le cose, il quale si identifica con
il Bene, e lo brama e lo persegue [Osiride]. Fugge, invece, e respinge la
porzione che deriva dal male, perché essa, serve, si, a entrambi qualç spazio e
materia, ma inclina sempre piu facilmente verso l'essere mi- gliore e offre a
lui la possibilità di generare da lei stessa, e di impregnarla di effiuvi e di
somiglianze, di cui ella gioisce e si rallegra, fecondata com'è e fatta pregna
di tali generazioni. Generazione, infatti, non è altro che l'im- magine
dell'essere nella materia; e il divenire è un'imitazione dell'essere. Ecco
perché il loro mito non è fuori strada, allorché narra che l'anima di Osiride è
eterna e che il suo corpo fu molte volte smembrato e annientato a opera di
Tifone, e che lside andò errando e ne fece ricerca e riuscf,di nuovo a
ricomporlo... (De lside, 372e-373a). Platone chiama la materia con il nome di
Penuria, bisognosa com'è, di per se stessa, del bene e pregna di lui ed
eternamente bramosa e partecipe di lui... Allorché, dunque, diciamo
"materia," non dobbiamo essere tratti dalle opinioni di alcuni
filosofi [gli stoici] e pensare a un certo corpo inanimato e indifferenziato,
inerte e inattivo di per se stesso. Fatto sta che noi chiamiamo l'olio
"materia del pro- fumo," l'oro "materia della statua"; e
questi non sono privi di ogni difie- renziazione. Persino riferendoci all'anima
e al pensiero dell'uomo, noi Ii consegniamo, quale materia di conoscenza e di
virt6, alla ragione affinché li.adorni e li armonizzi; e taluni hanno
dichiarato che l'intelletto è la sede delle idee [cfr. Aristotele, De anima,
429a, 27] e, quasi, la massa, in cui si esprime una immagine•della realtà
intelligibile [cfr. sopra Moderato di Gades; oltre, Albino, Epitomè:
"L'idea è in rapporto a Dio il suo atto intel- lettivo," IX, 1]...
lside gode di una eterna partecipazione del dio primor- diale e gli è vincolata
nell'amore di tutto ciò che in lui è buono e bello, e che, pertanto, non gli
resiste..., e perciò essa è sempre attaccata strettamente a lui e sta
costantemente intorno a lui, piena e pregna delle sue parti piu nobili e pure
(De lside, 374d-375a). Le vesti di lside son di colore screziato, perché la
potenza di lei riguarda la materia, la quale si trasforma in ogni cosa e tutto
accoglie, luce e oscurità, giorno e notte, fuoco e acqua, vita e morte,
principio e fine. La veste di Osiride, invece, non ha sfumatura di ombre, né
screziatura di colori, ma solamente un llllico fondo, tutto sem- plice, la pura
luminosità. Infatti il principio non ronosce combinazione; e il primordiale e
l'intelligibile sono privi di mescolanze (De Iside, 382c). Il principio,
l'Essere, che è, dunque, nella sua iafinita ricchezza e pienezza tutta in atto,
non si depaupera né si risolve nella realtà ordinata e qualificata che da lui
si genera, si come, secondo Plutarco, avviene per il dio stoico. Plutarco,
perciò - e di qui deriva la sua interpretazione del Timeo, - doveva sostenere
che la materia non ~ pura quantità, assolutamente passiva, ma è esistenza,
potenzialità di 26 assumere forme e qualita, e in tal senso è
povertà e desiderio, essa come la donna che si trasforma nelle sue generazioni,
nelle quali tut- tavia non si esaurisce né si risolve il "padre,"
che, preso in sé, resta altrettanto ricco e fecondo, privo di mescolanze. Dio
da un lato (Padre), materia dall'altro (Madre), il mondo e i mondi (Plutarco
sostiene che possono essere cinque: cfr. De defectu oraculorum, 423c-424h,
428f-43la; De E Delph:, 389f-390a) sono il figlio. "La migliore e piu
divina natura consiste di tre parti: l'intelligibile, la materia e il risultato
di entrambi, che gli Elleni chiamano cosmo. Orbene, Platone fu solito chiamare
la parte intelligibile con il nome di idea o modello esemplare o anche 'padre';
la parte materiale con il nome di 'madre' e 'nutrice,' e anche 'sede' e 'posto'
di generazione; e il risultato di entrambi 'prole' e generazione [Timeo,
50c-d]" (De lside, 373f). Solo che, posta cosi la questione, e spiegati
certi miti religiosi con altri miti e immagini; desctittivamente posti il
divino essere e accanto, ab aeterno, la corporeità, il materiale su cui si
opera la generazione; ammesso pure che i due termini siano aristotelicamente le
condizioni della nascita del mondo che è generazione (tempo); posto che il
divino, in quanto per- fezione è bene e che la materia in quanto mancanza e
neutralità non è né bene né male; o si ammette che tutto in quanto generazione
dovuta al principio divino è bene, che pur non risolvendosi nelle cose, essendo
le cose simiglianti a lui, resta.il termine cui tutto aspira, in un unico
amore;·oppure, poiché la presenza del male è inspiegabile (ché nel momento in
cui si spiega il male, trovandone la ragione è anch'esso bene), va posto,
accanto alla pura intelligibilità e alla pura corporeità, un terzo principio,
un'attività inspiegabile e perciò irrazio- nale, fonte appunto del male. È
meglio dire con Platone che la sostanza, la materia di cui il mondo è composto,
non è stata prodotta, ma era da ~mpre sottoposta al Demiurgo affinché questi la
disponesse e ordinasse a propria simiglianza entro i limiti che alla materia
sono possibili... Dio non ha generato né la tangibilità e la resistenza dei
corpi, né la façoltà immaginativa e motrice delle anime, ma, avendo trovato i
due principt, quello oscuro e tenebroso (materia) e quello agitato e
i"azionale, ambedue indeterminati e privi della perfezione con- veniente,
li ordinò, li regolò, li armonizzò, producendo il piu bello e il piu perfetto
degli esseri viventi... Coloro che attribuiscono alla.materia e non all'anima
quella "necessità" di cui si parla nel Timeo [48a, 56c, 68e] e quella
"infinitezza" e "incommensurabilità" di piu e di meno, di
difetto e di eccesso, di cui si parla nel Filebo [24a], come intenderanno poi
ciò che Platone asserisce, cioè che la·materia è senza forma e senza figura,
priva di ogni qualità e di potenza propria, simile a quegli olt inodori che i
profumieri adoperano per le· tinture? È impossibile che Platone postuli 27
come causa e principio del male ciò che in se stesso è
inqualificato, inerte, indeterminato e che lo chiami "infinitezza brutta e
malefica" e anche "ne- cessità spesso ribelle e riluttante a
Dio..." Si tratta bensf di un principio disordinato e infinito che si
muove da sé e muove e che Platone in molte occasioni ha chiamato
"necessità" e nelle Leggi [X, 896 e-897 d] decisa- mente, "anima
sregolata e malvagia (De animae procreatione in Timaeo, 1014 b-1015 a)... Bisogna
dunque rendersi conto che l'una anima non è stata fatta da Dio e non è l'anima
del mondo, ma una potenza di movimento spontaneo e perpetuo di cui l'impulso e
lo slancio, senza proporzione né regola, sono sottomessi all'immaginazione e
all'opinione; e che la s~conda Dio stesso l'ha armonizzata mediante i numeri e
le proporzioni convenienti e, una volta costituita, l'ha elevata al grado di
reggente del mondo generato... (1017a-b). L'anima, dunque, non è tutta opera di
Dio, ma porta in sé, innata, la parte del male... (1027a). Là dove Tifone piomba
ad impadronirsi delle piaghe estreme, ivi dobbiamo figurarci lside in
atteggiamento di suprema tristezza e in espressione luttuosa, alla ricerca dei
resti e delle membra sbranate di Osiridi:: ella li compone e serra al petto e
nasconde tali reliquie, dalle quali essa porta alla luce di nuovo le cose
nasciture e le fa sorgere da se stessa (De lside, 375a-b). Il timore di
Plutarco a risolvere stoicamente la divinità nel costi- tuirsi dello stesso
universo, lo porta, interpretando certi passi plato- nici, a porre la divinità
come il complesso in atto e compiuto (perfetto), e perciò senza divenire e
mancanze (incorporeo) di tutto ciò che ha essere, cioè che ha forma, per cui,
appunto, il divino è essere: il divino, dunque, pura intelligibilità, è in atto
tutte le forme (idee), in quanto la sua intellezione - egli intellezione in
atto - è tutte le passibili forme. Se tale è l'essere che è, esso, in quanto
eterno e perfetto, è oltre l'esistere ("Pure si va cianciando di
emanazioni del dio e di trasfor- mazioni tali che il dio si risolverebbe in
fuoco con l'universo intero e poi, di nuovo, si contrarrebbe, quaggiu, e si
distenderebbe via via in terra e mare e vento e animali ed entrerebbe nelle
forme paurose di viventi e delle piante; tutto questo, anche a udirlo, è
empietà!"- chiara è l'allusione agli stoici -: "Al contrario, di ciò
che entrò, comunque, nell'esistenza cosmica Dio serra insieme la compagine e
domina la naturale debolezza corporea, che è volta, di per sé, all;l
distruzione... Per dio non si dà mai scardinamento dall'essere e
trapasso": De E Delph., 393e-394a). L'esistenza è, accanto all'essere
(coeterna dell'es- sere, in quanto come l'essere condizione del reale) la
materia - la éor- poreità come indefinita potenzialità, - che, tuttavia, non assume
essere, non assume forme, se non si definisce, se non presuppone l'essere, se
non ha, quindi, per sua natura desiderio di ciò che le manca; essa perciò tende
all'essere, ad assumere forme, per cui il divino, egli rima- 28
nendo esso stesso immobile e in atto, è ad un tempo presupposto e termine
dell'aspirazione del tutto. Evidentemente, dunque, rifiutando la tesi stoica
della materia pura passività e ·senza qualità, bisognava porre, accanto
all'essere - principio e fine - e all'esistere - materia- potenza - una terza
condizione, un principio vitale, senza di cui la materia sarebbe restata pura
passività. L'anima come vitalità è, dun- que, una terza condizione, che se da
un lato spiega la tendenza del- l'esistere ad assumere essere, costituendosi
come anima del mondo in quanto si modella sull'intellegibile (razionalità),
dall'altro lato può ren- dere conto dell'affermazione di sé come individualità,
che aspirando a sé e non all'essere uno, che serra insieme il tutto
intelligibile al divino, si determina come non-essere, come ribellione a Dio,
come frantumazione dello stesso Essere che è uno, ordine e bene, si deter- mina
cioè come irrazionalità (male). Il divino, dunque, come pura intelligibilità e
come essere è, ad un tempo, principio e fine, mentre la materia, esistente e
vivente, è da un lato tendenza all'essere, al bene, e, dall'altro lato, nella
stessa affermazione di sé, negazione dell'essere, conflitto, male, in una serie
di gradi viventi, che, posto appunto il divino come termine ultimo di
aspirazione, vanno all'infinito in una serie che si scandisce da una minor
somiglianza al dio (mondo ter- restre e sublunare) a una sempre maggior
somiglianza a lui (mondo celeste, dèmoni buoni), per approssimazione e in un
perenne conflitto.· È un fatto che il divenire e la composizione di questo
nostro universo risultano dalla mescolanza di forze antagonistiche, che non
sono, però, equi- librate esattamente, perché la prevalenza appartiene alla
forza del bene; non è, tuttavia, ammissibile che la forza del male perisca del
tutto, dal momento che essa è, in gran parte, innata nel corpo del mondo, e,
pure in gran parte, nell'anima dell'universo, in un duello perenne con la
potenza del bene. Ebbene, nell'anima, intelligenza e ragione, vale a dire ciò
che fa da guida e signoreggia tutto quanto vi ha di meglio, s'identifica con
Osiride [il divino)... Tifone, per contro, è la parte dell'anima soggetta a
passioni, è l'elemento titanico, e irrazionale e volubile... (De lside,
37Ia-b). Certa- mente, H, nel cielo e negli astri perseverarono immobili le
ragioni supreme delle cose e le forme e tutto ciò che proviene dal dio; per
contro, quaggiu, quel che è disseminato tra gli elementi soggetti alle leggi
fenomeniche - terra, mare, piante, viventi in generale - si dissolve, si corrompe,
va perfino sotterra... (De ]side, 375b). Il principio della fecondità e della
con- servazione della natura è attratto verso di lui e verso l'essere, mentre
il principio dell'annientamento e della distruzione è dissolto da lui, verso il
non essere. Perciò, essi chiamano lside con un nome che deriva da "slan-
ciarsi" (hlestaz) con sapienza e dall"'essere mosso," appunto
perché essa consiste in un movimento animato e sapiente... (De lside, 375c). È
bene esigere che nessuna cosa inanimata si:t superiore a ciò che è animato e 29
nessuna cosa priva di sensibilità sia superiore al senziente...
Non nei colori, né nelle forDie esteriori, né in levigati pannelli è presente
il divino: tutto ciò che non partecipa né può, di sua natura, partecipare alla
vita ha una porzione di onore, inferiore a quella dei morti. Per contro, la
natura, che vive e vede e ha da se stessa la sorgente del movimento e una
conoscenza tale da saper distinguere quel che è suo e quel che le è estraneo,
ha saputo attrarre su di sé un etBuvio e una poézione di bellezza da parte di
colui che è saggezza, "in virtU del quale è governato l'universo,"
secondo l'espres- sione di Eraclito (De lside, 382b). Entro questi termini
sembra chiaro come Plutarco - nel suo ten- tativo di giustificare sotto il
segno di un'unica concezione religioso- filosofica gli aspetti diversi delle
credenze religiose' ellenistiche ed orien- tali, le quali ultime. egli vede
sintetizzate da un lato nei misteri egizi di Osiride-lside, dall'altro lato
nella teologia zoroastriana - possa riprendere e giustificare, nel quadro della
sua teologia e cosmologia, le credenze nei dèmoni, nelle capacità divinatrici e
profetiche delle anime, in una, infine, descrizione di quella che è,
nell'universo, la posizione dell'uomo, e di quale ha da essere il suo fine. Uno
l'universo nella sua totalità, posti come ter~ni estremi l'Essere e la materia
e tra l'uno e l'altro, nell'aspirazione della materia all'essere, la genera-
zione - unica realtà effettuale, la cui durata costituisce il tempo - dalle
forme piu basse - all'infinito - e inanimate, alle forme piu alte - al-
l'infinito, verso l'Essere, termine ultimo - ve animate, nel perenne conflitto
della vitalità, che in quanto tale è tensione ad essere e nel suo determinarsi
e affermarsi è negazione dell'essere; entro l'universo uno, si.viene ad avere
un'infinita scala di generazioni, di forme viventi, di anime, per un lato volte
al limite, all'oscurità, alla corporeità, per l'al- tro lato volte all'essere,
alla luminosità, al divino. Di qui l'afferma~ zione plutarchea che entro l'Uno
universo, piu di uno possono essere i mondi, piu di una le condizioni delle
anime, da anime-limiti, oscure - corporei~à, tra cui l'uomo nella sua
condizione terrestre - ad anime piu luminose, meno limitate, ma non per questo
meno reali, viventi, operanti, i cosiddetti dèmoni, ad esempio, e oltre ancora
gli dèi, fino alla purezza assoluta del divino. Coloro che sostengono che
Platone, avendo ammesso un elemento come substrato delle qualità sensibili che
noi chiamiamo materia o natura, ha liberato i filosofi da molte e gravi
difficoltà, dicono una cosa giusta: allo stesso modo mi sembra che difficoltà
ancora piu numerose e gravi siano state superate da coloro che pongono tra dèi
e uomini, la specie dei dèmoni, ritrovando cosi in certo modo un legame che ci
congiunga e ci unisca a Dio. E poco importa che questa dottrina provenga dai
Magi della setta di 30 Zoroastro, o con Orfeo dalla Tracia, o
dall'Egitto, o dalla Frigia (De defectu oraculorum, 414f-415a). C'è chi ammette
il trapasso, sia da corpo a corpo, sia da anima a anima: cosi, per esempio, la
terra diventa acqua; l'acqua aria; e l'aria, nell'ascen- sione propria della
sua natura, si tramuta in fuoco; allo stesso modo, nel.:ampo delle anime
elette, è ammesso il passaggio da uomini a eroi; da eroi a dèmoni. Tuttavia,
solo poche anime appartenenti al grado demo- nico, purificate dopo lungo
volgere di tempo, mediante la virtu, riescono a partecipare completamente della
divinità. Al contrario, talune, non riu- scendo a dominare se stesse, scendono
dal grado superiore e indossano di nuovo corpi mortali e traggono una vita
senza luce e fievole come un'esa- lazione... In realtà, piu lungo o piu corto
che sia il tempo determinato o non, in tutti i casi si avrà sempre la dimostrazione
voluta, attraverso testi- monianze sapienti e antiche, che esistono, cioè,
alcuni esseri, quasi al con- fine tra gli dèi e gli uomini, i quali sono
soggetti alle passioni mortali e alle mutazioni fatali. È giusto, secondo il
costume dei padri, che noi con- sideriamo costoro dèmoni e li veneriamo con
questo nome. Senocrate, amico di Platone, propose a simboli di questa
concezione le figure dei triangoli. Al divino confrontò, per immagine,
l'equilatero; al mortale lo scaleno; l'iso- sede, infine, al demoniaco. Il
primo è uguale in tutto e per tutto; il secondo, del tutto disuguale; l'ultimo,
uguale per un verso, disuguale per l'altro: proprio come la natura dei dèmoni,
che partecipa a un tempo della passione del mortale e della virtu del dio. Ma
la natura stessa offerse immagtru e simiglianze visibili: cioè degli dèi, con
il sole e con gli astri; dei mortali, con le meteore, le comete e le stelle
cadenti...; natura mista e figura di dèmone è essenzialmente la luna, la cui
rivoluzione concorda con questo genere demoniaco, in quanto essa si mostra ora
calante, ora crescente, ora cangiante... Figuratevi, ora, di sottrarre e portar
via l'aria ch'è in mezzo tra la terra e la luna: naturalmente l'unità e la
coesione del tutto risulte- rebbe spezzata dal fatto che ci sarebbe,
nell'intervallo, uno spazio vuoto e slegato. Allo stesso modo, chi non ammette
la categoria demonica toglie ogni continuità e relazione tra il mondo degli dèi
e quello degli uomini, elimina gli esseri che, al dire di Platone, esercitano
una funzione di inter- preti e di ministri; ovvero essi ci co~ringeranno a
sconvolgere e a turbare ogni cosa, facendo entrare il dio nelle passioni e
nelle cose umane e traen- dolo alle loro necessità... Noi, invece, non vogliamo
dar retta per nulla a coloro che negano la divina ispirazione agli oracoli e la
divina compia- cenza.per le cerimonie e i riti; ma neppure vogliamo credere
che, in tali cose, il dio si giri e rigiri e si presenti direttamente e si
affaccendi lui stesso. Piuttosto, facciamo risalire tali riti oracolari a
coloro ai quali giustamente la cosa compete, voglio dire ai ministri degli dèi,
che sono, per cosf dire, i loro famuli e segretari; noi crediamo che il mondo
tutto sia percorso da dèmoni, alcuni volti a sorvegliare i sacrifici agli dèi e
i riti misterici, altri in funzione di vendicatori di tracotanze e di crimini
[ed è su questo motivo che si svolge, di contro alla provvidenza stoica, la
provvidenza plutarchea: cfr. De sera numinis vindicta]•.. Certo, come tra gli
uomini, anche tra i dèmoni esistono differenze di valore, perché in alcuni
l'elemento passio- nale e irrazionale ha lasciato, come un residuo, un avanzo
ancora fievole e indistinto, in altri invece persiste in dose considerevole e
inconsumabile (De defectu oraculorum, 415b-416c, 417b). Se da un lato la
soluzione del significato da dare ai dèmoni chia- risce quanto sopra dicevamo,
e cioè la concezione plutarchea di una realtà vivente, che, in un conflitto di
forze, si scandisce in gradi, fino a ordinarsi, sempre pio razionalmente, a
imitazione dell'Essere su-,premo, puro intelligibile, presupposto e fine;
dall'altro lato, i testi sui dèmoni e sulla loro funzione, hanno un notevole
interesse storico. Sono una testimonianza precisa non s~lo della presenza di
credenze oracolari, astrologiche, magiche, quali si erano venute diffondendo,
in particolare dall'Egitto, fin!> dal 11-1 secolo a. C., e alle quali
abbiamo già sopra accennato, ma anche del tentativo che ora si fa di rendere
conto delle stesse esperienze vitali che stanno a fondamento di quelle
credenze. La teoria plutarchea dei dèmoni non è nuova: già ne tro- viamo tracce
in Alessandro Poliistore, nei Physik,à kài Mystikà dello pseudo-Democrito,
nelle Rivelazioni di Nechepso e Petosiride (cfr. so- pra), in alcuni testi
alchimistici che rifluiscono nei testi del corpo erme- tico (certo su Plutarco,
come testimonia anche il suo interesse per Osiride-Iside, ha avuto una forte
influenza il motivo ermetico di Thot-Ermes, lo scriba e interprete di Osiride:
non a caso Plutarco si fa interprete del significato riposto dei sacri riti e
miti egiziani e persiani). Ciò che, tuttavia, interessa sottolineare è
l'interpretazione di Plutarco, il suo risolvere le forze occulte in forze
naturali, reali, in conflitto, ponendo il divino (la razionalità) come termine
ultimo di aspirazione. E allora, come da quel conflitto si determina la scala
degli esistenti, dalle prime qualificazioni oscure (corporeità) alle meno
oscure (corpi viventi, animati, di cui l'uomo è il piu alto)., agli astri, alle
piu luminose anime incorporee, maggiormente vicine al divino (i dèmoni: reali,
tanto quanto reali sono il corpo, l'anima umana e via di seguito); cosi si
giunge all'uomo, aspetto della realtà, in cui si sperimenta la presenza dello
stesso conflitto, l'urto delle stesse forze vitali, lo stesSo determinarsi e
costituirsi da un lato in corpo e vitalità (anima) e dal- l'altro lato in
razionalità, in aspirazione all'ordine e.al divino (perciò l'anima non muore
con il corpo, perché la morte può essere interpre- tata come eliminazione
dell'oscurità). E allora il conflitto e la capacità di equilibrare il conflitto
medesimo, se da un lato spiegano la divi- nazione, i sogni profetici ela
possibilità, mediante certi riti (tecniche), di entrare in rapporto con gli
spiriti, con le anime che sono i dèmoni, dall'altro lato spiegano come quei
dèmoni stessi siano presenti, com'essi 32 operino, come servano di
mediazione tra l'uomo e la divinità. Non solo, ma, per altro verso, v'è in
Plutarco, di contro al fatalismo stoico, per il quale diviene impossibile da
parte umana operare sui dèmoni, e di contro a certe forme magico-popolari
secondo cui si può diretta- mente operare sulle divinità, indicata, sia pur in
un solo accenno, la via, che verrà sviluppata in ambiente neoplatonico e nel
commento agli oracoli caldaici, la quale rende possibile, attraverso il
conflitto delle forze, la tensione tra le anime, la razionalizzazione di se
stessi. Di qui anche, in un rapporto tra le anime, simili tra loro, l'azione
sulle forze demoniache, e, mediante certi riti e tecniche, che Plutarco non a
caso lascia ai competenti ("facciamo risalire tali riti oracolari a coloro
ai quali giustamente la cosa compete": De def. orac., 417b), l'evocazione
degli spiriti, e, quindi, l'avvicinamento al divino, in una salvazione che
consiste nella "conoscenza" ed in cui sta per Plutarco la religiosità
che non sia "superstizione" (e qui sono senza dubbio presenti,
accanto a motivi ermetici, motivi che possiamo dire gnostici, se è vero che si
può parlare, ad esempio per Filone l'Ebreo, di gnosti- Cismo giudaico). La
nostra natura morale inaridisce e invecchia nell'attività dell'igno- ranza. Un
riposo muto, una vita inerte dedicata all'ozio consumano non soltanto i corpi,
ma anche le anime... Le facoltà naturali degli· uomini che ntm si muovono...
appassiscono e invecchiano innanzi tempo... Credo che gli antichi abbiano dato
all'uomo il nome di "phos" (luce), poiché è insito in ciascuno di
noi, per analogia alla !uce, un intenso desiderio di conoscere e di essere
conosciuto. Alcuni filosofi sostengono che la luce abbia una sostanza identica
a quella dell'anima [Filone l'Ebreo?: cfr. sopra], e tra le altre
argomentazioni adducono che niente l'anima rifugge piu dell'igno- ranza, e che
essa respinge tutto ciò che è oscuro e che rimane turbata dalle tenebre, in cui
trova timore e inquietudine, ma che la luce è per lei cos{ dolce e
desiderabile, che di nessuna cosa ch'essa naturalmente ama può godere quando
sia nell'oscurità, lontana dalla luce... (De latenter vivendo, 1129d-1130a).
L'accenno alla sostanza dell'anima come luce, è, purtroppo, un solo accenno,
che, se piu ampio avrebbe potuto chiarire molte questioni sull'origine della
metafisica della luce e sulla conseguente discussione relativa all'influenza
delle luci stellari, a loro volta riflessi della lumi- nosità divina. Ad ogni
modo, entro l'àmbito di una ricostruzione del pensiero di Plutarco, l'accenno
alla luce è interessante in quanto serve a meglio comprendere la posizione che
viene ad assumere l'uomo, nei gradi in cui si scandisce la realtà nella sua
aspirazione all'Essere, non a caso detto, con un'immagine, pura luminosità:
"Le vesti di lside sono di colore screziato, perché la potenza di lei
riguarda la materia, la quale si trasforma in ogni cosa e tutto accoglie, luce
e oscurità... La veste di Osiride [del divino], invece, non ha sfumature di
ombre, né screziature di colori, ma solamente un unico fondo, tutto semplice,
la pura luminosità" (Dc lsidc, 382c). La divinità, dunque, è rappresen-
tata come pura luminosità senza ombre e colori, mentre la realtà è tale,
esistente, visibile, in quanto non è né pura tenebra (il nulla) né pura
luminosità (altrettanto invisibile, accecante), ma ombra e luce, in una serie
di gradi che vanno al limite dalla tenebra e dall'oscurità (corporeità) alla
luminosità pura (divinità), scandendosi in un com- plesso di oscurità
(corporeità) e di luce (anima). E perciò l'uomo, di fatto corpo e vitalità
(anima), da un lato affermazione di sé per esi- stere, ma, dall'altro lato, nel
suo stesso affermarsi, negazione dell'essere, l'uomo, in tale sua tensione e,
perciò, in tale sua aspirazione all'essere come pienezza, alla luce, viene ad
essere come lo specchio - in pic- colo - dell'universo stesso. Si ripete cosi:
in lui il conflitto tra luce e oscurità, tra sé come corporeità e animalità
(anima) e sé come capacità di ordinarsi, di porre equilibrio, di costituirsi
come razionalità. Anzi, è proprio nell'atto in cui l'uomo scopre sé come
razionalità, che si rivela e si coglie, intuitivamente, la razionalità divina,
la pura lumi- nosità. Aspirazione al divino, la capacità intellettiva e
razionale si sco- pre in noi - oltre l'anima - come la presenza del divino, e,
perciò, da un lato come possibilità di ordinare e.guidare le nostre forze
vitali e, dall'altro lato, come esigenza di perdersi nella sua unità, in un
amore per Dio (entusiasmo), che scaccia da sé ogni timore per lui
(superstizione) o ogni indifferenza nel rimanere chiusi nella propria
individualità (ateismo, epicureismo): "Quando l'anima crede e pre- sume
che il dio sia presente, respinge via da sé dolori, timori, inquie- tudini e
con la gioia si eleva sino all'ebbrezza, al riso e all'esaltazione" (Non
pom: suaviter vivi..., llOlc-f; si confronti anche il motivo del- l'cbbrictà di
Filone l'Ebreo: Dc cbrictatc). Molti sostengono giustamente che l'uomo è un
essere composto, ma hanno torto quando pensano che sia composto soltanto di due
principi: difatti quando considerano l'intelletto (vouc;) come una parte
dell'anima, errano non meno di coloro che ritengono l'anima una parte del
corpo. Di quanto l'anima è superiore al corpo, di tanto l'intelletto è migliore
e piu divino dell'anima. L'unione dell'anima e del corpo produce la facoltà
irra- zionale e passionale, quella dell'intelletto e dell'anima produce la
ragione; la facoltà irrazionale e passionale è principio di piacere e di
dolore, quella dell'intelletto e dell'anima di virtU e di vizio. Di queste tre
parti, la terra forma il corpo, la luna forma l'anima, il sole dà origine
all'intelletto (Dc 34 facie in orbe lunae, 943a). Le anime
posseggono sempre i loro poteri, ma li posseggono piu deboli quando sono
mescolate ai corpi...; tuttavia alcune anime talora fioriscono e riacquistano
quella loro potenza nei sogni e al momento della morte, sia perché allora il
corpo si purifica o subisce una modificazione favorevole, sia perché l'anima,
essendo la parte razionale e meditativa liberata e svincolata dalle cose
presenti, si dirige con la parte irrazionale e immaginativa verso le cose
future... (De defectu oraculorum, 43lf-432c). Anche se molte sono le
oscillazioni del pensiero di Plutarco, se molte volte egli è equivoco
relativamente al concetto del divino e sul rapporto tra il divino e la realtà,
vivente nel conflitto tra le due forze, nella tensione tra la forza
disgregatrice, individualizzante e la forza organizzatrice e ordinatrice, certo
l'aspetto piu appariscente del suo pensiero, accanto a quello di conciliare in
una sola religiosità razionale (delfica) le molte esperienze religiose, vive e
operanti al suo tempo, è il suo rovesciamento dello stoicismo, che spiega anche
il significato e il limite della trascendenza del divino plutarcheo. Posto, di
contro allo stoicismo, che il divino non si risolve nella molteplicità del
reale, ma che il divino si pone come il presupposto dell'ordine e della razio-
nalità co.ndizione dunque dell'essere delle cose, esso metaforicamente è il
"padre"; e posto, perciò, che la materia e la corporeità, viventi per
la tensione di forze vitali (anime), tendono all'essere, Plutarco poteva - ed
in questo. consiste il rovesciamento dello stoicismo e il suo ap- pello a
Platone - da un lato prospettare il divino come termine di realizzazione (in
tal senso trascendente) di tutta la realtà, non annul- lando l'essere nella
esistenza, dall'altro lato poteva sostenere che dalla tensione tra le _due
forze si realizza, o può realizzarsi, un ordine, in cui si rivela per
imitazione la presenza del divino. Plutarco cos(, di contro al fatalismo stoico
e al casualismo epicureo, poteva sostenere, sul piano umano, un qual certo
volontarismo e dinamismo, fonda- mento della vita morale, che non avrebbe luogo
senza conflitto e se l'uomo e il resto non fossero altro che momenti della
necessaria manifestazione della divinità. Sotto questo aspetto sembra chiaro in
che senso Plutarco ponga l'intelletto non come una parte dell'anima, ma come
rivelazione della presenza del divino in quanto razionalità, cioè in quanto
capacità ordinatrice e unificatrice, che si pone come dovere e come bene, che
si coglie,- attraverso il conflitto stesso. Tale la ragione per cui Plutarco,
interpretando un passo della Vll lettera di Platone (344b), afferma che
l'intelligibile si coglie attraverso il con- flitto, nell'atto in cui scoprendo
sé come razionalità, si scopre sé come pensiero, cioè come unità di discorso e
come dominio in unità di noi stessi, m quanto molteplicità di passioni.
"L'intuizione di ciò che è intelligibile, luminoso e puro è come un lampo
che brilla, e l'anima può coglierlo e vederlo una volta sola. Perciò Platone
[Convito, 210a] e Aristotele [Alex., VII, 668a] chiamano con il nome di
epoptica questa parte della filosofia, poiché coloro che mediante la ragione
hanno oltrepassato le varie_opinioni di ogni specie, si elevano di colpo a quel
Principio primo, semplice e immateriale _e toccando direttamente la verità pura
che irraggia da esso raggiungono, come in una iniziazione, il fine della
filosofia" (De lside, 382e). L'unità del discorso in cui si scandisce il
ritmo della realtà, che assume essere in quanto si adegua all'unità
dell'Essere, per cui l'Essere trascende la realtà, appunto perché ragion
d'essere in atto del tutto, unità in atto del tutto, unità in atto delle forme
- metaforicamente luminosità senza ombre, non discorribile - si coglie intuitivamente
e, perciò, subito si perde - non a caso Plutarco dice che è come un lampo e che
si vede una volta sola; - esso, dunque, resta da un lato.:ome ricordo, e,
dall'altro lato, come desiderio, come termine cui si aspira, oggetto
d'intelletto, pura intelligibilità. E allora, non risolta la realtà nella
manifestazione dell'essere, l'essere si pone come condizione dell'esserci e
come dover esser, per cui, colto l'essere, attra- verso l'educazione e
l'esercitazione del pensiero, esso diviene il bene, e poiché la realtà, e
l'uomo, momenti dell'aspirazione all'essere, nel conflitto tra la forza
organizzatrice e la forza disgregatrice, sono sgan- ciati dall'essere stesso,
nell'uomo, in quanto centro del conflitto, nel- l'atto che intuitivamente
coglie l'essere, si postula la possibilità di rea- lizzarsi da un lato come
capacità (virtu) di vedere la ragion d'essere delle cose, cogliendole in ciò
che esse sono nel loro ordinarsi secondo il modello divino, indipendentemente
dalla relazione ch'esse hanno con l'uomo stesso (l6gos teoretico, la cui
corrispondente virtu è la "sapienza," sofia), dall'altro lato come
capacità di realizzarsi, tenendo presente il modello divino, armonizzando e
ordinando in unità (ragio- nevolmente) le passioni e gli istinti (ragione
pratica, la cui virtu è la "prudenza," fr6nesis). L'uomo, cioè, in
quanto intuizione di sè come ragione, che lo trascende dal di dentro e che si
pone come valore da rea- lizzare, da un lato coglie sé come capacità di
contemplare (vita teoretica, scienza), dall'altro lato come capacità, mediante
la ragione, di ordinare e di indirizzare la propria animalità (anima vegetatìva
e anima sen- sitiva, corrispondenti all'anima "concupiscibile" di
Platone; anima irascibile), il proprio aspetto irrazionale (se stesso cioè come
conflitto e frantumazione) di volta in volta sapendo comportarsi giustamente,
secondo una giusta misura (giusto mezzo), in un'armonia e medietà di passioni,
non in una negaziDne delle passioni, in cui consistono le virtu etiche (vita
pratica). "La virtu morale differisce dalla virtu con- templativa in
questo: ch'essa ha per materia le affezioni dell'anima e per forma la
ragione" (De virtute morali, 1). Anche sul piano etico, coerentemente, la
posizione di Plutarco e il suo rifarsi da un lato a Platone e dall'altro lato
ad Aristotele, è in funzione antistoica, o meglio in funzione di una
interpretazione di Platone e di Arsitotele, diversa da quella stoica, e tale
che gli permetta di mostrare che la virtu è insegnabile (cfr. Virtutem doceri
posse) e che la moralità non consiste solo in un corretto uso della ragione. Vi
sono alcuni filosofi [Zenone di Cizio, Crisippo] che si trovano d'ac- cordo nel
considerare la virtu come un'affezione, come un abito della parte superiore
dell'anima, prodotto dalla ragione, o piuttosto come la ragione stessa,
invariabilmente fissa ai suoi retti principi. Essi non credono che in noi sia
una facoltà sensitiva e irrazionale, diversa per natura dalla ragione. Questa
parte dell'anima, ch'essi chiamano egemonica e intelligenza, diviene, dicono,
vizio o virtu, a Seconda delle modificazioni che prova nelle sue affe- zioni ed
abiti. Essa non ha nulla di irrazionale... Essi sostengono che la passione
stessa sia ragione, ma corrotta e depravata dai giudizi falsi e per- versi che
la trascinano fuori di sé. Questi filosofi sembrano aver tutti igno- rato che
ciascuno di noi è in realtà un essere doppio e composto. O meglio essi parlano
di una sola duplicità, di una sola composizione; quella che risulta dall'unione
dell'anima con il corpo; ma non si sono accorti che la stessa anima è in
qualche modo composta di due nature diverse; che la sua parte irrazionale è
come un secondo corpo unito alla ragione, da intimi e necessari legami.
Pitagora, invece, sembra aver conosciuto questa seconda composizione... Platone
ha veduto con la massima evidenza che l'anima del mondo non è un essere
semplice, uno per natura, senza composizione; ma ch'essa è un mescolarsi del
principio dell'identico e di quello dell'altro [in un conflitto tra l'anima
buona e l'anima malvagia]. L'anima umana che altro non è che una porzione di
quella del mondo, formata su numeri e propor- zioni uguali a quelli dell'anima
cosmica, non è né semplice né senza affe- zioni. Essa ha due facoltà: una che
si adegua al ragionevole ed all'intelli- genza, per sua natura atta a dominare
l'uomo ed a governarlo; l'altra, irr'azionale, sregolata, sede delle passioni e
degli errori, ha bisogno d'essere retta da una facoltà superiore. [La parte
irrazionale si divide in concupi- scibile e irascibile]... Aristotele ha fano
un grande uso di questi principi, soprattutto della distinzione tra razionale e
irrazionale... Orbene, i costumi, per darne qui un'idea, sono una qualità della
parte irrazionale; e si chiamano cosi perché questa qualità, impressa dalla
ragione in questa parte dell'anima, è dovuta· all'abitudine. La ragione non
vuole distruggere interamente le passioni, il che non sarebbe né possibile né
utile, ma solo infrenarle entro giusti limiti, dando cosf luogo alle virtu
morali, che non operano affatto l'annientamento totale delle passioni (apatia)
ma le regolano e le moderano. Tali virtu sono il frutto della prudenza (jr6-
nesis), che riconduce ad una disposizione equilibrata e giustamente misu- rata
l'attività naturale delle passioni (De virtute morali, 3, 4). L'appello di
Plutarco all'aspetto formale dell'etica aristotelica, il suo puntare sulla
moralità come conflitto, sul bene e sul male come capacità di sapere o meno, di
volta in volta, costituirsi secondo misura oppure no, nettamente respingendo
sia l'accettazione passiva di ciò che avviene, riconducendo ogni avvenimento ad
una superiore ragione da cui tutto dipende (fatalismo stoico), sia l'esigenza,
in un mondo ove tutto avviene a caso, di ritirarsi in conventicole di amici
(epicurei- smo: cfr. De latenter vivendo), sembra rendere esattamente conto del
modo con cui Plutarco si è rifatto a Platone, dandone un'interpreta- zione
dinamica, sottolineando, appunto, tutti quei motivi da cui pare che Platone
intenda il mondo dell'Essere non come un dato, ma come un dovere essere. Si
capisce cos(perché Plutarco perfino sul piano cosmologico - non a caso egli
punta sulla natura come potenzialità - interpreti il Timeo in termini
rovesciati rispetto all'interpretazione stoica, sottolineando che, sia pur
posto il divino quale condizione dell'essere del tutto, delle forme delle cose,
non è il divino che si tra- duce ed è nell'esistenza del mondo, ma è il mondo
che, vivente di forze opposte, si adegua e tende, ascende, dai gradi piu oscuri
ai piu luminosi, al divino, pura intelligibilità, pura luminosità. In tale
stoicismo rovesciato, indipendentemente dal divino, che resta a sé, termine di
realizzazione e di amore, e in tale insistenza sulla vita- lità della natura e
sull'esigenza dell'uomo (la quale, per l'uomo, intuito il divino, diviene un
dovere) di dominare se stesso, di costituirsi come ordine e misura, a
simiglianza di Dip, molti dei motivi relativi alla natura restano quelli stoici
(il motivo della simpatia, il motivo della tensione tra un principio attivo e
un principio passivo, donde si genera e si costituisce il ritmo in cui si
scandisce la realtà). Sul piano umano resta, particolarmente, il motivo della
filantropia e, conseguentemente, i motivi del piu recente stoicismo, come da
parte del saggio l'impegno a operare sempre in funzione di una pacificazione
politica, in nome di una superiore armonia, di un superiore equilibrio delle
"ragioni" mediante cui le società si adeguano alla misura divina, e
l'aspirazione plutarchea a che gli stessi governanti e sovrani siano
consigliati e ammaestrati dai saggi (cfr. Mu.sonio, Anche i re debbono studiare
filosofia). Di qui anche l'importanza data alla cultura mediante cui sviluppare
quei semi.di virtu che sono propri di ogni anima (cfr. sopra Musonio; Plutarco,
De educatione puerorum), cultura che, entro i limiti del possibile e delle
varie condizioni economiche, Plutarco vorrebbe fosse data a tutti ("Tutti
i genitori debbono sforzarsi di dare ai propri figliuoli la piu perfetta
educazione; coloro che non sono sufficientemente liberi si limiteranno a ciò
che la loro fortuna permet- terà di fare. De educ. puer., 11). Cos(, anche sul
piano politico, l'ap- pello di Plutarco è un appello a una possibile
pacificazione, mediante la cultura e la conoscenza, simile alla pacificazione
da lui sostenuta relativamente alle religioni, una possibilità d'incontro tra
le tradizioni delle antiche p6leis e la realtà di fatto che è l'Impero di Roma.
Entro quest'àmbito Plutarco si muove con molta cautela. Egli riconosce la
supremazia di Roma ("in questi tempi moderni, ogni guerra ellenica, ogni
guerra esterna è fuggita e svanita di mezzo a noi; le nazioni hanno solo tanta
indipendenza quanta ne concedono i nostri padroni": Precetti politici,
824c) e come estremamente limitata sia oramai la pos- sibilità di usare l'arte
politica per i cittadini delle provincie elleniche ("ai nostri giorni,
quando non è piu compito delle città condurre guerre o abbattere tiranni o
negoziare alleanze, quali funzioni politiche restano e quali modi di eccellere
nello Stato? Id., 850a). Entro questi limiti, tuttavia, Plutarco tende a
mostrare la funzione che può ancora avere, sul piano di una socialità ed
eticità intesa ari- stotelicamente, e che perfettamente s'inquadra nei termini
della sua concezione religiosa e della sua interpretazione di Platone, una
doppia azione politica, mediante cui attuare ·la natura umana (sembra chiaro in
che senso Plutarco sottolinei l'antico ideale dell'uomo, tale non in quanto
individuo, ma in quanto animale politico: cfr. Se un vecchio debba governare lo
Stato, 791c), da un lato in modo tale che ciascuno attui, per ~iò che gli
compete, il suo dovere politico entro i limiti della propria Città e,
dall'altro lato, in relazione con il governo di Roma, salvaguardando
nell'armonia dell'Impero le libertà delle proprie p61eis. "Quali funzioni
politiche restano, dungue, nei nostri Stati? Restano gli affari civili da
istruire nei tribunali, le missioni presso l'imperatore, tutte cose che
richiedono un uomo attivo e ad un tempo fermo e pru- dente; in una città vi
sono poi molte istituzioni utili, ma obliate, che conviene rimettere in piedi;
e poi si possono suggerire e attuare riforme (Precetti politici, 805a). N o n
solo, ma, anche, attraverso il proprio esempio,.si deve mostrare cosa voglia
dire essere uomo dav- vero, oltrepassando i singoli nazionalismi, per indicare
come in r.-altà si tratti non di istituzioni o di regimi politici, ma di uomini
("Bene- volenza e collaborazione: sono questi i principi che Plutarco
apprez- zava di piu. Lo stesso ordinamento a coppie dato da lui alle sue Vite
parallele, ponendo accanto quella di un Greco e quella di un Romano, mostra
ch'egli voleva che i due popoli fossero considerati comple- mentari l'uno
dell'altro, non avversi, e che teneva a sottolineare come entrambi avessero
prodotto uomini famosi nella storia": Sinclair, op. cit., p. 431). Non di
istituzioni o di regimi politici si tratta, appunto, ma di volgere l'uomo,
attraverso l'educazione e la filosofia, a farsi simile a Dio, s1 che l'uomo
salvandosi mediante la conoscenza, si pre- pari a ritrovare la propria patria,
sollevandosi dalla terra al cielo, fin da questa terra che è, in effetto, terra
d'esilio: •esiliato sulla terra, io stesso vado errando in questo luogo di
miseria; quando Empedocle parla cos1, non è per sé solo, ma per nòi tutti che
afferma essere noi esiliati e stranieri nel mondo" (De ezilio, 17). Retorica
e scetticismo. Favorino di Arles e Licinio Sura. La « scepsi" e le
scienze. Le •questioni." Medicina e metodo da Menodoto f l Sesto Empzrico
Già con Dione Crisostomo si vede bene il significato del delinearsi di una
corrente sofistico-retorica che, avendo centro in Roma, politica- mente si
irradia nei paesi greco-orientali dell'Impero. Sia pur ora in una situazione
politica mutata, rispetto a quella che sta a.cavallo tra la seconda metà del I
secolo a. C. e il principio del I secolo d. C., ma sempre tesa a una
giustificazione dell'Impero, ci rendiamo conto di come s; po- tesse, su di un
piano scettico, assumeado·posizioni pirroniane, rifarsi al significato politico
di posizioni simili a quella di Cicerone, o, meglio, di un Filone di Larissa,
in una dialettica discussione dei pro e dei contra, onde, discutendo ogni
posizione, giungere ad optare per quella meno incoerente, piu verosimile,
politicamente piu utile e adatta alla vita. Sulla linea di Dione Crisostomo,
del quale sembra sia stato discepolo, tale atteggiamento fu particolarmente
assunto da Favorino Arletano (nato ad Arles, nell'S0-90 circa, morto tra il 143
e il 1.76).8 A Roma fin dal principio del n secolo, dove fu iscrittò all'ordine
equestre, in rela- zione con i maggiori centri di cultura (fu ad Atene, a
Corinto, in Asia Minore, dove tenne discorsi e conferenze), amico di Plutarco,
che gli. dedicò il De primo frigido e lo fece interlocutore delle Quaestiones
con- viviales, am;co di Frontone e di Aulo Gellio, Favorino si preoccupò
soprattutto di rimettere in discussione la coerenza dei vari sistemi filo-
sofici, da un lato chiarendone il significato, dall'altro ponendoli l'uno
all'altro di fronte in dialettica opposizione. Egli, cos1, sembra - dei suoi
moltissimi scritti, tutti in greco, non rimangono che alcune ora- zioni e
diatribe, e pochi frammenti, di cui uno, recentemente scoperto, 8 Sulla vita di
Favorino di Arles, vissuto tra 1'80-90 e il 143-176, non abbiamo altre notizie
se non quelle date sopra nel testo. Si confronti oltre la Bibliofl'afia. 40
abbastanza esteso sull'Esilio, - nelle sue opere si proponeva di
esporre gli aspetti piu salienti delle varie tesi filosofiche, in forma
divulgativa, dando, inoltre, gli strumenti perché fosse possibile, difesa l'una
e l'altra posizione, dimostrarne la contraddittorietà interna.·Di qui, accanto
ai Memorabili, in 5 libri, alla Storia varia, in 24 libri (come appare dai frammenti
che ne possediamo, nei Memorabili, da cui ha ripreso anche Diogene Laerzio,
Favorino riferiva gli aneddoti fioriti, nel tempo, sui principali filosofi del
VI-IV secolo a. C.; nella Storia varia gli aspetti piu appariscenti delle
tradizioni culturali: il titolo di due frammenti con- servati è già abbastanza
indicativo: I. filosofi che hanno fatto qualche scoperta importante per la
storia della cultura; Gli accusatori dei filo- sofz), ed accanto ad alcuni
scritti divulgativi e polemici (Sulle idee, La filosofia di Omero, Su Platone,
Su Socrate e la sua arte erotica, Sul modo di vivere dei filosofi, Su Plutarco
e lo stato d'animo delfAcca- demico, Alcibiade, Contro Epitteto) ed eruditi (Un
compendio di Pam- file: compendio di uno scritto grammaticale, composto da una
certa Pamfile), le opere fondamentali di Favorino: una in 10 libri, su l tropi
pirroniani (in cui, appunto, si davano gli strumenti, i modi o tropi me- diante
i quali dimostrare l'incoerenza delle varie filosofie, in una ri- presa dei
tropi di Enesidemo), l'altra in 3 libri su la La fantasia cata- lettica, in cui
si rimetteva ancora una volta in discussione. la possibilità, sostenuta dagli
stoici e su cui si fondava la loro gnoseologia, del pas- saggio dalle strutture
della ragione alle strutture della realtà, ed in cui Favorino sosteneva che
nulla è afférrabile (xa."fCXÀ'1)m6v) in sé, ma che ogni rappresentazione è
sempre una nostra rappresentazione. Pirroniano dunque, Favorino accoglieva, su
di un piano retorico la tesi neo-acca- demica di Cicerone, mediante cui,
discutendo i pro e i contra, determi- nare alla scelta della tesi piu
verosimile, piu probabile, praticamente utile, che, sembra, consisteva, secondo
Favorino, nell'ipotesi aristotelica sul piano fisico e logico (scientifico) e
in quella stoico-platonica sul piano etico-politico. Che la posizione scettica,
presa come metodo, potesse assumere un suo particolare significato sul piano
retorico, in funzione politica, me- diante cui convincere a una certa
concezione, sia pur assunta come ipo- tesi, è chiaro. Ma è altrettanto chiaro
in che sen:so lo scetticismo meto- dologico abbia avuto una funzione
preponderante, durante il u secolo, nel processo dell'indagine scientifica. Se
da un lato, entro i termini della retorica, la discussione di· tutte le concezioni
di sfondo poteva ser- vire per determinare una certa visione (sia essa la
stoica, la platonica, l'aristotelica, o meglio nessuna di esse presa in sé) e a
quella convin- cere in un abile uso delle tecniche retoriche; dall'altro lato,
entro i ter- mini di un effettivo sapere (e tale è il significato di scienza,
già molto bene indicato da Seneca: cfr. sopra), la scepsi, intesa come ricerca
cri- tica, costituiva le basi delle possibili ipotesi, non contraddittorie e
perciò veraci, mediante cui spiegare i fenomeni naturali. In altri termini,
anche in questo campo, si presentano innanzi tutto descrittivamente le varie
ipotesi che sui fenomeni naturali si sono avute nel tempo, insieme a una
descrizione dei fenomeni stessi, per poi, contrapponendo l'una ipo- tesi
all'altra, vedendo di ciascuna i pro e i contra, dare la soluzione piu
probabile, determinandone le ragioni (cause) non contraddittorie. C'è, a tale
proposito, una testimonianza assai indicativa di Plinio il Giovane in due sue
lettere a Licinio Sura. Di Licinio Sura sappiamo che nacque in Spagna nel 56
circa e che mori non molto dopo il 110, che fu amico di Marziale, che fu tre
volte console, vicinissimo all'imperatore Traiano, per il quale scrisse
discorsi e che ebbe grande autorità. Sappiamo, inoltre, che, uomo di notevole
cultura, interessato ai piu vari movimenti cultu- rali del suo tempo si
preoccupò, da un lato di rendere conto di quei movimenti nella loro funzione
politica, dall'altro lato, in uno studio comparativo delle varie ipotesi sui
fenomeni naturali, di discutere i pro e i contra di ciascuna soluzione. Plinio,
appunto, scrivendo a Licinio Sura, nella prima lettera (Lettere familiari, IV,
30), gli descrive il feno- meno dell'abbassamento e dell'alzamento dell'acqua
che tre volte al giorno regolarmente avviene nel corso di una corrente che si
getta, dalla parte della sponda orientale, nel ramo comasco del Lario.("ti
porto dalla mia terra natale, a mo' di regaluccio, un problema degno della tua
ben nota, profonda erudizione") e dopo avere avanzato cinque ipo- tesi che
servono a spiegare il fenomeno, ne lascia a Licinio Sura la di- scussione e la
possibile soluzione ("esamina tu le cause, tu lo puoi, che producono un
effetto cosi strano"). Nella seconda lettera (Lett. fam., VII, 27), Plinio
chiede all'amico Licinio Sura se ritiene che i fantasmi esistano oppure no
("vorrei sapere se gli spettri esistano e se tu ritenga abbiano una
propria fattezza e una potenza divina, oppure siano senza consistenza e realtà
e ricevano apparenza solo dalla nostra paura") e gli riferisce una serie
di racconti intorno a storie di fantasmi. Partico- larmente interessante -
anche come testimonianza su di un certo tipo di credenze e come indicazione di
fatti che su altri piani si tentava di spiegare - è l'aneddoto sulla bella e
comoda casa di Atene nella quale nessuno voleva piu abitare perché la notte ci
si sentiva - "nel mezzo del silenzio della notte si udiva un suon di
ferraglia e... uno strepito di catene da lontano prima, poi piu da vicino,
quindi appariva uno spettro..." - e sulla quale il proprietario mise un
affittasi in cui si offriva la casa a modico prezzo, nel caso "qualcuno,
ignorando cosi gran guaio, volesse affittarla o acquistarla";.la casa fu
presa dal filosofo Atenodoro, che, messo in avviso dal modico prezzo,
informatosi, aveva saputo del fantasma; Atenodoro, pur cercando di distrarsi,
assorbendosi tutto nello studio, senti ugualmente il rumor di catene e vide lo
spettro, ma, senza farsi prendere dal terrore, gli andò dietro finché, nel
cortile, il fantasma improvvisamente svani; segnato il punto, Atenodoro il
giorno dopo fece scavare, su ordine dei magistrati, nel luogo ove il fantasma
era sparito: là trovarono ossa e catene: raccolte le ossa e sepolte a spese
della città, "la casa non fu piu visitata dai Mani, sepolti, secondo i
riti." Plinio cosi conclude la lettera: "Ti prego perciò di volere
aguzzare l'ingegno. L'ar- gomento è degno che a lungo e a fondo tu l'esamini: e
neppure sono io indegno che tu mi apra i tesori della tua scienza. E anche se
tu,.come sci solito, esaminerai il pro c il contro, vedi però di giungere a una
conclusione piu decisiva, per nop lasciarmi in sospeso e nell'incertezza,
poiché la ragione del mio consulto fu il desiderio che cessasse ogni
dubbio." Le due lettere di Plinio hanno un valore documentario di non poca
importanza. Molto chiaramente mostrano le due facce di un unico me- todo di
lavoro: a) descrizione di fenomeni quali si sono registrati ed esposizione
delle varie ipotesi esplicative, indipendentemente da discus- sioni: a tale
esigenza di aggiornamento e di conoscer.za delle varie ipo- tesi, base da un
lato per una preparazione culturale generale e, dal- l'altro lato, per una
discussione che portasse oltre e proponesse ulteriori e piu convincenti
ipotesi, hanno risposto, in quest'epoca, le molte storie e oucstioni naturali,
in cui è raccolto di tutto, e anche le storie delle v2.rie concezioni, insieme
alle isagogc, alle vite dei filosofi, agli aneddoti fioriti su di loro, in un
ordinamento per questioni, per scuole, per di: scendenze (lavori tutti, sotto
questo aspetto, estremamente oggettivi, la cui funzione storiografica è
chiarissima e il cui maggior monumento sono Le vite,.le opinioni, gli apoftegmi
dci filosofi celebri di Diogene Laerzio, che scrisse sul principio del m
secolo); b) sulla base dei dati reperiti - sia mediante il lavoro storiografico
sia per nuove esperienze dirette e personali - confronti e discussioni delle
varie ipotesi, da cui si determinano nuove ipotesi. Entro quest'àmbito, entro i
termini di tale ricerca metodologica, che ha le sue piu lontane origini nel
tipo di ricerca proprio della scuola di Aristotele, si assumono a contenuto di
indagine i diversi piani di feno- meni: dai fenomeni naturali e dalla
possibilità di una loro calcolabilità (fisica, astronomia, astrologia,
matematica) ai fenomeni piu strettamente appartenenti alla natura umana
(esperienza religiosa, ivi compresi i fatti extralogici, miracolosi e
straordinari; psicologia; e via di seguito). E poiché sia per l'una ricerca che
per l'altra, sul piano della discussione delle varie ipotesi avanzate, nella
determinazione dei pro e dei contra, si trattava di precisare le condizioni che
permettono una discriminazione e perciò la possibilità o meno di un giudizio,
l'indagine stessa di- viene, innanzi tutto, studio del giudizio, cioè
·"logica." Di qui, sul piano scientifico, si vennero chiaramente
determinando due vie, a seconda che l'indagine sulla capacità del giudizio
sfociasse o nell'impossibilità di qualsivoglia giudizio - si pensi alla
corrente della medicina empirica, che trovò il suo fondamento nella tesi piu
stret- tamente scettico-pirroniana da Menodoto a Sesto Empirico, - oppure,
rifacendosi alla scuola peripatetica, fiorita in Alessandria, assumesse come
veraci quei principi che per la loro non contraddittorietà permet- tessero un
discorso non contraddittorio, entro cui sistemare e ordinare tutto il sapere
relativo a certi contenuti (si pensi all'opera medica di Galeno e
all'astronomia e astrologia di Tolomeo). Ma di qui anche, su di un piano piu
strettamente scolastico e culturale, la discussione delle tesi e delle
soluzioni presentatesi nel tempo sulle singole questioni, rag- gruppate in
questioni di logica (dialettica e retorica), di fisica, di etica, e in
questioni relative al fondamento del tutto (teologia), accettate o re- spinte a
seconda se ritenute logicamente giustificabili. Si vede bene, cosi:, come i
maestri si volgessero, in tale presentazione delle varie tesi e so- luzioni al
commento e all'interpretazione di testi di Platone, di Aristo- tele, degli
Stoici, degli Epicurei e usassero in funzione dell'una e del- l'altra
interpretazione, nella discussione dei pro e dei contra, nel deter- minare
venice l'una ipotesi piuttosto che l'altra, soluzioni e strumenti non poche
volte accolti dalle stesse posizioni che vengono criticate e re- spinte,
cercando di spiegare entro questi termini anche esperienze nuove, visioni e
concezioni che provenivano non dalla tradizione greco-romana, ma dalle
esperienze religiose dei paesi orientali, in particolare dal- l'Egitto, dagli
ebrei come dai cristiani, dalla Siria. Entro questi termini sembra chiaro anche
come si sia formata da un lato quella soluzione che va sotto il nome di gnosi e
dall'altro lato si sia venuto costituendo il complesso dei libri ermetici,
insieme, per altro verso, alle sintesi che pro- vengono dai commentatori di
Platone, e alle interpretazioni di una certa logica intesa come strumento e
introduzione, che proviene da al- cuni commentatori della logica di Aristotele
e degli Stoici, il piu delle volte usata come introduzione a intendere il
fondamento ultimo del tutto interpretato in termini platonici (e qui ha
principio la formazione del medievale "Platone teologo" e
"Aristotele logico"). Giova, d'altra parte, ricordare ora che già dalla
fine del 1 secolo a. C.,.con Enesidemo, lo scetticismo si era delineato, di
contro ad ogni assun- zione dogmatica, come atteggiamento critico-metodologico,
in un'analisi precisa, da un lato dei modi o tropi argomentativi, dall'altro
lato delle condizioni e dei limiti del discorso, e che nell'arco di tempo che
va da Enesidemo ad Agrippa, l'indirizzo scettico si era venuto incontrando con
l'indirizzo della medicina empirica, finché con Menodoto di Nicomedia, vissuto
tra 1'80 e ir 160 d. C., i due indirizzi confluirono in un unico metodo di
ricerca scientifica (da Enesidemo ad Agrippa e Zeucsis; per essi e per i tre
momenti fondamentali del me- todo della medicina empirica, autopsia, historie,
mimesis, che ebbero non poca influenza sul modo della ricerca in generale, si
confronti sopra). È noto che nel campo della medicina si sono determinati tre
indi- rizzi fondamentali: l) l'indirizzo dei medici teorici (Xoyutot), fin dal
m secolo a. C., tra cui con Ateneo di Attalia, vissuto sotto Ner0ne, e i suoi discepoli
Agatino di Sparta e Archigene di Apamea, vanno posti i cosiddetti
"pneumatici" (cfr. sopra); 2) l'indirizzo dei me- dici
"metodici," che, iniziatosi con Temisone di Laodicea e il celebre
Asclepiade di Prusa (o di Bitinia), è proseguito con Tessalo di Tralle (vissuto
sotto Nerone), e Sorano di Efeso (vissuto nel n secolo, sotto Traiano e
Adriano); 3) l'indirizzo dei medici empirici, che, ufficialmente iniziatosi con
Filino di Cos, prosegui, in una sempre maggiore precisazione dell'in- dagine
metodologica, con Serapione di Alessandria (n sec. a. C.), Apol- lonia il
Vecchio, Glaucia di Taranto, Eraélide di Taranto e nel I sec. d. C., con il
celebre oculista Demostene Filalete, con Diodoro, Lico di Napoli, Zopyro di
Alessandria, Archibio, Apollonia di Cizio, Zeucsis, Dionigi di Egea, Antioco di
Laodicea, e tra il I e il u secolo, con Menodoto di Nico- media. I
"teorici" fondavano la loro filosofia e patologia entro il quadro
della concezione stoica, rifacendosi al "pneuma"; i "metodici",
invece, pur rifacendosi all'esperienza, sostenevano esser necessario, per non
trovarsi di fronte a una infinita serie di dati muti, collegare quei dati
stessi ragionevolmente: tale tesi fu sostenuta da Asclepiade di Prusa e da
Sorano di Efeso, il piu grande ginecologo dell'antichità, autore di un trattato
Sulle malattie delle donne e sulle malattie acute e croniche, insieme agli
altri due medici piu famosi prima di Galeno, Rufo d'Efeso, specialista in
anatomia - Sui nomi delle parti del corpo umano -, studioso della circolazione
sul sangue - Sul polso -, della patologia delle vie urinarie - Malattie dei
reni e della vescica - e Areteo di Cappadocia, sintomatologo e patologo - Sulle
cause e i segni delle malattie acute e croniche. Nella polemica contro i
"teorici" e contro i "metodici," con Menodoto la medicina
empirica trovò nella meto- dologia scettica il suo fondamento teorico. Senza
dubbio l'atteggia- mento di Menodoto fu soprattutto polemico nei confronti
degli altr: due indirizzi medici, forse anche per ragioni di supremazia profes·
sionale, come malignamente fa intravedere Galeno (De subf. emp., 63-64, in
Deichgraeber, Die griechische Empirill_erschule) parlando di lui e della sua
fama. E fu, appunto, per dimostrare che i "dogmatici" erano nel falso
e che nel falso erano anche i "metodici," il cui atteggiamento nei
confronti della pura empiria, sostenuta dagli "empirici," era
effettivamente assai convincente (la raccolta dei soli dati, se non ragionati e
connessi e perciò discriminati, implica l'inutilità e il silenzio dei dati
stessi), che Menodoto assunse le argo- mentazioni degli scettici, respingendo
di essi la soluzione "probabi- lista," ch'era in fondo la soluzione
dei "metodici," mediante cui far vedere che relativamente ad ogni
ipotesi di spiegazione generale è necessario sospendere ogni giudizio, anche
sulle possibili ipotesi che i metodici traggono dall'analisi dei dati,
costituendo dei quadri clinici entro cui determinare volta a volta le cause
delle malattie. In realtà la polemica di Menodoto è volta a dimostrare l'illecità,
sul piano scientifico, del passaggio dai dati e dall'analisi e. confronti di
essi (o direttamente osservati dal medico, ciascuno in sé e in relazione ad
altri dati e feno- meni, in cui consiste l'autopsia; o, data l'impossibilità
che un solo me- dico possa osservare da sé un gran numero di dati, normali e
eccezio- nali, raccolti dalle osservazioni di altri medici, quali si sono
svolte nel tempo, in cui consiste l'historie) alle ·ragioni, cui, oltrepassando
i dati, si giunge, per via analogica, usando poi le ragioni per spiegare i
dati. Menodoto si rendeva finemente conto che cosi si vengono ad avere due
piani, distinti e non interdipen<)enti, il piano delle esperienze e il piano
delle ragioni, per cui le stesse "ipote~i" dei metodici divengono
alla fine simili a quelle dei "teorici," e altrettanto aprioristiche.
Il fervore polemico di Menodoto contro le posizioni dei "teorici" - c
h e trovano il loro fondamento oltre l'esperienza nelle concezioni del tutto di
tipo platonico, stoico, aristotelico - e contro le posizioni dei
"metodici" - che si fondavano sul motivo del "probabile,"
in maniera altrettanto dogmatica, - sembra abbia condotto Menodoto fino alla
di- struzione della medicina come scienza (paradossalmente, ma coerente- mente,
egli giungeva fino a negare che il medico abbia un fine, anche quello che
Ippocrate e Diocle di Caristo sostenevano essere il movente del vero medico,
l'amore per l'uomo, la filantropia) (cfr. in K. Deich- graeber, Die griechische
Empirikerschule: eine Sammlung der Fragmente und Darstellung der Lehre,
Berlino, 1930, n. 293). In effetto Me- nodoto, rifacendosi alle istanze della
scepsi pirroniano-enesidemiana, e rifiutando ogni teorizzazione, riconduceva
con chiarezza l'indagine umana entro i suoi limiti leciti, l'esperienza, senza
con questo, come ri- sulta dallo stesso Galeno - che pur non aveva grandi
simpatie per Me- nodoto, ma che lo usa per riferire sul metodo della medicina
empirica: cfr. Galeno, Sulle sette, De subfiguratione empirièa; anche
Deichgraeber, op.cit., n. 10 b, p. 72-90,- rimaner fermo a una mèra
enumerazione di fatti o di casi. Se da un lato lavoro serio e proficuo è non
uscir fuori dal- l'esperienza, non ricorrere all'analogia, dall'altro lato
esperienza significa non raccolta di dati accanto a dati, non enumerazione
all'infinito, ma confronto di dati, osservazione del loro ripetersi, secondo
una certa co- stanza, oppure no, si che sulla base di dati-rappresentazioni,
segni "ram- memorativi" e non "indicativi" di strutture in
sé o di cause segrete (accanto all'autopsia e all'historie, si pone in tal modo
la cosiddetta mimesis), si possa, in un calcolo dei dati, in ricordi di
simiglianze e dissimiglianze, determinare una certa sintomatologia, in una
"descri- zione" (schizzo, ipotiposi) di un complesso di fenomeni, che
non pre- sume affatto di essere una definizione. Che tale sia stato il metodo
della medicina empirica e che il problema grosso sia stato quello di giustifi-
care la validità dell'esperienza, di contro a chi sosteneva che l'esperienza si
annulla in se stessa, in un ammasso di fatti che non dicono nulla, per cui lo
stesso empirismo finisce in dogmatismo, è testimoniato da Cassio - da non
identificare con il Cassio medico di Tiberio, - scettico, particolarmente
antistoico, contemporaneo di Menodoto, il quale si rife- risce a Menodoto nella
critica al principio dell'" analogia" (cfr. Diogene Laerzio, VII,
32-34; Galeno, De subfigur. emp., 40, 13), e da un con- discepolo di Menodoto,
Teoda di Laodicea (Diogene Laerzio, IX, 116). Teoda ràccolse le Tesi capitali
della medicina empirica, scrivendo inoltre un libro su Le sei parti della
medicina e una Introduzione alla medicina, sostenendo che l'esperienza non è
affatto una mèra raccolta di dati, ma è un metodo, che non implica affato
l'oltrepassamento dell'esperienza stessa, né un pàssaggio, per analogia, dal
noto all'ignoto, ma un pas- saggio, nel ricordo, dal simile al simile, ché i
fatti stessi non sono noti in sé, presi ciascuno per sé, ma si fan noti
mediante il ricordo di altri fatti-impressioni, in un discorso coerente per sé,
ma che non presume affatto alla verità (cfr. Galeno, De subfig. empir., 40,
15). In tal senso, evidentemente, l'indirizzo della medicina metodica si poteva
identificare con l'indirizzo della medicina empirica, rimanendo valida
l'abbiezione dei "metodici" nei confronti dei puri empirici, e·
definitivamente assu- mendo l'indirizzo "metodico-empirico" l'istanza
metodologica e logico- linguistica dello scetticismo, come ben si vede
attraverso Sesto Empi- rico, vissuto tra la fine del II e il principio del m·
secolo, discepolo del medico Erodoto di Tarso, che, secondo Diogene Laerzio
(IX, 116), era successo a Menodoto, ed era stato in rapporto con Teoda e
Teodosio, autore, sembra, di un Commento alle Tesi Capita/t' di Teoda e di Capitoli
scettici, del quale non sappiamo altro se non che fu medico empirico e di poco
piu giovane di Teoda (cfr. Diogene L., IX, 70; Suda, s. v.). Scrive, dunque,
Sesto: Poiché alcuni affermano che la setta dei medici empirici s'identifica
con la filosofia scettica, è bene sapere che, se quella setta empirica afferma
reci- samente la incomprennbilità dei fatti oscuri [~ questo un dogma] né è
identica allo Scetticismo, né sarebbe consentaneo per lo Scettico accogliere
quell'indirizzo. Piuttosto, secondo me, potrebbe seguire quello che si chiama
metodico: quest'unico, infatti, tra gli indirizzi medici, sembra non affermi
nulla temerariamente intorno ai fatti oscuri, ma, senza presumere di dire se
siano o non siano compensibili, segue i fenomeni, e da questi prende ciò che
sembra giovare, conformandosi alla maniera degli Scenici... Tutto ciò, credo,
che viene detto dai metodici si può ridurre alla necessità delle affezioni,
quelle che sono secondo natura e quelle che sono contro natura. (Diciamo che lo
scettico non dogmatizza, non nel senso in cui prendono ·questa parola alcuni,
per i quali, comunemente, è dogma il consentire a una cosa qualunque, poiché
alle affezioni che conseguono necessariamente alle rappresentazioni sensibili
assente lo scettico: lpolip, Pi"·• l, 13). Si aggiunga che comune ai due
indirizzi è anche la mancanza di dogmi e l'in- differenza nell'uso delle parole
(diciamo, ad esempio, "valore" senza annet- tere a questa parola
nessun sottile significato, nel suo senso semplice in rapporto al verbo
"valere": l, 9; e cosi lo scenico non dice "tutte le cose sono
false" perché insieme con la falsità di tutto il resto affermerebbe che
falsa è anche la propria affermazione... Nelle sue espressioni, lo scettico
esprime quello che a lui appare, e rivela la propria affezione senza osser-
vazioni dogmatiche, nulla categoricamente affermando circa le cose che sono
fuori di lui: l, 14-15). E invero, come lo Scenico adopera, senza pre- sunzione
dogmatica, la espressione "nulla.dò per certo," e l'altra "nulla
comprendo," come ·si è detto, cosi anche il "metodico" dice •
comunanza," "si riferisce" e simili, cosi semplicemente. Cosi,
anche, assume la parola "indicazione," senza presunzione dogmatica,
in luogo di "guida," verso quelli che sembrano essere i provvedimenti
consentanei, sulla base di quelle che appaiono essere affezioni secondo o
contro natura... Congetturando da questi e altri fatti simili, si deve dire che
l'indirizzo medico metodico ha, piu che gli altri indirizzi medici, una certa
affinità con lo Scetticismo, s'in- tende, comparativamente agli altri, non in
modo assoluto (lpotip. Pi"·• l, 236-241). 4. Inurpretazioni di Platone e
di Aristotele nel II secolo a) Platonismo, pitagorismo e aristotelismo. Gaio,
Albino, Apuleio. Attraverso Plutarco si delinea abbastanza bene una certa
esigenza e uno dei possibili modi di interpretare alcuni testi di Platone,
anche per dare una forma e un fine all'azione dell'uomo, che, nel conflitto
delle forze che lo agitano, una volta sganciato dall'Essere, il quale si pone
teoreticamente come condizione dell'esistere, praticamente come modello da
realizzare, è libero di adeguarsi all'Essere, o, rimanendo dilacerato 48
nel conflitto, di restare nella molteplicità, frantumato nelle proprie
pas- sioni, succubo dell'anima malvagia. Plutarco, certo, ha ritagliato dai
molti e complessi testi di Platone, un aspetto preciso, senza dubbio pos-
sibile, qualora quegli stessi testi vengano isolati da altri, e cioè quel-
l'aspetto che può appunto interpretarsi in senso etico-religioso, nel senso che
l'Essere, ciò che dà forma, ragione e significato alla realtà, si pone come
dover essere, come termine di realizzazione della realtà tutta. Se l'appello a
Platone si delinea nella confutazione contro l'aspetto natu- ralistico e
fatalistico dello stoicismo e contro l'aspetto rinunciatario del-
l'epicureismo, certi motivi aristotelici potevano, invece, essere ripresi come
una approfondita interpretazione, sul piano logico-metodologico, dello stesso
Platone (il mondo delle idee tutto in atto in Dio, forma delle forme,
condizione e principio, causa prima e, ad un tempo, fine ul- timo, motore
immobile, donde l'affermazione che, in realtà, per Platone il mondo delle idee
è tutto presente nell'intellezione sempre in atto di Dio; oppure i due aspetti
della realtà fisica, il mondo celeste e intelligente:: il mondo sublunare, che
si potevano interpretare come i due termini in tensione dell'ascesa al divino;
oppure ancora l'aspetto formale del- l'etica aristotelica; o, infine, la teoria
delle sostanze seconde senza di cui non sarebbero gl'individui, che in realtà
si risolvono e si perdono in =tuelle forme universali). D'altra parte, poiché,
come sappiamo, Aristotele non si esaurisce in questo, e poiché, p\,lntando su
una o altra opera di lui, si poteva interpretare Aristotele come il filosofo
che nega la prov- •idenza, lo stesso dio, pura condizione logica, l'immortalità
dell'anima e ma sua sostanzialità, e, conseguentemente, i dèmoni e gli oracoli,
il 3losofo che risolve il fine dell'uomo entro i termini della stessa uma-
lità, che.al filosofare come impegno etico-religioso, mediante cui dare una
forma alla propria vita, sostituisce il filosofare come studio delle:ondizioni
che permettono di pensare la realtà e le possibili forme di vita, in una
raccolta di dati (historle); l'appello a Platone, entro i ter- mini che abbiamo
veduto, portava a confutare e a rifiutare questi ul- timi aspetti
dell'aristotelismo. Se l'appello a Platone e all'uomo socratico, impegnato
nella ricerca di sé e perciò nel fare i conti con l'essere, risponde, nella
crisi di una cultura, all'esigenza di prospettare un complesso di valori (in
quanto valori, non dati di natura) per i quali merita vivere, la rilettura di
Pla- tone, il commento, nelle scuole, dei suoi testi, portava da un lato, a
seconda della confutazione nei confronti dello stoicismo e dell'epicu- reismo,
a sottolineare certi aspetti delle opere di Platone piuttosto che altri,
respingendo ad un tempo quei motivi di Aristotele a cui abbiamo sopra fatto
cenno; dall'altro lato, all'esigenza scolastica di presentare in un sistema
compiuto e coerente il pensiero di Platone, suddiviso nei 49
capitoli divenuti oramai canonici: teologia, fisica, -logica, etica,
politica. Di tali lavori scolastici d'insieme (introduzione a una lettura di
Pla- tone ed esposizione del suo sistema ricavato da un sapiente ritaglio di
testi dei dialoghi, ove maggiormente viene usato il Timeo, che appa- riva come
il piu sistematico e l'opera di Platone in cui Platone aveva risolto le aporie
del Parmenide e del Teeteto, attraverso il Sofista e il Filebo) non restano che
poche tracce, se non per l'Epitomè o Didasca- lico di Albino di Smirne, per
l'anonimo commentario del Teeteto e per la Dottrina di Platone di Apuleio di
Madaura. L'Epitomè di Albino e la Dottrina di Platone di Apuleio + sono due 4
Albino, vissuto nel 11 secolo, fu scolaro, a Pergamo, del platonico Gaio. Di
Gaio, che pur dovette avere una notevole autorità, sappiamo pochissimo, se non
le scarse notizie trasmesseci dai suoi discepoli Albino, Apuleio, e l'autore
del Commento al Teeteto. Le lezioni platoniche di Gaio sembra che siano state
pubblicate da Albino, in nove libri, sotto il titolo Schizzi della dottrina di
Platone. Tornato a Smirne, sua patria, Albino vi tenne scuola dal 151-152 in poi.
Autore di un Prologo a Platone (E~yc.>~ ctç TOU I!MTc.>YOç f)lf)Àov: cfr.
il testo a cura del Freudenthal, in "Hel- lenist. Studien," III) e di
una Epitom~ o Didascalico della filosofia platonica, Albino ebbe grande
influenza nell'interpretazione del Platonismo. L'Epitomè fu attribuita ad un
certo Alkinoo. In realtà ciò fu dovuto ad un errore di lettura paleografica, a
causa della confusione che in scrittura minuscola v'~ tra {3 e x. Si è oramai
convinti che Albino e Alkinoo siano la stessa persona. L'Epitomè si divide in
tre parti: Introduzione (cc. I-lll); La dialettica (cc. IV-VI); Teoria e
contemplazione dell'Essere, fisica (cc. VII- XXVI); Morale (cc. XXVII-XXXIV);
Conclusione (cc. XXXV-XXXVI). Diverso per famiglia, formazione, carriera (non
maestro di scuola) fu l'altro disce- polo di Gaio, Apuleio. Apuleio, di cui ~
incerto il prenome Lucio, nacque a Madaura, nel dipartimento di Costantina, nel
125 d. C. circa. Compiuti i primi studi a Madaura, Apuleio si ·recò a Cartagine
ove frequentò le scuole di grammatica e di retorica. Venne -quindi ad Atene
dove coltivò le scienze filosofiche. Forse a Pergamo ascoltò Gaio. Certo sub{
l'influenza di Albino (molte sono le concordanze tra il suo De Platone eiusque
dogmate e l'Epitomè di Albino). Durante il suo soggiorno in Grecia si fece
iniziare a molte religioni di mistero, studiando a un tempo poesia, musica,
astronomia, scienze naturali. Per queste ultime, in particolare, tenne presente
le relative opere di Aristotele e della scuola aristotelica, che non a caso rielaborò
in l:itino. Dopo avere a lungo viag- giato in Asia Minore, Apuleio si recò a
Roma dove svolse attività di avvocato, difen- dendo, con successo, molte cause.
Tornato in patria, durante un viaggio da Madaura ad Alessandria, si ammalò ad
Oea (Tripoli), dove fu costretto a trattenersi. Ad Oea entrò in dimestichezza
con Lolliano Avito, proconsole d'Africa e là ritrovò un giovane amico
conosciuto ad Atene, Sicinio Ponziano. Sicinio Ponziano era il figlio maggiore
di Pudentilla, vedova da molti anni di Sicinio Amico. Secondo lo stesso
Apuleio, Sicinio Ponziano lo convinse a sposare la madre, che desiderava
rifarsi una famiglia. La donna era di una diecina di anni piu anziana di
Apuleio, di circa quaranta anni, non 6ella, ma assai ricca. Ebbe allora nemici
i parenti del primo marito· di Pudentilla, i quali avevano pensato di spartirsi
i beni della vedova. Dimostratasi falsa l'accusa che Apuleio avesse ucciso
Ponziano, ch'era nel frattempo morto a Cartagine, i parenti del secondo figlio
giovinetto di Pudentilla, Sicinio Pudente, accusarono Apuleio di avere
costretto la donna al matrimonio usando filtri e incantesimi magici. Apuleio,
trascinato in tri- bunale, davanti al proconsole romano Claudio Massimo,
energicamente si difese, con successo, dall'accusa di magia. La difesa,
pronunciata, nel 158 circa, ~ giunta a noi - certo dallo stesso Apuleio
rielaborata e sviluppata - sotto il titolo Apologia ossia Pro se de magia
liber. Prosciolto da ogni aceusa di magia, Apuleio si ritirò a Cartagine, dove,
per la sua eloquenza, per le sue brillanti conferenze, per la sua capacità di
parlare 50 opere di grande importanza per una ricostruzione
storica del plato- nismo nel u secolo: se da un lato indicano un preciso modo
di inter- pretare Platone, dall'altro lato chiariscono non solo un metodo di
la- voro, ma spiegano anche come per presentare un pensiero di Platone - nel
suo complesso interiormente coerente - che abbraccia tutti i rami del sapere
(filòsofìa), si sia potuto, per alcune parti (la logica in parti- colare) ricorrere
a certi aspetti della logica di Aristotele, reinterpretata attraverso
l'elaborazione formale-linguistica della logica del primo stoi- cismo, in un
recupero di Aristotele in funzione platonica. Scrive Albino, aprendo la sua
Epitomè: Ecco quale potrebbe essere l'esposizione delle principali dottrine di
Platone (rc";)v xup~Cù't'CXTCùV ll:>..IX't'Cùvoc; 30"(!J.tX't'CùV
't'OL«U't"7j 't'~ &v 3~ataxotÀ(« yivo~'t'o). La filosofia è
un'aspirazione [cfr. Platone, Definizioni, 414b; Buti- demo, 275a] alla sàpienza
(l>pEç~ aocp(atc;), o, se si vuole, lo scioglimento dell'anima che si
allontana dal corpo, quando ci volgiamo all'intelligibile e alla verità [cfr.
Pedone, 67d, BOe; Rep., 521c]; la sapienza (O'ocp(«) è la scienza
(br~OTf)!Ll))delle divine e delle umane cose... (Epitomè, l, l). E cosf
conclude l'opera Albino: Queste nostre delineazioni bastano per servire di
introduzione (daatyeù"'{'fj) allo studio della dottrina di Platone (dc;·
TY)v llM't'Cùvoc; 30"(!J.«'t'01toLL«V e:tp-i'ja.&at~)Alcune si
presentano, forse, bene articolate, altre invece mancano di ordine c di
articolazione logica; ad ·ogni modo questa nostra esposizione permetterà di
esaminare le altre dottrine di Platone e di trovarne la spie- gazione (Epitomè,
XXXVI). E dopo avere delineato la vita di Platone e la sua formazione, scrive
Apuleio: In questo nostro trattato cerchiamo di far conoscere le meditazioni,
o, come si direbbe in greco, i dogmi formulati da questo grande filosofo, per
indifferentemente in latino c in greco, saÌl in grandissima fama, tanto che
ancora vivente gli furono erette statue, c fu nominato oratore ufficiale della
città. Mori a Cartagine nel 180 circa. Delle molte opere di Apuleio sono
rimaste: i Florida (un'antologia di discorsi, (XIm- posta di ventitré pezzi),
l'Apolo6ia (Pro se de ma6ia), il De deo Socratis, il De Platone eituque
dogmatis (in tre libri), il De mundo (riclaborazione del De mundo dello pscudo-
Aristotclc), le Metamorphoses l. XI (il capolavoro di Apulcio: un romanzo in
cui si narrano le avventure di un giovane, un ceno Lucio, greco, che
trasformato in asino per magia, ritorna uomo con l'aiuto della dèa Isidc).
Degli scritti perduti si ricordano i seguenti titoli: De arboribus, De re
rustica, Medicinalia, Astronomica, De arithmetica, De musica, Quaestionn conviviales,
De Republica, Eroticos, Epitome historitlrum, Herma- goras. Sembra, infine, che
Apuleio abbia tradotto in latino il Pedone cd alcune opere di Aristotele. utilità
del genere umano, in fisica, in morale, in dialettica. Cosf, com'egli giunse
per primo a coordinare tra di loro le tre parti costitutive della filo- sofia,
anche noi parleremo separatamente di ciascuna di esse, cominciando da quella
parte della filosofia che ha per oggetto la natura (Apuleio, La Dot- trina di
Platon~, I, 5, 190). Se l'intento estrinseco di Albino e di Apuleio è evidente
(presenta- zione in un ordine sistematico delle fondamentali dottrine di
Platone, che serva da introduzione, isagoge, allo studio del pensiero
platonico), altrettanto evidente è il loro intento intrinseco nello scrivere
una "mono- grafia" su Platone: avviamento, attraverso Platone, ad una
filosofia si- stematica, tale che non contraddittoriamente renda conto, in un
solo sapere, dei limiti e dei fini dell'uomo, in funzione di un'unica visione pacificante,
ove ciascuno, consapevole di sé, socraticamente, attuando se stesso,
realizzando sé si possa salvare facendosi simile al divino. "La vi- sione
contemplativa (.&ewp(at)è l'attività della mente (!vtpyeLOt -rou
vou)," dice Albino con termini aristotelici, "che concepisce
gl'intelligibili; l'azione è l'atto di un'anima ragionevole (>.oyLxlj) che
agisce, interme- diario il corpo. L'anima contemplante (&wpouaat) il divino
e le nozioni a lui relative si dice essere un'anima ben disposta, e tale modo
d'essere dell'anima è quel che si è chiamato pensiero (q~p6V1Jau;), che, si
potrebbe dire, non in altro -consiste se non nel farsi ·simile al divino (oòx
~upov et7toL &.v TL<;; e!vat~ njç 7tpÒç TÒ &L"ov
Ò!J.oL6>a&:wç)" (Epitom~,II, 2). Ed Apuleio scrive: "La
filosofia fino. al tempo di Platone divisa in tre sezioni, fu da lui riunita in
un sol corpo. Egli dimostrò che queste di- verse parti erano mutualmente
indispensabili l'una all'altra; e che non solo esse non erano in contrasto, ma
che, anzi, l'una serviva all'altra. Infatti, benché avesse attinto a diverse
scuole questi elementi della scienza filosofica, e cioè: quel che riguarda la
natura ad Eraclito, la logica a Pitagora, là morale a Socrate; di tutti questi
membri distaccati egli seppe tuttavia fare un sol corpo, ed appunto in questo
consiste la sua originalità... Orbene, tale visione sistematica ha una grande utilitl
per il genere umano (1, 3, 187). Vogliate scuotere e agitare Platone: ciascuno,
onorandosi di appli- carlo a se stesso, lo trae dalla parte che vuole"
(Montaigne, II, 12). Nelle parole di Montaigne è implicita un'osservazione
storica di primo piano, e cioè che, appunto, non esiste un
"platonismo," ma tanti "platonismi," ciascuno, almeno in
parte, effettivamente platonico, ciascuno avendo assunto a Platone, uno o altro
aspetto, a seconda della propria esigenza. Ad ogni modo, entro i termini di una
comune problematica, l'impostazione delle opere platoniche di Albino e di
Apuleio, serve non poco ad illuminare le tracce che abbiamo delle altre opere
su Platone, degli 52 altri commenti ai dialoghi platonici che
fiorirono lungo il II secolo, e, ad un tempo, a chiarire, per altro verso, il
significato dei commenti a certe opere precise di Arislotele,·da parte dei
peripatetici del I secolo d. C. fino ad Alessandro di Afrodisia (seconda metà
del II secolo). Innanzi tutto sembra chiaro che, quali che siano le
interpretazioni del pensiero platonico e, di volta in volta, la funzione data
all'esposi~ zione e sistemazione in un unico corpo dottrinario della filosofia
di lui, il primo lavoro sul complesso dei dialoghi platonici e sulle
"filosofie" scaturite dalle molteplici interpretazioni del pensiero
platonico (da quelle di Speusippo e Senocrate a quella di Aristotele, da quella
di Arcesilao e di Carneade a quelle di certi stoici, di Antioco di Ascalona, di
Cice- rone e di Eudoro) sia stato, appunto, un lavoro di sistemazione e di
enucleazione, simile al lavoro che si svolgeva per le altre filosofie, per
presentare dell'una o dell'~ltra un corpo dottrinario coerente e compiuto. Come
durante il I e il n secolo d.C., vediamo, ad esempio, una serie di lavori che
raccolgono insieme, in un sol corpo, le argomenta- zioni degli scettici,
culminanti nella grande opera di Sesto Empirico, le Ipotiposi pi"()fliane,
e come c'incontriamo in una serie di sillogi del pensiero stoico,
particolarment-e difficili, dati i tanti tipi di.stoicismo da Zenone in poi,
per cui tali sillogi del pensiero stoico il piu delle volte presentano un corpo
dottrinario stoico che non ha piu nulla a che fare col pensiero dell'uno o
dell'altro stoico, come si vede bene nella presentazione che dello stoicismo
farà Diogene Laerzio nel VII libro delle Vite; cosi avviene per Platone, per il
corpo platonico e per il com- plesso delle interpretazioni di. lui, ove,
puntando su di uno piuttosto che su di un altro dei molti aspetti del
platonismo, ciascuno dei quali poteva rispondere ad una piuttosto che ad altra
esigenza, si poteva cavarne un tipo di filosofia piuttosto che un altro, pur
usando, ritagliati, testi tratti da tutti i dialoghi, in una ripresa o in un
rifiuto dell'interpretazione che di Platone avevano dato Aristotele o gli
stoici. Se ricordiamo ora il significato che, ad esempio, nel campo medico
avevano assunto le raccolte delle ipotesi e delle tesi, in un tutt'uno che
costituisse il com- plesso del sapere medico, ed a cui, nella descrizione di un
certo com- plesso di fenome~i, raccolti sotto un sol quadro clinico, si dava il
nome di ipotiposi, schema di un qualche sapere (il che presuppone un corpo di
dottrine sparse, un insieme di libri, ove è depositato un certo sapere, dal cui
commento e dalla cui discussione, trarre il "libro"), sembra chiaro
non solo l'intento scolastico di queste opere e commenti plato- nici, ma anche
il loro intento filosofico, l'importanza da essi data al- l'auctoritas. E ciò,
ad esempio, è denunciato non solo dalle opere di Al- bino e di Apuleio, ma
anche dal titolo che fu dato a un corso di lezioni su Platone (opera·, andata
perdut~), tenuto da Gaio a Pergamo, che, raccolto e pubblicato in 9 libri da
Albino, che di Gaio fu discepolo, ebbe appunto il titolo di lpotiposi delle
dottrine platoniche (l'1to-ru1twaeLc; 7tÀ«'r6>VLx&v 3oy(.UX-r6>v; ove
va sottolineato che non è forse un caso che si dica platoniche e non di Platone).
Gaio, vissuto nella prima metà del I I secolo, insegnò a Pergamo, dove ebbe
scolari Albino (metà n secolo), Apuleio (nato nel 125 circa, morto nel 180) e
l'anonimo autore del Commentario al Teeteto. Attraverso il Prologo a Platone
(probabilmente un estratto di un'opera maggiore: cfr. J. Freudenthal, Hell.
Stud., 3, Berlino, 1879) e l'Epitomè o Didascalico di Albino (l'Epitomè fu
ritenuta un tempo opera di un certo Alkinoo: si è oggi dimostrato che Alkinoo
non è mai esistito, e che al posto di Alkinoo va letto Albino; l'equivoco fu
dovuto a un errore materiale, alla confusione in scrittura minuscola tra ~ e x,
risalente al IX secolo: cfr. Freudenthal, op. cit.; P: Louis, lntroduction à
l'Epitomè di Albino, Parigi, 1945, p. xm), ed attraverso La dottrina di Platone
di Apuleio sembra si possa precisare, facendolo risalire a Gaio, un certo tipo
di interpretazione e di sistemazione di Platone. A parte la riduzione del
pensiero platonico ai tre aspetti divenuti canonici della filosofia: teoria
(contemplazione dell'essere: della. teoria, la parte che si occupa delle cause
prime e immobili, di tutte le cose divine si chiama teologia; quella che studia
il movimento degli astri, le loro rivoluzioni e ritorni periodici, e il
costituirsi del cosmo, è la fisica; quella che utilizza la geometria e le altre
scienze analoghe è la matematica: cfr. Albino, Epìt., III, 4); pratica (studio
di quali debbano essere le regole dei costumi, l'amministrazione di una casa,
il modo di governare e sal- vare lo Stato: la prima di queste attività si
chiama etica, la seconda economica, la terza politica: cfr. Albino, Epit., III,
3); logica (analisi dei ragionamenti, detta dialettica, in quanto studio di
come è che si deve ragionare; cfr. Albino, Epit., III, l); ciò che piu
colpisce, nell'in- terpretazione del pensiero di Platone sulla linea indicata
da Gaio è lo sforzo continuo di rendere non contraddittorie, cioè dimostrabili,
e per- ciò razionalmente accettabili, con metodo aristotelico (l'Aristotele dei
Topici, dei Secondi Analitici e del De lnterpretatione: cfr. sopra I volume) le
tesi platoniche esposte in funzione di una visione uni- taria del tutto (il piu
delle volte mettendo in forma, sillogizzando, testi effettivamente di Platone,
ricavate, ad un tempo, in un sapiente montaggio, da dialoghi diversi). Sembra
chiaro cosi perché l'esposi~ zione di quella parte della filosofia platonica il
cui oggetto è lo studio di quale debba essere un corretto pensare, venga
strutturata con il linguaggio e nei termini di alcuni dei libri logici di
Aristotele. Per Albino, anzi, lo studio del retto pensare (ch'egli ricava da
Aristotele) sarebbe stato il punto di partenza di Platone, per avviare a
comprendere da un lato i principi e le cause prime del tutto, dall'altro lato
il posto che nell'ordine del tutto ha da assumere l'uomo, nei confronti di quel
tutto e nei confronti degli altri uomini. E per altro verso Apuleio, dopo avere
esposto nel I libro della sua Dottrina di Platone la "filosofia
naturale" e nel II la "filosofia morale," dedica il III alla
logica ricavando tutto ciò che dice- perfino gli esempi- dal De lnter-
pretatione di Aristotele, tanto che si è dubitato che il libro III sia davvero
di Apuleio. La questione, forse, si fa piu chiara quando si pensa a quello che
fu il lavoro di Aristotele nei confronti dell'ultimo Platone. Quali che siano
state le soluzioni di Aristotele, certo è che quella di Aristotele fu, almeno
in principio, una delle possibili inter- pretazioni della tematica platonica,
che - prendendo le mosse dal- l'interpretazione metodologica del Platone del
Teeteto, del Parmenide e del Sofista - tendeva a risolvere le aporie platoniche
- essere uno e idee, idee separate, rapporto tra l'uno e i molti, tra
l'impossibilità di pensare le forme senza contenuti, e i contenuti senza forme
- in uno studio sistematico di quelle che sono le condizioni logiche che
permet- tendo un tipo di discorso non contraddittorio risolvessero quelle
aporie stesse, assumendo come vera quell'ipotesi che non fosse piu oppugna-
bile. Aristotele giunse dove giunse, ma intanto il suo metodo d'inter-
pretazione e di discussione dialettica delle ipotesi, per determinare i
principi non piu discutibili da cui trarre discorsivamente ciò che in essi è
implicato, poteva servire all'analisi delle tesi platoniche per ren- dere giustificabile,
cioè razionalmente deducibile, e per ciò stesso con- vincente, quello che
sembrava l'intento fondamentale di Platone ed in particolare il punto cruciale
e piu equivoco del pensiero platonico, il rapporto essere-idee,
unità-molteplicità, che, assunto in termini aristo- telici, si poteva ritener
risolto da Platone nel Timeo. b) l commentatori di Aristotele: Alessandro di
Ege, Aspasia, Adra- sto di Afrodisia, So'Sigene, Ermino, Aristocle di Messene.
A tale propo- sito, anzi, non va dimenticata qui l'influenza che tra il I e il
11 secolo, aveva avuto l'edizione del corpus aristotelicum dovuta ad Andronico
di Rodi,6 che dette luogo, in un progressivo accantonamento delle prime opere
di Aristotele, ad una serie di commenti e di. introduzioni ad una lettura di
Aristotele. Purtroppo dei commentatori del 1 secolo e di alcuni 6 Su Andronico
di Rodi si veda sopra. Ad Andronico di Rodi, che, successo a Erimneo, fu
scolarca del Liceo, in Atene, tra il 70 e il 60 a. C., successero: sul 45
circa, Cratippo di Pergamo; sotto Augusto, Xenarco di Seleucia, che insegnò
anche ad Ales- sandria e a Roma; nel 1 secolo d. C., Menefilo; tra il 120 e il
160 circa d. C., Aspasio, Ermino, Alessandro di Damasco, Aristocle di Messene,
Sosigene. Della loro vita non sappiamo niente di preciso. del n non sono
rimaste che testimonianze e la precisazione di quali opere di Aristotele hanno
commentato. Ma sono già indicazioni assai interessanti. Di Alessandro di Ege,
vissuto nel I secolo, che sembra sia stato tra i precettori di Nerone (cfr.
Suda, s.v.), sappiamo che compose un commento alle Categorie di Aristotele, in
cui ne sosteneva il signi- ficato formale linguistico, assumendole quali
condizioni di possibili giudizi e fondamenti logici della po~sibilità del
reale, determinando la struttura dell'universo (e in tal senso sembra abbia
commentato il De coelo). Di Aspasio - vissuto presumibilmente nella seconda
metà del I secolo sappiamo che commenta le Categorie, il De lnterpretatione, il
De coelo, parti della Metafisica e l'Etica Nicomachea (di quest'ultimo commento
è rimasto un frammento: in Commenl. in Arin. graeca, XXIX, I, Berlino, 1889).
Di Adrasto di Afrodisia, fiorito, come sembra, nella prima metà del n secolo,.
ritenuto dagli antichi uno dei maggiori interpreti di Aristotele, sappiamo che
scrisse un'opera per delineare quale doveva essere l'Ordine degli scritti di
Arinotele (cfr. Galeno, XIX, 42 sgg. in Gercke, Pauly-Wissowa, R.E.) e che
sosteneva doversi porre al principio di tali scritti, a mo' di introduzione e
quale condizione me- diante cui comprendere la via metodologico-logica
attraverso cui Aristo- tele giunge a determinare la propria posizione, le
Categorie e i Topici, mentre, per altro verso, usando il metodo di Aristotele
commentava il Timeo di Platone (cfr. Porfirio, In Ptol. harm., ed. Wallis,
Opera malh., III, 270) e dava un quadro generale, entro questi termini, del
sapere astro- nomico fino a Ipparco di Nicea (cfr. Teone di Smirne, Conoscenze
mate- matiche utili a una lettura di Platone, III). Di Sosigene, vissuto nel II
secolo, sappiazpo che commentò la logica di Aristotele, cercando, a quanto
pare, di renderne conto in termini matematico-formali, risolvendo quindi in
termini geometrici la teoria delle sfere e della visione. Anche Erminio,
vissuto nel u secolo, discepolo di Aspasio, com- mentò particolarmente i libri
logici (Categorie, De lnterpretatione, Analitici primi, Topia), sostenendone il
valore formale. Cosi, sembra, sottolineando la contraddizione che v'è nel porre
Dio motore immo- bile e il movimento dato da esso al tutto, Erminio
interpretava, nel suo commento alla Fisica, il dio aristotelico come condizione
logica, l'atto primo cui tutto aspira, per cui bisogna supporre non Dio che
muove, ma la realtà tutta che si muove, in quanto ha in sé un'anima: ed Erminio
sosteneva che tale era il significato dell'anima mundi del Timeo di Platone. 56
Su questa linea non sembra perciò un caso che il siciliano
Aristocle di Messane (u secolo) potesse sostenere, come appare dai frammenti
(in Eusebio, Praep. ev., Xl, 2,6; XIV, 17-19; XV, 1,13 e 14, l sgg.) rima-
stici dalla sua Storia della filos_qfia, che tra Platone e Aristotele v'era un
perfetto accordo (cfr. Alessandro di Afrodisia, De anima, Il, 110, 5-113 ed.
Bruns), e che l'aristotelismo si poteva delineare come l'in- terpretazione
logica del platonismo (del resto, pare, tesi già soste- nuta fin dal I secolo
a.C. sulla scia di Antioco di Ascalona, e in chiave stoica, da Eudoro, da Ario
Didimo, da Aristone di Aless;m- dria, che commentò gli Analitici e le Categorie
e da Alessandro di Ege, del I secolo d. C., anch'egli commentatore delle
Categorie). Cos{, anche gli aristotelici del 1 e della prima metà del II secolo
tendono a una interpretazione e familiarizzazione dell'universo, in una visione
unica del tutto, a cui doveva servire la filosofia, intesa, ora, come scienza
delle scienze, avente il suo criterio nell'analisi dei discorsi, per cui non a
caso al complesso dei libri logici di Aristotele fu dato il nome di "stru-
mento" (6rganon). E ciò, per quel che ne sappiamo, è denundato dall'in-
teresse per certi libri logici (Topici, Categorie, Secondi analitiet) e per la
Fisica e il De coelo di Aristotele, messi accanto al 'fimeo dì Platone. At-
traverso lo studio dei "luoghi" argomentativi si cercava di
determinare le possibilità del discorso scientifico - indipendentemente da uno
o altro contenuto - che poteva dar luogo a deduzioni, linguisticamente cor-
rette (donde la ripresa della genesi del discorso qual'era stata formu- lata
dai primi stoici, per rendere possibile la predicazione), sulla strut- tura e
l'ordinamento del tutto, che si poteva, perciò, interpretare in chiave stoica
(vedi De mundo dello pseudo:Aristotele) e in chiave pla- tonica, risolvendo il
mondo delle idee - il punto piu problematico di Platone - in intellezioni in
atto della stessa sostanza una, cioè del divino, il quale non è in quanto sia
qualcosa, ma in quanto ragion d'essere in atto del tutto, cui tutto per
esistere deve conformarsi, per cui l'essere è presente nelle cose in quanto
forme e tutte le trascende m quanto forma delle forme (ed è perciò incorporeo).
c) Il «platonismo11 di Albino. Teone di Smirne. Entro questi ter- mini si fa
chiara la soluzione dell'aporia platonic~ uno-idee, idee-cose molteplici, di
cui già troviamo traccia fin dal I secolo a.C., ma che nell'Epitomè di Albino6
ha la sua formulazione piu esatta, e nella maniera che diverrà poi tipica di
una certa tradizione platonica. Dopo avere discusso gli elementi e le funzioni
della dialettica, distinguendone le varie parti (divisione, definizione,
analisi, induzione e sillogismo, 6 Sulla vita di Albino vedi sopra. 57 significato del linguaggio),
e, dopo aver determinato attraverso essa le condizioni delle singole scienze
(aritmetica, geo~etria, stereometria, astronomia, musica) mediante cui giungere
ai primi principi e cause, condizioni non piu dialetticamente oppugnabili, da
cui dedurre tutta la struttura e il costituirsi dell'universo, dice, dunque,
Albino: Dopo di che, seguendo il nostro piano, bisogna parlare dei principi e dei
precetti della Teologia. Prendendo le mosse da questi primi problemi, passeremo
ad esaminare l'origine del mondo e di qui giungeremo all'origine e alla natura
dell'uomo. Parliamo innanzi tutto della materia [{));'): il ter- mine è ripreso
chiaramente da Aristotele]. Platone le dà i nomi di "porta-
impressioni" (èx!l4yei:ov), "ricettacolo universale,"
"nutrice," "madre;· "spazio," (xwpat), sostrato
incapace di sentire e che non è afferrabile se non con un ragionamento bastardo
[cfr. Timeo, 50c, 5Ia, 49a, 52d, 88d, 50d, 5Ia, 52a-d]. La sua funzione propria
è di ricevere i frutti di ogni nascimento e di avere il compito di una nutrice
che tutti li accoglie nel suo seno e ne prende tutte le forme, nonostante essa,
per sua natura, sia senza figura, senza qualità e senza forma... [appunto per
poter ricevere tutte le forme]. La materia perciò non è né corporea né
incorporea: essa è un corpo solo virtualmente, sf come si può dire del bronzo
che è virtualmente una statua, poiché non ha che da ricevere una certa forma
per essere una statua [evidente riferimento ad Aristotele: Metafis., IV, 2;
Fisica, Il, 3] (Epitomè, VIII). Oltre alla materia, che costituisce un primo·
principio, Platone ne ammette altri: uno consiste nei paradigmi, cioè nelle
idee, l'altro nel padre e causa di tutte le cose, cioè Dio. L'idea, in rapporto
a Dio, è l'intellezione di lui stesso (la·n 8è ~ t8éat 6>c; (Ùv 7tpÒç.8-eòv
v61jatc; otÙ-rou); in rapporto a noi è il primo intelligibile; in rapporto alla
materia, la misura; al mondo sensibile, il paradigma; relativamente a se
medesima, allorché si esamina, è l'essenza (oùa(ot)....Le Idee sono le
operazioni eterne e perfette in sé della intellezione divina. E che le idee
siano lo si può stabilire cosi: posto che Dio è una mente o un essere pensante,
egli l}a dei pensieri e tali pensieri sono eterni e immutabili: se còsf è, le
Idee sono. D'altra parte, se la materia non può misurarsi da sé, è necessario
ch'essa trovi tale misura altrove, in qualcosa di piu eccellente, e di non
materiale: ammesso l'antecedente ha da esserci il conseguente: le idee dunque
esistono e sono misure immateriali. Non solo, ma se il mondo quale è non esiste
in virtu di una causa fortuita, è stato fatto non solo di un qualcosa, ma anche
da qualcosa e mediante qualcosa. E ciò mediante cui è stato fatto, cosa è se
non l'Idea? Le Idee dunque esistono.... Di qui anche il terzo principio che
Platone considera come quasi inesprimibile. Noi possiamo tuttavia afferrarlo
grazie al seguente ragionamento: se gli intelligibili sono e se non cadono
sotto i sensi né par- tecipano del mondo sensibile, ma ai primi intelligibili,
i primi intelligibili sono in senso assolutlo, sf come sono i prirlli
sensibili. Ammesso questo, si deve ammettere anche tutto ciò che ne consegue.
Dato che gli uomini sono un complesso di impressioni sensibili tanto che
perfino quando si propon- 58 gono di concepire l'intelligibile, vi
mescolano qualche apparenza sensibile, come l'idea di grandezza, di figura o di
colore che essi spesso vi aggiun- gono, è loro impossibile concepire con
purezza l'intelligibile: gli dèi invece si liberano dal sensibile e
concepiscono l'intelligibile in forma pura e sem- plice. D'altra parte, poiché
l'intelletto è superiore all'anima e al di sopra dell'intelletto in potenza (!v
3uvoc(Ut) si trova l'intelletto in atto (xcx-r' hépy&Lotv) ed è sempre in
attività, poiché piu grande ancora è la bellezza di ciò che ne è la causa e che
è superiore a tutto il resto, ecco il primo dio, il motore che fa agire senza
interruzione l'intelletto del cielo intero. Tale primo intelletto deve, dunque,
concepire sempre se stesso ad un tempo concependo i propd pensieri, ed è in
tale attività dell'intelletto che con- siste l'Idea. Il primo Dio, dunque, è
eterno, indicibile, perfetto in sé, cioè sertza bisogni, sempre in sé compiuto,
cioè perfetto in tutti i tempi, ovunque perfetto, cioè perfetto in tutti i
luoghi. Esso è la divinità, la sostanzialità, la verità, la proporzione, il
bene. E non dico q'lesti termini per separarli, ma per far concepire, mediante
la loro unione ch'esso è un tutto unico... Dio è indici- bile ed afferrabile
solo con l'intelletto, come abbiamo detto, poiché egli non è né genere, né
specie, né differenza specifica e neppure può subire acci- denti... Egli non è
qualità, perché è estraneo ad una qualità e la sua perfe- zione non è dovuta a
una qualificazione; non è assenza di qualità, poiché non manca delle qualità
che possono essergli proprie; non è parte di qual- cosa né un tutto che abbia
parti, non è identico a una o ad altra cosa... esso infine non dà né riceve
movimento. Attraverso queste successive costruzioni si avrà una prima idea di
Dio, come si giunge a concepire il punto facendo astrazione dal sensibile,
muovendo dall'idea di superficie, poi da quella di linea, per giungere infine al
punto. Ancora:. ci possiamo fare un'idea di Dio procedendo per analogia...:
come il sole non è la vista, ma permette alla vista di vedere e agli oggetti
d'esser veduti, cosi il primo intelletto non è l'intelletto dell'anima, ma dà
all'intelletto dell'anima la facoltà di conce- pire e agli oggetti
intelligibili d'essere concepiti, illuminando la verità ch'essi contengono.
Esiste un terzo modo di farsi un'idea di Dio: [dalla contem- plazione del bello
che risiede nei corpi, passare alla bellezza dell'anima e di qui al bello che è
nei costumi e nelle leggi, per risalire infine al vasto oceano del bello... ]
(Epitomè, VIII- X). Il testo di Albino è certo molto chiaro per renderei conto
di un tipo di interpretazione della problematica di Platone relativa al rap-
porto Uno-idee, idee-cose, problematica che si risolve attraverso uno degli
aspetti della logica aristotelica. Eliminando via via le contrad- dizioni si
giunge a porre come· condizioni non contraddittorie della pensabilità del reale
da un lato l'informe, dall'altro l'intelligibile in atto, l'essere come
pensiero in atto; il cui discorso è la stessa realtà, ripercorrendo la quale si
arriva a cogliere l'atto pensante, appunto in sé indicibile, perché sempre in
atto discorso intiero, ma da cui si ridi- scende a tUtti i nf'ssi che
costituiscono la trama e il ritmo su cui si 59 scandisce la
realtà, sempre in atto allorché s'intende l'Uno pensiero, e perciò eterna,
processo e tempo, in quanto se ne ripercorrono le trame su cui appunto la realtà
si costituisce. In tal senso Dio, la prima essenza, il ciò senza di cui nulla è
(causa, per cui grammaticalmente il verbo, l'è, la sostanza è la condizione
della predicabilità), viene a porsi, in chiave aristotelica, come la condizione
logica che rende pen- sabile la realtà, e, appunto perciò, pensiero di
pensiero, intellezione in atto e, dunque, sempre in atto aggettivazione (e, per
questo, idee sono dette le aggettivazioni dell'intelletto in atto, del primo
intelletto), onde incorporeo, cioè non cosa è Dio, non forza fisica, ma pura
intel- ligibilità. Assume qui un suo particolare significato l'opera di Teone
di Smirne,T vissuto nella prima metà del n secolo (egli cita a lungo Adra- sto,
si serve del suo commentario al Timeo e delle sue teorie astro- nomiche, ma non
cita Claudio Tolomeo), intitolata TC>v xct-r« -ro !J4&1liJ4-rLxllv
lP7JcniL(a)V dc; -rljv llM-r(a)voc; clvtiyv(a)aLv (Conoscenze matematiche utili
alla lettura di Platone). L'opera di Teone di Smirne, giuntaci quasi intera, si
muove, per l'intento e per i risultati, entro l'àmbito del pensiero di Gaio e
di Albino. È anch'essa una introdu- zione a Platone, per giungere, attraverso
un certo modo di leggere Platone, a farsi simili alla divinità (npllc; -rllv
&ellv 61Lo((a)aLt;), sapendo rendersi familiari a sé e al mondo, come già
Gaio diceva, riprendendo u n termine stoico (otxe((a)ar.t;, oichéiosis). Sotto
quest'angolo visuale, Teone, rifacendosi alle cinque scienze da Platone
indicate come fon- damentali per la formazione del filosofo (ma si veda anche Nicomaco
di Gerasa), fa un'ampia esposizione in forma sistematica delle varie teorie
svoltesi nel tempo, costituenti, insieme, l'aritmetica, la geome- tria piana,
la stereometria (geometria solida), l'astronomia e la teo- ria musicale. Nel
timore che coloro, che non hanno avuto la possibilità di coltivare le
matematiche e che tuttavia desiderano conoscere gli scritti di Platone, non
siano costretti a rinunciarvi, daremo qui un sommario e un riassunto delle
conoscenze necessarie e la tradizione dei teoremi matematici piu utili sul-
l'aritmetica, la musica, la geometria, la stereometria e l'astronomia, scienze
senza le quali è impossibile essere perfettamente felici, come Platone dice
[Epinomide, 992a], dopo avere a lungo dimostrato che non si debbono tra-
scurare le matematiche (l). L'opera di Teone, preziosissima per una
ricostruzione della storia delle singole scienze trattate, particolarmente per
l'astronomia, è pre- T Quasi nulla sappiamo ddla vita di Teone di Smirne 60
ziosissima anche come indicazione della traduzione sul piano
scientifico della teoria platonica in termini aristotelici, in una sistemazione
del- l'universo che permetta calcoli e misure, e che, riprendendo e ordi- nando
in un unico sapere le varie tesi, susseguitesi nel tempo, da Ari- stotele a
Ipparco di Nicea e Adrasto, è l'indice di quello che sarà poco tempo dopo il
grande lavoro di Claudio Tolomeo. Ad ogni modo, entro la linea di questi
platonici (Gaio. Albino, Teone), sembra chiara la loro opposizione alla
riduzione stoica del divino a forza egemonica, annullante il divino nello
stesso processo del mondo, anche se sul piano del mondo e della organizzazione
e qualificazione del reale, della funzione dinamica dell'"anima
mundi," del tutto vivente, il discorso poteva essere talvolta simile a
quello di certi stoici e del loro modo di interpretare il Tim~o (cfr. Ario
Didimo, ad esempio, che fu tenuto presente da Albino: si veda il principio del
XII capitolo dell'Epitome?· ricalcato da Ario Didimo, in Eusebio, Pra~p. ~v.,
XI, 23; e, per altro, il D~ mundo di Apuleio, ricalcato sul De mundo dello
pseudo-Aristotele). d) Il « platonismo" antiaristotelico di Calvisio Tauro
e di Attico. Nicostrato. Arpocrazione. Oltre all'opposizione nei confronti
dello stoi- cismo ontologico, da quanto è stato sopra detto si delinea anche
l'oppo- sizione ad un certo Aristotele, che chiaramente possiamo notare in un
altro gruppo di commentatori di Platone,8 facente capo a Calvisio Tauro (il
quale resse, in Atene, l'Accademia al tempo di Adriano e di Antonino), e proseguitosi
con Attico - fiorito nella seconda metà del II secolo, autore di un commento al
Fedro e al Timeo: Proclo, In Tim., 315a,- successo, pare, a Calvisio Tauro, ç
con Nicostrato- fio- rito tra il 160 e il 170. - Se il fenicio Calvisio Tauro,
nato a Berita, sembra che abbia, per quelle poche testimonianze che abbiamo su
di lui, non solo opposto Platone agli Stoici (Discrepanze della Stoà ri- spetto
a Platone: cfr. Aulo Gellio, XII, 5, 5), ma anche Platone ad Aristotele, in una
sua opera (perduta) intitolata ·TratttftO sulla diffe- renza delle scuole di
Platone e di Aristotele (Aulo Gellio, XII, 5, 5), tale opposizione risulta
certa dai frammenti che Eusebio (Praep. ev., XI, 1-2; XV, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 12,
13) ci ha conservati delle opere di Attico. Anche se troppo frammentari sono i
testi riportati da Eusebio per poter ricostruire il pensiero di Attico, senza
dubbio essi indicano, tuttavia,. che l'opposizione di questi platonici ad
Aristotele si svolgeva sull'inter- 8 Poco o nulla sappiamo della vita dei platonici
di Atene, Calvisio Tauro, Attico, Arpocrazione, cui ~ legato N"~eostrato.
Calvisio Tauro e Attico, di cui fu discepolo Arpocrazione, furono scolarchi
dell'Accademia, ad Atene, tra Adriano e Marco Aurelio. 61
pretazione ch'essi davano da un lato delle categorie e dall'altro lato
dei libri fisici di Aristotele, entro i termini dell'ultimo Aristotele. Se
invece di puntare sulle Categorie in senso formale e grammaticale, si punta
sulle Categorie, supponendo la teoria della sostanza in senso aristotelico (come
fece Nicostrato, che, sembra, seguendo l'opera di un certo Lucio suo
contemporaneo, violento critico delle categorie ari- stoteliche, vedeva nelle
categorie di Aristotele la negazione del trascen- dente platonico: cfr.
Simplicio, In Categ., I, 19 sgg. 73, 15 sgg. 76, 14 sgg.), si capisce come si
potessero interpretare certe conclusioni aristoteliche quali negatrici di una
provvidenza, di una distinzione tra intelligibile e sensibile, dell'immortalità
dell'anima, di una divinità autrice del mondo, per cui si poteva sostenere, di
contro alla religiosità platonica, che Aristotele è ateo sf come lo sono gli
Epicurei, o che Aristotele risolve il divino nell'attualità del tutto, facendo
di Dio un termine puramente logico. "Platone," esclama Attico,
"per non privare il mondo della Provvidenza, dichiarò che questo mondo non
è ingene- rato. Ora, noi esortiamo quei platonici che sostengono che il mondo,
secondo l'insegnamento di Platone, non è stato generato, a non met- terei nelle
difficoltà... A tale tesi li ha indotti Aristotele..., per il quale il mondo è
ingenerato [e· quindi uno in Dio], e pér cui è neces- sario che ciò che ha
avuto un'origine perisca e che imperituro è solo ciò che non è stato generato,
ond'egli non concede a Dio neppure il potere di fare il bene..." (in
Eusebio, Praep. ev., XV, 6). "Aristotele cosi annulla la speranza
dell'anima e distrugge anche la pietà verso gli esseri superiori... e la fede
nella Provvidenza, guida per la vita umana... e supponendo quindi che per
l'uomo dopo la sua morte U.:':to sarà morto con lui, eccita gli uomini a
soddisfare i proprt appetiti... Se egli, dunque, non ammette nulla al di fuori
del mondo, ed esclude gli dèi da ogni relazione con gli avvenimenti della
terra, è necessario che si professi decisamente ateo o che difenda la sincerità
del suo atei- smo relegando gli dèi dove li ha posti. Epicuro, da parte sua,
quando nega la provvidenza degli dèi dicendo che non hanno rapporti con il
mondo, sembra voler giustificare con questo il suo ateismo..." (in Euse-
bio, Praep. ev., XV, 5, 3 sgg.). Di qui, secondo le testimonianze di Proclo (In
Tim., 41d), la tesi di Attico, per il quale Platone avrebbe da un lato posto
una materia informe, agitata e resa viva da una potenza irrazionale e,
dall'altro lato, il Bene, il divino tutto in atto nel Demiurgo, che dà ordine e
misura alla materia. Termini intermedt tra il divino, causa e principio primo
(padre) e la corporeità, intesa come limite e dispersione e perciò come radice
62 del male, avrebbe posto Arpocrazione di Argo - commentatore del
Timeo, del Pedone, dell'Alcibiade Maggiore, e autore di un'antologia di massime
di Platone, - discepolo di Attico (Proclo, In Tim., 93c). Egli, cioè, tra il
Padre, causa prima e immobile, e il corpo (informità e limite), avrebbe posto una
seconda divinità, il facitore, il poietès, mediante cui si realizza nell'ordine
il k6smos; ordine che egli - volto da un lato al Padre, dall'altro alla materia
- dà alla corporeità, riflet- tendovi le idee. Il cosmo cosi viene ad essere un
terzo ente divino, in quanto idea di mondo presente alla mente del poietès
(cfr. Proclo, In Tim., 93b; Giamblico, De anima, in Stobeo, Ecl., I, 49, 37:
ed. Wach., I, p. 375,15, e 380, 14). Anche se solo in forma indicativa, è
sembrato opportuno sottoli- neare le molte venature con cui si presenta nel
corso del n secolo ·il cosiddetto "platonismo medio." Emerge cosi
l'opposizione tra due in- terpretazioni del pensiero platonico. L'una,
determinandone la non contraddittorietà, punta, mediante il metodo aristotelico,
sul dio di Aristotele, inteso come attualità in atto di tutta la realtà,
condizione logica (e in tal senso trascendente e incorporeo) e finalità, cui
tutta la realtà, che·presuppone l'altra condizione logica della materia come
potenzialità, tende (onde immobile e motore è la divinità), realizzando in sé
gl'intelligibili, le forme; l'altra, viceversa, vede nèlla possibile tesi
aristotelica, anche se in termini diversi, un'interpretazione di tipo stoico,
annullante, appunto, il divino nelle stesse categorie, e, perciò, nello stesso
ritmo in cui si scandisce la realtà. Tale contrasto, se da un lato sembra
chiarire il significato dell'appello a Platone e dell'interesse per la logica
aristotelica, dall'altro lato è fondamentale per capire sia gli sviluppi di un
certo approfondimento nell'interpretazione di Ari- stotele (Alessandro di
Afrodisia), sia gli sviluppì, sul piano dei com- menti a Platone e ad
Aristotele, di una certa interpretazione di Platone (da Numenio di Apamea a
Platino), ove fin da ora va detto che viva rimase la questione del come
interpretare le categorie di Aristotele (ricordiamo, su tale piano, la
discussione tra Platino e il suo discepolo Porfirio; Platino, VI, Enn., l sgg.,
nega il valore delle Categorie, dei generi sommi, di Aristotele, annullando
l'Uno platonico; Porfirio le riprenderà dando ad esse un valore formale
linguistico e non antico), proponendo, per altro, il platonismo come l'unica
ipotesi non contrad- dittoria per spiegare la realtà in tutto il suo complesso
(non a caso Platino, in nome della tradizione razionalistica greca, scriverà
finis- sime pagine Contro gli gnostici, in Enn., 2, 9, respingendo ogni tipo di
"rivelazioni speciali"). 63 e) Alessandro di Afrodisia,
il "secondo Aristotele.» Nel conflitto dell'interpretazione di Aristotele
sembra.essersi posto Alessandro di Afrodisia,8 vissuto nel 11 secolo, discepolo
di· Sosigene, di Ermino e di Aristocle di Messene (cfr. sopra), che tennero lo
scolarcato del Liceo, in Atene, tra il 150 e il 190, e a cui nel 190 circa
successe Alessandro. Alessandro commentò tutti i libri logici di Aristotele
(sono rimasti i commentari agli Analitici primi, ai Topici, agli Elenchi
sofistici: in "Commentaria in Arist. graeca," II, Berlino, 1883-98),
la Metafisica, il De coelo, il De generatione, la Meteorologia e il De sensu
(sono rimasti i commentari alla Metafisica, in "Comm. graec.," l,
1891; al De sensu e al Meteor., in "Comm. grae'c.," III, 1899-1901),
e, oltre che nei commenti, chiari la propria interpretuione in un Trattato
sulfanima (in 2 libri) (De anima liber cum mantissa), nel De fato, nel De
mixtione e nei quattro libri delle Questioni controverse e solu- zioni sulla
fisica e sulla morale (in "Supplementum arist.," Il, 1892).
L'interpretazione che Alessandro dà di Aristotele è netta e precisa; sempre
fondandosi sui testi, muovendo dalla tesi basilare di Aristo- tele, che
discorso scientifico è possibile solo muovendo da principi" posti non
contraddittoriamente, Alessandro respinge ogni soluzione che nello spiegare la
ragion d'essere, il perché delle cose, ricorra a salti, o a inter- venti
extrarazionali. Sotto questo aspetto egli respinge l'interpretazione
aristotelica in chiave platonica, per sottolineare dell'aristotelismo da un
lato l'aspetto piu strettamente metodologico della ricerca in una chiara
determina- zione del retto uso dei termini (essenziali~, causa, forma, materia,
sinolo, potenza, atto: cfr. sopra I vol.), e attraverso tale retto uso, dal-
l'altro lato, l'aspetto piu decisamente - se cosi vogliamo dire - • natu-
ralistico logico" dell'ultimo Aristotele (cfr. I vol.), pu~1tando sul
motivo della "essenzialità" come "sinolo," delle forme che
sono tali in quanto "forme di," ove, perciò, l'attualità è.posta come
presupposto logico, e fine ultimo, ma per ciascuna essenzialità nella sua
specie, onde reali sono gli individui, in senso aristotelico (cfr. I vol.), e
le forme, in' quanto separate, sono reali per sé solo come termini mentali,
cioè come astrazioni presenti al pensiero, sf come, presa a sé lo è la
"materia," e, alla fine, lo stesso Dio, condizione logica
dell'attualità in atto di tutta la realtà (cfr. I vol.). Entro questi termini,
appare chiaro il filo seguito da Alessandro nella lettura dei testi
aristotelici. Per esso, e per non ripeterei, rimandiamo a una parte
dell'esposizione già fatta di Aristo- tele (cfr. vol. I), mentre va detto come
al lume di questa interpreta- 8 Alessandro nacque ad A&odisia, in Caria,
sulla prima metl del n secolo. Visse ad Atene, dove entrò al Liceo, di cui
divenne scolarca alla morte di Sosigene. 64 zione, sembra
abbastanza chiara la celebre soluzione data da Ales- sandro alla questione del
rapporto intelletto agente e intelletto passivo. Posto, con Aristotele, che
l'anima è "entelechia prima di un corpo naturale che ha la vita in potenza,
cioè di un corpo chè- sia organico," per cui l'anima, nelle sue tre
funzioni (vegetat~va, sensitiva, intellet- tiva} non è separabile dal corpo, e
ripercorso con Aristotele il processo per cui dal sentire si passa
all'intendere, e posto il fatto che l'uomo è attività intellettiva, Alessandro
puntando sull'intelletto come funzione, per cui si può sostenere che non è
mescolato al corpo, ma è condizione, possibilità naturale dell'intendere,
afferma che l'intelletto, appunto in quanto possibilità e dunque materia di tutte
le forme, potenzialmente, è intelletto "naturale" o
"materiale" (fisico o ilico, ÙÀLx6c;) (cfr. De anima, I, pp. 81~84,
ed. Bruns). D'altra parte, sempre in termini aristo- telici, la facoltà
d'intendere se da un lato si pone come condizione o materià dell'intellezione,
dall'altro lato implica, attraverso una serie di atti intellettivi, non solo la
potenzialità naturale d'intendere (tutti gli uomini, ad esempio, in quanto tali
possono imparare a scrivere, per cui la scrittura in questo senso è una capacità
naturale, materiale dell'uomo}, ma l'abito d'intendere, per cui, accanto
all'intelletto "ilico," Alessandro pone l'intelletto in abito, o
acquisito (xcr:r'!~Lv, ~1t(xu-toc;) (chi non ha imparato a scrivere resta
capace di scrivere in potenza, ma chi ha imparato e ora non scrive ha,
tuttavia, l'abito dello scrivere, è capacità di scrivere per abito o per
acquisizione). Se l'intelletto ilico e l'intelletto epittetico sono due
aspetti·dell'unico intelletto umano, il suo realizzarsi nelle intellezioni, in
questa o quella intellezione, di que- sto o quell'uomo, implica un'altra
condizione, e cioè l'intelletto agente (vouc; 7tOL1)'t'Lx6c;), la forma
dell'intendere, ciò che fa sf che l'intelletto (ilico-epittetico) divenga
gl'intelligibili. Potenziale l'intelletto, potenziali gl'intelligibili,
l'intellezione, implica l'attualità dell'intendere, che, ap- punto, in quanto
tale (non essendo né questa né quella intellezione dovuta a questo o a
quell'individuo, ma la forma dell'intendere) è sepa- rata, nel senso che "
separato," in quanto attualità degli atti, è Dio per cui, Alessandro,
seguendo il testo di Aristotele del De generatione animalium (II, 736b, 27-28),
in cui Aristotele sostiene che l'intelletto attivo viene dal di fuori
(&Upor.3&V) e che esso solo è divino, sostiene che l'intelletto
poietico è divino. Si capisce cosf come sia da parte platonica sia da parte
stoica si è affermato che Alessandro non solo ha negato la realtà di Dio, posto
solo come condizione logica, ma anche la realtà dell'anima non solo di quella
individuale e dell'intelletto ilico ed epittetico, dipendenti dalla
sensibilità, ma anche dell'intelletto agente che non essendo affatto proprio
dell'uomo si annulla nell'attualità di Dio, pensiero di pensiero, anch'esso a
sua volta riducentesi a una pura astrazione mentale, in una definitiva
negazione della realtà dell'anima. Ma proprio questo rende chiaro il senso
della polemica di Alessandro sia nei confronti dei plato- nici sia nei
confronti degli stoici, i quali, dogmaticamente, cioè se_nza una deduzione da
principi veraci perché non contraddittori, rifacendosi gli uni e gli altri al
pitagorismo, sostengono la realtà di una sostanza spirituale e di essa un
aspetto negli individui (realtà delle anime). In tal senso assume un
particolare interesse la polemica di Alessandro contro coloro che ritengono
esservi la sostanz~ dell'anima. Di qui anche la pole- mica di Alessandro contro
la Provvidenza degli stoici e dei platonici, che ammettendo un continuo
intervento del divino, non solo sostanzia- lizzano e antropomorfizzano dio, il
che è logicamente contraddittorio, ché Dio, attualità degli atti, e forma delle
forme, in atto tutte le possi- bilità, è al di là del bene e del male, è
termine ideale dell'attuarsi in ciascuna specie della propria perfezione, onde
esso è indifferente rispetto a ciascuna realtà, ma anche negano quella stessa
spontaneità e vitalità che sul piano del mondo animale, nel fenomeno umano
indica alla fine l'azione non determinata e, quindi, la deliberazione. Quella
che i plato- nici chiamano Provvidenza e azione diretta di Dio, sottolinea
Alessan- dro, è non altro, in realtà (sia sul piano dei cieli e dei movimenti
per- fetti, sia sul piano del mondo sublunare) se non un rapporto di causa ed
effetto. f) Severo, Apuleio, Albino, Celso, Numenio di Apamea. Se in Arpo-
crazione si vede bene il tentativo di mediare l'antiaristotelismo dei plato-
nici tipo Calvisio Tauro e Attico (in polemica forse nei confronti dell'ari-
stotelismo tipo Alessandro di Afrodisia) con il platonismo aristotelico tipo
Albino (forse quei tali "platonici" che Attico dice sedotti da
Aristotele), tanto meglio tale tentativo si fa chiaro, da un lato con
l'interpretazione' data da Severo delle categorie stoiche, dall'altro lato, con
il significato, in uno sviluppo della simbolica pitagorica in termini di logica
(e rifa- cendosi a Moderato di Cadice), dato ai tre aspetti con cui si presenta
la realtà (Dio, Demiurgo, Mondo), da Numenio di Apamea. Di Severo, della cui
vita non abbiamo alcuna notizia, ma che sembra vissuto sulla metà del n secolo,
sappiamo che avrebbe composto un commento del Timeo (Proclo, In Tim., 63a-h), e
che soprattutto si sarebbe occupato del problema dell'anima (cfr. Stobeo, Ecl.,
l, 49, 32 W.; un lungo frammento di un'opera intitolata Dell'anima è riportato
da Eusebio, Praep. ev., XIII, 17; si è pensato anche che sia una parte del
commento al Timeo). Dalle scarse testimonianze che abbiamo su Severo è
impossibile ricostruirne con.certezza il pensiero. Possiamo tuttavia dire con
una qualche sicurezza che Severo ritenne di poter risolvere in senso plato-
nico la categoria della sostanza aristotelica, condizione della pensabi- 66
lità e perciò della predicabilità del reale, ricorrendo alla
categoria stoica del "qualcosa" (t(, tf), inteso come "il
tutto" ('rò 1tiiv, tò p4n). Se è vero che non possiamo pensare e perciò
predicare; niente senza l'essere, la con- dizione stessa del pensare è
l'essere, che, in quanto possibilità di tutte le predicazioni, è indefinibile,
e in tal senso è un qualcosa, un T(, donde si definisce l'essere e il divenire,
esso né essere né non essere, bens{ l'uno e l'altro, unità e alterità,
corporeità e incorporeità, indivisibilità (il punto) e divisibilità (estensione
alterità). Di qui, di deduzione in deduzione, si rintraccia da un lato
l'esserci dell'indivisibile, dell'identico e incorporeo, geometricamente
definibile come punto, e del divisibile, del corporeo, la cui condizione
geometrica è la estensione, ove termine medio tra l'uno e l'~ltro aspetto
opposti della realtà, una nel Tutto, è l'anima cosmica. Severo, interpretando
cos{ il celebre ~asso del Timeo sulla funzione del- l'anima del mondo
("Dell'essenza indivisibile, e che è sempre identica a se stessa e di ciò
che è divisibile, e che si genera nei corpi, di tutte e due formò,.mescolandole
insieme, una terza specie di essenza inter- media, che partecipa della natura
del medesimo e di quella dell'altro e cos{ la pose in mezzo tra l'essenza
indivisibile e quella divisibile in corpi... E l'anima, diffusa dal centro in
tutte le direzioni, dal centro fino al- l'estremo cielo, il cielo stesso,
esternamente avvolse tutto intorno, e, in se medesima rivolgendosi, dette luogo
ad un divino principio d'inces- sante e intelligente vita per tutta la durata
dei tempi...": Timeo, 35a, 36e), poteva sostenere da un lato che l'anima,
in quanto misura del tutto in cui il tutto s'incentra è numero, e, dall'altro
lato, in quanto termine medio tra l'essere e il divenire, l'unità e l'alterità,
essa, nesso del tutto, è immagine di Dio, del T(, trascendente e immanente ad
un tempo. Uno, dunque, il mondo, nel T(, nel tutto che lo trascende e che n'è
condizione, nel suo scandirsi in opposti, in una serie di gradi, incentran-
tisi nell'anima termine medio e unificante, il mondo è per un verso eterno nell'Uno
tutto, nel T(, e, per altro verso, in quanto considerato nel suo scandirsi ed
opporsi nel T(, è processo e divenire. Una l'anima umana e non distinta -
sottolinea Severo - come avrebbe voluto Platone in parti, ma piuttosto
aristotelicamente in aspetti, l'anima umana, specchio dell'anima cosmica, in
quanto razionalità, l6gos, unificando in unità dialettica i due momenti in cui
si distingue il tutto, identità e alte- rità, unità-dualità, afferra in sé il T(intuitivamente,
cogliendo sé cerniera tra il mondo intelligibile e il mondo sensibile (cfr. Eusebio,
Praep. ev., XIII, 17). Non poco indicativo sembra adesso, per renderei conto
del signifi- cato che si dà ora al termine "pitagorismo," il passo di
Apuleio10 in 10 Sulla vita e le opere di Apuleio vedi sopra. cui si afferma che
Platone avrebbe ripreso dai pitagorici la scienza • in- tellettuale"
(" nam quamvis de diversis officiis haec ei essent philosophiae membra
suscepta,... intdlectualis a Pythagoreis": De dogm. Plat., l, 3, 187). In
altri termini, come chiaro risulta da tutti i testi (si confronti ancora
Moderato di Cadice, Nicomaco di Gerasa, Teone di Smirne), se per
"pitagorismo" si intendeva lo studio della teoria matematica (e
quindi non solo dell'aritmetica e della geometria, ma anche dell'astro- nomia e
della musica), quale si era venuto determinando nei vari tempi,
"pitagorismo" stava anche ad indicare uno dei possibili esiti del-
l'interpretazione di Platone in chiave logico-matematica, per cui non a caso il
Platone di cui ora particolarmente si discute è il Platone ultimo. In realtà,
come già abbiamo detto (cfr. I vol.), nel Sofista sembra che si precisi il
significato delle idee che non sono Essere, ma, appunto, forme, o meglio generi
dell'Essere, che non è nessuno dei generi, ma ciò per cui l'uno o l'altro sono
e sono comunicabili e ad un tempo limitati, cioè numerabili, onde la dialettica
è capacità di ripercorrere i nessi e le ar- ticolazioni del tutto, che si
esprime nel discorso verace in quanto con- nessione (symploch!), cioè in quanto
grammatica e sintassi, di cui i nomi sono simboli dell'articolarsi grammaticale
e sintattico dell'Essere (non si scordi l'importanza data al Sòfista e al
Cratilo da Albino). Si vede cosl come uno e molti possano mescolarsi,
soprattutto quando si tenga presente l'ulteriore passo fatto nel Filebo, che,
riprendendo il tema del Sofista, chiarifica il rapporto uno-molti con i nuovi
concetti di illimitato (indefinito) e limitato (ciò che ordina e definisce) per
cui la realtà ap- pare come un'infinitudine (quantità, ciò che è suscettibile
di piu e di meno) e come finitudine. (misurabilità e dunque numerabilità), cioè
come proporzione, convenienza e misura, per cui di ogni cosa si coglie
l'essenza quando se ne sia colta la forma (id~), o meglio il numero, la sua
definizione in rapporto ad altra definizione. Evidentemente i due termini
illimitato (quantità) e limitato (numerabilità e qualificazione) sono i due
termini astratti di una realtà che è in quanto si costituisce come limite
dell'illimitato, cioè come proporzione e misura, per cui ogni cosa assume il
suo perché, il suo essere, ossia la sua intelligenza, che è la causa stessa
della mescolanza. Lo stesso Bene, allora, diviene misura e convenienza, e
misura e proporzione il Bello e il Vero. Si capisce, dunque, come su questo
piano (donde la concezione fisico-geometrica dell'universo quale si delinea nel
Timeo), posto l'Essere come pensiero e dialetticità (e perciò non corporeo),
esso sia visibile, cioè intelligibile (colto dall'occhio dell'intelletto), solo
in quanto tradotto in termini ma- tematici. L6gos ed Essere, dunque, in quanto
intelligenza e attività ar- ticolante, unità e molteplicità ad un tempo, sono
incorporei. La realtà, invece, quale appare alla sensibilità, si manifesta
molteplice, disarticolata, divisibile e perciò corporea e indefinita, nel suo
substrato informe. I due termini, allora, in quanto distinti restano
impensabili, che lo stesso essere in quanto discorso e ordinamento e misura non
è tale se non è discorso, ordinamento, misura di qualcosa, s1 come la quantità
in sé, divisi- bile e indefinibile, senza forma è impensabile se non in
relazione alla mi- sura e alla' qualificazione, se non per quel tanto che
sfuggendo alla pos- sibilità della misura resta al di fuori come appunto
impensabile, e, dunque, irrazionale, casuale, fortuito, forza ribelle e
malvagia. Sotto questo aspetto è chiaro in che senso- sulla linea di Albino suo
condiscepolo - Apuleio potesse interpretare ed esporre, in forma piu de-
scrittiva che non Albino, la concezione "platonica," entro cui, per
altri rispetti, far rientrare le piu varie esperienze filosofiche e religiose
("io," esclama Apuleio nella sua Apologia, scritta per difendersi
dalla accusa pubblica di magia, "ho conosciuto per amore della verità e
per pietà verso gli dèi, in Grecia, culti di ogni specie e riti numerosi e
cerimonie varie": Ap., 55}, e potesse sostenere the per Platone esistono
tre princip~ (" initia rerum esse tria arbitrabatur Plato": D~ dogm.
Pl., I, 5, 190): Dio, la materia e le forme delle cose. Presi a sé essi sono
indefinibili: non a caso di Dio dice che è incorporeo, incommensurabile
(aperlm~tros), indicibile (arretos}; che la materia non è né fuoco· né acqua né
altro demento semplice, ma è informe, infinita, in sé né corporea né incor-
porea; che le stesse idee o forme sono non in atto - inabsolutas, in- formes,
nulla specie nec qualitatis significatione distinctas: l, 5, 190; - mentre un
po' piu sotto, considerando che la realtà scaturisce dalla tensione tra Dio e
la corporeità, intermediarie le idee, realizzazione di Dio, che in sé resta
oltre, dice che le idee sono i modelli di tutte le cose, s~mplici, eterne,
incorporee, appunto in quanto guise del discorso divino, in sé uno come il
pensiero (cfr. De dogm. Pl., l, 6, 192). Si capisce cosi come Apuleio potesse
sostenere isoltre che secondo Platone due sono le essenze, le oòaEctL, dalla
cui unione si genera il mondo: la prima è la condizione logica che permette di
pensare la realtà, e che, perciò, dice Apuleio, è intelligibile, visibile solo
all'occhio dell'intel- letto, e come tale, in quanto principio, è sempre
identica a sé, e senza di cui nulla sarebbe (perciò essa è costituita da Dio,
dalla materia, dalle forme delle cose o idee e dall'anima: "et primae
quidem substantiae ve! essentiae primum Deum est et materiem, formasque rerum
et animam": D~ dogm. Pl., l, 6, 193); la seconda, condizione della
corporeità è l'estensione, intesa come il ciò che è definibile, che. trae il
suo esistere da uno dei principi, la materia, e a cui crediamo perché sensibile
("la seconda sostanza non è in qualche modo che l'ombra e l'immagine della
precedente," la visione fisica dell'intelli- gibile). In effetto, perciò,
pur rimanendo Dio, in quanto causa delle 69 cause, princ1p10 e
fine, logicamente trascendente, la realtà è ciò che scaturisce dai due termini,
il limitarsi dell'illimitato, l'ordine, possi- bile a comprendersi in quanto
tràducibile in termini numerici e geo- metrici. Per il resto il discorso di
Apuleio conseguentemente si svolge, nella ricostruzione dell'universo e nella
posizione che nell'universo ha l'uomo, sulla linea di Albino, in un commento
del Timeo. Certo, la ricostruzione matematico-geometrica dell'Universo, non
esclude entro i termini logici di tale ricostruzione (si veda sopra Moderato di
Gades e Nicomaco di Gerasa), che, su altro piano, l'Universo, considerato nella
sua esistenza, appaia come un complesso di forze, come vivente organismo
tendente alla sua perfezione, al modello divino che lo tra- scende, in senso
stoico-aristotelico.(donde il De mundo di Apuleio), dalla corporeità oscura,
limitante, dispersione e male, al divino Uno, in una infinita serie di gradi
intermed1, sempre piu puri e incorporei, anime demoniche. Esistono certe divine
potenze intermedie che abitano gli aerei spazi fra la suprema volta del cielo e
le infime regioni della terra, e per loro mezzo i nostri desideri e i nostri
meriti arrivano sino agli dèi. I Greci li chiamano dèmoni... Essi, come dice
Platone nel Convito, presiedono a tutte le rivela- zioni, ai diversi miracoli
dei maghi e ai ·presagi di ogni specie... Non è fun- zione dei numi altissimi
scendere in basso tra noi. Ciò spetta in sorte alle divinità. intermedie che
abitano nelle aeree regioni contigue e alla terra e al cielo (De deo Socratis,
6). Io credo, sulla fede di Platone, che tra gli dèi e gli uomini si trovino
certe potenze divine, intermediarie per loro natura e per loro posizione, e che
mediante loro vengano operate tutte le divinazioni e i miracoli della magia.
Dico inoltre che l'anima umana, specialmente quella semplice di un fanciullo,
può, sotto l'azione di certi canti o di delicati pro- fumi, cadere assopita ed
uscire da sé a tal punto da dimenticare la realtà presente, perdere per un
momento la memoria del proprio corpo ed essere ricondotta alla propria natura,
che è immortale e divina, e in questa con- dizione, come in una specie di
sonno, predire il futuro... (Apologia, 43). La credenza nei dèmoni, entro i
termini di una ormai lunga tra- dizione, l'interpretazione del motivo del
dèmone s~ratico (si ricordi in tal senso anche il D~mone di Socrate di
Plutarco), la fede nell'anima sostanza divina per sé, nel senso del Pitagora
"sciamano," che tende a tornare alla patria celeste donde è venuta,
quando, attraverso l'ini- ziazione si purifica dal suo imbestiamento nei corpi
(cfr. Metamorfosi o Asino d'oro), sono tutti aspetti della faccia
retorico-divulgativa di Apuleio. Il discorso di Apuleio si svolge in realtà, a
due diversi livelli di discorso: uno piu strettamente filosofico, mediante cui
egli delinea una sua certa concezione, seguendc il platonismo di Gaio, di
Albino, 70 di Teone di Smirne (cfr. De Platone et eius dogmate; De
mundo); l'altro retorico, entro i termini di quella concezione (cfr. Pro se de
magia liber o Apologia; Metamorphoseon libri XI; Florida). Su questo secondo
piano, Apuleio, che, dopo una profonda formazione retorica, ricevuta a
Cartagine, ascoltato ad Atene Gaio, assunse quale propria concezione di sfondo
il "platonismo," curioso di ogni aspetto culturale, scientifico e
religioso del suo tempo, di ogni tipo di civiltà, ch'egli cercò sempre di
ricondurre a quella sua concezione e fede, facendo uso di miti, di credenze,
descrivendo riti e culti, in funzione simbo- lica, sottolineando che la magia,
di cui lo si accusò, è una filosofia sacerdotale, ricorrendo ai misteri, forme
religiose di purificazione; Apu- leio si mosse costantemente entro l'àmbito di
quel suo "platonismo," di quella sua visione di sfondo, valida a
spiegare un'unica esigenza religiosa, dispiegantesi in tempi diversi, in
regioni diverse, in parti- colari credenze, riti, culti, misteri. Senza dubbio,
la stessa polemica tra i platonici del n secolo, rela- tiva all'interpretazione
del divino di Platone, l'interpretazione in chiave aristotelica, o quella in
chiave "pitagorica," l'accettazione di certi aspetti dello stoicismo
sul piano del mondo concreto, e la negazione dello stoicismo sul piano di Dio,
rivelano un'esigenza comune: la pos- sibilità, o meno, appoggiandosi a Platone,
di determinare la trascen- denza del divino, in forma convincente, cioè
razionale, senza ricorrere a "rivelazioni speciali." Ora,
relativamente a Dio, un punto appare chiaro in tutti. Tutti hanno presente da
un lato il celebre testo della Repubblica (VI, 509 b, 8) in cui si sostiene che
il Bene, il divino non è idea accanto alle altre idee, ma la ragion d'essere
delle idee, non è un'essenza, ma qualcosa oltre l'essenza, condizione delle
essenze e perciÒ superessente per maestà e potenza (oòx. oòa(~ l>V1'oc; -rou
aycx&ou, ~'l-rt héx.e:tvcx njc; oua(~ 7tpe:a~E:Ltf x.od 8uvci!J.e:L
u7te:péx.ov-roc;); e, dal- l'altro lato, i testi platonici in cui si dice che,
perciò, quell'essenza è indicibile (&pp'r)-roc;: cfr. V I I lettera, 341),
indiscorribile (n.oyoc;: cfr. T eeteto, 202 b, 6) e inconoscibile (&yvwa-roc;:
cfr. T eeteto, 202 b, 6}, nel senso del conoscere proprio delle altre scienze
(cfr. VII lettera, 341 c); e quei testi in cui l'uno appare non come una unità
massiccia, ma unità vivente, si come il pensiero, il cui discorso, traducibile
in termini mate- matico-geometrici, è lo stesso discorso della realtà, per cui
quell'unità è trascendente il discorso stesso (l6gos, >..6yoc;), ma,
attraverso il di- scorso, afferrabile intuitivamente, con un atto intellettivo
(nus,vouc;)(cfr. Repubblica, Sofista, Filebo, Timeo, VII lettera). Sostiene
Albino, e, insieme ad Albino, Apuleio di Madaura, che tre sono i principi: Dio,
la materia e le idee; e tanto Albino quanto Apuleio proseguono affermando che
Dio, in atto tutti gli intelligibili, è indicibile (ilpptroç), inconunensurabile
(cioè indefinibile: Apuleio), e perciò perfetto (atÙ't'o-rù•IJç, autotelès; e
cULUÀ~ç, aeitelès) e tutto in sé compiuto (nar.vrù..~ç, pantelès), Padre, in
quanto causa di tutte le cose, incorporeo e immobile. E Severo afferma che il
divino, in quanto condizione che rende pensabile tutta la realtà e tutti gli
aspetti della realtà, ed è perciò non questo o quello, _ma un 't'((ti), un
quid, è il tutto ('t'Ò n«v, tò pan). E cos{ ripete Massimo di Tiro (XI, 9, ed.
Hobein), Arpocrazione (vedi sopra), Celso (VI, 62-66). A parte le polemiche, i·
contrasti, le venature diverse, ciò che sembra comune a tutti i
"platonici" del n secolo (oltre l'avversità allo stoi- cismo,
relativa alla concezione del divino, non a quella del mondo), è da un lato
l'aver posto che la condizione, perché sia possibile pen- sare la realtà,
appunto perché tale (la si dica Dio, uno, essere, superes- senza,
"ti," Bene), è di là da ogni determinazione, definizione, proprio in
quanto renda possibile determinare il genere prossimo e la diffe- renza
specifica, e che tale condizione è, dunque, ciò mediante cui si può dire è e
non è; e che, dall'altro lato, postulato il divino come con- dizione di tutte
le possibilità, come il prius logico, ad esso gnoseologica- mente si giunge passando
dalla molteplicità, passando dalle molte im- pressioni sensibili, all'unità di
quelle mediante il discorso, unità che è tale nell'anima, nel pensiero, per,
alla ·fine, cogliere che quell'unità è lo stesso pensiero in atto, che è in
quanto discorso (>.Oyoç, l&gos) ma discorso che è uno, onde l'unità è a
fondamento del discorso mede- simo, e, metaforicamente, lo trascende, per cui
lo si coglie intuitiva- mente, con l'intelletto (vouç, nus), come unità
vivente. In altri termini, il prius logico senza di cui neppure si può pensare
la molteplicità, l'unità del tutto, si coglie gnoseologicamente poi, attraverso
il discorso, avendo incentrato nel pensiero la moltepliçità della immediata
espe- rienza, oltrepassando il discorso, ed afferrando, mediante il nus (vouç)
la postulata unità, per questo indiscorribile, indicibile, non conoscibile come
conoscibili sono gli altri aspetti della realtà, incommensurabile, non
afferrabile mediante ill6gos, ma, attraverso esso, con il nus, l'intelletto. In
tale senso Albino è molto chiaro. Egli dice: ilpp'rj't'oç 3'la·rl xar.l véj)
(LOVCjl ÀYj1t't'Ot;, ml olSn yévoç lO"t'lV om e:taot; om 3Lat~op«...
("esso è indicibile e afferrabile solo mediante l'intelletto, poiché non è
né genere né specie né differenza specifica: Epit()mè, X, 4). E altrettanto
chiaro è un seguace di Albino, Celso,11 vissuto nel 1 1 Della vita di Celso,
vissuto, sembra, i n Egitto, nel u secolo, non sappiamo nulla. Conosciamo di
lui larghi estratti di una sua opera intitolata Il vero discorso ('A>.c&ij~;).6-yoç),
conservatici da Origene (185 circa-253-54), in un'opera (COtJtrtJ 72
II secolo, noto attraverso alcuni testi di lui riportati da Origene
(Contra Celsum ), e, soprattutto, per la sua polemica contro I"'
assurdit~" della concezione cristiana di Dio e del suo rapporto con l'uomo
(cfr. sopra). Tale polemica è, per altro verso, un indice senza dubbio evidente
del modo in cui, appunto, sulla linea Gaio, Albino, Severo, va inteso il
"platonismo" di Celso. Dice, dunque, Celso: Dio non ha né bocca, né
voce, né alcuna delle qualità da noi conosciute. Dio non ha fatto l'uomo a sua
immagine, ché egli non è quale l'uomo, né assomiglia ad alcun'altra forma. Dio
non partecipa né alla figura, né al colore, né al movimento, né all'essenza. E
se, in realtà, tutte le cose seguono da lui, egli, evidentemente, non seJP!e se
non da se stesso. Di lui non si può.dire nulla, egli non ha nome toù8è ì..6ycp
Èqmc:r6t; Ècnw o.:h:6c; où8' bvO!J.ot<n6c;), poiché non riceve alcuno degli
accidenti che si afferrano e si fissano con un nome (bv6!J.ot't"L
xcx-r!XÀ7j7t't6v). In effetto Dio è al di fuori di ogni accidente... Come,
dunque, conoscere Dio? Come apprendere la via che conduce a lui, tanto in alto?
Ché, per ora almeno, è tenebra che mi getti dinanzi agli occhi, e nulla vedo
distintamente. - Bisogna rispondere: Chi dalle tenebre viene condotto alla luce
non può resistere al fulgore dei raggi [cfr. Repubblica di Platone, VII, 515c
sgg.]... Solo quando si sia chiusa la porta dei sensi, solo quando si sia dato
le spalle alla carne, e abbiate guardato in alto media~te l'intelletto
(&vcx~À~~"rj'n: vcj)), solo allora vedrete Dio (in Origene, Il vero
discorso, VI, 62-66, ed. Glokner)... Egli Celsum), in cui si viene
sistematicamente confutalldo il Vero disc-orso. Nel Vero disc-orso, composto,
sembra, tra il 178 e il 180, al tempo in cui Marco Aurelio aveva preso misure
anticristiane, vedendo nei cristiani un pericolo per l'unità dello Stato (non a
ca.so il Vero discorso si chiude con l'affermazione che i Cristiani verraDJlo
tollerati se si deci- deranno a venire in aiuto dell'Impero). Celso mette in
discussione il Cristianesimo; egli sostiene ch'esso non ha nulla a che fare con
la filosofia, dimostrando, per altro, che, se mai, sul piano religioso molto
piu convincente c filosofica ~ la tesi platonica, mentre illogica ed assurda ~
quella cristiana, in particolar modo la fede in un Dio che s'incarna nell'uomo
e in una visione che pretende d'essere l'unica vera. Estremamente fini sono gli
argomenti di Celso nel confutare le tesi cristiane. Egli dimostra una buona
conosc:enza del vecchio e del nuovo Testamento e, senza dubbio, i primi
tentativi di una formulazione filosofica dell'espe- rienza cristiana (primi
apologisti), filosofia ch'egli decisamente nega essere tale. Che Celso stesso
sia stato un platonico, non sappiamo. Certo, egli vuoi dimostrare, come
dicevamo, che tra le filosofie religiose la piu convincente ·e razionalmente
(non per superstizione) accettabile ~ la platonica (nell'accezione che il
platonismo aveva assunto nella corrente Gaio-Albino). Niente vieta, quindi, di
supporre, su testimonianza dello stesso Origene (Contra Celsum, I, 8, IO, 21;
II, 60; IV, 54, 75; V, 3), che personal- mente Celso fosse un epicureo, e che
al Celso del Vero discorso fosse indirizzata la dedica (a Celso epicureo)
dell'.dlessandro o i l falso profeta d i Luciano, che ~ del 181 circa, e in cui
Luciano, come già ne La morte di Pellrgrino, violentemente critica il
Cristianesimo. Per atteggiamenti critici nei confronti del Cristianesimo, in
forma retorica e non in termini filosofici e logici come ~ il ca.so di Celso,
vaDJlo ricordati, oltre Luciano, Frontone (Contro i Cristiani) e Crescente
(cfr. Giustino,.dpol. Il, 3; Taziano, Contra Graecos, 19). non è né intelletto,
né intellezione, né scienza, ma la causa per la quale l'intelletto conosce e
l'intellezione si compie, la scienza si forma e tutti gli intelligibili e la
verità stessa e la stessa sostanza hanno l'essere loro: eppure egli è al di là
di tutte queste cose ed è intelligibile in maniera ineffabile (ik., VII, 45).
Se teniamo presente il concetto base del Dio cnsuano (unico, persona, volontà,
creatore ex nihilo, che s'incarna in Cristo, in un uomo, venuto a salvare non
il mondo, ma l'uomo nella sua interezza, la cui anima non è né mortale né
immortale, ma immortale perché cosi vuole Dio, che tutto è dovuto ad un atto
gratuito di Dio, non riducibìle a razionalità) si vede bene in che senso Celso
vedesse nella concezione cristiana una concezione assurda, irrazionale,
seducente uomini ignoranti e incolti, ma, in realtà, niente affatto
convincente, anzi irreligiosa e atea. Per altro verso, comunque, l'idea di un
Dio trascendente e Padre, per- fetto e oltre l'essere, spogliato da quelli che
sembravano essere attributi antropomorfici, usati popolarmente in funzione
simbolica, poteva essere ripresa entro i termini del linguaggio
"platonico," insieme ad altre con- cezioni del divino, egiziane,
ebraiche, siriache, in funzione di una teo- logia razionale, e, perciò,
universale, che trovava i suoi termini nell'àm- bito della rielaborazione in
sistema dovuta ai platonici e ai pitagorici del n secolo. Non a caso, sotto
questo aspetto, Numenio,12 di Apamea, in Siria, vissuto nella seconda metà del
n secolo, di origine semitica, forse ebreo, poteva da un lato sostenere che,
sia pur in termini diversi, v'era un perfetto accordo tra la concezione di
Platone - il Mosè che parla in attico, com'egli lo chiamò: cfr. Suda, s.v.;
anche Clemente 12 Di Apamca, in Siria, Numcnio visse nella seconda mctl del n
secolo. Pochis- sime c discutibili le notizie intorno a lui. Si è detto che,
semita di origine, egli fosse ebreo. ~ un'ipotesi basata sul fatto che Numenio
cita testi biblici e che conosce Filone l'Ebreo. Ciò non vuoi dir nulla: in
questa stessa epoca la cultura ebraica, i testi biblici, ccc., erano largamente
noti e citati. E poi bisogna non scordare che Numenio era di Apamea c che là
testi gnostici, ebraici, della gnosi ebraica circolavano, e non solo là (cfr.
Dodds, Numenius and Ammonius, in "'Enuetiens" V della Fondazione
Hardt, Ginevra, 1960, p. 6).·Le testimonianze piu antiche, puntando
sull'aspetto gno- seologico di Numenio, indicano Nurnenio come
"pitagorico" (Clemente Alessandrino, Origene, Porfirio), le piu
recenti lo indicano come "platonico" (Giamblico, Proclo). La maggior
parte delle testimonianze e dei frammenti del ITcpl Tciyel&o\i (De bono) di
Numenio provengono da Eusebio (Praep. ev., XI, 10, 18, 22; Xlll, 5; XIV,. 4, 5;
XV, 17). Fondamentali sono anche le testimonianze di Proclo (in Tim., I, p.
303, 304; 11, p. 103). Nella sua ediZione dei.frammenti c delle testimonianze
di Numcnio, il Lecmans ha cercato di ricostruire il piano del De bono,
disponendo i frammenti secondo il posto che probabilmente essi avevano nei 6
libri in cui si divideva l'opera (E. A. Lec- mans, Numeniur van Apamea met
Uitgave der Fragmenten, in "Mémoircs dc l'Acad. roy. dc Bclgique,"
classe cles lcttres, XXXVII, 2, 1937; si veda inoltre bibliografia). Oltre il
De bono, Numenio avrebbe scritto: Del dissenso degli Accademici da Platone,
Delle dottrine segrete in Pltllone, Del luogo, Dell'incorruttibilità dell'anima,
Upupa, Sui numeri. Alessandrino, Str., l, 22 - e la sapienza mosaica - senza
dubbio Nu- menio teneva presente Filone l'Ebreo,- e, dall'altro lato, che alla
stessa concezione ebraico-platonica era possibile riportare - come aveva fatto
Plutarco - sia la simbolica dei pitagorici, usata in funzione logico-ma-
tematica, sia i riti, i culti, i misteri delle religioni egiziane e dei
Brachmani, sia certi aspetti del Cristianesimo (sembra che nella vita di Cristo
vedesse un simbolo del rapporto uno-mondo, cfr. Origene, Contra Celsum, IV,
51), come certi motivi dello gnosticismo e del- l'ermetismo. Occorrerà che chi
ha trattato di questo argomento [del Bene] e si è espresso con le testimonianze
di Platone, rimonti indietro e si ricolleghi ai 'l6goi di Pitagora; faccia
inoltre appello ai popoli che salirono in fama, ripor- tandone le cerimonie, le
leggi, i sacrifici culturali, compiuti in conformità con Platone, quali
stabilirono Brachmani, Giudei, Magi, Egizi (De bono, in Eusebio, Praep. 'ev.,
IX, 7, l; fr. 9 ed. Leemans, Bruxelles, 1937). Delle molte opere di Numenio
(Del dissenso degli Accademici da Platone, Delle dottrine segrete di Platone,
Del Bene, Del luogo, Del- l'inco"uttibilità delfanima, Upupa, Dei numen)
sono rimasti alcuni frammenti del De bono (in Eusebio, Praep. ev., XI e XV) ed
alcune testimonianze e brevi testi interpretati.da Prodo, da Calcidio, da Por-
firio, da Giamblico, da Macrobio (per la ricostruzione del De bono, ne:pl
T4yot&ou, e pèr la raccolta delle testimonianze e dei frammenti si veda
l'edizione di E. A. Leemans, in "Méin. de l'Acad. roy. de Belgique,"
classe cles lettres, XXXVII, 2, Bruxelles, 1937). Ciò va tenuto presente,
perché condiziona il ~odo con cui è possibile ricostruire il pensiero di
Numenio, relativo, appunto, alla discussione di lui sul Bene. Numenio teneva
presente, come risulta dai frammenti, da un lato il testo di Pla- tone
(Repubblica, 509 b) in ·cui si dice che il Bene non è idea accanto alle altre idee,
ma la condizione delle essenze, dall'altro lato la tesi pla- tonica del
costituirsi dell'universo per opera del Demiurgo (Timeo). Riallacciandosi al
Platone e al Pitagora quali si erano venuti configu- rando nel corso del I-II
secolo, in contrapposizione al Platone proble- matico e scettico qual era stato
interpretato dalla media Accademia (da Arcesilao a Filone di Larissa), Numenio
fa tesoro dell'impostazione teologico-allegorica di Filone l'Ebreo, e
reinterpreta in questa chiave le "religioni dei popoli che salirono in
fama," Brachmani, Giudei, Magi, Egizi, e motivi gnostici e ermetici (in
realtà, poi, il metodo argomen- tativo di Numenio è. quello proprio dei
platonici razionalisti del 11 se- colo). Numenio particolarmente si travaglia
intorno al problema del rapporto tra l'uno, condizione della pensabilità del
reale, condizione dell'esserci delle cose, esso Uno ed Ente e Monade perciò di
là da ogni determinazione, e, dunque, ineffabile, indiscorribile, invisibile al
pen- siero e in tal senso incorporeo, immobile, "inattivo" (argos,
«pyoc;: fr. 21 L), increato e increante, e il mondo della generazione che, a
sua volta, implica un facitore (un poièta), un principio che dia movimento e
che perciò non può piu essere lo stesso primo essere perfetto che, se si muove,
e tende a realizzare qualcosa, vorrebbe dire che è mancante, imperfetto. A tale
concetto del Bene, ad un tempo ragion d'essere del tutto, per cui esso non è
nessuna delle singole essenze, delle idee, nessuna delle cose (e in tale senso
Numenio, sulla scia della tradizione plato- nica, rifacendosi al Timeo, lo
chiama "padre," il "primo dio"), Nu- menio sostiene che non
si giunge attraverso un salto rivelazionistico, ma di grado in grado,
dall'immediata esperienza sensibile, per via ne- gativa. Non a caso cosi
Numenio, alla domanda: che cosa è ciò che è ('r(8-1) lcr·n -rò !Sv: fr. 12 L)?
risponde che l'è, l'ente (!Sv) non può essere nessuno dei quattro elementi, ma
neppure la comune stoffa di cui gli elementi son fatti, la materia (fr. 12),
ché la materia in quanto inde- finibile (!Àoyoc;) e, perciò, inconoscibile
(&yv(J)cr"t"oc;), non la si può sup- porre che come un fluire, un
disordine, in ciò opposta all'essere, in realtà un non-essere, che assume
essere in quanto definita {ordinata) dal- l'essere. L'essere, perciò, non è né
materia definita (corpo) né materia indefinita. Né corpo, né materia l'essere:
senza l'essere non sarebbero né la materia, né i corpi, ché gli stessi corpi
non sarebbero se non ve- nissero definiti, se di essi cioè non si dicesse che
sono, se non subissero l'essere. L'essere perciò è l'incorporeo (-rò
«cr&~!J4-rov), ciò mediante cui i corpi si determinano, assumono forma,
cioè esistono. Poiché dunque i corpi per esserci hanno bisogno di un principio
che li determini (-roti xiX&~oV't"oc; IXÙ-ro~c; l8e:t: fr. 13), tale
principio non può essere corpo, altrimenti avrebbe esso stesso bisogno di un
qualcosa che lo determina (di un xot-rix.ov). L'essere, dunque, è incorporeo,
immobile, non si accresce né diminuisce {fr. 13), è eterno, stabile, identico a
se stesso («&t XIX't"CÌ 't"IXÙ-ro) (fr. 14). Condizione perché la
realtà sia, l'essere è perciò da un lato la categoria delle categorie,
dall'altro lato principio assoluto, assolutamente ricco, come punto luminoso che
ha in sé tutte le possibilità, come fuoco che dà fuoco senza esaurirsi nei
nuovi fuochi ("un lume, acceso da altro lume, ha luce senza toglierla al
precedente, ché dal fuoco di quello è accesa la materia che è in esso":
Eusebio, Praep ev., XI, 18), assolutamente perfetto e perciò non avente biso-
gno di nulla, immobile, "inattivo" (cfr. frr. 14-15, 21).
Indiscorribile, dunque, l'Essere, esso non è visibile se non all'occhio
dell'intelletto, onde di lui si può dire che è intelligibile (vol)-r6v, noetòn)
(fr. 16-17). lntelligibile perché condizione degli stessi intelligibili e dei
visibili, esso è, appunto, come l'intelletto, condizione del discorso e unità
del discorso, trascendente il discorso medesimo e afferrabile attraverso il
discorso, intuitivamente. Se dell'Essere, dunque, si può dire - sia pur per
analogia - che è Intelletto e Intelligibile (il primo Intelletto e il primo
Intelligibile), si può anche affermare, sulla scia di Albino, ch'esso è in atto
tutte le intellezioni, ciò che dà essere, forma, a tutta la realtà, o meglio
ciò per cui tutta la realtà esiste (e in tal senso esso è Bene, fonte di Bene),
onde l'Essere è oltre il discorso, oltre tutto, ma avente in sé tutto. E ha in
sé tutto, a cominciare dal primo sdoppiamento di sé in intel- letto e
intelligibile, ove tale secondo intelletto è, metaforicamente, da un lato volto
all'uno-intelletto, dall'altro lato all'obbiettivazione di sé come
intelligibili determinantisi, che dànno cioè essere, forme alle cose, in una
obbiettivazione.visibile, figurata, presupponente perciò l'idea estensione, la
materia intelligibile. Di qui, sempre nell'Essere - pur non essendo l'Essere,
che in sé, intelligibilmente, resta immobile e tutto in atto, - un terzo
intelligibile, il mondo nel suo esserci, che, in quanto proiezione del secondo
intelletto, intermedio tra l'intelletto in atto e tutto in sé comp~uto e la
materia come fluidità, è da Numenio detto "intelletto pensato" (vouç
3totVOOO(J.€VOç, nus dianooumenos: Proclo, In Tim., 268 a-b; fr. 25 L.). In una
interpolazione di testi platonici (Repubblica, Parmenide, Timeo) e in una
ricostruzione del platonismo in sistema, sulla linea Gaio-Albino, veniamo cosf
ad avere: l) L'intelletto in atto, luogo metafisica di tutte le idee, l'essere
as- soluto e tutto in sé compiuto (Padre o Primo Dio), in cui, nella sua
perfezione, non si distingue pensante e pensato, esso condizione prima del
discorso, della distinzione in pensante e pensato (la superessenza della
Repubblica}, afferrabile solo come principio intelligibile, come il ciò senza
di cui, al quale si giunge, passando attraverso il discorso (>.6yoç), con un
atto puramente mentale (vouç). "In verità non facile, ma divina via
occorre per esso, e la migliore è disprezzare le sose sensibili, volgersi con
vigore alle scienze, considerare i numeri, e cosf meditare questa nozione: che
cosa è l'uno" (in Eusebio, Praep. ev., Xl, 22: fr. 11 L.); "gli
esseri che partecipano al primo Dio, al Bene, non vi par- tecipano in nessun
altro modo che con l'atto del pensare: lv (L6Vc,>.-rlj) tppovci:v "
(fr. 28 L.); 2) L'intelletto secondo, ossia, entro l'inteiletto in atto, la
distin- zione pensante (uno)-pensato (intelligibili), ove, appunto, gli
intelligibili sono le ohbiettivazioni del pensiero, l~ forme che d~nno essere
alla fluidità della materia idea opposta (il "secondo Dio," il
Demiurgo buono e attivo del Timeo, nell'interpretazione del Timeo); 3) Il
"pensato," ossia il mondo quale appare nel suo ordine e nelle sue
leggi, obbiettivazioni dell'intelletto secondo, frutto del Demiurgo, del
secondo Dio, presente alla mente, appunto, come pensato: anch'esso, dunque,
terzo Dio, nell'intelletto secondo, a sua volta nell'intelletto primo.
"Averndo affermato che vi sono tre dèi, Numenio chiama il primo Padre, il
secondo Poieta, il terzo Poema: poiché il mondo, secondo lui, è il terzo dio.
Nella sua dottrina vi sono dunque due Demiurghi, il primo dio e il secondo, e
il terzo dio. è il mondo frutto dell'attività demiurgica (-rò
3l)!L~oupyoo(UVOV). È meglio infatti esprimersi cosi, che parlare come lui, in
un esagerato stile tragico, di nonno(1tchrnov), di figlio (~yyovov) e di nipote
(&.n6yovov)" (Proclo, In Tim., 93 a-b). Proclo, quindi, andando avanti
nell'esporre le varie interpretazioni (di Numenio, di Arpocrazione, di Attico)
della pagina 28c del Timeo ("noi diciamo che tutto ciò che è nato è
necessariamente nato in quanto frutto di una certa causa; ma questo è
difficile, trovare chi sia padre e poieta di questo universo, e quando si sia
trovato è difficile esprimerlo a tutti": Timeo, 28c), sostiene che, per
quanto almeno riguarda il Timeo, è ingiustificata la distinzioné fatta da
Numenio tra Padre e Poieta. Proclo ha ragione, solo che, senza dubbio, Numenio,
accanto al testo del Timeo teneva presente l'altro della Repubblica sopra
citato, tanto è vero che proprio alludendo a 28c del Timeo, nel De bono,
afferma: "Platone dice che il primo Dio è inconoscibile, e questo dice
perché sa che gli uomini conoscono solo il Demiurgo, e che, di contro, il primo
Intelletto, che è chiamato l'Essere stesso è a loro totalmente ignoto. ~ come
se si dicesse: 'Uomini, colui che ritenete essere un Intelletto non è il primo,
ma un altro ne esiste, prima di lui, piu augu-. sto e divino"' (in
Eusebio, Praep. ev., XI, 18, 10-11, fr. 26L.). In effetto, per Numenio, uno
solo è il mondo, il mondo nella sua realtà concreta (non a caso in un
frammento, accanto ai tre dèi, Dio- Demiurgo-Mondo pensato, egli pone il mondo
visibile: in Eusebio, Praep. ev., Xl, 22). Tale mondo, per chi rimane preso
nell'immedia- tezza sensibile appare molteplice e disordinato. Invece,
attraverso lo studio del pensiero e di come funziona il pensiero (di qui
l'importanza data agli studi sul numero), il mondo appare, nel suo esserci,
come dovuto all'esplicazione dell'intelletto, in cui la molteplicità si
raccoglie nell'unità del discorso, e dove ciò che rimane al margine, che non è
determinabile entro.i termini dell'intelligibilità, e che perciò appare
irrazionale, è detto il male, l'anima malvagia, l'indefinibile materia causa
del male (fr. 30 L.). In tal modo, le condizioni dell'esserci del mondo sono da
un lato la materia fluida, dall'altro lato l'essere avente 78 in
sé tutte le forme e termine medio l'intelletto demiurgico, uno e molteplice a
un tempo, che è pensiero in quanto pensa, o~de i suoi pensieri sono l'obbiettivarsi
della sua unità nella molteplicità delle idee, che si costituiscono secondo un
ordine e tornano all'unità in quanto presenti all'intelletto stesso, e, perciò,
in fine, allo stesso Dio primo. Esso, dunque, nella sua totalità è natura ingenerata
e ingenerante, entro cui si scandisce il ritmo della natura che è generata e
che genera (Intelletto secondo; pensiero-pensato) e la natura che è generata e
che non genera (il mondo pensato) e la stessa materia che rimane come lo sfondo
su cui si disegnano le forme intelligibili, dando luogo ai corpi, traducibili
in termini di figure geometriche, mentre per quel tanto che sfugge alla
determinazione e definizione non piu riferibile all'intel- letto, per cui non è
obbietto pensato, diviene causa di disordine, e, dunque, male. "Dio, come
anche sembra a Platone, è principio e causa dei beni, la silva [materia] dei
mali" (Calcidio, In Tim., 296: test. 30 L.). Tale sembra anche il
significato da dare a quei pochi frammenti della lncorruttibilità delfanima
rimastici, in cui Numenio sottolinea che non vi sono, nell'uomo, due parti
dell'anima o tre, ma che due sono le anime, una razionale (di origine divina),
l'altra irrazionale e che perciò l'uomo nell'ordine del tutto ha una posizione
mediana, riflesso di quella che è la posizione dell'Intelletto secondo, per cui
all'uomo è dato, in quanto intelletto, risolvere in sé la molteplicità del
mondo che nell'intellètto s'incentra e attraverso questo risalire alla con-
templazione mistica del primo Intelletto, dell'Uno (cfr. Calcidio, In Tim., 197
sgg.; Porfirio in Stobeo, Ecl., l, 49, 25 a W.; Giamblico in Stobeo, l, 49, 37;
l, 49, 40 W.; Proclo, In Rep., vol. Il, p. 128, ed. Kroll). In questa
processione dall'Uno ai molti entro l'Uno stesso nella sua totalità, che perciò
trascende i momenti stessi del suo scandirsi, per cui, ad un tempo, v'è la
molteplicità, il limite, il divenire, il mondo concreto, la dualità, la
razionalità e l'oscurità, l'irrazionalità, e l'unità condizione prima e termine
ultimo, già gli antichi avevano veduto una delle piu ampie fonti della
concezione di Plotino, tanto è vero che non poche volte Plotino fu accusato di
avere plagiato Numenio (cfr. Porfirio, Vita Platini, 17). Comunque sia, Numenio
insieme ad Albino (detto da Proclo, In Rep., II, 96 K., uno dei "corifei"
del pla- tonismo) ebbero, com'è testimoniato dalle posteriori citazioni, una
note- vole influenza nelle ulteriori sistemazioni del sapere in chiave
platonica e pitagorica, e l'uno e l'altro furono ritenuti autorità
incontestabili nel campo dell'esegesi platonica e pitagorica (per Albino cfr.
Galeno, Sulle proprie opere, II; Tertulliano, De anima, 28, 19; Stobeo, Ecl.,
I, 49,37 W.; Eusebio, Hist. eccl., VI, 19, 8; per Numenio, cfr. sopra le testimo-
nianze citate). S. li Gnosi," li Scritti ermetici" e
"Oracoli caldaici" a) La "gnosi." Su Numenio di Apamea si è
molto discusso, non:rolo come fonte di Plotino, ma anche sul suo
"orientalismo," sulla que- stione se egli fosse in realtà uno
"gnostico" e sull'influenza ch'egli avrebbe avuto sulla composizione
degli Oracoli caldaici. Senza dubbio lo stato assai frammentario dei testi da.lui
trasmessici e, in particolar modo, certo suo linguaggio, le sue metafore,
immagini, allegorie, il suo stile "tragico," come dice Proclo (In
Tim., 93a sgg.), lasciano lo storico in non poche difficoltà. La questione
dell'" orientalismo" di Numenio fu soprattutto impostata dal Norden
(Agnostos Theos, Lipsia, 1913), il quale, puntando sul testo di Numenio, in cui
si dice che Dio è totalmente inconoscibile (7tetV't'tX7tctow &yvoou!Wioç),
sosteneva che Numenio fu un saggio "fortemente penetrato di
orientalismo" (Agn. Th., p. 72), che si sarebbe appoggiato su appelli
soteriologici di profeti orientali ambulanti al servizio della propagazione
della vera gnosi di Dio, attestati anche presso gli Gnostici (Norden, cit.).
Studi piu appro- fonditi sia sul piano della tradizione platonico-razionalista
(Gaio-Albino- Apuleio), sia sul piano della gnosi, dell'ermetismo, degli
oracoli caldaici, hanno chiarito come, almenò per quest'epoca, sia difficile
operare un taglio netto tra motivi cosiddetti occidentali e motivi cosiddetti
orientali (comunque riferibili solo al mondo egiziano, ebraico, persiano). In
effetto ci troviamo di fronte ad una reciprocità di scambi, che costi- tuisce
alla fine una sola e comune base culturale, ove le differenze stanno piuttosto
nell'un modo o nell'altro di risolvere il rapporto tra il divino e il mondo,
nella capacità, o meno, di cogliere l'Essere supremo. In tal senso sembra che
lo gnosticismo sia pit,l diffuso di quel che si riteneva allorché si parlava di
uno gnosticismo cristiano, eretico nei con- fronti del cristianesimo autentico,
anch'esso, in realtà, un tipo di gnosti- cismo, diverso, certo, da altri
gnosticismi, si come lo gnosticismo di Numenio è diverso da quello di Platino,
a sua volta critico di un tipo di gnosi. Sotto questo aspetto sembra esatta la
polemica del Festugière contro gli "orieotalisti." "Non vedo
nulla qui che confermi l'opinione di Norden, secondo il quale la nozione 'orientale'
del Dio totalmente inconoscibile degli gnostici, di Numenio, e piu tardi di
Proclo, si oppor- rebbe alla nozione platonica di un Dio !pplj't'ot; xcxt
v<;> (.L6VCf> >.1)'7t'T6cx (afferrabile solo con l'intelletto)
secondo la formula di Albino (Epi- tomè, 10). Nessuna differenza, secondo me,
su questo punto, tra Albino e Numeoio. Albino insegna, per giungere a Dio, il
metodo d' &q>«Epca~ ('Il primo modo di concepire il punto astraendolo
dal sensibile, avendo prima concepito la superficie, poi la linea, infine il
punto': Albino, Epi- tomè, 10). Questo stesso metodo è implicito nel tema dell'
lP"J(.L(ç 80 (eremla: solitudine) in Numenio: Dio è
lpl)!J.Oc; (éremos) nel senso che sfugge ad ogni determinazione, che nessun
concetto finito per- mette di avvicinarlo: non vi è nulla che gli somigli o gli
si avvicini: egli abita il deserto dello spirito. E allora, poiché non lo si
può né definire, né nominare, Dio sfugge alla conoscenza razionale [discor-
siva]. Ma al di sopra del Myoc; (l6gos) vi è il vouc; (nus), che, preci-
samente, in tutta la tradizione platonica, è una facoltà soprarazionale che
permette di vedere, di toccare il divino" (Festugière, La révélation
d'Hermès Trismégiste, IV, pp. 132-133, Parigi, 1954). Se il Festugière ha
ragione - e sulla sua stessa via si è posto il Dodds: N umenius, in Les sources
de Plotin, "Entretiens sur l'antiquité classique," t. V, 1957,
Ginevra, 1960, pp. l sgg. - nel riportare Numenio sulla linea di Albino, può
essere altrettanto pericoloso, storicamente, sostenere la non influenza di
certi motivi orientali, perché si viene cosi ad opporre sem- pre la concezione
orientale (come se esistesse in blocco una concezione orientale) a quella
platonica, come se davvero l'interpretazione di Antioco di Ascalona e poi
quella di Gaio, di Albino, e cosi via, sia l'unica e vera interpretazione di
Platone, e non si dia il caso che quelle interpretazioni di Platone siano
dovute a precise esigenze, precisabili storicamente, simili, almeno entro una
diversa atmosfera culturale, alle esigenze che hanno dato luogo alle soluzioni
gnostiche, ermetiche, ora- colari, magiche, cristiane. Il Dodds ha ora, nella
sua magistrale rela- zione su Numenio, tenuta agli ~Entretiens sur l'antiquité
classique" del 1957, chiarito molto acutamente tutte le difficoltà e le
possibili solu- zioni relative a Numenio, riproponendosi anche il problema dei
rap- porti di Numenio con lo gnosticismo e della sua possibile influenza sul-
l'autore degli Oracoli Caldaici. Il Puech, storico dello gnosticismo, e che un
tempo, nel 1934 (Mélanges Bidez), sulla scia del Norden, soste- neva
l'orientalismo di Numenio, ha finemente detto, nel corso della discussione
sulla relazione. del Dodds: "Quanto a Numenio, bisogna dire, credo, che vi
è in lui, in partenza, uno sforzo di sistemazione del pla.tonismo, come, del
resto, già indicavo nel mio articolo delle Mllan- ges Bidez... Senza dubbio
parlai allora, nel 1934, impressionato dal- I'Agnostos Theos del Norden, di
influenze orientali: non si sfugge al proprio tempo. Oggi mi sembra questione
piu delicata definire ciò che esattamente ricoprono, nell'epoca considerata, i
termini 'Oriente' e 'Occidente.' Eppure bisogna porsi il problema: cosa ha
condotto Nume- nio a distinguere un primo e un secondo Dio? ~questo che
differenzia il suo atteggiamento da quello del platonismo medio? Il primo Dio,
per il platonismo è un Demiurgo. Si può derivare l'opposizione tra il Demiurgo
e il Bene da una interpretazione sistematica del platonismo, riallacciare
esclusivamente l'una all'altra mediante una specie di conti- nuità dialettica?
Si sottolinei che simile opposizione può prendere, e prende, nello gnosticismo,
forme varie, distinte da quelle che ha in Marcione... Ad ogni modo, non v'è negli
gnostici e in Numenio un problema analogo? Problema, d'altra parte, legato a
quello della Mate- ria come male assoluto e a quello della condizione umana: si
tratta di scaricare Dio dalla responsabilità del Male. Conseguentemente si
imma- ginano degli intermediari tra il Bene supremo, o il Dio sommamente buono,
e la Materia, o il mondo: delle ipostasi, degli arconti, degli angeli il cui
capo sarà alla fine assimilato a Yavè, il dio della Genesi e della Legge. Quali
erano, infatti, le entità suscettibili di assumere la responsabilità della
creazione? Necessariamente, o il Dio della Bib- bia ebraica (ad un tempo
de~iurgo e iegislatore), o il demiurgo del Timeo. In Numenio e negli gnostici
v'è la stessa concatenazione di pro- blemi. Plotino, attaccando gli gnostici,
attacca, sembra, ad un tempo Numenio. Al principio del trattato II 9, al
capitolo l, se la prende~.come ha mostrato Dodds, con il vou~ lv i)aux_(qr:
(l'intelletto in quiete), con il vou~ o con il.&eb~ &pyo~
(l'intelletto, o il dio inattivo, o 'pigro') di Numenio, ma la sua critica è
volta anche, e insieme, contro gli gno- stici... Evidentemente, il problema
dell'influenza che la gnosi ha potuto esercitare su Numenio è, come quello
dello gnosticismo stesso, piu facile a trattare fenomenologicamente che
storicamente" (Puech, in Les Sour- ces de Plotin, Entretiens, cit., pp.
36-38). Il Puech si rifà qui alla tesi oggi particolarmente sostenuta sullo
"gnosticismo" e da lui stesso chiaramente espressa (cfr. H. Cb.
Puech, La Gnose et les temps, "Eranos-Jahrbuch," 1951, B. XX, Mensch
u. Zeit, Zurigo, 1952). Gli studiosi si sono oggi resi conto che lo "gno-
sticismo" non può piu essere compreso solo,come un'eresia del cristia-
nesimo (posteriore e interna al cristianesimo), come si riteneva basan- dosi
sui testi gnostici trasmessici dai cristiani (Clemente di Alessandria, Origene,
lreneo per gli gnostici Basilide e Valentino; Tertulliano per Marcione), in
polemica con l'interpretazione gnostica del cristianesimo, ma che esso fu un
movimento, un fenomeno religioso, molto piu com- plesso ed esteso, certo
anteriore al cristianesimo, un modo di intendere, un tipo di esperienza
religiosa che investf di sé sia tradizioni, misteri, miti greci, sia certe
filosofie ellenistiche (in particolare il "platonismo"), sia la
religione ebraica e poi la cristiana, sia miti e religioni di Oriente,
diversificandosi a seconda, appunto, di quale fu l'ambiente e la cultura in cui
venne operando. Oggi, dunque, non si vede piu nello "gnosti- cismo"
né una "ellenizzazione del cristianesimo" (cfr. Harnack, Lehr- buch
d. Dogmengeschichte, 1886; Buonaiuti, Lo gnosticismo, Roma, 82
1907; De Faye, Gnostiques et gnosticisme, Parigi, 1925; Burkitt, Cliurch
and Gnosis, Cambridge, 1932), né, di contro, un'assoluta derivazione dalla
religione egiziana, da quella iraniana e dai miti babilonesi (cfr. W. Bousset,
Hauptprobleme der Gnosis, che ritiene il complesso delle figure gnostiche, Dio
ignoto, arconti subordinati, il mondo male, e cosi via, di origine
persiano-babilonese; Reitzenstein, che nel Piman- dro, Lipsia, 1904, ritiene lo
gnosticismo di origine egiziana, rintrac- ciando forti affinità con
l'ermetismo, e che nel Das iranische Erlosungs- mysterium, Bonn, 1921, sostiene
la derivazione iraniana dello gnosti- cismo). Ma neppure, infine, si vede nello
gnosticismo un mèro sincre- tismo, come hanno sostenuto W. Hohler (Die Gnosis,
Berlino, 1911) e H. Leisegang (Die Gnosis, Lipsia), aspramente combattuti da Jonas
(Gnosis und Spatantiker Geist, Gottinga). Il termine gnosticismo è usato in
senso molto piu lato, e il problema gnostico si pone oggi in un modo nuovo. Lo gnosticismo
appare ormai come un fenomeno generale della storia delle religioni la cui
larghezza oltrepassa infinitamente i limiti e il terreno del cristianesimo,
queste non sono eresie immanenti al cristianesimo, ma i risultati di un
incontro e di un congiungimento tra la nuova reli- gione e uno gnosticismo che
esisteva prima.di essa, che era inizialmente ad essa estraneo. Lo gnosticismo
ha rivestito in alcuni casi forme cri- stiane o forme che, con il trascorrere
del tempo, si sono sempre piu profondamente cristianizzate, al modo stesso che
in altri casi ha preso forme pagane adattandosi alle mitologie orientali, ai
culti dei misteri, alla filosofia greca, o alle scienze e arti occulte. Per
quanto queste forme nelle quali si è manifestato storicamente lo gnosticismo
siano state di- verse, esso dev'essere considerato un fenomeno specifico, una
categoria o un tipo distinto del pensiero filosofico religioso: si tratta di un
atteg- giamento che ha un andamento, una struttura, leggi proprie che l'ana-
lisi, pervenuta· alla comparazione, può ritrovare sostanzialmente iden- tiche e
con le medesime articolazioni alla base di tutti i diversi sistemi che noi
possiamo, proprio in ragione di questo fondamento o 'stile' comune, raggruppare
sotto una stessa etichet1:a chiamandoli sistemi gnostici" (Puech, La Gnose
et le temps, cii:., p. 79). Si è cercato cosi di vedere lo
"gnosticismo" come un tipo di espe- rienza religiosa, mediante cui,
di volta in volta, a seconda degli ambienti, delle religioni o delle filosofie,
si sarebbero riportati quei miti, quelle religioni,- quelle filosofie a
quell'unico tipo di "gnosi" (conoscenza), in una trasformazione di
quelle stesse filosofie, religioni, miti: fossero questi ultimi originari del
mondo greco-orientale (misteri) o propri dell'Egitto o dell'Iran. Presi da
queste considerazioni bisogna; per altro, non vedere, ovunque, influenze
gnostiche - o, per lo meno, di un certo gnosticismo - tenendo presente che,
nonostante le scoperte piU, recenti di alcuni testi gnostici (lo gnosticismo prima
era conosciuto solo attraverso i testi riportati dagli autori cristiani in
polemica), le posizioni gnostiche da noi conosciute sono piuttosto tarde e
risalenti al solo periodo del primo cristianesimo (1-n sec. d. C.) ed in
relazione con esso. In realtà, sia i manoscritti manichei scoperti a Medinet
Madi (Egitto), nel 1930, sia i tredici papiri contenenti 48 libri gnostici tra-
dotti in copto dal greco, scoperti a Nag Hammadi (Egitto), nel 1946, piu che
allargare nel tempo le nostre conoscenze sullo gnosticismo, hanno da un lato
confermato l'esattezza delle citazioni di testi gnostici da· parte dei
cristiani, dall'altro lato (in particolare gli scritti di Nag Hammadi che
appartengono alla setta dei Setiani) lo stretto rapporto tra i Setiani e la
Palestina e i Setiani e certi aspetti dell'ermetismo di Alessandria. Non solo,
ma ritrovati tra questi ultimi testi tre dei libri ricordati da Porfirio contro
i quali Plotino scrisse il suo trattato contro lo gnosticismo (Il, 9), meglio
si vedono le ragioni che mossero sia un platonico-razionalista tipo Plotino,
sia una posizione come quella cri- stiana a respingere la concezione gnostica
come assurda, l'uno vedendo nello gnosticismo l'assoluta impossibilità di una
deduzione logica del- l'universo - che per altro verso lo portò anche a
polemizzare contro la concezione cristiana di Dio -, l'altra vedendo nello
gnosticismo e nella sua interpretazione della figura del Cristo,
un'ellenizzazione della pro- pria visione, riduttrice dd nuovo a vecchie
posizioni, annullanti la storicità di Gesu. Per meglio intendere come si venne
delineando nel I I - I I I secolo da un lato la "filosofia cristiana"
in senso stretto, dall'altro lato il movi- mento neoplatonico, interessa ora
brevemente e schematicamente - con ciò perdendo le molte sfumature - esporre la
posizione degli gnostici. Innanzi tutto va precisato il significato assunto dal
termine "gnosi" (conoscenza), entro l'àmbito delle sette gnostiche
fiorite nel II secolo. Pur mantenendosi il significato originario e comune di "conoscenza,"
il termine è usato per indicare un particolare tipo di conoscenza. Non si
tratta né di una conoscenza cui si giunge mediante il discorso, le normali vie
della ragione, né di un atto intuitivo della mente, che rivela un principio discorsivamente
analizzabile, bens(di un'improvvisa illu- minazione con cui ciò che si crede
per fede viene, appunto, conosciuto e mediante cui si salvano l'uomo e le cose,
per loro natura, in quanto esistenti, radicalmente ammalati, in preda al male.
Si tratta, dunque, di una conoscenza soterica (salvificante), assolutamente
gratuita, riser- vata ai soli eletti, agli iniziati, a chi abbia avuto,
appunto, rivelata la 84 "gnosi," agli
"gnostici," ai "pneumatikòi" (spirituali: in chi t: passato
il "soffio," lo pneuma divino), come dirà Valentino, per natura supe-
riori agli "psichici" (coloro che hanno SI un'anima, ma non lo
spirito, per i quali è valido il co~flitto morale e la "fede") e agli
"hylici" (i materiali: coloro che sono per natura presi dal corpo e
dalla materia, dal male). Solo tale tipo di "gnosi," salvando,
risolvendo in sé la fede, svela "chi fummo, che cosa siamo diventati, dove
eravamo, da che cosa siamo riscattati, cosa ela rigenerazione" (in
Clemente Alessandrino, Excerpta Theodoti, 78, 2, ed. Sagnard, 1947). In secondo
luogo va detto che tale significato dato alla "gnosi" fun- ziona
quando si tenga presente il radicale pessimismo che emerge da tutti i testi
gnostici da noi conosciuti. Se solo l'Essere (Dio) in quanto Essere è perfetto
e tutto in sé compiuto e perciò Bene, il mondo, tutto ciò che esiste non può
essere l'Essere, ché altrimenti si identificherebbe con lui; il mondo, d'altra
parte cosi pieno di mali ("avendo assistito a cose cosi orribili,
cominciai a domandarmi quale ne fosse la causa, quale il principio, chi in tal
modo tramasse contro gli uomini... No, certo, Dio": Valentino, in Contra
Marcionitas, in Patrol. graeca, VII), non può essere frutto di Dio né sua
emanazione, ma la manifestazione di un altro principio, ·di un principio
decaduto da Dio, ribelle a Dio, e perciò opposto a Dio e che, dunque, è il
Male. Esso, in quanto si rivela, plasma il mondo, il quale mondo è perciò male.
Dio, dunque, è al di là del mondo, non ha prodotto il mondo, non è il reggitore
del mondo, e, dunque, non può essere conosciuto né dal mondo, né attra- verso
il mondo. Attraverso il mondo, opera del male, si coglie piuttosto il male che
Dio, il facitore del mondo, il principe delle tenebre, che imprigiona nel suo
costituirsi tutta la realtà in leggi meccaniche e neces- sarie, da quelle che
regolano il firmamento e i corpi celesti, a quelle stesse che, a loro volta,
determinano i destini terreni, i fati umani. "La regolarità appare allo
gnostico come una ripetizione monotona e opprimente; l'ordine e la legge (il
n6mos fisico e morale) come un giogo insopportabile... Il firmamento, i corpi
celesti, in particolare i pianeti che presiedono al Destino, alla fatalità,
sono esseri malvagi, sono la sede di entità inferiori, come il Demiurgo e gli
angeli creatori o di dominatori demoniaci dalle forme bestiali: gli 'Arconti.'
In una parola l'universo visibile, da divino che era, diviene diabolico. L'uomo
vi soffoca come in una prigione, e, lungi dall'essere la manifestazione del
vero Dio, porta il marchio della sua infermità e della sua perversa
origine" (Puech, cit., p. 85). Si vede bene, allora, come solo la
"gnosi" spezzi la.catena della necessità e del fato, liberi, salvi
dal male, affranchi da ogni legge (morale e fisica), congiungendo l'uomo a Dio,
e come solo gli "gno- stici," coloro che sono stati eletti, possano
essere maestri di conoscenza e siano la "potenza di Dio," il quale
Dio, dunque, resta di là da ogni normale conoscenza, è "ignoto,"
"nascosto," "straniero," "abisso,"
"statico," "ozioso" (non nel senso che è indiscorribile e
inattivo il Dio di certi platonici); solo gli gnostici, dunque, lo vedono, di
una visione che è rivelazione (gnosi). Essi, dunque, potranno insegnare agli altri
come si è strutturato il mondo, in che consista il male, quali pos- sano essere
le pratiche per salvarsi, come l'anima possa riaffiorare a Dio. Entro i termini
di una concezione religiosa, nella ricostruzione del tutto, si poteva
benissimo, sia pur in un rovesciamento del concetto di ordine e del mondo,
rivelazione del divino, usare, rotti dai loro contesti, frasi e passi di
Platone, degli stoici, dei misteri, dei pitagorici, delle tradizioni magico
astrologiche di origine iranica, degli allegorismi ebraici, di certe
interpretazioni ermetiche dell'universo, reinterpretati in funzione di tale
concezione. Si veniva a costituire, cosi, insieme a quella visione religiosa, a
quella "gnosi," una religione, un complesso di riti e di culti,
mediante cui gli eletti, gli gnostici, i pneumatici, si fanno salvatori, hanno
capacità di agire sugli dèi e sui dèmoni, sugli spiriti del male, sugli astri
demoniaci che stringono gli uomini nei loro destini (magia e teurgia), che
dominano il mondo, per asservirli a se stessi, rompendo la catena del mondo.
Fenomeno assai diffuso, certo la "gnosi" non si riduce a questo; dal
n secolo in poi, veniamo ad avere una serie di sette, di forme diverse di
"gnosi," difficilissime ad individuarsi e che soprattutto inte-
ressano lo storico delle religioni. Ma, ancora, _va sottolineato un aspetto,
quale chiaramente risulta dai documenti che abbiamo, e cioè come, almeno in
principio, il Cristianesimo nel suo incontrarsi con gente che gnosticamente
sentiva sé come portatrice della "potenza di Dio," po- tesse
benissimo essere assunto come una delle posizioni gnostiche e potesse essere
interpretato in chiave gnostica, si come, per altra via, poteva essere
interpretato entro i termini della concezione di Filone l'Ebreo. E qui pensiamo
allo sviluppo di una corrente del pensiero gno- stico, quale si rivela
chiaramente attraverso ciò che ci è detto di Simon Mago, di Menandro e di
Saturnilo di Antiochia, e dei loro presumibili successori, Basilide, Valentino,
Marcione, forse Bardesane, da cui, pro- seguendo fin verso il vn secolo, si
vennero costituendo gruppi diversi e molteplici (Ofiti o Naasseni, ossia
"serpentini" in greco e in ebraico, "gnostici" veri e
propri, Setiani, Arcontici, Audiani, e Basilidiani, Va- lentiniani, Marcioniti,
Bardesaniti e cosi via). Particolarmente interessante è a questo proposito il
racconto di 86 Simon Mago/3 riferito dagli Atti degli Apostoli. Il
diacono Filippo "arrivato alla città di Samaria predicava loro Cristo. E
la moltitudine concordemente prestava attenzione a quello che diceva Filippo,
ascol- tandolo e vedendo i miracoli che faceva, poiché da molti, che avevano
spiriti immondi, questi uscivano, gridando ad alta voce. E molti para- litici e
zoppi furono sanati. Per la qual cosa fu grande allegrezza in quella città. Ma
un certo uomo chiamato Simone stava già da tempo in quella città, esercitando
la magia, e seduceva la gente di Samaria, spac- ciandosi per qualche cosa di
grande: e tutti gli davano retta, dal piu piccolo al piu grande, e dicevano:
questo uomo è la potenza di Dio [non va qui scordato che nel Vangelo di Luca
l'angelo dice a Maria: 'Lo spirito santo scenderà sopra di te e la potenza
dell'Altissimo ti coprirà con la sua ombra': Luca, l, 35],·la potenza di Dio
che si chiama grande. E lo ubbidivano perché da molto tempo li aveva ammaliati
con le sue magie. Ma quando ebbero creduto a Filippo, che evangelizzava loro il
regno di Dio, uomini e donne si battezzarono nel nome di Gesu Cristo. Allora
anche Simone credette, e battezzatosi divenne intimo di Filippo. E osservando i
segni e i miracoli grandi che seguivano, usciva fuori di sé per lo
stupore" (Atti degli Apostoli, VIII, 5-13). Venuti, poi, da Gerusalemme a
Samaria Pietro e Giovanni, inviati dagli Apostoli a far discendere in quei di
Samaria lo Spirito Santo con l'imposizione delle mani, Simone offerse agli
Apostoli denaro dicendo: "Date anche a me questo potere, che a chiunque
imporrò le mani riceva lo Spirito Santo." Pietro gli disse: "Il tuo
denaro perisca con te, poiché hai giu- dicato che si acquisti con il denaro il
dono di Dio" (Atti Apostr, id.). 13 Di Simone,. detto Mago, nato a Gitton,
in Samaria, vissuto nel 1 secolo d. C., non sappiamo se non ciò che dicono i
primi scrittori cristiani. Secondo le Omelie pseudo clementine Simone avrebbe
studiato in Alessandria, dove anche avrebbe appreso le arti della magia e si
sarebbe accostato alle interpretazioni di Filone l'Ebreo ("la menzione di
Alessandria, il centro della scienza e della filosofia greche di quest'epoca,
vtiol certo sottolineare le intime relazioni con la saggezza greca e con la
scienza giudeo-ellenistica": Leisegang, cit., p. 49). Secondo le
Ricognizioni, Simone, tornato in Samaria, avrebbe aderito alla setta che
Dositea vi aveva fondato dopo l'esecuzione di Giovanni Battista, setta
costituita di trenta discepoli (uno per ogni giorno del mese) e di una donna,
chia- mata Luna o Elena; su tutti presiedeva Dositea, detto l'hestòs, il
supremo, rappresentante• di Dio. Secondo Giustino (Apol. l, 26), Simone si
sarebbe recato a Roma al tempo del- l'imperatore Claudio: "Aiutato dai
dèmoni, fece prodigi di magia. Fu preso per un Dio e, come a un Dio, gli fu
eretta una statua, nell'isola tiberina, tra i due ponti con la seguente
iscrizione latina: Simoni deo sancto; quasi tutti i Samaritani e alcuni di
altre nazioni lo riconoscono e lo adorano come loro prima divinià; una certa Elena,
che lo accompagnava in tutti i suoi viaggi, e ch'era prima vissuta in un
postribolo, passa per essere la sua prima Ennoia..." Di una sua opera, La
grande rivelazione, lppolito ha con- servato alcuni testi (lppolito,
Philosoph., VI, 7 sgg.). Poco o nulla sappiamo dei due discepoli diretti di
Simone, Menandro della Samaria (cfr. Giustino, Apol. l, 26; Ireneo, Haeres., I,
23, 5) e Saturnilo (cfr. Ireneo, Haeres., 24, 1-2; Ippolito, Philos., VII, 28;
Epifanio, Panar., 23, 1-2; Tertulli"ano, De anima, 23; Filastrici,
Haeres., 31). Dopo il pentimento di Simone, gli Apostoli tornarono a
Gerusalemme. Il racconto è molto indicativo. Simone è un uomo, che, prima
dell'in- contro con i Cristiani, ha già in sé la "potènza di Dio,"
che incen- tratosi con gli "inviati" del Signore, si sente loro
vicino, anche se da essi respinto, e si fa cristiano. ~ stato detto che questo
"racconto riflette in piccolo la storia della gnosi eretica. Essa esisteva
prima del Cristia- nesimo, si è fatta cristiana, i cristiani l'hanno respinta,
ma essa pretende rimanere cristiana e passare per tale" (H: Leisegang, La
gnose, trad. frane., Parigi, 1951, p. 49). E ciò, si può aggiungere, era
possibile per il fatto che lo stesso Cristianesimo appariva come un tipo di
"gnosi," par- ticolarmente negli ambienti della "gnosi"
ebraica e dell'ebraismo elle- nizzato di Alessandria (si veda sempre Simon Mago
e la sua vicinanza, nell'interpretazione allegorica del Vecchio Testamento, a
Filone l'Ebreo). Simon Mago e, sulla sua scia, Menandro e Saturnilo, vedono
nella rive- lazione del Cristo la "gnosi," per cui cercano di
innestare il Cristo, ve- nuto a salvare l'uomo, entro i limiti della visione
"gnostica" dell'Uni- verso, ove la redenzione umana di Cristo si
trasforma in redenzione cosmica, e dove accanto agli elementi
dell'interpretazione allegorica della Bibbia, giuocano non pochi elementi
tratti dalle filosofie elleni- stiche (platonismo, pitagorismo), dai misteri
greci, egizi, iranici, anche se, come abbiamo visto, se ne rovescia il
significato, per ciò che riguarda il rapporto Dio-mondo, Dio-anima,
particolarmente impostato dalle filo- sofie e dai misteri greci. Per Simon Mago
la radice del grande albero dell'Essere, veduto in sogno da Nabuccodonosor
(Daniele, IV, 7 sgg.), è il "divorante fuoco" del Deuteronomio,
"tesoro del visibile e dell'intelligibile," esso Dio Padre, Yavè. Da
tale "fuoco," uno e in sé conchiuso, si genera una serie di coppie.
Essendo esso pensiero e parola, le prime coppie, enti a Dio coeterni (eom),
sono Intelletto (N'iis) e Riflessione (eplnoia), e, quindi, voce e nome,
ragienamento (loghism&s) ed esigenza (enthy- mesis). Da essi scaturisce il
pensiero buono (èunoia) del padre, che, a sua volta, produce gli Angeli che
dànno realtà a tutte le cose. Solo che gli Angeli, affermandosi, si distaccano
dall'Uno padre, facendo, allegoricamente, prigioniera tunoia, la quale si
determina in un corpo di donna, subendo una serie di trasformazioni (è stata
Elena di Sparta e infine una prostituta siriana). Il corpo, dunque, la materia
sono il frutto dell'orgoglio degli Angeli, del pensiero distaccatosi dalla
radice prima. Il Padre, allora, per recuperare e liberare tunoia si manifesta
in nuove forme, in Gesu, nello Spirito Santo e in Simone stesso, me- diante cui
si salvano coloro che il Padre ha scelto (gli eletti), indipen- dentemente
dalle opere e dalle azioni umane, tutte in sé malvage e ribelli. Dio,
attraverso Gesu, lo Spirito Santo e Simone, è venuto a salvare il Pensiero, non
l'uomo, la realtà molteplice, che ritorna una nel pensiero uno di Dio,
nell'unità del fuoco primo e ultimo (per lo scritto, La grande rivelazione,
attribuito a Simone, e per i frammenti da cui si è ricavato quanto sopra cfr.
Ippolito, Philosophumena, VI, 9 sgg.; lreneo, Adv. haeres.; Ricognizioni, Il, 7
sgg.; Omelie pseudo Clementine, II, 22 sgg.; San Giustino, Apologia prima, 26).
Cosi, anche per Menandro e Saturnilo di Antiochia, seguaci di Simone, non del
Dio ignoto e tutto in sé compiuto (donde sono scaturiti gli angeli, gli
arcangeli, le potenze e le. dominazioni) sono frutto il mondo e gli uomini, ma
degli angeli che, oramai lontani da Dio e dalla sua imma- gine, hanno,
affermando se stessi e quindi ribellandosi a Dio, costituito malamente le cose
e gli uomini, che sono quindi in parte buoni e in parte cattivi e demoniaci, e
che non si salverebbero senza la gnosi dovuta al Cr!sto, il quale, ingenerato e
incorporeo non si è manife- stato.come un uomo, ma come il /Ogos. "Gli
angeli hanno fatto due specie di uomini, i buoni e i cattivi: poiché i dèmoni
aiutano i malvagi, il Salvatore si è manifestato per annientare cattivi e
dèmoni e salvare i buoni. Il matrimonio e la generazione [cioè la
moltiplicazione degli uomini] sono opera del diavolo..., il quale, l'ultimo
degli angeli, è il nemico incarnato dei precedenti- angeli e del Dio degli
Ebrei" (Ireneo, Adv. haereses, I, 24, 2). Piu a un dramma cosmico, che non
di persone, come era per Satur- nilo, tornano Basilide e il piu notevole dei
cosiddetti gnostici eretici del n secolo, Valentino. Basilide di Alessandria,14
morto nel 138 circa (avrebbe scritto 23 o 24 libri di Esegesi al Vangelo,
Incantagioni, un proprio Vangelo), invocate le rivelazioni di ignoti profeti,
come Ham e Barcabba, rifacendosi a Pitagora e al mitico Ferecide, pone al
principio un Dio ignoto, unico, invisibile, incomprensibile e innominabile, che
ha in sé tutte le possi- bilità, i semi di tutto (lo Yavè degli ebrei, il Crono
degli Orfici). Pura luminosità Dio, da lui in principio prolificano tre figli:
il primo figlio, che, come raggio di luce che si riflette nella fonte luminosa
da cui proviene, rimane in Dio; i l secondo figlio, che illumina le altre H
Forse discepolo di Menandro (vedi sopra), Basilide insegnò ad Alessandria tra
il 120 e il 138 circa, sotto Adriano e Antonino Pio. Secondo i basilidiani egli
avrebbe rice- vuto la sua dottrina da un certo Glaucia, interprete di San
Pietro. L'insegnamento di Basilide fu proseguito dal figlio lsidoro. Di un
Vangelo di Basilide e dei suoi Commen- tari (in 23 o 24 libri) restano alcune
citazioni; avrebbe composto delle Odi. Per i fram- menti di Basilide dr. Acta
Arche/ai et Manetis, c. 55; Clemente Alessandrino, Stromala, IV, 12, 83, 88;
III, l, 1-3; cfr. anche l'esposizione del pensiero di Basilide ad opera di
lppolito, Philor., VII, 20 sgg.; Ireheo, Han-er., I, 24, 6. 89
semenze, ritornando quindi in Dio; il terzo figlio.che rimane a
fof\damento delle semenze. Dio e le sue tre filiazioni costituiscono un
tutt'uno, la potenza di tutto, rimanendo Dio sempre tutto in atto, per cui tra
Dio e il resto della realtà vi è come un limite, un passaggio proibito, un
orizzonte invalicabile, detto da Basilide "sfera solida" (steréoma).
L'universo non è Cf?Stituito da Dio, ma da un nuovo essere 'scaturito da uno
degli infiniti semi di Dio, il "grande Arconte," inferiore ai tre
primi figli, ma simile al Padre per potenza, onde egli diviene principio di una
serie di filiazioni intermedie tra la "sfera solida" e la sfera della
luna; l'ultima di queste divinità è il Dio degli Ebrei che ha sede, appunto,
nella lulfa. Egli quindi, avendo in sé il riflesso della potenza divina,
trovandosi al limite della materia caotica, al di sotto della luna, ha
costituito questo mondo e l'uomo. L'orgoglio del primo Arconte, che, separato
da Dio a causa della "sfera solida," afferma se stesso, opponendosi a
Dio, si riflette su tutta la sua filiazione fino al Dio degli Ebrei, che
proclama sé unico e vero Dio. Il primo figlio di Dio, allora, l'unico che ha la
conoscenza ("gnosis") autentica di Dio, si rivela al primo Arconte,
che, convinto dell'errore, in cui era caduto per ignoranza, conoscendo il vero
Dio, riflette a tutti i cieli e alla sua filiazione tale rivelazione, e tutti
rientrano nell'ordine, finché un nuovo figlio di Dio, parola di Dio, come Dio
eterno (eone), il Cristo, riscatta, rivelando la vera "gnosi" alla
terra e all'uomo, l'opera del Dio degli Ebrei, abrogando la vecchia legge, e
mediante sé e la "gnosi," condu- cendo l'uomo al Dio primo. Tale,
sembra - le fonti, polemiche e in gran parte discordi, non permettono, in
realtà, una ricostruzione esatta -, la visione di Basilide. Valentino/5
originario dell'Egitto, formatosi nell'ambiente religioso 15 Originario
dell'Egitto, Valentino stesso sostiene d'esSere stato discepolo di un certo
Teoda, diretto ascoltatore di San Paolo. Dopo aver predicato in Egitto,
sappiamo che Valentino fu in Roma, prima sotto il vescovo Igino, poi sotto il
vescovo Aniceto (dal 135 al 160 circa). Dopo aver rotto con la Chiesa, dalla
quale fu cacciato, Valentino si ritirò in Cipro dove fondò una propria scuola.
Di lui si citano lettere, omelie, salmi, e due opere Le tre tlature e il
Vangelo della verità. Sulle fonti per ricostruire il sistema di Valentino, cfr.
sopra, il testo. Dopo Valentino la sua scuola si sparse in tutto l'im- pero..
Tra i valentiniani orientali si citano: Marco, che insegnava in Asia Minore
verso il 180, e di cui sappiamo qualcosa attraverso Ireneo; Teodoto, di cui
abbiamo riferiti alcuni testi in Clemente Alessandrino, Excerpta ex scriptis
Theodoti; Bardesane, nato ad Edessa nel !54, dove morl nel 222 circa, autore,
sembra, di centocinquanta salmi con relative melodie, e di un libro Sul.destino
(ritrovato in siriaco: cfr. ediz. F. Nau, in Patrologia syriaca), che, in
realtà, fu composto da un suo discepolo, Filippo, in cui si vuoi dimostrare che
gli astri non negano affatto la libertà degli uomini; Armonio, figlio di
Bardesane. Tra i valentiniani che avrebbero predicato in occidente, si citano:
Secondo, Eracleone (il miglior discepolo di Valentino, fiorito tra il 155 e il
180, e di cui si con- servano una quarantina di frammenti, estratti da un suo
commentario a San Giovanni), 90 di Alessandria al tempo
dell'imperatore Adriano (117-138 d. C.), cri· stiano dapprima, dopo il suo
soggiorno a Roma (136-166), ruppe con la Chiesa. Visse, quindi, in Oriente e
fondò a Cipro una propria scuola. A parte pochi frammenti, tratti da sue
omelie, inni, lettere e i titoli di due sue opere, Le tre nature e il Vangelo
della verità, nulla resta che si possa con certezza attribuire a Valentino. Una
rielaborazione, forse, della concezione di Valentino, piu tarda (del m secolo
circa), assai oscura, composta di testi diversi, con elementi propri di altre
sette gnostiche ("ofitiche"), è la Pistis Sophia, un'opera gnostica,
in copto, scoperta in Egitto sulla fine del xvm secolo dallo Askew e pubblicata
dal Petermann nel 1851, il cui perno è la nar~azione della caduta e della
liberazione dell'eone detto, appunto, pistis sophia, mediante cui si vuoi
dimostrare che la fede ha da risolversi in conoscenza. Nonostante che a seconda.delle
fonti usate (Ireneo, Adv. haeres., I, l; Ippolito, P.hilos., VI, 29) si possano
ricostruire vari sistemi valen- tiniani, nel suo insieme abbastanza chiara
risulta, nelle linee generali, la costruzione di Valentino. In quanto
principio, il fondamento del tutto è in sé perfetto e uno, ingenerato, padre
dei padri, Propadre (Propator), indicibile e invisibile, senza fondo, e perciò
Abisso (Bythòs), perfetto in eterno (téleios aiòn), perfetto eone, tutto in sé
compiuto, da nulla turbato ("negli sconfinati spazi sta_ in pace e
solitudine immensa": lreneo, Adv. haeres., I, l, sgg.). Monade; dice
Ippolito, è il Dio di Valen- tino, in quanto tutto è in sé solitario, unico,
senza consorte e senza compagna (&~•Jyot; xcxt il.&-tjÀut;: Ippolito,
Refut., VI, 29); pensiero tutto compiuto e perciò facente un tutt'uno con
énnoia, mente, dice Ireneo, per cui énnoia è silenzio (sighè) e grazia
(charis). L'unione, in eterno, di Pensiero e Mente (la prima delle coppie,
delle syzyghiat) genera Intelletto (Nous), simile ed uguale a colui che l'ha
emesso e solo capace di abbracciare la grandezza del padre. Questo intelletto -
prosegue Ireneo nella sua espos1z1one del sistema valentiniano - ~ detto anche
Unigenito (Monoghen~s) e Padre e Principio (Arch~) del tutto. Con lui fu emessa
pure Verità (Al~theia). Questa ~ la tetrade pitagorica prima e originaria che
chiamano anche Radice del Tutto: e ci~ Bythòs e Sigh~, quindi Nous e Al~theia.
Ora Monoghès, resosi conto del perch~ era stato emesso, emise a sua volta
Ragione (Logos) e Vita (Zoe) in quanto padre di tutti coloro che avrebbero
dovuto essere dopo di lui, e principio e forma di tutto il Pléroma [il
complesso, il "plenum" di tutte le filiazioni e coppie di eoni],
quindi: da L6gos e Z~ furono emessi per Tolomeo (di lui, conservata da
Epifanio, Ha~u., 33, 3-7, abbiamo una Lt!IUra a Flora, in cui si inizia alla
gnosi una donn•). Altri valentiniani d'occidente sono: Fiorino, Teo· timo,
Alessandro. 91 accoppiamento (sizighfa) Uomo (Ànthropos) e chiesa
(ecclesia). Questa è l'ogdoade originaria, radice e sostanza del tutto,
designata da loro con quat- tro nomi: Byth6s, Nous, L6gos e Anthropos. Ciascuno
di essi è maschio e femmina: cosf il Pre-padre si è unito per sizighla alla.sua
propria Mente (Ennoia), Monoghenito, cioè Nous, ad Alètheia, L6gos a Zoè,
Anthropos a Ecclesfa. Ora questi Eoni emessi a gloria del Padre, volendo
anch'essi glorificare il Padre da parte loro, dopo l'emanazione di Anthropos ed
Eccle- sfa, emisero altri dieci eoni, i cui nomi sono... [Profondo e Unione,
Senza vecchiaia e unità, Spontaneo e Voluttà, Immoto e Commistione, Unigenito e
Beatitudine]. Ànthropos, a sua volta, con Ecclesfa emise dodici eoni a cui sono
dati i nomi seguenti: lntercessore e Fede, Paterno e Speranza, Materno e
Amorevolezza (Agàpe), Intelletto eterno e lntellezione, Ecclesiastico e
Beatitudine, Desiderato e Sapienza (Sophfa). Questi sono i trenta Eoni...
taciuti e non conosciuti: questo il loro Plèroma invisibile e spirituale,
diviso in tre parti, ogdoade, decade e dodecade. Affermano che quel loro
Pre-padre (Propator) è conosciuto dal loro Monogenito nato da lui, cioè da
Nous, mentre è invisibile e irrangiungibile per tutti gli altri. Non solo, di
contro ad essi, si beava contemplando il Padre e gioiva meditandone
l'incommensu- rabile grandezza... Tutti gli altri eoni, pur restando immoti,
bramavano vedere Colui che aveva emesso il loro seme e riconoscere quella
radice senza principio. Ma l'ultimo e piu recente degli Eoni della dodecade,
emesso da Anthropos e Ecclesfa, cioè Sophla, spiccò un balzo immenso e
fu.scossa da passione senza l'amplesso del suo compagno Théletos (Desiderato).
Questa passione è la ricerca del Padre; voleva, dicono, abbracciarne la
grandezza. Ma non avendo potuto abbracciarla, poiché la cosa era impossibile,
fu colta da immensa angoscia, di fronte alla grandezza dell'abisso,
all'impossibilità di proseguire verso il Padre ed alla tenerezza per Lui:
protesa com'era sem- pre innanzi, sarebbe stata totalmente inghiottita dalla
dolcezza di Lui e si sarebbe dissolta nell'essere totale, se non si fosse
scontrata in una Potenza solidamente costituita che, stando al di fuori della
Grandezza ineffabile, era di guardia al tutto. Questa Potenza è
detta...-Confine (Horos): fu essa a trattenere [Sophla], fermarla e, a fatica,
ritorcerla indietro, convincendola che il Padre è irraggiungibile. La prima
Passione (Enthùmesis), con l'Ango. scia che ad essa era sopravvenuta, si
distolse (cosl) da quel rapimento con- templativo. Questo Confine (Horos) si
chiama anche Croce (Stauròs) e Redentore (Lutrotés) e Affrancatore
(Karpistés)... Per mezzo suo la Sophia fu purifi- cata e consolidata e
restituita all'amplesso (sigizìa). Separatasi da lei Enthù- mesis con
l'Angoscia sopraggiunta, essa... rimane entro il Pléroma, mentre Enthùmesis,
insieme all'Angoscia, fu segregata e rimase fuori di questo: essa è sostanza
spirituale (pneumatica), in quanto è un certo istinto naturale dell'eone, ma
senza forma, poiché nulla afferra: per questo la chiamano frutto cattivo e
principio femminile.... In seguito Monogenito emise un'altra coppia (sigizìa)
per riguardo al Padre, cioè Cristo e Spirito Santo, e mentre il Cristo insegna
[agli eonil 92 la natura della sigizìa... lo Spirito Santo insegnò
ad essi, resi tutti eguali, a rendere grazie ed apprese loro la vera pace
totale. E per questo beneficio, con una sola volontà ed un solo intendimento,
tutto il Pléroma degli e011Ì, uniti il Cristo e lo Spirito Santo al coro
comune,... raccogliendo insieme cia- scuno degli eoni ciò che v'era di piu
bello e splendente... emisero, ad onore e gloria di Byth6s, una emissione
suprema, quasi la bellezza e l'astro stesso del Pléroma, Gesu frutto perfetto,
soprannominato anche Salvatore, Cristo, Logos e "il Tutto," poiché da
tutti egli proveniva...: ed insieme con lui furono emessi gli angioli, sua
scorta e, per [suo] onore, generati simili a lui.... Quanto poi a ciò che è
fuori del Pléroma... la passione (enthùmesis) della sophia superiore, detta
Achamoth [dall'ebraico Hokmah, "Sapienza," conoscenza divina],
esclusa dal Pléroma insieme all'Angoscia, rigettata nel- l'ombra e nel vuoto...
come aborto... andava alla ricerca della Luce che l'aveva abbandonata, ma non poteva
raggiungerla, impedita com'era da Horos:... sopravvenne allora in essa un altro
intento, quello che spinge a creare cose vive... Achamoth poi generò frutti a
somiglianza [degli angeli], generazione spirituale a somiglianza della scorta
del Salvatore... Già tre sostanze preesistevano di per sé: una dall'angoscia,
cioè la mate ria, un'altra dal movimento di ritorno all'indietro, cioè
l'elemento psichico una terza ciò che essa [Achamoth] aveva generato, cioè
l'elemento spirituale [Achamoth] si volse allora a dare ad essa una forma... E
dalla sostanza psi- chica formò il padre e re di quanto è fuori dall'eone,
crèatore ·a sua volta di quanto è animato e materiale...; [quest'ultimo] creò
le cose celesti e ter- rene,... foggiò sette cieli, al disopra dei quali è lui,
·il Demiurgo... Creato il mondo, quest'[ultimo] creò anche l'uomo materiale,
non da questa terra arida, ma dall'essenza invisibile della materia disciolta e
fluida; ed in esso insufBò l'elemento psichico... Ma quanto invece fu generato
dalla Madre Achamoth è spirituale. L'uomo spirituale, che era nato dalla
Sophfa, semi- nato quando avvenne l'insufBazione, rimase celato al Demiurgo...
che come non aveva conosciuto la Madre, cosf non ne conobbe il seme... Questo
uomo è il loro uomo ed essi vengono cos{ ad avere l'anima fatta dal Demiurgo,
il corpo fatto di terra, la carne derivata dalla materia, ma l'uomo spirituale
deriva dalla Madre Achamoth. Sono dunque tre realtà: ciò che è materiale...
fatalmente destinato a rovina, essendo incapace di accogliere qualunque soffio
di immortalità; ciò che è fornito di anima... posto a metà fra ciò che è
spirituale e ciò che è materiale, che sta là dove terminerà di volgersi; quello
che è spirituale... e questo... è il "sale" e la "luce del
mondo" (Mt., 5, 13-14), che è stato emesso perché qui, unito a ciò che è
psichico, si formi e sia elevato con esso nel movimento di ritorno. Il
compimento supremo si avrà quando tutto ciò che è spirituale (cioè gli uomini
pneumatici che posseggono la perfetta cono- scenza - gnosi - di Dio e di
Achamoth) sia stato formato e reso perfetto con la gnosi. Gli "iniziati ai
misteri" sono loro stessi (lreneo, Adv. haeres., I, l, l sgg.: dalla
traduzione di F. Bolgiani, in La filosofia medievale, anto- logia di testi a
cura di N. Abbagnano, Bari, 1963). 93 Sarebbe ozioso soffermarci
sulle infinite sfumature, distinzioni, vena- ture diverse con cui si presenta
la "gnosi" ·nei molti aspetti che prese sia con i prosecutori di
Valentino in Egitto e in Siria (Axionico, Marco, Teodato, Bardesane: Bardesane,
originario della Mesopotamia, predicò ad Edessa, ritenendosi il vero interprete
del Cristo, ch'egli sosteneva non essere nato da donna, né, in quanto 16gos di
Dio, avere preso forma umana: di contro a Dio, il diavolo e il male hanno una
realtà per sé e non sono quindi eoni fuorusciti o decaduti dal pléroma; di qui
l'eterna lotta tra il bene e il male, tra la luce e le tenebre); sia in
occidente con Secondo, Eracleone, Tolomeo (di Tolomeo, conservataci da Epifane,
nel suo Panarion, abbiamo una Lettera a Flora, in cui Tolomeo inizia una donna
colta, Flora, all'idelogia della "gnosi"; esponendo la medita- zione
valentiniana sugli eoni e sulla loro traduzione in termini pitagorici,
costituendo essi una ottava, una decade e una dodecade). Accanto- nate inoltre
le molte sett~ gnostiche a carattere popolare, cui fu dato genericamente il
nome di sette "serpentine" (ofiti o naassem), per la funzione data da
tutte al serpe (venga esso inteso come il circolo vitale che regge il tutto in
unità, stringendo il mondo nella necessità, nel male, o venga inteso come il
principio vitale, l'anima, che sfugge dal corpo, o che ha la capacità di
rinnovarsi, per.cui il serpente rappresenta anche il simbolo della generazione,
a seconda di vecchi miti e misteri), e, accantonata la setta risalente al
mitico Carpocrate e quella detta dei Barbelognostici,16 non si possono qui, per
la diffusione e l'influenza che ebbero, lasciare da parte da un lato il
Marcionismo e, dall'altro lato, il Mandeismo e il Manicheismo. Marcione,11 nato
a Sinope, nel Ponto, nell'85 d.C. circa, dapprima 16 Accanto a Basilide e a Valentino,
Carpocrate è ritenuto il fondatore della terza grande "gnosi"
alessandrina. Contemporaneo di Basilide e di Valentino la sua figura e ·
personalità sono leggendarie. Secondo Clemente Alessandrino (Strom., m, 2), il
figlio di Carpocrate, Epifania, morto a f7 anni, avrebbe scritto un trattato
Sulla Giustizia. "Barbelognostiche" son dette quelle sette il cui
culto e la cui dottrina s'incentrano sulla figura del Barb~lo, "in quattro
è Dio," in ebraico Barbhé Eliha (la tetrade costituita dal Padre, Fi~lio,
Pneuma femminile, Cristo}: si son fatti rientrare sotto questa etichetta i
Nicolaiti, i Fibioniti, gli Straziotici, i Levitici, i Barboriti, i Coddiani,
gli Zacheeni e i Barbeliti. Si confronti particolarmente, Epifania, Panarion. l
T Di Marcione sappiamo che nacque a Sinope, nel Ponto, nell'85 d. C., e che
mori a Roma nel 160 circa. Per il resto vedi sopra, il testo. Della sua opera,
Antitesi, abbiamo notizie attraverso S. Giustino, Sant'Ireneo, e
particolarmente attraverso Tertulliano (De fJI'~scriptione, Adv~sus Mare.
libri.V, D~ carne Christi). Per una ricostruzione del testo dell'opera di
Marcione, cfr. A. von Harnack, Mart:ion, Lipsia 1921, il quale sostiene che
Marcione non è da considerare affatto entro l'àmbito della gnosi (vedi, ora, di
contro, A. C. Blackmann, Mart:ion and his lnflu~nce, Londra, 1949). Discepolo
di Marctone fu un certo Apelle, che dopo avere ascoltato Marcione a Roma,
predicò in Alessandria. Tor- nato a Roma vi mori nel 180 circa. Scrisse un
libro sui Sillo6ismi (citato da Sant'Am· 94 aderente alla Chiesa
cnsuana, se ne distaccò per fondare una nuova Chiesa, la "Vera Chiesa di
Cristo." Egli visse, predicò e costitu1 la sua Chiesa in Roma circa negli
anni in cui visse a Roma anche Valentino. Figlio di un vescovo cristiano, la
sua interpretazione del cristianesimo gli valse fin dal principio l'esclusione
dalla Chiesa di Sinope, ad opera di suo padre. A Roma, entrato in quella
Chiesa, in silenzio lavorò intorno ad un'interpretazione del Nuovo Testamento e
al rapporto in cui porre il Vecchio con il Nuovo (di qui la sua opera
intitolata Antitesi). "Terminato il suo lavoro, Marcione si presentò
dinanzi alla comunità cristiana ed invitò i presbiteri a prendere posizione
sulla sua opera e la sua dottrina. Le discussioni si conchiusero con un
categorico rifiuto della tesi di Marcione e con la sua esclusione dalla Chiesa
romana. Marcione, convinto della verità del suo Vangelo ne trae le conseguenze.
Sarà il riformatore del Cristianesimo primitivo. Non è una setta, ma una Chiesa
sempre piu numerosa, composta di comunità particolari soli- damente
organizzate, la vera Chiesa del Cristo, ch'egli erige di fronte alla Chiesa
cattolica, assolutamente convinto di agire da autentico suc- cessore
dell'Apostolo Paolo. Verso il150, Giustino annota che il Vangelo di Marcione si
estende su tutta l'umanità. Tertulliano conferma la testi- monianza di
Giustino: 'La tradizione eretica di Marcione' - scrive - 'ha riempito
l'universo.' Intorno al 400 si trovano ancora dei marcioniti a Roma, in Egitto,
in Palestina, in Arabia, in Siria, e a Cipro. Marcione è divenuto eretico,
perché, di tutti i cristiani del suo tempo, è stato il solo filologo, il solo a
non interpretare le Scritture.del Vecchio Testa- mento e del nascente
cristianesimo per via di allegorie, cercando invece di intendere le scritture
in senso proprio e letterale..." (Leisegang, cit., p. 186). In realtà
Marcione, muovendo da un attento studio delle lettere di Paolo (ai Romani e ai
Galati), rileva la netta distinzione tra il Dio proclamato dal Cristo, Dio
ignoto, perché persona e libertà, Dio di bontà e di amore, e il Dio del Vecchio
Testamento, Dio degli eserciti, di un popolo, Dio vendicativo e giusto, Dio di
punizione. Cristo, dun- que, figlio di Dio, non può essere figlio del Dio degli
Ebrei. Cristo, perciò, non rivela il Dio degli Ebrei, il facitore del mondo, e
dell'uomo, ma un Dio fino ad ora ignoto, l'ignoto Dio del discorso
dell'Areopago di Paolo. Ques~o mondo, perciò, intessuto di male e di dolore,
questi uomini, caduti con il peccato di Adamo, sono il frutto del Dio
"giusto" e puni- tivo, del Dio della Legge e del Vecchio Testamento.
Col Cristo, invece, brogio, De Paradiso, 28), in cui dimostrava che i libri di
Mos~ sono pieni- di errori, e un libro intitolato Rivelazioni (cpczvcp6!acLt;)
in cui narrava le rivelazioni cha avrebbe avuto una certa Filomena,
apparte,nente alla setta marcionita. 95 figlio del Dio buono, si
rivela un nuovo Djo, un Dio fino adesso ignoto. I profeti prima di Cristo hanno
predicato il primo Dio, il Dio della Legge. L'albero del male, che non può dare
che cattivi frutti e \ii cui parla il Cristo - interpreta Marcione - è il Dio
del Vecchio Testa- mento; l'albero del bene, che non può produrre che frutti
buoni, è il Padre di Cristo, il nuovo Dio, il Dio dell'amore. Il Dio di Cristo
non è perciò l'autore di questo mondo, ·egli anzi è estraneo a tutto il mondo,
e se interviene per salvare l'uomo e il mondo, il suo intervento è asso-
lutamente gratuito. Libero dal mondo, oltre il mondo, Dio, mediante il proprio
atto, viene a salvare l'uomo dal vecchio Dio e dalla Legge, con un atto di
suprema grazia e di miseri<;ordia, proprio perch~ il Dio finora ignoto non
ha nulla a che fare con il mondo quale è. Di qui, nell'interpretazione che
Marcione dà del Vangelo - egli assume a prototipo il Vangelo di Luca - e delle
lettere di Paolo - egli sostiene che gran parte delle lettere paoline sono
apocrife, o fin dal principio sono state intese in chiave giudaica, vedendovi
un rapporto col Vecchio Testamento, contraddittorio con il piu intimo
significato della buona novella - la netta opposizione tra il Vecchio e il
Nuovo Testamento, che diviene opposizione tra il mondo malvagio e opera di un
Dio, di un demiurgo cattivo, e il dio· buono e "straniero," ignoto,
che salva. l'uomo mediante il figlio suo, Cristo, da nulla preparato, assoluto
e nuovissimo atto di rivelazione, per cui l'uomo può "conoscere"
(gnosi), attraverso il figlio, il Dio buono. Questa la buona nuova, il Vangelo
di Marcione, onde la necessità di epurare gli altri Vangeli, le Lettere di
Paolo, gli Atti degli Apostoli dalle interpretazioni ebraiche, che sottil-
mente distruggono il significato piu vero del Vangelo. Di qui, in nome di
Cristo, di contro alla Chiesa di Roma, l'esigenza di erigere la vera Chiesa di
Cristo. Fede per fede, il Vangelo di Marcione poteva valere, sul piano del-
l'interpretazione del Cristo e della funzione nella storia del mondo e della
salvazione dell'uomo, tanto quanto i Vangeli, posti dalla Chiesa come
autentici. Sotto questo aspetto, storicamente, l'opposizione a Mar- cione della
Chiesa ufficiale, già costituitasi e avente già, anche se ancora estremamente
fluttuante, un suo primo corpo dottrinario, è un'opposi- zione che va
considerata non sul piano del vero e del falso, della eresia o meno, ma su quello
di due modi diversi d'interpcetare la rivelazione di Dio mediante il Cristo.
Senza dubbio, come già dicevamo, vanno, entro l'àmbito della "gnosi,"
tenuti presenti certi dati e, particolarmente, la formazione cul- turale, la
tradizione religiosa, l'ambiente entro cui si sono venute svi- luppando le
varie interpretazioni del Cristo. Cos1, la· "gnosi,. fiorita in 96
ambiente ebraico-alessandrino, sulla linea di Filone l'Ebreo, in cui si
innestano tradizioni platoniche e stoiche, sia pur rovesciate, ha dato
risultati e costruzioni assai diverse dalla "gnosi" che ha dovuto
fare i conti con altre tradizioni e religioni, mantenendole anche se trasfigu-
rate (il che, d'altra parte, è pur testimoniato, dal successo che ebbero in
quegli ambienti in cui si formarono). E qui particolarmente pen- siamo al
Mandeismo e al Manicheismo, il quale ultimo aYeva dietro di sé una propria
Bibbia, l'Avesta. Ancora vivente oggi in una zona della Babilonia meridionale,
il "mandeismo" (da manda, che è l'equivalente in aramaico del greco
gnosis) si venne formando nel 1 secolo d. C. nella bassa Mesopotamia,
indipendentemente dal Cristo, che viene, anzi, respinto, una volta cono- sCiuto
dalla setta mandea come falso profeta. Dal regno della luce, costi- tuente
nella sua unità il divino (detto la Prima mente, la Prima vita, Re della luce),
provengono, in una serie di determinazioni, le anime, che, tuttavia, nel loro
determinarsi ed esserci si allontanano da Dio, assumendo, in quanto.limiti
estremi, figura e perciò corporeità che pre- suppone, quindi, una materia
eterna e informe. Questo mondo, dunque, è limite e male, e limiti e mali sono
le sue leggi. A liberare le anime Dio invi~ sulla terra la gnosi della vita,
personificata nel.profeta, che i Mandei vedono in Giovanni Battista; egli, appunto,
attraverso il bat- tesimo lava, salvandole, le anime, che cosf si liberano dal
male. E in un testo, certamente scritto in epoca piu tarda (la letteratura
mandea fu raccolta in un corpus di scritti sacri nel vn secolo circa: le opere
fon- damentali sono Il tesoro- Ginzii- e il Libro di Giovanni- Sidra d'Yahya),
allorché si ebbe conoscenza del· Cristo, si legge: Quando Giovanni vivrÌi. al
tempo di Gerusalemme, prender~ l'acqua del Giordano e compirà il battesimo,
allora verr~ Gesu Cristo, andr~ girando in umilt~, ricever~ il battesimo da
Giovanni e diverr~ saggio attraverso la saggezza di Giovanni. Ma poi falserà la
parola di Giovanni, cambier~ il battesimo nel Giordano e predicher~ sacrilegio
e menzogna nel mondo. Cristo divider~ i popoli, i dodici corruttori [apostoli]
se ne andranno girando per il mon'do. In quel tempo guardatevi, voi che siete
nel. vero... (in H. v. Gla- senapp, Le religioni non cristiane, trad. it.,
Milano, 1962, pp. 220-1). Entro questa atmosfera, ma in un approfondimento estremamente
intellettuale e colto di un'altra tradizione, di una religione storicamente
delineatasi da secoli in Persia, lo Zoroastrismo e il Mitracismo, che viene ora
sistemata e interpretata nei termini propri della "gnosi," si muove,
nel delineare i motivi fondamentali della sua religione, Mani, di origine
persiana, formatosi in una setta battista della bassa Babilonia, 97
ma da essa distaccatosi fin da giovane, e vissuto, poi, in Persia nel
corso del m secolo. Abbiamo accennato ora a Mani/8 perché, insieme al
"man- deismo," il "manicheismo" - tenuto conto della sua
enorme diffusione in tutte le direzioni: dalla Persia al Turchestan cinese, ove
a Tlirfan e nelle grotte di Tun-huang vennero al principio del xx secolo
ritrovati testi manichei in lingua persiana, partica, sogdi, uighurica o antico
turco, cinese, all'Africa settentrionale, ove a Tebessa, in Algeria, furono
scoperti nel 1918 testi manichei in lingua latina, e dove in Egitto nel 1931
furono trovati papiri manichei in copto, a Cartagine, a Roma, in Gallia, in
Spagna - il "manicheismo" chiarisce bene cosa si vuoi dire quando si
sostiene che lo "gnosticismo" non è stato soltanto una
"eresia" sorta da un'interpretazione diversa da quella ormai
stabilita dalla figura del Cristo, ma un atteggiamento storicamente determina-
bile, fondato sul concetto di rivelazione, i cui esiti sono stati diversi a
seconda, ripetiamo, delle tradizioni, dei culti religiosi, degli ambienti
culturali in cui ci si è mossi. b) Il corpo degli "scritti ermetici."
Sembra ora chiaro in che senso (piuttosto limitato rispetto alla
"gnosi" pessimistica) si possa parlare di "gnosi" anche per
il gruppo dei testi, probabilmente composti tra il n secolo a. C. e il 1 d. C.,
ma raccolti e ordinati nel corso del II se- colo d. C., che, andato sotto il
nome di Ermes Trismegisto, costituisce il cosiddetto "corpus hermeticum
" (diciotto trattati, di cui il primo fu intitolato Pimandro "pastore
di uomini" - che Marsilio Ficino estese a tutta la raccolta -, piu un
dialogo, Asclepius, traduzione latina, forse di Apuleio, di un testo greco dal
titolo Aoyor:, 'téM~or:,, Discorso per- fetto, perduto; piu ventidue citazioni
estratte da Stobeo, e altri quattro lunghi frammenti di un'opera intitolata
K6p1) xoa!Lou, Pupilla del mondo). Abbiamo già detto sopra, discorrendo della
prima tradizione ermetica, dello stretto rapporto che corre tra certi testi
alchimistico- magici della tradizione che fa capo a Bolo-Democrito e a
Bolo-Ostane, certi testi astrologici, e la parola di Ermes Trismegisto (sin dai
tempi piu antichi Ermes greco, dio della parola, interprete e messaggero di
Zeus, viene identificato con Thot egiziano, dio dellà parola e della scrit- 18
Mani, nato nel 216 d. C., a Mardinu (presso Seleucia Ctesifonte), da Patek,
per- siano, emigrato in Babilonia, ove avèva aderito a una setta battista,
affine a quella mandea, ricevette fin da giovane un insegnamento fortemente
religioso. Vissuto per un certo periodo in India (Belucistan), 240-242,
recatosi in Persia ebbe dal sovrano Sapore I (nel 244 circa) il permesso di
propagare i suoi insegnamenti. Protetto anche dal successore di Sapore,
Hormizd, Mani fece lunghi viaggi. Asceso al trono, nel 274, il re Bahram l,
dedito allo zoroastrismo ortodosso, Mani fu accusato di eresia. Incarcerato a
Gundeshahpur, sul prin- cipio del.277, mori nel 277 stesso. Secondo la leggenda
fu crocefisso dopo essere stato scorttcato 98 tura, lo scriba di
Osiride, del libro che mantiene), rivelatrice non solo della ragion d'essere
della realtà, ma perciò stesso della sua struttura per cui, mediante la
rivelazione dovuta alla parola di Ermes, si pos- sono ripercorrere i modi con
cui la natura si è costituita, afferrando nessi e simiglianze, fino a ritrovare
l'unità della realtà entro noi stessi e, attraverso noi, sopra noi in Dio, vincendo
la natura con la natura. Ora, ciò che piu colpisce nei vari testi del
"corpo ermetico" è che lo studio delle forze occulte della natura,
della seminalità della natura (onde si potrebbe, cogliendo le simpatie tra gli
elementi naturali, me- diante cui si costituiscono le cose, adeguarsi a quelle
simpatie stesse, trovando nell'ordine della natura il proprio posto, e con ciò
salvandosi, in un giuoco con la natura e in un'operazione sulla natura stessa)
e la ricerca della verità trovano il proprio fondamento in una intuizione
originaria, in un'illuminazione, condizione della ricerca stessa, che, pro-
prio per questo, non la si raggiunge mediante la ricerca. Simbolica- mente,
perciò, si 'può dire che tale intuizione è dovuta, appunto, a una rivelazione,
a un messaggero della divinità, a un intervento extraumano. Una volta, avendo
cominciato a riflettere sugli enti (ne:pl -r:6lv 1Sv-r:6lv), mentre il mio
pensiero spaziava nelle altitudini celesti e i miei sensi cor- porei erano
impastoiati si come avviene a· chi sia accasciato da un pesante sonno o per
eccessivo nutrimento o per una grande fatica fisica, mi sembrò che mi si
presentasse un essere di gigantesche proporzioni, al di là di ogni misura
definibile, che mi chiamò per nome e mi dissi!: "Cosa vuoi ascoltare e
vedere, cosa mediante il pensiero apprendere e conoscere?" Ed io: "Ma
tu, chi sei?" "Io," rispose, "io sono Pimandro, il Niis
della sovranità asso- luta. So quello che vuoi, ed ovunque io sono con
te." Ed io allora: "Voglio avere la scienza degli enti, comprendere
la natura, conoscere il divino. Quanto!" esclamai, "desidero
ascoltare." Mi rispose: "Tieni ben ferino nel tuo intelletto tutto
quel che vuoi apprendere, ed io ti insegnerò" (Corp. Herm., I - Pimandro
-,I, 3). Ora, sia pur tenendo conto della diversità tra i vari scritti del
Corpus, sia pur riconoscendo che in.alcuni vi è un dualismo tra il divino
ignoto e indicibile e il mondo e che in altri, invece, è accentuato un monismo
animistico oel tipo stoico, in realtà l'impostazione generale di tutti gli
scritti scopre che il motivo della rivelazione si riallaccia al piu antico
motivo della divinazione, della intuizione profetica di origine pitago- rica da
un lato e religioso poetica dall'altro lato. Cosf, evidentemente, obnubilati i
sensi, dopo aver cercato attraverso tecniche, che sappiamo antichissime
(sicuramente usate nei culti dionisiaci) di eliminare ogni distrazione, ogni
dispersione, giunti ad una incantata concentrazione, 99 in una
specie di sogno, l'atto intuitivo della mente, la visione puramente
intellettuale, da cui può cominciare il discorso, viene assunta come rive-
lazione, come la presenza di una forza, di una voce, dell'intervento di
un'anima, di uno spirito, condizione dell'analisi, del discorso, a cui solo
esseri eccezionali (in tal senso gli eletti) possono giungere. Ciò che vien
dopo sono ipotesi perfettamente razionali, possibili ricostruzioni del-
l'ordine del tutto nell'Unità divina, sia che ci si ispiri a certe pagine
platoniche, sia che ci si Ispiri alla visione ontico-teologica e animistica di
origine stoica, ove dalla dispersione dell'immediatezza sensibile, posta la
divinità una come condizione della pensabilità del reale, si torna all'Uno,
comprendendo come tutto in Dio ·riposi ed abbia la sua ra- gione. E tale comprensione
è quella "conoscenza," la gnosi che salva, mediante cui, alla fine, è
dato all'uomo, essere bifronte, da un lato volto alla sensibilità e perciò al
molteplice, dall'altro all'unità - per cui in questo senso nell'uomo che attua
in sé conoscenza s'incentra l'universo - è dato all'uomo d'indiarsi, di
cogliere in sé l'universo e Dio, divenendo uno in Dio. Tale - si conclude il
Pimandro - è la fine felice per coloro che pos- seggono la conoscenza (la
gnos•): divenire Dio. Ebbene, cosa tardi allora? Non vai adesso, che hai da me
ereditato tUtta la dottrina, a farti guida di coloro che ne sono degni, sf che
il genere umano, grazie a te, sia salvato da Dio? (Corp. Herm., I - Pimandro -,
26). E nell'Asclepio, ove si punta sull'Uno Tutto e sul tutto Uno, e sull'uomo
che, in quanto capacità - sia pur per via intuitiva - di cogliere che l'Unità è
molteplicità e la molteplicità è Unità, per cui l'uomo può ripercorrere la via
all'in giu e- la via all'in su, facendosi centro dell'Universo, simile a Dio,
si esclama: Gran meraviglia è l'uomo, o Asclepio, animale degno di venerazione
e di onore, che prende la natura di un dio come se fosse egli stesso un dio
(Asclepio, 6)•.. Solo tra i viventi, l'uomo è duplice. Semplice è una delle
parti che lo compongono, quella che i Greci chiamano "essenziale"
(oòat6>81jc;} e noi "formata a simiglianza del divino."
Quadruplice è l'altra parte, quella che i Greci chiamano " materiale
"(~ÀLx6v) e noi "mondana," di cui è fano il corpo, che racchiude
la parte dell'uomo che abbiamo detto divina... (Asclepio, 7). Mediatore tra la
divinità e gli uomini, Ermes Trismegisto, è la parola del dio, che
simbolicamente, per via di segni, oscuri - ermetici - per chi sia preso dai
sensi e volto verso il basso, rivela agli iniziati la 100 struttura
dell'Universo scaturito dall'Unità del divino, esso stesso Uni- verso
nell'unità divina, e la posizione che nel Tutto e in Dio ha l'uomo. Si capisce
cos(come in molti scritti del corpus ·si sostenga che il dio uno è
inconoscibile e indicibile (nel senso che abbiamo visto per Albino, Apuleio,
Numenio), ch'esso da un lato possa esser detto lo stesso cosmo e dall'altro
lato il Padre, il Bene, ilPoieta; che si possa sostenere che il primo Dio, il
Padre indicibile, il primo Niis, sia ad un tempo il figlio, il secondo dio, il
Niis, donde derivano gli dèi e le,anime; che la materia considerata a sé sia il
limite, la dispersione, l'insieme del male, il plèroma del male
(7tÀ/jpea>(.Lot nj~ xor.x~: VI, 4); che l'uomo, in quanto anima e corpo,
abbia una posizione centrale, per cui nell'uomo si riu- nisCe in unità
l'universo tutto, onde l'uomo è simile a Dio; che senza bisogno di alcun
salvatore, l'uomo possa, attraverso il suo stesso pen- siero (rivelazione della
divinità), liberandosi dalla corporeità, o meglio comprendendo la corporeità,
risalire, conoscendo, alla divinità, sempre tutta in atto, una in principio e
una in fine. Taie la liberazione, che si attua attraverso la "gnosi"
(evidentemente ben diversa dalla • gnosi" cosiddetta eretica). La pura
filosofia, quella che non dipende che dalla pietà verso Dio, non deve
interessarsi delle altre scienze, se non per ammirare come il ritorno degli
astri alla loro prima posizione, le loro soste predeterminate e il corso delle
loro rivoluzioni obbediscano alla legge del numero, e per giungere, mediante'
la conoscenza delle dimensioni, qualità, quantità del mondo terre-· stre, delle
profondità del mare, della forza del fuoco, delle operazioni e della natura di
tutte le cose, condotta ad ammirare, ad adorare e benedire l'arte e l'intelligenza
di Dio. Essere musico non in altro consiste se non nel sapere come si ordina
l'insieme tutto dell'universo e quale ne sia la divina ragione, poiché
quest'ordine, in cui tutte-le cose particolari sono state riunite in un tutto
unico da una ragione artefice, produrrà una specie di concerto infinitamente
dolce e vero, in una divina musica... La pura e santa filosofia consiste
nell'adorare la divinità con anima semplice, con semplice cuore, riverire le
opere di Dio, render grazie infine alla divina volontà, che, sola, è
infinitamente piena di bene: tale la filosofia che non sia toccata da alcuna
malvagia curiosità (Asclepio, 13-14). Questo l'oracolo di Erme$ Trismegisto,
questa la religiosità - pio che la filosofia - degli scritti del corpus ermetico:
una intuizione della realtà come vita, come· ordine, come bellezza, in cui si
risolve anche il male.e il limite, qualora esso sia visto come un momento
dell'ordine divino. E tale visione non è, naturalinente, esprimibile se non per
sim- boli, per immagini, per figure. • Quando la nostra mente" - scrive il
Garin discorrendo di Marsilio Ficino traduttore del Pimandro e degli 101
altri opuscoli teologici - "si rende conto che l'oggetto sentito non
è che un segno, e l'oltrepassa, non raggiunge perciò il vero nella ridu- zione
logica, che sarebbe al contrario un impòverimento, e quindi un allontanamento
estremo. La verità si coglie afferrando con una visione mentale il numero e il
ritmo, e cioè quell'anima degli esseri che l'ar- tista raggiunge nelle sue creazioni,
ove non fa che tradurre l'atto stesso con cui il divino artista viene creando
il tutto. Conoscere è vedere diret- tamente l'atto costitutivo di ogni ente
reale, quella vita nascente che è la fonte onde ogni cosa scaturisce; perché in
ogni cosa è la vita e l'anima, ossia il prolungarsi estremo di un raggio
divino" (Immagini e simboli in M. Ficino, in Medioevo e Rinascimento,
Bari, 1961 2, p. 302), entro cui è posto l'uomo, nella cui struttura
"antologica va cercato il segno incancellabile di una dignità che lo
distacca dalla fatale necessità del mondo materiale, dalla necessità terribile
della morte: solo che la sua nobiltà è in fondo una nobiltà di nascita, non una
conquista delle opere e un premio della virtu" (ib., p. 299). E cosi,
rifacendosi al Festu- gière, ha con molta precisione sottolineato ancora il
Garin: "Per quanto sia lecito, ed anzi opportuno, porre una chiara
distinzione tra il Piman- dro e l'Asclepio e gli scritti teologici pa una
parte, e gli innumerevoli trattati magico-alchimistici dall'altra, è pur vero
che non si deve dimen- ticare la sottile e profonda parentela sotterranea che
unisce i primi alla tradizione occultistica, astrologica, alchimistica dei
secondi. E l'accordo è proprio nell'idea di un universo tutto vivo, tutto fatto
di nascoste corrispondenze, di occulte simpatie, tutto pervaso di spiriti; che
è tutto un rifrangersi di segni dotati di un senso riposto; dove ogni cosa,
ogni ente, ogni forza, è quasi una voce non ancora intesa, una parola sospesa
nell'aria; dove ogni parola ha echi e risonanze innumerevoli; dove gli astri
accennano a noi e si accennano fra loro. E si guardano e ci guar- dano, e si
ascoltano e ci-ascoltano; dove tutto l'universo è un immenso, molteplice, vario
colloquio, ora sommesso e ora alto, ora in toni segreti, ora in linguaggio
scoperto; - e in mezzo v'è l'uomo, mirabile essere cangiante, che può dire ogni
parola, riplasmare ogni cosa, disegnare ogni carattere, rispondere a ogni
invocazione, invocare ogni dio (com'è noto i termini di cui mi servo sono della
tecnica astrologica: cfr. Tolomeo, Tetrab., I, 15-16; Firmico Materno, VIII, 2)
(Garin, Magia e astrologia nel Rinascimento, in op. cit., p. 154). c) Sotto
questo aspetto, entro i termini di questa visione vitale è simpatetica dell'Universo
da un lato e, dall'altro lato, della visione di un Universo malefico, retto da
dèmoni decaduti e malvagi che stringono in leggi fatali (astrali) il mondo
("gnosi," propriamente detta), assumono un loro particolare
significato gli Oracoli caldaici (XocÀ8ocLxi MyLoc), composti, sembra, da un
certo Giuliano, vissuto sotto Marco Aurelio, che fu per primo definito teurgo
(&e:oupy6c). Secondo il Bidez (Vie de Julien, p. 369, n. 8) fu lo stesso
Giuliano a farsi chiamare teurgo per chiarire che egli "agiva sugli
dèi," li "faceva" (nell'Asclepio si legge che "deorum
fictor est homo"), e che non era un semplice teologo, non parlava cioè
solo degli dèi. La Suda riferisce che egli era figlio di un "filosofo
caldeo," dallo stesso nome, che aveva scritto un'opera sui dèmoni, e che
lo stesso Giuliano aveva scritto 0e:oupynX (Theurghika = Libri teurgici),
Te:Àe:cr·nxX (Telestika = Perfezioni ecc.), A6yLoc 8' È1twv (L6ghia d' epòn =
Oracolt). "Che questi oracoli in esametri fossero (secondo una congettura
del Lobeck) appunto gli Oracula Chaldaica, sui quali Proclo scrisse iln ampio
com- mento (Marino, Vita Procli, 26) è dimostrato, senza alcun dubbio, dal
riferimento che si trova presso uno scoliasta di Luciano aa -.e:Àe:cr-.Lxi
'IouÀLocvou & llp6XÀoc; U7tOfLVY)fLOC"(~e:L, o!c; o llpox6moc;
civ-.Lq~& éyye:-.ocL ('le Perfezioni di Giuliano, che Proclo commenta e
contro cui polemizza Procopio': Luciano, Ad Philos., 12, IV, 224, Jacobitz) e
dall'affermazione di Psello secondo la quale Proclo 'si innamorò degli l~(verst)
chiamati MyLoc (oracolt) dai loro ammiratori, in cui Giuliano espose le
dottrine caldaiche' (Script. Min., I, 241, 25 sgg.): &e:o7tocpX8o-.oc
('doni degli dèi': Marino, Vita Procli, 26). Da dove li abbia davvero ottenuti,
non lo sappiamo... Naturalmente, è possibile che Giuliano li abbia falsificati,
ma il loro linguaggio è talmente biz- zarro e gonfio, il loro pensiero talmente
oscuro ed incoerente da sugge- rire l'idea dei discorsi pronunciati in stato di
trance dagli spiriti guide dei medium moderni, piuttosto che l'opera meditata
di un falsificatore. Anzi non sembra affatto impossibile, alla luce di quanto
sappiamo della teurgia posteriore, che essi abbiano avuto origine dalle
'rivelazioni' di qualche visionario o di qualche medium estatico e che tutto il
com- pito di Giuliano si sia ridotto a metterli in versi come afferma Psello
(Script. Min., I, 241, 29), o la sua fonte Proclo. Il che corrisponderebbe alla
prassi degli oracoli ufficiali, cosi come noi la conosciamo, e la tra-
sposizione in esametri offrirebbe la possibilità di introdurre nella fila-
strocca una parvenza di significato e di sistema filosofico. Nondimeno il pio
lettore avrebbe avuto ancora molto bisogno di qualche spiega- zione o commento
in prosa, e sembra che Giuliano abbia fornito anche questo (cfr. Proclo, In
Tim., 246 f, 277 d; Marino, Vita Procli, 26; Damascio, II, 203, 27)"
(Dodds, Theurg., "Journal of Roman Stu- dies," 37, 1947, ora in l
Greci e l'i"azionale, trad. it., Firenze, 1959, pp. 337-8). Anche se
difficile. è ricostruire la struttura degli Oracoli cal- 103
daici, liberandoli dai commenti di Porfirio, di Giuliano, di Proclo, sem-
bra ch'essi si distinguessero in due parti. Innanzi tutto gli Oracoli (cfr. in
Kroll; De oraculis chaldaicis, "Breslauer Philol. Abhand.," 1894)
presentano una visione dell'Universo assai simile a quella di Numenio di
Apamea, del Pimandro, in realtà di tutta la letteratura religioso-filosofica in
chiave platonico-stoica, in forma molto vaga e contraddittoria nell'uso dei
termini, piu che nell'intimo significato. Si pone una triade divina, costituita
di tre intelletti - Or. Ch., pp. 12-22 Kroll, - di cui il primo è chiamato
anche Padre, o Intelletto del Padre, mentre il secondo è intelletto in quanto
determinazione dell'Intelletto primo, il quale intelletto primo perciò è e non
è intelletto, e il terzo è tale in quanto dialetticamente risolve in sé il
primo e il secondo intel- letto, costituendo l'unità vivente della realtà tutta
(anima mundi), tutta proveniente dal primo Intelletto, il Dio inconoscibile in
sé, che inteso come forza vitale (non a caso si dice che la sua essenzialità è
fuoco), si manifesta negli intelligibili e quindi nelle cose. Il Padre ha in sé
in forma compiuta tutte le cose e le ha date al secondo intelletto (p. 14 K.),
[per cui] il primo fuoco non fa discendere la sua potenza fino alla materia con
una diretta azione, ma mediante l'intelletto [secondo]: è un Intelletto,
scaturito dall'Intelletto, che è l'artefice delmondo fatto di fuoco (p. 13 K.).
Monade il Dio, diade è detto l'Intelletto secondo, perché possiede i "due
caratteri, di avere in sé gl'intelligibili e di costituire sensibilmente i
mondi" (p. 14 K.). Tutto il mondo dell'intelligibile, pensante-pensato, è
perciò in Dio e in tal senso oltre l'intelletto secondo, per cui in Dio, in
atto, forza vitale, si risolvono anche le cose, per cui, alla fine, il primo
Dio è indefinibile. Esiste un certo intelligibile (TL V01j-r6V), che ti è
necessario intuire con l'acutezza dell'intelletto, poiché se tu propendi il tuo
intelletto verso questo intelligibile cercando di apprenderlo come un oggetto
determinato, non riu- scirai a concepirlo. Esso è come forza di potente
spada" che tutta brilla e irraggia ferendo gli occhi col suo intelligibile
fulgore. Non è dunque con un violento sforzo che si deve concepire tale
intelligibile, né tendendo allo estremo la fiamma dell'Intelletto, che tutto
misura, tranne quell'Intelligibile. Bisogna tentare di afferrarlo non per
diretta visione, ma, dirigendo su di lui il puro sguardo del tuo intelletto che
ha volto le spalle ai sensibili, tendere verso l'Intelligibile un intelletto
vuoto di ogni pensiero, finché tu giunga a conoscerlo, poiché esso sfugge alla
determinazione dell'intelletto (p. 11 K.). Sf come un torrente che scorre,
l'Intelletto del Padre (il primo Intelletto), nel suo infaticabile consiglio
(~ouÀji: boulè), emetteva le idee del suo pen- siero che assumevano tutte le
forme: ed esse scaturivano tutte dalla stessa unica fonte. Dal Padre, infatti,
veniva il consiglio e il compimento di tale consiglio. Le idee, cosi, mediante
il Fuoco intelligente furono distribuite e distinte in altre idee intelligenti.
SI, perché il supremo signore (&vot~) ha fatto preesistere al mondo dalle
mille forme un immortale sigillo (-rUno~) intellet- tuale. E via via che il
nostro mondo, nel suo disordinato cammino, cerca di seguire la traccia del
sigillo, è apparso un ordine informato di bellezza, ornato delle idee di ogni
specie. Unica ne è la fonte, e da essa le idee sca- turiscono rombando,
pensieri intelligenti scaturiti dalla paterna fonte... La prima fonte, in sé
perfetta, del Padre ha fatto scaturire queste primigenie idee (&.px_ey6vouç
l8éotç) (pp. 23-4 K.). Nell'unità del primo Intelletto, dunque, si costituisce
la dualità del secondo intelletto, ed in esso, termine medio, che articola
(auvéx_et) i due primi intelletti, scaturisce il terzo intelletto, mediante cui
il tutto si ricollega all'unità vivente, in una tensione (anima mund•) tra i
due termini, per cui, non a caso, negli Oracoli si legge che l'anima è da un
lato intelletto e dall'altro lato soffio divino, e perciò amore (lp(l)ç ),
consistente appunto nella tensione, nella ricerca della propria imma- gine
rintracciabile ovunque, e mediante cui l'anima torna a identifi- carsi col
tutto, cioè con il Dio vivente, fuoco luminoso e seminale, da cui scaturisce
tutta la luce, i semi di tutte le cose ("Quanto alla scin- tilla
dell'Anima, avendola formata mescolando due elementi accordati, l'Intelletto e
il soffio divino, il Primo Intelletto vi aggiunse il casto amore, augusto
legame che unifica tutte le cose e le sorpassa": p. 26 K.). La suggestione
degli Oracoli caldaici non sta tanto nel tentativo di una ricostruzione
logico-antologica del tutto, quanto nella visione finale di un tutto vivente e
animato dal Dio primo, logicamente ignoto, ma ovunque presente nei suoi infiniti
raggi, egli punto luminoso, esistente nella totalità della luce, e di cui tutte
le cose sono fatte, limiti, se prese a sé, ma che si sciolgono nel primo fuoco,
qualora vengano ricon- dotte alla loro unità dalle anime che in ogni cosa
possono ritrovare la propria immagine. Si vede bene cos(il significato
dell'altro aspetto degli Oracoli, la strutturazione di un culto del sole e del
fuoco (cfr. pp. 53 sgg. K.), accanto all'evocazione magica, per via di amore,
degli dèi (le luci), mediante cui, per simpatie, operare sugli dèi stessi e
sugli spiriti (teurgia), in una riproduzione della magia della natura, tutta
vivente di segreti accordi e. simpatie, dalla cui scoperta dipende la
comprensione del tutto, e, quindi, di Dio. Di qui, anche, il tema fon-
damentale di tutta la sapienza magica, che verrà discussa a lungo dai
commentatori neoplatonici degli Oracoli caldaici (da Porfirio a Giam- blico, a
Prodo) e cioè la possibilità, entro i termini della simpatetica 105
universale, poste precise relazioni mimetiche tra,tutte le cose, di far
convergere su noi le potenze divine, le luci supreme, mediante la ras-
somiglianza. Di qui l'importanza di saper costruire cose, o statue, imma- gini
di dèi, che, se davvero si riesce a far simili alle potenze evocate, alle anime
desiderate, richiamano, sempre entro i termini della cognatio e della simpatia
universale, quelle potenze stesse. Sotto questo aspetto sc;mbra evidente in che
senso si può parlare di due magie, una quella naturale, fondata sul motivo
dell'unità vivente del tutto e consistente in un rintraccio dei nessi, delle
simpatie, dei segni, dei simboli, dei rap- porti correnti tra le cose, tra le
luci, tra gli astri, nell'unità di un tutto il cui fondamento è la seminalità;
l'altra, fondata sempre sulla stessa concezione, ma, diciamo, artificiale,
operativa, cioè volta a costruire.. immagini, fare dèi (l'efficere deos
dell'Asclepio), statuette e cos{ via, mediante certe precise tecniche (ricavate
da antichi rituali egiziani della tradizione magico-alchimistica) con cui
evocare l'anima, le potenze di- vine, rispecchiarle (di qui anche la
suggestione degli specchi e perciò stesso degli astri: cfr. anche Apuleio, De
magia, 13 sgg.), per dominarle essendo da esse dominati. Dirà Proclo: I maestri
dell'arte ieratica hanno scoperto in base a quello che avevano sott'occhio, il
modo di onorare le potenze superiori, mescolanl;lo taluni ele- menti ed altri
togliendone in misura appropriata. Se mescolano, è perch~ hanno osservato che
ognuno degli elementi separati possiede qualche pro- prietà del dio, ma non
basta per evocarlo; cosf mescolando un gran numero di elementi diversi,
uniscono le influenze ricordate sopra, e con tale somma di elementi compongono
un corpo unico simile all'unità precedente la disper- sione dei termini. Cos(fabbricano
spesso, con tali mescolanze, delle imma- gini e degli aromi, impastando in un
medesimo corpo i simboli prima divisi, e producendo artificialmente tutto
quello che la divinità comprende in s~ per essenza, riunendo la molteplicità
delle potonze che, separate, perdono ognuna la propria efficacia, e che,
invece, riunite, si combinano per ripro- durre la forma del modello" (da
Festugière, La révél., anche Garin, Elezioni e problema dell'Astrologia, V
Conv. Int. St. Uman). Sotto questo aspetto assai vasta fu l'influenza degli
Oracoli caldaici, insieme a quella esercitata dal corpo degli scritti·
ermetici, soprattutto nell'àmbito degli interpreti del pensiero di Plotino.
Diremmo, anzi, che, se Plotino, nella sua polemica da un lato contro la visione
di un dio trascendente e ignoto, difficilmente riconducibile alla sua funzione
di fonte e causa di tutta la realtà (certo gnosticismo e certo rarefatto
platonismo tipo Attico) e dall'altro lato contro la concezione di un dio
persona, libertà, e volontà (altrettanto assurdo), decisamente accolse 106
l'aspetto della magia che dicevamo naturale o razionale, pur
respin- gendo l'altro aspetto della magia, quello teurgico, non determinabile
scientificamente e irrazionale, il peso dato, nell'interpretazione che det-
tero di Plotino già Porfirio ma piu decisamente Giamblico, alle sirni- glianze,
ai vincoli, alle simpatie, può essere l'indice della possibilità di vedere in
Plotino una precisa concezione logico-naturalistica, piu che logico-matematica,
che punta su di una comprensione del tutto in termini platonico-stoici, in una
esatta deduzione logica. Gli avvenimenti dell'Universo si svolgono non già in
virtu di ragioni seminali, ma in virtu di potenze formali che abbracciano in sé
persino quelle pot~nze che stanno al di sopra di ciò che si regola sulle
ragioni seminali; perché nelle ragioni seminali non è inerente nulla di quanto
esorbita dalle ragioni seminali stesse né del contributo che la materia apporta
al tutto, né delle vicendevoli influenze esercitate tra cosa e cosa... Quanto
ai segni, essi non hanno il fine prefisso e diretto di preannunciare; no, ma
poiché le cose avvengono nel modo descritto, l'una trae dall'altra il suo
presagio; poiché, siccome l'universo è uno e appartiene all'Uno, cosi una cosa
può ben essere conosciuta dall'altra; dal causato la causa, e il conseguente
dall'antecedente e il composto da una delle sue parti costitutive... Ora, se è
esatto questo nostro argomentare, i dubbi, oramai, potrebbero cadere - persino
quello che si riferiva alle pretese influenze maligne originate dagli dèi, per
le seguenti ragioni: non sono "decisioni" le fonti degli influssi, ma
tutto che viene di lassu - nel mutuo cozzo tra lè parti, conseguenza dell'unica
vita universale - sorge per necessità di natura; le.cose, di per se stesse,
aggiun- gono un contributo non scarso agli accadimenti; e mentre gl'influssi,
presi ad uno ad uno, non sono maligni, in quel loro mescolarsi generano qual-
cosa di nuovo; il vivere, inoltre, esiste non già per amore di un· singolo ma
in funzione del tutto e, infine, la natura sottostante esperimenta qualcosa di
diverso da quel che aveva ricevuto e non riesce a dominare la influenza
ricevuta. Ma le influenze magiche, come spiegar/e? Con la simpatia: re- gnano,
nativamente, un accordo tra le cose affini e un contrasto tra le estra- nee;
inoltre, pur nella loro variopinta ricchezza, le potenze diffuse contri-
buiscono tuttavia all'unità del vivente universale. E, difatti, pur senza alcun
ordigno magico, quante cose sori come tratte per incantamento! Ond'è che vera
magia, in seno all'universo, sono da un carito l'Amore e dall'altro la Contesa.
Incantatore primordiale e stregone, egli è colui che gli uomini conoscono
proprio bene onde ricorrono, per avvalersene, gli uni con gli altri, ai suoi
filtri ed ai suoi incantesimi. E, per certo, poiché essi natural- mente amano e
gli ingredienti che eccitano amore hanno una forza d'attra- zione tra di loro
cos{ è venuto fuori l'aiuto dell'arte amatoria per mag{a, applicando, cioè, per
contatti, a differenti persone ingredienti differenti, che hanno il potere di
trarle insieme e contengono la bramosia erotica nella loro composizione; e cod
essa annoda un'anima con l'altra come chi legasse tra di loro piante staccate.
E si avvalgono, per di piu, di figure efficaci, anzi atteggiandosi in una
determinata posizione attirano su se stessi, senza ru- more, inBuenze, appunto
perché stando all'unità universale, agiscono su di un unico centro; in realtà a
voler supporre un mago siffatto fuori dell'uni- verso, egli allora non potrebbe
esercitare né'le sue suggestioni né i suoi scongiuri per quanti incantesimi o
esorcisttli. egli faccia; ora però, poiché non lavora, per cosf dire, in un
luogo diverso dal mondo, ~ in grado di attrarre, sapendo per qual via una cosa
si trasporti verso l'altra in seno al vivente... In realtà si attuano quei suoi
esaudimenti solo perché tra parte e parte dell'Universo segua la simpatia, come
in una corda tesa: questa, infatti, scossa dal basso, ha una vibrazione anche
in cima; anzi, tante volte, mentre vibra l'una, l'altra ne ha, per cosf dire,
il senso, per legge di con- sonanza, in quanto, ci~, ~ accordata anch'essa a
un'unica intonazione; che se, da una lira, la vibrazione si propaga finanche in
un'altra - sino a tal punto giunge la virt6 della simpatia! -, ebbene, anche
nell'Universo, do- ttli.na un'armonia unica, pur se risulti da contrari, vero ~
ch'essa nasce tanto dai simili quanto dai contrari onde in tutto regna l'affinità...
(Plotino, Enn~adi, IV, 4, 39-41). La consapevolezza profonda e meditata che la
realtà è quella che è, che tutto avviene come deve avvenire, che l'uomo,
momento di questa realtà, è tale entro l'arco della sua vita, per cui,
umanamente, prima di nascere e dopo la morte, è il nulla, portava un cinico
come Demonatte a sostenere che l'unica via di salvezza è per l'uomo,
abbandonati ogni timore e speranza, risolvere se stesso esclusivamente sul
piano umano, realizzando una misura, che non è data, ma che è frutto, volta a
volta, del nostro stesso medi- tare. La stessa consapevolezza portava, nella
stessa epoca, un uomo come Marco Aurelio (121-180),27 imperatore romano
(dal161), cinicamente, ad 27 Nato a Roma, sul Celio, il 26 aprile 121 d. C., da
M. Annio Vero, originario della Spagna, appartenente a una nobile famiglia, che
aveva ricoperto alti uffici, e da Domizia Lucilla, gli furono imposti i nomi
dei due nonni, M. Annio Catilio Severo. A ~i anni Adriano lo designò a far
parte dell'ordine equestre, a otto del collegio dei salt. Rimasto a nove anni
orfano del padre, adottato dal nonno paterno, che si occupò, insieme al
bisnonno materno, della sua educazione e che gli dette il nome di M. Annio
Vero, fu avviato agli studi di filosofia da Diogneto. Esaltatosi per la
filosofia, come costume di ·vita, si sottopose a privazioni, vivendo in forma
austera e rigidissima. Adriano, che aveva per il giovinetto una viva simpatia e
che molto apprezzava le sue doti, giuocando sul suo nome (M. Annio Vero), lo
chiamava "verissimo." Nel 136 si fidanzò con la figlia di L. Ceonio
Commodo, designato dall'imperatore Adriano a suo successore. Alla mprte di
Ceonio (138), Adriano adottò Antonino, zio di Marco Annio Vero, a patto che
Antonino adottasse a sua volta il figlio e il nipote di Ceonio. Morto Adriano
nel luglio del 138, Antonino Pio non solo adottò il figlio e il nipote di
Ceonio, ma anche Marco, che assunse il nome di Marco Elio Aurelio Vero; cosi
venne presto indicato dall'impera- tore come suo successore. Marco ebbe il titolo
di Cesare, fu nominato questore nel 138-139, console nel 140. Nel 145 sposò
Faustina, figlia di Antonino Pio. Marco Aurelio si preparò allora con coscienza
e serietà di studioso al suo "mestiere" di imperatore. Con il celebre
Frontone studiò retorica latina, con Erode Attico retorica greca. Se da
Diogneto, com'egli stesso dice (Ricordi, 1, 6), fin da giovane aveva sentito
avversione a perseguire cose stupide e vuote, una gran diffidenza per le
chiacchiere di fattucchieri e di maghi, per incantamenti e scongiuri, e aveva.preso
familiarità con la filosofia, l'amore per le parole libere e franche; in questo
periodo, frequentando lo stoico Apollonio, aveva appreso la capacità di non
affidarsi al caso,. il suo sguardo rivolto soltanto e incessan- temente a vie
razionali, la capacità di non impazientirsi dovendo dare direttive a qual- cuno
(Ric., I, 8). E se da Frontone aveva appreso di quanta invidia, di quanta
malizia, di quanta ipocrisia sia formata la tirannide, e che i patrizi sono
persone degne di poca considerazione (Ric., I, Il), dallo stoico Giunio Rustico
(figlio o nipote di Giunio Rustico Aruleno, due volte console, collega nel 119
di Adriano nel suo terzo consolato, una volta praef~ctus urbis) aveva appreso a
non sentire piu inclinazione dannosa per le ambizioni dei solisti, l'avversione
a comporre trattati su problemi astratti, a declamare pretenziosi discorsi per
esortare alla filosofia (chiare frecciate contro Frontone), l'avversione alla
retorica, alla poesia, al parlare forbito, l'abitudine a leggere con molta
attenzione, a non accontentarsi di capire press'a poco, l'essersi incontrato
con i ricordi di Epitteto, che gli furono donati da Giunio (Ric., l, 7). In
questo stesso periodo Marco Aurelio frequentò il platonico Alessandro, il
peripatetico Claudio Severo (console nel 146), il giurista L. Volu- sio
Meciano, gli stoici Claudio Massimo (console, legato, procuratore imperiale) e
Cinna Catulo, il platonico Sesto di Cheronea, nipote di Plutarco (cfr. Ric., I,
pauim). - Morto Antonino, Marco, il 7 marzo 161, sali al trono col nome di
Marco Aurelio Antonino. Egli si associò al trono il fratello adottivo, che
prese il nome di Lucio Annio Vero. Dopo gli anni pacifici di Antonino, gli anni
in cui governò Marco Aurelio furono estre- mamente gravi per l'unità
dell'Impero. t storia nota. Marco Aurelio dovette combattere in Oriente contro
i Parti, mentre, sotto la spinta dei Goti, popolazioni sarmatiche e ger·
maniche sfondarono le difese romane e penetrarono in Rezia, nel Norico, in
Pannonia, in Mesia. I Quadi e i Marcomanni, varcate le Alpi, assediarono
Aquileia e sconfissero l'esercito romano. Marco Aurelio e Lucio Vero mossero
contro i barbari. Lucio mori nel 169; nel 175 Marco riusd a respingere
gl'invasori oltre la sinistra del Da.nubio. Marco Aurelio fu quindi costretto a
ristabilire ordine in Oriente, mentre di nuovo Marcomanni e Quadi insorgevano.
Accorso contro di loro, Marco Aurelio mori, presso Vindobona (Vienna) nel 180.
A lui successe il figlio Commodo. Di Marco Aurelio davvero si può 148
accantonare qualsiasi dottrina sulla struttura e il senso della realtà,
tutta, in sé, né buona né cattiva, fluida e mutevole, senza significato. Le
cose sono avvolte in un certo cotale velo, da sembrare a filosofi non pochi e
non certo volgari del tutto incomprensibili. E persino gli stoici le ritengono
ben difficilmente comprensibili. Ogni ipotesi del resto è passibile di
modificazione. Dove, infatti, è colui che non debba mutare qualche conclusione?
Passa in rivista dunque cose ed oggetti: ben piccola la loro durata; ben
piccolo il loro valore... Passa quindi in rivista le abitudini dei cuoi
contemporanei: modi di vivere che a fatica si riuscirebbe a tollerare pure in
chi è piu gentile e educato, per non dire che anche costoro riescono appena a
sopportare se stessi. In tenebra si grande, in tanto sozza condizione, in si
grande flusso di cose e di tempi, del moto e delle cose trascinate al moto,
quale realtà può venir pregiata o può in qualche modo incontrare il nostro
entusiasmo? Non lo so immaginare (Ricordi, V, 10). Tutto è opinione: chiaro è a
qu~sto proposito il detto del cinico M6nimo... (Il, 15). Il tempo dell'umana
vita è un punto; la sua materiale sostanza un perenne fluire; la sensazione
tenebra; la compagine di tutto l'organismo, immanca- bile corruzione; il
principio vitale, l'aggirarsi di una trottola; la fortuna non si può indagare;
la gloria, cieca. In breve, le funzioni dell'organismo sono un fiume; quelle
dell'anima, sogno e vanità; ed è guerra la vita, viaggio di un pellegrino;
oblio la voce dei posteri. E, adesso, a che cosa ti puoi affidare? (Il, 17).
Tutto dura un giorno, e chi ricorda e chi è ricordato (IV, 35; cfr. anche IV,
33). Tutto avviene per alterna mutazione... Ogni cosa è in un certo qual modo
seme di un'altra che da quella dovrà prove- nire... (IV, 36). La totalità dei
tempi è quasi un fiume, formato dagli eventi; corrente che a forza travolge.
Non vedi? Le singole cose, appena venute, già sono trasportate via; un'altra
cosa viene trasportata. E anche questa sarà portata via (IV, 43; anche VI, 15).
Volgi lo sguardo sulle umane vicende, conscio della loro precarietà, del loro
scarso valore: ieri, tanta boria; domani, mummia o cenere... (IV, 48; anche V,
33). Quanto poi alle cose della vita, quelle che appaiono tanto degne d'onore,
sono vacuità, mar- ciume, piccolezze, cagnolini che si mordono l'un l'altro;
ragazzini che rissano e che si divertono a rissare, poi ridono e subito
finiscono col pian- gere... (V, 33). Nulla di nuovo: ogni cosa, sempre quella;
e insieme ogni cosa rapidamente trapassa (VII, 1). Per altro verso, invece,
quella stessa consapevolezza porta Marco Aurelio a rendersi sempre piu conto
che un qualche significato da dare dire che governò filosofando, e filosofò
go\'ernando, cercando di attuare quello ch'era stato l'ideale politico di molti
pensatori stoici. Oltre ad alcune lettere in latino, a Frontone e ad Erode
Attico, di Marco Aurelio restano frammenti di suoi discorsi, e 12 libri di sue
riflessioni, in greco: T« c!<; éotuT6 (Tà ~is h~aut6n}, A se st~sso, andati sotto
vari titoli: Colloqui con s~ st~sso, IUcordi, P~nsi"i, Note p"sonali.
Furono scritti tra il 166 circa c il 180. 149 alla vita non
proviene dal di fuori, né dalla contemplazione di un ordine dato e che solo sia
da conoscere, ma da un continuo approfon- dimento di se stessi, da un continuo
scavare·dentro ("Scava nella tua interiorità; dentro di te sta la fonte
del bene": lv8ov axoc1t"t'e:' !v8ov ~ 7t'l)~ -rou à.yot-3-ou: VII,
59), mediante cui sapere, volta a volta, come comportarsi, e rivelante
nell'uomo una capacità di misura che dimostra la sua libertà, anche in un mondo
che è quello che è, in cui illusione e fanatismo è credere di poterlo
modificare. E adesso, a che cosa ti puoi affidare? A una sola, a un'unica cosa:
la filosofia. E questa ti permetterà di conservare l'interiore dèmone senza
violenza e danno: signore dei piaceri; capace di agire senza intraprendere
nulla a caso; immune da menzogna e da simulazione; libero dal bisogno che altri
faccia o no qualche cosa. Ancora, questo dèmone dovrà accettare gli eventi e
tutto quello che gli càpita, convinto che tutto viene di là, da un luogo
misterioso da cui egli pure un giorno è venuto... (II, 17). Il nostro reggere
con intellettuale luce d'azione... è l'esperienza del divino e dell'umano (III,
1). [Indagando se stessi, scavando nella nostra interiorità, scopriamo noi
stessi quale attività egemonica] e l'egemonico è ciò che eccita se stesso e si
rivolge e si rende quale vuole... (V, 8), [per cui] unicamente buone o cattive
sono le cose che dipendo_no da noi... (VI, 41). In tale senso vicinissimo a
Epitteto, da Marco Aurelio a lungo medi- tato e piu volte citato (cfr. l, 7, 8;
IV, 41; VII, 19, 2; XI, 34, 36), Marco Aurelio poteva trasformare il primo
atteggiamento di abbandono, di disprezzo e di nausea per le cose, vane tutte,
in un atteggiamento oppo- sto - che non modifica nulla se non se stessi -, in
un amore per tutte le cose ("l'unica cosa che rimane a chi è buono, come
propria caratte- ristica, è l'amore, l'atteggiamento di un'anima serena e
tranquilla che accolga gli eventi a lei destinati"; III, 16), in un
rispetto per ogni· uomo, che in quanto tale ha la capacità di trasfigurarsi da
cosa accanto a cosa, da mezzo in fine, di assumere entro i termini dei rapporti
umani, di volta in volta, il proprio posto, costruendo se stesso ("ogni
uomo è mio affine, non certo per identità di sangue o di seme, ma in quanto
partecipe di una mente e d'una funzione che è divina..., la funzione,
!"egemonico,' cui spetta il sovrano dominio": Il, l, 2; "ama,
dunque, ma davvero, gli uomini cui la sorte ti ha posto accanto": VI, 39).
E se ciò, ripetiamo, non modifica la realtà, modifica il nostro modo di
atteggiarsi verso gli altri, in una continua consapevolezza del nostro dovere
(formale), che, in conclusione, può, di volta in volta, modificare lo stesso
umano rapporto, ogni volta nuovo. Vane e senza significato le cose, vani e
senza significato gli uomini (se presi a sé, finché restano presi dalle cose,
dispersi e molteplici, le stesse cose e gli uomini - iden- tici, finché esteriorità
- assumono un senso quando, attraverso se stessi, scoprendo sé come
razionalità, cioè come capacità ordinatrice (egemo- nico) e come misura, si
comprende delle cose e degli uomini la vanità e l'insignificanza, per cui
tutto, insignificante in quan•o esteriorità, assume un suo posto, un suo senso,
in quanto interiorità, entro i termini della nostra opinione. In nessun luogo
piu che nell'anima, con maggior tranquillità, con piu facilità, un uomo può
ritirarsi... [e troverà pace]. E con questa pace voglio intendere disposizione
di ordine perfetto (IV, 3). Di tutte le cose devi scor- gere la volgarità e
quella loro magnificenza, per cui appaiono tanto impor- tanti, la devi togliere
via... (VI, 13). Bisogna sapetsi valere di chi è signore della propria anima
[l'egemonico o il divino che è in noi], per opera del quale l'uomo non può
essere toccato dal piacere, non può essere vulnerato da nessun dolore, né
colpito da nessuna violenza...; pronto ad accogliere amoroso, con l'anima tutta
quanta, quello che accade e quello che gli viene assegnato, tutto... Quest'uomo
sa che in suo potere è soltanto la propria interiorità e pensa senza
interruzione alle cose proprie, quelle che l'uni- versale connessione degli
eventi gli arreca... In realtà il destino a ciascuno attribuito viene portato a
uguale mèta dal destino universale, e parimenti a uguale destino procede. Tiene
ancora presente nel ricordo che quanto pos- siede razionalità gode di natura
profondamente affine; che è proprio del- l'uomo prendersi cura di ogni uomo...
(III, 4). Togli il giudizio della tua mente e sarà tolto il "sono stato
offeso"; togli il "sono stato offeso" e sarà tolta l'offesa (IV,
7). Se provi dolore per qualche offesa che è fuori di te, non questo fatto
singolo precisamente ti turba, bensf il giudizio che tu vieni facendo su quello
(VIII, 47). O meglio, in sé non esistono né un'interiorità né un'esteriorità,
ma interiorità ed esteriorità sono due modi diversi di atteggiarsi di fronte
alla stessa realtà: irrazionalmente (e allora siamo presi dalle cose, deter-
minati, passivi, dispersi); razionalmente (e allora tutto dipende da noi, nella
consapevolezza che ragionevolmente il tutto si organizza razional- mente; ha
una sua ragion d'essere). E a ciò si giunge non dal di fuori, non accettando
supinamente, scolasticamente, una o altra dottrina, ma indagando, scavando se
stessi, pensando - e tale è stato l'insegnamento piu alto di un Seneca e di un
Epitteto -, non attraverso una sapienza già data, o librescamente assunta (dice
Marco Aurelio a se stesso: "lascia andare i libri, non è piu tempo di
simile cura": II, 2; " scaccia quella sete di libri, se non vuoi
giungere a morte mormorando, ma vera- mente sereno e grato agli dèi dal
profondo del cuore": II, 3; "Da Rustico ho imparato l'avversion~ a
comporre trattati su problemi astratti, a declamare pretenziosi discorsi per
esortare alla filosofia, a farmi vedere uomo intellettuale e studioso, benefico
solo per colpire le menti altrui; l'avversione alla retorica, alla poesia, al
parlare forbito": I, 7); ma attra- verso una sapienza frutto di quello
stesso meditare ("da Apollonia ho imparato il tono libero del mio
carattere... quel mio sguardo rivolto soltanto e incessantemente a vie
razionali": l, 8), che scopre all'uomo come l'uomo è pensiero, razionalità
che è tale in quanto esercizio, che costruisce sé mediante lo stesso pensare.
Di qui, anche la forma letteraria dell'opera di Marco Aurelio, che non è
affatto un trattato, né una doxografia, né un'esposizione logico- dottrinaria,
né un insegnamento ("se da: Rustico ho imparato l'avver- sione a comporre
trattati su problemi astratti..., se da Sesto ho impa- rato ad esser ricco di
dottrina senza farne continua mostra": I, 7, 9), ma la presentazione -
unica forma d'insegnamento - del proprio ripensamento, del proprio meditare,
del continuo discorso a se stesso (èis heautòn). Marco Aurelio, cosi, nei
termini del dovere formale del- l'uomo (ciascuno, meditando su se stesso,
assume il posto che gli com- pete nell'ordine sociale, costituendo quell'ordine),
cerca di determinare il proprio posto che natura e sorte gli hanno dato,
rendendosi conto del proprio dovere di imperator~ e della funzione che
nell'ordine sociale gli compete, per il bene della comunità: e ciò è dovere di
ogni uomo, per quella comune ragione che ci fa tutti fratelli ("a Severo,
mio fratello, debbo anche l'aver potuto conoscere per mezzo suo Tdsea, Elvidio,
Catone, Diane, Bruto, e l'aver potuto far sorgere in me il desiderio di un
governo, in cui la legge abbia vigore per tutti; informato, questo governo, a
uguaglianza e a libertà di parola, un regno capace di rispet- tare per suprema
ragione la libertà dei sudditi": I, 14}, giorno per giorno. E.un diario è,
appunto, il libro di Marco Aurelio, non a caso intitolato -ra e:tç lotu-r6v (tà
èis heaut&n), cioè a se stesso, in genere tradotto con Colloqui con se
stesso, o con Ricordi e Pensieri, o Note personali. L'opera, che si divide in
121ibri, non fu scritta tutta insieme, né secon4o l'ordine dei libri quali noi
leggiamo (sembra che il I sia stato composto per ultimo, mentre i libri II, III
e XII siano stati scritti per primi: certo, l'insieme, tra il 169 e il 180;
Marco Aurelio era stato nominato imperatore nel 161, mori nel 180, e gli anni
tra il 169 e il 180 furono i piu gravi del suo regno, in guerre continue, in
cui egli dovette assu- mc;rsi le piu alte responsabilità per sé e per l'impero,
di cui si sentiva il servitore). Il filo conduttore dei Ricordi di Marco
Aurelio sta proprio in questo suo sforzo continuo di chiarire sé a se stesso,
attraverso cui cogliere, di volta in volta, ciò che a se stesso compete,
imparare a essere uomo, a compiere il proprio ufficio consapevolmente
("non agire mai contro il tuo volere; e nemmeno senza proporti quale mèta
un comune bene, senza opportuna ponderazione; né, d'altra parte, dubitoso e in-
certo... Quel Dio che dimora dentro, in te, sia il tutore di un uomo virile,
venerabile per gli anni, conscio di una sua naturale politicità, romano,
imperatore, già pronto per il suo posto...": III, 5). D'altra parte, se,
stoicamente (epitettianamente}, saper pensare è realizzazione piena della
verace natura dell'uomo (per cui primo dovere dell'uomo è imparare a pensare} e
saper pensare è costituire in armonia e ordinatamente le proprie impressioni,
per cui quello stesso mondo che appare nell'immediatezza sensibile e dispersa
disordinato, indivi- dualmente insignificante e senza senso (o, per altro
verso, prendendoci unilateralmente, ci determina dispersivamente, per cui
patiamo la realtà quale appare, molteplice e senza senso, dandole un
significato, un valore che non ha), si risolve, invece, in quanto razionalmente
ordinato e non piu visto individualmente, unilateralmente, come unità, ove
tutto ·ha un suo giusto posto, che, dunque, dipende da noi, dal nostro modo
d'essere ragionevoli o meno. Ogni natura basta a se stessa, quando procede
sulla retta via. E una natura razionale procede sulla retta via quando non dà
il suo assenso a immaginazioni menzognere e oscure; quando dirige i propri
impulsi alle sole opere che hanno quale mèta il bene comune; quando ricerca o
evita quelle cose sole che sono in nostro potere; quando ama tutto quello che
le viene assegnato dalla comune natura. Ogni singola natura è parte di quella
comune a quella guisa che natura di foglia partecipa alla natura della pianta;
con la sola differenza che in questo caso natura di foglia è parte di una
natura insensibile, irrazionale, e che può subire coercizione; invece natura
d'uomo è parte di una natura che non ammette coercizione, intelli- gente e
giusta, dato che distribuisce ai singoli, con uguale criterio e secondo il
merito, parte di tempi, di sostanza, di causa, di attività, di vicende. E devi
compiere la tua osservazione non isolando per ogni fatto un singolo parti-
colare, rispetto ad un altro particolare uguale, ma considerando nel loro
complesso particolari di un singolo fatto e in relazione a quelli d'un altro,
pur nel loro complesso. Non solo, ma poiché l'uomo, attraverso il suo stesso
pensare, scopre sé come attività unificatrice, come ragione che è tale non in
sé, ma in quanto organizzazione di sé, come attività egemonica di un se stesso,
molteplicità e passioni - non a caso Marco Aurelio riprende il vecchio termine
stoico "egemonico" per intendere la razionalità - realizza- zione del
proprio soffio vitale (pnéuma) in un ordine e in una misura delle passioni, in
cui, appunto, consiste la razionalità, nulla vieta di fare l'ipotesi che la
stessa essenza del tutto, la sua natura, il divino, sia questa stessa forza
vitale che si realizza ordinando il tutto in unità, socievolmente ("la
Mente dell'universo ha carattere socievole": 6 -rou 15ì-.ou vou~
xotvwvtx6~: V, 30), e di cui, dunque, il nostro "ege- monico" è un
momento, un aspetto, mediante cui non solo si è capaci di porre ordine in sé
scoprendo attraverso sé l'ordine e, perciò, la provvidenza del tutto ("o
una cosa o l'altra: confusione, accozzamento e dispersione, oppure unità,
ordine, provvidenza": VI, 10), ma anche, accettando consapevolmente il
proprio posto - e ciò spetta a ciascuno - di rispettare gli altri, riconoscendo
negli altri se stesso, la propria razio- nalità, in un amore di sé che è amore
degli altri (socialità), in un amore del tutto che è amore di Dio. L'umanità
steS&a, dunque, in quanto razionalità, esiste in quanto ordine e unità
consapevole, in cui ciascuno ha il suo posto e in cui ciascuno è uguale
all'altro in quanto capacità razionale, in quanto in tutti, come razionalità, è
una scintilla dell'unica razionalità divina che ci fa tutti parenti. Quell'uomo
è mio affine, non certo per identità di sangue o di seme, bens{ in quanto
partecipe di una mente e di una funzione che è divina (Il, 1). In un organismo
unificato le membra del corpo hanno una determinata funzione; ebbene, la stessa
funzione, pur separati l'uno dall'altro, hanno i viventi razionali, congegnati
in vista di un'unica profonda collaborazione. Anzi, nconcetto di questo fatto
ti sarà piu chiaro qualora tu ripetessi piu volte a te stesso: "Io sono
membro di una schiera, schiera ordinata di creature razionali." Al contrario,
se tu dici che ne sci soltanto una parte, non ancora con tutto il tuo cuore ami
gli uomini; non ancora il far bene a qualcuno ti dà gioia completa. Parimenti,
compi questo beneficio soltanto come cosa dovuta, non sci ancora convinto di
far bene a te stesso (VII, 13). Ci sono due verità alle quali potrai volgere
intento sguardo. La prima è questa: le cose non arrivano a toccare l'anima;.
bensf rimangono fuori come sono; il turbamento proviene solo dall'interiore
valutazione. La seconda: tutte queste cose che vedi, quanto rapidamente si
mutano e piu non sono!... Se la facoltà intellettiva è comune per tutti; se la
ragione, in quanto siamo razionali, è pure comune; se cosf è, la ragione, in
quanto imperativa delle cose che si debbono fare o meno, è anch'essa comune;
quindi anche la legge è comune; quindi siamo anche·cittadini, partecipi di
wi'organizzazione statale, quasi una Città, uno Stato, insomma. In realtà
nessuno potrà dire che tutto il genere umano partecipi a qualche altra città in
tal modo comune a tutti. E di qui, da questa città universale, vengono a noi
intelligenza, razio- nalità, legalità... (IV, 3, 4). Solo va sottolineato che
ciò Marco Aurelio non pone come dogma, ma vi giunge attraverso la stessa
riflessione morale, che, scoprendo l'es- senza dell'uomo, la sua natura come
attività razionale, può far porre 154 come ipotesi che, appunto,
lo stesso principio e fine del tutto è la razio- nalità, intesa come ordine e
socialità. L'opzione di Marco Aurelio per la tesi di fondo dello stoicismo riflette
chiaramente il significato della morale di Marco Aurelio intesa come conflitto,
se vogliamo, tra il momento cinico e il momento stoico che si scioglie dalla
sua rigidità antologica per divenire postulato e dovere morale, cui si giunge
mediante la stessa riflessione sul nostro essere uomini, che costituisce e
costruisce la nostra persona. E l'uomo resta, sempre, dilacerato tra una realtà
che è quella che è, indifferente, insignificante, inutile, tra cui vi sono gli
uomini, che sono quello che sono, ove tutto è monotono, noioso, ove si nasce e
si muore, ove tutto non merita nulla; e una realtà che rivis- suta
razionalmente appare ordinata e costituita secondo una piu profonda ragion
d'essere, per cui quellà stessa realtà, quegli stessi uomini, pur rimanendo
quali sono, un nulla, foglie che vanno, foglie che vengono ("fragili
foglie anche i bimbi tuoi, fragili foglie anche questa gente che ulula...,
fragili foglie per non differente condizione anche le stirpi desti- nate a
ricever la fama dei giorni venturi...; ma poi vento le getta per terra e,
successivamente, la selva altre, invece di quelle, ne genera; e fugacità di un
istante a tutti è comune; ma intanto tutte queste cose tu vai perseguendo
oppure fuggendo, proprio convinto che.la durata ne sia eterna; ancora un poco e
chiuderai gli occhi, e per colui che ti accompagnerà al rogo, altri farà il
lamento funebre": X, 34), li com- prendiamo come a noi vincolati, li
vogUamo per quel che sono, li accet- tiamo volontariamente sapendo ciascuno giuocare
la propria parte (Marco Aurelio la sua parte di Imperatore), in un rispetto
delle varie parti, che è rispetto della comune ragione, che ci fa tutti
fratelli. L'uomo, dunque, che è uomo in quanto ragione, cioè in quanto capacità
di portare ordine e misura in sé,·di volta in volta obbietti- vando il valore
delle cose, sapendo ciò che valgono - né molto né poco - non facendosi prendere
dalle cose stesse, è ·tale in quanto è già in se stesso armonia di una
molteplicità, è società, ove non una parte vale piu dell'altra,.ma sono tutte
uguali nell'unica ragione ("egemonico") che le articola. Sotto questo
aspetto anche gli altri (tali finché si resta sul piano del sensibile,
dell'immediatezza, della passione, del dare piu valore ad una piuttosto che ad
altra cosa) sono noi stessi, per cui in essi vogliamo noi; cioè, appunto, la
comune razionalità che ci fa sociali, membri di un'unica città ("d'altra
parte, tu sei uomo proteso a compiere, comunque sia, il bene dell'umana
comunità": XI, 13; "o uomo, fosti cittadino di questa grande città;
qual differenza per te, se per tre o cinque anni?": XII, 36; "siamo
nel mondo per reci- proco aiuto, come piedi, come mani, come palpebre, come i
denti di sopra e di sotto in fila; in conseguenza è contro natura ogni
azione di reciproco contrasto": Il, 1). L'amore per gli altri- amore per
noi- non è, dunque, un amore in funzione di un aldilà, di un premio, di un Dio
che cosi vuole, di averne indietro riconoscenza o che sia (cfr. VII, 73), ma è
un amore che si risolve tutto entro i termini dello stesso orizzont~ umano, in
un desiderio e in una volontà di costruire un mondo umano quale dovreb-
b'essere per natura, cioè razionalmente ("sempre si ricordino le ragioni
con le quali fu dimostrato che l'universo è come una città": IV, 3). Nulla
individualmente eterno, ché tutto, l'uomo compreso, sia come corpo, sia come
forza vitale (nei suoi tre aspetti: facoltà egemonica e coscienza di sé, il
dèmone proprio, soffio vitale e anima: cfr. Il, 2), si trasforma, riemerge,
ritorna al tutto, unico.eterno; in tale consapevo- lezza- lunga o breve che sia
la vita: un nulla; sempre uguali le cose: vanità - dobbiamo essere noi stessi,
simili "ad un promontorio contro il quale incessantemente si infrangono le
onde e quello sta saldo, e si abbonacci intorno a lui la gonfia protervia del
flutto" (IV, 49), sempre, nell'istante, nel presente ("solo l'istante
presente è quello di cui l'uomo dovrà sentire privazione; effettivamente questo
solo egli ha, e ciò che non/si ha non si può perdere": Il, 14). Iri.
effetto il passato non è piu e il futuro non c'è, e la vita autentica è fuori
del tempo, nell'a~timo in cui siamo noi stessi. Se ogni cosa assume un senso
nella nostra con- sapevolezza, nella retta ragione, non c'è un prima e un poi,
ma, ap- punto, ogni volta, l'attimo, e la virtuosità è tale in ogni istante, né
v'è passaggio da una minore ad una superiore virtu e viceversa. Noi siamo,
dunque, impegnati tutti in ogni istante, siamo in ogni attimo chiamati a
decidere di quello che siamo, e, appunto, in ciò si abolisce il timore e la
speranza che sono sempre immagini, rappresentazioni passionali. In ogni
momento, essendo noi figli del nostro meditare, che ci costruisce e ci genera
quali siamo, risolviamo nel presente il nostro passato. Vi- viamo, perciò,
insieme, nel tempo (i momenti del processo in cui si scandisce il ritmo della
realtà) e nell'eterno (il presente) in cui la realtà tutta si risolve nella
consapevolezza che ne abbiamo (tale l'in'terpre- tazione del motivo stoico
dell'" eterno ritorno," che da temporale diviene atto della
consapevolezza morale). Né buona né cattiva la realtà, essa è sempre quella che
è, onde rimaniamo imperturbati, o, pur soffren- done o gioendone, sappiamo in
che consistono tali sofferenze e gioie, per cui non siamo piu presi da esse, non
le patiamo piu. E perciò, morti anche in questa vita, vivi solo in quanto
razionalità, che ci perde o nel tutto o negli altri, piu non temiamo la morte,
ché in ogni momento monamo. 156 Anche nell'ipotesi che tu debba
vivere anni tremila e altrettanti anni diecimila, in ogni modo ricòrdati d'una
cosa: ne~suno perde una vita diversa da quella che in quell'istante egli ha; né
altra vita vive se non quella che in quell'istante egli perde. A egual punto,
dunque, perviene una vita lun- ghissima e una vita del tutto breve. Vedi che il
presente è per tutti uguale, ciò che via via si· allontana non è piu nostro, e
il tempo che via via tra- scorre è istante brevissimo. Infatti, non si può
perdere il tempo trascorso e nemmeno il tempo futuro; come sarebbe possibile
che ci venisse tolto ciò che non si ha? Insomma di questi due fatti bisogna
tener vivo il ricordo: il primo, che tutto perennemente è sempre d'un solo
aspetto e che si aggira quasi in un cerchio e che non fa differenza in nulla se
si dovranno vedere le medesime cose per cento, per duecento anni oppure per un
tempo che sia senza limiti. Secondo fatto: chi muore carico di anni e chi muore
subito perde una stessa cosa. Vedi bene che solo l'istante presente è quello di
cui l'uomo dovrà sentir privazione; effettivamente, questo solo egli ha e ciò
che non si ha non si può perdere (Il, 14). Se un uomo considera unico bene
l'istante; se giudica'egual cosa aver compiuto azioni conformi a retta ragione
in grande numero o in numero piu esiguo; se non fa differenza alcuna, questo
uomo, del poter contemplare il mondo per un tempo piu lungo o piu breve; a
costui certo la morte non costituisce motivo di paura (XII, 35). O uomo, fatti
cittadino di questa grande città: qual differenza per te, se per tre o cinque
anni?... È la medesima cosa che se il·capocomico che l'aveva chiamato,
congedasse poi l'attore dal teatro. "Ma non sono arri- vato a
rappr~sentare tutti i cinque atti: soltanto tre." Hai ragione; ma nella
vita anche tre anni soltanto costituiscono l'intero dramma (XII, 36). Cia-·
scuno vive questo istante ch'è presente: tutto il resto è vita trascorsa o
incerta (III, 10). Cerca di mettere a profitto l'attimo presente con giusta
ragione e con giustizia (IV, 26) (cfr. anche IV, 48]. Sono formato di fra- gile
corpo e di anima. Per quanto riguarda il corpo, tutto riesce indifferente; del
resto, neppure gli è concesso di far differenza alcuna. Alla mente, invece,
sono indifferenti quelle cose che non siano sue operazioni. Quante cose invece
dipendono dalla sua attività dipendono tutte dal suo poterei anzi, fra queste,
a dir la verità, la mente si preoccupa solo di quante si riferi- scono al
presente; le future e le trascorse sono operazioni sue già compiute e ormai
indifferénti (VI, 32). Sotto questo aspetto Marco Aurelio è assai vtcmo non
solo a certi motivi cinici, ma anche, indipendentemente dai presupposti fisici
del- l'epicureismo, a certe conclusioni dell'etica epicurea. Ma forse il
turbamento tuo proviene dal considerare la sorte a te asse- gnata
nell'universale destino? In tal caso devi ricordare il dilemma famoso: o
provvidenza oppure atomi... (IV, 3). O una cosa o l'altra: confusione,
accozzamento e dispersione, oppure unità, ordine, provvidenza. Se ha valore la
prima opinione, perché tanto desiderio di indugiare in una mescolanza dovuta al
caso?... Oh! verrà certo anche per me il momento della disso- luzione,
qualunque cosa io cerchi di fare. Se invece ha valore la seconda ipotesi,
adoro, me ne sto tranquillo, nutro fiducia in colui che governa (VI, 10).
Morte: o si tratta di dispersione, se vi sono gli atomi; o annienta- mento; o
anche cambio di dimora, se ci attende un'altra unione (Sul piano umano uguali
sono le conclusioni]. O necessità di prefissato destino, o posto dal quale non
si può sfuggire; oppure provvidenza che può essere placata; oppure, infine,
confusione senza guida alcuna, un regno del caso. Se si tratta di una necessità
dalla quale non si può sfuggire, perché tanto ti occupi? Se invece c'è una
provvidenza che può essere placata, rendi in tale caso te stesso degno
dell'aiuto che dalla divinità può provenire. Da ultimo, se regna confusione
senza nessuno che governi, stai contento perché in tem- pesta cosi grande per
conto tuo hai in te stesso mente capace di guidare e condurre (XII, 14)... E
che cosa c'è di diverso, allora, in certo senso, se ci fossero veramente gli
atomi e le singole parti della materia? Insomma, se vi è un Dio, tutto procede
bene; se un caso, ebbene non procedere tu pure a caso (IX, 28). Sembra chiaro,
cosi, in che senso Marco Aurelio, tra epicureismo nei suoi fondamenti fisici -,
e stoicismo - nel suo motivo della divinità intesa come razionalità, che nel
suo costituirsi pone tutto come è bene che sia, in un ordine sociale - abbia
optato per lo stoicismo, in cui la realtà, tutte le cose, nella loro necessità,
nel loro inesorabile esserci, portano a postulare un principio razionale e
provvidenziale e perciò stesso un fine, che diviene, umanamente, un dover
essere, che, per altro verso, s'incentra, come vedevamo, nella nostra stessa interio-
rità, nello stesso amore per noi e per gli altri, che è, appunto, amore per la
razionalità comune, per il bene, per Dio, principio e fine. Tale la religiosità
di Marco Aurelio: certo lontanissima dalla fede, dalla speranza, dall'amore dei
Cristiani, e dal loro concetto di uomo, che, attraverso il Cristo si salverà e
risorgerà personalmente, in eterno, in quanto uomo; tutto questo per Marco
Aurelio è irrazionalità, antro- pomorfismo, orgoglio, disumanità, immoralità,
prepotenza, asocialità, rottura contro lo Stato costituito a somiglianza della
politèia cosmica. Entro i termini dello "stoicismo" si delinea bene,
ora, il significato dato all'Impero da Marco Aurelio, e la funzione che
nell'Impero deve assumere il sùo capo, che, in un'accettazione consapevole del
suo posto, datogli dalla stessa ragion d'essere del tutto, deve tradurre in
termini legali quella che è la stessa socialità dell'universo, la sua
giustizia, in un'armonia che sia rispetto della funzione e del posto di ciascun
citta- dino. Sotto questo aspetto si compie con M::rco Aurelio quella linea
politica che, in una giustificazione dell'Impero di Roma, aveva preso le sue
mosse, come abbiamo veduto, con Diane Crisostomo, e che si venne realizzando da
Vespasiano a Marco Aurelio (cfr. sopra), in una ripresa, appunto, assai duttile
di certi motivi stoici - la legge univer- sale, l'imperatore incarnazione della
ragione sociale del tutto, il re filàntropo, ciascuno al suo posto, ciascuno in
funzione dell'unico Stato -, usando anche certi aspetti delle Leggi di Platone
e il motivo della giusta misura (i doveri medt), di Aristotele, dove, infine,
non poche volte si sente la presenza dell'ideale "res-publica" di
Cicerone. Particolarmente indicativi sono, su questa linea, i nomi fatti da
Marco Aurelio, cioè Trasea, Elvidio, Catone, Bruto, dai quali egli avrebbe
tratto ispirazione per il proprio concetto di Stato e di governo, dove
l'imperatore non è un desposta, ma un pater e un correttore: "attraverso
essi ho potuto far sorgere in me il desiderio di un governo in cui la legge
abbia vigore per tutti; informato, questo governo, a uguaglianlZa e a libertà
di parola, un regno capace di rispettare per suprema ragione la libertà dei
sud- diti" (1, 14). "Relitto di città, chi stacca l'anima propria
dall'anima comune degli esseri razionali, anima che è una sola" (IV, 29).
Di qui, entro i termini della propria posizione di imperatore, la filantropia
di Marco Aurelio, la sua clemenza, la sua misura nel governo, il suo tratto e
il suo sentirsi "pater" dell'umana famiglia, in una, in fondo, vis-
suta e sofferta pietà per gli uomini tutti e per se stesso: "causa ultima
dell'universo è un torrente che tutto spazza via. Di che poco conto sono queste
creature sociali e politiche, questi minuscoli e piagnucolosi esseri umani, che
immaginano di praticare una vita di filosofi" (IX, 29).La preparazione
culturale. Diogene Laerzio. Entro questa atmo- sfera, se Marco Aurelio poteva,
sul piano di una possibilità etica, optare per un certo "stoicismo,"
che nelle sue serissime conclusioni aveva la possibilità, sul filo
dell'orizzonte umano, di incontrarsi con l'epicurei- smo, la consapevolezza di
Marco Aurelio,.del resto, come abbiamo veduto, estremamente diffusa,
dell'impossibilità teoretica di oltrepassare la stessa ragione, conduceva, sul
piano di un'indagine piu strettamente scientifica, nell'àmbito delle scuole, a
discutere quali fossero le ipotesi, non contraddittorie, cioè non piu possibili
d'essere dialetticamente con- futate, che permettessero una deduzione, una
spiegazione del reale. Abbiamo già visto quali: dal "pitagorismo,"
inteso come logica mate- matica mediante cui si poteva rendere pensabile la
realtà, e con cui si poteva, assUmendo l'aspetto piu formale dell'analitJca
aristotelica e certi motivi della logica proposizionale e del sillogismo
ipotetico del primo stoicismo, trovare una ragione della costruzione platonica
del Timeo; a un tipo di platonismo stoicheggiante e vitalistico a cui si
avvicinano certi testi del corpo ermetico, in una conclusiva visione di sfondo
entro cui fossero riprese e giustificate le varie esperienze ed ipotesi
storica- mente delineatesi. Nei termini di tale piu vasta silloge, in un
tentativo di deduzione logica, che non oltrepassasse, contraddittoriamente, i
limiti della razionalità, ed entro cui, appunto, si potesse rendere conto anche
delle varie esperienze religiose, si venne a muovere, nel corso del m se- colo
d. C., il pensiero di Plotino. Peraltro si capisce cos!, sempre entro l'àmbito
delle scuole e della piu generale preparazione culturale dei cit- tadini
dell'Impero, da un lato il fiorire di sillogi, di epitomi, isagogi, di raccolte
di questioni su singoli problemi (dossografie) su cui discutere, dall'altro
lato di opere ove vengono messi in discussione gli argomenti piu svariati,
anche senza ordine, in una delineazione chiara di quelli che furono i vivi e
molteplici interessi di una certa epoca. E qui, per ciò che riguarda l'aspetto
piu largo e divulgativo, rispon- dente alle esigenze diffuse di un pubblico piu
vasto, particolarmente pensiamo all'opera del latino Aulo Gellio (nato sotto
Adriano, morto sotto Marco Aurelio, discepolo di Calvisio Tauro e di Peregrino,
amico di Attico, di Frontone, di Favorino, viss.uto tra Roma ed Atene), le
Notti attiche, e a quella dell'egiziano Ateneo (originario di Naucrati, vissuto
tra la seconda metà del n secolo e la prima del m), l sofisti a convito
(Deipnosofistt), che, preziosissime come fonti (evidentemente se assunte
criticamente), vanno soprattutto considerate in quanto indici precisi di una
molteplicità di interessi, di tutta un'atmosfera culturale~ Per il primo
aspetto, invece, sembra di particolare inter~sse ricor- dare i Placita di
Aezio, vissuto tra la fine del I secolo d. C. e la prima metà del II. Il Diels
(Doxographi, Prol., pp. 99-102), nella sua rico- struzione dei Dossografi
greci, ha mostrato che Aezio è autore di una dossografia intitolata
l:uvatyCùy1} 'CblV &.pcaxoV'f:CùV (Raccolta dei pa- reri, o Placita),
perduta, di cui ritroviamo traccia nei P/acita philoso- phorum (del 177 circa),
attribuiti a Plutarco, in Teodoreto - Iv-v se- colo -, in Nemesio - Iv-v secolo
- e nelle Ecloghe di Stobeo (v secolo d. C.). I Placita di Aezio deriverebbero
a loro volta dai Vetusta Placita, un'epitome in 6 libri delle Opinioni dei
fisici di Teofrasto, composta entro l'àmbito della scuola di Posidonio, nella
prima metà del I secolo a. C., alla quale non poco avrebbe attinto Cicerone. Ma
accanto al filone dossografico, facente capo ad Aezio e allo pseudo- Plutarco,
non va scordato un secondo filone che risalendo a un'altra epitome in 2 libri
delle Opinioni dei fisici di Teofrasto, composta nell'àmbito della prima scuola
teofrastea, si arricchi poi di nuovi testi e frammenti, particolarmente stoici
(da tale epitome attinsero, per le loro discussioni e ricostruzioni, Sozione,
Cicerone, Ario Didimo, l'au- tore della Stromateon Ecloga, andata sotto il nome
di Plutarco, Ippo- 160 lito, Diogene Laerzio). Ora, a parte
l'interesse che hanno questi fram- menti dossografici come fonti e
testimonianze di opere antiche andate perdute, ciò che qui va sottolineato è da
un lato la loro funzione di materiale per le discussioni,. dall'altro lato la
loro impostazione dovuta a Teofrasto, che venne determinando non solo una certa
delineazione di problemi, ma anche, di volta in volta, a seconda di interessi
diversi, la struttura stessa della discussione in senso dialettico, cioè
secondo il metodo aristotelico di presentare le varie soluzioni di certi
problemi, si che fosse possibile il confronto dialettico, e, attraverso questo,
il rintraccio di quelle ipotesi non piu dialettizzabili (in questo senso è
chiaro perché Aezio sia stato detto "peripatetico"); ciò poteva por-
tare, in un àmbito metodologico, o ad accettare una o altra ipotesi, cavata
dalla discussione di testi platonici, aristotelici, stoici, senza con questo
negare in pieno l'una o l'altra ipotesi; dell'una o dell'altra con-.cezione, se
negate dialetticamente, si potranno sempre dialetticamente recuperare altri.
aspetti, e cosi via. Di qui, anche, entro i termini di una discussione
scientifica delle condizioni del sapere, accanto alle "introduzioni"
per una lettura delle opere di Platone o di Aristotele, ai commenti di certe
opere di Platone o di Aristotele, scaturisce l'interesse per le sillogi di
certi filoni di problemi e di soluzioni comuni di certi problemi, per le quali
ci si venne servendo delle prime distinzioni in scuole della storia del
pensiero, ove soprattutto si tenne presente il criterio delle
"successioni" (8tat8oxatt: diadochàt), sempre ordinate dialetticamente.
Tale filone ebbe il suo primo rappresentante in Sozione, vissuto nel II secolo
a. C., autore appunto di un'opera intitolata Successioni, e proseguitosi tra il
II e il I secolo a. C. con Eraclide Lembo, Sosicrate, Nicia di Nicea. Per altro
verso, invece, in particolare tenendo conto, via via, del- l'ideale di vita,
che trova il suo fondamento in una o altra conce- zione, e dell'importanza che
per avviare alla virtu assume in campo stoico l'esempio, si comprende come si
sia venuto formando l'interesse per la ricostruzione della vita dei filosofi,
che risalendo alle Vite di Ermippo e di Antigono di Caristo del m secolo. a.
C., e alle Vite di Satiro, di Neante di Cizicci e di Diocle di Magnesia, tra il
11 e il I secolo a. C., ha dato luogo, tra il I e il 11 secolo d. C., ad un
largo fiorire di Vite degli uomini illustri. Entro questa prospettiva, tali
raccolte, manuali, sillogi, successioni, antologie, assumono un non
indifferente valore storico, non solo come fonti per la conoscenza di opere
perdute - sotto questo aspetto, evi- dentemente, da prendere tenendo conto del
tempo in cui sono state composte, e della loro strutturazione prospettica -, ma
sopratt\Jtto come indicazioni del materiale posto in discussione, e, quindi,
degli interessi culturali di certe epoche, e, perciò, sembra, non si può dire
che siano dei mèri centoni, o ope~a di eclettici privi di un pensiero
originale. Non questa, certo, fu la loro funzione. È in questa delineazione che
va considerata, proprio sulla prima metà del m secolo l'opera di Diogene
Laerzio,28 Le vit~ d~i filosofi, che, nel tentativo di presentare, sempre
documentatamente, gli aspetti molteplici con cui si è venuto formando il
pensiero greco, si è valso, ad un tempo, delle succe-ssioni, delle vite, delle
dossografie e delle cronografie, in una fusione di vari filoni storiografici, e
in una rico- struzione del pensiero greco su grandi direttrici dialettiche.
"Le Vit~ di Diogene Laerzio," è stato detto, "sono una
esposizione della filo- sofia greca quasi divulgativa, anche superficiale, se
si vuole, ma senza il difetto di sintetizzare in facili schemi l'enorme materiale,
un'amo- 2 8 Diogene Laerzio visse, proba~mente, nella prima metà del III
secolo. Nel IV secolo, Sopatro di Apamea, discepolo di Giamblico riportava
nelle sue 'Ex).oyetl 3Leicpopo1 (Eglogh~ divn-s~) testi di Diogene; Diogene,
per altro, in IX, 116, cita Sesto Empirico e Saturnino discepolo di Sesto,
sottolineando che Sesto era stato discepolo di Erodoto, a sua volta discepolo
di Menodoto; poiché Galeno, che non cita Sesto, cita Erodoto, e sappiamo che
Galeno visse fin circa il 200, si è sostenuto che, dunque, Sesto avrebbe
scritto tra il 200 e il 220, e che Diogene avrebbe, perciò, dovuto scrivere la
sua opera tra il 220 e il 250 circa. Non sappiamo dove nacque e molto si è
discusso anche sull'appellativo Lan-aio. Secondo il Wilamowitz (Epin. Gd
MIIIUs., "Philol. Unters.," 111, 1880) AOtépTIO~ è un signum dedotto
dall'omerico 81oycvèç AetcpTLet3'1) (dioghenès Laerti4de) (cfr. 'E. Schwartz,
Rea/ Enr., V, l, col. 738; anche M. Gigante, in trad. it. delle Vite dei
filosofi, Bari). Da Diogene stesso sappiamo (1, 63; VII, 31; VIII, 75; IX, 43;
I, 120; IV, 65; VI, 79; VII, 164) ch'egli scrisse un libro di epigrammi
intitolato Pijmmetros (Libro di m~tri di ogni tipo), intorno a tutti gli
illustri estinti (1, 63), che usò poi, per quel che riguarda i filosofi, nella
stesura della sua opera maggiore pervenutaci. L'opera maggiore di Dio- gene nei
codici piu ant!<h; è andata sotto il titolo ~I.Àoa6cpC1111 ~LCIIII xetl 3oy!JoliTCilll
auvetyCilylj~... (Vite di ll•'JJ?fi e raccolta di opinioni!. Le Vite, dedicate
a un'ammiratrice di Platone (DI, 47), si dividono in dieci libri e si aprono
con un Proemio di notevole importanza poiché vi si determina il criterio
dell'opera. Nel primo libro si espongono vita e pensiero di: Talete, Solone,
Chitone, Pittaco, Biante, Cleobulo, Periandro, Anacarsi lo Scita, Mùone,
Epimenide, Ferecide. Nel s~condo libro ai tratta di: Anassima.ndro, Anassimene,
Anassagora, Archelao, Socrate, Senofonte, Eschine, Aristippo, Pedone, Euclide,
Stilpone, Critone, Simone, Glaucone, Simmia, Cebete, Menedemo. Il terso libro è
dedi- cato a Platone: biografia, opere, dottrina, dossografia. Il qu~o libro
tratta di: Speu- sippo, Senocrate, Polemone, Cratete platonico, Crantore,
Arcesilao, Bione, Lacide, Car- neade, Clitomaco. n quinto libro è dedicato ad
Aristotele e alla sua scuola: Aristotele, Teofrasto, Stratone, Licone,
Demetrio, Eraclide. Nel libro sesto si tratta di: Antistene, Diogene di Sinope,
Monimo, Onesicrito, Cratete, Metrocle, Ipparchia, Menippo, Menedemo. n libro
settimo è dedicato allo stoicismo: Zenone, la logica stoica, l'etica stoica, la
fisica stoica, Aristone, Erillo, Dionisio, Cleante, Sfero, Crisippo. Il libro
ottavo tratta di: Pita- gora, Empedocle, Epicarmo, Archita, Alcmeone, lppaso,
Filolao, Eudosso. Nel libro nono si espongono le vite e le opinioni di:
Eraclito, Senofane, Parmenide, Melisso, Zenone di Elea, Leucippo, Democrito,
Protagora, Diogene di Apollonia, Anassarco, Pirrone, Timone. Il libro decimo è
dedicato ad Epicuro. 162 rosa raccolta delle varie notizie sparse
in innumerevoli libri, non sem- pre facilmente accessibili. In esse la
filosofia non è unicamente l'atti- vità speculativa, è un concetto piu ampio,
che investe ogni minimo particolare della vita dell'uomo: una vita che nel
filosofo è l'espres- sione sensibile della ricerca interiore. E questo punto di
vista caratte- rizza già l'atteggiamento eccezionale di un pubblico, frutto di
lunga tradizione, verso i propri filosofi...: è una rappresentazione ideale di
una mitica società di saggi e di grandi a colloquio" (Pasquinelli, Intro-
duzione a I Presocratici, l, Torino, 1958, p. XXXI). Non possiamo dire a quale
delle filosofie esposte particolarmente aderisse Diogene Laerzio (forse, si è
detto, all'epicureismo, dato che un libro intero delle Vite, l'ultimo, il X, è
dedicato ad Epicuro, di cui riporta le tre celebri lettere e le massime, e a
cui Diogene si avvicina con grande simpatia; forse allo scetticismo, le cui
tesi, particolarmente l'aspetto dialettico critico, sono esposte con aderenza e
precisione; forse al platonismo, si è aggiunto, essendo l'opera dedicata ad
un'am- miratrice di Platone: cfr. III, 47). In realtà, ciò che qui preme sotto-
lineare, come indice di tutto un atteggiamento culturale, scientifica- mente
valido, e rispecchiante un ampio pubblico, è" da un lato la pre-
sentazione oggettiva di piu correnti.di ·pensiero e, dall'altro lato, proprio
per quella stessa oggettività e chiarimento dell'ideale impegno alla ricerca di
ciascun filosofo, 'l'offerta di una discussione dialettica, basata sull'analisi
delle possibilità logiche dell'assunzione dell'una o dell'altra ipotesi (di
qui, come chiaramente appare, l'insistenza di Diogene Laerzio sull'aspetto
dialettico della corrente scettica, con par- ticolar riguardo ad Enesidemo),
senza privilegiarne una o altra. d) Le scienze e la logica: lo
"scetticismo" di Sesto Empirico. Tolo- meo e Galeno. Abbiamo già
detto che nel corso del n secolo, entro i termini della ricerca metodologica
sopra discussa e che ha le sue piu lon- tane origini nel tipo di ricerca
proprio della scuola di Aristotele, si assu- mono a contenuto di indagine i
diversi piani di fenomeni: dai fenomeni naturali e dalla possibilità di una
loro calcolabilità ai fenomeni apparte- nenti alla natura umana. E poiché sia
per l'una ricerca che per l'altra, sul piano della discussione delle varie
ipotesi avanzate, nella deter- minazione dei pro e dei contra si trattava di
precisare le condizioni che permettono una discriminazione e perciò la
possibilità o meno di un giudizio, l'indagine stessa diviene, innanzi tutto,
studio del giu- dizio, cioè logica. Non a caso, abbiamo visto, anche in certe
sillogi che sono andate sotto il nome di "platoniche," in altre che sono
state dette "pitagoriche," in altre "stoiche" e anche nei
commentatori di Platone e dei libri logici di Aristotele, l'aspetto prevalente
è l'indagine logica, lo studio delle condizioni che permettono uno o altro
discorso. Qui, sembra, s'inserisce - e assume il suo piu alto significato sto-
rico - l'appello di Sesto Empirico,29 vissuto tra la fine del II e il principio
del m secolo, il suo continuo richiamo entro i termini della ricerca (scepsi) a
tener sempre presente, metodologicamente, il peri- colo, nei limiti del
giudizio, di extrapolare da quei limiti stessi, di oltrepassare quei divieti.
Sotto questo aspetto l'opera di Sesto (sia le /potiposi pi"oniane in- tre
libri, sia il proseguimento e l'approfondi- mento delle Ipotiposi, l'Adversus
Dogmaticos, in 5 libri, e l'Adversus Mathematicos, in sei libri, titolo
abbastanza recente, con cui si è soliti indicare il complesso degli 11 libri)
ha un altissimo valore metodo- logico, è l'ultima voce di serietà scientifica,
l'ultima "logica" dell'anti- chità. L'opera di Sesto non va
considerata solo come una sistemazione Scarsissimc le notizie intorno a ·Sesto,
detto Empirico perché sembra sia stato medico (Esculapio dette inizio alla
nostra anc: Adv. Math., I, 260) appartenente all'indi- rizzo "empirico,"
o meglio al nuovo indirizzo metodico-empirico (cfr. Pyrrh. hypot., I, 236; Adv.
Math., VIII, 191), scaturito dalla polemica di Mcnodoto. Non sappiamo con esat-
tezza quando visse: citato da Diogene Laerzio, che scrisse nella prima metà del
111 secolo, insieme al discepolo di Sesto, Saturnino (cfr. Diogene Lacrzio, IX,
87, 115), di Sesto non fa alcuna menzione Galeno, vissuto tra il 130 c il 200
d. C., che, invece, accenna a Erodoto, discepolo di Menodoto, maestro di Sesto.
Poiché, per altro verso, sappiamo che Ippolito, nella sua opera contro gli
eretici, composta tra il 220 e il 230, avrebbe usato argomentazioni di Sesto,
si è potuto, verisimilmente, sostenere che Sesto sarebbe vissuto tra la fine dd
n secolo e il principio del 111 e che avrebbe composto le sue opere tra il 200
e il 220 circa. Non sappiamo dove sia nato. Sesto è nome latino:
"nostri," tuttavia, egli dice leggi e costumi greci. Senza dubbio fu
ad Atene, ad Alessandria e a Roma (dr. Adv. Math., l, 246; Hypot., Il, 98; III,
221; Adv. Math., 15 e 95; Hyp., I, 149, 152, 156; III, 211; cfr. anche Dal Pra,
cit., pp. 375 sgg.). Probabilmente l'opera di Sesto è pcevenuta intera, tranne
due scritti intitolati Memorie mediche e Memorie empiriche (forse uno scritto
unico), citato dallo stesso Sesto (Adv. Math., l, 61; VII, 202). Di uno
scritto, Sull'anima, cui Sesto fa menzione (Aiv. Math., VI, 55), si è pensato
(Robin, cit., p. 198) che sia in realtà un rinvio alle pani delle opere
pcevenute in cui Sesto tratta dell'anima, si come è il caso di altri accenni a
trattazioni che si ritrovano, poi, nd complesso dd corpus dell'opera· di Sesto.
Due sono le opere pervenuteci di Sesto: Schizzi pirroniani (o lpotiposi
pirroniane) in tre libri (I libro: significato c limiti dello
"scetticismo," inteso come metodo; esposizione dei tropi dello
scetticismo; Il libro: significato c limiti della logica dogmatica; III libro:
critica della fisica c della morale dei dogmatici); un'opera in due parti,
intitolate la prima Contro i dogmatici, in cinque libri, la seconda Contro i matematici,
in sei libri (si è soliti indicare le due parti con l'unico titolo, desunto
dalla seconda parte, Contro i matematici). I primi due libri Contro i dogmatici
sono dedicati ad una precisa critica della logica, mediante cui Sesto può, nei
libri terzo c quano, mettere in discussione la fisica dogmatica, e, nel quinto,
le posizioni morali. l sei libri Contro i matematici, cioè contro coloro che
dànno un valore assoluto al sapere (màthema) sono dedicati ai grammatici, ai
rctori, agli aritmeti.:i, ai geometri, agJi astronomi, ai musici. Discepolo di
Sesto fu, secondo Diogene Lacrzio (IX, 116), un ceno Saturnino, che Diogene
indica come 6 xu&rjviiç (kythenas), che non sappiamo cosa significhi (il
Bro- chard, Les sceptiques grecs, Parigi, 1887, p. 327, n. l, correggendo 6
xu&ljviit; in 6 xot6'-f)(liit;, l(ath'hemàs, legge il "nostro
contemporaneo").] organica da un lato della topica e dei tropi, delle
argomentazioni, susse- guitesi nel tempo da parte dei cosiddetti scettici, che·
dimostri, in parti- colare per certi accademici, l'illegittimità logica del
passaggio da una posizione arcesilao-carneadiana a una tesi stoico-platonica,
dall'altro lato delle tesi dogmatiche, sia in fisica sia in etica, sia nelle
singole scienze, professoralmente insegnate, mediante cui, all'interno di
ciascuna, e dia- letticamente nei confronti dell'una con l'altra, dimostrare la
contraddit- torietà di ogni ipotesi se assunta come assoluta. Ma è proprio in
questa dialetticità che consiste il nocciolo dell'appello di Sesto: egli non
nega l'una o l'altra ipotesi, in quanto tale e in quanto logicamente possibile,
bensl nega la legittimità di assumere come esclusiva, come vera, l'una o
l'altra ipotesi, anche se assunta, sia pur per la dichiarata incompren-
sibilità della realtà in sé, come probabile, optando, attraverso la discus-
sione dei pro e dei contra, per quella ipotesi che può esser piu utile per una
certa condotta di-vita, la cui validità è perciò stesso presunta, niente
affatto scientificamente fondata, e, dunque, disonestamente imposta. Di qui
appunto, nei confronti del " sapere " in generale, il riferirsi da
parte di Sesto, che fu, come egli stesso dichiara, medico, al metodo della
ricerca medica, quale si era delineato nelu secolo, particolarmente attra-
verso Menodoto (cfr. sopra), nella nuova accezione che aveva preso l'in-
dirizzo empirico (cfr. sopra) (questa sembra la ragione per cui Sesto fu detto
empirico), per·cui la ricerca scientifica, non presupponendo di giungete alla
verità - onde non, si può dire che la verità è afferrabile né che non è
afferrabile - rimane, di volta in volta entro i termini delle possibili
esperienze, determinazione di un'ipotesi che spiega un certo complesso di
fenomeni, ma che può di volta in volta cangiare, a seconda dei "segni
rammemorativi," lasciando sempre aperta la ricerca (scepst). Chi
intraprende una qualsiasi ricerca, conviene che metta capo o alla scoperta di
ciò che cercava, o alla negazione di esservi riuscito e alla confes- sione che
la cosa è incomprensibile, o alla persistenza nella ricerca stessa. Cosi,
anche, di coloro che le loro ricerche volsero alla filosofia, alcuni avreb-
bero affermato di aver trovata la verità, altri avrebbero dichiarato trattarsi
di cosa incomprensibile, altri persisterebbero tuttora a cercare. Ritengono di
averla trovata coloro che, con denominazione particolare, sono chiamati
"dogmatici" ("coloro che assentono a qualcuna ddle cose che sono
oscure e formano oggetto di ricerca da parte delle scienze": I, 13), come
gli aristo- telici, gli epicurei, gli stoici e altri. Ne dichiarano
l'incomprensibilità i ·seguaci di Clitomaco c di Carneade e altri act:ademici.
Continuano a cercare gli Scet- tici (Py"h. hyp., l, 1). Lo scetticismo
esplica il suo valore (diciamo "valore" senza annettere a questa
parola nessun sottile significato, nel senso suo semplice in rapporto al verbo
"valere") nel contrapporre i fenomeni e le percezioni intellettive in
qualsiasi maniera, per cui, in seguito all'ugual forza dei fatti e delle
ragioni contrapposte, arriviamo anzi tutto alla sospensione del giudizio... (l,
8). Di qui, dunque, la preliminare e fondamentale discussione sul "giu-
dizio " e sul "criterio." Mediante una ripresa sistematica dei
tropi, da Enesidemo ad Agrippa, si pone in forse la validità di ogni giudizio
che si fondi sulla "analisi" (implicante che i termini del giudizio
siano "inerenti" l'uno all'altro, donde i termini, anche se parole
significanti, debbono pur sempre indicare una presunta realtà per sé}, si come
per altro verso di ogni giudizio che pur implicando che i suoi termini sono
rappresentazioni, dovute alle impressioni sensibili, e che il discorso è perciò
non tra termini, ma tra proposizioni, arresti infine la propria ricerca,
passando dal possibile discorso, fondato sui segni rammemora- tivi, alle cause
prime per via analogica. Se di qui risulta chiara la critica di Sesto alla
"causa," alla "deduzione" e alla "induzione," al
"procedi- mento sillogistico" e alla "analogia," ai
"segni indicativi," altrettanto evidente è in che senso Sesto, senza
extrapolare dalle possibilità umane, accantonato sia il tipo di logica
aristotelica sia quello di tipo cleanteo- stoico sia, infine, sul piano
scientifico, l'illecita assunzione di una ipotesi perché piu probabile e utile
alla vita, sostenga, riallacciandosi in ciò alla logica del primo stoicismo -
si veda sopra, I vol., Zenone -, la positività di una logica fondata sui
"segni rammemorativi." Sesto, cosi, ne deriva da un lato la necessità
di sospendere il giudizio sulla realtà in sé (da qui il rovinare di tutte
quelle scienze che fondano la loro costru- zione su di un "sapere,"
màthemti, che scambi l'ipotesi temporale, dovuta cioè a un complesso di segni
rammemorativi con la verità, e di tutte quelle "morali" che trovino
il loro fondamento su quei principi, quali ch'essi siano, dogmaticamente
sostenuti}; dall'altro lato entro i termini di come si formano i giudizi, entro
i termini di un discorso temporale, fondato sulle implicazioni rammemorative
delle impressioni, la possibilità di un discorso orizzontalmente verace e
capace di cangiare a seconda delle impressioni stesse e delle esperienze, per
cui appunto, la ricerca resta sempre aperta: una la formazione e la validità
del discorso, molte, nel costituirsi "storico" (empirico) del
discorso, le possibili verità, tra cui anche quelle, probabili, se cosi
ridimensionate, dei dogmatici. L'appello di Sesto Empirico e la sua indagine
portavano, sul piano della ricerca scientifica, razionale; a prospettare una
metodologia gene- rale, formalmente valida per ogni tipo di ricerca, in campi
ben deter- minati di fenomeni. Il discorso di Sesto e il suo prmpettare limiti
e validità dei giudizi derivava dal lungo dibattito sul significato della 166
ricerca medica, quale si era delineato, nelle conclusioni cui si
era giunti, particolarmente nel caso dell'ultima scuola empirica derivata da
Meno- doto (cfr. sopra). Nell'ambito dell'indagine medica, di contro ai dot-
trinari (fossero "pneumatici" o "metodici" analogisti),
dopo la pole- mica violenta di Menodoto, ch'era giunto a negare sul piano della
pura empiria qualsiasi possibilità di "giudizio," si venne sostenendo
con Teoda di Laodicea, riconosciuta la validità sul piano polemico del-
l'appello all'empirismo di Menodoto, che l'esperienza non si riduce a una mèra
raccolta di dati, ma è un metodo che non implica affatto l'oltrepassamento
dell'esperienza stessa, né un passaggio, per analogia, dal noto all'ignoto, ma
un passaggio, nel ricordo, dal simile al simile, ché i fatti stessi non sono
noti in sé, presi ciàscuno per sé, ma si fan noti mediante il ricordo di altri
fatti-impressioni, in un discorso coe- rente per sé, ma che non presume affatto
alla verità. Se da uii lato lavoro serio e proficuo è non uscir fuori
dall'esperienza, non ricorrere all'analogia, dall'altro lato esperienza
significa non raccÒlta di dati accanto a dati, non enumerazione all'infinito,
ma confronto di dati, osservazione del loro ripetersi, secondo una certa
costanza, oppure no, si che alla base di dati-rappresentativi, segni
"rammemorativi" e non "indicativi" di strutture in sé o di
cause prime (accanto all'autopsia, diretta e personale raccolta di dati, e
all'historfe, raccolta di dati osser- vati nel tempo da altri, si pone in tal
modo la cosiddetta mfmesis), si possa, in un calcolo dei dati, in ricordi di
dissimiglianze e simiglianze, determinare ima certa sintomatclogia, in una
descrizione (schizzo, ipo- tipost) di un complesso di fenomeni, che non presume
affatto di essere una definizione valida per sempre. Entro questo complesso di
indagini e di ricerche, nella sistemazione in un sol corpo coerente (tale da
spiegare certi complessi di fenomeni, senza far violenza ai dati sperimentali)
del sapere matematico, geogra- fico, astronomico e astrologico per un lato, e
del sapere medico e opera- tivo della medicina per un altro lato, si collocano
le opere di Claudio Tolomeo (fiorito tra il120 e il151) e di Galeno (130-200).
Esse, appunto, attraverso l'autopsia e l'historie, attraverso le dossografie,
non presen- tano solo, l'uno nel campo dell'astronomia, dell'ottica, della
matematica, l'altro in quello della medicina e delle ipotesi filosofiche atte a
spiegare situazioni e condizioni del corpo e dell'animo umano, un insieme di
scoperte o di dati raccolti nel processo del tempo. Esse, anche, in una
rielaborazione di quei dati, di quelle scoperte, in un accantonamento di quelle
ipotesi che cadevano in contraddizione con i dati dell'espe- rienza usando i
materiali offerti, nell'uno o nell'altro campo, dalle varie istorie, dai
risultati conseguiti da questo o quello scienziato o filosofo, presentano un
quadro coerente e complesso, basato su ipotesi proba- bili, veraci in quanto
capaci di spiegare. entro i termini di quelle esp(- rienze e di quelle
situazioni tecniche, un insieme di fenomeni, e capaci di rendere possibili
calcoli e misure. "L'astronomo," scrive Tolomeo, "deve sforzarsi
per quanto è possi- bile di far concordare le ipotesi piu semplici con i
movimenti celesti; ma se ciò non riesce, deve assumere quelle ipotesi che
possono conve- nire" (Almagesto). Tolomeo 80 è, in realtà, l'ultimo
epigono della grande tradizione della scuola scientifica (astronomica) di
Alessandria. Non a caso- entro l'àmbito ora veduto- Tolomeo, che visse ed operò
ad Ales- sandria, si riallacciò ad lpparco di Nicea (cfr. sopra), non solo
racco- gliendone le osservazioni e le scoperte, i calcoli e le misurazioni,
ser- vendosi anche delle esperienze e delle scoperte posteriori ad Ipparco,
rimaste tuttavia puntuali e disarticolate da un unico "sapere," ma
appli- cando di lpparco il metodo indipendentemente da superiori ragioni, sulla
linea del "peripato " di Alessandria. Tolomeo, cosi, opera sp due
piani. l) Riprende tutto il materiale osservativo offerto dagli astronomi
precedenti, ne rivede critiqunente la rielaborazione, ne controlla i risul-
tati, fa osservazioni proprie!, si rende conto dei movimenti e dei rapporti tia
i mondi in rappresent<(zioni geometriche; di qui l'approfondimento della
teoria geometrica degli epicicli e degli eccentrici, in particolar modo per ciò
che riguard:). la luna e la dislocazione dei piccoli pianeti, e
l'approfondimento in (jttica, cui Tolomeo ha dedicato un'opera a parte, della
teoria della rifrazione, sottolineando l'esistenza della rifra- zione
atmosferica dal cui studio geometrico si possono calcolare gli errori cui la
rifrazione atmosferica può condurre nelle oservazioni dei movi- menti stellari.
T ali rappresentazioni geometriche permettono poi calcoli numerici mediante cui
(postulata per quei calcoli stessi là terra al centro dell'universo in un punto
sferico di riferimento) misurare le distanze e i movimenti concordanti con le
osservazioni che cosi vengono spiegate (di qui l'approfondimento della
geometria sferica delineata di contro 80 Scarsissime sono le notizie sulla vita
di Claudio Tolomeo. Sappiamo ch'egli lavorò, in Alessandria, in cui fece le
proprie osservazioni sui cieli, dal 127 circa al 151. Accanto alla sua opera
piu celebre la Mcx&tJ!U'-nxiJ ~r.ç -rijç mpovo~!czç (SinlllSsi mtlle-
mlllica dell'astronomia), detta anche la grande (~1}, megille), per
distinguerla da una rielaborazione minore, e poi, per ammirazione, la
grandissima (I'CYI.a-nj, meglliste), donde, infine, da una trascrizione araba
(La grandissima,.Al maghesm}, il titolo di.Alrruwesto, vanno ric:ordate le
seguenti opere j,ervenuteci: Ipotesi sui pianeti, Fasi delle nelle fisse, La
pida geografica (in otto libri: alcune parti si dubita siano di Tolomeo; in
altre parti sembra che Tolomeo abbia ricaleato l'opera del suo predecessore
Marino di Tiro), l'Ottica, l'.Acustica, il Tetrabiblion (o Opus quadrip•titum,
eanone, com'è stato detto, dell'astrologia elleriistiea), Del criterio !
dell'egemonico. 168 ad Euclide dal matematico Menelao di
Alessandria, autore di un'opera perduta sul Calcolo delle corde e di un
trattato in tre libri, conserva- toci dalla tradizione araba, gli Sferici, in
cui è fondata la trigonometria: cfr. Almagesto, l, 9 e 11). 2) Tolomeo sistema
il tutto, sintatticamente in un solo ordine, s1 che senza violentare i dati
osservati - molteplici e separatamence presi in opposizione tra di loro -, quei
dati vengono spiegati l'uno in rela- zione all'altro, offrendo un tutto
organicamente articolato e possibile d'essere tradotto, appunto, in termini
geometrici e risolto in formule di calcolo. Quello ch'era stato il lavoro di
Euclide per il sapere geometrico, è ora il lavoro di Tolomeo per l'astronomia.
Di qui, anche, il titolo dell'opera sua (M«&1J!J.«:nx~ a\lv-rcx~~c;:
Mathematikè s<Yntaxis), ch'ebbe maggior successo e che, com'è noto, ha
determinato per secoli tutto il sapere relativo alla costruzione dell'universo,
una volta assunto, non criticamente, come sistema definitivo e non come ipotesi
(la Sintassi matematica, detta anche la grande - f.LEYrXÀl): megàle -, per
distin- guerla da una rielaborazione minore, e, poi, per ammirazione, la gran-
dissima - f.LEYLOTrJ meghiste -, è rimasta nota col nome di Alma- gesto,
trascrizione araba dell'articolo - in arabo al - e magesto - trascrizione araba
dal greco meghiste). Di qui, non contraddittoriamente, anzi come l'ipotesi che
meglio poteva permettere la spiegazione dei movimenti e delle leggi regolanti
l'universo, la ripresa e piu compiuta dimostrazione della validità della
ipotesi geocentrica, che, entro lé possibili conoscenze di allora, meglio della
ipotesi eliocentrica, sostenuta da Aristarco, permetteva non tanto la
"salvazione" dei fenomeni in senso platonico, quanto la misurazione e
la spiegazione dell'ordinamento e delle leggi regolanti il movimento del tutto,
facente perno sulla terra, al centro, e scandentesi in una serie di movimenti
entro la sfera contenente tutto l'universo (la prima sfera motrice). Sempre
entro l'àmbito dell'astronomia - e per gli stessi interessi- va veduto il
tentativo di Tolomeo di rendere misurabile e perciò calcolabile il complesso
delle influenz.e stell;ari nelle cose e, particolar- mente, sugli uomini,
cerc;mdo di rendere conto sul piano geometrico - con il metodo lineare e non
trigonometrico còme nell'Almagesto - delle incidenze e rifrazioni, dell'insieme
delle credenze astrologiche. Se Vettio Valente sosteneva che l'astrologia è la
regina delle scienze, Tolomeo, nel Tetrabiblion (Opus quadripartitum, in 4
libri), fece il tentativo di renderne ragione. Egli, peraltro, se da un lato si
riallacciava, su di un piano sperimentale, ai suoi studi di ottica (cfr.
Ottica), dal- l'altro lato, facendo tesoro degli studi di acustica (gli
Armonici di Tolo- meo, in tre libri, sono una approfondita e sistematica
esposizione delle 169 diverse teorie musicali), che culminano con
interessanti· considerazioni sull'influenza della musica sull'animo e sul
rapporto dei suoni con l'ar- monia delle sfere (riprendendo teorie pitagoriche,
platoniche e aristo- teliche), poteva, su di un piano ipotetico, approfondire i
motivi delle influenze stellari e la tesi delle "simpatie," mediante
certi risultati del- l'Ottù:a e della Armonia. Galeno,81 nato a Pergamo nel 129
circa, fu uno dei medici piu colti 31 Nato a Pergamo nel 129-130, Galeno
ricevefte fin da ragazzo una buona edu- cazione particolarmente nelle
matematiche e nelle varie concezioni filosofiche. Poi, per volontà del padre,
che aveva avuto in sogno il consiglio, da parte di Asclepio, dio della
medicina, di avviare il figlio agli studi medici, molto coltivati in Pergamo,
dove sorgeva un celebre "ospedale" (tempio di Asclepio), Galeno, a
diciassette anni, entrò a far parte dei "figli di Asclepio." Galeno,
che abbondantemente parla di se stesso nelle sue opere, dice che fu avviato
alla medicina da un "anatomista," da un "ippocratico" e da
un "empirista." Dopo la morte del padre, visitò le maggiori scuole
mediche del tempo: Smirne, Corinto ed Alessandria: si specializza in anatomia,
ma, ad un tempo, cerca di rendersi conto del significato scientifico della
medicina; ciò lo porta non solo ad ascoltare i "metodisti," ma a
preoccuparsi sempre di piu delle ipotesi filosofiche, per cui frequenta anche
le grandi scuole di filosofia (non è senza interesse ricordare che a Smirne
ascolta Albino: cfr. sopra). Verso il 158, tornato a Pergamo, viene nominato
medico della scuola dei gladiatori, specializzandosi in chirurgia e in
dietetica. Tra il 161 e il 166 è a Roma, clinico di fama, maestro e
conferenziere ascoltato. Nel 166 torna, improvvisamente, in Oriente: si è detto
a causa di un'epidemia scoppiata a Roma (in realtà.sappiamo che in. Oriente
l'epidemia fu ancora piu grave); si è detto perch~ profondamente odiato e
ostacolato da certi circoli romani. Fu in Cipro, in Palestina, in Siria, sempre
attento osservatore, sempre alla ricerca di rimedi terapeutici. Tornato a Pergamo,
vi riprende la sua funzione di medico dei gladiatori, finch~ viene chiamato da
Marco Aurelio ad Aquileia, dove l'imperatore stava per muoversi contro i
Sarmatici e i Germanici. Dopo la morte di Lucio Vero (169), Galeno, insieme a
Marco Aurelio, tornò a Roma. Fu medico personale di Marco Aurelio e di suo
figlio Commodo. A Roma rimase piu di vent'anni. Nel 192, in un incendio,
andarono persi molti suoi trattati. Sembra che dopo, lasciata Roma, sia tornato
a Pergamo, dove mori nel 200 circa, a settanta anni. Il pre- nome Claudio, non
documentato prima del Rinascimento, è forse dovuto a un'errata decifrazione del
C/. Galenus dei codici latini: C/. stava, probabilmente, per C/4rissimus. Della
vastissima opera di Galeno sono giunti oltre una cinquantina di. scritti.
Sull'ordine dei propri libri ~ -rwv
!a(c.)v ~1{3ÀL<o>Y); Dei propri libr. (De: pl -rwv !8(6lv ~L~À(c.)v);
(Depl L'ottimo medico è anche filosofo (0 - r L 6 clptcrt"O<; lct-rpòç
xcxl cpLÀ6aocpot,;); Le sette: a coloro che vi si iniziano (De:p(Gt~Y -roit; claatyo!dvott;);
La migliore dottrina {De:pl Tijt,; ~(cn"l)t,; 3t3czaxrùJatt;); Avviamento
alle arti (Dp~Òt,; iKl
-Mt,;~);lcostumidell'animoseponoitHnperamentidelcorpo(0-rt-rat!t;-roii
a&lj.Lat-rot,; xpciaccnv atl Tijt; M iit; 3uv~!J.CLt; brovrcxL); DÙiposi e
cura delle pas- sioni e dei vizi di ciascuno (ficp{ -rwv 13L6lv
hccicrt"q> ncx6wv Xatl ci(JGtp'n'I!Ui-r6lY Tijt; 3tcxyY&lac6lt;};
Medicina empirica (D c p l Tij<; lcx-rptxij<; l:rmtpLcxt,;); lpotiposi
empirica ('Tmmm<o>att,; l:~mtptx-1)); Le parti della medicina (De:p -rwv
Tijt; lat-rpr.xijt; ~wv); Introduzione dialettica o lnstitutio logica (Elacxy6lyij
3LCXÀI:X-nxf)); Sulla dimostrazione (De:pl ~no3c~); Intorno ai sofismi
linguistici {De:pl -rwv natpti -ri)v Ài~LY croq~ta!Ui -r<o>v); Le
qualita incorporee (•Qn atl noL~ cia&lj.LGt'ratL); Commenti sulla natura
dell'uomo, a Ippocrate (Dcpl cpUac6lt; Mp&lnou); Commenti alla dinll, a
lpprocrate (Dcpl 3tatLn')c; 61;t<o>v); Sulla dieta di lppocrate nelle
malattie acute (Dcpl Tijt; 'I=xpci-rout; 3tat(n'jt; l:nl -rwv 61;é<o>v
YOa'IJ!Ui'r6lY); Commento al Prorretico di Ippocrate (Elt,; 'rÒ npopp'l)-rtxòv
'I=xpci-rout;); Del coma in lppocrate (Dcpl -roii TtGtp' 170
dell'antichità. Il suo nome viene sempre avv1cmato a quello di Ippo-
crate (i due punti estremi dell'arco della medicina antica) e a quello di Tolomeo
(i due grandi sistematori della propria scienza, che per secoli ne diverranno
gli autori). Dal suo lavoro, sul piano piu stret- tamente sperimentale,
derivarono a Galeno scoperte di somma impor- tanza (in anatomia: descrizione
delle ossa, dei muscoli, dei nervi, distin- zione dei nervi in nervi motòrii e
nervi sensòrii, particolar riguardo della cassa cranica; in fisiologia:
descrizione del funzionamento del sistema circolatorio, ove si sostiene, di contro
ad Erasistrato, che il sangue circola sia nelle arterie che nelle vene,
funzione del midollo spinale con relative ripercussioni sui nervi cranici e
cervicali, mediante cui si spiegano le localizzazioni delle paralisi; in
patologia: ogni disor- dine funzionale deriva da una lesione organica; in
psichiatria: studio accurato delle passioni dell'animo). Dalle sue riflessioni,
invece, sul piano piu vagamente teorico, non poche volte gli derivarono
cantonate pericolose per piu approfondite ricerche (particolarmente in
fisiologia, dove, per spiegare certe funzioni, Galeno è ricorso alla teoria
finali- stica e a quella delle cause di origine aristotelica, alla teoria del
soffio vitale dei "pneumatici," e a quella stoica che ogni nostro
organo è per provvidenza dell'unica ragion d'essere del tutto, Dio, sistemato
là dove è bene che sia; la teoria dei quattro umori, secondo· cui, preva- lendo
l'uno o l'altro si ha uno o altro dei temperamenti: sanguigno, flemmatico,
collerico, malinconico). Ora, per capire, entro l'arco della 'l1rnoxpci-;cL
x&!(J4'n11;); Sulle prognosi di lppocrate (Eli; -ronpO)'VCa)O'TI.XW
'I=xpci- -rouç); Sulle articolazioni (IIcpl ap&pc.>v); L'officina del
medico (Ktlt-r' !ot-rpciov); “Le settimane” (Ilcpl i()3o!Lii8c.>v); “Sull'uso
delle parti del corpo umlltJo (IIcpl XPC!«ç 'riiiv lv liY&p&lnou
a&I(J4TL IJ.Op!c.>v); “Indagini anatomiche” (IIcpl -rC..V
ciwl-ro~J.~.Xél)v ·iyxcLpijacc.>v); Placita di lppocrate e di Platone (IIcpl
-rél)v XCI&' '17rn0xpci'n)V XDil Dl.ciTc.>VGt 3oyiJ.ci-r6>11}; Gli
elementi secondo lppocrate (IIcpl -rél)v XCI&' 'l=xpci'n)v
a-roLxc!c.>v); “Sui temperamenti” (IIcpl xpciO'C6>v); Sulle facol~
naturali (IIcpl q~UO'U(él)v 3u~v}; L'uso dd respiro (ttcpl xpc!otç ciwlnvoijç};
Se per natura v'è sangue nelle arterie (El XGtri. q10cn11 lv &p'n)p!«Lt;
citi(J4 ncpLixCTl&L}; [Se l'animille sia qual è nel- l'utero: El ~él)ov -ro
xa:ri. yataTp6t;]; Igiene ('Tywvci); L'ottima costituflione del corpo (IIcpl
clp!O'T"I)t; XGtTatO'XICUi'jt; ToU a&!IJ.GtTOt;); Sulla buona
costitut:ione (IIcpl. cù~(ocç}; Sugli abiti morali (IIcpll&uç); Se
llll'igiene serve di piu la medicina o la ginnastial (IIpbrcpov !ot-rpurijç f)
yu1J.IIGtO'Turijt; lo-n -ro òyl.cLv6v); Sull'eserciflio della piccol11 palÌa
(Ocpl -rou 3L« Tijç O'IJ.(xpatt; a~atLp~ 'Y'IJ.Vata!ou); Sinopsi sui polsi
(~6volj/Lt; m:pl O'qiUY~"); Sugli alimenti liquidi (IIcpl Àe7mlll06cnjç);
Sulle facolta degli alimenti (IIcpl -rpoq~él)v 3uvci1J.Cc.>t;}; Sui·
temperamenti e le facol~ dei medicamenti semplici (IIcpl xpciacc.>t; xa:l
8uvci~J.Cc.>t; -rél)v cin).él)v qlatpjl.cixc.>v); “Sulla compotiflione
dei farmaci” (IIcpl auY&ém:c.>ç qlatp~v); La teriaca (IIcpl Tijç
&JjpL«Xijc; l); Sui rimedi da pre- 'flarare (IIcpl clv-;c!'{3atllo~v);
Sulla conct#enaflione delle cause (IIcpl -rél)v auvcx-nxél)v etl-r!c.>v);
Sulla diffit:oltlJ della respirat:ione (IIcpl 8uanvo~l; I tumori contro natura
(IIcpl -rél)v natp« qiUcnV ISyxc.>v} La cura per flebotomia (IIcpl
q~>4o-roiJ.!«ç.&cpat- ncu-nx6vl; L'arte medica (TtrnJ !ot-rpudjl; [Uso
dei farmaci e dei clisteri: forse di Severo, vissuto nel v-VJ secolo); [Come ti
possono riconoscere i simulatori di malattie]. vastissima opera di Galeno, le
oscillazioni e le contraddizioni derivate dall'innesto dei due piani, da un
lato va tenuta presente la sua forma- zione e l'epoca in cui scrisse questo o
quel trattato (piu teorici quelli scritti in gioventu, piu sperimentali quelli
scritti in vecchiaia), dall'altro lato, soprattutto, la grossa discussione
sorta in medicina, nel corso del II secolo, tra "dogmatici," "metodici"
ed "empiristi" puri. Di Galeno, attraverso Galeno stesso, sappiamo
molto. Uomo senza dubbio di eccezione, di temperamento inquieto, estremamente
ambi- zioso (in un certo momento della sua vita, clinico di moda che affa- scina
non solo per la sua bravura tecnica, per le sue diagnosi e per il suo specifico
sapere medico, ma anche per le sue teorie), Galeno fu educato da un padre
intellettuale, l'architetto Nicone, che lo avviò fin da ragazzo ai piu rigorosi
studi della matematica e del sapere in generale (filosofia), ai quali, sempre
per volontà del padre, si aggiunsero fin da quando aveva diciassette anni gli
studi di medicina. Allievo, in Pergamo, dov'era una celebre scuola medica, di
un anatomico, di un ippocratico e di un empirista, Galeno, morto il padre, visitò,
nel giro di nove anni i piu famosi centri di medicina - Smirne, Corinto, Ales-
sandria-, frequentando, ad un tempo, anche le maggiori scuole filosofiche. Nel
158, a Pergamo, diviene medico dei gladiatori, specializzan- dosi in chirurgia.
Nel 162 è a Roma, dove acquista grande fama. Nel 166, forse a causa di
un'epidemia, lascia Roma. Viaggia in Oriente; è a Cipro, in Palestina, in
Siria; ovunque prosegue le sue osservazioni, raccoglie cartelle cliniche, cerca
di rendersi conto delle varie concezioni che possano servire a comprendere il
funzionamento del corpo umano. Poco dopo essere tornato a Pergamo, dove
riprende il suo pòsto di chi- rurgo presso la scuola dei gladiatori, viene.
richiamato in Italia, ad Aquileia, dall'imperatore Marco Aurelio, di cui divenne
medico di fiducia. Morto Marco Aurelio, lo fu di Commodo. Rimase a Roma, medico
celebre, dedito alla pratica medica e alla redazione definitiva delle sue
opere, fin verso il 199. Tornato a Pergamo vi mori nel 200 circa. E qui vanno
sottolineate due cose: Galeno cominciò a scrivere fin da quando aveva diciotto
anni e non fu solo formato nell'arte medica e nelle varie teorie mediche in
discussione; egli, fin da giova- nissimo, venne anche formato dagli studi
matematici e dagli studi rela- tivi al "sapere" in generale,
dibattutissimi nelle scuole filosofiche. E cosi va ricordato che prima del 165
sembra ch'egli avesse già composto le sue maggiori opere teoriche, insieme a
quelle di anatomia e di fisio- logia, mentre i grandi trattati di terapia e di
patologia, le opere piu strettamente tecniche e frutto della sua lunga opera di
sperimentatore, sarebbero state composte durante i suoi soggiorni romani. Non è
questo che un accenno, ma ciò va tenuto presente da chi voglia ricostruire la
personalità e la concezione medica di Galeno, senza ricorrere alla facile
etichetta del "Galeno eclettico." In realtà, l'opera di Galeno è
estremamente problematica, e sorge da un continuo dibattito tra la tesi estrema
dell'empirismo di un Menodoto, che, sia pure per polemica, giungeva,
dimostrando il pericolo che nella ricerca medica è rappresentato da
qualsivoglia teoria in astratto, a negare la possibilità di fondare una scienza
medica, e l'esigenza - propria, del resto, alla discussione delle scuole filosofiche
- di cogliere, attraverso l'esperienza stessa (che altri- menti rimarrebbe come
non fatta, se si limitasse ad una pura enume- razione), le condizioni che
permettono di dare un senso, cioè di domi- nare e ordinare i dati
dell'esperienza. Gli stessi "segni rammemora- tivi" - fondamentali in
medicina - hanno un'utilità, solo quando ci si renda conto di come,
costituendosi insieme, l'uno implichi necessa- riamente l'altro; la stessa
esperienza perciò funziona solo quando si giunga da un lato a determinare come
è che si pensa, come cioè si costituiscono i giudizi (logica: cfr. Institutio
logica), e dall'altro lato, quando, in quanto si giudica, implicando ciò la
definizione e, perciò, il genere prossimo e la differenza specifica, si
determinano le cause di un certo gruppo di fenomeni. Per gli dèi, per quanto
riguarda i miei maestri, anch'io sarei caduto nell'aporia dei Pirroniani, se
non avessi posseduto gli elementi della geome- tria aritmetica e logistica
(ÀoyLG't'LX~), in cui fin dall'inizio avevo fatto pro- gressi, istruito per
molto tempo da mio padre, il quale aveva ereditato la teoria dal nonno e dal
bisnonno. Vedendo; dunque, che non solo mi appa- rivano chiaramente vere le
questioni relative alle previsioni delle eclissi [...lacuna], ritenni fosse
meglio valersi del tipo delle dimostrazioni geome- triche; e infatti
riscontravo che gli stessi dialettici piu esperti e i filosofi, pur essendo
discordi non solo tra di loro, ma anche con se stessi, tutti, nello stesso
modo, esaltano comunque le dimostrazioni geometriche (Galeno, De propriis
libris, XI). Tale fu lo sforzo continuo di Galeno, nel suo tentativo di
delineare, proprio perché sia possibile la diagnostica, e.perciò stesso non
solo la terapia, ma un'azione preventiva, un complesso di principi teorici, di
quadri clinici, di cause entro cui ordinare un certo insieme di fenomeni o
provederne altri, insieme al rintraccio di quelle che sono le condizioni
formali che permettono una deduzione. Se da un lato, cosi, Galeno riprendeva
certi aspetti della logica for- male di Aristotele (in particolare la
costruzione dei sillogismi, quale appare negli Analitici Primi: cfr. lnstitutio
logica; secondo Averroè a Galeno risalirebbe la quarta figura del sillogismo),
si capisce come, dall'altro lato, Galeno per spiegare, particolarmente in
fisiologia, le funzioni dell'organismo, volte al mantenimepto ed equilibrio del
tutto in una specie di finalità naturale, assumesse, ·sia pure per ipotesi, il
finalismo biologico di origine aristotelica; e che, per spiegare il fatto vita-
lità, ricorresse all'ipotesi stoica (propria della corrente stoico-vitalistica,
risalente forse a Posidonio, che non poche volte Galeno cita) delle forze,
degli "spiriti" vitali, per cui il "pneuma" si realizza
come "spi- rito cerebrale" (pneuma psichico), · come "spirito
vitale," o animale, vero e proprio, che dà vita e che dalla sua fonte, che
è il cuore; muove il sangue nelle arterie, e come "spirito naturale,"
che dalla sua fonte, che è il fegato, mette in movimento il sangue nelle vene.
Di qui, nell'àmbito di questa concezione dell'uomo che in piccolo (micro)
ripete il grande (macro) cosmo, la teoria - di chiara origine ippocra- tica -
dei temperamenti (i quattro elementi, fuoco, aria, acqua, terra, le cui potenze
o qualità sono il caldo, il freddo, l'umido e il secco, si ritrovano
nell'organismo umano come sangue, forza vitale vera e propria, come flegma,
bile gialla e bile nera; dal sangue, che ha in sé in circolo i quattro umori;
si determina o l'equilibrio degli umori o il prevalere dell'uno o dell'altro,
donde i temperamenti: sanguigno, flemmatico, collerico e malinconico). Non è
qui il caso di soffermarci sulla patologia e sulla terapeutica di Galeno.
Basti· ricordare che esse si fondano sulla sua biologia: si sostiene che la
salute consiste in un'ar- monica ed equilibrata resultante delle forze operanti
nell'organismo, e la malattia in una rottura dell'equilibrio, in un eccesso o
difetto delle forze vitali, e che compito del medico è, attraverso una
conoscenza pre- cisa dell'anatomia e della fisiologia, ed un'analisi minuta e
ampia dei sintomi, operare sulla natura, si che la natura ritrovi il suo
equilibrio.A seconda dei testi di Plotiilo sui quali si verrà puntando - chi
direttamente lo ascoltò profondamente fu colpito dalla sua forza intel- lettiva
e dalla dirittura ascetica della sua vita: cfr. la Vita scritta da Porfirio -
si potranno reinterpretare in termini simbolico-allegorici certe precedenti
effettive credenze nei misteri, nella funzione della magia e nelle pratiche
teurgiche, sostenendone l'assurdità, se prese in forma non allegorica,
assumendo dai vecchi riti, culti, misteri, l'orfico.in particolare, tutto ciò
che poteva servire a indicare plotinianamente il ritorno dell'anima a se stessa
e al divino, in termini etico-religiosi (ciò specialmente si vede in Porfirio,
quando si tengano presenti le due fasi del pensiero porfiriano: prima e dopo
l'incontro con Plotino); oppure si potrà, mettendo in evidenza certe
espressioni religi<>so-miste- riche e l'indiscorribilità del contatto con
runo, o del farsi uno nel- l'anima di ciò che vien compreso, entro i termini
della concezione del- l'universo di Plotino, riprendere il motivo secondo cui
tutte le cose sono anime, dèi, aventi perciò una loro potenza e il motivo della
libe- razione dell'anima, che rifacendo propria tutta la realtà, si salva dive-
nendo simile al dio e con ciò stesso divenendo assoluta potenza e libertà.
Entro questo quadro, cosi, si giustificavano non solo certi misteri, ma anche
certe pratiche teurgiche (ciò si vede bene in Giamblico, disce- polo di
Porfirio, e piu tardi in Proclo, i quali cercheranno di mostrare quali siano le
tecniche mediante cui, comprese certe potenze, certe anime, si afferra l'anima,
che può essere anche uno o altro elemento, uno o altro simbolo, e si mette
nelle cose, per poi dominare altre cose, altri dèi: di qui, attraverso la magia
imitativa, si cercava di determinare le possibilità di una magia operativa). Lo
stesso Porfì.rio/ nato forse a Batanea, in Siria, nel 233-34, detto anche di
Tiro, avendovi vissuto per un certo periodo, narrando il suo primo incontro con
Plotino, avvenuto in Roma, nel 263 circa, scrive: "Nelle adunanze, Plotino
sembrava uno che conversasse e nessuno vi l Nacque forse a Batanea, in Siria,
nel 233-234 (fu detto anche di Tiro, avendovi vissuto j)<'r un certo
periodo). "Io, Porfirio, avevo inoltre anche il nome Basilio, essendo
chiamato nell'idioma patrio, Maleo - tale pure era il nome di mio padre. Ora
Maleo significa re: cioè Basileus [Basilio], se si vuoi renderlo in lingua
greca" (Vita Plot., 17). A Cesarea di Palestina conobbe Origene ed entrò
in dimestichezza con lui. Ebbe qui i primi contatti con la scuola cristiana. Ad
Atene ascoltò Longino Cassio, che, insieme a Plotino, era stato, in
Alessandria, discepolo di Ammonio Sacca. Longino Cassio, di cui Plotino diceva:
"filologo si, ma filosofo no, affatto!" (Porfirio, Vita Plot., 14),
iniziò Porfirio alla filosofia platonica e, particolarmente, alla retorica, in
cui Longino fu celebre (di Longino si hanno frammenti di un Trattato di
retorica; perduti sono andati i libri Sul Fine e Sui principi; si è oggi
convinti che il trattato Sul sublime non sia di Longino}. A trenta anni circa
Porfirio andò a Roma, dove, conosciuto Plotino, ne divenne, insieme ad Amelio,
uno dei piu fedeli discepoli e collaboratori. "Nel decimo anno del regno
di Gallieno [263], io, Porfirio, giunsi dalla Grecia in compagnia di Antonio
Rodio. E appresi che Amelio, pur frequentando la scuola di Plotino da diciotto
anni, non aveva osato ancora scrivere altro che gli Sco/ii, i quali peraltro
non avevano ancora raggiunto il centinaio. Platino, nel decimo anno del regno
di Gallieno, aveva, all'incirca, cinquantanove anni, ed io, Porfirio, allorché
m'incontrai la prima volta con lui, avevo trent'anni" (Vita Plot., 4).
Alla scuola di Plotino, Porfirio abbandonò molte delle sue vecchie opinioni, o
meglio le riordinò entro i termini della concezione plotinica. Collaboratore e
amico di Plotino, visse intensamente la vita della scuola j)<'r cinque anni,
finché ammalatosi di esaurimento nervoso, su consiglio dello stesso Plotino, si
recò in Sicilia (nel 268 circa) per rimettersi in salute. In Sicilia (al
Lilibeo) soggiornò due anni. Platino era morto nel 2 7 0 · - tornò a Roma, dove
riprese la sua attività di maestro proseguendo l'insegnamento di Plotino e
dedicandosi all'edizione degli scritti di Plotino, che pubblicò tra il 300 e il
304. Porfirio mori a Roma nel 305. Porfirio scrisse molto. Per una
ricostruzione del P<'nsiero di Porfirio, vanno tenuti presenti i
j)<'riodi in cui si suddivide la sua produzione: l. Prima dell'incontro con
Plotino; 2. Durante il soggiorno romano alla Scuola di Plotino; 3. Durante il
soggiorno in Sicilia e il secondo a Roma dopo la morte di Plotino. Appartengono
al primo j)<'riodo: La filosofia desunta dagli oracoli (frammenti);
Questioni americhe (framm.); Storia della filosofia in 4 libri, di cui resta
solo il l, La t•ita di Pitagora (il II era dedicato a Empedocle, il III a
Socrate, il IV a Platone: ne restano una ventina di frammenti); Introduzione all'astrologia
di Tolomeo; Commento agli Armonici di Tolomeo (framm.); Sulle immagini
(framm.). Appartengono al secondo j)<'riodo, frutto dell'attività
scolastica, Commenti a opere di Platone (al Crati/o, al Sofista, al Parmenide,
al Timeo, al Filebo, al Convito, al Fedone, alla Repubblica); una Discussione
con Amdio; una discussione sullo scritto di Eubulo, scolai-ca dell'Accademia di
Atene, Ricerche platoniche (di questi scritti abbiamo solo notizia); un
Commento a L'affermazione e negazione di Teofrasto (J><'rduto); Commenti
alle Categorie di Aristotele (framm.), al De interpretatione di Aristotele
(framm.), alla Fisica di Aristotele, al XII libro della Metafisica di
Aristotele, all'Etica di Aristotele e ad alcuni passi del De anima di
Aristotele (di questi commenti son rimasti pochi fram- menti e notizie);
lntroduzion~ o lsagoge alle Categorie; lsagoge ai Sillogismi categorici.
Appartengono al terzo j)<'riodo: Contro i Cristiani in 15 libri (framm.);
Lettera al sacer- dote Anebo (framm.); Cronografia (framm.); Sul ritorno
dell'anima (framm.); Sull'asti- nenza (framm.); Sul dio sole (framm.); Commenti
agli Oracoli Caldaici (citati nel Ritorno dell'anima); Lettera a Marcel/a
(framm.; Porfirio sposò in vecchiaia la vedova Maccella j)<'r aiutarla ad
allevare i figli); L'antro delle Ninfe (framm.); Sul "conosci te
stesso" (notizie); Gli slanci dell'anima verso l'intelligibile o Sentenze;
Vita di Plotino, premessa all'edizione delle Enneadi, e Commentari ad alcuni
trattati delle Enneadi. 2,35 vedeva affiorare, a tutta prima, la
forza della costn,1zione logica rac- chiusa nel suo ragionamento. Io stesso,
Porfirio, ebbì quindi a subire una s,imile impressione, quando lo udii la prima
volta. Mi spinsi perciò a presentargli un saggio critico, in cui tentavo di
dimostrare, contro la sua tesi, che gli intelligibili hanno esistenza fuori
dell'Intelletto. Egli se lo fece leggere da Amelio e, a lettura finita, con un
sorriso: 'è fac- cenda tua,' disse, 'o Amelio sciogliere i dubbi, nei quali,
per mancata conòscenza della nostra dottrina, Porfirio è caduto.' Amelio
scrisse un libro, tutt'altro che breve, Contro le aporie di Porfirio. lo
scrissi di bel nuovo in risposta al suo scritto. Amelio vi replicò ancora. Alla
terza volta, sia pure con un po' di fatica, io, Porfirio, compresi il loro pen-
siero e mi convertii. Stesi una Palinodia che lessi in seno alla riunione.
D'allora in poi, anche in rapporto ai libri di Plotino, fui considerato l'uomo
di fiducia. E fui io a destare nel maestro stesso l'ambizione di articolare e
di sviluppare, per iscritto, i suoi pensieri" (Vita Plot., XVIII, 90-93).
Prima di conoscere Plotino, Porfirio, che a Cesarea aveva conosciuto Origene,
che ad Atene aveva ascoltato il retore e platonico Longino Cassio, e ch'era
stato ad Alessandria, aveva fortemente subito l'influenza delle dottrine
religioso-misteriche, diffusissime, che senza dubbio erano state presenti anche
a Plotino, ma che Porfirio non aveva criticamente discusso, né risolto in una
costruzione logica. È certo che Porfirio fu da giovane attratto dalle
suggestioni dei maghi e dei teurghi, dando un particolare significato a ciò che
si poteva desumere dalle sedute in cui si evocavano gli spiriti, in una
interpretazione simbolica di ciò che.quegli spiriti evocati dicevano (oracolt).
Di qui l'opera di Porfirio, dal significativo titolo Sulla filosofia tratta
dagli oracoli (ne:pt njç ~x Àoy(Cùv qnì..oao'P(otç), pubblicata prima che
Porfirio en- trasse in contatto con Plotino, e dai cui frammenti si ricava,
appunto, che Porfirio si serviva di oracoli dovuti, com'è stato detto, a
"medium" durante sedute spiritiche, e che l'opera era una specie di
trattato di teurgia, da cui si potevano ricavare tecniche e pratiche rituali
mediante le quali ricondurre l'anima alla propria divinità. In questo stesso
pe· riodo preromano, Porfirio scrisse un'opera in quattro libri dedicata alla
ricostruzione piu che del pensiero, del modo di vita di filosofi, o, meglio, di
vite ispirate, demoniache, indicazioni mediante cui salvare l'anima, e in cui
egli, riallacciandosi a una certa tradizione platonica (partiro larmente a
Moderato di Gades), vedeva il piu profondo significate della filosofia: non a
caso, cosi, i quattro libri erano dedicati il prime a Pitagora, il secondo a
Empedocle, il terzo a Socrate, il quarto a Pla· tone. Di essi è giunto solo il
primo, la Vita di Pitagora; degli altri non sono rimasti che una ventina di
frammenti. Già indicativa di un certe modo di intendere il filosofare è
l'architettura dell'opera; la Vita d1 236 Pitagora, poi, dà il metro
esatto dei termini entro cui Porfirio, nel rico- struire il significato del
pitagorismo, vedeva la funzione ascetica della filosofia nell'evocazione del
proprio dèmone, e nella traduzione in ter- mini simbolico-numerici di tutta la
realtà, che Pitagora avrebbe desunto dagli Egizi, dai Caldei, dai Fenici e dai
Magi (cfr_ Vita Pit., 6; interessante è ricordare che Porfirio ricostruisce la
vita di Pitagora met- tendo insieme i testi piu diversi, tratti da Cleante,
Apollonio, Davide di Samo, Lico, Eudosso, Dionisofane, Dicearco, Nicomaco,
Antonio Diogene, Moderato). E cosi è altrettanto indicativo che Porfirio abbia
scritto, sempre in questo primo periodo, un'Introduzione all'astrolo- gia di
Tolomec. (EtaatywyYj etc; -r~v <Ì.7ton:ÀEafJ.Ot'rtx~v -rou IhwÀEfJ.Ot(ou) e un
trattato Sulle immagini. Senza dubbio l'incontro con Plotino pro- vocò in
Porfirio una crisi, ma piu teoretica che morale. Egli, evidente- mente, rivide
le. proprie credenze al lume del rigoroso metodo ploti- niano, scoprendo il
significato delle proprie esigenze etico-religiose, e dando ad esse, entro i
termini della concezione di Plotino, una sistema- zione logico-ontologica,
mediante cui segnare le tappe di un itinerario dell'anima a Dio, entro cui
potevano rientrare anche i vecchi misteri, le vecchie credenze, i vecchi miti,
intesi però simbolicamente, assunti per ciò ch'essi potevano servire a
convertire l'anima a se stessa, a libe- rarla dalla dispersione sensibile:
insignificanti, anzi assurdi, se presi unilateralmente per sé. I frutti di tale
"conversione" al plotinismo, come dice lo stesso Porfirio, e del suo
atteggiamento nuovo nei con- fronti della elevazione morale e religiosa si
vedono bene nelle opere che Porfirio cominciò a comporre dal 269 in poi, dal
tempo del suo soggiorno in Sicilia, dopo che vissuto in Roma per sei anni,
fianco a fianco con Plotino, in un intenso lavoro di scuola, tra lezioni,
discus~ sioni, seminari, rielaborazione e trascrizione degli scritti e delle
lezioni del maestro, colpito da una grave forma di esaurimento, che lo con-
dusse sulla soglia del suicidio (cfr. Vita Plot., 11), si allontanò dalla
scuola, su consiglio dello stesso Plotino (cfr. ib.), per prendersi in Sici-
lia un periodo di riposo. 'Porfirio soggiornò in Sicilia due anni circa (dal
268-69 al 271); tornò a Roma dopo la morte di Plotino (270), e a Roma, divenuto
il continuatore ideale dell'insegnamento di Plotino, intensamente lavorò alla
divulgazione e alla sistemazione del pensiero del maestro, fino alla mortè,
avvenuta nel 305. Se il nuovo atteggiamento nei confronti della magia e della
teurgia popolari si vede bene nella Lettera ad Anebo, sacerdote egizio, in cui
criticamente si mette in discussione, appunto, la funzione della teurgia,
dimostrando la confusione e l'irrazionalità di molti e torbidi riti, mi- steri,
pratiche, la contraddizione di distinguere le divinità in buone e malefiche,
prestando alla divinità passioni, esigenze, volontà umane ("autentiche
invenzioni di uomini e finzioni della natura umana": Lett. a Anebo, 49);
nella Lettera a Marcel/a, sÙa moglie, si vede bene il significato dato da
Porfirio all'elevazione morale-religiosa, dovuta ad una purificazione
dell'anima, in un ritorno dell'anima a se stessa, in un dominio di se stessi,
che è il dominio che l'anima, in quanto con- sapevole, ha di tutte le cose, ché
tutto dipende da noi stessi, e perciò dall'anima e quindi dall'Intelletto e da
Dio. Sotto questo aspetto Por- lirio reinterpretava, in termini plotiniani, il
motivo stoico (Cornuto, Epitteto), secondo cui libera è ranima che dipende da
se stessa, onde la virtu consiste nell'adeguarsi alla legge di natura
("l'intelletto segua Dio, e ne contempli in sé l'immagine; l'anima segua
l'intelletto; alla anima serva {>er quanto è possibile il corpo, fatto puro
a lei pura": A Marcel/a, 13; "Facciamo conto solo delle cose che
dipendono da noi": ib., 5; "l'intelletto è maestro, salvatore,
nutrimento, custode e guida: esso intende la verità nel silenzio e discoprendo
la legge divina con la contemplazione di se stesso riconosce nel suo intimo la
legge impressa sin dall'eternità nell'anima; devi considerare anzitutto la
legge naturale, da questa devi risalire alla legge divina, che è fondamento di
quella naturale; ancorata a queste leggi, non temerai nessuna legge
scritta": ib., 26-27). La concezione di Plotino giustificava, cosi, in
termini logico-intel- lettuali, l'esigenza etico-religiosa di Porfirio, che
particolarmente fu col- pito dalle discussioni di Plotino sull'anima, intesa
come consapevolezza di sé, come capacità di cJndurre a sé se stessa spersa fuori
di sé, fino a giungere a vivere, indiandosi, la vita del tutto. Non a caso
Porfirio punta sempre sull'anima, sulla "conversione" dell'anima,
sull'anima entro cui è la verità, che ci trascende dal di dentro, qualora si
sappia ascoltare l'anima stessa, il nostro piu vero ed intimo
"maestro" ("tu hai in te un maestro": A Marcel/a, 9).
"Raccoglierai e unificherai le tue intime facoltà, se cercherai di
articolarle quando sono ottenebrate: anche il divino Platone partendo di là ha
richiamato dalle cose sen- sibili alle intelligibili" (A Mareella, 10). D
i qui, sembra, lo stesso modo con cui Porfirio, raccogliendo e pubblicando i
vari scritti di Plotino, pur conoscendone l'ordine cronologico (cfr. Vita
Plot., 4-6), ha ordinato, nel costituire il "libro" del
neoplatonismo, i trattati plo- tiniani, cominciando appunto dall'individuo e
dal sensibile. L'ordina- mento delle Enneadi rispecchia senza dubbio
l'interpretazione di Porfirio, il quale, per altro, vede, con Plotino,
nell'anima il punto in cui si incentra l'universo tutto; se l'Anima da un lato
è unità trascendente se stessa nell'unità vivente dell'Intelletto-intelligibili
(l'au- tovivente, l'IXÒ't'o~<;iov del Timeo), che trova il suo fondamento
nel- l'Uno, dall'altro lato, l'Anima, in quanto affermazione di sé, riproduce
la molteplicità dell'Intelletto, dando luogo alle cose (l'anima demiurgo), e
prende coscienza di sé in quanto, limitazione di se stessa (anime singole ed
empiriche), per cui l'anima dapprima dispersa, rotta nelle cose, passiva,
facendosi cosciente di ciò, oltrepassa il limite, ricondu- cendo a sé le cose
stesse. Di qui proviene la distinzione porfiriana delle funzioni dell'anima
singola: l'anima è puramente spermatica finché, inconscia, è essa stessa le
cose; eidolica, immagine, allorché si rappre- senta i corpi come altro da sé, e
come limiti; logica, quando coglie se stessa come discorso unificante,
articolando il molteplice; noetica, quando dalla dispersione sensibile, dalla
coscienza del limite, dall'unità del molteplice fuori di sé, intuitivamente
coglie il tutto Uno in sé, solle- vandosi all'intelletto; anoetica, quando
perde se stessa facendosi una nell'Uno. Le anime particolari, dunque, sono
nell'Anima del mondo, e da essa emergono senza che essa sia divisa, si come
tutte le cose, cieli, stelle e cosi via fino alla terra, sono nell'Anima del
mondo e da essa emergono, in limiti sempre maggiori, sempre piu corposi, onde
appunto sono i corpi ad essere nelle anime; tutto perciò può essere
interpretato in un rapporto di "simpatia," di reciproche influenze,
di imitazioni, in una gradualità di anime che vanno dalle superiori anime
celesti (gli astri) alle inferiori anime singole, ciascuna delle quali è,
dunque, legata alla sua stella, mediante una serie di anime intermediarie
(dèmoni). La realtà tutta è, perciò, sotto questo aspetto buona, divina; e il
male non ha alcuna realtà, alcun principio, se non nell'anima stessa, nella sua
capacità di rimanere nel limite, o di guardare in sé. Appunto in questo primo
guardare in sé dell'anima, nel momento dell'imma- gine, in cui la realtà appare
come altra dall'anima, avente un suo limite e una sua figura, una sua
corporeità, essa si rappresenta le anime stesse come figure, come corpi,
provenienti dall'Anima dell'Universo, condotte da un soffio vitale eterno (il
pneuma, veicolo o ochema del- l'anima) passato attraverso le sfere dei pianeti,
di cui assume l'aspetto, determinando quindi il nostro carattere, e quello dei
dèmoni. Partico- larmente interessante sembra questo aspetto della dottrina di
Porfirio, esposta nel De regressu animae (fr. 3 Bidez), da cui chiaramente
appare che l'universo costituito di anime, di astri, di dèmoni, J;).on è tanto
una realtà data, ma la visione del primo momento del ritorno del pensiero a se
stesso, appunto il momento dovuto all'anima nella sua attività eide-
tico-immaginativa. Proprio entro questo momento funzionano epos- sono essere
ripresi, per chi non sia filosofo, per chi non sappia elevarsi al momento
logico e noetico, i riti, le pratiche magiche e teurgiche, in quanto servono a
purificare l'animà, a dare a tutti la coscienza che ciascuno è divino, che
tutto è divino, che infiniti, nell'Unità del divino, sono gli dèi. E ~ i riti,
i culti, le credenze, non hanno piu significato per chi sia filosofo - una
élite, - essi hanno una funzione terapeutica e ordinatrice per la massa. È
sull'anima "pneumatica," e mediante essa sull'immaginazione - scrive
il Bidez - che le cerimonie liturgiche agiscono. "Esse presentavano
all'anima pneumatica simboli di natura tale da suggerire una reminiscenza e un
vago scorcio della verità. I riti placano i cattivi dèmoni che assediano il
'veicolo.' Con visioni mera- vigliose, fanno vivere lo 'spirito' nella società
degli angeli e degli dèi. Rendono capaci di ricevere la loro visita - cfr. De
regressu animae, 2, 6. - Senza dubbio in virtu della legge di assimilazione, a
forza di contemplare questi esseri puri, l'uomo si libera dalle influenze per-
niciose e si sbarazza di ogni effluvio malsano. La purificazione progre- disce
via via che l'animo fa sf che in sé si produca l'effetto della pro- pria
devozione, e la pratica della continenza, che a rigore potrebbe bastare - cfr.
De regr. an., 7; anche De abstinentia - renderà la sua liberazione ancora piu
sicura. Il successo definitivo non è tuttavia sicuro. Benché sia essenzialmente
diversa dalla magia volgare, la teurgia è sempre aleatoria, fallace, e
pericolosa" (Bidez, Vie de Porphyre, Gand- Lipsia). Se è vero - sottolinea
Porfirio - che le pra- tiche teurgiche sono capaci di purificare la "anima
pneumatica," esse tuttavia non possono operare il completo ritorno
dell'anima a Dio, e possono essere pericolosissime in mano a ciarlatani (cfr.
De regressu anim·ae). "Perciò l'uomo saggio e prudente si asterrà dal
servirsi di sif- fatti sacrifici, mediante cui attirerà a sé cosi fatti dèmoni
malvagi; si studierà invece con ogni mezzo di purificare l'anima, poiché quelli
all'anima pura non si attaccano per la dissimiglianza da loro" (De absti-
nentia, Il, 38). E dirà Sant'Agostino, commentando il De regressu animae;
"Porfirio promette quasi una purificazione dell'anima, per mezzo della
teurgia, ma con esitazione e con discussione in certo modo pudibonda. D'altra
parte nega che tale arte offra a chi che sia la con- versione a Dio, sicché lo
vedi... fluttuare fra alterne opinioni" (De civitate Dei, X, 9, 415). E
qui non va scordato che Porfirio si era in gioventu formato in Siria, a
Cesarea, ad Atene, ad Alessandria. Fu quella un'epoca in cui diffusissime erano
le religioni misteriche, e, entro queste, le pratiche rituali magiche e
teurgiche, particolarmente provenienti dall'ambiente siriaco, ma che si
venivano incontrando e fondendo con le religioni della tradizione occidentale,
in una trasformazione vicendevole, in una spiegazione dell'universo e del
destino umano in termini diversi dai soliti, rispondente, per altro, alla nota,
profonda crisi, traversata dal- l'Impero dal tempo di Commodo, successore di
Marco Aurelio. E qui va ricordata l'importanza data da Settimio Severo a
Serapide egizia, ma ancor piu va ricordata la diffusione che in tutto 240
l'Impero, per un certo periodo dominato da imperatori di
provenienza siriaca, per via materna, ebbe il culto del siriaco dio Sole
(pensiamo a Caracalla, e in particolar modo a Eliogabalo, che vittorioso su Macrino, per aiuto della
madre Mesa, siriaca, sacerdotessa del Sole, come lo era stata Giulia Domna,
moglie di Set- timio, impose in Roma il culto solare, con tutti i riti, i
culti, le mera- viglie ad esso connesse). Sono, questi, dati che vanno tenuti
presenti per rendersi conto da un lato della complessità di questo periodo e
della difficoltà eh'esso presenta per intenderne le molte sfumature, richiami,
allusioni, dall'altro lato per comprendere, tra il terzo e il quinto secolo, lo
strutturarsi e il cristallizzarsi di piu correnti in scontri e incontri,
determinanti alla fine una comune atmosfera culturale, ove già chiare sono le
linee della cultura propria del Medioevo. Il notevole tentativo di Porfirio fu,
dunque, entro la concezione di Plotino, di coordinare e dare un senso alle
pratiche teurgiche e magiche, di rendere conto della funzione dei riti, dei
culti, delle stesse credenze religiose, valide da un lato come avviamento per
gli uomini comuni, dall'altro lato come avviamento alla filosofia. Entro questi
termini, sem- bra, vanno considerate le ultime opere di Porfirio: il Commento
agli Oracoli caldaici (gli Oracoli sono da lui piu volte citati e usati nel De
regressu animae), uno scritto su Il Dio Sole (di cui si leggono vasti brani nel
primo libro dei Saturnali di Macrobio), in cui, appunto, il siriaco Sole viene
ad essere posto come il simbolo dell'unità vivente, sulla linea della
tradizione del sole platonico e stoico, emergente dal- l'Uno, dall'Uno Dio
Bene; e quella specie di breviario che è Gli slanci dell'anima verso
l'intelligibile ('AcpopfLOCL 7tpÒc; -rli: V01)'t"OC) (una summa di regole
plotiniane per ritornare dal sensibile all'Anima, all'Intelletto, a Dio,
dapprima mediante una condotta di vita ascetica, poi mediante una sempre piu
approfondita meditazione dell'anima su se stessa). Gli Slanci dell'anima furono
scritti per gli addottrinati, per chi, attraverso la scuola, riceve la capacità
di inserirsi nella catena degli eletti ispirati, per chi, purificatosi, ha la
capacità di "conoscere se stesso" (non a caso Porfirio scrisse anche
un'opera sul Conosci te stesso), di passare in un convertimento dell'anima a se
tessa ad essere filosofo. E qui ha un particolare interesse la classificazione
porfiriana delle virtu (il capitolo 32 degli Slanci, attraverso Macrobio, che
ne dette un sunto nel Somnium Scipionis, ebbe non poca influenza sulla
classificazione delle virtu, nel Medioevo): virtu civili ("fondate sulla
moderazione delle paso;ioni esse consistono nel seguire ed obbedire alla
ragione nei doveri attinenti alle azioni; sono dette l · Oli, perché riguardano
la sicurezza del prossimo nella società; la saggezza si riferisce alla parte
razionale, la fortezza all'irascibile, la temperanza consiste nell'accordo e
nell'armonia della parte concupiscibile con la ragione, la giustizia nel dovere
di ciascuna parte nel comandare e nell'ubbidire"); virtu catartiche
("proprie del- l'uomo contemplativo..., sono le virtu dell'anima che si
eleva, purifi- candosi, all'essere realissimo, e a cui si giunge mediante le
civili; la prudenza, perciò, nelle virtu catartiche, consiste nel non opinare
con- forme al corpo, ma nell'agire puro, cioè nel pensare con purezza; la
temperanza consiste nel non aderire alle passioni; la fortezza nel non temere
il distacco dal corpo, quasi sia un cadere nel vuoto e nel nulla; la giustizia
si ha quando la ragione e l'intelligenza comandano senza trovare
resistenza"); virtu intellettuali (''sono le virtu proprie del- l'anima
intellettualmente attiva; in questo caso, la sapienza e la pru- denza consistono
nella contemplazione di ciò che la mente possiede; la giustizia è il compimento
della propria funzione, in quanto segue l'intelletto e opera conforme ad esso,
la temperanza è una conversione interiore, verso l'intelligenza; la fortezza è
impassibilità che si adegua a ciò che contempla e che ha natura
impassibile"); virtu esemplari o paradigmatiche ("sono le virtu che
esistono nella mente e sono supe- riori alle virtu dell'anima, delle quali sono
gli esemplari, cosi come di questi le virtu dell'anima sono somiglianze...: qui
la scienza è pru- denza, la sapienza è intelletto che conosce, la temperanza è
conver- sione verso la propria interiorità, la giustizia è compimento del pro-
prio dovere e la fortezza consiste nell'identità con se stesso, nel rima- nere
sempre in interiore purezza mediante le proprie forze"). Scopo delle virtu
civili è di imporre una misura alle passioni per agire conforme alle leggi di
natura; delle catartiche è di svincolarsi completamente dalle passioni; delle
altre è di agire secondo l'intelletto senza avere neppure il pensiero di
separarsi dalle passioni; delle ultime infine non è piu quello di rivolgere il
proprio atto verso l'intelletto, ma di toccare la mèta cun la propria essenza.
Perciò chi agisce conforme alle virtu civili è uomo onesto; chi conforme alle
virtu catartiche è uomo demonico o dèmone buono; chi conforme alle sole
intellettuali è dio; chi conforme alle paradigmatiche è dio padre. Per questo
dobbiamo occuparèi soprattutto delle catartiche cer- cando di possederle in
questa vita e salire poi, attraverso queste, alle piu pregevoli... Anzitutto,
base e fondamento della purificazione è conoscere se stessi... (Slanci, 32).
Duplice è la morte: l'una, la piu nota, si ha quando l'anima si scioglie
da~AArpo: non sempre l'una segue l'altra...; e l'anima si lega al corpo quando
si volge alle passioni che derivano da esso; da esso si libera allorché non è
piu toccata da quelle (Slanci, 9 e 7). Probabilmente composti al tempo in cui
Porfirio frequentò Plotino in Roma, certamente frutto dell'attività scolastica,
entro l'àmbito della discussione e del metodo plotiniani, sono i commenti di
Porfirio ad 242 .alcuni testi di opere di Platone (Crati/o, Sofista,
Parmenide, Timeo, Filebo, Convito, Pedone, Repubblica), ad uno scritto di Eubulo
(Ricer- èhe platoniche), ad uno scritto di Teofrasto (Sulla affermazione e la
negazione) d ad alcuni libri di Aristotele (Categorie, ivi compresa
l'Introduzione o lsagoge alle Categorie; De interpretatione, ivi com- presa
l'Isagoge ai Sillogismi categorici; Fisica; libro XII della Meta- fisica;
Etica; alcuni passi dell'Anima relativi all'entelechia). Se non poco indicativi
sono i dialoghi platonici presi in discussione, altrettanto indicativa della
funzione assunta dalla filosofia di Aristotele nell'àm- bito del platonismo di
Plotino e di Porfirio, è la scelta dei libri di Aristotele. La Fisica e il XII
libro della Metafisica (il libro su Dio: cfr. sopra, I vol.) potevano benissimo
servire da introduzione a inten- dere lo strutturarsi della realtà dall'Uno
platonico, l'Etica da introdu- zione a intendere le virtu civili, catartiche e
intellettive, mentre le Categorie e il De interpretatione, se assunti nel loro
aspetto formale- grammaticale - e qui Porfirio, riprendendo le fila della lunga
discus- sione e del conflitto sulle categorie aristoteliche nel campo del
plato- nismo nel n secolo, polemizza con Plotino che, interpretando le cate-
gorie contenutisticamente, le negava, sostenendo di contro la validità dei
cinque generi del Sofista platonico- servivano come introduzione al "saper
pensare," come condizioni che permettono il ragionamento entro l'àmbito
dell'Intelletto-intelligibile, donde poi, platonicamente, dedurre le strutture
logiche che rendono pensabile la realtà (non a caso Porfirio, riprendendo l'uso
logit:o, non ontologico, dei predicabili o categorumeni di Aristotele - genere,
specie, differenza, proprio, acci- dente, - interpretati come possibili
predicati della sostanza, insiste sul valore verbale - vox - di queste cinque
voci, pénte phonai, soste- nendo che esse riguardano il discorso, non le cose,
ché il genere, la specie e cosi via sono appunto categorumeni e non cose: cfr.
lsagoge, I). Di qui il celebre passo dell'lsagoge (Prefazione), in cui si dice:
"lo non dirò circa i generi e le specie se esistano in sé, ovvero se siano
semplici pensieri; se siano corporei o incorporei, se separati dai sensibili o
posti in essi." I generi e le specie servono come condizioni verbali che
per- meaono il discorso ed entro esso la deduzione, l'analisi, per cui, pren-
dendo come punto di partenza l'essere (nulla è definibile senza· il verbo
essere, e perciò a fondamento di ogni definizione si pone il genere sommo,
generalissimo che è la "sostanza"), si può da esso dico- tomicamente
discendere (fu su questo testo porfiriano, in lsagoge, 4, 20, che venne
ordinato lo schema di definizione per dicotomie suc- cessive, andato sotto il
nome di albero di Porfirio. Sostanza: corporea- incorporea; sostanza corporea:
corpo animato-corpo inanimato; corpo animato: sensibile-insensibile; corpo
animato sensibile; ragionevole-irragionevole; animale ragionevole:
mortale-immortale;,animale ragione- vole mortale: Tizio, Caio, Sempronio e cosi
via). ' Lo sforzo di Porfirio, il suo intento, e la sua risposta, attraverso
Plotino, alla piu viva problematica del stili tempo - Porfirio fu sensi-
bilissimo alle piu varie influenze e correnti, cercando sempre di render- sene
conto - fu quello di dare un ordinamento ad ogni aspetto del sap~re: da quello
pratico-civile, risolventesi nelle religioni, nei culti, nei riti, nelle
pratiche magico-teurgiche (se bene intese), nelle leggi scritte, a quello
logico-filosofico (certi aspetti dell'aristotelismo) e morale (Platone, certo
stoicismo), facendo centro sul motivo piu schiettamente plotiniano dell'anima-consapevolezza,
e sul ritorno dell'anima all'Uno, da cui tutto ha luogo, prospettando una
filosofia universale, in una universale pacificazione. Si capisce cosi da un
lato la sua simpatia umana per la figura del Cristo (almeno prima del suo incontro
con Plotino, al tempo in cui conobbe e frequentò Origene a Cesarea: cfr. Bidez,
cit., p. 13), dall'altro lato la sua polemica contro i Cristiani (Contro i
Cristiani, in 15 libri, composta, sembra, dopo il 270, al tempo dell'imperatore
Aureliano), sia teoretica (sul piano di Celso, ove particolarmente si discute
l'assurdo di un Dio persona e volontà, creatore, che può fare tutto quello che
vuole, l'assurdo dell'uomo per sé centro e valore nella sua individualità,
l'assurdo della resurrezione.dei corpi), sia filologica (sostiene
l'inautenticità dei libri di Daniele, le contraddizioni storiche tra i
Vangelt), sia morale (contro l'intol- leranza, l'unilateralità del
Cristianesimo e il suo fanatismo, contro la sua negazione della cultura e della
filosofia: il Cristianesimo, come le altre religioni, gli altri riti, le altre
pratiche magiche e teurgiche, fun- zionerebbe per la massa, per i poveri di
spirito, come momento del- l'ascesa dell'anima alla filosofia e all'Uno), sia
politica (il Cristianesimo spezza l'unità culturale e religiosa, la possibilità
di raccogliere, in vista dell'Uno tutto, le varie religioni e culture'di
provenienze diverse, orientali e occidentali, che potrebbero costituire l'unità
pacifica del- l'Impero, in funzione di quella filosofia universale di cui si
parlava). Nell'intricata storia della cultura e della formazione di idee e di
ideologie di questo tempo non si può non tenere nel debito conto l'altrettanto
intricata e complessa storia politica dell'Impero nel I I I se- colo. Il tentativo
di Porfirio, sulla fine del III secolo di articolare in unità, in funzione di
un'unica filosofia, religioni, culti, concezioni diverse, in nome di un'unità
trascendente all'interno, che fosse ad un tempo di base all'unità religiosa e
all'unità politica, è un tentativo non poco indicativo. In realtà egli
rispondeva a quella stessa esigenza di salvazione dell'Impero che muove un
imperatore, come Aureliano, a proclamarsi dio assoluto, riprendendo i motivi
dell'elioteismo. La crisi dell'Impero non fu soltanto militare-politica ed
economica, ma anche, ad un tempo, e per le stesse ragioni,
ideologico-culturale. Dopo Marco Aurelio, particolarmente (sia sotto la
dinastia dei Severi: Settimio Severo, Caracalla, Macrino, Eliogabalo, Severo
Alessandro, ucciso nel 235 vittima di una congiura militare capeggiata da
Massimino che divenne imperatore per due anni; sia nel periodo della cosiddetta
anarchia militare: Gordiano, Filippo l'Arabo, Decio, Valeriano, Gal- lieno,
ucciso nel 268; sia sotto i cosiddetti imperatori illirici, tesi alla
restaurazione dell'unità dell'Impero: Claudio Il, Aureliano, Claudio:racito,
Aurelio Caro, Carino e Numeziano; sia durante il periodo che va da Diocleziano
a Costantino), si vede bene che il conflitto non fu ta.nto tra Roma e i
barbari· (che premevano sia al nord sia in oriente) quanto di Roma con se
stessa, sia a causa della trasformazione della città-Stato di. Roma in un
complesso di popoli diversi, sia a causa di un non ancora precisatosi concetto
di Stato (donde il persistente conflitto tra imperatore e senato), sia a causa
della stessa civilizzazione e romanizzazione dei barbari. Il conflitto fu in
effetto un con- flitto tra il vecchio mondo, la vecchia concezione e una realtà
di fatto, nuova, dovuta a quello stesso mondo che aveva costituito l'Impero, e
che nell'incontro di civiltà diverse, di religioni e culture diverse, ten- deva
ora (la provincializzazione dell'Impero - ricordiamo la Consti- tutio
Antoniniana, di Caracalla -, con la conseguente esau· torazione dell'Italia e
del Senato, è un indice) a trasformarsi, sia pure a prezzo di un
imbarbarimento, com'è stato detto, accogliendo in sé, appunto, e in sé
risolvendo gli aspetti piu vari, in una "nuova Roma." Di qui il
conflitto tra momenti in cui si è voluto restaurare la "roma- nità"
(sempre allorché vi sia stato un accordo tra imperatore, anche se l'imperatore
non era italico, e Senato, o l'imperatore sia stato senato- dale o
dell'aristocrazia romana)t e momenti in cui (allorché gli impe- ratori,
soprattutto gli imperatori scaturiti dall'esercito, o "barbari,"
abbiano teso ad eliminare il Senato dal giuoco politico-militare) si è voluto
determinare la possibilità di un impero universale. Per tale impero universale,
dal punto di vista legale, valeva pur sempre la concezione stoico-ciceroniana
del diritto natura~e (cfr. sopra), come si vede nei grandi giutisperi~i del III
secolo, entrati in conflitto con il potere assoluto e personale del sovrano: il
siriano Papiniano, Ulpiano di Tiro, Giulio Paolo, Erennio Modestino. E di tale
Impero, l'impe- ratore doveva essere l'espressione che ne garantisse l'unità,
accogliendo in sé tutti i possibili aspetti e le possibili esigenze. Si
capisce, in tal senso, che se piu dure furono le persecuzioni contro i
Cristiani (Decio; Valeriano), allorché ebbe il sopravvento la politica 245
di alleanza tréll imperatore e Senato, merio dure, talvolta
inesistenti furono le persecuzioni contro i Cristiani, allorché prevalse la
politica, per cosi dire, interbarbarica (si pensi, ad esempio, alla politica di
un Filippo l'Arabo e di un Gallieno), almeno fin quando si credette di poter
riassorbire il Cristianesimo entro i termini della funzione data alle altre
religioni (teosofiche, magico-teurgiche, solari); altrimenti i Cristiani furono
perseguitati, non tanto per le loro dottrine, per la loro fede, una tra le
tante, fosse essa la tesi neoplatonica, o gnostica, o manichea, o quelle
soteriologiche teurgiche e magiche, solari, prove- nienti dalla Siria, quanto
perché la loro concezione, il loro concetto del rapporto tra gli uomini e
dell'autorità dell'unica Chiesa (Stato nello Stato), la loro pervicacia
mettevano in pericolo l'unità dello Stato stesso (si ricordino le persecuzioni
avvenute sotto Aureliano, e l'ultima sotto Diocleziano, 285-305). D'altra
parte, soprattutto nelle province orientali e quando lo stesso imperatore
persegui la politica della "nuova Roma," il contrasto tra
Cristianesimo e cultura classica si svolse soprattutto sul piano teoretico, sul
piano delle scuole, in una opposizione tra "filosofie." In tali
periodi, anzi, dalla fine del n secolo al Concilio di Nicea (325), notiamo in
seno alle stesse scuole cristiane conflitti teoretici, discussioni sul rapporto
Dio-mondo, sull'unità-trinità di Dio (il problema trinitario), sulla vera
natura del Cristo (il pro- blema cristologico) in un incontro e in una
discussione con le tesi platonico-neoplatoniche e stoiche e, spesso, in una
rottura interna tra comunità e comunità cristiane e in passaggi di pensatori
dal Cristiane· simo alle soluzioni razionalistico-platoniche o
irrazionalistico-teurgiche neoplatoniche, e di platonici alla soluzione
volontaristico-personalistica del Cristianesimo. Un Origene, ad esempio,
vissuto a cavallo tra il n e il m secolo, discepolo, in Alessandria, di
Clemente, suo prosecu- tore nella scuola catechetica di Alessandria, maestro
poi in Cesarea, poteva benissimo ascoltare, ad un tempo, le lezioni di Ammonio
Sacca, discutere il platonismo, interpretare quel platonismo al lume della tesi
cristiana; mentre un Longino, filologo, rètore, platonico, poteva da Atene
recarsi, insieme al vescovo Paolo di Samosata, presso la corte della regina
Zenobia di Palmira, vedova di Odenato, che, al tempo dell'imperatore Gallieno,
aveva costituito un principato al confine orien- tale con Roma, ch'ella cercava
di organizzare entro i termini di una cultura che rispondesse alle piu vive
esigenze (e non solo il vescovo Paolo, ma anche Longino caddero vittime della
restaurazione romana in Palmira, riconquistata. da Aureliano). E non a caso
Porfirio, ricor- dando il suo giovanile incontro con Origene, poteva sostenere
che, se diversi erano i punti di partenza, le soluzioni relative alle
condizioni che permettono di pensare la realtà, e, perciò anche, le
conclusioni, in 246 realtà tutti, nelle scuole di Siria e d'Egitto
- fossero essi cnst1ani, o platonici, o gnostici - erano mossi dalle stesse
esigenze, discutevano e leggevano gli stessi testi: "Origene viveva
leggendo Platone; le opere di Numenio, Cronio, Apollofane, Longino, Moderato,
Nicomaco, e quelle dei pitagorici illustri gli erano familiari; egli si serviva
anche dei libri dello stoico Cheremone [attraverso cui lo stesso Porfirio aveva
appreso i misteri egizianiJe di Cornuto; attraverso essi egli si iniziò a
questa interpretazione allegorica dei misteri dei Greci, di cui applicò il
metodo alle Scritture degli Ebrei" (in Eusebio, Hist. ecci., VI, 19, 7).
Di qui, anche, in seno alle comunità delle varie province, un rompersi
dell'unità delle varie chiese, il contrasto con la Chiesa ufficiale, gli
scismi, che mettevano in pericolo l'universalismo, il cattolicesimo della
Chiesa, la sua pretesa d'essere l'unica religione, l'unica via alla salvezza
dell'uomo - donde da parte della Chiesa, di nuovo, il contrasto con lo Stato,
il tentativo della riorganizzazione gerarchica della Chiesa (ad esempio
Cipriano2), e dell'assorbimento da parte del Cristianesimo della cultura
classica, da risolvere appunto entro i termini della nuova
"concezione." Di fatto, intanto, particolarmente nel III secolo, la
fede cristiana si estendeva sia tra i semplici, sia tra ì signori e
gl'intellet- tuali, e all'esigenza universalistica e pacificatrice, in mezzo a
lotre, ron- trasti, al rovesciamento dei vecchi valori, poteva sembrare che
rispon- 2 Cecilia Cipriano, •oprannominato Tascio, nacque a Cartagine, nel 210
circa. Dopo aver seguito un accurato e completo corso di retorica, insegnò
retorica e fu valente e celebre avvocato. Per influenza del venerabile prete
Ceciliano, nel 245 si converti al Cristianesimo. Ancora noefita, alla morte del
vescovo Donato, fu eletto vescovo di Cartagine. Nel 25u, al principio della
persecuzione di Decio, Cipriano abbandonò Cartagine, rifugiandosi nei pressi
della città. Rientrato in Cartagine nel 251, il vescovo dovette affrontare la
questione dei lapsi, che, con molto equilibrio e tatto, riusd a risol- vere;
nel 255 un lungo dibattito sulla questione del valore del battesimo dato dagli
eretici, divise Cipriano dal Papa Stefano. Nel 257, a causa della persecuzione
di Valeriano, Cipriano venne esiliato a Curubis. Richiamato, Cipriano si
presentò alle autorità e avendo dichiarato d'essere cristiano e di rifiatarsi
di sacrificare, venne condannato a - morte per decapitazione. "Lapsi"
furono detti quei Cristiani che per sfuggire alla perse- cuzione, dinanzi alle
autorità che chiedevano loro se fossero cristiani rinnegavano la loro fede,
facendosi rilasciare un libretto di attestazione, onde furono detti anche
Jibeilatici. Pas- sata la persecuzione, molti lapsisti chiesero di essere
riammessi nella wmunità. Ne sorse una grave controversia. Novato e Felicissimo,
aderenti allo scisma di Novaziano, propu- gnavano, di contro agli
intransigenti, una assoluta tolleranza. Cipriano, in nome dell'unità della
Chiesa, lottò per una moderata intransigenza. Intransigente, invecl!, egli fu
nella questione se fosse valido o no il battesimo impartito dagli eretici.
Cipriano lo ritenne invalido e la sua tesi fu approvata da tre sinodi tenuti a
Cartagine nel 255 e nel 256.. La maggiore opera di Cipriano, composta nel 251,
contro Felicissimo e il partito dei lapsisti è il De Catholicae ecclesiae
unitate. Di Cipriano si conservano inoltre: Ad Donatum (opuscolo sul valore
della fede cristiana); De habittl virginum; Testimoniorum lrbri tres ad
Quirinum; De lapsis; De zelo et livore; De mortalitate; Ad Demetrianum;.4d
Fortu- natum de exhortatione martyrii; De opere et elemosynis_; De dominica
oratione; De bono patientiae. Importante per la storia religiosa è
l'Epistolario di Cipriano (sessantacinque let- tere scritte da Cipriano e
sedici lettere dirette a lui). 247 desse il Cristianesimo nel suo
aspetto piu semplice e fideistico, nella sua capacità di non servire solo a una
élite culturale e di filosofi, molto meglio che non l'universalismo filosofico,
stoico o neoplatonico che fosse, o certe religioni di mistero, teosofie, e via
di seguito. Di tale situazione storica, di fatto, ben si rese conto Costantino,
che, com'è noto, credette di poter risolvere quell'unità universale dell'Impero
di cui parlavamo, non piu mediante la tesi stoica (Marco Aurelio), o
neoplatonica (Porfirio), o elioteistica (Aureliano), ma attraverso la con-
cezione cristiana, facendo divenire cristiano l'Impero, ch'era in effetto la
fine dell'Impero romano e la concreta premessa dei futuri conflitti politico-giuridici
tra Stato e Chiesa. La Chiesa, per la sua stessa strut- tura, non poteva non
divenire Stato (e Costantino credette di poterne essere lui l'imperatore, il
sacerdote). Non potevano essere questi che accenni, ma necessari per rendersi
conto dell'esigenza di considerare il formarsi della cultura sia della
cosiddetta pagana, sia della cristiana, non per filoni separati, sempli-
cisticamente opposti e indipendenti, ma in un ben piu complesso qua- dro, anche
se assai fluido e difficile. È noto che Plotino, con l'aiuto dell'imperatore
Gallieno e di sua moglie Salonina - essi, dice Porfirio, lo veneravano ed erano
a lui molto affezionati - avrebbe voluto restaurare una città della Cam- pania,
andata in rovina, in cui, datole il nome di Platonopoli, avrebbe voluto
ritirarsi con i suoi compagni e discepoli, osservando le leggi platoniche (cfr.
Porfirio, Vita Plotini, XII). "Questo progetto," seguita Porfirio,
"sarebbe anche facilmente riuscito al filosofo, se taluni corti- giani,
per invidia, avversione o altro indegno motivo, non vi avessero frapposto
ostacolo." Si è molto discusso su questo breve testo porfi- riano; si è
parlato di un preciso ideale politico di Plotino, e di una sua influenza
diretta sulla politica di Gallieno. In realtà nulla docu- menta ciò, neppure il
testo di Porfirio, il quale, in fondo, parla di affetto, di stima da parte di
Gallieno e di Salonina per Plotino, si come per Plotino avevano stima e ne
riconoscevano l'alto valore intel- lettuale e l'integerrima vita molti altri
membri dell'aristocrazia e del Senato romani; non solo, ma Porfirio dice che in
Platonopoli si sarebbe vissuto secondo le leggi platoniche, cioè, nel
linguaggio porfiriano, seguendo una "vita platonica," una vita
filosofica. "La città di filosofi, nel senso platonico," scrive il
Pugliese-Carratelli, "che Plotino ha ideato, è concepita non come pratica
attuazione di uno schema poli~ tico..., ma come una synoikesis di quelli che,
veramente filosofi, si sono fatti cittadini della rt6Àtç ~v Myotç xe:t(.LtvYj.
Il progetto plotinico acqui- sta cosf un altro significato e può trovare una
piu soddisfacente solu- zione il discusso problema dell'atteggiamento di
Plotino verso la polica. In dissenso dal Rudberg (Neuplatonismus und Politik,
"Symbolae \rctoe,"), l'Alfoldi (Vorherrschaft der Pannonier, in
Funfundzwanzig fahre rom.-german. Kommission, Berlino, pp. 23 sgg.) ha
recisamente affermato che nelle Enneadi ricorrono pro- posizioni circa la vita
politica che sono in insanabile contrasto tra loro. Queste pretese
contraddizioni si dissolvono, invece, quando si avverta, come si deve, che lo
spirito di Plotino è orientato in senso perfetta- mente platonico e distingue
quindi nettamente quanto attiene al sof6s e quanto agli altri uomini, lontani e
non profondamente animati da quella 'v~::ra filosofia' che sola, come insegna
Platone, conduce alla 6e:wp(oc (teoria)" (Pugliese-Carratelli, La crisi
dell'Impero nell'età di Galliena, "Parola del Passato," 1947, p. 67).
Egli [lo a1tou8oc"Loç] sa bene che duplice è la vita di quaggiu: l'una per
i saggi, l'altra per il volgo; protesa, nei saggi, ad altezze di vette supreme,
mentre negli uomini abituali è suscettibile, ancora, alla sua volta, di distin-
zione: l'una fi?.emore della virtu, partecipa a un qualche bene; ma la turba
degli sciocchi esiste solo, per cosi -dire, come -artigiana manuale di ciò che
serve al bisogno dei superiori (È7tte:txéa-re:pm) (Enn. II, 9, 9, 77).
Platonopoli, in realtà, resta un ideale, un rifugio, una città di saggi in
conversazione, volti, per dirla con Porfirio, alle virtu intellettuali
attraverso quelle "catartiche." Per le virtu civili e politiche resta
que- st'altro mondo, il mondo, appunto, dello Stato, dell'Impero, che potrà
salvarsi solo se sarà capace di divenire base, fondamento a quella supe- riore
unità, alla città dei filosofi. Sotto quest'aspetto sembra esatta, rela-
tivamente a Plotino e a Porfirio, l'affermazione di un tardo platonico,
Olimpiodoro, indicante le due vie as~unte dal platonismo: "Alcuni hanno
innanzi tutto onorato h filosofia, come Porfirio e Plotino...; altri, invece,
l'arte ieratica [teurgia], come Giamblico, Siriano, Proclo e tutti gli
ieratici" (Olimpiodoro, In Phaed., 123, 3 Norvin). Se Porfirio, nel suo
plotinismo, si è particolarmente preoccupato dell'aspetto etico e purificatorio,
con accenti, anche se in chiave plo- tiniana, schiettamente stoici, l'altro
noto discepolo di Plotino, Amelio Gentiliano,3 sembra maggiormente volto ad
approfondire l'aspetto teo- 3 Amelio, o Amerio Gentiliano ("il suo nome
era propriamente Gentiliano, ma egli preferiva chiamarsi Amerio con la r
sostenendo che gli conveniva trarre il nome da amèria [indivisibilità], anziché
da amèlia [negligenza)": Porfirio, Vita Plot., 7), originario
dell'Etruria, discepolo prima di un certo Lisimaco stoico, conosciuto poi
Plotino, nel 246 circa, rimase con lui in stretti rapporti di discepolo e di
collaboratore nella scuola, fino al 270 (poco prima della morte di Platino),
quando si recò ad Apamea, in Siria, dove, probabilmente rimase a lungo, se fu
detto poi Amelio di Apamea. "Amelio si 249 retico del
maestro. Amelio, ongmario dell'Etruria, dopo essere stato discepolo di un certo
Lisimaco (uno stoico), conosciuto Plotino, nel 246, rimase con lui in stretti
rapporti di discepolo e di collaboratore nella scuola, fino al 270, quando si
recò ad Apamea, in Siria, dove, probabil- mente, rimase a lungo, se fu detto
poi Amelio di Apamea. Forse ad uso della scuola, egli, giorno per giorno, prese
appunti delle lezioni di Plotino, commentandole e chiarendone il significato:
raccolse cosi un complesso di sco/ii, divisi in cento libri (purtroppo perduti:
sarebbero stati preziosissimi, insieme alla perduta edizione degli scritti di
Plotino curata da Eustochio, per confrontarli con l'edizione degli scritti di
Plotino a cura di Porfirio: avremmo meglio compreso il rapporto Uno-molti in
Plotino). In un'opera dedicata a Porfirio, Amelio difese Plotino accusato di
avere plagiato Numenio, chiarendo le differenze che, relativamente ai tre dèi,
correvano tra i due, mentre, in due riprese, cercò di mostrare a Porfirio che
secondo Plotino le Idee non esistono al di fuori dell'Intelletto. Certo,
l'attenzione di Amelio, sotto l'influenza di Numenio, di cui egli ricopiò e
ordinò i vari scritti, che conosceva a memoria, si volse, come chiaramente appare
anche da Porfirio (Vita Plot., 3, 17, 18), a interpretare e a chiarire il
rapporto Intelletto-intelligi- bili, il problema dell'Essere come unità vivente
nella dialettica Intelletto- Idee. Egli cosi, secondo Proclo (In Tim., 93d),
avrebbe, entro l'àmbito della seconda ipostasi (Intelletto), distinto, sotto
l'influenza di Nume- nio, tre ipostasi: l'Essere che è (-tòv èlv-tot, tòn
6nta), che per essere dà essere a sé fuori di sé, le idee (-tòv ~xov-tot, tòn
èchonta), che assumono essere, in quanto, contemplando l'essere, la propria
fonte, si ricongiun- gono ad esso (-tòv.opwv-tot, tòn horònta), costituendo
cosi il primo esserci dell'Uno, ipostasi del tutto, in una dialettica triadica.
Di qui, rifacendosi a Numenio, Amelio chiariva il significato dato all'uno che
è in quanto è due, o meglio che non è né uno né due, ma è tre, cir- colarmente,
in una triadicità, che, poi, internamente all'uno, si molti- avvicinò a Platino
durante il terzo anno della sua dimora romana, allorché Filippo era al suo
terzo anno di regno, e vi si trattenne fino al primo anno del regno di Claudio:
e furono cosl, in tutto, ventiquattro anni. Al suo primo giungere, serbava
ancora l'atteg- giame&to mentale di Lisimaco; però superava tutti i suoi
contemporanei per la laboriosità di cui dette prova, sia esponendo per iscritto
quasi tutte le dottrine di Numenio, sia sunteggiandole, sia mandandone quasi a
memoria la maggior parte. Compose, inoltre, gli Sco/ii dalle lezioni, e li
coordinò in·cento libri circa, dedicati poi al suo figlio adot· tivo Ostiliano
Esichio di Apamea" (Porfirio, Vita Plot., 3). Oltre i Gemo libri di Sco/ii
alle lezioni di Platino (perduti), Amelio curò l'edizione degli Scritti di
Numenio, scrisse un'opera Sulla differenza delle dottrine di Plotino eldi
Numenio (per difendere Platino dall'accusa di avere plagiato Numenio: cfr.
Porfirio, Vita Plot., 17: l'opera è perduta), un libro Contro le aporie di
Porfirio (cfr. Vita Plot., 18), e quaranta libri Contro il libro di Zostriano.
Perdute tutte le opere di Amelio, di lui non abbiamo che qualche frammento e
testimonianza (cfr. Eusebio, Praep. ev., XI, 19; Proclo, In Timaeum, 205c, 93d,
226b, 249a; Stobeo, I, 49, 32 sgg.).] plica all'infinito, per ogni aspetto
della realtà. Di triade in triade, per- ciò, in una deduzione numerica, si
venivano ricostruendo tutte le strut-.ture della realtà in una moltiplicazione
di ipostasi, intermediarie tra l'Uno e l'estremo limite della materia,
simbolicamente dette divinità, e a cui, via via, si potevan6 in una
interpretazione allegorica far corri- spondere le deità del pàntheon greco-romano
e asiatico. Phanès, Oura- nòs e Cr6nos, riferiti all'Orfismo, vengono, ad
esempio, interpretati come l'Uno, l'Intellett-O e l'Anima plotiniani, scoprendo
cosi una teo- logia orfica, un senso riposto negli orfici, nei pitagorici, in
Platone. E cosi, posta l'Anima del mondo come divinità, altrettanti dèi sono le
anime che pullulano al di dentro dell'Anima universale, corrispondenti e
tispecchianti·quegli dèi che sono nell'Intelletto, nel Cielo (gli astri). E se
il tutto è, perciò, un essere vivente, articolantesi simpateticamente, e il
tutto si ricostituisce di triade in triade, numericamente, tutto è retto dai
numeri, si come ogni cosa è una divinità, anche i corpi, cri- stallizzazioni
delle anime, momenti dell'Anima universale, momento dell'lntelletto, o L6gos,
dio nell'unico Dio. Certamente l'autore di tutte le cose che esistono è stato
il L6gos, che è eterno, come avrebbe detto Eraclito, il L6gos, che secondo il
barbaro [Gio- vanni Evangelista] occupa presso Dio il posto e la dignità di
principio, Dio esso stesso, per il quale tutte le cose sono state fatte e nel
quale è stato creato ogni essere vivente:e la Vita stessa. Esso può anche
unirsi a un corpo, rivestirsi di carne, prendere le sembianze umane, senza
svelare tuttavia la grandezza della sua natura. E quando questa unione è
disciolta, esso riac- quista tutti i caratteri della dignità e ridiventa Dio
com'era prima di unirsi al corpo, alla carne, alla natura umana (Amelio, in
Eusebio, Praep. evang., Xl, 19). Amelio, dal 270, si stabili ad Apamea, la
patria di Numenio, in un ambiente, forse, piu consono alla ricostruzione e
interpretazione ch'egli aveva dato di Plotino. Quando Amelio giunse ad Apamea,
Giamblico,4 siriaco, nato a Calcide, aveva diciannove anni circa. Non sappiamo
se, in Apamea, 4 Nato nel 251 circa, a Calcide, in Celesiria, Giamblico fu a
Roma, alla Scuola di Porfirio (a Giamblico Porfirio dedicò il suo Intorno al
"conosci te stesso," e per lui compose il !Utorno dell'anima).
Giamblico, forse, conobbe, ad Apamea, Amelio, di cui, certo, subii l'influenza.
Tornato in Siria, Giamblico, per lunghi anni, fino alla morte, avvenuta nel
325-326, insegnò ad Apamea, dove ebbe molti discepoli e seguaci. Seguitarono
l'insegnamento di Giamblico, in Siria: Sopatro di Apamea di cui sappiamo che,
divulgatore di Giamblico, scrisse un'opera Sulla provvidenza e m coloro che
hanno fortuna o sfortuna oltre il merito, e che fu fatto condannare a morte da
Costantino (nel 336 circa) e Dexippo (di lui resta un prezioso Commento alle
Categorie di Aristotele): 251 Giamblico abbia incontrato Amelio,
al quale, per altro, piu che a Porfirio (di cui sappiamo che Giamblico fu per
·.un qualche tempo discepolo in Roma - a Giamblico Porfirio dedicò il suo
Intorno al "conosci te steuo," e per Giamblico compose il De regreuu
animae) sembra che Giamblico si avvicini, particolarmente per la sua molti-
plicazione degli intermediari tra l'Uno, l'Anima e la materia. Sap- piamo che
Giamblico, tornato in Siria, per lunghi anni, fino alla morte (325-26) insegnò
ad Apamea, ove ebbe non pochi seguaci, si che si è poi parlato di una scuola
neoplatonica siriaca, di cui Giam- blico sarebbe stato il fondatore. Per
Giamblico, come per Amelio, la realtà tutta, interiormente all'Uno, si costituisce,
dall'Vno, di triade in triade: unità, dualità e un terzo termine medio che
dialettizza l'uno e l'altro in una dinamica unità. Come da un punto centrale,-
veniamo cosi ad avere una serie infinita di circoli concentrici, tutti
nell'unico circolo che li raccoglie in una sola unità, in un solo centro,
l'Uno, per ciò stesso ineffabile, che è e vive nel suo scandirsi nelle triadi.
L'Uno, dunque, assoluto, oltre l'essere, oltre il bene, oltre tutto, si
costituisce ed è in quanto Intelletto, termine medio tra l'Uno e la pluralità,
emergente dall'In- telletto stesso, a sua volta uno in quanto unità delle idee
in atto, mol- teplicità di idee (potenze, intelligenze), che in realtà,
comprese, sono a Pergamo: Edcsio, discepolo di Giamblico, seguito poi da
Eusebio di Mindo (alcune sue sentenze sono conservate da Stobco), Massimo di
Efeso (morto nel 372: autore, secondo Simplicio, In Catcg., I, 15, di un
Commefllo alle Categorie di Aristotele, amico di Giuliano Imperatore),
Crisanzio, Prisco (poco piu che nomi), Eunapio (la maggior fonte per l'a
biografia dci ncoplatonici: di lui si conserva la preziosa Vita dci sofisti, in
cui tratta della vita di 23 pensatori, c una Cronaca che va dal 270 ai primi
anni del V secolo). Scolarca della scuola neoplatonica di Cappadocia fu
Eustazio, discepolo di Giamblico. Altro noto discepolo di Giamblico, che, in
Roma, aveva ascoltato anche Porfirio c che ebbe, poi, notevole influenza sulla
formazione delle scuole ncoplatoniche di Alessandria e di Atene nel V-VI
secolo, fu Teodoro di Asine, detto, da Proclo (In Tim., 341d), il
"grande." Teodoro, su testimoniaaza di Proclo (In Tim., e in Rcmp.) e
di Olimpiodoro (In Phaed.), avrebbe commentato testi platonici (Timco, Repub-
blica, Pedone), e aristotelici (gli Analitict). Di Giamblico si sono conservate
le seguenti opere: Vita pitagorica (è il I libro di un'opera intitolata Sillogc
delle dottrine pitagorichc); Protrcttko alla filosofia (è il II libro della
Sillogc: nel capitolo 20 del Protrcttico Giamblico riporta un lungo passo di un
autore ignoto, forse un sofista scettico del v-IV sec. a.C.; il passo è andato
sotto il nome L'anonimo di Giamblico); La comune scienza matematica (attribuito
a Giam- blico, avrebbe costituito il III libro della Sillogc); Introduzione
all'aritmetica di Nicomaco (attribuito a Giamblioo, avrebbe costituito il IV
libro della Sillogc); Thcologumcna arith- mctièac (attribuito a Giamblico,
avrebbe costituito il VII libro della Sillogc) (perduti sono i libri V, VI,
VIII-X della Sillogc); Dc mystcriis Acgyptiorum (si discute se sia di Giam-
blico o opera della sua scuola). Giamblico avrebbe inoltre scritto (di queste
opere sono giunti solo frammenti e notizie): Commento agli Oracoli Caldaici
(framm.); Dc diis (fonte dell'Inno al Sole di Giuliano e degli Dèi di
Sallustio: cfr. Macrobio, Saturn., I, 17-23); Dc anima (framm. in Stobeo); Dc
imaginibus (Fozio, Bibl., 215); Dc dcsccnsu animac (framm.); Commento
aii'Aicibiadc I di Platone. 252 molteplici nell'unità dell'Uno
intelletto (l'Intelletto è perciò: Padre, Potenza, Intelletto). I tre
fondamenti (ipostast) dell'intelligibile sono, dunque, lo stesso Intelletto
nella sua unità (mondo delle idee: x6a!J.OI; V01J-r6~;, k6smos noetòs), le
intelligenze o potenze (x6a!J.OI; V01Jp6ç, k6smos noeròs), idee
rappresentazioni dell'intelletto, e l'Intelletto in quanto intellezione
dell'unità-molteplicità dell'Intelletto. Il terzo ter- mine delhi triade
intelligibile, l'Intelletto, in quanto consapevolezza della Unità vivente
intelletto-intelligenze, racchiude in sé la vitalità intellettuale, l'Anima del
tutto, a sua volta una-molte-una. Veniamo cosi ad avere un mondo intelligibile
(x6a!J.OI; V01J-r6~;) ed entro questo, da esso distinto, un mondo intellettuale
(x6a!J.OI; V01Jp6ç), che ritrova la sua unità vivente nell'Anima dell'universo,
che nella sua unità-molte- plicità-unità si distingue in infinite anime (dèi),
costituenti i modelli, le forze, le leggi del cosmo sensibile, uno e
molteplice, fino alla natura una e molteplice. Giamblico determina cosi, entro
l'Unità tutta, due mondi: il mondo. ideale, posto come condizione, in sé tutto
in atto nel suo scandirsi, e relativamente ai limiti, alle definizioni, posto
come termine ultimo; e il mondo della natura, procedente dall'altro e a sua
somiglianza. Tra l'uno e l'altro mondo - in effetto un sol mondo - si pongono,
termini medi, la triade dell'Intelletto e da essa una seconda triade, dal cui
terzo termine emerge il mondo degli dèi intelligenze, da cui si costituisce una
terza triade, da cui di seguito, scaturiscono, sempre dal terzo termine (unità-sintesi)
di ciascuna, tre nuove triadi e da ultimo un'ebdomade (sette termini che
raccolgono in sé gli dèi modelli dei sette pianeti) e cosi via; invisibili gli
dèi del mondo ideale, essi divengono visibili nel mondo del sensibile e della
natura, rispec- chiandosi, in immagine, negli astri luminosi, e di qui negli
altri inter- mediari (angeli o messaggeri, dèmoni, eroi), fino alle anime degli
uomini. Potremmo seguitare e vedere come Giamblico moltiplichi, sul piano del
mondo visibile, gli dèi celesti (ad esempio i dodici dèi zodia- cali, che,
costituitisi triadicamente, dànno luogo a •trentasei dèi, a loro volta
moltiplicati per dieci, realizzantisi in trecentosessanta dèi), gli dèi interni
al eielo, gli dèi delle nazioni e ·delle città, fino a divinità sempre piu
limitate, affermazioni di' sé, che rompono l'unità sinfonica e concatenata
(fatale) del tutto (sono questi i dèmoni malvagi, i cattivi geni, le anime
disperse, decadute, che piu non somigliano al divino astro da cui pur
discendono). Porfirianamente nella complessa costruzione di Giamblico venivano
a trovar posto tutte le divinità di tutte le religioni, in un incontro che si
risolve in una sola teologia, ed ove in realtà, gli dèi e i loro nomi hanno un
valore simbolico, evocante i momenti, le leggi, gli ordini, le potenze in cui
si scandisce il tutto. Plotinianamente perciò, il male (donde i dèmoni malvagi)
è mancanza d'essere, definizione e limita- zione dell'aniii1a, che, con questo,
per cosi di-re, si sgancia dall'ordine, rompendo la catena, per cui quell'anima
è come presa dal dèmone malvagio, c sempre piu si allontana dal proprio buon
dèmone, dalla propria stella, non somigliando piu alla propria potenza. In
altre parole, nella visione di un tutto, di un universo vivente, ove ogni
termine richiama l'altro, l'uno risponde all'altro, l'uno scaturisce dal-
l'altro e concresce sull'altro, in infiniti aspetti esistenti tutti nell'Unità
compiuta dell'Uno, l'esistenza del male, il dèmone è, appunto, il rima- nere
nel limite, il non morire a questa vita per rivivere nella piu vera vita che è
la vita del tutto, perdendosi in essa. Sotto questo aspetto sembra chiaro in
che senso, entro i termini dell'ordine tutto, della eterna armonia, Giamblico,
rifacendosi a Nicomaco e a una certa tra- dizione pitagorica, possa sostenere
che tutto ha il suo numero, che ciò senza di cui le cose non sono (ossia le
leggi) sono numeri (e perciò le essenze, incorporee invisibili indivisibili
incorruttibili, sono numeri). Di qui, in una interpretazione del Timeo
platonico e delle pagine della Fisica aristotelica ove si discute dei luoghi e
del tempo, si delinea la dottrina giamblichea del luogo divino (l'Uno che in sé
raccoglie il tutto) e dei luoghi intesi come i limiti interni all'Uno, ove
nell'ordine del tutto ciascuna cosa deve collocarsi, si che ciascuna cosa va al
posto che le compete, attua la propria unità nell'Unità del tutto aspazide. E
cosi, atemporale l'Universo tutto, atemporale l'Uno, il tempo con- siste nello
scandirsi nell'Uno di tutti i suoi momenti, onde il tempo è, appunto, la misura
del tutto (Anima del mondo), per cui, se ogni cosa, presa a sé, distinta, è nel
tempo, ha il suo tempo, si come ha il suo luogo e il suo. numero, tutte le
cose, colte nell'unità del tutto (il tempo dell'Universo, che sta al luogo
divino) sono la temporalità, specchio e misura dell'atemporale Uno. E allora,
come in un infinito unico specchio, ciascun punto dello specchio rispecchia da
punti prospettici diversi se stesso, e ciascun punto prospettico, preso a sé,
deforma la visione complessiva di tutto lo specchio, cosi le singole anime, le
singole cose, se prese a sé, sono come visioni deformi di se stesse,
specchianti il proprio specchio, nel- l'unità dello specchio. In un tutto
articolato, e rispecchiante se stesso all'infinito, ogni aspetto richiama,
seduce l'altro, anche se ogni aspetto non è l'altro, anche se i punti
prospettici piu lontani rispecchiano depo- tenziatamente, in quanto v'è come
una dispersione delle potenze, per cosi dire, invece, contratte al centro.
Simbolicamente, dunque, tutto è costituito,. nell'Uno infinito, di dèi, che
sono i momenti, le leggi, i numeri, le potenze del ritmo mediante cui
necessariamente l'Uno esiste, mediante cui l'Uno in sé discorre,
rispecchiandosi in ciascun numero, in ciascun dio, dagli dèi intelligenze agli
dèi astri, alle anime specchi di quegli astri e cosi via, in un depotenziamento
che è tale prospetti- camente, ma che nell'Uno-tutto è concentrazione di
assoluta potenza. Filosoficamente, allora, si può, traducendo il tutto in termini
matema- tici e geometrici, ricostruire da un lato mediante linee e figure, dal-
l'altro lato mediante proporzioni i necessari rapporti, la fatale catena che il
tutto lega necessariamente. Sotto questo aspetto, magia e astrologia, se
condotte su di un piano matematico-geometrico, sia pure nella difficoltà dei
calcoli e nei possibili errori, sono scienze esatte. Solo che al calcolo, alla
ricostruzione delle proporzioni, sfuggirà sempre da un lato l'unità vivente, la
sintesi costituente l'unità dialettica di ogni triade, dall'altro lato sfuggirà
la molteplicità della vita, la dispersione delle potenze nel fluire della
materia, il segno divino, sia pur depotenziato, che si specchia in questa o
quella cosa dispersa. Se, relativamente all'Uno, i limiti, le determinazioni
sono via ·via, entro l'Uno, un allontaiJ-amento e una separazione delle
potenze, in un conseguente rispecchiarsi e riflettere sempre piu opaco, sino
alla fluidità della materia, il ritorno all'Uno delle anime sarà possibile
ricomponendo quella dispersione, rifacendola una nell'Anima. Da un lato,
dunque, il ritorno all'unità lo si può avere in una ricomposizione della
molteplicità nell'unità, rintracciando l'unità-molteplicità per via
geometrico-numerica, in una sistemazione che, tuttavia, pur cogliendo le
proporzioni e i legami che articolano il tutto nell'Uno, rimane sem- pre un
sistema, diciamo cosi, esterno, disegnato; dall'altro lato, invece, il ritorno
all'unità, cogliendone la vita, cioè l'unità vivente non piu solo esteriormente
ma interiormente, si ottiene per altra via, che non è quella logico-matematica,
che, se coglie il sistema esteriormente, non ne afferra la vita né salva
l'anima una nell'unità divina. Per questa seconda via, cui pur si giunge
attraverso la prima, l'anima rifà proprie le potenze disperse e rintraccia i
segni opachi, operando sulle cose, riconducendole a sé, e con ciò riconducendo
sé sotto il segno di una potenza superiore; immedesimandosi in essa, l'anima
torna all'Uno e in esso e con esso diviene libera per la stessa necessità
dell'Uno onni- potente. Sotto questo aspetto sembra chiaro in che senso
Giamblico ponga la ricerca su due piani integrantisi: il piano della ricerca
geometrico- aritmetica che coglie la struttura estrinseca e intellettuale della
realtà, e che ha una sua funzione protrettica e necessaria per avviare ad
oltre- passare il sistema, a rifare propria la vita e il senso della realtà; in
ogni cosa rintracciando il suo segno, in una concentrazione di potenze
evocanti, per imitazione, la relativa superiore potenza. Ed è questo il piano
della magia e della teurgia, della "filosofia," intesa appunto come
scienza che coglie il mistero della vita, e come dominio, nella comprensione
del tutto vivente, di tutte le cose. In tale senso Giam~ blico rovescia il
rapporto magia-teurgia-riti'e filosofia di Porfirio; il rapporto viene ad
essere l'opposto: l'aritmetica, la geometria, la filo- sofia come rintraccio
del discorso della realtà (logica) sono il presup- posto della piu vera
"filosofia" che è la teurgia e la magia astrologica. "Non è il
pensiero," si legge nel De mysteriis, andato sotto il nome di Abbamone, ma
attribuito da Proclo e da Damascio a Giamblico, "non è il pensiero che
congiunge i teurgi agli dèi; perché allora che cosa impedirebbe ai filosofi
contemplativi il godimento dell'unione teurgica con gli dèi? Le cose non stanno
cosf: l'unione teurgica si raggiunge soltanto grazie all'efficacia degli atti
ineffabili, compiuti nel modo adatto, atti che superano ogni comprensiQne e
grazie alla potenza dei simboli indicibili, compresi unicamente dagli dèi...
Senza nessuno sforzo intellettuale, da parte nostra, i simboli
(auv&/j!J.OtT«, synthèmata), per virtu loro compiono l'opera che è loro
propria" (De myst., 96, 13 Parthey). Che, d'altra parte, la teurgia di
Giamblico non consista nella volgare credenza nelle oscure capacità del mago di
costringere gli dèi e le forze occulte al proprio volere, ma rientri
nell'àmbito della magia plotiniana, per cui è l'anima che ritornando in se
stessa domina sé fuori di sé, in sé e nelle cose concentrando le potenze
disperse, per cui rintraccia la superiore potenza; rifacendosi ad essa simile,
onde piuttosto - attraverso le tecniche teurgiche - l'anima viene chiamata dal
proprio dio, ciò è chiaro nel seguente testo del De mysteriis. A Por- firio, il
quale aveva sostenuto che le XÀ~ae:tç (klèseis, invocazioni) dei teurgi, le
preghiere con cui si attira su di sé la luce divina (De myst., 40, 17) sono
atti di costrizione che implicano che gli dèi 'siano passibili (t!L7tat&dç,
empathèis) come i dèmoni, Giamblico risponde che non è vero. Gli dèi non si
lasciano affatto violentare, ma è l'anima che puri- ficandosi, che rientrando
in sé domina sé malvagia, dispersa, il dèmone, e che facendosi simile al
proprio dio è, in effetto, da lui chiamata: Che ciò di cui ora parliamo sia
salutare all'anima, lo dimostrano i fatti stessi, con evidenza. L'anima,
infatti, quando contempla i felici spettacoli, acquisisce una nuova vita e
opera in virtu di un'arcana forza, si che nep- pure piu sembra, giustamente, un
uomo. Spesso anche, avendo respinto la propria vita, l'anima ha ricevuto in
cambio la infinitamente beatifica forza degli dèi. Se, dunque, l'ascesa
ottenuta con le nostre preghiere procura ai sacerdoti la purifìcazione dalle
passioni, la liberazione da questo mondo. l'unione alla fonte divina, come dire
che tutto questo implica una passività degli dèi? Non è vero che queste specie
di invocazioni attraggano con la forza gli dèi impassibili e puri nel passivo e
impuro mondo; al contrario, tale ascesa fa di noi, che a causa della
generazione siamo nati passivi, esseri 256 puri ed immobili (De
myst., I,:12, 41, lO sgg.: cfr. in Festugière, La Révc· lation, cit., III, pp.
173-4). Aveva detto Plotino: Io credo che gli antichi saggi [ot 7tilÀocL
(J6(jlOL: gli esperti dell'arte sacra], che, nel desiderio di avere tra loro
presenti gli dèi, drizzarono templi e statue, mirando alla natura
dell'universo, intuirono nel loro spirito che l'Anima si lascia facilmente
attrarre dappertutto, ma che sarebbe stata la piu facile di tutte le cose
trattenerla addirittura, qualora l'uomo avesse costruito qualcosa di affine e
impressionabile, atto ad accogliere una qualche parte di anima. Ma
impressionabile è, appunto, l'imitazione - comunque riuscita - la quale,
proprio come uno specchio, sa rapire almeno un po' di figura (Enn. IV, 3, 11).
Dirà Proclo: Gli antichi saggi, riferendo una cosa di quaggiu a un essere
celeste, un'altra a un altro, portavano le potenze divine fino alla nostra
dimora mor- tale, attirandole mediante la somiglianza, perché la somiglianza è
abbastanza potente da collegare gli esseri gli uni agli altri... I maestri
dell'arte ieratica [teurgi] hanno scoperto, in base a quello che avevano
sott'occhio, il modo di onorare le potenze superiori, mescolando taluni
elementi, e altri togliendone in misura appropriata. Se mescolano è P<:rché
hanno osservato che ognuno degli elementi separati possiede qualche proprietà
del dio, ma non basta per evocarlo; cosi, mescolando un gran numero di elementi
diversi, uniscono le forze ricordate sopra, e con tale somma di elementi
compongono un corpo unico simile all'unità precedente la dispersione dei
termini. Cosi fabbricano spesso, con tali mescolanze, delle immagini e degli
aromi, impastando in un medesimo corpo i simboli prima divisi, e producendo
artificialmente tutto quello che la divinità comprende in sé per essenza,
riunendo la molteplicità delle potenze che, separate, perdono ognuna la propria
efficacia, e che, invece, riunite, si combinano per riprodurre le forma del modello
(in Bidez, Catalogues des manuscrits a/chimiques grecs, VI, Bruxelles, 1928, p.
139: cfr. Festugière, lA Rével., cit., I, Parigi, 1944, pp. 134 sgg.; anche
Garin, Le elez. e il probl. dell'astr., cit., pp. 19 sgg.). Tra Plotino e
Proclo v'era stata l'opera e l'insegnamento di Giam- blico, la sua
interpretazione degli oracoli caldaici (commento agli Oracolt) e il significato
da lui dato alle tecniche e alle pratiche teur- giche, alla filosofia'Come
mistero (De mysteriis), con cui si compie, in senso plotiniano e porfiriano,
quella "conversione" dell'anima su se stessa (si confronti anche di
Giamblico il trattato sulle varie conce- zioni intorno all'anima: De anima) con
cui avviene, oltre la ragione, I"unione mistica, e a cui per altro si
giunge attraverso una prima sistemazione dei rapporti mediante i quali il tutto
si articola in unità, e che consiste in una traduzione del tutto in termini
geometrici e nume- rici, in un cogliere la numerabilità dei numeri delle cose.
Giamblico proclamò se stesso pitagorico e teurgo sostenendo che, appunto, la
divina dottrina di Pitagora serve da introduzione alla filosofia, che la
filosofia deve usare lo stesso metodo della matematica, attraverso i cui
simboli si arriverà a cogliere, oltre la ragione, il mistero della vita (cfr.
in tal senso il De vita pythagorica, il Protrepticus ad Philosophiam, e le tre
opere matematiche attribuite a Giamblico: De cotnmuni mathe- matica scientia,
In Nicomachi arithmeticam introductionem, Theolo- gumena arithmeticae).
Plotino, Porfirio, Amelio (non si scordi ch'era etrusco e che in Etruria
sviluppatissime erano le tecniche vaticinatorie) hanno costituito tre linee
(Plotino, Porfirio, Amelio-Giamblico) interpretative del tutto, che, ora
intrecciandosi ora separandosi, a seconda che si sia puntato di piu o di meno
sul momento mistico-irrazionalistico e operativo (Amelio-Giamblico), o sul
momento dell'anima come "coscienza" (Porfirio), hanno dato luogo a
problematiche e a soluzioni diverse sia sul piano teoretico (visivo-contemplativo,
relativamente al rapporto Uno-Intelletto), sia in funzione di questa o di
quella "visione," sul piano dell'interpretazione.di certi testi di
Platone, considerato in fun- zione di questa o di quella interpretazione del
platonismo. Troppo scarsi sono i frammenti che possediamo delle opere degli
immediati discepoli di Giamblico e dei seguaci di questi ultimi per potere
determinare correnti precise, precise delineazioni di quelli che furono i
"neoplatonismi" tra Giamblico ("neoplatonismo" siriaco,
proseguitosi, "dopo Giamblico, con Sopatro di· Apamea e Dexippo; di
Pergamo di cui fu caposcuola Edesio, discepolo di Giamblico; di Cap- padocia,
con Eustazio), e il neoplatonismo rinnovatosi nella scuola di Atene con
Plutarco di Atene {Iv-v sec.) e, attraverso Siriano e Dom- nino, culminato con
Proclo (v sec.), e rinnovatosi nella scuola di Ales- sandria con Ierocle di
Alessandria, discepolo di Plutarco. Certo, Eunapio (Iv-v sec.), autore di una
serie di Vite di 23 sofisti e filosofi (Vita sophistarum), la maggior fonte per
le biografie dei neoplatonici, pur propendendo per l'aspetto magico-teurgico di
origine giamblichea, sot- tolinea che già tra i primi discepoli di Giamblico e
di Edesio, alcuni ne avrebbero criticato il preponderante motivo della teurgia,
divenuto in alcuni vera e propria ciarlataneria, trucco, teatralità. Eunapio,
for- matosi nell'ambiente neoplatonico dei discepoli di ·Edesio, che, seguace
di Giamblico, apri una scuola a Pergamo, dice appunto che secondo Eusebio di
Mindo - vissuto nel IV secolo e del quale sappiamo che e discepolo di Edesio in
Pergamo - la magia praticata da certi suoi condiscepoli è, in realtà, cosa da
"squilibrati, che pervertitamente stu- diano certi poteri, che derivàno
dalla materian e che in particolare bisogna tenersi alla larga - e cosi consiglia
il futuro imperatore Giu-.liano - da quel "teatrale taumaturgo,n che è il
teurgo Massimo di Efeso (cfr. Eunapio, Vit. soph., 474 sgg. Boissonade).
Massimo, vissuto nel rv secolo, fu discepolo di Edesio, a Pergamo, insieme a
Eusebio di Mindo, a Crisanzio - celebre P<:r la sua vita ascetico-mistica, -
a Prisco, poco piu di un nome (per tutti cfr. Eunapio, Vit. soph.). Giu- liano
non ascoltò Eusebio di Mindo e si rivolse, invece, proprio a Massimo di Efeso
(cfr. Giuliano, Epist., 26), chiedendo a un tempo a Prisco di procurargli un
Commento agli Oracoli caldaici di Giam- blico: "Sono avido di
Giamblico," scrive Giuliano, "per la filosofia e del mio omonimo
[cioè Giuliano, autore degli Oracoli caldaici] per la teosofia: gli altri, in
confronto, non li considero affatto n (Epist., 12 Bidez). Sappiamo, per altro,
che, quando Giuliano divenne Imperatore (361-363), e, com'è noto, tentò, di
contro al prevalere della Chiesa cri- stiana, ufficialmente riconosciuta, di
opporre alla religione cristiana una ideologia universalistica imperiale che
salvasse l'Impero dall'essere assorbito dalla Chiesa, Giuliano nominò Crisanzio
supremo sacerdote della Libia e fece di Massimo il proprio consigliere
teurgico. Alla morte di Giuliano, Massimo fu perseguitato dalla reazione
cristiana, tanto che si riusd a farlo condannare a morte sotto l'imputazione di
avere cospirato nei confronti degli Imperatori (371). Se Crisanzio, Prisco e
particolarmente Massimo hanno portato, come sembra, ad estreme conseguenze la
funzione della teurgia e della demonologia, approfondendo, come risulta anche
da Proclo, lo studio delle tecniche e delle pratiche teurgiche, i modi con cui
evocare le divinità, e con cui operare sulla natura, i modi con cui richiamare
nelle cose e negli uomini le potenze divine, suscitando nell'uomo l'esperienza
di convertire sé nell'unità vivente del tutto, di sdoppiarsi e ricomporsi negli
"spiriti,n nulla di preciso possiamo dire del loro maestro Edesio di
Cappadocia, di cui sappiamo solo che fu discepolo di Giamblico ad Apamea e che
poi insegnò a Pergamo (di qui la cosiddetta scuola neo- platonica di Pergamo).
Demonologo e teurgo fu un altro discepolo di Giamblico, Eustazio di Cappadocia,
che, dopo avere ascoltato ad Apa- mea Giamblico, tornò ìn Cappadocia ove apri una
scuola (egli fu invi- tato da Giuliano imperatore alla propria corte: Epist.,
76). Continua- tore diretto di Giamblico fu Sopatro di Apamea. Di lui poco o
nulla sappiamo, se non che fu divulgatore di Giamblico, che scrisse un'opera
Sulla provvidenza e su coloro che hanno fortuna o sfortuna oltre il merito, e
che dapprima in rapporti con l'imperatore Costantino fu poi 259
fatto condannare a morte da Costantino, in Costantinopoli (Sopatro
dovette quindi morire prima del 337). Tra i primi discepoli di Giam- blico fu
Teodoro di Asine, che, in Roma, aveva ascoltato anche Porfirio. Del
"grande Teodoro" (Proclo, In Tim., 341 d) Proclo riferisce che fu
soprattutto un interprete e un commentatore di testi platonici (Timeo,
Repubblica, Pedone: cfr. Proclo In Tim., In Remp.; Olim- piodoro in Phaedon;
secondo Ammonio di Ermia, Teodoro avrebbe commentato anche gli Analitici di
Aristotele: Ol4npiodoro, Sugli Ana- litict), considerati al lume della
ricostruzione triadica di Amelio e di Giamblico, nel tentativo di offrire, per
via allegorica, un tutto com- piuto ove trovassero posto le piu diverse
esperienze religiose, nei ter- mini già illustrati da Porfirio. Per la
discussione,. interna alle scuole sul numero dei demiurghi, da Amelio a
Porfirio a Giamblico e a Teodoro, discussione che indica l'approfondimento
dialettico della que- stione relativa al porsi dell'Uno e delle ipostasi, e che
ebbe una forte influenza sull'analoga questione discussa in seno al
Cristianesimo sul- l'unità-e trinità di Dio e sul rapporto tra Dio e le tre
persone (non a caso dette, ad esempio, da Basilio il Grande ipostast), si
confronti Proclo In Timaeum, 333-334. Particolarmente interessante, invece, per
la storia delle interpretazioni delle Categorie aristoteliche il Com- mento
alle Categorie di Dexippo, vissuto nel IV secolo, discepolo di Giamblico, in
cui Dexippo, spiega dialogicamente a un certo Selemco il significato delle
categorie, sostenendo, di contro a Platino e seguendo Porfirio, che le
categorie hanno un valore formale e servono per intro- dursi a cogliere la
dialetticità dell'Essere in senso plotiniano.Arnobio e LAttanzio. Costantino.
Seguito o combattuto, inter- pretato sotto un certo angolo visuale (la
questione del rapporto tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo) o sotto altro
aspetto (particolar- mente quello della grazia e della redenzione), condannato
per certe sue dottrine, considerate poi "eretiche" (l'apocatastasi,
la subordina- zione del Figlio al Padre, l'Evangelo Eterno, o la esasperata
interpreta- zione allegorica delle Sacre Scritture), o seguita la sua autorità
in una interpretazione del Cristianesimo itt chiave neoplatonica, certo è che
l'opera di Origene ha costituito uno dei perni su cui verranno ruotando le
ulteriori elaborazioni, discussioni, sistemazioni della conce- zione cristiana.
Senza dubbio, per altro, Origene, sia per la sua grande cultura nel campo
classico come nel campo dell'esegesi biblica, ~ia per la sua capacità di
avvertire i problemi, ha messo in chiaro quelli che erano i dubbi, le aporie,
le difficoltà del Cristianesimo nel suo piu maturo incontro con le piu mature
concezioni greche, mostrando ad un tempo i punti in cui l'accordo poteva
precisarsi e i punti in cui il Cristianesimo si presentava come un'esperienza e
una concezione irri- ducibili al metro della concezione classica. Sotto questo
aspetto l'op..:ra di Origene, morto a Tiro in seguito alle torture sofferte
durante la persecuzione di Decio, serve anche a comprendere la pro- blematica,
le aporie, le discussioni sul significato del Cristianesimo, che rintracciamo
in opere, maturatesi al di fuori della diretta influenza di lui, ma non certo
del neoplatonismo diffusosi nel mondo latino, non solo per la permanenza di
Plotino in Roma, ma anche attraverso i diretti discepoli latini di Plotino. E
qui pensiamo agli scritti degli afri- cani Arnobio e Lucio Cecilio Firmiano,
soprannominato Lattanzio. Sotto questo aspetto, la curiosa opera di Arnobio/1
nato nel 255-260, il Nato a Sicca, nella Numidia (Africa proconsolare) tra il
255 e il 260, Arnobio fu maestro di retorica a Sicca per lunghi anni. Oratore
famoso per la sua avversione al Cristianesimo, non poco stupl gli ambienti
cristiani d'Africa la sua improvvisa con- [a Sicca, nell'Africa romana,
I'Adversus Nationes (in sette libri, "lucu- lentissimi libri adversus
pristinam religionem," composti dopo il 297), ha un notevole significato
storico, pur nella sua tortuosità, nel suo faticoso andamento, nella sua
mancanza di idee chiare sul piano dot- trinale-teologico, ebraico e cristiano.
Arnobio, di famiglia non cristiana, rètore di fama e professore di retorica a
Sicca, noto, in campo cri- stiano, per la sua ·dichiarata avversione nei
confronti del Cristiane- simo, sembra, secondo il racconto di San Gerolamo (De
viris ili., 79), che sia improvvisamente passato alla nuova religione. La
conversione - si dice - fu dovuta a un/ sogno che lo illuminò sul significato
della nuova concezione. Anche se il sogno è un aneddoto ed è simbolico, rivela
che la tesi esplicata da Arnobio nella sua opera, cosi violenta, sino a
divenire ingiusta, contro la filosofia e le religioni "antiche," su
cui, d'altra parte, Arnobio dimostra di essere preparatissimo, ignorando, in-
vece, le Sacre Scritture, è che la "conversione" non è frutto di
insegna- mento, non è dimostrazione di una certa verità che convinca di errore,
ma è dovuta ad un atto gratuito, miracoloso, extraumano. Arnobio scrisse
I'Adversus Nationes per convincere il vescovo di Sicca che, diffidando della
sincerità della sua conversione, era in dubbio se accoglierlo o no nella
Chiesa. Ciò, evidentemente, indusse Arnobio a respingere con vio- lenza, in
blocco, tutta la cultura classica, le antiche concezioni, senza uscire fuori da
quella cultura e da quelle concezioni, usando anzi - egli rètore e dotto delle
varie ipotesi e tesi della filosofia classica e delle varie forme religiose,
ignorante della tradizione ebraico-cristiana - quelle stesse tesi e ipotesi in
senso fiegativo per mostrarne la contradditto- rietà, l'insufficienza a dare un
senso alla vita, l'illusione che all'uomo sia concessa una funzione
nell'ordinamento del tutto. E qui s'innesta il significato piu profondo
dell'opera di Arnobio: il suo pessimismo sull'uomo, "questa cosa infelice
e misera, che si duole di essere, che detesta e piange la sua condizione e non
intende di essere stato creato per altro, se non per diffondere il male e
perpetuare la sua miseria" (Il, 46). Se anche l'uomo non ci fosse, il
mondo resterebbe ugual- mente quello che è: Gli uomini in che cosa giovano al
mondo e perché mai sono indispen- sabili?... Aggiungono qualche parte alla
formazione della pienezza di questa mole e, se non fossero stati aggiunti,
l'universo sarebbe forse zoppicante e versione (avvenuta nel 295-296 circa, a
causa eli un sogno). Il vescovo di Sicca, per pru- denza, temendo una finzione,
resistendo alle preghiere del convertito, non volle sulle prime ammetterlo tra
i catecumeni. Arnobio, allora, a prova della sua sincerità, scrisse i sette
libri dell'Adversus Nationes, compiuti nei primi anni del JV secolo, che prende
le moS>e dalla critica a un recente libro del neoplatonico Cornelio Labeone,
sostenitore dell'antica religione. Secondo San Gerolamo, Arnobio sarebbe morto
nel 327. 273 imperfetto? E che,.forse se non ci fossero gli uomini
il mondo verrebbe meno ai suoi doveri e le stelle non compirc;bbero il loro
corso, non vi sarebbero piu estati e inverni, cesserebbero i soffi dei venti,
né dalle nubi conden- sate e sovrastanti cadrebbero le pioggie per portare
refrigerio alle aridità? (Il, 37). Ontologicamente inutile, l'uomo è anzi una
scheggia nella econo· mia dell'Universo, un essere orgoglioso, malefico e
maligno, dedito solo a violenze e a delitti (Il, 38). Se tale è l'uomo, non
solo è empio rite- nere che l'uomo sia stato creato da Dio, quel Dio che tutti
ammet- tono essere il fondamento dell'ordine e della perfezione del tutto
(l'uomo piuttosto dovremmo dire ch'è statQ creato da divinità infe- riori,
impotenti), e illusione è credere con Platone che l'anima umana sia dello
stesso genere della divinità, onde neppure si può dire che immortale per natura
sia l'anima, per cui non è dato certo all'uomo ricostruire, attraverso se
stesso, riconoscendo sé divino ("reminiscenza"), le strutture su cui
si scandisce il ritmo della realtà. Se davvero l'uomo fosse di natura divina,
se l'essenza dell'uomo fosse un aspetto dell'essenza divina, l'uomo si
annullereboe nell'umanità e l'umanità in Dio, l'uomo sarebbe, ma non
esisterebbe. In realtà, certe filosofie greche (Platone, Aristotele, gli
Stoici) risolvendo. tutto in Diq negano l'esi- stenza dell'uomo. Di fatto
l'uomo esiste.e la sua esistenza implica ch'egli è limite, male, e che il suo
esistere si risolve tutto, come vuole Epicuro, entro l'arco dello stesso esistere
umano, e perciò, sotto questo aspetto, la vita umana non ha alcun senso, nessun
fine, non serve a nulla, ogni costruzione filosofica dell'uomo si risolve in
una ipotesi puramente umana. Limite e determinazione, corporeità, l'uomo non
può essere che coscienza del limite; egli è perciò sensazione ed ogni sua cono-
scenza non può non basarsi perciò che sulle sensazioni (II, 20), per cui
all'uomo non è dato oltrepassare le proprie costruzioni, rimanendo sempre come
distaccato dal tutto, costituendo un mondo a parte, un mondo di limiti, di
chiusure, di affermazioni, un mondo senza spe- ranza. Inesistente l'uomo nelle
concezioni platonico-neoplatoniche; senza senso, mortale, annullato nel suo
stesso apparire, l'uomo nelle conce- zioni epicuree; illusioni e costruzioni
umane gli dèi, le credenze delle religioni; ben disperate, tristi, si rivelano,
attraverso le stesse filosofie e religioni, la situazione e la condizione
umane. Volete deporre la vostra connaturata superbia, voi che presumete di
avere quale padre Dio e che sostenete di dividere con esso l'immortalità?
Volete indagare che cosa mai siete voi, da chi siete nati, cosa fate nel mondo,
perché mai siete venuti alla vita?... Non siamo simili agli altri animali?
Siamo anche noi formati di ossa e di nervi, respiriamo con le narici l'aria,
siamo distinti in sessi, come gli animali veniamo fuori dall'alveo materno. Ci
sosteniamo con cibi, ed emettiamo il superfluo dalle parti inferiori, andiamo
incontro a malattie e a morte! (II, 16). Se gli uomini avessero conosciuto
intimamente se stessi, mai avrebbero presunto di possedere una natura immortale
e divina,... mai, sollevati dalla superbia e dall'arroganza, si sarebbero
creduti primarie divinità uguali a Dio, solo perché hanno escogitato la
grammatica, la musica, l'oratoria e le formule geornetriche (II, 19); noi che
nasciamo dai genitali femminili, che emettiamo senza posa inutili vagiti, che
succhiamo poppando mammelle, che ci copriamo e c'insoz.z:iamo delle proprie
sporcizie... (II, 39). L'insistenza di Arnobio sull'uomo nullità, bruttura,
limite, è dovuta al senso tragico della vita, proprio del pensiero greco, del
cosiddetto pessimismo greco, per il quale, almeno in certe posizioni di fondo,
c'è Dio, c'è l'ordine, il tutto è razionalmente costituito, ma in realtà non
c'è l'uomo. E quell'uomo dipinto in si fosche, deprimenti tinte da Arnobio,
entro i termini della sua formazione non cristiana, è la con- clusione tragica
del pensiero greco sull'uomo, di quell'aporia sull'uomo, che se è tutto è nulla
e se esiste è ugualmente nulla, limite, male, non essere. Proprio tale
rivelazione, tale consapevolezza.della sciagurata posizione dell'uomo, dà a un
uomo di cultura greca come Arnobio il significato nuovo dato all'uomo dal
Cristianesimo, in cui, se mai, non c'è Dio - Dio si pone come fede e speranza,
e la sua presenza è rive- lazione, da parte sua, della sua mancanza -, ma c'è
l'uomo, nella sua situazione tragica, ma anche, ad un tempo, nella sua
possibilità, attra- verso il Cristo, d'essere uomo reale e concreto, persona. È
appunto tale rivelazione di quello che l'uomo è per natura, sganciato dal tutto
nel suo esistere - non a caso le cupe e orripilanti parole sull'uomo che nasce
nel sangue e negli escrementi, che è bruttura e malattia, ritorne-:anno sempre
qualora si punti sull'uomo sganciato dalla grazia e dalla ·ivelazione,
dimentico di Cristo: e qui pensiamo, ad esempio, al De:ontemptu mundi di
Innocenzo III, di cui alcune pagine sembrano ·icalcate da Arnobio - è tale
consapevolezza che dà· un senso alla fede:ristiana. Ecco perché dicevamo che
per comprendere Arnobio (e non 1olo Arnobio, ma la piu profonda ragione del
passaggio di molti al:ristianesimo, in cui si salva l'uomo; "la novità
ch'esso portava con;é era la liberazione della personalità," è stato
detto, "incatenata:lalla religione e dalla morale dello Stato, che in sé
riassorbiva e per-:leva l'uomo": cfr. Kovaliov, Storia di Roma, Il, trad.
it., Roma, L9SS, p. 236) bisognava tener presente la rielaborazione origeniana
sulla paradossale situazione umana. L'uomo non è natura: l'esistenza umana, ~on
cui l'uomo assume una sua natura è frutto di un atto di volontà, ~
determinazione dovuta a un atto di libertà, che chiude l'uomo a qual- >iasi
altra possibilità, rendendolo quello che è: male e limite, insignifi- 275
cante, inutile, scheggia e rottura del perfetto ordine del tutto
in Dio; egli uomo male e limite, e non l'Universo, natura una in Dio, in sé
buona. Rompere contro il male, dunque, è rompere contro la propria natura. Solo
che tale consapevolezza, essendo essa stessa contro natura, non è piu umana, è
dovuta a un atto innaturale e perciò extraumano, divino, a un atto della
volontà divina che vuole salvare l'uqmo. Tale la forza del messaggio cristiano,
tale la rivelazione del Cristo, venuto a salvare l'uomo, o meglio a restituire
l'uomo a se stesso. Entro questi termini sembra chiaro in che consista il senso
da un lato del pessi- mismo di Arnobio, l'accusa di Arnobio nei confronti di
tutta la con- cezione greco-romana, dall'altro lato, indipendentemente da ogni
impal- catura teologico-cristiana, della sua conversione al Cristianesimo,.che
offriva la salvazione dell'uomo non come concetto, ma nel suo esserci reale,
nella sua responsabilità morale. Non a caso cosi, riprendendo un motivo proprio
della polemica cristiana (cfr. San Giustino), Arnobio sostiene che l'anima non
è né immortale (come vorrebbe Platone: cfr. Il, 14), né mortale (come vorrebbe
Epicuro: cfr. Il, 30), ché nel- l'uno e nell'altro modo negheremmo l'uomo. La
mortalità e l'immor- talità sono dovute a Dio, a seconda se l'uomo, una volta
riscattato dal Cristo, abbia saputo o no essere responsabile di se stesso.
Opposta alla posizione di Arnobio sembra la posizione di Lucio Cecilio
Firmiano,7 detto Lattanzio, africano della Numidia, ch'ebbe, a Sicca, Arnobio,
maestro di retorica, soprattutto per la sua esaltazione dell'uomo, centro
dell'universo, microcosmo, che non poco risente degli scritti ermetici,
particolarmente dell'Asclepio, citato e discusso da Lat- tanzio sotto il titolo
L6gos telèios (Sermo perfectus). In Arnobio ciò che piu colpisce è la negazione
della concezione classica, che nelle sue conclusioni porta l'uomo alla
disperazione, donde il passaggio alla tesi del Cristianesimo sull'uomo nulla,
male, limite, in quanto esistenza che 7 Lucio Cecilia Firmiano, detto
Lattanzio, nacque in Numidia,. presso Sirta, o Mascula, nel 260 circa. Compiuti
gli studi retorici a Sicca sotto Arnobio, divenuto oratore di grido, insegnò
prima retorica in Africa, poi, chiamatovi da Diocleziano, a Nicomedia (dal 300
circa). Convertitosi al Cristianesimo nel 302, quando nel 303 ebbe inizio la
persecuzione contro i Cristiani, Lattanzio abbandonò la cattedra di eloquenza,
ritirandosi a vita privata e dal 305 (in tale anno appare ancora a Nicomedia)
sparendo dalla circolazione. Lattanzio
scrisse il De opificio Dn (opera assai prudente), tra il 305 e il 311 compose i
sette libri delle lnstieutiones dit~intU, dedicate, quando furono compiute,
all'Imperatore Costantino, del cui figlio, Crispo, Lattanzio divenne precettore
dopo il 313, in Gallia, a Treviri, dove soggiornò certo fino al 320 (ogni
traccia di lui si perde dopo questa data). Posteriori alla persecuzione,
composti, sembra, tra il 311 e il 317, sono il De ira Dei, il De mortibus
persecutorum e una Epitome delle Istituzioni. A Lattanzio è, infine, attribuito
(si dubita che sia di lui) un breve poema Sulla Fenice (De fltle Phoenice).] è
peccato; tutto, centro morale, responsabilità, possibilità di volersi mor- tale
o immortale in quanto redenzione. In Lattanzio, nel suo tentativo di offrire,
da quel buon professore di retorica ch'era stato, il manuale della concezione
cristiana nel suo insieme - non a caso·l'opera sua maggiore va sotto il titolo
di lnstitutiones divinae, - ciò che piu col- pisce è la sistemazione in unità
dei piu vari motivi, 3:nche opposti e in contrasto, che separati, in fermento,
s'erano venuti maturando tra platonici e cristiani nel corso del II e del m
secolo, e dove il signifi- cato e la funzione dell'uomo vengono veduti in
rapporto all'economia dell'universo e di Dio, interpretando la soluzione
neoplatonica, in chiave cristiana. Le ragioni della conversione di Lattanzio
sono molto piu semplici e piane che non quelle drammatiche di Arnobio. Le
ragioni delle filosofie - in realtà del neoplatonismo e di Platone,
quest'ultimo filtrato attraverso Cicerone - trovano il loro fondamento e
criterio nelle ragioni della fede cristiana. Le religioni del passato non hanno
alcun fondamento logico; la sapienza, basandosi su se stessa, non può non
sfociare se non in una posizione di problematicità, nel "proba- bile"
ciceroniano. Il conflitto tra i due termini si risolve nell'accetta- zione di
una tesi in cui le "ragioni" dei filosofi trovano il loro fon-
damento nella ragione rivelata da Dio, in cui, per altro, consiste la vera
religione. "A nessuna religione si giunge senza sapienza, solo che nessuna
sapienza è tale se non si fonda sulla religione" (lnst. div., I, 1).
"La religione consiste perciò nella sapienza e la sapienza nella reli-
gione" (IV, 3). La religione, in quanto sentimento di dipendenza da un
essere supe- riore, cui ci sentiamo legati, implica, come appare dalla
religione cri- stiana, come, per bocca dei suoi profeti, e degli oracoli
sibillini, ha rivelato lo stesso Dio, un Signore unico da cui tutto dipende,
che a tutto provvede (basta alzare gli occhi al cielo, dice Lattanzio, I, 2,
secondo il vecchio luogo comune, per rendersi conto che tutto è prov-
videnzialmente ordinato). E uno solo ha da essere tale Dio e Signore, mette in
evidenza Lattanzio, sottolineando che perciò false religioni sono quelle
politeistiche (cfr. I: De falsa religione), ché altrimenti, ammettendo piu
Signori o dèi dovrerpmo ammettere che tale Dio non è autentico Signore, non ha
la potenza di reggere tutto; non solo, ma piu dèi verrebbero in contrasto tra
di loro, mentre già la funzione che in ciascuno di noi ha l'anima di reggere in
unità la molteplicità delle nostre membra e i vari aspetti delle nostre
funzioni, dimostra che Dio, ciò da cui tutto dipende e che il tutto guida, non
può non essere che uno (I, 3). Se tale è la religione, la sapienza che ritenga
fondarsi sulle proprie forze, rinnegando giustamente le insipienti fantasie
delle religioni, rimarrà oscillante, porrà ipotesi, tutte possibili, in quanto,
appunto, resta sganciata dal suo stesso fondamento, che è la fede, la
rivelazione di Dio (cfr. II, De falsa sapientia, e III, De origine erroris). E
allora, se unica è la fonte della religione e della sapienza, cioè l'unico
Signore c padrone (religione, per cui dobbiamo dirci servt), da cui tutto di-
pende, che, rivelatosi, rende conto delle sue stesse ragioni (sapienza, per cui
dobbiamo dirci figli, simili alla ragione di Dio, che è il suo stesso figlio e
l6gos), si capisce come Lattanzio sostenga che la sapienza ha da fondarsi sulla
religione e la religione ha da essere illuminata dalla sapienza, e che, perciò,
religione e sapienza, separatesi nel tempo, con la caduta, debbono
ricongiungersi, e tale è il messaggio del Cri- stianesimo, la verità cristiana,
per cui il Cristianesimo è una religione filosofica: o una "pia
filosofia" (cfr. IV, De vera sapientia). Da tutto questo chiaramente
appare che sapienza e religione debbono essere congiunte tra di loro. La
sapienza riguarda i figli, ed esige l'amore; la religione i servi, ed esige il
timore. Come quelli, infatti, debbono amare ed onorare il padre; cosi questi
debbono curare e temere il padre. Dio, quindi, che è uno, poiché ha in sé l'una
e l'altra persona, quella del padre e quella del figlio, lo dobbiamo amare
poiché siamo figli e temere poiché siamo servi. La religione, dunque, non può
essere separata dalla sapienza, né la sapienza può essere distinta dalla
religione, perché unica cosa è Dio, il quale dev'essere compreso, il che
appartiene alla sapienza, ed onorato, il che appartiene alla religione. La
sapienza_vien prima, la religione segue: in primo luogo si deve conoscere Dio,
in secondo luogo onorario. E cosi una sola pPtenza è in due nomi, sebbene
sembrino diverse. L'una, infatti, è posta nel senso, l'altra nell'azione; in
realtà sono simili a due fiumi, scaturienti da una sola fonte. Fonte della
sapienza e della religione è Dio, al quale questi due fiumi, se si sono
divaricati, è necessario ritornino; coloro che ignorano Dio, non possono essere
né sapienti né religiosi. E cosi avviene che i filosofi e coloro che venerano
gli dèi sono simili o ai figli dissidenti, o ai servi ·fug- gitivi, poiché né
quelli cercano il padre, né questi il padrone... (IV, 4). La tesi apologetica
di Lattanzio è molto precisa. Egli da buon retore ciceroniano sa a chi si
rivolge, conosce le esigenze di un certo pubblico, particolarmente angosciato
dal problema del destino del- l'uomo, deluso dalle risposte della filosofia, e
che, invece, poteva tro- vare risposta nella tesi cristiana: l'essenziale,
esclama non a caso Lat- tanzio, non sta tanto nelle dimostrazioni dialettiche,
ma nel sapere in che modo ci convenga vivere, nel saper dare una risposta alla
do- manda: perché nasciamo, perché viviamo? (cfr. III, 7, 1-2; III, 12, 1). Le
ragioni della ragione trovano il loro fondamento nella fede. La scienza in
quanto conoscenza dell'essere, mediante cui dare un senso alla nostra vita, non
sarebbe tale, "scienza," se non trovasse un suo 278
criterio. L'uomo, per sua natura, in quanto esistente, è limite, è anima
e corpo, chiusura. All'uomo in quanto tale, non resta, sf come è dimo- strato
da Platone e da Cicerone (il Platone di Lattanzio è il Platone filtrato
attraverso Cicerone), se non un'aspirazione all'essere, l'esigenza di porre
l'Essere come uno; all'uomo in quanto tale non è dato oltre- passare se stesso.
E allora, la coscienza che l'uomo ha di sé come con- flitto e limite, la sua
stessa esigenza di oltrepassare il limite, che già lo pone oltre il limite, non
può essere dovuta all'uomo naturale, ma ad un intervento di Dio. Tale la
risposta ebraica (Filone l'Ebreo e la sua interpretazione di certi testi
biblici, ove ancora una volta va tenuto pre- sente il ribaltamento del concetto
di "sapienza" secondo il testo del- l'Ecclesiastico) e quella cristiana
(il rivelarsi ultimo di Dio all'uomo mediante il Cristo, il L6gos di Dio,
fattosi uomo, mediante cui l'uomo da anima-corpo, limite, può tornare, se
vuole, a farsi simile alla ragione di Dio, ridando un senso al proprio esserci,
al proprio conflitto, senza di cui non ci sarebbe ~irtt!). Gran miracolo è
l'uomo, dice Lattanzio, riprendendo dall'Asclepio, citando piu volte i libri
ermetici ed Ermete Trismegisto, ch'egli pone afianco dei profeti e degli
Oracoli Sibillini; grande è l'uomo, perché l'uomo è specchio dell'universo, a
sua volta immagine di Dio, unità vivente, in cui tutto si raccoglie in unità,
perché l'uomo è simile a Dio, o meglio al figlio di Dio, al L6gos, termine
medio tra l'Uno Dio ineffabile e le infinite possibilità di Dio, mediante cui
assume realtà, ha un fondamento la molteplicità, una nel-· l'unità vivente di
Dio. Solo che tale coscienza, per cui nell'uomo s'in- centra l'universo,
tornando con ciò l'uomo simile a Dio, onde l'uomo - termine medio tra la
spiritualità, tra il figlio di Dio e l'anima, limite, e il corpo, limite piu
opaco - può scegliere tra l'essere simile a Dio, riconoscendo a propria guida
il Cristo, o divenire ancora piu limite, sempre meno amico del re
dell'Universo, tra voler essere immortale o mortale; tale coscienza, tale
possibilità di rompere contro la natura, tale conflitto tra bene e male, in cui
consiste la virtuosità - non vi sarebbe virtu se non vi fosse il vizio, dice
Lattanzio - non sarebbe possibile senza la rivelazione di Dio, esplicitatasi
mediante il L6gos di Dio, fattosi uomo (Cristo), con il quale l'uomo può
reintegrare se stesso. Il sentimento di dipendenza da un solo e unico Signore e
padrone (religione), rivelato da Dio, mediante i suoi profeti, e poi da Cristo,
riconduce l'uomo a ritrovare nella sapienza di Dio (in senso ebraico-
filoniano) il fondamento della sapienza umana, ridando all'uomo da un lato la
capacità di essere virtuoso (cioè di proporsi come conflitto tra sé natura,
unità di anima e corpo, limite, e sé simile al L6gos e a Dio, rompendola contro
la natura, per cui l'essere immortale o mortale diviene una scelta), dall'altro
lato di ricomprendere in sé l'universo tutto, scoprendo in sé Dio, termine
ultimo; fine del proprio destino, in una celebrazione dello stesso Dio.
"Il mondo è stato fatto perché noi nascessimo; noi nasciamo per
riconoscere l'autore del mondo e noi stessi, Dio; lo conosciamo per rendergli
un culto; gli rendiamo un culto per ricevere l'immortalità, in ricompensa dei
nostri sforzi; ecco perché in ricompensa ricevia~o l'immortalità, s(che,
divenuti simili agli angeli, perpetuamente si serva il padre nostro Signore, e
si costi- tuisca l'eterno regno di Dio. Tale il significato piu profondo del
tutto, tale l'arcano di Dio, tale il mistero del mondo" (VII, 6). Proposta
come unica soluzione alla condiziçme tragica dell'uomo concreto - disperso e
abbandonato a se stesso, quale risultava, dalle concezioni greco-romane - la
fede nella tesi ebraico-cristiana (del- l'uomo che si salva mediante la
rivelazione di Dio, e che, per mezzo della venuta del Cristo, può ritornare,
lavato dal peccato, con le sue forze, a celebrare quel Dio per il quale è stato
fatto e dal quale è decaduto), Lattanzio poteva sfruttare, sul piano
teoretico-teologico, i motivi del rapporto Uno-molti, Intelletto-intelligibili
(L6gos), propri del neoplatonismo, particolarmente di certi testi ermetici e,
per altro verso, di Filone l'Ebreo, filtrati attraverso certe interpretazioni
del- l'apologetica greca. Molto abilmente c~s(Lattanzio tende a convincere, a
persuadere, che l'unica verità è quella del Cristianesimo e che solo attraverso
di essa si dà un senso e un perché alla vita degli uomini; senza per altro
rinnegare i motivi teologico-filosofici della cultura greco- romana, che,
preparatoria della rivelazione ultima, deve essere riassor- bita nel
Cristianesimo, in quanto, appunto, illuminata e resa vera dalla rivelazione di
Dio. Anzi, i testi ermetici, i testi neoplatonici servono ora a illuminare, a
render conto della fede cristiana, rappresentano il momento filosofico della
religione. Il "semidivino" ·Ermete Trismegi- sto, esclama Lattanzio,
"non so in che modo ha quasi investigato la verità tutta" (IV, 9).
Ermete chiarisce certi aspetti della teologia cri- stiana, il significato del
Dio uno e ineffabile, anonimo, solitario, (ausa sui (che "ex se et per se
ipse est": cfr. Epitome, 4), che tutto trae da sé, anche la materia,
mediante il proprio L6gos, su cui si fonda la creazione di Dio, anche quella
dell'uomo, fatto. a sua immagine e somiglianza, costituito di anima e corpo, e
che liberandosi da se stesso, limite e deficenza, può, attraverso il L6gos,
incentrare in sé l'Universo, ritornando a Dio (cfr. lnst. div., I, 6; IV, 6;
Il, 8, IO; VI, 25; VII, 13, 18; per le citazioni dal corpo ermetico e dagli
Oracoli Sibillini, cfr. l'edizione del Brandt, Ilb, p. 254 e pp. 258 sgg.). E
cos(, ad esempio, nella spiegazione del rapporto Dio Padre e Dio Figlio, forte
si sente, anche nelle immagini, l'influenza del "neoplatonismo." Uno
Dio, il logos non è un due rispetto al Padre, non divide l'unità sua, ché
l'unità divina è vita nel suo L6gos, per cui il L6gos, conoscenza del- l'unità
vivente di Dio, è la stessa sostanza di Dio, che per sovrabbon- danza emana da
sé il Figlio, unico con l'unica fonte, simile a raggio che proviene dal sole, e
che,' pur distinguendosi dal sole, è della stessa essenza di esso, si come la
luminosità del sole è tale in quanto una con la luce che emana dal sole. Ci
può, forse, chiedere qualcuno perché noi che diciamo di venerare un solo Dio,
sosteniamo tuttavia due dèi, Dio padre e Dio figlio... Quando diciamo Dio padre
e Dio figlio, non diciamo che siano diversi, né li distin- guiamo l'uno
dall'altro. Il padre non può esser distinto dal figlio, né il figlio dal padre;
né il padre può esser detto tale senza il figlio, né il figlio può essere
generato senza il padre. Il padre, dunque, fa tale il figlio, e il figlio il
padre. Una in ambedue la mente, uno lo spirito, una è la sostanza. Ma quegli è
come una fonte esuberante, questo si come un fiume defluente dalla fonte. Dio è
come il sole, il figlio è simile a un raggio scaturito dal sole; e poiché è
fedele e caro al sommo padre non se ne separa, si come il rivo dalla fonte, il
raggio dal sole (anche l'acqua della fonte, infatti, è nel rivo, e la luce del
sole è nel raggio)... (IV, 29). In realtà, l'elaborazione teologica di
Lattanzio riconduce il Cristia- nesimo al "platonismo," sia pur in
una forma accessibile ai piu, ove, in conclusione, l'interpretazione del
Cristo, sul piano di quel "plato- nismo," viene a togliere ogni
significato alla "grazia" e alla "reden- zione," ed in cui
il Cristo è, perciò, presentato piuttosto come guida e maestro che non come
redentore, sanando nell'uomo piuttosto la sua capacità conoscitiva, mediante cui,
ricongiungendo sapienza e religione, sarà di nuovo possibile all'uomo essere
virtuoso. "Noi," afferma Lat- tanzio, aprendo le sue Istituzioni
divine, "che abbiamo ricevuto il sacro mistero della vera religione,
poiché la verità ci è stata rivelata da Dio, per cui lo seguiamo come dottore
della saggezza e come guida verso il vero, invitiamo tutti a questo celeste
convivio, senza distinzione né di età né di sesso, ché nessun altro alimento è
piu dolce all'anima della conoscenza della verità" (1, l). Non poco
indicativo è, cosi, da parte del rètor.e Lattanzio l'avere preso a modello del
suo persuasivo discorso sulla "vera religione," tale in quanto è
"vera sapienza," ornate copioseque, Cicerone. Lat- tanzio punta
continuamente sull'aspetto morale del Cristianesimo, piu che su quello
teologico, sulla posizione dell'uomo centro della stessa vicenda del tutto, per
cui l'uomo è restituito a se stesso, è responsabile del suo destino, nella fede
insegnata dal Cristo in un ordine e in una giustizia, che costituiranno
nell'unità morale dei Cristiani il regno di Dio, in un diritto naturale che si
trasfigura in "diritto divino," in un'obbligatorietà al Signore
supremo che diviene perciò volontaria; ciò indica con chiarezza da un lato che
Lattanzio si era reso conto della piu profonda esigenza degli uomini del suo
tempo, nella crisi dell'Impero, dall'altro lato che il fondamento stesso
dell'Impero, la sua forza, il suo universalismo, erano oramai depositati nella
concezione cristiana. Sotto questo aspetto sembra esatta la definizione data dagli
umanisti di Lattanzio: "Cicerone cristiano." Come Cicerone aveva dato
una filosofia ai Romani dell'ultima Repubblica, discutendo le varie ipotesi, i
pro e i contra, s1 da persuadere (donde l'importanza data alle tecniche
retoriche) a quell'ipotesi che secondo Cicerone sarebbe ser- vita a dare un
fondamento alla res-publica, in.un rapporto umano fon- dato su di un diritto
unico e universale, sp,ecchio della legge su cui si ordina il tutto, cosi ora
Lattanzio, proprio rifacendosi a Cicerone (qui non tantum perfectus orator, sed
etiam philosophus fuit: l, 15) ritiene di dover porre le proprie tecniche
oratorie al servizio della concezione cristiana, in un copioso e ornato
discorso, cbe razionalmente convinca di quella verità rivelata dallo stesso
Dio, che sola dà all'uomo, a tutti gli uomini la possibilità di salvarsi. Si
'può costituire cosi, già in terra, una città cristiana, di cui il regno di
Dio, che pur tuttavia non· sarà mai di questa terra, è posto come termine
ultimo, ed ove Dio, Signore supremo, a sua volta vien posto come lo stesso
criterio di Obbligato- rietà, il sùpremo re, che premia e che punisce. Non a
caso cosi, sotto l'aspetto teologico, Lattanzio nel delineare l'unità di Dio,
Padre e Signore, si rifà alle tesi ".neoplatoniche," mediante cui piu
facile era convincere alla tesi cristiana dell'uomo creato da D1o a sua
sorp.iglianza (già in una sua operetta, il De opificio Dei, scritta nei primi
tempi della sua conversione, durante i primi anni della persecuzione di
Diocleziano, Lattanzio aveva sostenuto, di contro ad Epicuro, ch'egli conosceva
attraverso Lucrezio, riprendendo argomenti di Cicerone, che la considerazione
sia della costituzione ·fisica, anatomica e fisiologica, sia dell'anima
dell'uomo, ove tutto è 'miracolosamente volto all'unità, in cui ogni parte è in
funzione del tutto, rivela la presenza di un crea- tore uno, sommamente saggio
e provvidente). Mediante ciò era piu facile convincere alla tesi cristiana
dell'uomo simile a Dio, che, deca- duto, ritrovando in sé il L6gos di Dio, attraverso
il L6gos fattosi uomo può, se vuole, ritornare ad essere simile a Dio.
Lattanzio, invece, sotto l'aspetto piu strettamente morale, di contro alla tesi
sia neoplatonica sia epicurea della divinità indifferente, impassibile, nella
sua perfe- zione e necessità, si rifà alla concezione ebraico-cristiana del Dio
per- sona e signore, volontà, di un Dio cui tutto è possibile, anche l'ira 282
(si confronti in tal senso il De ira Dei, composto dopo il 313),
il quale solo "scire potest et revelare secreta" (De ira Dei, l). E
qui vanno ora ricordate alcune date fondamentali, relative alla vita e
all'opera di Lattanzio. Lattanzio, nato nel 260 circa, rètore di fama, allorché
Diocleziano apri a Nicomedia una scuola, fu chiamato dall'imperatore a
insegnarvi retorica, verso il 300. Convertitosi verso il 302 al Cristianesimo,
quando nel 303 ebbe inizio la persecuzione dei Cristiani, Lattanzio abbandonò
'la cattedra di eloquenza, ritirandosi a vita privata e, dal 305 circa (anno in
cui ancora appare a Nicomedia), sparendo dalla circolazione. Lattanzio scrisse
il De opificio Dei, tra il 305 e il 311 compose i sette libri delle
lnstitutiones divinae, non a caso dedicate, quando furono compiute,
all'imperatore Costan- tino, del cui figlio, Crispo, Lattanzio divenne precettore
dopo il 313, in Gallia, a Treviri, dove soggiornò certo fino al 320 (ogni
traccia di lui si perde dopo questa data). Posteriori alla persecuzione,
composti, sembra, tra il 311 e il 317, sono il De ira Dei, il De mortibus
perse- cutorum, e una Epitome delle lnstitutiones. Le ragioni della conver-
sione di Lattanzio furono le ragioni della sua opera di rètore tesa a
persuadere, senza rotture violente, senza scandali, al significato del
Cristianesimo, per altro già estremamente diffuso, e che, impostato da un lato
come inveramento e soluzione delle filosofie piu ampliamente accettate e
costituenti un generico fondamento culturale e dall'altro lato come l'unica
religione filosofica che potesse ridare un senso all'uomo, facendolo a un tempo
responsapile della umana città in funzione della città divina, si mostrava
essere l'unica soluzione anche per l'unità e l'universalità dell'Impero. Sotto
questo aspetto assume un particolare interesse il V libro delle Institutiones
dedicato alla "vera giustizia." Molto sottilmente Lattanzio,
rifacendosi in gran parte ai concetti di giustizia, "summa virtus," e
di diritto naturale delineati da Cicerone e rielaborati da grandi giuristi
romani - è noto che la maggioranza dei frammenti con cui si ricostruisce la Repubblica
di Cicerone si ricava dalle lnstitutiones di Lattanzio, - riprospetta di contro
alla tirannide, all'indiscriminato potere personale - e chiara è la lotta
contro Dio- cleziano, - una concezione della giuStizia e del diritto assai
simile a quella su cui ci si era fondati con Cicerone e poi con certi stoici
del 1 e del 11 secolo (non a caso con Cicerone Lattanzio riprende la pole- mica
contro Carneade e contro Epicuro: V, 14; III, 17). La giustizia si fonda sulla
legge del tutto, legg~ tuttavia non naturale, ma voluta dallo stesso Dio, onde
tanto piu obbligatorio diviene l'ordine dello Stato terreno, attraverso cui, se
in esso ciascuno - in ciò uguale all'altro - fa ciò che gli compete e si pone
al suo giusto posto in nome di Dio, si salva, costituendo il futuro regno di
Dio. Solo che il regno di Dio, 283 dopo la caduta, con cui ha
avuto principio l'affermazione di sé, la pro- prietà, il prevalere dell'uno
sull'altro, l'ingiustizia, nella separazione della sapienza dalla religione,
non sarà mai di questa terra. In questa terra rimarrà sempre aperta la lotta,
il conflitto tra male e bene, tra ingiu- stizia e giustizia, senza di cui non
vi sarebbe la virtu ("virtutem aut cerni ~on posse, nisi habeat vitia
contraria; aut non esse perfectam, nisi exerceatur adversis; hanc enim Deus
bonorum ac malorum voluit esse distantiam, ut qualitatem boni ex malo sciamus,
item mali ex bono: nec alterius ratio intelligi, sublato altero, potest; Deus
ergo non exclusit malum, ut ratio virtutis constare posset": V, 7). Entro
i suoi limiti, dunque, ciascuno può volere o non volere, dopo la rivelazione di
Dio, esser virtuoso e perciò giusto, facendosi responsabile del pro- prio
destino, liberandosi da se stesso in Dio, che premia o punisce chi abbia voluto
o non voluto riconoscere Dio. Di qui, ancora una volta, il significato dato da
Lattanzio alla santa ira di Dio; non a caso Lattanzio, finita la persecuzione
da parte di Diocleziano, riconosciuto da Costan- tino il Cristianesimo (313),
scrive pagine di fuoco sulla tragica fine che hanno subito tutti i persecutori
dei Cristiani (Nerone, Domiziano, Decio, Valeriano, Aureliano, Diocleziano,
Massimiano Ercole, Valeria figlia di Diocleziano e moglie di Galeiio):
"sic omnes impii vero et i~sto iudicio Dei eadem quae fecerant receperunt."
Con queste parole si chiude (L, 7) il De mortibus persecutorum. In tale senso
perciò, la tesi cristiana, se da un lato implica il sen- tirsi servi di Dio,
dall'altro lato implica, attraverso la rivelazione, che la libertà dell'uomo
consiste in questo stesso voler essere servi di Dio, che liberando l'uomo da se
stesso, caduto da Dio, lo rende capace d'es- sere virtuoso e giusto. Solo,
dunque, istituendo uno Stato cristiano, volto, mediante coloro che abbiano
ricevuto da Dio la grazia di com- prenderlo e perciò di essere giusti, a
realizzare·la giustizia del regno di Dio, o meglio a far sf che, in una ben
ordinata gerarchia, in cui ciascuno sia al suo giusto posto, si rispecchi
l'ideale unità di un mondo di spiriti contemplanti il Dio, nel quale e per il
quale siamo tutti uguali, e dal quale derivano le due virtu fondamentali della
unica virtu, che è la giustizia, la pietà ("altro non è che la conoscenza
di Dio, come verosimilmente la definf Trismegisto [Pimandro, 9]": V, 15) e
l'uguaglianza (il sentirsi uguali agli altri in Dio: "nessuno presso di
lui è schiavo, nessuno padrone: se egli è a tutti ugualmente padre, a uguale
diritto siamo tutti ugualmente figli; nessuno è povero davanti a Dio, se non
chi manca della giustizia; nessuno è ricco, se non chi è pieno di virtu":
V, 15), solo cosf lo Stato civile potrà salvarsi e non incorrerà nell'ira di
Dio. Si vede bene in tal modo come Lattanzio potesse riprendere, in chiave
cristiana, trasformando cioè il diritto naturale in diritto divino,
relativamente alla giustizia terrena, i temi fondamentali di Cicerone e di
certi stoici. " L a giustizia civile, obbedienza formale alle leggi
stabilite nel tempo dalle città terrene," è stato detto, discutendo della
giustizia presso gli stoici, "ha valore nella misura in cui fa proprio il
contenuto di fraterna uguaglianza e di comunione umana che è proprio della
giustizia naturale. Il Cristianesimo, se accentuò il tema della fraternità (il
prossimo che deve essere amato come noi stessi), non spostò i ter- mini del problema,
ed anzi, approfondendo il distacco tra le due città come conseguenza della
colpa, rovesciò di continuo in radicale diver- genza quella che lo stoicismo e
il diritto romano avevano concepito come convergenza. Lattanzio, nel quinto
libro delle Divinae lnstitu- tiones, dedicato appunto alla giustizia, la
presenterà come summa virtus anche presso i pagani, e andrà dipingendo la città
giusta di Saturno come regno di perfetta uguaglianza... Nella dttà giusta le
terre e le messi non erano cintate... e tutto era in comune. Quando la
cupidigia e l'avidità divisero gli uomini, la giustizia fuggi dalla terra, e
scom- parve l'umana comunione (V, 5). Le leggi divennero inique; la giustizia
fu termine equivoco che indicò disuguaglianza e oppres- sione... Dio, è vero,
ebbe alla fine pietà dei suoi figli, e rinviò la giu- stizia in terra, ma la
concesse graziosamente soltanto a pochi: 'rediit... sed paucis assignata
iustitia est' (V, 7). La frattura tra le due città si presenta come insanabile;
lo squilibrio è radicale. S. Agostino, che pur accoglie certi aspetti della
tematka ciceroniana..., si àncora all'idea di un vincolo statutario che fonda
la civitas corrotta sul comune godi- mento di un bene. La giustizia è l'ordine,
nel suo aspetto meramente formale, che si realizza anche in una societas
sostanzialmente ingiusta, solo che sia mantenuta una certa reciproca
coordinazione. La fraternità umana è rimandata di là, o è in qualche modo
raffigurata in gruppi ristretti di santi uomini; la città giusta è fuori del
mondo, ove poi la divina giustizia è grazia... Cosi mentre la convergenza fra
la giustizia nel suo aspetto formale e la giustizia nel suo valore sostanziale
avevano caratterizzato lo sforzo proprio dei giuristi e dei grandi oratori
romani, la divergenza fra mondo del peccato e Gerusalemme celeste riportò
all'idea di.una giustizia terrena come mantenimento di un ordine impo- sto da
un'autorità, di un'? Stato gerarchicamente scandito" (Garin, Giustizia,
"Revue internationale de philosophie," 1957, pp. 282-4). Duplice è
l'interesse dell'opera di Lattanzio: se da un lato egli ha chiarito, mediante
un vero e proprio breviario delle istituzioni cri- stiane - in cui si
riprendono e si dimostrano inverati dalla rivela- zione molt.i dei motivi
teologico-filosofici piu diffusi. che vanno dun- 285 que accolti
come preparazione alla buona novella - le esigenze e la problematica di certe
classi di uomini, facendole emergere alla co- scienza, dando loro un fondamento
ideologico; dall'altro lato, l'opera di Lattanzio indica assai bene le ragioni che
spinsero Costantino ad accettare il Cristianesimo - e le ragioni
dell'accostamento di Lattanzio a Costantino -, rendendosi conto che, oramai,
solo in esso avrebbe trovato la base sociale ch'era venuta meno a Diocleziano,
peréhé fosse possibile - proseguendo la politica di Aureliano e di Diocleziano
- salvare l'unità politico-economica dell'Impero, trasformandolo sempre di piu
in monarchia. In tale senso è molto indicativa la tesi sulla giu- stizia e
sulla ricchezza e povertà sostenuta da Lattanzio. Tutti uguali in Dio, né
ricchi né poveri nel regno di Dio: in questa terra conflitto tra vizi e virtu,
tra ricchi e poveri, ma possibilità di una società giusta, qualora tutti, in
nome di Dio, rimanendo ricchi e poveri, si sentano ciascuno al suo posto, uniti
in una fratellanza che -è pietà, in una giu- stizia che è carità, in una
società che ha da essere specchio dell'unità di Dio, della monarchia divina,
del giusto scandirsi delle classi, ove il sacerdote, il vescovo, è, per gi'azia
di Dio, il giusto, il rappresentante del monarca divino, di Cristo re. "Se
anche è diversa la condizione dei corpi, gli schiavi non sono schiavi per noi;
quanto allo spirito noi li teniamo in conto di fratelli, e sul piano religioso
li chiamiamo com- pagni di servitu. Le ricchezze non sono motivo di distinzione
per noi, se ·non in quanto possono renderei illustri di buone opere... E coloro
che sono poveri, sono almeno ricchi di questo, che non sentono alcun bisogno e
non hanno desideri. Pur essendo pertanto tutti uguali in umiltà, i ricchi e i
poveri, i liberi e i servi, tuttavia presso Dio siamo distinti secondo la
nostra virtu" (V, 16). Impossibile e ingiusto - so- stiene altrove
Lattanzio - è dire con Platone che non si deve possedere nulla in privato e in
proprio - famiglia, donne, ricchezze, - ché nelle disuguaglianze, nel come
ciascuno sa usare il proprio si rivela la capa- cità o meno d'esser virtuosi,
il riconoscimento d'essere tutti uguali nel regno di Dio, di lui tutti servi e
figli, uguali per la virtu (cfr. III, 21-22). Lattanzio con questa sua tesi
rispecchiava esattamente la situazione propria di molti cristiani e la
struttura economico-schiavistica dell'Im- pero, la situazione della Chiesa
ufficiale al principio del IV secolo. "Verso il IV secolo," è stato
detto in efficace sintesi, "la Chiesa cri- stiana si era trasformata in
una organizzazione molto forte, in una specie di Stato nello Stato, che
abbracciava quasi tutto l'Impero. Essa possedeva enormi ricchezze, contava
nelle sue file un gran numero di alti f~nzionari, di militari, grandi
proprietari terrieri, e la schiacciante massa di popolazione
artigiano-commerciale delle città. Possedeva un potente apparato direttivo che
non aveva nulla da invidiare alla burocrazia imperiale. In'queste condizioni
riconoscere la Chiesa significava per lo Stato trovare una nuova base sociale.
E ciò era particolarmente importante per il dominatus che tendeva a creare un
potere solido... Costantino poté piu saggiamente ed obbiettivamente, che non
Diocle- ziano, avvicinarsi al Cristianesimo" (Kovaliov, cit., Il, p. 235).
Entro questi termini assumono un particolare significato le parole di
Costantino (306-337), riportate da Eusebio di Cesarea (Vita Constantini), ai
vescovi con lui riuniti a mensa: "Certo, voi potreste essere vescovi
interiormente alla Chiesa (È1tlaxo1toL -rwv etaCù n j ç bocÀYjalcxç), io sarei
invece vescovo, costituito da Dio, esteriormente (-rwv ÈxT6ç). " Si è
molto discusso sul peso preciso da dare a queste parole (cfr. S. Calderone,
Costantino e il Cattolicesimo, Firenze, 1962). Certo sembrerebbe in esse
implicito, da un lato il riconoscimento della Chiesa costituitasi
gerarchicamente, fondamento del regno di Dio, di cui, appunto, i vescovj sono i
depositari, coloro che reggono lo Stato dal di dentro (la Chiesa, anima dello
Stato?); dall'altro lato, accettato che lo Stato non può non essere che
cristiano cioè che lo Stato è la Chiesa, che l'imperatore, per grazia divina
("costituito da Dio"), è il reggitore del corpo della Chiesa, cioè
dello Stato, nella sua realizza- zione fisica, storica; l'imperatore dunque
vescovo dal di fuori (del corpo dello Stato?). Senza dubbio, comunque, le
ragioni che nel I I I secolo avevano spinto alcuni imperatori ad abbracciare,
di con- tro alla "romanità" dell'Impero, l'"interbarbarismo"
dell'Impero stesso; trovandone il fondamento ideologico nell'elioteismo, nella
monarchia solare, determinano ora Costantino, che non a caso aveva avuto forti
simpatie per l'elioteismo, a volgersi al Cristianesimo, che, sia per la sua base
economico-sociale, sia per la sua ideologia - entro cui, assunta simbolicamente
poteva essere riassorbita la tesi elioteistica - sembrava dare allo Stato
l'unità e la forza perdute, qualora di quello Stato dive- nisse episcopo
l'imperatore. I simboli della luce propri del Cristia- nesimo, dell'Ebraismo, e
di certe immagini neoplatoniche ed ermetiche (il Padre Sole e il Figlio raggio
del Sole, uno nella luminosità di Dio) e delle tenebre (dai figli della luce e
delle tenebre, a Lucifero che diviene, con la caduta, il dèmone, il principe
delle tenebre, alla materia e al corpo, ombre e tenebre), potevano benissimo
coincidere con la concezione elioteistica, con il motivo della monarchia
solare, reinter- pretata e inverata al lume della verità cristiana e in essa
assorbita. Documenti di ciò sono, oltre alcune testimonianze di Lattanzio e,
particolarmente di Eusebio, l'amico cristiano di Costantino, che non poco si
adoperò a propagandare e a rendere efficace l'operazione di riassorbimento nel
Cristianesimo della cultura ellenistica, anche i mo- numenti, le monete del
tempo di Costantino, in cui l'imperatore cristiano viene presentato come il
Sole di Dio, in raffigurazioni ove appare nella veste dell'Elios persiano (e
non si scordi che le insegne di Costantino avevano un sole irradiante, che piu
tardi, in una visione, divenne facilmente la Croce irradiante luce: per i
rapporti tra Costan- tino e la ideologia elioteistica, cfr. anche F. Altheim,
Il dio invitto. Cristianesimo e culti solari, trad. it., Milano). b) La
corrente origeniana ad Alessandria e a Cesarea Le "eresie."
~'arianesimo, la Chiesa di Roma e il Concilio di Nicea. Se lo studio delle
"eresie" e degli "scismi," di come essi si sono formati,
rende conto di come, per altro verso, si è venuta for- mando l'altra scelta
che, divenuta poi ufficiale, ha costituito la "verità" cristiana, la
"retta opinione" (ortodossia) sulla verità rivelata, tale stu- dio
rende anche conto che gran parte delle eresie (pur. discutendo di questioni
teologiche, pur nascendo dalla problematica sulla vera inter- pretazione del
messaggio del Cristo, della sua natura, del suo rapporto con il Padre) sono
nate sul terreno etico-politico ed economico. Qu3;nto piu la Chiesa di Roma si
arricchiva, si ordinava gerarchicamente e burocraticamente, veniva a compromessi
con lo Stato, anche durante le persecuzioni - non si scordino le grosse
polemiche sui lapsi e l'atti- vità di San Cipriano, - quanto piu ci si
avvicinava al possibile con- nubio tra Stato e Chiesa - sia che la Chiesa fosse
assorbita dallo Stato sia che lo Stato fosse assorbito dalla Chiesa, - nella
costituzione di un Impero cristiano, tanto piu negli strati meno abbienti, piu
poveri, che avevano trovato nel Cristianesimo l'appello all'uomo libero, la
salva- zione della propria individualità, il diretto rapporto da uomo a uomo
con Dio, sembrò che la Chiesa avesse tradito l'antico messaggio del Cristo.
"Verso il quarto secolo, nel seno della Chiesa, esisteva 'un forte
fermento. L'affermarsi degli elementi abbienti, il consolidamento dell'apparato
ecclesiastico, l'aristocratizzazione di tutta l'ideologia del Cri- stianesimo
erano inevitabilmente destinati a determinare una vivace opposizione da parte
degli strati non privilegiati. Per quanto si ten- tasse di soffocare il
primitivo spirito plebeo del Cristianesimo, l'abisso tra quanto veniva
predicato dal pulpito e la realtà e':'a troppo grande: da una parte vi erano
infatti il clero e i fratelli dell'aristocrazia, sazi e contenti, dall'altra
gli stessi 'fratelli di Cristo' della plebe cittadina e 295
rurale, poveri e semiaffamati... La grande crisi rivoluzionaria del m se-
colo non potrà non rispecchiarsi anche nel Cristianesimo. Il riacutiz- zarsi
dei contrasti sociali, manifestatosi nell'Impero a cominciare dalla fine del 11
secolo, si rivelò anche nel Cristianesimo, dove il processo fu accelerato
appunto dalla aristocratizzazione della Chiesa, che ne aveva determinato i
contrasti interni. In tale situazione nacquero le cosiddette 'eresie,' correnti
contrarie ai circoli dirigenti della Chiesa e ai punti di vista dominanti. Esse
rispecchiavano anzitutto l'ideologia dei cristiani piu poveri: schiavi, coloni,
plebe cittadina e, in parte, anche il pensiero degli strati medi della città.
In alcuni casi le eresie erano dovute alla lotta per il potere fra i vari gruppi
della gerarchia ecclesiastica" (Kovaliov, cit., pp. 336-7). Abbiamo già
veduto come fin dalla prima meditazione sull'espe- rienza cristiana si
determinassero interpretazioni molteplici e diverse, a seconda anche delle
tradizioni e degli ambienti culturali, da quelli giudaico-palestinesi a quelli
giudaico-akssandrini, da quelli classici nell'area orientale a quelli classici
nell'area occidentale: da principio "eresie" tutte, poi
"eresie" quelle che ad una delle interpretazioni con- solidatasi e
divenuta tradizionale, della comunità piu forte (che fondò poi il suo diritto
sul motivo della "cattedra di Pietro"), sembrarono non aderenti alla
propria interpretazione, ritenuta quella "retta" (orto- dossa), e
tali da mettere in pericolo la propria forza e la propria catto- licità.
Naturalmente finché non fu possibile determinare ufficialmente la "regula
fidei" (fu Tertulliano a definire l'eresia "scelta, dal greco
or:tp&:a~<; = hairesis, arbitraria, in quanto non tien conto della
regula {idei, cioè della regola determinata dalla Chiesa": in De
praescriptione haereticorum, 6) e finché quella stessa "regula fidei"
non si determinò sto- ricamente attraverso un lungo dibattito, un lungo
conflitto tra l'una e l'altra interpretazione (sull'unità e trinità di Dio,
sulla posizione. e l'essenza del Figlio nei riguardi del Padre, sulla funzione
del Cristo, sulla sua realtà di Dio-Uomo, e sull'autorità dei vescovi, sul loro
essere apostoli degli apostoli e cosi via) erano impossibili condanne ufficiali
(se non sul piano, chiarendo ciascuno a sé il significato del Cristia- nesimo e
la funzione della Chiesa, dell'apologetica: e qui ricordiamo particolarmente S.
Giustino, S. Ireneo, S. Ippolito, Tertulliano e la loro polemica nei confronti
dello gnosticismo, e, per altro verso, Marcione e il marcionismo da un lato e,
dall'altro lato, nella discussione sulla unità e il monismo di Dio il
monarchismo, il modalismo, il docetismo,. il sahellismo). Ciò fu possibile
quando la Chiesa di Roma, riconosciuta ufficialmente dal potere politico come
la depositaria della autentica "regula fidei," poi:é ufficialmente
far dichiarare la propria "regula" e il proprio "credo"
(Concilio di Nicea, del 325). (E qui va tenuto pre- 296 sente che
di "eresia" in senso stretto si parla non quando sia una per- sonale
deviazione dall'insegnamento della Chiesa ufficiale, ma quando tale deviazione
diviene sciente contrapposizione di un, diciamo cosi, pensiero o insegnamento
che si deve contrapporre a quello della Chiesa). Naturalmente, sotto il profilo
della rivolta etico-politica con- tro una Chiesa che per i suoi compromessi,
per la sua, anche se lenta, trasformazione in Stato gerarchizzato, sembrò
tradire il significato popolare dell'insegnamento etico del Cristo, vediamo
sorgere certe ere- sie abbastanza tardi, alla fine del n secolo, per divenire
sempre piu forti e polemiche durante il m secolo e il principio del IV. E qui
pen- siamo, innanzi tutto, al montanismo. Il montanisrno, cosiddetto da Montano
che ne fu il capo, ebbe principio verso il 170, e, di contro all'infiacchimento
della Chiesa, di contro alle proprietà della Chiesa, di contro al perdono per
le colpe compiute dopo il battesimo, di contro alla autorità dei vescovi, di
contro alla "universalità" della Chiesa, pro- clamò l'individualità
della esperienza cristiana e della fede, in un rigi- dismo morale-religioso, in
personali esperienze ascetico-mistiche, in un rifiuto delle ricchezze terrene
nell'attesa della vicinissima restaurazione - per il vicinissimo ritorno del
Cristo - del regno di Dio. Se tale infiacchimento della Chiesa, l'evidente
opportunismo di molti conver- titi al Cristianesimo, furono le ragioni
dell'adesione di Tertulliano al montanismo, si capisce come, nel 111 secolo, al
tempo delle persecu- zioni di Decio, di contro al diffuso lapsismo, si siano
ingrossate le file del montanismo. E qui pensiamo, in secondo luogo, al
donatismo. Nel III e IV secolo nuova forza e significato politico assunse il
montanismo, particolarmente in Africa settentrionale, dove andò sotto il nome
di donatismo dal nome del vescovo Donato, che si fece capo degli intran-
sigenti, finché di contro alla Chiesa ortodossa si costitul la Chiesa di Donato
(non a caso alla Chiesa di Donato aderirono nel IV secolo i movimenti
rivoluzionari degli schiavi e dei coloni d'Africa che vede- vano nel donatismo
il fondamento ideologico della loro lotta contro la proprietà, contro i ricchi,
contro l'economia schiavistica: fu questo il mo- vimento degli "
agonisti," i combattenti per la vera fede: cosi essi pro- clamarono se
medesimi, mentre "circumcellioni," vagabondi, furono detti dalla
parte avversa). Minore importanza ha il novazianismo (dal nome di Novaziano
fiorito tra il 250 e il 258). Novaziano ruppe con la Chiesa di Roma per ragioni
personali, per la delusione di non essere stato eletto vescovo di Roma (il
novazianismo, del resto, in certe conseguenze, è assai vicino al rigidismo
morale del donatismo). Un particolare significato assume, invece, l'arianesimo,
sia perché fu la prima eresia condannata con l'appoggio del potere politico
(Concilio di Nicea, 325), in una 297 precisazione da parte della
Chiesa ufficiale della propria "regula fidei," che assume cosi un
valore giuridico, sia proprio in conseguenza di ciò - per la storia della
formazione della "verità" ufficiale cristiana, sia per le ulteriori
precisazioni filosofico-teologiche, sia per le ripercus- sioni politiche che
ebbe. Nato, sembra, in Libia, verso il 265, Ario,8 dopo avere studiato ad
Antiochia sotto il platonico Luciano di Antiochia, ebbe nel 313 la dire- zione
di una Chiesa di Alessandria, e fu qui che nel 318 circa espresse la sua
interpretazione sulla natura del Verbo. Con molta probabilità Ario fu
direttamente ispirato dagli insegnamenti che sulla vecchia que- stione della
natura una di Dio e del suo rapporto con il Verbo e la realtà, aveva ricevuto
ad Antiochia da Luciano, fondatore della scuola esegetica di Antiochia, martire
nel 311, e dall'influsso che in Antiochia avevano ancora al tempo in cui vi fu
Ario le idee di Paolo di Samo- sata, vescovo di Antiochia (260-268), condannato
per eresia tre volte ed infine costretto a dimettersi, convinto di errore dal
prete Malchione. Ario, con molta intelligenza e acutezza, lucidamente ripropone
e definisce la grossa questione, sul tappeto dal tempo di Filone l'Ebreo, dei
"monarchisti, " " unitaristi," " docetisti,"
" sabelliani," di T ertul- liano, e, per altro verso, di Plotino.e
dei neoplatonici, di Origene. Posta l'unità e perfezione.assoluta di Dio e
posto che, secondo il solito rove- sciamento ebraico-cristiano del concetto di
"sapienza," la sapienza è di Dio ed è prima dei secoli e va avanti a
tutte le cose (cfr. Ecclesiastico, l, 1-4), e che tale sapienza è il Verbo
(L6gos) di Dio, l'interpretazione del celebre testo dei Proverbi (VIII, 22), in
cui la sapienza, cioè il 8 Nato, forse in Libia, nel 256 circa, Ario, dopo
avere studiato ad Antiochia, sotto Luciano, nel 313 ebbe l'incarico di dirigere
la Chiesa di Bocali ad Alessandria. Nel 318 divulgò le proprie tesi sul
rapporto Padre-Figlio. Condannato da un Concilio di Alessandria, promosso dal
vescovo di Alessandria Alessandro, teoreticamente sostenuto dal suo diacono
Atanasio, nel 320 o 321, Aiio fu costretto ad abbandonare il paese. Fu dapprima
in Palestina, poi a Nicomedia presso il vescovo Eusebio, suo vecchio amico.
Condannato nel Concilio di Nicea (325), fu dall'Imperatore esiliato
nell'Illirico. Nel 336, Costantino, volendo riporre equilibrio tra le due fedi,
in nome dell'unità dell'Impero, richiamò Ario, che a Costantinopoli
improvvisamente mor(nel 336. Perduta è l'opera piu importante di Ario, la Tàlia
(E>ciÀe:lcc:banchetto), ch'egli compose a Nicomedia tra il 321 e il 325. Se
ne conservano solo alcune ·citazioni nel Contra arianos di Atanasio (1, 5, 6,
9; cfr. anche De synodis, 15). Sono pervenute, invece, due lettere di Ario: una
ad Eusebio di Nicodemia, del 321 circa (in Epifania, Haer., 79, 6), l'altra ad
Alessandro di Alessandria, scritta non molto prima del Concilio di Nicea (cfr.
Atanasio, De syn.odis, 16; Epifania, Haer., 69, 7, 8). Socrate (storico della
Chiesa; nato a Costantinopoli nel 408 circa, autore di una Historia
ecclesiastica, in sette libri, che prosegue quella di Eusebio dal 323 al 439) e
Sozomeno (altro storico della Chiesa, originario di Gaza, a~vocato in
Costantinopoli, autore di una Historia ecclesiastica, in nove'libri, dal 323 al
433, compiuta nel 444, e che in piu parti ricopia quella di Socrate) riportano
la professione di fede inviata da Ariq a Costantino nel 330-331 (cfr. Socrate,
Hist ecci., I, 26; Sozomeno, Hist ecci., 2, 27). 298 L6gos dice
Dominus creavit me, porta dietro a sé la negazione della tesi che Dio sia ad un
tempo uno e trino e che il suo Verbo, in quanto creato da Dio, sia della stessa
sostanza di Dio e sia un secondo Dio. La tesi che Dio sia ad un tempo trino in
eterno implica la nega- zione di Dio uno e solo, e l'affermazione non cristiana
di piu dèi. Posto che una è la sostanza di Dio e perciò ch'egli è indivisibile
e ingene- rato, infinito e assoluto, e dunque indiscorribile (&ppl)-roç
=àrretos), proprio il suo essere ingenerato (&.ykvvl)-roç = aghènnetos) e
senza prin- cipio (&vocpxoç = ànarchos) implica che non si può ammettere
ch'egli comunichi ad altri la propria essenza: Dio cosf si limiterebbe e si
risol- verebbe negli stessi aspetti da lui provenienti. In altri termini,
ammet- tere che Dio per essere, per comprendere se stesso, si distingua in due,
sign.ificherebbe dire che Dio è non piu persona, essere nella sua asso- lutezza
solo, ma unità dialettica. Ciò, in realtà, vorrebbe dire negare il Dio persona
e volontà, il Dio creatore. Posto, per altro, in senso ebraico- cristiano, che
Dio non è un concetto, non è unità dialettica di pensante- pensato (L6gos), ma
volontà, se ne deve dedurre che la creazione non è da intendere nel senso che
Dio - avente in sé tutto in potenza - tragga all'esistere da se stesso,
mediante il proprio esserci come pen- sante-pensato (L6gos), tutta la realtà,
ma che egli, volontà onnipo- tente, di là da ogni ragione dà realtà a un mondo
davvero ex nihilo, che, in quanto da lui voluto, una volta che c'è, è altro da
lui, non ha la sua stessa essenza. E allora, proprio per non confondere il
L6gos di Dio, la sua parola e ragione, con il N ùs plotiniano, che si perde
nel- l'Uno, sf come l'Uno si perde nel Nùs, conseguentemente alla tesi del Dio
trascendente, indiscorribile, persona e creatore, si deve dire, se- guendo alla
lettera i Proverbi (ricordiamo che la scuola esegetica di Antiochia, in cui si
formò Ario, si tenne sempre, di contro alla scuola esegetica di Alessandria,
all'interpretazione letterale-storica dei sacri testi), che anche il L6gos, in
quanto sua creatura ("creatura perfetta di Dio": in Atanasio, De
synodis, 16, 2) è realtà altra da quella di Dio, è esistente, è, anch'egli,
generato dal nulla (è!; oùx l>v't'CùV yéyov<. = ex ouk ònton ghègone: in
Atanasio, Oratio l, Contra Arianos, 5). Il Verbo dunque, non può avere lo
stesso genere del Padre, è dissimile dal Padre (è &ll6't'ptoç -allòtrios e
&.v6(l.otoç-anòmoios) ed è solo di nome che viene detto Dio. Uno solo Dio,
il Verbo non è un "secondo Dio" che per analogia, e pur essendo per
decisione di Dio lo strumento con cui Dio crea il mondo, non si può dire
ch'egli abbia la stessa sostanza dì Dio, che sia a Dio consustanziale, mentre,
in quanto è dopo Dio (che ri- mane, perché crea.tore, uno e solo nella sua
perfezione, trascendente e immobile e perfetto, e dunque irrelativo,
indiscorribile, ignoto), il L6gos è limite, mutevole, (-rpen-r6ç-trept6s), sf
come tutte le creature, buono finché vuole restare tale, ché, se lo volesse,
potrebbe, come noi, mutarsi" (in Atanasio, Oratio l, 5). E come Dio ha
voluto creare il L6gos ex nihilo e attraverso lui ha voluto che il mondo
assumesse realtà, cosi poi, essendo il L6gos rimasto buono, e avendolo adottato
come figlio (adozionismo), ha voluto dargli la funzione di redentore. Altro da
Dio il L6gos, non a lui consustanziale, poiché tutto ciò che ha avuto realtà è
provenuto per un atto di libera volontà da Dio, attra- verso il L6gos, anche lo
Spirito Santo, il soffio vivificante di Dio pro- viene dal L6gos ed è perciò
altro dal L6gos e da Dio. Senza dubbio la tesi di Ario precisa in una certa
direzione la vec- chia questione del rapporto tra Dio e il suo Verbo. Egli,
avvicinan- dosi ai monarchisti, nega, nelle conclusioni, la divinità del Figlio
e con ciò stesso quella del Cristo, scostandosi cosi dalla interpretazione
delineatasi nella Chiesa, e da quella della scuola di Alessandria che non poco
si era servita della tesi neoplatonica sul rapporto Uno-Nùs-Anima. Certo, la
immediata presa di posizione contro Ario da parte del ve- scovo di Alessandria,
Alessandro, che fece espellere Ario dalla Chiesa di Alessandria nel 320 (Ario
si recò allora in Palestina, poi a Nico- media presso Eusebio vescovo di quella
città), dette luogo all'esigenza di definire e precisare la tesi opposta, che
con il Concilio di Nicea (325), ove fu sostenuta da Alessandro, con l'aiuto del
suo diacono Ata- nasio, divenne la tesi ufficiale e giuridica della Chiesa.
Elaborata e pre- cisata da Atanasio,9 nato sembra ad Alessandria nel 295 circa,
già dia- 9 Atanasio, nato ad Alessandria nel 295 circa, da genitori non
cristiani, si converti presto. Nel 318-320 era già diacono di Alessandro
vescovd di Alessandria_ Fin dal prin- cipio Atanasio coadiuvò nella polemica
contro Ario il suo vescovo, e oon lui assistette al Concilio di Nicea (325).
Morto Alessandro (328), Atanasio fu nominato vescovo di Alessandria. Tutta la
sua vita fu consacrata alla lotta contro l'arianesimo. Quando Co- stantino
cercò di riconciliarsi con Ario (335-336), l'Imperatore lo mandò in esilio a
Treviri; morto Costantino, Atanasio nel 337 tornò ad Al~ssandria. Poco dopo,
nel 340, dovette di nuovo esulare per volontà dell'imperatore Costanzo,
istigato da Gregorio di Cappadocia. Tornò ad Alessandria alla morte di Gregorio
nel 346. La politica filoariana di Costanzo lo costrinse a fuggire ancora una
volta da Alessandria nel 356. Solo alla morte di Costanzo e all'avvento di
Giuliano (362), che rimise nelle loro sedi tutti coloro ch'erano stati
esiliati, per questioni religiose, Atanasio poté tornare ad Alessandria. Ma la
foga di Atanasio preoccupò anche Giuliano, che lo fece allontanare ancora una
volta. Morto Giuliano (363), avuto il sopravvento il Cristianesimo di Roma,
Atanasio poté rientrare nella sua Sede, tranne la breve parentesi del 364-366,
in cui, per ordine di Valente, ariano, Atanasio si allontanò per la quinta
volta da Alessandria: dal 366 al 373, anno della sua morte, Atanasio visse
tranquillamente ad Alessandria. Tra le prime opere di Atanasio si ricor<)ano
Il discorso contro i Grui e il Discorso dell'incarnazione (bJa:v6p(l)7rljGE(I)~
= enantrop~seos) del Verbo, composti tra il 318 e il 320. L'opera piu
importante contro gli ariani è costituita dai Discorsi contro gli Ariani (sono
quattro discorsi, di cui i primi tre autentici). Si dubita che siano di
Atanasio (si è pensato di qualche suo seguace) il Dell'incarnazione e contro
gli Ariani, e il trattatello Sul testo: tutte le cose mi furono rivelate.
Ispirati da Atanasio e, certo, della sua scuola sono gli scritti De Trinitate
et Spiritu Sancto; Ddl'incarnazione contro Apollinare; L'incono di Alessandria
nel 318, successo ad Alessandro, in qualità di ve- scovo di Alessandria nel
328, la tesi dell'unità e trinità di Dio, della consustanzialità del Padre e
del Figlio, riconosciuta ortodossa nel sim- bolo niceno, venne mantenuta e
difesa ad oltranza da Atanasio, nei successivi grossi conflitti avvenuti dopo
Nicea, a favore della tesi ata- nasiana o di quella ariana, quest'ultima
seguita particolarmente da tutti gli elementi scontenti dell'ordinamento della
Chiesa, e non solo Cri- stiani, ma anche pagani. Molti pagani anzi si
convertirono al cristia- nesimo ariano vedendo in esso quella salvazione
dell'uomo promessa da un Cristo non divino, ma uomo tra uomini, che nella
aristocratiz- zazione, burocratizzazione, stabilizza.zione della Chiesa, veniva
ad essere negata. Entro questi termini si vede bene come una discus- sione
esegetica e teologico-filosofica implicasse, a sua volta, una grossa
problematica politica. Non a casolo stesso Costantino, che, nèlla pole- mica
tra la Chiesa e Ario, vedeva la possibilità di un indebolimento dell'autorità
della Chiesa, per cui a Nicea appoggiò la tesi ufficiale, piU tardi, allorché
si rese conto del mordente che in taluni ambienti ebbe l'arianesimo, manifestò,
forse a ciò spinto anche da Eusebio di Cesarea, che sosteneva, sulla scia di
Origene, che il L6gos è subordi- nato al Padre, una viva simpatia per gli
ariani, tanto che, per evitare agitazioni, fece esiliare Atanasio a Treviri
(335-336). Morto Costantino (337), le alterne e tragiche vicende successorie,
portarono a seconda di chi ebbe di volta in volta il potere e a seconda della
zona in cui piu forte era l'appoggio che poteva venire dalla cor- rente
ortodosso-romana o dalla corrente ariana, a dare ora il soprav- vento ai
sostenitori della tesi nicena ora ai sostenitori dell'arianesimo. Costanzo, uno
dei tre figli di Costantino, impegnato in Mesopotamia nella lotta contro i
Persiani, appena conosciuta la morte del padre accorse a Costantinopoli, dove
fece uccidere i fratelli di Costantino e sette suoi nipoti, e assunse il potere
in tutto l'Oriente; in Occidente dopo una guerra tra i due figli di Costantino,
Costante e Costantino Il, morto Costantino II, ebl:ie, nel 340, il sopravvento
Costante. Avuto il sopravvento in Occidente, Costante, legato ai circoli della
Chiesa orto- dossa e favorevole perciò alle decisioni del Concilio di Nicea,
mise al bando l'arianesimo. Atanasio, cosi, che all'indomani della morte di
carna11ione di Dio; Uno è Cristo; Il discorso maggiore sulla f"de.
Certamente di Atanasio invece sono le seguenti opere storico-polemiche:
Apologia contro gli Ariani (del 348); Apologia all'lmp.,ratorc Costanzo (del
357); Apolugia dt:lla fuga; Della dottrina di Dionigi; Sui dur.,ti d"l
sinodo niceno; Dci sinodi di Rimini e di Se/cucia (del 359) (una delle opc:re
piu importanti di Atanasio, in cui fa la storia di questi due Concili). lncom·
pleta è giunta la Storia degli Ariani, non piu che citata (Gerolamo, Dc vir. ili.,
17) uno scritto Contro Valente e Ursacio. Opere di morale e d i edifu:azione
sono: Vita di Sant'Antonio, Della Verginità (se ne dubita l'autenticità). Molte
le lettere di Atanasio. Costantino era tornato ad Alessandria, ma che, su
decreto di Costan- zo, imperatore in Oriente, ove l'arianesimo si era non poco
diffuso, era stato costretto nel 340 a ritornare in esilio, poté, col favore
del- l'imperatore di Occidente, Costante, ritornare in Alessandria nel 346.
Morto Costante nel 350, vittima in Gallia di un complotto organiz- zato dal
generale Magnenzio, le Gallie proclamarono imperatore Ma- gnenzio. Di contro,
gli veniva opposto a Roma Augusto Nepoziano, nipote di Costantino l. Magnenzio
accorse a Roma e Augusto Nepo- ziano venne ucciso. Le truppe dell'Illiria
eleggevano intanto impera- tore il generale Vetranione, favorevole agli ariani
(Ario, dopo il Con- cilio di Nicea era andato in esilio in Illiria).
Dall'Oriente intervenne Costanzo, che, alleatosi con Vetranione, il quale
rinunciò al potere (351), sconfitto Magnenzio, rimase unico imperatore.
Costanzo evi- dentemente ritenne piu opportuno appoggiarsi alle forze cristiane
ariane, particolarmente diffuse in Oriente e nell'Illiria, tanto che in un con-
cilio della Chiesa tenuto a Milano fece condannare Atanasio che fu di nuovo
cacciato da Alessandria (356). Solo alla morte di Costanzo, avvenuta nel 362,
Atanasio poté tornare ad Alessandria. Costretto di nuovo ad abbandonare
Alessandria sulla fine del 362 per ordine del nuovo ed unico imperatore
Giuliano, in funzione della sua battaglia contro la Chiesa cristiana e contro,
particolarmente·, l'assorbimento dello Stato nella Chiesa, Atanasio tornò ad
Alessandria alla morte di Giuliano (363) e vi rimase fino al 365, quando venne
anc9ra una volta esiliato dall'imperatore Valente, che, tuttavi·a, ben presto -
resosi conto che oramai in Occidente la Chiesa piu forte era quella di Roma -
lo reintegrò vescovo di Alessandria, ove rimase fino alla morte, avvenuta nel
373. Ario era morto nel 336, improvvisamente a Costantinopoli, mentre, su
pressione di Costantino, stava per riconciliarsi solennemente con la Chiesa.
Dopo il Concilio di Nicea ricordiamo che Aria era stato esi- liato
nell'Illiria. Dopo Ario, oltre Asteria di Cappadocia, vecchio disce- polo di
Luciano di Antiochia, che a favore della tesi di Ario aveva rac- colto una
serie di testi (auv-rrxy!_J.oc-rtov-syntagmation) che dovevano ser- vire a
provare che il Verbo è creato (cfr. Atanasio, Or. I, 30-34; Or. Il, 37; Or.
III, 2, 60; De decretis, V, 28-31; De synodis, 18, 20), il vero e proprio capo
politico della corrente ariana, come dice il Tixeront (Patrologia, cit., p.
147), fu Eusebio vescovo di Nicomedia (presso cui Ario si era rifugiato durante
il suo primo esilio avanti Nicea), vis- suto fino al 342. L'arianesimo assunse
poi piu facce, in una sempre piu sottile discussione sull'autentico significato
da dare ai termini sostanza e simiglianza relativi a Dio e al Verbo, senza
dubbio,. talvolta, in un'esigenza di riconciliazione con la tesi nicena. Entro
i termini della discussione ariana si distinsero cosi tre cor- renti. La prima
è quella degli ariani intransigenti, secondo cui il L6gos non è dissimile
(ocv6tJ.OLO~-anòm.oios) dal Padre. Capo di tale corrente - detta degli anomci -,
ricollegandosi a Paolo di Samosata, fu Potino, vescovo di Sirmio in Pannonia e
quindi Ezio, originario di Antiochia, particolarmente preparato in dialettica
aristotelica, che aveva studiato ad Alessandria. Ezio, elevato al diaconato nel
350, sostenne la tesi di Ario, usando la dialettica aristotelica, in una
serrata dimostra- zione della contraddittorietà di porre due divinità, per cui
il Verbo non può logicamente dirsi della stessa sostanza del Padre. Il Figlio
perciò non si può porre che come una creatura inferiore, anche se la piu
perfetta, e diversa dal Padre, ché, ragionevolmente, ciò che è gene- rato non
può essere Dio (cfr.' Di Dio ingcncrato c del generato: qua- rantasette brevi
ragionamenti in forma sillogistica, conservati da Epi- fanio in Hacrcs., 76,
11). Discepolo di Ezio fu Eunomio, originario della Cappadocia, diacono di
Antiochia, infine vescovo di Cizico nel 361. Dal poo che è rimasto di lui,
morto sotto Teodosio, si deduce ch'egli fu, come Ezio, un forte sostenitore
dell'anomcismo, si corne lo furono Eudossio,' vescovo prima di Antiochia e poi
di Costantinopoli (360- 369) e Giorgio vescovo di Laodicea (331-335). La
seconda corrente è quella dei cosiddetti scmiariani, i quali p4r respingendo.
la consustanzialità, cioè che il Figlio abbia la stessa so- stanza
(otJ.oouaLo~-homousios) del Padre, sostengono che tra la sostanza del Padre e
quella del Figlio vi è una certa somiglianza OtJ.OLOUaLoç - homoiusios). Capo
dei semiariani fu Basilio vescovo di Ancira, morto nel 356 (scrisse due lunghe memorie
teologiche, conservate da Epifanio, Hacrcs., 70, 3, 2-11 e 12-22), seguito poi
da Eustazio, vescovo di Sebaste dal 357, il quale fu particolarmente un asceta,
fondatore del monachesimo nell'Asia Minore e maestro di Basilio il grande. Poco
o nulla sappiamo di Euzoio, vescovo di Cesarea nel 376, anche egli, sembra,
seguace della corrente semiariana. Tesi molto piu equivoca, passibile di essere
accettata dall'una e dall'altra parte, fu quella, secondo cui, senza
approfondire la questione della sostanza, si diceva vagamente che il Verbo è
simile (l5tJ.oLOIO- hòmoios) al Padre. Tale tesi, detta degli omèi,, fu
sostenuta dal suc- cessore di Eusebio di Cesarea, Acacie (340-346), legato
all'origenismo e elle prosegui ad arricchire la biblioteca di Cesarea, e dai
vescovi Teodoro di Eraclea (325-355) ed Eusebio di Emesa (341-359), quest'ul-
timo, secondo San Gerolamo (Vir. ili., 91), raffinato rètore ed esegeta seguace
della scuola di Antiochia (cfr. sopra). Per altro verso la lunga discussione da
parte ariana della tesi nicena dette luogo, a· sua volta, da parte dei
difensori della consustanzialità c 303 della divinità del L6gos ad
un approfondimento della tesi nicena, che se da un lato portò a migliori ed
acute precisazioni, e, in funzione di quelle, a nuove interpretazioni della
tesi plotiniana e origeniana, anche sul piano filologico (non a caso Gregorio
di Nissa distinse il signifi- cato di sostanza da quello di persona),
dall'altro lato dette luogo a una serie di grossi problemi intorno alla natura
del Cristo, Dio e, ad un tempo, uomo. Per il primo aspetto, piu che al
pedissequo seguace della tesi nicena, Didimo Cieco (vissuto dal 313 al 398),
assai vicino, per altro, ad Origene, salito in fama di dotto maestro (per cui
ad Ales- sandria andarono ad ascoltarlo Sant'Antonio, Palladio, Evagrio Pon-
tico, San Gerolamo, Rufino), pensiamo qui ai celebri "luminari" di
Cappadocia, San Basilio, San Gregorio di Nazianzo, San Gregorio di Nissa, i tre
"padri" della Chiesa di Oriente; e per il secondo aspetto, ad
Apollinare il giovane, nato nel 310 circa, amico di Atanasio, soste- nitore
dell'unità e trinità di Dio, secondo il simbolo niceno, che per primo apri la
discussione sulla natura divina o umana del Cristo, e la cui tesi venne
condannata nel Concilio del 381, negando egli che il Cristo in quanto Verbo
fattosi corpo potesse avere anima umana, ché l'anima è, origenianamente, il
limite, il raffreddamento dello spirito, dovuto al peccato, alla ribellione a
Dio e al L6gos che resta sempre peccato. Tutte queste discussioni, relative da
un lato, ripetiamo, al come intendere il concetto di sostanza e di persona,
dall'altro lato, posto che il Verbo è Dio, al significato da dare, allora, alla
natura umana del Cristo, meglio si comprendono tenendo presente, ora, la
formulazione dello stesso simbolo niceno, che, come ha sostenuto il Gilson
(cit., pp. 59-60), delimita "il quadro all'interno del quale il pensiero
cri- stiano dovrà oramai mantenersi" - avendo, aggiungiamo, avuto poi la
Chiesa di Roma il sopravvento. Crediamo in un solo Dio, padre onnipotente,
fattore delle cose tutte, delle visibili e delle invisibili. E crediamo in un
sol nostro Signore Gesu Cristo, figlio di Dio, nato unigenito dal Padre, cioè
dalla sostanza del Padre (èx -t~ç oòa(ocç -tou 'ltot-tp6ç ), Dio da Dio (0r:òv
èx 0r:ou ), luce da luce, Dio vero da vero Dio, generato non fatto
(yevv'rj6~not où 'ltOL'rj6énot), della stessa sostanza (OfLOUaLov - homusion)
del Padre (consustanziale al Padre), mediante cui tutte le cose sono nate,
quelle che sono in cielo come quelle che sono in terra; il quale, per noi e per
la nostra salvezza, è disceso, si è incarnato, ha sofferto, è resuscitato il
terzo giorno, è risalito nei cieli, e verrà a giudicare i vivi e i morti. E
crediamo nello Spirito Santo. Quanto a coloro [ariani] che dicono: tempo vi fu
in cui egli non era, o che non era prima d'esser statà generato, o è nato dal
nulla, o è di un'altra ipostasi o di un'altra sostanza, o che il Figlio di Dio
è creato (x-tLa't6v ), o mutevole, 304 o sottomesso al cangiamento,
tutti costoro la Chiesa cattolica e apostolica di Dio li anatemizza. d) Dalla
religione di Stato di Giuliano imperatore al Cristiane- simo religione di
Stato. Il "neoplatonismo" di Giuliano e la funzione del mito.
Sa/lustio. L'Impero d'Occidente tra il IV e il V secolo. Alla morte di
Costanzo, avvenuta nell'ottobre del 361, in Asia Minore, unico imperatore fu
riconosciuto il cugino di Costanzo, Flavio Claudio Giuliano/0 nato nel 331,
figlio di Giulio Costanzo, fratello di Costan- tino l. Il padre e i fratelli di
Giuliano, tranne Gallo, erano tutti caduti vittime delle stragi familiari
perpetrate da Costanzo. Anche Gallo, scampato alle prime stragi, insieme a
Giuliano, verrà condannato a morte da Costanzo al tempo in cui l'imperatore,
per venire a com- battere Magnenzio (cfr. sopra), aveva nominato Gallo, Cesare
per l'Oriente. Gallo, sospettato da Costanzo d~ volersi impadronire del trono
in Oriente, fu fatto uccidere nel 354. Costanzo, allora, tornato in Oriente, fu
costretto a nominare Cesare Giuliano, mandandolo nelle Gallie (355) ad
ostacolare le pressioni dei Franchi e degli Alemanni. Alla morte del padre e
degli altri fratelli (337), Giuliano aveva sei anni. Insieme al fratello Gallo
fu dal sospettoso Costanzo tenuto semi- prigioniero ed affidato ad Eusebio
vescovo di Nicomedia che lo allevò nella piu ferrea disciplina cristiano-ariana
e nell'odio contro le religioni e le culture non cristiane. Morto Eusebio
(342), i due fratelli vennero relegati in una villa della Cappadocia, ove
ebbero per maestri ferventi cristiano-ariani, ligi agli ordini impartiti da
Costanzo, che non voleva che i due giovani conoscessero e leggessero i grandi
autori dell'anti- chità. Uno dei maestri di corte, tuttavia, un certo Mardonio,
in segreto fece leggere a Giuliano alcune opere di poeti e di filosofi greci.:t:
facile rendersi conto di come tutto un mondo nuovo (e proibito) si aprisse in
tal modo a Giuliano, oppresso dall'insegnamento cristiano voluto dall'alto e
proveniente da uomini ch'erano suoi nemici. Nel 10 Sulla vita di Giuliano
(Flavio Claudio), nato a Costantinopoli nel 311, morto, in battaglia, il 26
luglio del 363, per ciò che qui interessa, confronta sopra, il testo. Di
Giuliano si sono conservate le seguenti opere: Orazioni, I-VIII:
particolarmente importanti sono l'Orazione IV al rt: Elios, l'Orazione V alla
Dt:a maàrt:, l'Orazione VI Contro i cinici ignoranti, in cui si difendono gli
antichi cinici, l'Orazione VII Contro il cinico Eraclio, l'Orazione VIII
Consolatoria pt:r la partt:nza di Sallustio, l'Orazione II Sul sovrano idt:alt:
(furono scritte in epoche diverse: le Orazioni I e III, panegirici di Costanzo
Il e di Eusebia, nelle Gallie, tra il 355 e il 356; l'Orazione II, nell'inverno
358-359; l'Orazione VIII nel 361; le Orazioni V! e VII nel 362; le Orazioni IV'
e V sulla fine del 362); Lettt:rt:: agli Att:nit:si (in numero di 4, scritte
nell'autunno del 361) e al filosofo Tt:mistio (del 362); l Cuari; Misopogon;
numerose lt:ggi. Tra i molti fram- menti di opere perdute particolarmente
interessanti quelli dello scritto Contro i Cristiani e di una lettera ad un
sacerdote. Sono andati perduti un libro Sulla battaglia di Strasburgo e le
Lt:ttt:rt: ai Corinti, ai Laet:dt:moni, al St:nato di Roma. 305
Cristianesimo, da allora, Giuliano vide da un lato una religione fana-
tica, torbida, chiusa in discussioni teologiche assurde, oppressive, dal-
l'altro lato lo strumento di un potere politico che nella sua intolleranza - di
questi anni, tra l'altro, è l'opera di Firmico Materno, in cui si chiede
all'imperatore Costanzo la distruzione e la persecuzione dei pagani - avrebbe
annullato la possibilità di una religione universale, ove trovassero il loro
posto le varie religioni e culti, espressioni tutte di un unico e naturale
sentimento religioso. Nominato Gallo Cesare, Giuliano era stato chiamato da
Costanzo a Costantinopoli perché vi compisse gli studi superiori, ma sotto la
guida del rètore cristiano Ecebolio, noto come il "dispregiatore degli
dèi." A Nicomedia, dove, poco tempo dopo, Costanzo volle che Giuliano
tornasse, Giuliano, in segreto - ufficialmente si finse fervido cristiano,
entrando perfino nel clero di Nicomedia - prese contatto con il celebre rètore
Libanio (di Antiochia, vissuto dal 314 al 393 circa), del quale leggeva le
lezioni, passategli da un uomo ch'egli aveva prezzolato a tale scopo. Attra-
verso Libanio - il quale dirà poi che Giuliano aveva compreso meglio di coloro
che lo avevano ascoltato il significato del suo insegnamento, del platonismo,
della religiosità greca - e attraverso l'insegnamento dd neoplatonico Massimo
di Efeso (cfr. sopra), che, in segreto, andò a trovare ad Efeso, Giuliano si
approfondi nella lettura dei poeti, dei filosofi, nella scienza magica e
teurgica· (per i rapporti tra Giuliano e i filosofi della scuola neoplatonica
di Pergamo e di Siria, cfr. sopra), nei segreti degli Oracoli Caldaici (cfr.
sopra). Morto Gallo, nominato_Cesare e inviato nelìe Gallie, Giuliano sgo-
mento dapprima di dovere affrontare la vita pratica, militare, politica
("non è affar mio," esclamò, "hanno messo la sella su di una
vacca"), si dimostrò abile condottiero (nel 35.7 sconfisse ad Argentorati
gli Ale- manni), e diplomatico (riusd ad accordarsi con i Franchi), mentre si
adoperava a sanare contrasti politici e ideologici, sostenendo il valore di un'unica
intesa nella coscienza di un'unica cultura e tradizione, messa in discussione
dall'unilateralità e dall'esclusivismo dei Cristiani. Costan- zo nel 359,
preoccupato per l'attacco ai territori romani da parte di Sapore II di Persia
ch'era riuscito a passare in forze il Tigri, chiese a Giuliano aiuti. Giuliano,
intanto, aveva promesso ai barbari incamerati nel suo esercito che non avrebbe
mosso dalla Gallia i Galli. Costanzo premette. In Gallia scoppiò una rivolta
contro Costanzo e Giuliano fu acclamato Augusto. Giuliano chiese a Costanzo di
riconoscerlo Augusto. Costanzo tacque. Giuliano si mosse verso l'Illiria.
Costanzo decise allora di andargli incontro, ma durante il viaggio,
nell'ottobre del 361 morL Giuliano fu riconosciuto allora unico Imperatore. È sembrato
opportuno, sia pur brevemente, discorrere della vita e 306 della
prima formazione di Giuliano perché ciò spiega, in parte almeno,
l'atteggiamento non cristiano del cristiano Giuliano, e le sue piu pro- fonde
ragioni. Non sembra cosi errato dire che la religiosità di Giu- liano, la sua
esigenza di una pacificazione cattolica, l'esigenza di certo cristianesimo
stesso, nel quale non a caso Giuliano fu allevato, sta nella conversione di
Giuliano, nella cosiddetta apostasia di lui, nel suo negare il Cristianesimo
come unica e vera religione. In Plotino, invece, mediato attraverso Giamblico,
Giuliano vedeva la possibilità di un'au- tentica religione universale
razionalmente fondata, capace di accogliere in sé i miti e le religioni della
tradizione greco-romana, anche il Cri- stianesimo, in quello ch'era l'aspetto
piu plotinico (non ariano) del Cristianesimo, pur sapendo che tali religioni
sono in realtà miti, ma simbolicamente validi ad avviare alla comprensione
degli dèi e delle divinità, momenti, estrinsecazioni dell'unica legge divina
(di qui, an- cora una volta, entro l'àmbito del neoplatonismo, il significato
dato da Giuliano all'elioteismo e all'antico culto della Dea madre: cfr. in
par- ticolare le Orazioni IV, al re Elios e V alla Dea Madre degli Dèi; sul
significato dei miti cfr. in particolare l'Orazione VII, contro Eraclio). Entro
questa visione di un tutto ordinato, si scandiscono dall'Uno tutti gli aspetti
della realtà. Oltre tutto l'Uno, ragion d'essr:re del tutto, esso è il
sovraintelligibile, l'Idea degli esseri, il Bene: "questo invero, sia che
dobbiamo designarlo come ciò che sta oltre l'Intelletto, oppure come l'Idea
dell'Essere, intenderrdo cosi tutto il mondo intelligibile, o chiamiamolo anche
l'Uno, per il motivo che l'Uno sembra in qual- che modo anteriore a tutte le
cose, oppure per usare il termine solito di Platone, il Bene, appunto questa
causa uniforme di tutte le cose è fonte per tutti gli esseri di bellezza, di
perfezione, di unità e di po- tenza irresistibile" (Al re Elios, 132d). La
prima distinzione dell'Uno è l'Intelletto, nei suoi due momenti dialettici, in
senso giamblicheo, di mondo intelligibile - mondo delle idee - e di mondo
intellettuale - le attività pensanti, - donde gli dèi intelligibili, di cui
primo, figlio del Bene, secondo il mito platonico, è il Sole, e da questi gli
dèi intel- lettuali, al di sotto dei quali si scandiscono il mondo sensibile,
le divi- nità visibili, gli astri, il tutto tenuto in unità, simbolicamente dal
Sole, riflesso dalla luminosità dell'Uno, che dà essere, vita e intelligi-
bilità a tutto, onde il dio Sole è termine medio· tra il mondo intelli- gibile
e il mondo sensibile, mediante cui la luminosità dell'Uno si viene, per cosi
dire, materiando nella luce di cui tutto è costituito. La luce alla sua volta è
una forma di questa per cosf dire materia, che.è sostrato e segue l'estensione
dei corpi luminosi. E della luce stessa che è incorporea i raggi sarebbero in
certo qual modo il vertice e come il fiore. 307 E appunto secondo
l'opinione dei Fenici che sono sapienti e informati nelle cose divine:, lo
splendore luminoso ovunque diffuso è la incontaminata estrin- secazione attiva
del puro Intelletto... Il mondo intelligibile forma assolutamente un'unità,
preesiste dall'eterno a ogni cosa e tutto abbraccia insieme nella sua unità. E
non è forse anche l'intero universo un solo organismo vivente, tutto ripieno
d'anima e di spirito, un tutto perfetto costituito di parti perfette? [cfr.
Timeo, 33a]. Vi è dunque una duplice perfezione unificatrice, cioè quella unità
che comprende nell'uno tutto ciò che esiste nel mondo intelligibile e quella
che intorno al mondo visibile si concentra in una sola e medesima perfetta
natura. Nel mezzo sta la perfezione unificatrice di Elios Re, la quale risiede
tra gli dèi dotati di intelletto. E successivamente nel mondo degli dèi
intelligibili vi è una specie di forza avvincente che tutte le cose coordina
verso l'unità. La sostanza del quinto elemento che si muove nella propria
orbita tiene riunite tutte le parti e le stringe tra loro... Queste due
sostanze che cooperano alla connessione, delle quali l'una appare nel mondo
intelligibile, l'altra nel sensibile, Elios Re le congiunge in una sola... (A
Elios, 134a-139b-c). Entro questa visione di un tutto ordinato, dall'Uno ai
molti, limiti e ombre nell'unità luminosa del tutto, ove, indipendentemente da
qual- sivoglia intervento miracoloso, l'anima, per limitata che sia, per presa
che sia dalle cose, per dimentica che sia della sua origine, ha pur sempre in
sé una scintilla divina, è un seme dell'unico Dio, di tutti padre ("certo
io invidio pure la sorte fortunata di ~olui che poté avere dalla divinità un
corpo costituito da un seme divino e profetico,... ma so anche che di tutti gli
uomini Elios è il padre comune": A Elios, 131b-c), ricordandosi del quale
può, con le sue forze, purificarsi, tor- nare da dove è venuta. Di qui
l'appello di Giuliano a una serietà di vita, da un lato intesa come mestiere e
dovere, in. una ideale vita stoico- cinica (non a caso Giuliano ne I C~sari si
sofferma con simpatia sulla vita e sull'opera di Marco Aurelio, ch'egli prende
a modello del suo mestiere di imperatore, mentre si compiace di ·ricordare i
cinici del tempo antico: cfr. Oraz. VII Contro il cinico Eraclio e Oraz. VI
Contro i cinici ignoranti, in difesa dell'antico cinismo), dall'altro lato come
purificazione, mediante cui liberarsi dai limiti terreni, riscoprire l'anima,
riconducendola, anche attraverso pratiche magico-teurgiche (cfr. sopra il
significato piu profondo é nient'affatto torbido della magia e della teurgia),
alla patria celeste donde è venuta. Il che non signifi- cava per Giuliano
negare il Cristianesimo, particolarmente il çristia- nesimo non ariano, in
quanto religione, ma si in quanto unica e vera religione, non mitica come le
altre, nella sua pretesa d'essere l'unica verità rivelata da Dio (si vedano i
frammenti dello scritto Contro i Cristiani, ove riprendendo gli argomenti di
Celso e di Porfirio con molta acutezza Giuliano, confrontando il Vecchio e il
Nuovo Testa- mento con la teologia greca, cerca di mostrare da un lato le
contrad- dizioni del Vecchio e del Nuovo Testamento, e il loro significato se
assunti anch'essi come miti popolari, dall'altro lato data la loro parzia-
lità, la loro intolleranza esclusivistica, l'impossibilità che sul Cristiane-
simo si fondi una religione universale, tale da pacificare e moraliz- zare, in
unità, gli aspetti molteplici in cui si presenta la vita religiosa nei suoi
culti diversi). Di qui sul piano politico di una organizzazione religiosa, di
contro all'intolleranza cristiana, la tolleranza di Giuliano, anche nei
confronti della religione cristiana; Giuliano, sotto questo aspetto, non
condannò né perseguitò i Cristiani, mantenendo validità legale all'Editto di
Milano (313). Volle solo, proprio in nome di quel- l'Editto, che anche i
Cristiani rientrassero nell'ordine, si adeguassero ad essere considerati come
facenti parte di una certa religione, posta, al pari delle altre, entro i
termini dell'unica organizzazione politica delle varie religioni,
nell'istituzione - a imitazione dell'organizzazione ecclesiastica cristiana -
di un vero clero professionale e di una gerar- chia religiosa, ignota ptima di
allora alle religioni greco-romane. Si capisce cosi come una delle prime misure
prese da Giuliano sia stata quella di far tornare nelle loro sedi tutti coloro
che per motivi reli- giosi erano stati esiliati da Costanzo (tra questi vi fu,
in principio, anche Atanasio) e che fossero restituiti ai legittimi proprietari
i beni confiscati per motivi religiosi (di ciò godettero particolarmente i
templi pagani ai quali erano stati tolti tesori, terre, edifici, passati a
comunità cristiane). Giuliano, infine, decretò la chiusura delle scuole rette
da grammatici, rètori, filosofi cristiani (Editto del 362), sostenendo che il
loro unilaterale insegnamento, il loro escludere poeti e filosofi antichi era
un danno per l'insegnamento stesso, per la libera ricerca. Naturalmente tutto
ciò apparve da parte cristiana una persecu- zione, mentre molti che in precedenza
erano stati danneggiati dai cri- stiani, sentendosi appoggiati dall'Imperatore,
si dettero a vendette che portarono anche all'uccisione di non pochi cristiani
(ad Alessandria la folla uccise il vescovo Giorgio). In realtà, l'intento di
Giuliano non fu un mero ritorno al pas- sato, come troppo superficialmente è
stato detto, giudicando solo dal punto di vista della reazione cristiana, non
fu un'accademica restaura- zione di culti e religioni morti da tempo. Esso fu
piuttosto - anche se in termini eccessivamente scolastici,...... dettato
dall'esigenza profonda, com- prensiva di una situazione storico-culturale ben
precisa, di una pacifica- zione di ideologie, fomite di lotte e di conflitti,
in una comune religione di Stato, entro cui potessero convivere in armonia
culti e riti diversi, ri- spondenti tutti ad un'unica naturale religione, che
Giuliano, sulla scia dei 309 suoi amici neoplatonici di Pergamo e
di Siria, vedeva realizzabile entro i termini della filosofia
plotinico-giamblichea, corposamente e mitica- mente traducibile nei termini
della religione solare. Non solo, ma un'at- tenta lettura delle opere di
Giuliano, se da un lato rivela il suo intento politico, di instaurare una
religione di Stato, in nome della tolleranza, riportando con ciò anche il
Cristianesimo entro i termini legali (tale il significato del mantenimento
dell'Editto di Milano), dall'altro lato rivela come Giuliano si sia mos-so
entro l'àmbito di quella koinè cultu- rale di cui parlavamo e per cui non poche
volte è difficile - e non solo per Giuliano - distinguere tra testi che poi
nelle loro conclu- sioni sono nettamente cristiani, da testi che nelle loro
conclusioni sono irriducibili alla visione ed alla concezione cristiana. E ciò
particolar- mente vale sia quando si tratta di immagini (in special modo quelle
tratte dalla luce), sia quando si tratta della superessenzialità dell'Uno Dio.
E cosi, che gli dèi di Giuliano, sulla linea stoica e neoplatonica, siano
intesi come simboli e che i culti e le descrizioni delle religioni siano intesi
come miti, senza di cui in realtà le religioni stesse non sarebbero, e che dèi
e miti vadano interpretati allegoricamente, risulta non solo dallo stesso
Giuliano, ma, piu chiaramente· ancora, da una breve opera, Sugli dèi e sul
mondo, di un intimo amico di Giuliano, Sallustio,11 che con molta finezza
discute il significato del mito, entro l'àmbito di una precisa concezione
neoplatonica e solare. Gli dèi (en- cosmici e ipercosmicz) sono considerati
come emanazioni e "forze" visibili che derivano dall'invisibile Unico
Dio, causa delle cause, super- essenziale, potenza assoluta, entro cui si
scandisce in eterno il ritmo di tutta la realtà (coeterno a Dio e in Dio è
decisamente detto il mondo), unico mondo, molteplice e uno nell'Uno, e dove il
"male," 11 Si è per secoli molto discusso sull'autore del breve
trattato D~gli dèi ~ del mondo. Si è sostenuto che fosse opera di un cinico
sofista del v-vi secolo (Sallustio di Emesa); il Naudé pensò si trattasse di un
tardo autore stoico; il Wilamowitz di un Sallustio grammatico, autore di
argomenti sulle tragedie di Sofocle; infine, da Orelli a Mullach, a Cumont, a
Tillemont, si è sostenuto trattarsi di un Sallustio, alto funzionario dell'Im-
pero e amico intimo di Giuliano Imperatore. Poiché intorno a Giuliano ruotarono
due Sallusti, Flavio Sallustio e Secondo Sallustio, il primo prefetto delle
Gallie, il secondo pre- fetto d'Oriente, si è trattato di accertare a quale dei
due debba darsi la paternità Degli d~ e del mondo. Se il Cumont propendeva per
il primo, spiegando l'epiteto di filosofo riportato da tutta la tradizione
manoscritta del trattatello con una cattiva lettura dell'ab- breviazione ~À =
~Àa:~(ou per ~~Àocr6cpou; dopo che la pubblicazione della raccolta delle
Iscrizioni dell’Hermann Dessau (“lnscriptiones latinae selectee”, I, Berlino, p.
276) ha permesso una ricostruzione esatta della carriera e delle mansioni
presso Giuliano dell'uno e dell'altro Sallustio, ci si è convinti che il
Sallustio autore del trattato Degli dèi e del mondo, è Secondo Sallustio
ch'ebbe molti piu contatti con Giuliano, il cui scritto è senza dubbio ispirato
alle opere filosofiche di Giuliano, tanto che si è fatto l'ipotesi che il Degli
dèi e del mondo sia stato composto nel 362 (si confronti in particolare G.
Rochefort, ln- troduction à Saloustios: Des di~u:r et du m'ar:de, texte établi
et traduit par G. R., "Les Belles Lettres," Parigi)] si come la
materia, non ha alcuna realtà positiva, ma è dovuto all'in- comprensione umana,
all'ignoranza, all'unilaterale visione del tutto esteriorizzata ("non
esiste alcun male positivo, si come non v'è alcuna oscurità positiva, ma solo
mancanza di luce": Sallustio, XII, l) (Per l'importanza storica e per il
significato anche politico, in funzione della politica di Giuliano, di questo
libro di Sallustio, che il Murray ha definito una "sorta di credo
ragionato, per fissare in modo convin- cente le linee generali della...
religione ellenica," rimandiamo allo stesso Murray, Five Stages of Greek
Religion, New York, 1955, e a G. Roche- fort, lntroduction à Saloustios, Des
dieux et du monde, texte établi et traduit par G.R., Parigi) Il tentativo di
Giuliano non rimase un mero episodio, anche se alla sua morte, avvenuta in
battaglia, nel 363, nella guerra contro i Persiani, con la nomina a imperatore,
nel 364, di Gioviano, cristiano, crollò subito l'edificio da lui creato di un
sacerdozio professionale del- l'unica religione di Stato. Sia pure in termini
rovesciati, cioè nel soprav- vento della religione cristiana, si giunse,
necessariamente, alla procla- mazione dell'unica religione dell'Impero (sotto
Teodosio l, trent'anni circa dopo la morte di Giuliano). In realtà, la stessa
concezione reli- giosa di Giuliano, la sua comprensione della necessità
politica di una religione universale, che egli vedeva compromessa
dall'intolleranza del Cristianesimo, erano piu vicine di quel che possa
apparire a prima vist~ alle esigenze ed alla situazione politico-sociale cui,
almeno in Occidente, rispondeva la forza interna - morale, organizzativa,
economica - del Cristianesimo. E cosi fu. La nota decadenza politico-militare
implicò una sempre piu drammatica tragedia economica. Basti ricordare che
proprio in questo tempo si venne formando un sistema di rapporti fondato
sull'economia chiusa e sul servaggio. Gli stipendi, i tributi e cosi via
cominciarono ad essere pagati in natura (moneta l'ebbero solo funzionari e
militari d'alto grado). In un sempre maggiore aggravio fiscale per venire
incontro alle spese militari, per evitare che le popo- lazioni non pagassero le
imposte, si venne via via costringendo cia- scuno a non trasferirsi piu dalle
terre sulle quali lavorava. Il commer- cio si venne estinguendo, o riducendo in
prevalenza al solo mercato urbano. Naturalmente le poche forze economic~e
rimaste si vennero raccogliendo nelle mani dei grossi proprietari terrieri, che
vennero costi- tuendo come tanti piccoli stati nello Stato che di fronte a loro
·non aveva piu potere. In tale tipo di economia, già feudale, il potere dello
Stato venne sempre piu spezzandosi nelle mani di ciascun singolo proprietario.
Fuggire via dall'Impero, presso i barbari, o, se possibile, raccogliersi sotto
la protezione dei proprietari, sembrò il mezzo mi- gliore per evitare lo Stato,
che, in effetto, non esisteva piu. E intanto - scrive Salviano nel v secolo - i
poveri, le vedove e gli orfani, spogliati e oppressi erano giunti a un punto di
disperazione tale che molti, pur appartenendo a famiglie note e avendo ricevuto
una buona educazione, erano costretti a cercare rifugio presso i nemici del
popolo romano per non rimanere vittime di· ingiuste persecuzioni. Essi si
recavano presso i barbari in cerca dell'umanità romana, poiché non potevano
sopportare presso i Romani l'inumanità barbara. Sebbene essi fossero estranei,
per costumi, per lingua, ai barbari presso i quali fuggivano, sebbene fossero
colpiti dal loro basso livello di vita, nonostante tutto risultava loro piu
facile abituarsi ai costumi barbari che sopportare la ingiusta crudeltà dei
Romani. Essi si mette- vano al servizio dei Goti o dei Bagaudi [coloro che in
Gallia, particolarmente contadini e schiavi, avevano costituito un forte e
autonomo movimento anti-romano: in celtico “bagaudi” significa
"combattenti," "lottatori"], e non se ne pentivano,
preferendo vivere liberamente con il nome di schiavi, piuttosto che essere
schiavi mantenendo soltanto il nome di liberi (De gubernatione Dei, V). Chi non
poteva andar via prefer1 rifugiarsi presso i grandi proprie- tari terrieri.
Tale decadenza e tale crisi portarono dietro a sé la sempre piu sentita esigenza
di un potere gerarchicamente costituito. La chiesa, almeno in Occidente, sia
per la sua organizzazione e gerarchizzazione, sia per essere divenuta tra i
proprietari uno dei piu grandi, sembrò offrire l'unica possibilità di
salvazione, da un lato accogliendo nel suo seno (clero), dall'altro lato proteggendo
il popolo cristiano (laici), sosti- tuendosi cosi al potere centrale, oramai in
realtà inesistente. Non a caso, alla fine, Teodosio I (378-395) proclamò nel
380, con un editto, che l'unica religione dell'Impero doveva essere
"quella che il divino apostolo Pietro aveva trasmesso ai Romani,"
decretando perciò illegali tutte le altre religioni, che vennero perseguitate e
i cui beni vennero confiscati, mentre i templi venivano distrutti. Dopo
Teodosio, con il definitivo rompersi dell'Impero in due, con l'effettivo
esaurirsi del po- tere politico in Occidente e con il lento prevalere dei
barbari, con la caduta di Roma (410), tanto piu evidente sembra la linea
attraverso cui. l'Impero di Roma si trasformò nell'Impero cristiano-barbarico,
fino ad una sua qual sistemazione con Teodorico. Dopo la morte di Giuliano,
intanto, ripreso il sopravvento il Cri- stianesimo, in seno alla Chiesa piu
violenti si fecero i contrasti tra ariani e ortodossi, in un conflitto che mise
a repentaglio l'unità della Chiesa. Non a caso, proprio per il pericolo che
l'unità della Chiesa si rompesse, determinando piu religioni, piu fedi,
esaurendo cosf le sue forze politiche, Ottato di Milevi, cattolico africano,
sia pure in forma paradossale, combattendo contro la tesi donatista, sostenuta
da Parme- niano, vescovo donatista di Cartagine, in un suo libro contro i
catto- [ !ici, secondo cui la religione cristiana nulla deve
concedere allo Stato, rimanendo esperienza di pochi eletti, profondamente
personale e indi- viduale, poteva esclamare che, invece, la Chiesa doveva
divenire lo Stato, anche a costo di subordinarsi allo Stato (De schismate Dona-
tistarum, III, 3: il De schismate fu composto nel 365 circa). Ancora una volta,
conflitti teologici rispecchiano piu profondi e aspri conflitti politici. Entro
questi termini, nella polemica tra atanasiani e ariani, assunse un suo
particolare significato il rifarsi o meno alla concezione
neoplatonica-plotinica, mediante cui si venne delineando una piu pre- cisa
koinè culturale. Di qui l'interesse di vedere ora, sia pur nelle sue linee
essenziali, l'ultima formazione di tale koinè culturale, le sue com- ponenti,
il conflitto tra ortodossi e ariani, la diffusione di un certo
"neoplatonismo" in Occidente, il costituirsi del neoplatonismo di
Ales- sandria e di Atene, insieme alla funzione data ai repertori e alle sil-
logi, e particolarmente a certi ben precisi testi di Aristotele e della logica
del primo stoicismo. Caio Mario Vittorino. Firmico Materno. Teone di
Alessandria. \.ltrettanto fondamentali, relativamente all'area di lingua
latina, furono, ntro i termini della preparazione culturale e per la
circolazione di:lee e di testi in Occidente, gli scritti di Mario Vittorino. E
qui va:nuto presente che Mario Vittorino 8 - nato in Africa, nel 300 circa, 8
Caio Mario Vittorino, nato nell'Africa proconsolare verso il 300, muore a Roma
lal 362 circa si perdono le sue tracce). Maestro di grammatica e di retorica
prima in Erica, a Roma poi, dove godette di notevole fama (gli fu eretta una
statua nel foro 1iano: cfr. Agostino, Confessioni), nel 355 si conveni al
Cristianesimo (sulla sua cun- rsione cfr. la celebre pagina delle Confessioni
di Agostino: VIII, 4). Nel 362, per il creto di Giuliano, che proibiva ai
Cristiani d"insegnare retorica, fu costretto a chiudere sua scuola. Di lui
restano: “Ars grammatical”; Commento al "De inventione" di Cicerone;
De] e formatosi in quelle celebri scuole di retorica - fu innanzi tutto maestro
di retorica, prima in Africa, poi, al tempo di Costanzo in Roma, dove ebbe
numerosi discepoli di alto lignaggio, dove sali in grande fama; tanto che, in
suo onore, fu eretta una statua nel foro traiano (cfr. S. Agostino,
Confessioni, VIII, 2, 3). In parte all'epoca dell'insegnamento in Africa e in
parte all'epoca del primo insegnamento a Roma, risalgono le opere di Vittorino
a carattere grammaticale, retorico, logico-retorico. Tali opere, anzi, vanno
vedute entro l'àmbito dell'insegnamento della retorica e in funzione di quello,
ed è entro i termini dell'insegnamento delle scuole grammatico-retorico-logiche
latine, entro il loro aspetto scolastico formale che assumono un loro particolare
significato. Se cosi da un lato Mario Vittorino, inteso a formare uomini di
cultura, compone un'”Ars grammatical” e commenta il “De inventione” e i “Topici”
di Cicerone, dall'altro lato traduce il “De interpretation” e le “Categorie di
Aristotele”, di cui fece anche un commento, componendo inoltre due scritti di
logica, il “De definitionibus” e il “De syllogismis hypotheticis”, mentre
traduce I'“Isagoge” di Porfirio. Tutti questi scritti e le traduzioni delle opere
piu grammatico-formali della logica aristotelica, rivelano molto chiaramente
che lo studio e l'insegnamento di Vittorino sono volti a determinare i quadri
dei possibili discorsi, le condizioni su cui fondare, mediante le definizioni,
sulle quali si basa l'accordo, un tipo di discorso, coerente in sé, e perciò
verace, mediante cui convincere. Di qui l'importanza data da Vittorino da un
lato al metodo retorico-filosofico di Cicerone e, dall'altro lato, al
sillogismo ipotetico di origine teofrasteo-stoica, e, perciò, in quanto studio
delle forme grammatico-linguistiche che permettono i giudizi, alle “Categorie” e
al “De interpretation” di Aristotele, che non a caso Vittorino considera secondo
l'aspetto formale a cui da l'avvio I'Isagoge di Porfirio, interpretata in
chiave ciceroniana. Sotto questo aspetto, le tecniche dei discorsi, le loro
strutture, intrinsecamente necessarie, costituentesi, attraverso le
definizioni, in quadri (topoi), e in sillogismi, sono neutre, indipendenti da
quelle che possono essere le strutture della realtà. Negli anni del suo
insegnamento, in Africa, e nei primi a Roma, sembra che Vittorino apertamente
·si opponesse al gratuito passaggio definitionibus; la cosiddetta Enneade di
Vittorino, composta di nove opere teologiche: tre trattati contro gli ariani
(Contro Ario; Della generazione del Verbo divino; De homoousio recipiendo); tre
inni sulla Trinità (del 360); tre commenti alle Epistole di Paolo ai Galati,
agli Efesini e ai Filippesi (dopo il 360). Perdute sono andate le seguenti
opere: il Commento ai Topici di Cicerone, la traduzione delle Categorie e del
De interpretatione di Aristotele, la versione dell'Isagoge di Porfirio
(ricostruibile attraverso la discussione che ne fece BOEZIO), la versione di parte
almeno delle Enneadi di Plotino, il De syllogismis hypotheticis] del
Cristianesimo dal piano logico al piano della FONDAZIONE DEL DISCORSO su di un
atto volontario e irrazionale. Solo che la lettura dei testi biblici; fatta da
Vittorino, testimonia Sant'Agostino (Confessioni, VIII, 2 sgg.), per dimostrare
la contraddittorietà della tesi ebraico-cristiana e per altro verso l'incontro,
in Roma, con i libri dei neo-platonici (sembra che Vittorino abbia tradotto
alcuni testi di Platone e, forse, le Enneadi di Platino, su cui si sarebbe poi
formato Sant'Agostino), lo avrebbero condotto a questa triplice considerazione.
La retorica, valida appunto finché è neutra, se tale resta risolvendo tutta la
realtà in parole, si taglia dietro ogni possibilità di comprensione del vero,
di contatto con il senso della realtà. Nell'insegnamento neo-platonico si trova
che LA CONDIZIONE STESSA DEL DISCORSO si coglie in una conversione dell'anima
su se stessa rivelante alla fine che quella condizione è la fondazione stessa
del tutto che trascende dal di dentro. Si riconosce alla fine, che la
possibilità della conversione, dell'anima che ritrova se stessa, la capacità
del riscatto dal limite, è dovuta alla rivelazione, all'intervento del Cristo.
Vittorino si fece cristiano, pubblicamente smentendo il se stesso dei primi
anni, in Roma (cfr. S. Agostino, cit.). Dopo di allora, obbligato, poi, a
chiudere la sua scuola dalla legge di Giuliano, nel 362, si apparta dalla vita
pubblica, dedicandosi esclusivamente da un lato a commentare le Lettere di
Paolo ai Galati, agli Efesini e ai Filippesi, dall'altro lato a giustificare,
usando le tesi neo-platoniche sull'Uno, il dogma della Trinità e della
consustanzialità, di contro alla tesi, logicamente sostenuta, dell'ariano
Candido. Di qui le ultime opere di Vittorino: “Della generazione del Verba
divino”, in risposta alla Generazione divina di Candido (lucida operetta in
cui, sulla scia di Eunomio, si sostiene, ammesso Dio assoluto e perfetto,
ingenerato e immobile, che impossibile, logicamente contraddittorio è ammettere
che il Verba di lui sia ad un tempo generato e ingenerato, e quindi ad un tempo
sia e non sia della stessa sostanza del Padre, sia e non sia essere); quattro
libri Contro Aria (358); un breve trattatello De homoousio re- cipiendo (360).
La risposta a Candido di Mario Vittorino, si fonda, rifacendosi al concetto di
Uno di Platino, su di un paralogismo e conseguentemente, posta una certa definizione
(non sostanziale, ma verbale), su di un sillogismo ipotetico. Se Dio è l'Essere, la ragion d'essere del
tutto, Dio è di là dallo stesso essere, indefinibile in sé, in quanto ha in sé
tutte le possibili definizioni, e, perciò tutte le possibili esistenze, anche
l'esistenza di se stesso. Prima di ogni essere, prima di ogni esistenza, unità
in cui tutto è indistinto, uno nell'uno (hoc enim unum ante on, supra omnem
existentiam, supra omnem vitam, supra omnem conoscentiam, super omne on et
pantòn 6nt6n ònta"), di Dio neppure si può dire che sia ingenerato, o meglio
ch'egli abbia una certa sostanza, un certo intelletto, neppure che è essere,
anzi, rispettiva- mente agli esseri, si può dire, forse, meglio ch'egli è non
essere (Gene- razione del Verbo divino, 12), cioè il suo essere sta nella sua
potenza di trarre fuori da sé l'essere di riconoscersi nell'essere, tutto potenzial-
mente in lui. La potenza di Dio è, allora, la sua essenza, la sua crea- zione,
onde l'essere che scaturisce dalla potenza di Dio, che è oltre l'essere,
non-essere, si genera dal non essere, da Dio, è creazione ex nihilo. Il Verbo
di Dio, dunque, il suo stesso riconoscersi, è ad un tempo generato da Dio,
figlio di Dio, ed è Dio esso stesso, in quanto esserci di Dio (Deus enim prima
causa est, non solum aliorwn omnia causa, sed sui ipsius est causa. Deus ergo a
semetipso et Deus est": 18). Come poi il Figlio sia nel Padre e il Padre
nel Figlio, e l'uno e l'altro non siano l'uno accanto all'altro, ma uno
("neque solum simul ambo, sed unwn solum et simplex") non è, dice
Vittorino, necessario ricercare. "Sed hoc non oportet qu:rrere, sufficit
enim credere" (cfr. Gilson, op. cit., pp. 124-25). Sembra ora chiaro in
che senso l'aspetto formale della retorica e della logica, la dialettic~ usata
in senso ciceroniano e stoico, la contrapposizione accademica delle ipotesi,
utile per tutti, sul piano della formazione culturale dei futuri dirigenti,
potesse ad un tempo servire a convincere della validità dell'ipotesi cristiana,
oltrepas- sando in una convinzione del fondamento non razionale della ragione,
la neutralità sofistica della retorica, senza, con questo, togliere nulla allo
studio di come funzionano i discorsi umani, di quali sono le defi- nizioni e
cosi via (e per ciò potevano servire certi scritti di Aristo- tele, si come
certi altri degli stoici). Tutto questo dovrà tener presente lo studioso di
Sant'Agostino, il cui itinerario si avvicina non poco a quello di Vittorino,
dal quale Sant'Agostino stesso confessa di aver molto ripreso, e per mezzo del
quale conobbe gli scritti di Plotino, ma anche chi vada studiando da un lato la
formazione del curricolo degli studi al principio del Medioevo (e qui pensiamo
in particolare a Boe- zio), dall'altro lato la teologia negativa nei suoi
rapporti col neoplato- nismo, in special modo entro i termini di Plotino e di
Proclo, usati in funzione cristiana, e la questione relativa del dio essere
oltre l'es- sere, non essere che da sé crea se stesso e il tutto
(interpretazione neoplatonica della "creatio ex nihilo": e qui
pensiamo agli scritti dello pseudo Dionigi, a Massimo il Confessore, per
giungere fino a Giovanni Scoto Eriugena). Ad ogni modo, Mario Vittorino ebbe
nel mondo di lingua latina una notevole influenza relativamente alla formazione
di quella koinè culturale di cui parlavamo, nel delineare, insieme a Macrobio e
a Cal- cidio, un complesso di discussioni indirizzate su certi testi di Aristo-
tele, su di un certo modo di interpretare Cicerone (già Lattanzio) e Virgilio (cfr. particolarmente i
Saturnali di Macrobio), sulla possibi- lità di riprendere Aristotele (relativamente
ai problemi del mondo sensibile e dell'anima. nei suoi aspetti vegetativo e
sensitivo), interpre- tandolo, poi, come inverantesi mediante il nooplatonismo.
Di qui, ancora una volta, sul piano dell'insegnamento scolastico e della prepa-
razione culturale, la funzione data ai repertori, alle sillogi, a certe sistemazioni
scientifiche del sapere antico. A tal proposito, per ciò che riguarda la
diffusione di certi problemi nel mondo di lingua latina e la lettura
determinante di certi testi è opportuno ricordare la traduzione in latino della
Parafrasi degli Analitici di Aristotele di Temistio, dovuta al neoplatonico
Nettio Agorio retestato, alto funzionario (fu senatore, questore, pretore,
governa- ore della Tuscia e dell'Umbria, consolare della Lusitania, proconsole:lell'Ocaia,
prefetto pretorio dell'Italia e dell'Illirico, designato console per il 385, ma
morto nel 384), amico dell'Imperatore Giuliano, non troppo tenero verso
l'irrazionalismo del Cristianesimo. E accanto al nome di Pretestato va
ricordato il nome di Firmico Materno. L'importanza di Giulio Firmico Materno piu
che nell'opera da lui scritta dopo la sua conversione al Cristianesimo, il De
errore profanarum religionum (una violenta diatriba contro il politeismo, con
cui iden- tifica tutte le posizioni non cristiane e per cui chiede agli
imperatori Costanzo e Costante di perseguitare e distruggere chi non è
cristiano), sta nell'opera pubblicata tra il 334 e il 337 dedicata a Lalliano
Mavorzio, governatore della Campaflia prima, proconsole d'Africa poi, che gli
aveva chiesto un manuale di astrologia. L'opera di Firmico, in otto libri,
intitolata Mathesis, è il trattato piu ampio di astrologia traman- dato
dall'antichità, in una sistemazione del sapere astrologico in termini neo-platonici.
Vi si difende, contro le critiche di Carneade e degli scettici, la possibilità dell'astrologia
come scienza. Se è vero che, data la limitatezza dell'uomo, legato al corpo e
alle illusioni sensibili, difficili sono i calcoli e le predizioni, è
altrettanto vero che, l'uomo, libe- randosi dalla sua sensibilità, in una
conversione dell'anima su di sé, può ritrovando l'anima simile alla ragion
d'essere del tutto, ripercor- rere le trame su cui tutto si scandisce, e può,
perciò, ricostruendo l'or- dine e la necessità in cui tutto, dai cieli, alle stelle,
alla terra, alle cose Giulio Firmico Materno, di origine siciliana, avvocato,
vir consularis, senatore, tra il 334 e il 337, per mantenere la promessa che
aveva fatto a Lalliano Mavorzio, che lo aveva accolto con favore e amicizia al
tempo del suo governatorato in Campania, pubblica un'opera in otto libri, sull'astrologia,
intitolata “Mathesis”, dedicata, appunto, a Lalliano, allora pro-console
d'Africa (nel primo libro si difende l'astrologia dalle critiche dei
neo-accademici e di Carneade. I libri II-VIII sono dedicati alla vera e propria
astrologia. Convertitosi al Cristianesimo, scrive il “De errore profanarum religionum]
si è costituito, determinare i rapporti e le influenze stellari, in calcoli e
previsioni, matematicamente esatti, mediante' cui, nell'ascesa del- l'anima
fino alla divinità, ci si può liberare dai vincoli fatali, dalle influenze
stellari che provocano le nostre passioni e i nostri impulsi malvagi (libro 1).
Infine, sempre sul piano della preparazione culturale e della diffusione delle
idee, merita il conto ricordare, entro la linea della grande tradizione
matematico-astronomica di Alessandria, il Commento alla Sintassi di Tolomeo e
l'edizione delle opere di Euclide a cura di Teone di Alessandria, vissuto ad
Alessandria tra il 335 e il 400, padre dell'altrettanto celebre Ipazia, una
delle maggiori rappresentanti del neo-platonismo logico di Alessandria, maestra
di Sinesio, morta vittima della reazione cristiana, nel 415, su istigazione del
vescovo Cirillo. Francesco
Adorno. Keywords: Filosofia italica, scuola di Crotone, scuola di Velia,
Girgenti, Parmenide, Zenone. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Adorno” – The
Swimming-Pool Library.
Grice ed Adriano
– Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Epistle of
Adrian1916 in behalf of the Christians. I have received the letter
addressed to me by your predecessor Serenius Granianus, a most illustrious man;
and this communication I am unwilling to pass over in silence, lest innocent
persons be disturbed, and occasion be given to the informers for practising
villany. Accordingly, if the inhabitants of your province will so far sustain
this petition of theirs as to accuse the Christians in some court of law, I do
not prohibit them from doing so. But I will not suffer them to make use of mere
entreaties and outcries. For it is far more just, if any one desires to make an
accusation, that you give judgment upon it. If, therefore, any one makes the
accusation, and furnishes proof that the said men do anything contrary to the
laws, you shall adjudge punishments in proportion to the offences. And this, by
Hercules, you shall give special heed to, that if any man shall, through mere
calumny, bring an accusation against any of these persons, you shall award to
him more severe punishments in proportion to his wickedness.Addressed to
Minucius Fundanus. [Generally credited as genuine.] Adriano was proud of
reminding his frineds that the infamous philosopher, Apollonius, a member of
the Accademia, had predicted his ascendancy to power on the mere basis of a
mere oracle. However, Adriano’s successor
shed doubts about his historicity – Apollonius’s, not Adriano’s!
Grice ed Agamben – nudi – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice: “Agamben is a terribly complex
philosopher, and a fascinating one – he has philosophised on things I did:
‘fantasma,’ as used by Aristotle in ‘Interpretatione,’ the unsaid and the
unsayable (indicible), that Aganbem might apply to ‘il ragazzo’ – or
‘fanciullino’ – he has philosophhised on ‘love’ (amore – eros – idea dell’amore
– and semiology of the sphynx, imagine, and imagine perverse – the use of
bodies (uso dei corpi) and ‘silence’ (il silenzio nel linguaggio): lingua,
iinguaggio, dialetto – verita – the sacred dimension of language in swearing –
‘sacramgneto del linguaggio – the logic of commands and the commandmets – the
power and the glory – he obviously enjoys in word play! Flosofo. D’antica
famiglia veneziana di origine armena, si laureò in Giurisprudenza nel 1965 con
una tesi su Simone Weil. Ha scritto diverse opere, che spaziano dall'estetica
alla biopolitica. A Roma, sempre negli anni sessanta, frequenta con intensità
Elsa Morante, Pier Paolo Pasolini (interpreta l'apostolo Filippo nel film Il
Vangelo secondo Matteo), Ingeborg Bachmann. Partecipa ai seminari promossi da
Martin Heidegger su Eraclito e Hegel a Le Thor. Si trasfere a Parigi, dove
frequenta Pierre Klossowski, Guy Debord, Italo Calvino e altri intellettuali,
mentre insegna all'Università Haute-Bretagne. L'anno seguente ha lavorato a
Londra, mentre dal 1986 al 1993 ha diretto il Collegio internazionale di
filosofia a Parigi, frequentando, tra gli altri, Jean-Luc Nancy, Jacques
Derrida e Jean-François Lyotard. Dal 1988 al 2003 ha insegnato alle Università
degli Studi di Macerata e di Verona. Insegnato presso l'Istituto Universitario
di Architettura di Venezia. Abbandona per protesta contro i nuovi
dispositivi di controllo imposti dal governo statunitense ai cittadini
stranieri che si recano negli Stati Uniti d'America, cioè lasciare le proprie
impronte digitali ed essere schedatil'incarico di professore illustre all'New
York. In precedenza era stato professore invitato in altre istituzioni, tra cui
l'Università Northwestern, l'Università Heinrich Heine di Düsseldorf e la
European Graduate School di Saas-Fee. In seguito "si è dimesso
dall'insegnamento nell'università italiana". Oggi dirige la collana Quarta
prosa presso l'editore Neri Pozza e organizza un seminario annuale presso
l'Parigi Saint-Denis. Tra gli autori che ha studiato e proposto: Walter
Benjamin, Jacob Taubes, Alexandre Kojève, Michel Foucault, Carl Schmitt, Aby
Warburg, Paolo di Tarso, ma anche Furio Jesi, Enzo Melandri e in genere
trattando temi di filosofia politica, biopolitica (in particolare i concetti di
stato di emergenza, esilio e autorità), mistica cristiana ed ebraica,
angelologia, storia dell'arte e letteratura. Collabora con "aut-aut",
"Cultura tedesca" e con diverse altre riviste di filosofia. In
occasione della laurea honoris causa in teologia presso l'Friburgo il 13
novembre ha pronunciato la
conferenza Mysterium iniquitatis, poi tradotta in Il mistero del male. H
ricevuto il Premio europeo Charles Veillon per la saggistica e nel il Premio Nonino "Maestro del nostro
tempo". Il pensiero di Giorgio Agamben, benché caratterizzato da una
omogeneità che copre tutto l'arco evolutivo delle sue opere, può essere per
comodità suddiviso in due momenti distinti. A fare da spartiacque è un testo
fondamentale: Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, il quale si
inscrive nelle tematiche e nel dibattito sollevati dalle ricerche di Foucault
attorno al biopotere, indagando il rapporto fra diritto e vita e sulle
dinamiche dei modelli di sovranità. La prima riflessione agambeniana
predilige tematiche estetiche, in particolar modo letterarie, nel contesto di
un grande confronto con il pensiero di Martin Heideggerche ha conosciuto
personalmente partecipando ai seminari estivi tenuti in Provenza ncon quello di
un altro filosofo a lui caro: Walter Benjamin, autore del quale curò la prima
edizione italiana delle opere complete per Einaudi, ritrovando anche un
discreto numero di testi inediti (tra cui quelli nascosti e conservati da
Georges Bataille alla Biblioteca nazionale di Francia e riscoperti da Agamben
nel 1981 tra le carte di Bataille presenti nella biblioteca); la collaborazione
con Einaudi si interruppe per sopravvenute incomprensioni con l'editore.
All'inizio degli anni novanta alcuni suoi allievi hanno fondato la casa
editrice Quodlibet. I suoi studi hanno riguardato varie tematiche, dal
linguaggio alla metafisica, approfondendo il significato dell'esistenza del
linguaggio e dei suoi limiti referenziali esogeni ed endogeni., dall'estetica
nella quale indaga sulle relazioni intercorrenti fra filosofia ed arte
chiedendosi se quest'ultima permetta una differente espressione del linguaggio
rispetto alla prima, all'etica che approfondisce le tematiche e gli aspetti
emergenti dal contesto dei lager nazisti. A sostegno del pensiero di
Agamben riguardo alla sua concezione della "nuda vita" vale infine
quanto scritto in un articolo pubblicato in data 17 marzo intitolato Chiarimenti: «È evidente che
gli italiani sono disposti a sacrificare praticamente tutto, le condizioni
normali di vita, i rapporti sociali, il lavoro, perfino le amicizie, gli
affetti e le convinzioni religiose e politiche al pericolo di ammalarsi. La
nuda vitae la paura di perderlanon è qualcosa che unisce gli uomini, ma li
acceca e separa.» Homo sacer A partire dal concetto latino di homo sacer,
la sua ricerca principale si svolge nei seguenti volumi (ripresi nell'edizione
definitiva: Homo Sacer. Edizione integrale. I. Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda
vita, II,1. Stato d'eccezione, 2003 II,2. Stasis. La guerra civile come
paradigma politico, Il sacramento del
linguaggio. Archeologia del giuramento, Il regno e la gloria. Per una genealogia
teologica dell'economia e del governo, II,5. Opus Dei. Archeologia
dell'ufficio, Quel che resta di
Auschwitz. L'archivio e il testimone, Altissima povertà. Regole monastiche e
forma di vita, IV,2. L'uso dei
corpi, Al cinema Ha interpretato il
ruolo di Filippo nel film del 1964 Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo
Pasolini. Opere: “Jarry o la divinità del riso”, in Alfred Jarry, Il supermaschio, trad. G.
Agamben, Milano: Bompiani (poi Milano: SE,) André Breton e Paul Éluard,
L'immacolata concezione, trad. G. Agamben, Milano: Forum, (poi Milano: ES).
L'uomo senza contenuto, Milano: Rizzoli, 1970 (poi Macerata: Quodlibet)
(contiene: «La cosa più inquietante», «Frenhofer e il suo doppio», «L'uomo di
gusto e la dialettica della lacerazione», «La camera delle meraviglie», «Les
jugements sur la poésie ont plus de valeur que la poésie», «Un nulla che
annienta se stesso», «La privazione è come un volto», «Poiesis e praxis», «La
struttura originale dell'opera d'arte», «L'angelo malinconico») José Bergamin,
in José Bergamín, Decadenza dell'analfabetismo, trad. Lucio D'Arcangelo,
Milano: Rusconi, (n.ed. Milano: Bompiani)
La notte oscura di Juan de la Cruz, in Juan de la Cruz, Poesie, trad. G.
Agamben, Torino: Einaudi, Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale,
Torino: Einaudi (ristampato Einaudi) (contiene: «Prefazione», «I fantasmi di
Eros», «Nel mondo di Odradek. L'opera d'arte di fronte alla merce», «La parola
e il fantasma. La teoria del fantasma nella poesia d'amore del '200»,
«L'immagine perversa. La semiologia dal punto di vista della Sfinge») Marcel
Griaule, Dio d'acqua, trad. G. Agamben, Milano: Bompiani, Infanzia e storia.
Distruzione dell'esperienza e origine della storia, Torino: Einaudi. Contiene:
«Infanzia e storia. Saggio sulla distruzione dell'esperienza», «Il paese dei
balocchi. Riflessioni sulla storia e sul gioco», «Tempo e storia. Critica
dell'istante e del continuo», «Il principe e il ranocchio. Il problema del
metodo in Adorno e in Benjamin», «Fiaba e storia. Considerazioni sul presepe»,
«Programma per una rivista») Gusto, in Ruggiero Romano, Enciclopedia Einaudi,
Torino: Einaudi, L'io, l'occhio, la
voce, in Paul Valéry, Monsieur Teste, trad. Libero Salaroli, Milano: Il
Saggiatore, nuova ed. Milano: SE; poi in La potenza del pensiero, Il linguaggio e la morte. Un seminario sul
luogo della negatività, Torino: Einaudi (ristampato Einaudi,) La fine del
pensiero, Paris: Le Nouveau Commerce, Un importante ritrovamento di manoscritti
di Walter Benjamin, in «aut-aut», (numero intitolato «Paesaggi benjaminiani»),
Firenze: La Nuova Italia, La trasparenza della lingua, in «Alfabeta», Milano:
Coop. Intrapresa, Il viso e il silenzio, in Ruggero Savinio, Opere 1983,
Milano: Philippe Daverio, Il silenzio del linguaggio, in Paolo Bettiolo,
Margaritae, Venezia: Arsenale, Idea della prosa, Milano: Feltrinelli, (poi
Macerata: Quodlibet) (contiene: «Soglia», «I: Idea della materia, Idea della
prosa, Idea della censura, Idea della vocazione, Idea dell'Unica, Idea del
dettato, Idea della verità, Idea della Musa, Idea dell'amore, Idea
dell'immemorabile», «II: Idea del potere, Idea del comunismo, Idea della
giustizia, Idea della pace, Idea della vergogna, Idea dell'epoca, Idea della
musica, Idea della felicità, Idea dell'infanzia, Idea del giudizio universale»,
«III: Idea del pensiero, Idea del nome, Idea dell'enigma, Idea del silenzio,
Idea del linguaggio, Idea della luce, Idea dell'apparenza, Idea della gloria,
Idea della morte, Idea del risveglio», «Soglia. Kafka difeso contro i suoi
interpreti») Quattro glosse a Kafka, in «Rivista di estetica», Torino: Rosenberg
& Sellier, La passione dell'indifferenza, in Marcel Proust, L'indifferente,
trad. Mariolina Bongiovanni Bertini, Torino: Einaudi, Il silenzio delle parole, in Ingeborg
Bachmann, In cerca di frasi vere, trad. Cinzia Romani, Bari: Laterza, Sur
Robert Walser, in «Détail», Paris: Pierre Alféri et Suzanne Doppelt (l'Atelier
Cosmopolite de la Fondation Royaumont), autunno La comunità che viene, Torino:
Einaudi, (n.ed. Torino: Bollati Boringhieri) (contiene: «La comunità che viene:
Qualunque, Dal Limbo, Esempio, Aver luogo, Principium individuationis, Agio,
Maneries, Demonico, Bartebly, Irreparabile, Etica, Collants Dim, Aureole,
Pseudonimo, Senza classi, Fuori, Omonimi, Schechina, Tienanmen»,
«L'irreparabile») Disappropriata maniera, in Giorgio Caproni, Res amissa, G.
Agamben, Milano: Garzanti (poi in Categorie italiane) Kommerell o del gesto, in
Max Kommerell, Il poeta e l'indicibile, Genova: Marietti, VII-XV (poi in La
potenza del pensiero, Bartleby, la
formula della creazione, Macerata: Quodlibet. Contiene: Gilles Deleuze,
Bartebly o la formula trad. Stefano Verdicchio; G. Agamben, Bartebly o della
contingenza: Lo scriba o della creazione, La formula o della potenza,
L'esperimento o della decreazione») Nota introduttiva a: René, Il testamento
della ragazza morta, trad. Daniela Salvatico Estense, Macerata: Quodlibet, Maniere del nulla, in Robert Walser, Pezzi in
prosa, trad. Gino Giometti, Macerata: Quodlibet, Il dettato della poesia, in Antonio Delfini,
Poesie della fine del mondo e poesie escluse, Daniele Garbuglia, Macerata:
Quodlibet, VII-XX (poi in Categorie
italiane) Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino: Einaudi, -- contiene:
«Introduzione», «Logica della sovranità», «Homo sacer», «Il campo come
paradigma biopolitico del moderno», «») Il talismano di Furio Jesi, in Furio
Jesi, Lettura del Bateau ivre di Rimbaud, Macerata: Quodlibet, Mezzi senza
fine. Note sulla politica, Torino: Bollati Boringhieri, (contiene: «Avvertenza», «I: Forma-di vita,
Al di là dei diritti dell'uomo, Che cos'è un popolo?, Che cos'è un
campo?», «II: Note sul gesto, Le lingue e i popoli, Glosse in margine ai
Commentari sulla società dello spettacolo, Il volto», «III: Polizia sovrana,
Note sulla politica, In questo esilio. Diario italiano») Per una filosofia
dell'infanzia, in Franco La Cecla, Perfetti e indivisibili, Milano: Skira,
1996, 233–40 Categorie italiane. Studi
di poetica, Venezia: Marsilio, 1996 (contiene: «Premessa», «Comedia», «Corn.
Dall'anatomia alla poetica», «Il sogno e della lingua», «Pascoli e il pensiero
della voce», «Il dettato della poesia», «Disappropriata maniera», «La festa del
tesoro nascosto», «La fine del poema», «Un enigma della Basca», «La caccia
della lingua», «I giusti non si nutrono di luce», «Il congedo della tragedia»).
Nuova edizione (Roma-Bari: Laterza, ), accresciuta di otto testi e con un nuovo
sottotitolo: Studi di poetica e di letteratura. Verità come erranza, in
«Paradosso», (numero intitolato «Sulla
verità», Massimo Dona), Padova: Il Poligrafo, Image et mémoire, Paris: Hoëbeke,
contiene: «Aby Warburg et la science sans nom», «L'origine et l'oubli. Parole
du mythe et parole de la littérature», «Le cinéma de Guy Debord», «L'image
immémoriale») Quel che resta di Auschwitz. L'archivio e il testimone. Homo
sacer. III, Torino: Bollati Boringhieri, 1998 (contiene: «Avvertenza», «Il
testimone», «Il musulmano», «La vergogna o del soggetto», «L'archivio e la
testimonianza», «») Introduzione, in Giorgio Manganelli, Contributo critico
allo studio delle dottrine politiche del '600 italiano, Macerata: Quodlibet, La
guerra e il dominio, in «aut-aut», Firenze: La Nuova Italia, settembre-dicembre
poi anche in: Paolo Perticari, Biopolitica minore, Roma: Manifestolibri Il tempo che resta. Un commento alla «Lettera
ai romani», Torino: Bollati Boringhieri, 2000 (contiene: «Prima giornata.
Paulos doulos christoú Iësoú», «Seconda giornata. Klëtós», «Terza giornata.
Aphörisménos», «Quarta giornata. Apóstolos», «Quinta giornata. Eis auaggélion
theoú», «Sesta giornata», «Soglia o tornada», «Appendice. Riferimenti testuali
paolini», «») Araldica e politica, in Viola Papetti, Le foglie messaggere.
Scritti in onore di Giorgio Manganelli, Roma: Editori Riuniti Un possibile
autoritratto di Gianni Carchia, in «Il manifesto» (supplemento «Alias»), Roma,
Le pire des régimes, in «Le monde», Paris, The Time That Is Left, in «Epoché»,
VII, 1, Villanova: Villanova University, 1–14 L'aperto. L'uomo e l'animale, Torino:
Bollati Boringhieri, (contiene
«Teromorfo, Acefalo, Snob, Mysterium disiunctionis, Fisiologia dei beati,
Cognitio experimentalis, Tassonomie, Senza rango, Macchina antropologica,
Umwelt, Zecca, Povertà di mondo, L'aperto, Noia profonda, Mondo e terra,
Animalizzazione, Antropogenesi, Tra, Desoeuvrement, Fuori dall'essere», «»)
Nota, in Ingebor Bachmann, Quel che ho visto e udito a Roma, Macerata:
Quodlibet, 2002 (con Valeria Piazza) L'ombre de l'amour, Paris: Rivages, Stato
di Eccezione. Homo sacer II, 1, Torino: Bollati Boringhieri, (contiene: «Lo stato di eccezione come
paradigma di governo», «Forza di legge», «Iustitium», «Gigantomachia intorno a
un vuoto», «Festa lutto anomia», «Auctoritas e potestas», «Riferimenti
bibliografici») Intervista a Giorgio Agamben (sullo Stato di eccezione) in
Antasofia 1, Mimesis, Milano Genius, Roma: Nottetempo, 2004 (poi in
Profanazioni, 7–18) Il giorno del
giudizio, Roma: Nottetempo, 2004 (poi in Profanazioni) La potenza del pensiero.
Saggi e conferenze, Vicenza: Neri Pozza, (contiene: «La cosa stessa», «L'idea
del linguaggio», «Lingua e storia», «Filosofia e linguistica», «Vocazione e
voce», «L'io, l'occhio, la voce», «Sull'impossibilità di dire io», «Aby Warburg
e la scienza senza nome», «Tradizione dell'immemorabile», «*Se. L'assoluto e
l'Ereignis», «L'origine e l'oblio», «Walter Benjamin e il demonico», «Kommerell
o del gesto», «Il Messia e il sovrano», «La potenza del pensiero», «La passione
della fatticità», «Heidegger e il nazismo», «L'immagine immemoriale», «Pardes»,
«L'opera dell'uomo», «L'immanenza assoluta») Profanazioni, Roma: Nottetempo
(contiene: «Genius», «Magia e felicità», «Il Giorno del Giudizio», «Gli
aiutanti», «Parodia», «Desiderare», «L'essere speciale», «L'autore come gesto»,
«Elogio della profanazione», «I sei minuti più belli della storia del cinema»)
Introduzione, in Emanuele Coccia, La trasparenza delle immagini. Averroè e
l'averroismo, Milano: Bruno Mondadori, Che cos'è un dispositivo?, Roma:
Nottetempo, L'amico, Roma: Nottetempo, 2007 Ninfe, Torino: Bollati Boringhieri,
Il regno e la gloria. Per una genealogia teologica dell'economia e del governo.
Homo sacer II, 2, Vicenza: Neri Pozza, 2007 (nuova ed. Torino: Bollati
Boringhieri, contiene: «Premessa», «I due paradigmi», «Il mistero
dell'economia», «Essere e agire», «Il regno e il governo», «La macchina
provvidenziale», «Angelologia e burocrazia», «Il potere e la gloria»,
«Archeologia della gloria» preceduti, intervallati e seguiti da Soglie,
«Appendice: L'economia dei moderni», «») Che cos'è il contemporaneo?, Roma:
Nottetempo, 2008 Signatura rerum. Sul Metodo, Torino: Bollati Boringhieri, 2008
(contiene: «Avvertenza», «Che cos'è un paradigma?», «Teoria delle segnature»,
«Archeologia filosofica», «») Il sacramento del linguaggio. Archeologia del
giuramento. Homo sacer II, 3, Roma-Bari: Laterza, Nudità, Roma:
Nottetempo(contiene: «Creazione e salvezza», «Che cos'è il contemporaneo?», «K.»,
«Dell'utilità e degli inconvenienti del vivere fra spettri», «Su ciò che
possiamo non fare», «Identità senza persona», «Nudità», «Il corpo glorioso»,
«Una fame da bue», «L'ultimo capitolo della storia del mondo») (con Emanuele
Coccia) Angeli. Ebraismo, Cristianesimo, Islam, Vicenza: Neri Pozza, La Chiesa e il Regno, Roma: Nottetempo, (con Monica Ferrando) La ragazza indicibile.
Mito e mistero di Kore, Milano: Electa Mondadori, Altissima povertà. Regole monastiche e forma
di vita. Homo sacer IV, 1, Vicenza: Neri Pozza,
Opus Dei. Archeologia dell'ufficio. Homo sacer II, Torino: Bollati
Boringhieri, Il mistero del male.
Benedetto XVI e la fine dei tempi, Roma-Bari: Laterza, Pilato e Gesù, Roma: Nottetempo, Qu'est-ce que le commandement?, Parigi: Bibliothèque
Rivages, Il fuoco e il racconto, Roma:
Nottetempo, L'uso dei corpi. Homo sacer
IV, 2, Vicenza: Neri Pozza, To Whom Is
Poetry Addressed?, in "New Observations", Stasis La guerra civile
come paradigma politico. Homo sacer, Torino: Bollati Boringhieri, L'avventura, Roma: nottetempo, Pulcinella ovvero Divertimento per li
regazzi, Roma: nottetempo, Che cos'è la
filosofia?, Macerata: Quodlibet, Che
cos'è reale? La scomparsa di Majorana, Vicenza: Neri Pozza, Autoritratto nello studio, Milano: Nottetempo, Karman. Breve trattato sull'azione, la colpa,
il gesto, Torino: Bollati Boringhieri,
Creazione e anarchia. L'opera nell'età della religione capitalista,
Vicenza: Neri Pozza, Homo Sacer.
Edizione integrale (1995-), Macerata, Quodlibet, Il Regno e il Giardino, Vicenza: Neri
Pozza, Lo studiolo, Collana Saggi,
Torino, Einaudi,. A che punto siamo? L'epidemia come politica, Macerata,
Quodlibet, Note Giulia Farina, Enciclopedia della
letteratura, Garzanti, 1997 p.9 Con il
quale progetta una rivista. Cfr. l'ultimo capitolo di Infanzia e storia,
Einaudi, Torino. Giorgio Agamben Al
quale si rivolge con L'amico, Nottetempo, Roma. Cfr. la lettera di solidarietà
di Carla Benedetti dell'11 gennaio 2004 su "Nazione indiana": la pagina sul sito della scuola. Del quale ha diretto per qualche tempo le
edizioni complete presso Einaudi, prima di abbandonare il progetto per
contrasti con la casa editrice. cfr. la lettera a "la Repubblica" Tra
l'altro ha lavorato per il Warburg Institute negli anni,grazie alla cortesia di
Frances Yates . Altri autori di cui si è occupato sono Charles Baudelaire,
Robert Walser, Paul Valéry, Antonio Delfini, Giorgio Manganelli, Max Kommerell,
Elsa Morante, Giovanni Pascoli, Victor Segalen, Giorgio Caproni, Patrizia
Cavalli, Marcel Proust, Arnaut Daniel ecc.
Paolo Vernaglione, TEOLOGIAIl «Mistero del male» di Giorgio Agamben.
Fuga dal tempo del dominio [collegamento interrotto], in il manifesto, Lettera
ad H. Arendt (The Hannah Arendt Papers at the Library of Congress) Roberto Gilodi, BenjaminUno «straccivendolo»
alla ricerca capillare dei rifiuti di Baudelaire, in Alias, Roma, il manifesto,
cite web
url=http://iep.utm.edu/a/agamben.htm
G.Agamben, Chiarimenti Andrea
Cavalletti, "La guerra civile, paradigma della politica" Archiviato
il 4 marzo in., il manifesto Prima della
pubblicazione di Stasis, questo volume era numerato II,2. Thomas Carl Wall,
Radical Passivity: Levinas, Blanchot and Agamben, postfazione di William
Flesch, Albany: State University of New York Press, 1999 Philippe Mesnard e Claudine Kahan, Giorgio
Agamben à l'epreuve d'Auschwitz: temoignages, interpretations, Paris: Éditions
Kimé, Eva Geulen, Giorgio Agamben zur Einführung, Hamburg: Junius,Alfonso
Galindo Hervas, Politica y mesianismo: Giorgio Agamben, Madrid: Biblioteca
nueva, Asselin e Jean-Francois Bourgeault, La littérature en puissance autour
de Giorgio Agamben, Montréal: VLB, Calarco e Steven DeCaroli, Giorgio Agamben.
Sovereignty and Life, Stanford: Stanford University Press, 2007 Francesco
Valerio Tommasi, Homo sacer e i dispositivi. Sulla semantica del sacrificio in
Giorgio Agamben, «Archivio di filosofia », Justin Clemens, Nicholas Heron e
Alex Murray, The Work of Giorgio Agamben. Law, Literature, Life, Edinburgh:
Edinburgh University Press, 2008Greg Bird. Containing Community: From Political
Economy to Ontology in Agamben, Esposito, and Nancy. Albany: State University
of New York Press, Leland de la Durantaye, Giorgio Agamben: A Critical
Introduction, Stanford: Stanford University Press Alex Murray, Giorgio Agamben,
London-New York: Routledge, Thanos Zartaloudis, Giorgio Agamben. Power, Law and
the Uses of Criticism, London-New York: Routledge, (DE) Oliver Marchart, Die politische
Differenz zum Denken des Politischen bei Nancy, Lefort, Badiou, Laclau und
Agamben, Berlin: Suhrkamp, William Watkin, Literary Agamben: Adventures in
Logopoiesis, London-New York: Continuum, Vittoria Borsò et alii, BenjaminAgamben,
Wurzburg:, Konigshausen & Neumann,
Lucia Dell'Aia, Studi su Agamben, Milano: Ledizioni, (con saggi di Witte, Liska, Dell'Aia, Talamo,
Miranda, Recchia Luciani) Francesco Valerio Tommasi, "L'analogia in Carl
Schmitt e Giorgio Agamben. Un contributo al chiarimento della teologia
politica", in L'ircocervo, /1.Jacopo D'Alonzo, "El origen de la nuda
vida: política y lenguaje en el pensamiento de Giorgio Agamben", in
Revista Pléyade, C. Salzani, Introduzione a Giorgio Agamben, Il Nuovo
Melangolo, (HR) Mario Kopić, Giorgio
Agamben, «Tvrđa», Flavio Luzi, Quodlibet. Il problema della presupposizione
nell'ontologia politica di Giorgio Agamben, Stamen, Roma. E. Castano, Agamben e
l'animale. La politica dalla norma all'eccezione, Novalogos, Carlo Crosato, Critica della sovranità.
Foucault e Agamben. Tra il superamento della teoria moderna della sovranità e
il suo ripensamento in chiave ontologica, Orthotes, V. Bonacci, Giorgio Agamben. Ontologia e
politica, Quodlibet Lucia Dell'Aia e
Jacopo D'Alonzo, Lo scrigno delle segnature. Lingua e poesia in Giorgio
Agamben, Istituto Italiano di Cultura, Amsterdam. Con uno scritto inedito di G.
Agamben (Porta e soglia) e contributi di: L. Dell'Aia, R. Talamo, C. Salzani,
J. D'Alonzo, V. BorsòColilli. Bios
(filosofia) Zoé (filosofia) Homo sacer Altri progetti Collabora a Wikiquote Citazionio
su Giorgio Agamben Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene
immagini o altri file su Giorgio Agamben Opere di Giorgio Agamben,. Opere
riguardanti Giorgio Agamben,. Giorgio Agamben, su Goodreads. italiana di Giorgio Agamben, su Catalogo
Vegetti della letteratura fantastica, Fantascienza.com. Giorgio Agamben, su
Internet Movie Database, IMDb.com.
Catherine Mills, Giorgio Agamben, su Internet Encyclopedia of
Philosophy. L'aperto. L'uomo e l'animale. Recensione da LiberCensor.net.
Agambeniana. delle opere di Giorgio
Agamben, ferma al gennaio 2004, su agamben.web.fc2.com. Jacopo D'Alonzo, di Giorgio Agamben (aggiornata al dicembre ),
su filosofia-italiana). "Il frutto maturo della redenzione", Toni
Negri su Agamben Altissima povertà. Regole monastiche e forma di vita
recensione da Sitosophia Il mistero del male Traduzione Spagnola in "Fractal".
Agamben. Keywords: nudi, Ereignis, eye,
occhio, occhi, polifemo, argo, i marziani di Grice – la etimologia accettata –
‘porre davanti agli occhi” – binocularismo – monocularismo – algarotti, il
sacramento del linguaggio – Fjeld -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Agamben”
– The Swimming-Pool Library.
Grice ed Agazzi –
Apollo febo, ovvero, l’impegno della ragione – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Genova).
Filosofo italiano. Grice: “I like [Emilio] Agazzi; his tutees thought he was
into the ‘impegno della ragione,’ but then MY tutees thought that I was into
the philosophical grounds (as in coffee) of rationality: intentions,
categories, ends – I go by “H. P. Grice,” so surely I can find an acronym that
would NOT leave the essential “H” out – as in Speranza’s GHP – a highly
powerful or hopefully plausible version of Myro’s system G – “in gratitude to
Paul Grice.” Grice: “Agazzi is a marxist – cf. my ontological Marxism, I am
one, too – so his ‘ragione’ is Hegelian – he has also philosophised on Croce,
and idealism, but the idea that there is ‘impegno’ behind reason is tutorial –
surely reason is a natural faculty that does- not require much of an ‘impegno’
– the more impegno, the less rational you will be counted – if he means that!”
-- Filosofo. Agazzi nacque a Genova. Qui conseguì la maturità classica a la
laurea in lettere e filosofia con una tesi su Il pensiero filosofico di Piero
Martinetti presso l'Università Statale. Fu assistente volontario di storia
della filosofia dapprima a Genova dove fu in particolare influenzato dal
pensiero di Adelchi Baratono, ordinario di filosofia teoretica, e
successivamente a Pavia (ove in particolare collaborò con Ludovico Geymonat e
Vittorio Enzo Alfieri); contemporaneamente, insegnò filosofia nei licei di
Genova, Voghera e Pavia. Conseguì la libera docenza in storia della filosofia
moderna e contemporanea; insegnò filosofia della religione nella facoltà di
Lettere e filosofia a Milano, in particolare riprendendo il suo interesse per
Piero Martinetti; mentre nella stessa facoltà insegnò filosofia della storia,
ottenendo un incarico stabile. Dalla
seconda metà degli anni Settanta si dedicò in particolare allo studio della
filosofia tedesca moderna contemporanea, accentrando la sua attenzione sulla Scuola
di Francoforte, città in cui svolse ricerche approfondite ed ebbe contatti con
docenti universitari; negli stessi anni frequentò ripetutamente università
tedesche, polacche e jugoslave. Impegno
politico Da sempre attento agli sviluppi del pensiero marxista in Italia e in
Europa, accompagnò la sua intensa attività di ricerca scientifica ad un attivo
impegno politico: esponente del Partito Socialista Italiano negli anni
Cinquanta, nei decenni successivi aderì dapprima al PSIUP, quindi al PDUP e a
Democrazia Proletaria. Collaborò in varie forme a molte riviste e quotidiani
della sinistra (tra gli altri Il Lavoro Nuovo, l'Avanti!, Mondoperaio, Quaderni
Rossi, Passato e Presente, Classe); fondò la rivista di teoria politica Marx
centouno. Gravemente ammalato, dovette rinunciare ai suoi studi, lasciando
l'insegnamento. Morì a Pavia. Archivio L'archivio di Emilio Agazzi e gran parte
della sua biblioteca sono stati do dagli eredi alla Fondazione Turati, dove è
tutt'ora conservato presso l'archivio della Fondazione; il fondo contiene
quaderni di appunti, manoscritti e materiali di lavoro per il periodo dagli
anni Quaranta agli anni Ottanta del Novecento. Opere: “Croce e il marxismo”
(Einaudi); “Linee fondamentali della ricezione della teoria critica in Italia”;
“L'impegno della ragione” (Cingoli, Calloni, Ferraro, Milano, Unicopli); Filosofia
della natura. Scienza e cosmologia, Piemme, Casale Monferrato); “La filosofia
di Piero Martinetti, Sandro Mancini, Amedeo Vigorelli e Marzio Zanantoni,
Edizioni Unicopli, Milano,. Traduzioni Jürgen Habermas, “Etica del discorso” Laterza,
Bari-Roma Note Agazzi Emilio, su SIUSA Sistema Informativo
Unificato per le Soprintendenze Archivistiche. Fondo Agazzi Emilio, su SIUSA
Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche. Collezione Emilio Agazzi su Fondazione di studi storici "Filippo
Turati". E. Capannelli ed E.
Insabato, Guida agli Archivi delle personalità della cultura in Toscana. L'area
fiorentina, Firenze, Olschki, Scuola di Milano
Emilio Agazzi, su siusa.archivi.beniculturali, Sistema Informativo
Unificato per le Soprintendenze Archivistiche.Collezione Emilio Agazzi su
Fondazione di studi storici "Filippo Turati". Filosofia Filosofo Professore
Genova Pavia. Emilio Agazzi. Agazzi.
Keywords: Apollo febo, ovvero, l’impegno della ragione; etica del discorso. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice ed Agazzi” – The Swimming-Pool Library.
Grice ed Agazzi –
dialettica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Bergamo).
Filosofo italiano. Grice: “[Evandro] Agazzi has all the best intentions, but
perhaps he lacks a Lit. Hum. background – he basically approaches my topic of
“logica filosofica” which he contrasts with ‘logica matematica,’ and he has a
special tract on my pont about ‘formalismo’,’ which I later called ‘modernism’
– “ragioni e limiti del formalismo” – his essay on ‘mondo incerto’ reminds me
of my ‘intention and uncertainty’!” – Filosofo. Figlio di Agazzi, ordinario di
pedagogia presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università Cattolica di
Milano e preside della Facoltà di Magistero, fu allievo di Gustavo Bontadini e
amico di Ludovico Geymonat, con cui a lungo collaborò, durante gli studi di
filosofia presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e di fisica
presso l'Università Statale di Milano. In seguito si è perfezionato all'Oxford,
a quella di Marburg ed a quella di Münster; dal 1963 è libero docente in
Filosofia della scienza e dal 1966 in Logica matematica. Evandro Agazzi
ha inizialmente insegnato Geometria superiore, Logica matematica e Matematiche
complementari presso la facoltà di Scienze dell'Genova; ha insegnato altresì
Logica simbolica presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, Filosofia della
scienza e Logica matematica presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di
Milano. Dal 1970 è Professore di Filosofia della scienza presso l'Genova
e dal 1979 detiene la cattedra di Antropologia filosofica, Filosofia della
scienza e Filosofia della natura presso l'Friburgo in Svizzera. È stato
professore invitato nelle Berna, Ginevra, Düsseldorf, Pittsburgh ed anche
all'Stanford; è dottore honoris causa dell'Córdoba (Argentina). Ha
presieduto numerose associazioni filosofiche nazionali e internazionali:
Società Filosofica Italiana, Società Italiana di Logica e Filosofia delle
scienze, Società svizzera di Logica e Filosofia delle scienze, Federazione
internazionale delle Società filosofiche; è stato membro del Comitato Nazionale
per la Bioetica. Attualmente è presidente della Académie Internationale de
Philosophie des Sciences e dell'Institut International de Philosophie.
Pensiero I settori ai quali Evandro Agazzi ha rivolto prevalentemente i suoi
interessi sono stati: la filosofia generale della scienza, la filosofia di
alcune scienze particolari (matematica, fisica, scienze sociali, psicologia),
logica, teoria dei sistemi, etica della scienza, bioetica, storia della
scienza, filosofia del linguaggio, metafisica antropologia filosofica,
pedagogia. Attualmente le sue ricerche riguardano per un verso la
caratterizzazione dell'oggettività scientifica e la difesa di un realismo
scientifico basato su un approfondimento delle nozioni di riferimento e di
verità, con le relative implicazioni di tipo ontologico, per un altro
l'approfondimento del concetto di persona e delle varie conseguenze che ne
derivano, in particolare nel campo della bioetica. Filosofia della
scienza La riflessione di Agazzi assume come punto di partenza la necessità
gnoseologica di stabilire nella conoscenza scientifica «la più perfetta forma
di conoscenza oggi a disposizione dell'uomo». Su questa base, anche i
metafisici devono necessariamente passare per l'epistemologia, intesa come
fondazione delle «strutture metodologichedella scienza». L'epistemologia, come
la intende Agazzi, assume la scienza come un sapere oggettivamente rigoroso: tuttavia
l'oggettività in questione non è quella metafisica delle essenze o quella
fisica delle qualità, bensì un'oggettualità e intersoggettività. Sulla
base di questi due punti, come Agazzi specifica nel suo celebre libro
intitolato Temi e problemi di filosofia della fisica, l'oggetto di una
disciplina scientifica è la cosa, esaminata da un punto di vista tale per cui
il ricercatore si pone grazie a una precisissima impostazione metodologica,
tramite la quale ritaglia su una cosa un aspetto (oggettività), condiviso dai
ricercatori che accettano gli stessi criteri di oggettivazione
(intersoggettività). Il rigore scientifico cessa di essere inteso in senso
dialettico e confutatorio o in senso matematico e quantitativo: è piuttosto
inteso nel senso di dar ragione tramite l'immediato empirico o il mediato
logico. In questa prospettiva, la scienza assume la forma di un
linguaggio che parla di un universo di oggetti. La configurazione della scienza
è caratterizzata da quattro peculiarità: è realistica, giacché fa costante
riferimento alla realtà; è relativa, giacché costituisce il proprio oggetto; è
rigorosa, giacché ha una valenza che è sia logica sia linguistica; è
responsabile, giacché si pone il problema etico delle conseguenze che da essa
scaturiscono. Per Agazzi, la filosofia non deve però limitarsi a fare queste
riflessioni sulla scienza: deve anche operare un'incessante ricerca del
fondamento, sia attraverso la critica dello scientismo e dell'ideologismo, sia
attraverso la proposta di quello che Agazzi chiama, in I compiti della ragione,
un «uso costruttivo della ragione: quello che si avvale dell'argomentazione,
quello che cerca di comprendere e, al massimo, di persuadere». Opere: “Lógica
Simbólica”; “Temi e problemi di filosofia della fisica”; “Il bene, il male e la
scienza”; “Introduzione ai problemi dell’assiomatica”; “Le geometrie non
euclidee e i fondamenti della geometria”; “I sistemi fra scienza e filosofia”;
“Studi sul problema del significato”; “Scienzia e fede. Nuove prospettive su un
vecchio problema”; “Storia delle scienze La filosofia della scienza in Italia
nel '900”; “Filosofia, scienza e verità”; “Logica filosofica e logica
matematica”; “Quale etica per la Bioetica?” “Bioetica e persona”; “Cultura
scientifica e interdisciplinarità Interpretazioni attuali dell’uomo: filosofia,
scienza, religione Il tempo nella scienza e nella filosofia; “Filosofia della
natura, Scienza e cosmologia”; Prefazione di F. Minazzi. “Novecento e
Novecenti”; “Paidéia, verità, educazione”; “Valore e limiti del senso comune”;
“Scienza”; “Le rivoluzioni scientifiche e il mondo moderno”; “Ragioni e limiti
del formalismo”. Note Cfr. l'articolo
”Don Carlì, una vita al Seminario. Un libro per l'uomo cuore di Città Alta“, in
L'eco di Bergamo, Storia dell'Università Cattolica del Sacro Cuore. Le fonti,
Volume 1, Alberto Cova, Vita e Pensiero, Milano, Scuola di Milano Epistemologia
Altri progetti Collabora a Wikiquote Citazionio su Evandro Agazzi. Evandro
Agazzi, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Evandro Agazzi, su BeWeb,
Conferenza Episcopale Italiana. Opere di
Evandro Agazzi, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Pagina personale di Evandro Agazzi sul sito
dell'Genova. Valori e limiti del senso comune, Evandro Agazzi, Milano,
FrancoAngeli. Evandro Agazzi. Agazzi. Keywords: dialettica, significato, segno,
segnato, segnante, seminarone a Genova ‘studi sul problema del significato’ –
Grice, Peirce, segno, segno e comunicazione, segno per comunicare,
comunicazione che lascia segno, tiro al segno – segno naturale --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Agazzi” – The
Swimming-Pool Library.
Grice ed Agela – Roma – filosofia italiana
–Luigi Speranza (Crotona). Filosofo italiano. According
to Iamblichus of Chalcis (“Vita di Pitagora”), a Pythagorean.
Grice ed Agesarco – Roma – filosofia italiana
– Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. Agesarchus
-- According to Iamblichus of Chalcis, a Pythagorean.
Grice ed Agesidamo – Roma – filosofia italiana
– Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. According
to Giamblico di Calcide (“Vita di Pitagora”), a Pythagorean.
Grice ed Agilo – Roma – filosofia italiana
– Luigi Speranza (Crotona). Filosofo italiano. According
to Giamblico di Calcide (“Vita di Pitagora”), a Pythagorian.
Grice ed Agostino –
GIVSTIZIA – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. Grice: “I like Agostino;
he has philosophised exactly about what I did: identita personale; libero
albitrio; and some of the topics that I philosophised with H. L. A. Hart,
notably ‘parole di giustizia,’ and ‘bias’: ‘violenza e giustizia’ -- Filosofo. Consegue la laurea in giurisprudenza nel
1968. Ha insegnato nelle Lecce, Urbino e Catania. Ordinario è professore di
Filosofia del diritto e di Teoria generale del diritto presso l'Università
degli studi di Roma Tor Vergata, in cui ha diretto il Dipartimento di
"Storia e Teoria del Diritto". Insegna altresì alla LUMSA e alla
Pontificia Università Lateranense ed è professore visitatore in diverse
università straniere. Tra i maestri che
hanno influenzato il suo pensiero figurano Sergio Cotta e Vittorio Mathieu.
Particolare attenzione è dedicata nella sua produzione scientifica alla teoria
della giustizia, alle tematiche della bioetica, e quindi alle problematiche
della tutela del diritto alla vita, alla teoria della famiglia. Nel suo scritto La sanzione nell'esperienza
giuridica, del 1989, sostiene e riattualizza la teoria retributiva della
pena. Già membro del Consiglio
Scientifico dell'Istituto dell'Enciclopedia Italiana, attualmente è Presidente
onorario del Comitato nazionale per la bioetica, di cui è membro fondatore e di
cui è stato presidente. Ricopre inoltre la carica di Presidente dell'Unione
Giuristi Cattolici Italiani. È membro della Pontificia Accademia per la
Vita. È stato direttore di Iustitia e
Nuovi Studi Politici; attualmente è condirettore della Rivista Internazionale
di Filosofia del Diritto. Dirige per l'editore Giappichelli la collana Recta
Ratio. Testi e studi di Filosofia del diritto, nella quale sono apparsi più di
cento volumi. È inoltre editorialista del quotidiano Avvenire. Grazie a queste
cariche e alle sue pubblicazioni, oggi D'Agostino è considerato uno degli intellettuali
di riferimento del movimento teocon italiano.
Ha coordinato la sessione "I cattolici, la politica e le
istituzioni" nell'ambito dei lavori del X Forum del Progetto culturale
della Conferenza Episcopale Italiana sui 150 anni dell'Unità d'Italia. Polemiche sul tema dell'omosessualità Ha
suscitato polemiche la constatazione di D'Agostino per cui le unioni
omosessuali sono «costitutivamente sterili»: la constatazione fu ripresa dal
ministro Mara Carfagna che affermava che «non c'è nessuna ragione per la quale
lo Stato debba riconoscere le coppie omosessuali, visto che costituzionalmente
sono sterili» e che «per volersi bene il requisito fondamentale è poter
procreare». Opere: “La sanzione nell'esperienza
giuridica”; “Una filosofia della famiglia”; “Diritto e Giustizia”; “Filosofia
del diritto, Parole di Bioetica, Parole di Giustizia, Lezioni di filosofia del
diritto”; “Lezioni di teoria generale del diritto, Bioetica, nozioni
fondamentali, Il peso politico della Chiesa, Un Magistero per i giuristi.
Riflessioni sugli insegnamenti di Benedetto XVI, Bioetica e Biopolitica. Ventuno voci
fondamentali Corso breve di filosofia
del diritto, Jus quia justum. Lezioni di
filosofia del diritto e della religione
Famiglia, matrimonio, sessualità. Nuovi temi e nuovi problemi. Carfagna:
"Gay costituzionalmente sterili" da La Repubblica. Francesco
D’Agostino. Francesco D’Agostino. D’Agostino. Agostino. Keywords: giustizia, ius
quia iustum non ius quia iussum – iussum – iubeo, perh. ‘jus habere’ to regard
as right. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Agostino” – The Swimming-Pool
Library, Villa Speranza.
Grice ed Agresta –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Mammola). Filosofo italiano. Grice: “I
would hardly call Agresta a philosopher, but then my working site was formerly
a Cisterian monastery and bore the name of San Giovanni il Battista, so who am
I to judge?! In any case, I always wondered why Loeb (in the Macmillan edition)
cared to publish the four volumes of letters of Basil (of Blackwell fame) – now
I know – Agresta dedicated his life to this saint – In a way I drew from him in
my netasteousia, i. e. transubstantatio – how a pirot-1 becomes a pirot-2 – a
human becomes a person. Pater used to say that at Oxford it’s all about
Hellenism, no Ebraismo! Yet Agresta, an Italian, of sorts -- he was half-Greek! – is a good example, alla
Basil, of how troublesome those with a classical – i. e. Graeco-Roman –
education found all those ‘heresies’ of the Christian dogma! Three persons in
one – and the rest of them. Hardie used to tell me, ‘Lay the blame on the
Christian doctrine, not on Aristotle’s theory of the substdance!” -- Filosofo. Abate Generale dei Basiliani
d'Italia è ritenuto tra i più illustri dell'ordine Basiliano. Nato a Mammola
(RC) il 10 gennaio 1621, morì a Messina il 23 Dicembre 1695. Al battesimo fu
chiamato Domenico, figlio di Giovanni Michele Agresta e di Dianora Scarfò.
Inizia i primi studi alla Grancia Basiliana di Mammola, continua al seminario
di Gerace, a 16 anni frequenta gli studi superiori a Napoli, ma viene colto da
febbre maligna e miracolosamente come egli afferma recupera la guarigione
ritornando a Mammola. Dopo due anni il 23 luglio 1639 veste l'abito di San Basilio
Magno nel monastero del San Salvatore di Messina. Abbandonando il nome Domenico
prende quello di Paolo; l'anno successivo viene consacrato sacerdote nella
basilica di Sant'Apollinare di Ravenna, ricevendo il nome di Apollinare e
inizia la professione monastica. Don
Apollinare Agresta dotto teologo, filosofo, studioso, storico e scrittore. Nel
1669 fu insignito del titolo di Maestro di sacra teologia. Negli anni
successivi il 24 luglio 1675, viene nominato Abate Generale dell'Ordine dei
Basiliani d'Italia da Papa Clemente X, con l'incarico di riorganizzare l'ordine
dei Basiliani; nel 1680 veniva ancora confermato, poi riconfermato da Papa
Innocenzo XI, ed ancora un'altra volta nel 1692 da Papa Alessandro VIII.
Conservò la carica fino alla morte. Ha
rivestito incarichi prestigiosi. Giovanissimo viene insignito di numerose
cariche: è responsabile di diversi monasteri della Provincia di Calabria e
d'Italia, introduce nuovi metodi di studio per gli studenti, procurandosi fama
e onore dalle comunità locali e religiose. Ricopre la carica di Abate al
monastero di S. Onofrio, presso Monteleone oggi Vibo Valentia, regge
successivamente la Grangia di San Biagio del monastero basiliano di San
Nicodemo di Mammola (RC); ma anche fu inviato al monastero italo-greco di San
Giovanni Theresti di Stilo (RC), a reggere il monastero di Mater Domini in
Nocera de' Pagani nella Campania, e dopo viene nominato Procuratore Generale
della Badia di Grottaferrata, oggi Monastero di Santa Maria di Grottaferrata,
meglio conosciuto come Monastero di San Nilo.
RomaChiesa di San Basilio (Stemma visibile sugli archi della
Chiesa) RomaChiesa di San Basilio
(Lapide a conferma della edificazione voluta da Don Apollinare Agresta)
L'Agresta ebbe sempre a cuore il decoro nel culto e delle costruzioni ed
arredamenti degli edifici religiosi. Fu edificata la Chiesa di San Basilio agli
Orti Sallustiani a Roma, che si trova in Via San Basilio vicino a Piazza
Barberini, come conferma una lapide marmorea in latino dentro la chiesa. Nella
Grancia Basiliana di Mammola edificò una cappella in onore di San Nicodemo
Abate Basiliano e affidatala alla sorella Vittoria vi fece collocare le
reliquie del santo (in seguito al terremoto le reliquie sono conservate nella
cappella di San Nicodemo nella Chiesa Matrice di Mammola). Si adoperò per la
costruzione del Collegio di San Basilio a Roma. Nel monastero di Rosarno
restaurò la cappella della Madonna. Acquistò campi e case e restaurò numerosi
monasteri permettendo ai monaci di vivere una vita più comoda. Donò indumenti
liturgici in tutti i monasteri basiliani.
I Monaci Basiliani del Monastero di Grottaferrata (Roma) devotamente
ricordano il loro Generale conservandone, con cura gelosa, un guanto pontificale.
Marco Petta eFrancesco Russo, studiosi e storici del Monastero di
Grottaferrata, sono state le ultime due personalità religiose che hanno scritto
in ricordo dell'Abate Generale Don Apollinare Agresta, consultando all'interno
del monastero la vasta biblioteca che conserva scritti di grande valore e importanza. Nel Museo Diocesano di Reggio Calabria, si
può ammirare un reliquario a braccio, che conserva le reliquie di San Giovanni
Thereste, donate dall'Agresta quando ricopriva la carica di Abate del Monastero
italo-greco di Stilo. Un ritratto in
giovane età del monaco è pubblicata nel libro "Mammola" di Don Vincenzo
Zavaglia. Autore di numerose pubblicazioni, i libri di Don Apollinare Agresta,
a distanza di secoli, ancora oggi vengono consultati e citati da numerosi
ricercatori e studiosi, tra le sue opere più importanti ricordiamo: “Vita di
San Basilio Magno” (Roma) -- ancor oggi pregevole per le molte notizie che ci
dà dei monasteri basiliani delle Calabrie e d'Italia --; “Vita di S. Giovanni
Theristi” (Roma); “Vita di San Nicodemo A.B. (Roma Privilegi e concessioni
fatti dal Gran Conte Ruggero al sacro archimandritale Monastero di Giov.
Theristi (Roma); Constitutiones Monachorum Ordinis S. Basilii Magni Congregationis
Italiae (Roma) Compendio delle Regole o vero Costitutioni monastiche di S.
Basilio raccolto dal Bessarione (Roma). Sono rimaste inedite alcune biografie
riguardanti San Luca di Tauriano, il beato Stefano di Rossano, San Proclo di
Bisignano, la beata Teodora Vergine, San Onofrio di Belloforte e San Fantino di
Tauriana. D. Vincenzo Zavaglia, Mammola,
Frama Sud, Chiaravalle C. Marco Petta, Apollinare Agresta Abate Generale
Basiliano, Tipogr. Italo-Orientale S. Nilo Grottaferrata 1981. Apollinare
Agresta, in Enciclopedia Treccani, 1929 Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Monastero di Santa Maria di
Grottaferrata o Monastero di San Nilo, su abbaziagreca. Santuario di San
Nicodemo, su sannicodemodimammola. Foto di Don Apollinare Agresta alla giovane
età di 24 anni, su flickr.com. Apollinaire
Agresta. Agresta. Keywords: stato laico. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed
Agresta” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria.
Grice ed Agricola – Roma – filosofia
antica – Luigi Speranza. (Roma). Filosofo italiano. Cnaeus
Julius Agricola – Cneo Giulio Agricola. Agricola made his name as a politician
and a philosopher expert in political philosophy. He was the governor of
Britannia – Bretagna – His son-in-law, Tacito, writes a biography of him,
claiming that Agricola has a great passion for philosophy – and that it was his
mother who hated it (“doing her best for his son to get rid of it”). She was
largely unsuccessful, since Agricola claimed to have acquired and retained a
sense of proportion (proportio, proporzione) from his philosophical study.
Grice ed Agrippa – Roma -- filosofia antica – Luigi Speranza. Filosofo italiano. Diversi
rappresentanti romani trova la scepsi iniziato e forse tra essi può
collocarsi anche\ uno «dei più notevoli pensatori di quel. l'indirizzo,
quéll’Agrippa, di cui, per la vita e la cronologia, può dirsi soltanto che è
vissuto tra Enesidemo e Sesto Empirigo. I dieci tropi o argomenti di Enesidemo
in favore della sospensione del giudizio, riguardavano la conoscenza sensibile
e la valutazione morale e si potevano ridurre ai due della divergenza fra le
credenze degli uomini e fra le opinioni dei filosofi e alla relatività delle
conoscenze. Agrippa ne presentò cinque che avevano un carattere più
generale, perchè si riferivano a ogni forma del conoscere, sensibile e intelligibile,
e includevano, oltre i due ora ricordati (il 10 e il 3°), altri tre
riguardanti, piuttosto che il contenuto, la forma della
conoscenza. Propriamente, essi hanno per oggetto il tentativo di
giustificare qualche tesi. Questi argomenti sono : 20 del processo
all'infinito, perchè ciò che è in questione deve essere provato con altro
e così via illimitata- mente; 4° delle premesse ingiustificate : se si
vuole sfuggire al 2° argomento occorre partire da ipotesi che non si impongono
più delle conseguenze ; 5° del circolo, perchò a deve provarsi con d e è
con a, altrimenti si ricade nei due casi precedenti. Agrippa was a sceptic
whose name is often linked with a set of five ‘modes,’ or reasons for
enteraining doubt, although his actual connection with them is unclear. The
first says that there are many issues on which people disagree, and it is
impossible to know who is right and who is rong. The seonc says that every
claim needs justification, but that each justification needs further
justification, and so on ad infinitum. The third says that the appearance of a
things is relative to the perceiver and the context in which the perception
takes place. The fourth says that claims are frequently based on unproven
assumptions. The fifth says that arguments are frequently circular. Together
the modes amount to grounds for questioning any claim to certainty. Barnes, The
toils of scepticism, Cambirdge.
Grice ed Agrippa – Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza. Filosofo italiano. All that
is known of THIS Agripps is that Iamblichus of Chalcis dedicated a book to him,
and he is assumed to have been a follower.
Grice ed Agrippino – Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza. Filosofo italiano Quinto
Paconio Agrippino – He was a member of the opposition from the Porch to the
prince Nero. As a result, Agrippino was banished from the whole territory of
Italy.
Grice ed Aigon – Roma – filosofia italiana
– Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. According
to Giamblico di Calcide (“Vita di Pitagora”), Aigon was a Pythagorian.
Grice ed Ajello – filosofia italiana
– Luigi Speranza (Napoli). Grice: “I love Ajello; bevause he was a
Plathegelian, while I’m an Ariskantian; I always found Plathegel very HARD to understand,
Ajello doesn’t; there’s something in an Italian that makes Hegel’s Dutchiness
very comprehensible, even more so than to the Dutch themselves!” Filosofo --
discepolo di Puoti, aprì uno studio privato come maestro ma ebbe vita stentata
fino a quando ottenne un posto al ministero dell'Istruzione. Partecipa ai moti e per questo fu licenziato
in tronco. E arrestato e gli e vietato
l'insegnamento pubblico e «di far uso anche moderatissimo della stampa», per
cui dove tornare all'insegnamento privato della filosofia e della
letteratura. Seguace convinto della
filosofia hegeliana, che contribuì a diffondere in Italia, basa la sua
filosofia soprattutto sull'Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio.
Opere: “Della muliebrità della volgar letteratura dei tempi di mezzo”; “Napoli
e i luoghi celebri delle sue vicinanze”; “Discorsi di storia e letteratura” -- Enciclopedia
Italiana Treccani alla voce corrispondente
Opere di Giambattista Ajello, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. CONSIDERAZIONI SULLA
MULIEBRITA DELLA VOLGAR LETTERATURA DEI TEMPI DI MEZZO DI GIAMBATTISTA AJELLO.
Di questa operetta del signor Ajello, della quale han già tenuto parola vari
giornali del regno, sorge in ul timo luogo a dar contezza ilProgresso. Nè ciò
senza ra gione, perocchè, essendo l'Ajello uno de'collaboratori de' quali il
nostro giornale si pregia, il nostro qualsiasi.giu dizio sarebbe forse paruto
sospetto, e noi, diffidandone a ragione, abbiamo aspettato che ci avesse
preceduto quello di altri non ligati a lui collo stesso. vincolo di amicizia.
Per la qual cosa avendomi io in particolare, senza dissi- ' mulare a me stesso
la malagevolezza di giudicar l'opera di uno amico, tolto l'incarico di qui
ragionarne mi converrà avvertire che riassumerò le idee dell'Ajello non dal
solo libretto di cui è qui sopra rapportato il titolo, m a da un suo lungo
articolo ancora inserito nella Rivista Napolitana, nel quale, rispondendo
l’Ajello alle o b biezioni del culto giovine Stanislao Gatti (2), ha meglio 69
(1) Anno.3.° fasc.IV. Museo di letteratura e filosofia, vol.I.° opera periodica
compilata per cura di Stanislao Gatti, alla quale auguriamotuttoquel successo
đi che l'ingegno del Direttore ci è larga guarentigia. CONSIDERAZIONI
SULLA MULIEBRITA' sviluppato le sue idee e dileguato quei dubbi che per a v
ventura avrebbono potuto far nascere. Dall'uno e l'altro lavoro cercherò
cogliere il pensiero dell'autore qual si c o n viene a chiunque prenda a
disaminare un'opera nell'in teresse solo del progresso del pensiero, non già
per m i serabili e grette vedute individuali, per le quali cercasi trovare una
contraddizione in ogni pagina e far la guerra non ai principi, m a
agl'individui, privilegio di separazione alla repubblica letteraria solo
concesso. Ecco dunque la serie delle ragioni principali dall'A jello discorse e
rapportate, quanto più per m e si potrà, colle sue stesse parole. Ogni
qualvolta si porti la nostra attenzione sui versi ed opere di arte che ci ha
tramandato l'antichità ed a quelle che nel medio evo ebber vita, non sipuò non
re star colpito dalla capital differenza che le separa. Nelle prime nate in
mezzo alle culte e pulite società di Grecia e di Roma, vediamo farsi della
donna quel conto che d'ogni cosa si farebbe da cui ci provvenisser soltanto vo
luttuose dolcezze 'e vivaci e corporali diletti: laddove nelle séconde,
comunque nate in mezzo a feroci e brutali pas sioni e lotte continue di
elementi tra loro pugnanti e d i scordi, son le donne reputate quasi di
superiore e più n o bil natura e fattevi obbietto d'uno entusiastico culto e
d'un devoto e mistico amore. Vediamo la passione espressa nei versi degli
antichi esser meglio ardenza di voglie ed e b brezza di sensual godimento che
puro e indefinito desio ed abbandonevole affetto ed obblio di se stesso e del
mondo nell'amata persona, come ne'poeti del medio evo si o s serva. E però
campeggiar ne'primi la gelosia,la quale in sostanza (come bellamente si esprime
l’Ajello) è amor proprio, è poca o niuna stima dell'oggetto amato, spa rire
interamente dalle opere dei secondi, cantori di una passione più dell'antica
disinteressata e gentile. Questo puro e spirituale amore, questa stima ecces
siva, questo universale e presso che religioso culto fatto nel medio evo alle
donne, è ciò che si chiama dall’Ajello muliebrità della moderna letteratura con
vocabolo di cui non starò affatto a disaminar la convenienza, bastandomi aver
significato ilpensiero che ad esso congiunge l'autore. É di questo singolare e
non mai più veduto fatto, il quale, se costituisce ladifferenza del Tibullo dal
Petrarca in quanto ai lor pensieri ed affetti amorosi, forma un nuovo ed i m
portante elemento della nostra letteratura, che rende r a gione il suo libro,cercando
principalmente dare al fatto un fondamento, come l'autor dice, nella natura
umana, avvalorando in tal modo e psicologicamente spiegando quei fatti, c h e,
storicamente affermati, son mutabili e troppo speciali ed angusti perchè la
Scienza della Storia debba farne un gran caso. La qual trattazione spero non
sem brerà inutile ad alcuno o di mero passatempo, imperoc chè se la letteratura
forma parte integrante della vita di un popolo e quindi della sua storia, nè si
può senza colpa per trattar l'una trascurar l'altra, 'e se la patria nostra si
è fatta felicemente studiosa delle sue memorie del medio evo le quali, se non
sono le più liete,sono certo lepiù gloriose, il saggio dell'Ajelo non giunge
certamente inopportuno, ed egli riscuoterà senza dubbio il plauso di tutti
coloro che rettamente sentono e pensano.Ilche assaibe ne, nè poteva altrimenti
accadere, intese lo stesso Ajello il quale, mostrando nella sua introduzione
esser quella tal muliebrità principal differenza della moderna letteratura dal
l'antica, massime considerandola ne'suoi lontani effetti sulla vita ed il
pensar delle nazioni, ed i nuovi e signoreggianti elementi delle moderne
lettere star nell'amore e la morte; assai logicamente concludeva doversi il
lavorare intorno ad uno di questi elementi reputare opera per la moderna
critica importantissima. N o n voglio con ciò dire essere egli stato il primo
ad investigar le cagioni di questa che con lui chiamerà volontieri muliebrità
della moderna lettera tura, chè già, comunque per lo più senza prove e quasi
dommaticamente assunte, varie opinioni eran corse sul l'oggetto e di reputati
scrittori tutte e dallo stesso Ajello a quattro ridotte nel seguente modo. Che
il Cristianesimo in 'ispezialtà sia stato cagione del devoto e più puro amor
per le donne. Parole del Conte Cesare
Balbo nella sua lodatissima vita di Dante. Ch'ei sidebba alle invasioni degl’arabi,
massime alla vicinanza dei mori di Spagna. Che soprattutto ei sia
necessario e natu ralissimo effetto delle sociali e locali condizioni in cui f
u ron posti gl'invasori, poichè presero più ferma stanza sul territorio romano,
e che ilfeudale ordinamento ebbe aqui stato alquanto di consistenza e di
stabilità. Che sieci stato recato dalle genti germaniche con tutti gli altri
lor costumi statici narrati e descritti da C e sare, Tacito ed Ammiano
Marcellino. Or, movendo dalla prima opinione sostenuta precipua mente da
scrittori Tedeschi per una certa loro inehinevo lezza all'astratto e più per
reazione alla miscredenza del secolo passato, ecco le ragioni che ad essa
oppone l'a u tore. Essere il fatto di cui è parola apparso al secolo undecimo e
però aver dovuto la cagione aver prima ope rato. Or in quella sorta di tempi
potea forse la Chiesa aver qualche possanza, m a ogni buono effetto il qual d e
rivasse proprio dall'indole della religion cristiana, dovea esser contrastato e
depresso fra la grossa ignoranza e lo scompiglio e il grido di bestiali e matte
passioni. Con che non s'intende dire il Cristianesimo non avere avuto potere a
quei giorni, m a che la sua spirituale e gentil n a tura non potea avere in
tanta barbarie e in si profonda ignoranza pieno e libero effetto, ma scarso e
poverissimo. In fatti la vera e nobil sua natura troviamo sconosciuta, e
praticato solo ciò che avea di più esteriore e formale, e di Concilie di Papi
contro i tornei, il duello e di giudizi di Dio gridar vanamente. Aver senza
dubbio il Cristianesimoconferito potentemente a migliorar la condi
zionefemminile,ma nonperciòpotersidireche,eman cipando la donna, producesse poi
quel puro amore e reli gioso culto che nel medio evo si ottenne, essendo questi
due fatti non pur diversi, ma sino ad un certo segno in dipendenti e slegati,
di sorta che sonosi appresso scompagnati sempre e fuggiti. Esser l'amore
cantato ne' tempi di mezzo gentile e purissimo, m a si profano e quasi
idolatra. Or se si rifletterà che il Cristianesimo immoto e fisamente stretto
cogli occhi al Cielo e all'altra vita, come al solo vero scopo dell'uomo, tenga
la terra un esilio e transitoria stanza di sperimento, ed abbia sempre temuto
che avesse pregio e bellezza; si vedrà che cosa dovesse pensar delle donne,
di queste possenti allettatrici de'cuori umani, delle quali non ci ha cosa che
più grande e general potere abbia sull'uomo, che meglio e con più forza il
discosti e distolga dai celesti e santipensieri. Ecco perchè il Cristianesimo,
qual si mostrò nel decimo ed u n decimo secolo, promosse il celibato, popolò di
anacoreti i deserti della Tebaide e, riferendo ogni nostra mise ria al
malaugurato potere ed alle lusinghe della donna (di che tristi e multiplici
esempi glie ne fornivano le s a cre carte-) vide in costeimen la compagna che
la se duttrice é quasi la principal nemica di lui, ed, anzi che confortarci ad
amarla, non ha fatto, nè fa tuttavia, che distorci dal porvi affetto grande e
terreno, come dal più tenace e periglioso laccio del nostro animo. Nel Romano
impero di Levante, ove più liberamente ed ef ficacemente la Religione Cristiana
operò, quel che era suo effetto averlo avuto, migliorar cioè la condizion delle
donne, come si può veder nelle leggi pubblicate da Giu stiniano; m a nessuna
ombra trovarsi nelle opere di quel tempo della muliebrità occidentale, niente
d' amore che almen puro fosse e gentile. La quale ultima cosa non es sendo
giunto a produrvi dopo ben dieci secoli di non contrastato impero,tanto meno si
potrebbe tener come cagione della muliebrità della letteratura d'Occidente
quando anche si volesse concedere che qui campo m a g giore egli si
avesse.ottenuto. Il che tanto più sembrerà vero in quanto si osserverà quel
grande ed universale amore, che nei cristiani poeti de'mezzi tempi vediamo,
trovarsi a un di presso in quei paesi ed in mezzo a quei popoli che usaron di
avere più mogli e chiuse le ten nero e schiave; e più nel mezzodi della Francia
che in Italia, ove il Cristianesimo dominò maggiormente; ed es serne rimase le
tracce più nella classe cavalleresca e g e n tile che nella media e popolana,
sulla quale sempre di L'influenza degli Arabi sulla muliebrità dell'occiden tal
letteratura vien rigettata dall'Ajello sull'appoggio delle seguenti ragioni 1.o
Perchè non ci si poteva da essi r e care ciò che non avevano, essendo la loro
letteratura, come tutta quella delle genti orientali', obbiettiva e
sensia gior potere il Cristianesimo fa prova. magbile, e priva
interamente ed ignara di quel profondo ed in definibil desio, di quel levarsi
dell'animo oltre ai confini del finito e del presente in una sfera più pura e
beata che pur cosi spesso accade trovar nella nostra. La qual dif ferenza
dell'araba dalla nostra letteratura trova una giu stificazione a priori nel
clima, stantechè, secondo l'Ajello, un clima nordico o temperato farà le donne
più caste e restie, quindi più stimate e libere, e l'amore più disip teressato
e gentile che sensuale ed ardente, ed esprimente anzi il grido e il lamento
d'un principal bisogno del cuore che un corporale appetito; dovechè sotto meridionale
e caldissimo cielo, gli uomini poligami ed, invece di dolci e sole compagne,
chiuse le donne e soggette, l'amore non rivestirà la stessa fisonomia. Essere
il fatto di cui è parola della natura di quelli che non si possono comunicare
da un popolo all'altro, nè procedere da altro che da intrin seca e spontanea
cagione. E ciò per non essere l'amore cantato nel medio evo artifizioso o
bugiardo, m a sì bene profondamente sentito e spontaneo, e gli usi galanti e c
a vallereschi ingenerati e tenuti da universali bisogni e da affetti veraci e
potenti tanto che vediamo il culto per le donne penetrato sino nelle leggi
barbare, le quali provveg gono sempre a certi e già provati bisogni e non a
quelli eziandio che si possono temere. Oltrechè le usanze d'un p o polo possono
derivare da'suoibisogni ed affetti, non questi da quelle, massime in popoli
giovani e rozzi e però di altera e disdegnosa natura, ne'quali le usanze non
sono mai recate e tenute da capriccioso impero di moda o da servile imitazion
degli stranieri, come in più colti e vanitosi tempi interviene, ma
siderivanodaalcunbisognooopinionicheessiabbiano. 3.° Perchè la storia mostra
esser la gaia scienza passata in
Ispagna,sededegliArabi-mori,dallaProvenza,checo storo (dappoichè non se ne
trova traccia in Oriente, ne le sociali condizioni il concedevano ) ricevettero
dai C r i stiani le costumanze cavalleresche, e queste, invece di a p parir
prima in Ispagna,poi nella Francia, in Alemagna e finalmente nella remota e
divisa Inghilterra, vedonsi apparir prima in Provenza e in Alemagna e in
Inghilterra ed assai più tardi nella Spagna che,per la vicinanza dei Mori,
avrebbe dovuto prima averle. Perchè infine, se i costume dei Mori non
furono indarno pei lor vicini, 'non è da credere che grandi eprofondi ne
fossero stati gli ef fetti a cagione delle sterminatrici guerre religiose, e
della differenza di culto e di lingua. Al che si aggiunga esser tale la
diversità del genio orientale da quel d'Occidente che quel che di arabo si
trovi nelle spagnuole scritture e dicristiano nelle arabe si possa agevolmente
scorgere. Escluse in questo modo le due prime opinioniche al Cristianesimo ed
agli Arabi riferiscono la muliebrità della occidental letteratura, viene
l'autore a fermar la sua opi nione, la quale si compone in parte dalla unione
delle ultime due", di quella, cioè che ai Germani attribuisce il nuovo
culto che ebber le donne, citando Tacito e gli altri romani storici che di loro
scrissero; e dell'altra che, negandolo, il fa singolarmente nascere dalla vita
feudale; opinioni che, cosi sole e divise come sono, paiono al l'autore assai
ristrettive ed anguste, e per giunta inelte a spiegar tutto il fatto. Il che,
volendosi fare, soggiunge con assai d'accorgimento, è mestieri cercarne la
cagione pro prio in grembo e nell'indole dell'età che lo accolse e m o strò; e
però bisogna con ogni studio possibile e partita mente'esaminar quello che
costituisce il medio evo, in somma quei generalissimi fatti che mutaron la
faccia di Europa,e rovesciando ilRomano Imperio,nascerfecero é detter forma e
colore alle nuove società d'Occidente. >> Or principali elementi della
nuova civiltà essere il roma no'; il cristiano e il germanico, nè trovandosi il
nuovo amor del medioevo nel primo elemento, nè derivar po tendo dal secondo,
resta che in ispecie almeno e sopra tutto dall'ultimo derivi. La venuta infatti
d'un giovine é poetico fatto non potersi altramente spiegare che per mezzo di
coloro che ristorarono la nostra vecchiezza con la robustezza e gioventù loro,
e ci affrettarono per la via di progresso e di moral perfezione. E poichè i
Germani stanziatisi nelle terre romane eran venuti sotto il doppio ed efficace
potere della civiltà antica e della religioncrie stiana, doversi perciò
esaminar questo fatto e questo scon tro, considerando i Germani 1.o come genti
uscite di tra 1 montana: come uomini barbari, pur non
selvaggi: come bellicosissimi: come stanziatisi isolati e di visi per le
campagne, indi costituitisi in feudale ordina mento: 5.0 come popoli giovani e
vigorosi accostati al potere di una civiltà antica e grande e d’una religione
mansueta e gentile. Questo quintuplice modo di copșide rare i Germani, bello
senza dubbio e fecondo d'impor tanti applicazioni, produce la suddivisione di
questa se conda parte del libro dell'Ajello in cinque capitoletti che riassunti
contengono: 1.° Ilfreddo e duro clima, sepa rando e concentrando le famiglie, e
impedendo la poli gamia, dar naturalmente preminenza e crescer stima alle donne;
e facendole più schive e pudiche, e di maggior verginal compostezza e matronal
decoro dotate, render p e r ciò l'amore assai più puro e devoto, anzi quasi
estatico e contemplativo. Con che l'autore non intende dire essere di questa
natura stato l'amore delle rozze e selvatiche genti venute sul territorio
romano, ma solo che in esse, come abitanti di settentrionali contrade,esser ne
dovea la natural disposizione e quasi il germe, il quale, ingenti litisi gli
animi, n o n potea rimanersi luogamente ascoso, ed infecondo. Essere i Germani
venuti in Occidente genti barbare si m a non già selvagge e, per lo contatto
col Cristianesimo e la romana civiltà, nel secolo undeci mo pervenute a quel
giovine stato di coltura che è il primo uscir della barbarie e che eroico o
poetico si chia merebbe, in cui l'amore ha più generale e grande effi cacia, a
differenza dei tempi selvaggi ove la sola parte brutale e sensibile predomina,
e degl'inciviliti ne'quali la civiltà, aguzzando la facoltà riflessiva e
scolorando l'im maginazione, toglie ogni prestigio e possanza all'amore. Essere
genti bellicosissime, presso le quali sogliono tenersi in molto pregio le donne;
la qual cosa pruova l'autore con l'esaminare in che mai psicologicamente con
sista l'amore, e mostrando ch'è ilcompimento dell'umana natura; che perciò
congiunge proprietà opposte, m a leo gandole armonicamente; che tutte le
qualità virili pos sonsi ridurrre alla fortezza, le femminili alla debolezza; e
che in conseguenza chi daddovero è uomo ed ha in se uso e coscienza di moral
fortezza, più inclinar deve ad amare, e a stringersi allato il timido e
debil sesso; tap topiù che i forti son più magnanimi e di più aperto e gen
tilcuore,eperòpiùproclivi all'amore. Che, natalaca valleria, questa alla sua
volta avere assai conferito a cre scere stima edonore alle donne, le quali la
storia stessa, in conferma di queste teoriche,mostra stimate più in Isparta che
nelle altre parti di Grecia, ed in Italia più tra gl'indo mabili Sanniti ed i
bellicosi Romani che altrove.Aggiugnersi a ciò la feudalità la quale, per
lasciar spesso alle donne e fino in seno alla domestica vita un alto e quasi so
vrano posto, dovette grandemente aiutare il loro svolgimento morale, e perciò
di molto conferire a farle generalmente v e nire in considerazione ed opore,
non già come causa unica, non essendo nè cosi generale nè efficace di tanto che
possa pressochè sola bastare a rendere ragione del fatto. Nel quinto capitolo
finalmente, annodando tutte le sparse fila del suo lavoro, ecco,coine l'autore
formola la sua opinione, la quale, per essere stata assai ben rias sunta da lui
stesso nell'indicata risposta al Gatti, mi per metterò qui trascriverla. » lo
stimo, egli dice, che nel giovanile elemento della società di quel t e m p o,
così per la natural disposizione che ne recarono i vincitori per effetto dello
stato eroico a cui dopo la conquista per vennero, dell'indole forte e guerresca
che maggiormente si svolse tra noi, e della vita feudale nata dalla conquista,
fosse il fomite, il germe, e un'inchinevolezza grande ad amare e a stimar molto
le femmine. D'altra parte, nel Cristianesimo e nella civiltà romana era 1.o un
pensiero é un principio opposto; 2.° molta gentilezza e moral col tura. Il
pensiero e il principio opposto non avea potere di contraddire a quella
gagliarda e natural disposizione di giovane società: conciossiache, quanto
all'elemento r o m a no, per esser vecchio e stanco, eoltracciò in alcun modo
corretto e purificato dalla religion cristiana, se non era in esso l'amor puro
e devoto,neppure era l'amor bru tale e la disistima delle età antiche e pagane;
e quanto al Cristianesimo, sanno i miei leggitori quanto poco in quella sorta
di tempi valgan gl'insegnamenti, e le caute e fredde ragioni in mezzo al grido
e alla forza di caldi e giovani affetti, sempre più avvalorati da tante cagio
che ni,e poi dalla presaepiaciut ausanza. Rimaneanell'ele mento romano e
nel cristiano la gentilezza e la moral col tura; e perocchè queste non
contraddicevapo, alla detta natural propensione, anzi, ingentilendo gli animi e
i m o di, aiutavanla e snodavano, furono subito accolte da quelle genti rozze;
chè è nota la spontanea proclività nostra al vero ed al bello, massime quando
paion nuovi ed ignoti. In s o m m a, a dirla breve, ciò che nel Cristianesimo e
nella civiltà romana era contrario all'amore eccessivo e devo to, fu da giovine
e gagliarda forza vinto e depresso;e ciò che non lo impediva e vietava, m a
aiutava e svol geva, fu spontaneamente accolto é voluto. Questa parte io fo
all'elemento romano e al cristiano; nė mi spiace rebbe di farla anche agli
Arabi in alcuna mapiera, pur chè in sostanza mi sia conceduto ch'eglino,
ingentilendo inostri,aiutarono ilfatto,nongiàcomunicandoneilger me, o dandolo
già bello e formato,che è la sola cosa da me contraddetta.» E più sopra lo
stesso Ajello dice « Feci vedere che il fatto che io m'ingegdava di spiegare,mostrava
chiaro uno scontro di nuovo e di antico,di gioventù e dim a turità e quasi una
doppia e biforme natura: e che però dovea esser nato da opposti e contrari
elementi, o dallo scontro e fusione che io dissi del mondo romano e cri stiano
col barbáro'o germanico. Difatto, quanto alla parte giovanile, primitiva e
poetica, in Achille è quello a p punto che è nel Tancredi del Tasso; v'è tutto
il verde è la rude e virginal gagliardia di un giovine mondo. Se da Tancredi è
diverso, mancagli il:sentir delicato e gentile, e quella fina cortesia, e
quella sociale e m o ral raffinatezza'; mancagli insomma l'elemento romano e'l
cristiano che soli di tutto questo potevano esser cagione. Ed io nel saggio il
conferma i colla storia, mostrand o: 1.o che se ci ha luogo in Occidente, dove
con quasi pari forza si scontrarono l'elemento romano e il germanico, questo
luogo è il mezzodi della Francia, vero anello e temperamento fra la preminenza
romana d'Italia e il si gooreggiante spirito franco del settentrione; e che
quivi udironsi i primi canti d'amore, quivi la cavalleria prima apparve: 2.o
che a tutti gli altri grandi ed universali i Germani, o certo tanto
inferiore a quello delle nostre genti che ne soffrirono l'invasione fatti
di quella età è comune il doppio e biforme aspetto del nostro, e quanto alle
lettere tolsi ad esempio le cro nache e il poema di Dante, provando in tal modo
che questa è la propria rappresentativa sembianza del medioevo, e che però è
necessario che ogni grave e universale fatto dei mezzi tempi abbia la stessa
impronta e natura. Ecco, se non andiamo errati, la esposizione fedele delle
cose dall' Ajello discorse con uno stile, del quale non potrò certamente essere
io quello che porterà giudi zio; m a che alla universalità dei leggitori ha
lasciato d e siderare concisione maggiore, e minori proposte e promesse,
massime in un libro, comunque di molta sostanza, picciola fare che si vcol dal
dei nostri, nacque e vive sotto lo stesso Sole naturalmente all' astratto,
costretti, in non dovrà tenermi, che o pullo esso mole pur sempre. Volendo poi
dir qualche cosa della questione brevi osservazioni sul merito alcune l'Ajello
esercitato sulla nostra letteratura da quei lurchi barbari, i quali mi pesano
sull'anima peggio, nè mi par vero ai verso la terra ladizione da loro tanto
beneficio. E primamente che, per amor belli ridenti Tedeschi natale, si
piacciono gli antichi costumi di che i poeti fan sempre descrivercene l'aurea
semplicità di tutta itempi antenati sia venuta pretensione la riforma
rimotissimi, condonando che dai loro rozzi e feroci ad essi la strana costumi;
non posso comportarmi nellostessomodo con chi, la Dio mercè di Virgilio e
diDante.Inclinati, mi permetterò contro il potere anzitratto d'una m a che
siavi chi possa riconoscere, perdonando non mai riprovevole i primi che irradiò
la cuna difetto di campo, a vagare tra le nuvole, non è maraviglia migliore si
sforzino dipingerci vaghi colori.Chiunque esser preoccupato che di quella
egualmente riguarda il presente lavoro alla donna, non temerò di affermare, il
rispetto, cioè zialmente mostravasi presso i Germani, il loro tempo non si
trova nella stessa posizione che antico adorno di tanti. E, per non parte sola
de'costumi trat che più spe di da non potersi affatto indicare quale aiuto
o incitamento avesse potuto riceverne. Già ormai tutti convengono a non prestar
moltissima fede all'opuscoletto sui costumi dei Germani, che Tacito si piacque
comporre mosso da profonda indegnazione per i pervertiti costumi de'suoi
concittadini. Le memorie dell'antica Roma sono sempre presenti al pensiero di
questo venerando scrittore, che, trasportandole là dove crede trovare ancora
energia,comunque selvaggia, di vita e mancanza di mollezza e di servitù,
sperava puter far vergognare i suoi compatriotti della perdita di quelle virtù
cheu n tempo formarono la loro gloria e potenza, ed eran passate ad abbellire
la vita di u n popolo ta nto ad essi per intellettual coltura inferiore. O che
iom'iną ganno, o certo quanto di buono attribuisce Tacito, ai Germani
s'appartiene ai primi tempi della romana virtù. Dimostrarlo importerebbe
oltrepassare ilimitidel presente articolo, nè per fermo varrebbe molto alla
soluzione della questionecheho peroratralemani.Pure,ammessoche i Germani
pensassero essere nelle donne qualche divinità re e provvedenza e che tenessero
conto de loro consigli e sponsi, non saprei facilmente comprendere come possa
ciò aver contribuito, per quanto sivoglia menoma parte, a quello spiritualismo
d'amore che nel medio evo ebbe vita. Quella stessa opinione che Tacito
attribuisce aiGer mani la storia ha segnalato ne'selvaggi dell'America e n e
gli antichi Galli e nei Romani stessi, presso i quali le Sibille e le maghe e
le facitrici di sortilegi, femine tulle e credute inspirate, dimostrano la
generalità della stessa credenza figlia, come par sia chiaro,del Paganesimo.Ne
questa credenza stette meno in compagnia d'uno amor tutto materiale, anzi
presso di alcuni popoli colla disistima delle donne, come massimamente presso i
Germani,.i quali, staudo allo stesso testimonio di Tacito, in nes suna considerazione
civile le aveano. Ma di questo così lontano ed Oscuro tempo sarebbe inutile
cosa occupar ci, potendo gli stessi Germani essere considerati più da vicino,
quando, cioè, si son fatli vedere in mezzo di noi, fuori delle loro selve natie:
tanto più che lo stesso Ajello conviene esser quell'asserzione priva d'ogni
psico logico e scientifico fondamento, nè bastare fermarsi a' soli Germani,
ma esser necessario venirli seguitando noi conquistati paesi, e vedere e notare
come vi simutino e sfigurino per il poter della romana civiltà ed anche della
religione che vi trovano già stabilita e potente. Nella qual trattazione
progredendo,l’Ajello ba poi,come bo disopra fatto vedere, lasciato una parte
molto importante ai Germani sul mutato aspetto d'amore, poggiandosi a ragioni
le quali non mi sembrano tali da non poter meritare ós servazione alcuna in
contrario.Esse infatti si presentano a prima vista sfornite di qualsiasi
appoggio storico, e ri vestono un carattere a priori, di che l'autore stesso
pare si compiaccia e faccia pompa a disegno. Il suolo romano, egli dice, era
occupato da genti venute di tramontana, barbare non selvagge, bellicosissime e
giovini accostate al potere d'una civiltà antica e grande, e d'una religione
mansueta e gentile, stanziatesi iso late e divise per le campagne e poi
costituitesi in feudale ordinamento. Or se in mezzo ad esse poste in tali con
dizioni muta sembianza l'amore e di passionato e caldo si fa più puro e quasi
contemplativo, fa d'uopo ad esse genti in quel m o d o considerate recarne la
cagione. Conciossiacchè gli uomini del settentrione, ove le donne sono
naturalmente più che altrove libere e stimate, amano d'uno amore più modesto e
divoto, benchè non irrequieto e torbido,,e giunti sul territorio nostro si
trovarono non solo in uno stato di eroismo in cui l'amore ha più generale e
grande efficacia, m a forti abbastanza di tutta quella fortezza che è madre di
generosità e magnanimità, produttrici esse sole di vero e nobile amore. Queste
ragioni, comunque con tanto ingegno e forza di ragionamento dall'autore
discorse, non m i sembrano gran fatto ammessibili. Ed in vero parmi che dopo
aver con inolta giustezza l'autore osservato non doversi pene trare nelle selve
dei Germani per ispiegare i costumi che essi mostrarono in tempi a noi più
vicini, siasi poi di questa verità dimenticato nel corso del suo ragionamen to.
Or se la nuova letteratura cominciò dopo più secoli da che i barbari si erano
stanziati sul nostro territorio dopo che l'invasione era da lunga pezza
compiuta, ed il medio evo si andava già luminosamente svolgeodo, non so che
abbiano a fare con noi gli usi, anche dati per veri, della Scandinavia o della
Pannonia, le abitudini di po poli nomadi e feroci con quelle di società
costituite e ci vili. Già molto tempo prima che venissero a stabilirsi tra di
noi, i barbari aveano subito tutto il potere della nostra civiltà, e quando poi
lo stabilimento fu fermato e cessò l'opera delle arsioni e delle rapine, essa
li dominò c o m piutamente e di quel che era proprio dell'antica vita nulla
potevano più ritenere, nè ritennero. Che si dirà dopo più secoli passati in
tale nuovo e tutto opposto ordinamento e condizione di vivere, il quale delle
loro selve restar non dovea nemmeno la reminiscenza? So che l'Ajello vorrebbe
solo gli si concedesse essere ne'Barbari la natural dispo sizione e quasi il
germe il quale, collo ingentilirsi degli animi, produsse poi il suo frutto. Ma
per i primi venuti quella disposizione, anche concedendosi, dovea restare bene
annullata e sparire nel caldo dei combattimenti e delle stragi e d'una
conquista assai fresca. I loro figli doveano nascere,e naquero infatti, romani,
nè quindi poteva passare in loro una disposizione tutta propria dello stato
selvaggio di cui non aveano cognizione, massimamente che quel rispetto della
donna non era in essi la conse guenza del sagro principio dell'uguaglianza dei
dritti trai due sessi, e che, non avendo una tradizione a custodi re, poco
dovea restare o nulla si conservò tra di loro delle antiche memorie. Nella
quale opinione sempre più mi vado confermando quando contemplo più da vicino
icostumi di colesta gente. Chi non conosce la poca pudicizia di Basina madre di
Clodoveo, di Fredegonda moglie di Chilperico, e di Brunebaut regina di
Austrasia? « Basterebbero, dice il chia rissimo e dotto Cesare Balbo, i fatti
di Rosmunda e di Romilda amostrare lanativaferociade'Longobardi,come quelli di
Gundeberga e di Teodora ad accennare tal b a r barie alquanto ingentilita e
dalla principiante cavalleria e forse anche dal loro conversare cogľ Italiani. non
sa che nel più antico poema dell'Allemagna, quello dei Niebelungen,» l'amore vi
prenda poca parte nelle azio. Vita di Dante. Chị ni, i guerrieri
s'interessino a passioni diverse dalla g a lanteria, le femine poco
compariscono, non sono l'og getto di culto veruno e gli uomini dalla unione con
loro non sono nè inciviliti, nè resi più mansueti, che gli antichi Germani vi compariscono
furbisfrontatamente, mancatori di fede e bugiardi? Chi sa in somm a quanto
erano pessimi i costumi di queste genti,o che si consi derino sul loro suolo, o
nel primo contatto con noi, potrà dire se mai poteva essere in loro
disposizione alcuna al culto della donna, ed ad uno spirituale e puro amore. Al
qual proposito mi si permetta appoggiarmi all'autorità, di uno storico riputato
di nazione Tedesca, e pero poco sospetto, il quale, cominciando dal riconoscere
che la sola trasmigrazione operi un rivolgimento in tutta la maniera di essere,
rompe quasi tutti i legami della vita domestica, nè a riparare questi mali
offre il m e n o m o rimedio, onde l'anarchia ed il mal costume si dilatino per
ogni dove e da per tutto recano il disordine e la devastazione; finisce col
mostrare lo sfrenato e terribile disordine in che, quan do posero stanza in
Italia, si trovarono i Longobardi, miscuglio di generazioni racimolate da tutte
le parti del mondo, popolo di rotti costumi e stato però di pernicioso impero sui
suoi disgraziati vicini. E questo che il Leo dice dei Longobardi dicasi pure
dei Franchi, la discesa de'quali in Italia fu per questo bel paese, come
sempre, la più terribile sventura che la provvidenza nell'abisso del suo
consiglio gli abbia giammai preparato. Dopo le quali osservazionituttenon si potrà
non conchiudere che semai in quelle genti originariamente germane si mostrò
qual che cosa che sentisse di rispetto alla donna o di spiritua- lismo d'amore,
fu perchè la nostra civiltà le investi c o m piutamente, perchè sispogliarono
del primo uomo, e non più Germani,ma RomanioItalianituttidiventarono.Chè lo
spiritualismo non si alimenta nell'amore se non collo sviluppo
dell'intelligenza, e spirituali,e mistici veramente non furono nel medio evo
che Petrarca e Dante, i più grandi uomini di quei tempi e de'posteriori. Si
vegga dunque se in quei petti di bronzo dei barbari poteva mai Leo, Storia
d'Italia. conservarsi nascosa e risplender poi una fiamma che sola a cor
gentile si apprende, e da rozzi e disleali uomini maravigliosamente rifugge.
Posso però dispensarmi dal con futare quella generosità e magnanimità che loro
l'Ajello attribuisce, poichè se mai possono dirsi quei barbari forti di quella
specie di fortezza che è di generosi sentimenti produttrice, lascioal lettore
pensarlo. E qui parmi il luogo di far notare il poco conto te nuto dall' Ajello
degli effetti prodotti sui barbari dalle loro trasmigrazioni, errore essenziale,
perchè la società ger mana, come è stato ben detto, fu modificata, spaturata,
disciolta dall'invasione, ed il suo organizzamento so ciale peri come quello
dei popoli invasi, gli uni e gli altri non mettendone in comune che gli avanzi.
Oltrechè (colla profondità sua solita osserva ilTroya ) « la grande
trasmigrazione di genti dovè necessariamente nel corso di più secoli trasmutare
la faccia ed i parlari della Germania di Tacito. Negli ultimi anni di Attila
gli ottimati degli Unni eran divenuti Romani pel lusso, e l'intera nazione in
Europa godeva di stabili sedi che le facevano aver men caro il suo antico viver
da pomade. Le antiche razze celtiche della Pannonia si eran confuse da lunga
stagione coi Romani, e quella provincia feconda sempre d'impe ralori avea fin
dai tempi di Diocleziano pressochè rimu tata la popolazione con le moltitudini
sempre crescenti de'nuovi barbari sopravvenutivi. La lingua tuttavia e le
discipline romane prevalsero per molte età nella Pannonia, e quando i
Longobardi vi entrarono, già molti discen depti di quei nuovi barbari eran
divenuti romani. Pur non credo che gli Unni ed alcuni altripopoli, de'quali ho
toccato fin qui, avessero perduto l'interaloro natura dopo Attila, sebbene
abitassero nell'imperio. Ma il tempo ed il vivere sul suolo romano cancellarono
finalmente anche in tali barbari l'impronta della loro indole natia. Storia
d'Italia. Uno dei più profondi e coscienziosi layori usciti alla luce in questo
secolo. Dopo le quali osservazioni non riusciranno molto ef ficaci tutte
le ragioni desunte dal clima c h e l'Ajello p r o duce in sostegno della sua
opinione. Volere infatti assumere che nei paesi meridionali sieno più bramose e
sfac ciate le donne, e sotto freddo cielo più schive e pudiche, non mi sembra
possa essere appoggiato dai fatti. Chè l'ot timo autore non potrebbe certo
asserire più delle fioren tine e milanesi donne essere schive e,pudiche le tede
sche, più delle napolitane o greche giovinette le donne di Francia, o
d'Inghilterra; la pudicizia non dipendendo totalmente dal clima, m a nella
massima parte dall'edu cazione, dal principio morale e buon senso più o meno
sviluppato di ciascheduna nazione. Naturalmente le genti di un clima
meridionale sono dotate di una sensibilità m a g giore di quelle che vivono a
settentrione, m a la posizione de'due sessi è relativamente uguale nelle due
contrade. Se le donne del nord sono poco sensibili, per far sentire i maschi
bisogna scorticarli. Quindi la diversità del clima importerà a spiegare la
maggiore o minore ardenza del l'amore; ma in quanto a quel misticismo o, mi si
la sci pur dire, platonismo dell'amore, pon saprei ben v e dere in che ilclima
vi possa contribuire, essendo una cosa tanto poco del corpo che tutta nella
regione dello spirito risiede. È in questo senso che io trovo giustissima
l'interrogazione del Gatti.- Come può un fatto che ha per condizione naturale
le nebbie ed i ghiacci del nord trasportarsi e fruttificare ugualmente sotto il
sole del m e z zogiorno? Alla quale interrogazione non è certo adequata
risposta dire che il fatto non era indigeno dei Germani, m a che questi ne
portarono con loro il germe, il quale sbucciò poi per opera dello scontro e
della fusione dei vin citori coi vinti. Questo germe portato da un clima lon
tano e freddo in uno meridionale, e che aspetta quisilen ziosamente per più
secoli per poi finalmente, cessati gli urti dei barbaricon uomini civili e
compiuta la fusione, uscir fuori come la ranocchia dopo la tempesta, io
m'inganno, o è troppo malagevole cosa a comprendersi. Nè posso ancora
convenire coll’Ajello che il freddo e duro clima faccia di sua natura libere e
più stimate le donne, quindi più divoto e rimesso l'amore, parendomi la
storiacontraddir del pari a tale asserzione tanto che non mi sarebbe difficile
mostrare la miglior condizione delle donde essere stata in ogni tempo in
ragione inversa della. Non inviderunt, è la bella espressione di Livio,laudessuasmu
lieribus viri romani, adeo sine obtrectatione gloriae alienue vivebatur;
monumento quoque quod esset, tcmptum Fortunue muliebri aedificatum dedicatumque
est. freddezza del clima. E per non dilungarmi di troppo, io non so se mi
si possa negare l'importanza da esse olte nuta presso il popolo Ebreo, e la
continua bella mostra che vi fanno, e se possano mai obbliarsi ibei caratteri
di Debora e di Giuditta, della profetessa Olda, di Rut, di Sara, di Rachele,
della moglie di Tobia é d'innumere voli altre, e la venerazione di che gli
Ebrei le circonda vano, ed il purissimo amore di che furono l'obbietto, e tutta
finalmente la legislazione Ebrea che in tanta con siderazione, a preferenza
delle altre genti,le avea. Chiaro argomento che n o n le nebbie ed i ghiacci,
non la fero cia brutale delle orde vaganti producono stima alle donne e danno
purità all'amore, cose poste naturalmente nella ragion diretta dello sviluppo
del pensiero e dell'incivili mento, e della migliore organizzazione individuale
d'un po polo. Ecco perchè la donna fu sempre in Italia più che altrove, avuta
in pregio e stimata. Senza parlare della scuola antica italiana o pitagorica,
che dir si voglia, e degli antichissimi costumi Etruschi, presso i quali le
donne aveano molta importanza, ENEA fonda una città e dal nome di sua moglie la
chiama “Lavinia”. Son le donne Sabineche s'interpongono frai combattimenti del
Capitolino e riducono gl'inferociti guerrieri a concordia, ed il nome di esse è
imposto alle curie di Roma. Fra il duello degli Orazii e de'Curiazii comparisce
lagrimosa la sorella de'primi, e basta la morte di lei a sospendere il gaudio
pubblico della città. In tutti gl'intrighisuccessivi del regno (come sem pre in
Italia )le donne figurano. La libertà di Roma è consolidata col sangue di
Lucrezia, come più tardicon quello di Virginia, e l'ardire e magnanimità di
Clelia viene eternato con una statua equestre. Veturia respinge le armi
parricide di Coriolano, è cosi tanti e tanti altri racconti che conservatici
dal canto delle tradizioni mostra no potentemente la verità di ciò che
assumemmo di sopra. Fu a Roma innalzato un tempio alla Fortuna muliebre (1), e
fu dato il primo esempio di onori pubblici alle donne, le quali vi sentivano in
tanto alto grado la propria dignità e tanto vi aveano d'importanza che spesso
si dovettero le pubbliche assemblee occupar di loro che vi si presentavano con
petizioni e di tumulti l'empirono. In R o m a aveano le donne il passo per le
vie, non si poteva fare o dir cosa disonesta in loro presenza, i giudici
capitali non potevano citarle e coloro che le citavano in giudizio non potevano
toccarle, ut, dice bellamente Valerio Massimo, inviolata manus alienae tactu
stola relinqueretur. Chi non conosce le sorprendenti prerogative delle Vestali?
Camminavano pre cedute da u n littore; incontrandosi con loro i consoli ed i
pretori abbassavano, in segno di riverenza, i fasci; andavano in cocchio anche
quando gli altri per legge nol potevano; avevano distinto sedile negli
spettacoli; la loro dichiarazione in giudizio avea forza di giuramento, ed un
reo di morte, che avea la fortuna d'incontrarsi con lo ro, rimaneva assoluto.
Tanto la verginità era in onore ! Ecco perchè quelle che eransi rimase contente
d'un sol matrimonio, corona pudicitiae honorabantur, e Spurio Carvilio,
comunque per tolerabile cagione, dice Valerio Massimo, avesseripudiato sua
moglie, non fu meno segnato di reprensione come colui che avea la fede
coniugale al desiderio di figli posposta. Il matrimonio era la comunione di
tutt'i dritti divini ed umani, ed era veramente bella l'istituzione della Dea
Viriplaca, nel cui tempio i coniugi in discordia concorrevano. Dea, dice lo
stesso autore, coși chiamata perchè placava i mariti, degna veramente di essere
onorata e riverita anzi adorala quanto altro I d dio, utpote quotidianae
ac domesticae pacis custos, in pari iugo charitatis ipsa sui appellatione
virorum maiestati debi tum ac feminis reddens honorem. Tralascio di ricordare
co m e usciti dell'infanzia i fanciulli eran dati in educazione ad una donna
rispettabile del parentado, e come sino alla età di quattordici anni aveano
essi comuni colle fanciulle gli studi della puerizia, e la esțesa coltura delle
donne romane, massime negli ultimi tempi, come di cosa ormai troppo vulgare. Si
che possiam dire col Michelet che par v tendo
pressogl'Indianidall'amormistico,l'idealedella o donna riveste presso i Germani
i tratti d'una verginità selvaggia ed'una forza gigantesca, presso i Greci
quelli della grazia e della scaltrezza, per giungere presso i Romani alla
più alta moralità pagana, alla dignità virgi ne nale e coniugale. Ma, per
venire a tempi più vicini in mezzo allo universal degradamento, dice uno
storico, ilcui nome sarà pronunziato sempre con riverenza, le dame romane non
aveado perduto l'avvenenza e l'in gegno delle antiche matrone,e d erano perciò
assai p o tenti. Anzi non ebber mai le donne tanto credito presso alcun governo,
quanto n'ebbero le romane nel decimo secolo. Sarebbesi detto che la bellezza
aveasi usurpato i drittidell'impero »E qualèilpaese,esclamailLeo,ol tre l'Italia,
dove la bellezza delle donne non dirò che accese, ma
solafecerisolvereipopoliallaguerra?dovele donne hanno più lungo tempo dominato,
non pur ne'negozi temporali, m a in quelli che appartengono alla coscienza? Nè
questa tradizione è stata,o potràessermai interrotta, chè vive e spira ancora
nelle donne d'Italia tutto ilsor riso di questo cielo d'incanto, tutta la
maestosa dignità di chi sentesi nato a grandi cose, ed esse inspireranno per
sempre l'ingegno dei poeti e degli artisti,e saran nostra guida e consiglio nel
periglioso progresso della vita. Esclusa cosi qualunque specie di potere dei
Germani sulla mutata sembianza di amore, penso doversi dire al. Histoire
Romaine. Cito con tanto più di piacere questo scrittore in quanto che egli è
uno de'pochissimi serittori di Francia i quali dotati di molto ingeguo e buon
gusto si giovano delle cose degl'Italiani rendendo loro giustizia. Si
vegga dopo di ciò se ilf reddoe duro clima renda più stimate e libere le donne,
e quindi rimesso e più di voto l'amore. Al mio modo di vedere, se l'amore può
essere ardente e bramoso senza che perciò abbia nulla di spirituale e di
contemplativo, quest'ultima qualità non può star però senza la prima. Petrarca
e Alighieri non avreb bero sublimato a tanta spirituale altezza i loro amori se
'amato non avessero ardentissimamente. È la storia di tutti gli amori nel medioevo.
Come dunque il fatto in parola o la muliebrità potea venirci dai freddi amori
dei fred dissimi uomini del nord? trettanto della feudalità, opinione sostenuta
da uno scril tore di Francia troppo sventuratamente conosciuto, e dal l’Ajello
modificata con quel buon senso a lui proprio, e sull'appoggio di ragioni che a
m e sembrano sufficienti per escluderla del tutto. Non solo (son parole sensalissime
dello stesso Ajello) perchè a și grande effetto ella è trop po scarsa e lieve
cagione, ma e perchè non è cosi ge nerale, nè efficace di tanto che possa
pressocchè sola b a stare a render ragione del fatto.” È di vero (è lo stesso
Ajello che ripete queste già conosciute ed indubitabili verità ) in Italia non
è stata mai o pressocchè nulla, per chè le città conservarono l'antica
preminenza sulle c a m pagne, e gli uomini vissero anzi raccolti nelle prime che
divisi e sparsi per il paese, per non dir che proprio in quelle parti, dove
pria vigorosa ed ardita levò il volo l'italiana poesia, furon tosto i signori o
invogliati o co stretti a lasciar le castella e a venirne ad abitar le città.
Anche in Ispagpa (per la subita invasione, o per non essere stato mai quel
paese fuor che in picciola parte s o g getto a Carlomagno) o non furono feudi,
o almeno in quel modo che in Alemagna in Francia e inInghilterra. Eppure non si
potrebbe dire che le donne italiane o spa gpuole fosser molto meno stimate che
le francesi, nè che la poesia in quelle due meridionali contrade mostrasse uno
amor manco devoto e gentile » Ciò posto,trovo chiaro che non si debba sul fatto
in parola attribuir potere alcuno alla feudalità, conciossiacchè, per potersi
un fatto chia mar legittimamente causa dell'altro, è mestieri che siasi
mostrata trai due una connessione necessaria e continua, e, dove apparisca o
manchi l'uno, l'altro apparisca o manchi delpari. E questi requisiti abbiam
veduto non convenire alla feudalità, perchè non stata in quei luoghi ove la
letteratura ebbe più notevolmente quel che l’Ajello chiama muliebrità. Si
perdoni quindi a chi, con un modo di giudicar tutto francese, crede spiegare
ogni cosa con una causa sola, comunque non apparsa d a d dovero che sul
territorio di Francia, e che, non v e dendo al di là della Senna, cerca con
quella miseria di fatti che gli colpiscono lo sguardo metter fondo a tutto
l'universo. Il buon senso d'un Italiano non poteva m o strarsi
impacciato ugualmente, massime in riguardo alla feudalità, la quale tra noi o
non fu mai, o certo non vi si mantenne che come una eccezione, in guerra
continua col nostro modo di pensare e di sentire, senza importan tanza, senza
metter mai radice nei costumi. ciò che in ogni tempo ha segnalato il
carattere degl'Italiani, o maggio non all'uomoma aiprincipi,battersinonperun'in
dividuo ma per una idea e che è stata la causa della loro grandezza
intellettuale e debolezza politica. Pure nel viver disgregato e locale dei
barbari con stituiti in feudale ordinamento crede l’Ajello essersi svolte e
rafforzate le domestiche affezioni ed aiutato lo svolgi mento morale delle
femmine, ed aver quindi molto contri buito a dar loro pregio e riverenza. Alla
quale opinione io non posso soscrivermi,perchè non mi pare che nella vita
isolata dei castelli e di continua guerra possano raf forzarsi le dome stiche
affezioni, e molto meno aquistarvi pregio le donne, ed avere impero sull'animo
d' un signore assoluto e brutale e costretto a trattar continuamente le armi,
nè d'altro bramoso o sciente. Chè in una vita tutta di sospetto e di
disgregazione fisica e morale, la donna lontana dal consorzio delle genti, nè
conosciuta che dal solo feroce obbligato compagno della sua vita, non è altro
d'un fiore che non olezza, o a cui non giungano gli sguardi delle innammorate
giovinette. Ora dicasi se ne'costumi feudali poteva rattrovarsi in uno stato
tale da trarre i caldi sospiri degli amanti e i teneri passionati versi degli
erranti trovatori. Certo la privazione eccita il desiderio e il fa più che mai
bramoso ed irrequieto, m a egli è pur vero che n o n si desidera l'ignoto, e le
donne racchiuse nei feudali castelli erano appunto uno ignoto che non può
desiderarsi. Quindi, se ci ha luogo dove le donne potevano aquistar pregio,
erano per fermo le città italiane o i castelli de'Signori nel modo come stavano
in Italia, ne' quali le donne erano si custodite, ma non sottratte agli
sguardi degli amanti. A ciò si aggiunga l'estrema ruzione dei costumi feudali
cor nella lettera tura di quel tempo le tracce più capaci di fare arrossire la
gente; la violenza e le rapine che essi concedevano largamente si più a lungo
durarono in Germania, e pochis, che lasciarono simo, come è chiaro, in
Italia. Nè si potrà fare a meno di conchiudere che la feudalità nè per se
stessa, nè in concorrenza di altre cause poteva dar gentilezza all'amore, nė vi
contribui in realtà, perchè l'amore fu veramente gentile e purissimo in Italia,
dove la feudalità non ebbe vita, o almeno fu preminenza della vita cittadina
che p o g giava sopra principi di opposta natura. Oltrechè non do vrebbe
dimenticarsi che il principio della esclusione delle femmine dalla successione
dei loro congiunti,almeno in con correnza coi maschi, fu un principio tutto
feudale e ri messo in vigore tra di noi dai Germani, poichè già nella legislazione
giustinianea era per opera, come par Ed a questo luogo mi si permetta osservare
quanto poco al vero s'appongono coloro i quali sostengono averci i barbari
trasfuso il sentimento della indipendenza personale, e la feudalità aver fatto
valere in Europa ildritto della personale resistenza. Chè non so se
quelsentimento si trasfonda mai negl' individui distruggendoli o rendendoli
schiavi, e se ottimo mezzo possa essere la scimitarra dei barbari per coloro
che sventuratamente ne sentivano il peso, ed erano in quel modo conci che tutti
sanno, sostituendo alla maestà dell'imperio la forza brutale ed il governo
ditantipicciolitirannotti.Nè sosequalsentimento e dritto possa svolgersi in
tale sorta di tempi, ne' quali l'uomo era considerato come proprietà dell'altro
uomo, e l'uno dominava sull'altro, non in forza d'idee comuni ad entrambi, ma
per se stesso ed il suo compagno, il capriccio. Certo ove mi si dirà coll'Ajello
che i barbari » ri storaron la nostra vecchiezza con la robustezza e gioventù
loro, che ci fecer quasi nuovamente bollire e correre per le vene il sangue,
che a colpi di aste e di spade ci scos sero e ci affrettarono per la via del
progresso e di moral perfezione, è questo un linguaggio che intendo, ma quando
si dirà che gli stessi barbari ci trasfusero il sen timento della indipendenza
individuale, non mi verrà fatto d'intenderlo ugualmente. Conciossiacchè
l'indipendenza non si sostiene che in forza d'una idea,ed ibarbari non ci
portarono alcuna idea puova. Al che mi pare avere splendidamente supplito il
Cristianesimo ed in particolarità . ro, del Cristianesimo, all'intutto scomparso.
sia chia e la chiesa cattolica – cosidetta “Romana”. Fu questa che sola
in quei tempi si oppose al soprastanteimperio della forza bruta con tutta
l'energia della sua gioventù, cheproclamò altamente l'in dipendenza del
pensiero e dell'opinione, e svegliò quindi negli animi quel nobile sentimento
di dignità personale che i barbari avrebbero suffocato chi sa per quanto tempo
e stette in quel mar burrascoso del medio evo come ter ribile e continua
protesta contro le usurpazioni della for za. Fu ne'municipi d'Italia che il
dritto di resistenza si svolse ed, attulito solo per poco tempo, primamente ri
surse con più forza a vita novella. Cosi è a questa Niobe delle nazioni che
l'umanità dovrà esser grata della sua civiltà presente, a questa veneranda
vestale che non ha cessato mai di vegliare per mantener sempre vivo il fuo. co
sagro dell'incivilimento. Ecco come un uomo di cui il nostro paese si onora,
Luigi Blanclı, s'espriineva nell'antecedente fascicolo di questo giornale a
proposito dello stabilimento dei Normanni in Inghilterra. Or la conquista e lo
stabili iento dei Normanni inInghilterra, non ostante che ilCristianesimo avea
proclamalo il rispetto dell'uomo indipendentemente dalla sua condizione o
dellesuecircostanze accidentali,ma perchè dotato d'intelligenza,di li bero
arbitrio e di risponsabilità, non tenne conto di questo alto e salutare
principio, e considerò l'uomo vinto come cosa e non come persona, fatto
peresser posseduto e non governato. Dicasilostessodei Franchi, dei longobardi,
in riguardo ai quali l'opera su cennata del dottissimo Troya ha p o r tato una
luce immensa. Ogni buono italiano farà voti che lunga basli li vita a questo
nostro concittadino onde possa menare a fine il suo cosi bene incominciato
lavoro. DELLE VICENDE DELLA STORIA DELLA
DIVERSA FORMA CH'ELLA TOGLIE IN TUTTO IL SUO SVOLGIMENTO. Gli uomini prima
sentono senz'avvertire. Primachè l'io cominci a distinguersi dal non -me e
dall'assoluto,e a governare e correggerela sensibilità,e secondo sua volontà
far uso della ragione, ci ha un tempo ch'egli pressochè ignoto a sè stesso se
ne sta avviluppato e come un ascoso e tacito osservatore dei fatti sensitivi e
razionali, che indistinti e confusi gli si vengon mostrando nella coscienza.
Abbagliato e vinto dalla sensibilità e d o minatodallaragione, egliama, afferma,
crede,enon sadiamare, dicredere,diaffermare:permodo chesi direbbe ch'ei sia
tutto passivo, se in lui non fosse una spontanea attività, certo involontaria,
ma ad ognimodo un'attività, una forza insomma che in sè stessa ha la ragione e
'l principio del suo movimento. Ma a questo primo periodo della vita
intellettuale, secondo che noi dicevamo, un altro succede di veramente opposta
e contraria natura. Perciocchè, svoltasi a poco a poco la volontà, in che pro
priamente è posta la personalità nostra, cominciamo a scorgere che ci ha alcuna
cosa che lecontraddice,e però che non deriva o dipende da lei; che infinein
mezzo a tanta successione e mutabilità di fenomeni (che sono i volontari e i
sensitivi ) ce ne ha di così fatti, che non m u tan viso come gli altri fanno,
che in mezzo a quel ma Ma perchè siavi riflessione (e si ponga ben
mente a questo, chè molto ce ne gioveremo) è mestieri che osservando d'una in
altra cosa si passi, che prima un lato se ne consideri, indi un altro, e cosi sempre
segui tando; è mestieri, a dir breve, della successione degli atli,non
sipotendo ben disaminare un obbietto,senza che gli altri si lascin da un canto',
e si dimentichino al menoperunmomento.Il perchè tra la spontaneità e la
riflessione tra l'altro è questa differenza, che la prima ha un veder largo,
istantaneo e complessivo, e la seconda un guardar lento, e uno scrutar
succedevole e parziale. E peròse riflettendo non abbiam tutte ad una ad una con
siderato le parti dell'obbietto, se giunti non siamo a quel supremo
gradodellascienza, che possonsi allaperfinerag gruppare e riunire le parti
slegate e divise, e ricostruirne quel tutto stato già scomposto e notomizzato,
non cene viene che scienza incompiuta, e l'erroreeziandio,sete ner vorremo per
l'intero quello che sia parte soltanto. E difatto pressochè sempre avviene che
la riflessione tulta quanta in un obbietto affisandosi, cosi trascurane e di
mentica gli altri, che anzi tempo si tiene in possesso di quella verità di cui
non ha contemplato e conosciuto che un solo e povero lato. Per il che nella riflessione
(e il dichiareremo innanzi più largamente), come in quella che per
isvolgersituta ha bisogno della successione degli aui e però del tempo,
possonsi determinare tre periodi o momenti che sivoglian dire. Nel primo il “me”
e il “non-me” e i loro rapporti son quelli che meglio fanno invito esolletico
alla nostra attenzione. Nel secondo, sviluppatici dal contingente, tro viamo
l'assoluta nelle eterneverità che sonoci rivelate reggiare, a quel
continuo trasformarsi, stan saldi: ed allora finalmente asceverar cominciamo e
distinguere dal per sonale l'impersonale, dal me ilnon-me e un certo che d’im
mutabile e costante, che è quanto dire l'assoluto. E pe rocchè sceverare,
distinguere, recar l'osservazione d'una in altra cosa è propriamente analizzare
e un far uso della riflessione; questo periodo ben è stato dai filosofi ad
dimandato di riflessione e di analisi in contrapposizione del primo che han
chiamato della sintesi e della spontaneità dalla ragione, e ne scopriamo la indipendenza
dal me e dalla natura. Nel terzo finalmente, che è il supremo grado della
scienza, attraverso a quelle idee assolute traguar diamo l'assoluta Sostanza,
di cui quelle non sono che m a nifestazioniedapparenzealcortoe
debolesguardodella specie umana. Dalle quali cose è manifesto che la rifles
sione, come quella che è molto lenta nelsuo lavoro, e che per l'intera
cognizione di un obbietto è necessitata di guardarne ciascun lato partitamento,
terrà un periodo i m mensamente più lungo della spontaneità, la quale di sua
natura ha un'assai corta vita e fuggitiva. Spontaneità e riflessione, questi dunque
sono idue necessari periodi e le inevitabiliforme del nostro pensiero. Nel primo
ci son rivelate dalla ragione, comunque al quanto confusamente, tutte le verità
prime. Nel secondo null'altro in sostanza aggiungiamo al giànoto;ma, per
ciocchè entra in giuoco la riflessione, distinguiamo, analizziamo, scopriamo i
rapporti e la generazion delle cose, e dove che prima tenevamo il vero
soltanto, poscia abbiamo la scienza: e, per dar alcun che di sensibile alle
espressioni, nella spontaneità la ragione svolgesi come in linea retta; nella
riflessione ella si rifà su propri passi e conosciutasi alla perfine, sopra sé
stessa si torce e si ri piega. Ancora, se nella vita spontanea,tutto è
congiunto nel pensiero inuna inviolata e vergine unità, ed avvi
vatoevestitodaglisplendidicolorid'una giovaneevi gorosa immaginativa, cuiquellas
minuzzatriceelentadella riflessione non è ancor giunta a sturbare ed agghiaccia
re; se in quel tempo trascuriamo e quasi ignoriamo noi stessi, e ciecamente
credendo alla ragione, ci diamo a tut to che ci paja bello, vero o buono e
ilseguitiamo abban donatamente nel caldo d'un amore vivissimo;èmanifesto che
quello è tempo di poesia, di canto, d'ispirazione, come il periodo che gli tien
dietro è tempo di fredda e severa analisi, di riflessione, che è quanto dire di
filosofia: la qual cosa bene fu antiveduta ed espressa dal Vico quando scrisse
che tanto è più robusta la fantasia,quanto è più debole il raziocinio. Però
siccome nel primo periodo per quel potere che dicemmo dei sensi e della
fantasia, non chiediamo e non adoriamo che il bello, o il bene e'l vero
in tanto che belli; nell'altro, fatti più rigidi é spassionati, al solo e nudo
vero spezialmente ci inchiniamo, avvegna che non potessimo mai più intutto
distorci dalla bellezza. Del rimanente ognun intende che questi due pe riodi,
spontaneo e riflessivo, non si limitano in maniera chequandol'unovengaamancare
allorasolamente l'altro cominci. Non ci ha mai in natura un limite e un taglio
cosi netto tra le cose succedentisi, che non ci sia nel digradare un cotal
innesto,in cui lo spirar della pri ma e'lnascer dell'altra vadansi percosidire
sfumando, in quel modo che nell'iride quei vaghi primitivi colori. E sul
proposito notisi la bellezza delluogo del Vico che abbiam voluto mettere
innanzi a questo lavoro: nel qua le oltre che in due righe è detto quel che
altri han poi stemperato in tante parole, scolpitamente è indicato quel
l'inpestarsi che dicevamo dei due periodi. Perciocchè tra
l'etàdelsentireodellaspontaneità, equella del riset tere, u n ' altra è
frapposta dell' avvertire perturbato e c o m mosso, che è il primo apparir
della riflessione quando an cora in noi è grande ilpotere dei sensi e della
fantasia. Tutte queste cose (le quali verremo di mano in mano
applicando)volevano esserdettealquantopiùdistesamente e tratto tratto
avvalorate e dimostrate con una esatta e scrupolosa osservazione dei fatti di
coscienza; ma le son cosìnote oggidi, che sarebbe stata operavana e fastidio sa;
spezialmente dopo che quello stupendo ingegno del Cousin le ha esposte con
tanta efficacia e chiarezza in più d'una sua
scrittura.Ilperchèabbiamsolovolutotoccarle, per mostrar quali sieno in fatto di
filosofia le nostre opi nioni, per fermare almen brevemente le teoriche da cui
intendiamo dipartirci, e procedere in questo nostro ragio namento il più che
sapevamo ordinati e seguiti. PERIODO SPONTANEO Poemi o storie artistiche. Or
che abbiamo esposto brevemente e fermato quelle teoriche onde avevamo biso gno,
accostandoci e stringendoci al nostro 'subbietto, di ciamo che il primo apparir
della Storia è veramente nel poema, e nata che sia la prosa, nella storia
paramente ammirazion delle genti quel grandioso spettacolo ch'ei oon sa
bastevolmentea m mirare e magnificare. E qui è da notare che se la Storia nasce
poetica, questo avviene pel subbietto e per l'obbietto, vale a dire che non
pure avviene per lo stato dell'intel ligenza degli scrittori, chein quei primi
egiovani tempi ètutta spontanea e immaginosa, ma eziandio per le con dizioni
sociali di quella età; essendochè le antiche società, quanto alle moderne, eran
semplicissime, siccome quelle in cui non era contrasto di opposti elementi o
principi, ed un solo, come il teocratico nell' Indie e nell'Egitto, tutti gli
altri arsorbiva e signoreggiava:la qual cosa non è a dire quanto più armoniche
e poetiche lefacesse.Sen zachè sebensièintesochesiaspontaneità,echevalga
quell'involontario e irriflessivo svolgersidel pensiero;è chiaro che l'amore,
il disinteresse, la gloria, il patriottismo, e tanti altri affetti
tuttiespansivi,generosi e gran di, sono a quei tempi le cause e gli stimoli e
le occa sioni alla più parte degli avvenimenti, e molti altri v a gamente
adornano e illegiadriscono; dovechè nei tempi posteriori è un venir su di tanti
piccioli e privati interessi, di tante passioni misere e vili, di tante cupe
frodi e in fami tristizie, che è uno sconforto. Onde assai andrebbe lungi dal
vero chi pensasse che Erodoto, per esempio, o Tucidide, sceverassero e
scartassero dalla narrazione tutti quegli avvenimenti che prosaici lor pareano
e indegni delle loro nobilissime istorie.Di prosaico poco o nulla vera nelle
prime società, e quel poco eziandio facea su quelle vive e immaginose menti dei
Greci assai diversa impressione che sulle nostre non farebbe. Quegli storici
adunque non sceglievano fatti da fatti, come ultimamente è stato scrit to, e
che sarebbe opera da Boileau, ma abbracciavano, od almeno credevano di
abbracciar l'intero, il quale alle lor menti si porgeva tutto fulgidamente
colorato ed in vaga artistica, o vogliam dire che altro più diretto scopo
non abbia che la bellezza. Percosso vivamente l'uomo dai fatti maravigliosi e
grandiche glisuccedonointorno, olicanta e li celebra nel primo impeto della sua
maraviglia, o li narra agli avvenire, non gli soffrendo il cuore che se ne
porti iltempo si care e belle ricordanze, e che abbia a toglier per sempre alle
lodie alle nobilissima mostra. Se non che costoro tutti intenti come sono alla
bellezza delle loro istorie, saran poco solleciti dispogliarla verità delle
tante favole statevi aggiunte dalla immaginazione e dall'ignoranza della
gente,e per chè il racconto se ne faccia più maraviglioso e attratti vo, assai
ve ne introdurranno. Ed infatti seessile narra no, nondimeno il più delle volte
non mostrano di aggiu starvi fede, secondo che fanno i nostri creduli e
semplici cronisti. Manna, di acuta e squisita intelligenza e carissimo amico
nostro, scrivendo non ha guari delle vicende, non della Storia moderna ma della
Storia in idea, ha detto che la Cronaca e la Ştoria filosofica son da tenere
idue punti estremi di tutto il suo svolgimento. In questo, a dirla schietta,
non pos siamo affatto affatto accordarci con lui,e poichèquicade in acconcio,
vogliam fare un po'di contrasto a questa sua opinione, e, cel creda, per solo
amore alla verità, edancheperfermarquiunpensiero,chenoncièin contrato finora di
trovar sostenuto da alcuno. Che la Storia filosofica sia l'ultimo estremo da un
canto, il pensiamo e diciamo ancor noi, nè potremmo a l tramenti;ma
chelaCronacal'altrosia,questorisoluta mente neghiamo. E qui preghiamo il
lettore che non si è stancato di venirci seguitando, che voglia alquanto cre
scere la sua attenzione; dappoichè dovendo farci da alto ed in fretta toccar di
molte cose, forse che il postro pen siero non si mostrerà così chiaro come noi
vorremmo; e temiamo non si annebbi la verità col dir disordinato ed Oscuro.
Comunque le società dei tempi di mezzo, per le in vasioni e leoccupazioni dei
popoligermanici,che per cosi dire le rinnovarono e rinvigorirono, una sembianza
aves sero di freschezza e di gioventù; nompertanto si grande era in loro la
parte antica della caduta società,o vogliam dire l'elemento romano, che molto
dal vero si scosterebbe chi le stimasse società semplici e primitive, e quei
fattie quella sembianza ch 'ei vi trova, volesse recare a ciasc un tempo di
nascente coltura: per non dire che all'elemento romano e al germanico si
aggiungeva l'ecclesiastico di. Or se noi troviamo la Cronaca nel Medio Evo,
non per questo dobbiam credere ch'ella sia d'ogni tempo di nascentecoltura,echeaquelmodolaStorianascaosi
risvegli. No certo, ch'ella nasce poetica, tutto chè disordinata e incolta. Nasce
neipoemi del Niebelungen, del Cid lla, e ardita mente poetica; e se
quella ci dà epistole,sermoni, eglo ghe, cronicacce ed altra merce cosi fatta;
questa ci of fre e novelle e poemi senza fine,e versidiamore eprose di romanzi.
niente inferiore, e cresceva la contrapposizione e la guerra. Questo fece che
accanto ad una cotalbarbara selvatichezza stesse una cortesia e una gentilezza
di tempi assai colti e politi; ad un soverchiar della forza e ad una
sfrenatezza senza confine, un'austera virtù ed un'idea assai svolta della
moralità e della giustizia, e al volo amoroso e spontaneo d'una giovane e bella
poesia, lo strisciar lento è vile di tanti scritti insipidi e senza vita. Di
contraddizione c'era dappertutto,finotraifattieleopinioni;ma inniente meglio si
manifesta che nella letteratura,spezialmente per quell'uso contemporaneo delle
due lingue, volgare e la tina, ch'eran come rappresentanti di due letterature,
e che valsero a meglio tenerle disgiunte e distinte. La la tina non era
propriamente che un po'di luce trasmessa, un povero barlume riflesso da tutto ľ
antico splendore,che non si era potuto interamente spegnere per quel soprav
vivere e durar della Chiesa dopo il misero cader dell' I m perio. Pertanto
ell'era tutta vecchia, squallida e scompa gnata dalla vita; e dovea essere:
perchè gli scrittori la tini (oltre ch'erano frati la più parte, viventisi,a
quei giorni assai ritirati e divisi dal mondo )per quel loroim. maturo e
sciocco legger negli antichi,ebber della barba rieilmaleenon
ilbene;n'ebberoadirbreve,lagrossa ignoranza senza il verde, la vita, la
spontanea vigoria. Dal che provenne ch'eglino desser poi fuori di quelle smorte
eanfibie scritture, barbare a un tempo,e fredde e scolorate; le quali solo il
Medio Evo poteaci dare, e di cui per mala ventura ci ha fatto si ricco e
grazioso pre sente. Con due lingue adunque nel Medio evo son due let terature
d'indole e di forma differenti: una tutta smorta, scarna e prosaica, l'altra
tutta fresca e bella, La Cronaca dunque è merce da mezzi tempi, per
ciocch'ella nacque dalle condizioni di quell'età, è veduta in altro tempo
d'incivilimento che spunti e ger mogli. Onde il signor Manna, per la
troppafretta forse, si è lasciato andare in un errore simigliantissimo a quello
del Vico, che pensò la Cavalleria potersi trovare in ogni tempo primitivo, e
sconobbe ch'ella fu ingenerața tra i crociati in Levante,
cosicchèvideroco'propri lor oc edellaTavola
Rotonda;ecompostasi'escaltritasilaprosa, nasce in Villehardouined in Joinville
che certo cronache non sono; od almeno in Guglielmo di Tiro, in Alberto d'Aix, inRaimondod'Agiles,
inRauldiCaen, enegli altri entusiastici e vivaci storici delle Crociate. E non
si dica che tra costoro parecchi eran frati, e che questo fatto in certo modo contraddica
al nostro pensiero; dappoichè anzi il riferma assai bene, mostrando che
tostochè essi usci ron di quelle condizioni che dicevamo, altramenti scrissero
le istorie loro. Basti dire che di quei monaci altri furon ehi quei mirabili
fatti che ci han narrato; ed altri furon sospinti in mezzo al mondo
dall'improvviso turbinė che a quei giorni sconvolse l'Europa, e dal vivissimo
entusias mo che vi accese tutte le menti Imperò vivendo eglino meno divisi
dalla società, dettero finalmente alle lor nar razioni quel colore e quella
rappresentazion della vita e dei costumi del tempo, che nelle cronache indarno
cercherem mo, e che sarebbero affatto perduti per noi, se non ci fosser rimase
della volgar letteratura tante opere bene rap presentevoli ed esprimenti, come
sono, sebbene alquanto posteriori, le novelle del Boccaccio e del Sacchetti, e
le istorie del Villani, del Compagni e del Malespini. enonsi tali cagioni, che
son tutte proprie del Medio Evo, e che in altre età indarno si cercherebbero.
Ci mostri il sig. na non dico una Cronaca Man,maunsolframmentodiCro naca prima
d'Erodoto.Quanto a noi,fermamente pensiamo che se potessimo avere tutto quel
che in Grecia si scrisse nanzi a costui,non troveremmo ip mente che
storiemaravigliosa poetiche, comechè ordinate con manco d'arte, e quel che è
più sicuro, poemi, e canti guerreschi polari. Veramente ci fa maraviglia e po
ingegno del Manna che quell'avveduto non abbia scorto,che avendo eglidi viso
tutto lo svolgimento storico in artistico e filosofico, era necessità che
quanto più si ascendesse ai primi tem pi,piùdipoesiaed'artevisitrovasse.Orcome
può trovarvi egli quelle insipide ed agghiacciate cronache m o nacali? In esse,
se ne togliete l'ignoranza che è vera mente degna d'una cultura bambina,
ilresto ci sa più d'avanzo dispenta e grave letteratura,che di comincia mento
d'una nuova e leggiadra;e a dirla in due parole, non ci vediamo che elemento
romano ed ecclesiastico. E quando si pon mente che per lo più furon monaci i
lor compilatori, quasi intutto, come dicemmo, segregati dal mondo, e quel che è
più, non d'altro conoscitori che d'al cun latinoscrittore;quando sipon mente a
questo,non sappiamo chi possa far lungo contrasto e non accostarsi alla nostra
opinione. Manna adunque, scambiando un fatto con lo svolgimento
dell'idea,'equel che accade con quelcheé, ha creduto logico un antecedente
meramente storico efor tuito.E sipotrebbedirech'eglicredaalricorsodellena
zioni, se per divinare un fattoprimitivo ha toltoesempio non da nascente, ma da
rinascente coltura.Perciocchè vo lendo egli parlare dei napolitani storici, e
non trovando nei primi tempi che i cronisti longobardi, se n'è lasciato
ingannare,ed ha stimato che la Storia a quel modo na scesse;eche
inquellesueteoricheeipotessefermareche la Cronaca e la Storia filosofica
fossero gli estremi di tutto lo storicosvolgimento.Sei volevatrovare
nellanapolitana letteratura ilprimo apparir della Storia, almeno cercar lo
dovea in Guglielmo di Puglia, e in quel poema che serisse, allorchè le ardite e
fortunate imprese dei Nor manni fecer maravigliare questa estrema parte
d'Italia. Per lequali cose,conchiudendo diciamo,cheleprime istorie sono i poemi,indi
le narrazioni puramente artisti che; che questo avviene pel subbietto e per l'
obbietto vale a dire, per lo stato dell'intelligenza dello spetta tore, e per
quello della società ch' ei ritraenei suoi rac conti: infine che la Cronaca è
scrittura propria dei mezzi tempi, e quanto alla Storia moderna, ella è storico
e non logico antecedente. PERIODO DI RIFLESSIONE. Ilme, il non-me e I loro
rapportic hiaman dunque i primi e sforzano la nostra attenzione: e se questo è
vero Storia morale o Secondo che detto abbiamo, corta durata ha S. Momento
del MB e NON-MB. politica. quel periodo di spontaneità, e tosto nasce e si
educa la riflessione per aver vita assai più lunga e meglio svolta.Ve ramente
ch'ella con quel suo analizzare e sminuzzare ogni cosa,con quel suo lento e
sospettoso procedere, or in questoorainquell'obbiettopartitamente
affisandosi,to glie ardire allaimmaginativa, ed or ne soffocaeimpedi sce, or ne
scolora ed agghiaccia ogni spontanea creazione: nompertanto induce lo spirito
umano, non certo in più belle,ma inpiùgraviesodecontemplazioni,cheapoco a poco
e come per mano il trarranno a quella compiuta e ordinata scienza, che è
l'ultimo obbietto, e insieme la pace e 'l riposo della sua irrequieta
intelligenza. Or noi dicemmo che la riflessione di sua natura è parziale e suc
cessiva, e che tutto ilsuo svolgimento potrebbesi distin guere intre parti o momenti,
onde il primo è quello del meedelnon-me. E difatto,chivogliaun trattoprofon
darsi nella coscienza, vedrà che se ci son fatti che più chiamino e sforzino
l'attenzione, certo sono i sensibili, indiivolontario
personali.Isensibilicomequellicheson manco intimi e profondi,e quasi
esterioriall'animo,sono i più vivi ed appariscenti, e imeglio osservabili;eivo
lontari o personali vengonsi lor mostrando allato tenace mente, perciocchè l'impersonalità
della sensazione indica subitamente e rivela la personalità nostra, e quell'
assi duo tramutarsi e succedersi dell'obbietto ci reca al senti mento d'alcuna
cosa che duri attraverso a quella indefi nita varietà delle sensazioni, che è
l'identità delsubbietto. Quanto aifattirazionali,questiinverosono imenoap
parenti, perchè non simostrando che in mezzo allamu tabilità e alla
determinazione dei sensitivi e dei volontari, tolgon sembianza mutabile e
determinata, e ci ha mestieri diaccorta e ben ammaestrata osservazione per
poterneli sceverare, e svestire di quella falsa e mendace apparenza.
(come vero è), ecco qual nuova faccią prenda la n o stra intelligenza, e di
quanto questo primo momento della riflessione si discosti dalla spontaneità. In
questa ilme non si scorgendo ancoradistinto da quel che lo inviluppa e nasconde,
e lasciandosi intutto andare a seconda della ra gione e della sensibilità,
senza mai volgersi indietro e por menteasèstesso,èchiarocheseogniattoalloraèfe
de, amor vivo e caldissimo, ed estatica contemplazione ha da essere altresi
pieno e bello di nobile disinteresse; doveché nel primo momento
dellariflessione,per quel ne cessario mostrarsi e dintornarsi della persona,
per quel considerar la natura solo in tanto che ne dia pena o di letto, come
pressochè tutto è dubbio, amor proprio, e sospettosa e lenta osservazione, cosi
pure le opere nostre la più parte generate da personali e interessate cagioni;
e se prima moveaci il bello,e il bene e ilvero intanto che belli, muoveci
dappoi l'utilità. Dicevamo che la Storia si farà a cercar l'utile; poi con un
tal rude passaggio alla moralità sola il riduceva m o, come se niente altro
esser ci potesse d'utilită, quivi tutta si raccogliesse. Per voler soddisfare a
questo dubbio, e farci incontro a parecchie altre objezioni che ci
sipotrebberofare,dichiareremoalquantomeglio ilno stro pensiero, e il
rafforzeremo in fretta almen tanto che basti. Tolto via l'utilità fisica, che
in verun modo non ci potrebbe venire dal racconto dei fatti delle nazioni,l'uti
Jità non può veramente esser posta, che nel giovare al l'uomo o come agente
morale, o come creatura intelli gente; perocchè non si potendo allettare la
sensibilità, alla Storia non resta che correggere la volontà, o svolgere
e saran per Però la Storia, dopo che si è mostrata puramente artistica,
vorrà avere uno scopo che le paja manco vano, e che dia più pronti e certi
frutti; vorrà insomma esser utile, ed eccovi apparir la Storia morale, la quale,
se più non guarderà la bellezza siccome unico ed immediato suo scopo, se ne
gioverà nondimeno per ornare ed avvivare i suoi racconti, essendochè l'uomo,
come dicemmo, po scia che l'ha un tratto conosciuta, mai più non si di stoglie
dalla bellezza. costantes generi, contumax etiam adversus tormenta servo rum
fides. Ond'iomi maraviglio che ilsignorMannaabbiapo tuto sconoscere questo si
manifesto intendimento di Tacito, dandogli uno scopo meramente artistico,
com'ei si da rebbead Erodoto. E mi pare che in questosbaglioeisia caduto, per
aver troppo semplicemente diviso tutta la vita storica inartistica e
filosofica, nonbadando che seconla riflessione si può dir che cominci l'amor
del sapere ola filosofia, non per questo ella è filosofia, intesaintuttala
determinazion della parola, cioè la scienza già ordinala formata; e per dir più
chiaramente, che innanzi all'ul tima forma sua ben può la Storia esser
riflessiva, e non esser pertanto ancor filosofica. Il perchè non potendoegli di
buona fedetrovare in Tacito la sua Storia filosofica ha dovuto di necessità
trovarvi l'artistica,quantunquela Storia avesse in lui cangiato natura,
essendochè l'artedi primo scopo e signora ch'ella era, è divenuta istrumento ed
ancella. SMomentodelleveritàassolute.- Storia positive. Per affisarsi che
faccia la riflessione al subbietto e all'ob bietto e ai lor rapporti, verrà
tempo alla perfine ch'ela sarà percossa da quella strana immutabilità e
indipendenza dei concetti della ragione; che anzi quello stesso atten dere ed
osservare i fenomeni sensibili e volontari sarà ca gione che le si dimostri
l'assoluto; essendochè di due o più cose non pur dissimiglianti ma opposte
sieme e confuse; più pensando ed osservando ne distrigate e dintornate
l'una", più l'altra vi si porgerà chiara edi stinta. L'osservare che sopra
una sorta di fenomeni non ha potere la volontà, e che lo stesso non-me non
sipuò sottrarre a certe.leggi immutabilissime e salde, fa chesi vadano
sempreppiùdistinguendo e sceverando ifatirazio pali, e apertamente se ne vegga
la indipendenza dalsub bietto e dall'obbietto. Oltre diche,inquellaguisachela
impersonalità dei fati sensibili rivela e determina la per sonalità dei
volontari, cosi la mutabilità, la contingenza, la naturafinita e dipendente
dell'animonostroe delana tura,distintamente cisvelal'immutabile,l'infinito,l'as
soluto; l'essere, in una parola, il quale non che dipen e strette
in dere da altre cose, a tutte
anzi è sostegno e fondamento. In questo secondo suo momento adunque la rifles
sione,disviluppatasidal contingente,separaepone l'asso luto,o vogliam
direl'eterneveritàrivelatecidallaragio ne. E però ch'ella suole, dimenticando gli
antichi, tutta a'nuovi obbietti abbandonarsi, e massimamente dopo che ha
scorto, che ilme e ilnon-me non son poi gli ultimi termini della scienza, e che
ci ha alcun più degno e nobile obbietto intutto indipendente da quelli,e che
anzi abbrac cialiecomprende,e pon loroelimitieleggi,da'quali, tramutinsi pure a
lor posta, mai uscir non possono, o sottrarsene.E megliovedràl'importanzae
ladignitàdel l'assoluto, quando si sarà avveduta che non ostante la caducità e
l'impersetta natura del contingente, le verità nondimeno stanno e
sopravvivono.Di questo procederà che alle personali vedute del primo momento
altresuccederanno impersonali e disinteressate, e seprima chiedevasi l'utile,
il vero poi soprattutto si chiederà. Eosi la Storia che abbiam veduto correr
dietro al l'utile,volgerassi a più nobile scopo escientifico,enon vorrà che il
vero; e purchè il trovi e narri, le parràdi aggiungere l'ultimo e naturale suo
scopo. Vero è, che non si essendo anco giunto a tale con la scienza, che basti
e valga a ricongiungere e riferire alla prima Sostanza quelle assolute verità,
e a considerare il vero come rive lazione dell'infinita Intelligenza. Vorrà la
Storia il vero, ma senza sapere iltrovarlo infine che importi;e conside randolo
partitamente nei fatti in tanto che esistenti e a v venuti, scambierà il reale
col vero, e solo vedrà negli avvenimenti la vicina dipendenza di cause ed
effetti, non si elevando mai a più larga e lontana connessione. Per tanto degli
Storici di questa età, sola e prima cura sarà trovare i fatti e accertarli,
mostrarne le immediate o poco lontane cagioni, o almeno le occasioni e i
rapporti, e solo che dieno una tal quale narrazione di importanti e certi fatti,
nissun pensiero si prendono del rimanente, e par loro adempiuto ogni ufizio
eche laStoriasiafatta.E non pen sate ch'ei sipiglino affanno di virtù e di
vizi,di giusto edingiusto,diquestaoquellacredenza;evidanno a divedere una
freddezza e un'indifferenza, che c'è da sconsolarsene, per modo che vi sembra
non abbian cuore,o senso morale, e sien tutto pensiero e intelligenza. Il qual
morale indifferentismo stimiamo sia tra l'altro ingenerato dai costume di quelle
età ch'esser sogliono assai guastie dissoluti:onde avviene che disperato si del
miglioramento, appoco appoco l'animo vi si adusa, e dopo di averli con siderato
come un necessario male e durissima legge del l'umana natura,finirà colvenire
in quella tristae scon solante indifferenza, di che non è stato che sia
peggiore. Anche questa maniera di Storia vediamo adunque inrap porto manifesto
con l'obbietto e col subbietto, con lo svol gimento progressivo
dell'intelligenza, e con le sociali c o n dizioni dell'età in cui suole
apparire. Se non che, acció che non ci si dia non meritato biasimo, vogliam qui
fare avvertire che se noi riferiamo la Storia al subbietto e al l'obbietto,
questo facciamo per guardar la cosa da più lati, e non perchè ci sembri che
quelli in sostanza sien diversi rapporti. Conciossiache limitando noi
l'obbiettività al solo mondo civile, il quale, come ha detto il Vico, è fatto
dall'uomo, ci avvediamo che il riferirvi la forma che vien prendendo la Storia,egli
è come riferirla un'al tra volta allo svolgimento della nostra intelligenza.
Questi sono gli storici, che abbiam chiamato positivi. E molti potremmo
indicarne che più o meno van com presi in quel numero; ma ci piace di nominar
soltanto il Davila e il Macchiavelli, come assai vivi esempi di que
stageneraziondinarratori.Solovogliamo quiricordare che se in molti di questi
storici alcun che ci ha di arti stico, morale o politico, non per questo non
son da te nere per positivi, quando loro intendimento sia stato il narrare
ifatti che veri stimavano senz'altra briga.Dap poichè se nell'ideale e nella
scienza tutto è ben distinto e determinato, nella realtà per contrario tutto
intrecciasi e confonde, e mai non si ha il fatto cosi nudo e segre gato dagli
altri che gli stan dallato, o che lo han pre ceduto o seguiranno, secondo che
la scienza lo ha de scritto. Cosi questa famiglia di Storici è a parer nostro
assai numerosa e comprensiva; e risolutamente vi chiu diamo e 'l Guicciardini e
l'Hume e'l Gibbon e 'l Giannone e 'l Robertson, avvegnachè di costoro, chi
voglia solo un lato considerarne, alcuno dirà artistico, un altro forse
chiamerà morale o politico, e in quegli ultimi per avventura gli parrà già di
vedere l'ultima forma della Storia, che è la filosofica, e di cui or passeremo
a ragio nare. Per ilche,quando perassaisecolisièveduto un sorgere e fiorire, e
un cader d'imperi e di nazioni, una catena lunghissima di successi grandi;
quando in somma il dramma storico dell'umanità di tanto è cre sciuto,che sene
può avereun'assai larga e svariata esperienza;èforzacheavedersicominci
allaperfine e un tal ritorno di avvenimenti al tornar delle stesse ca gioni, e
certi costanti rapporti e lontanissime dipendenze, e una certa comune natura
delle nazioni sotto alle dissi miglianze grandi che son tra loro. Oltre di che
al rovinare e mancar di tanti regni potentissimi, di tanti vasti e splendidi
imperi, che pare a non on d o vermi finire', e Storia filosofica. S.III. Momento
delle verità assolute come manifestazione La riflessione di sua natura, quanto
più va innanzi nel suo lavoro, della prima Sostanza. Tanto più visi addestra, ed
acquista di acume e di profondità, e noi tratto tratto più incontentabili ci facciamo
e vogliosi di sapere. Dopo di aver separato e distinto il
meeilnon-me,siamocielevatialquantopiùsu,edat traverso alla vicenda ed alle
permutazioni del contingente, abbiamo intraveduto e scorto l'assoluto in quelle
immu tabili verità, che son come le leggi del pensiero e della natura. Ma
giunti che siamo a questo punto di conoscenza, veggendo che quelle assolute
verità non derivano o dipendono di sorta dal subbietto e dall'obbietto; qual
sia dimandiamo la lor sorgente e derivazione, di qual sostanza essi fenomeni
sieno manifestazione nella nostra intelligenza. E questa interrogazione torna
inevitabile e necessaria per quei due principi disostanzae dicausalità, che non
ci lascian mai, eche ad ogni fenomeno,ad ogni cosa che cominci,a trovare o
pensar ci sforzano una so stanza e unacagione.Le veritàassolute adunque noi ri
feriamo e leghiamo all'assoluta Sostanza,all'Essere crea tore e intelligente, e
quivi soffermasi la riflessione niente altro chiedend, vi si appaga e riposa.
e tutto in loro accogliere e stringere il futuro destino dei p o poli;
non può la disingannata intelligenza non distorsi da quell'angusto e caduco
spettacolo, e non elevarsi a più larghe esublimi considerazioni. E scorgerà che
iregnie gl'imperi non son poi che apparenze peculiari e fuggenti, è che fra
tanta vicenda e permutazion di fortuna,duran nompertanto le umane generazioni e
governate da costan tissime leggi;e da tanti sanguinosi elacrimevolicasi,da
tanti mali e miserie incredibili, risorgon sempreppiù a m maestrate e
possenti,come se cavasser benedalmale,e a simiglianza d'un nobilissimo fiume,
il quale non che scemare e impaludarsi tra la rena e i sassi e i dirupi, sempre
crescendolesue acque,alteramenteprocedeverso l'infinito mare che l'attende.
Pertanto a quel modo che riferiamo le leggi del pensiero alla prima
Intelligenza, e le abbiamo per un suo apparire e rivelarsi nella ragione; così
pure quelle discoperte ed osservate leggi dellaStoria riferiamo al primo
Essere, e le consideriamo come forma visibile dellamente e del disegno di lui
sopra il destino degli uomini, che è quanto dire come la stessa Provvi denza
divina. Quando adunque dalla mutabilità, dall'incostanza e dalla contraddizione
del reale, elevar ci sappiamo insino all'idealeeilconsideriamocome
espressionedellamente di Dio; quando più non vediamo nella Storia una for tuita
o capricciosa successionediavvenimenti,ma losvol gimento di un'idea nel tempo,
e l'adempimento sopradi noidel provvidodisegno del Creatore. Sorgerà quella Storia
che detto abbiamo filosofica; e, conciossiachè la riflessione non vada più
oltre, questo è l'ultimo e più n o bile grado a cui possa ella giungere. Or
questo supremo pensiero,questo provvido disegno di Dio sulle umane generazioni,
certo in niente meglio si dimostra che nella Storia della religione; e se
aggiun gete che solo il Cristiano incivilimento pote acidare una cosi fatta
Storia; che, dalla nostra infuori, niun'altra religione non ha avuto un si
chiaro e non interrotto cam mino attraverso a tutte le età; che la scienza
infine non avea a cominciar da capo e far tutto di per sé, percioc ehè ella
potea lavorare per un sentiero ch'or silascia in travedere, or
profondamente è segnato nei Libri Santi; non è dubbio che dei cinque elementi
della Storia, che sono l'industria, lo stato, l'arte, la filosofia e la religione,
dovea quest'ultima prima costringer l'attenzione dei nostri scrittori, e, lasciatisi
da un canto gli altri quat tro, informare a suo modo la Storia,e invadere a
prima giunta e assorbire tutta la vita delle nazioni. Di qui av verrà che
questa prima e incompiuta Storia apparirà anzi teologica che filosofica. E tale
infatti è quella del Bossuet, per essersi quel dottissimo Vescovo tutto chiuso
e raccolto nel Cristianesimo, e fattolo centro, scopo e m i sura a tutta la
Storia dell'umanità. Ad ognimodo quello è il primo passo verso la Storia
filosofica, e il primo n a scere e incarnarsi di quella idea, che dopo meno di
un secolo vedemmo tanto allargarsi nell'Herder, che in quel suo stupendo lavoro
tutti abbracciò ed avvinse gli elementi della vita delle nazioni. Se non che la
Storia dell'umanità non si sarebbe per avventura a tanto alto grado elevata
nell' Herder, se QUEL MARAVIGLIOSO E POTENTISSIMO INGEGNO DI GIAMBATTISTAVICO non
avesse prima, con lo scriver la Scienza nuova, fondata ne la filosofia. Di
quest'opera straordinaria assai volentieri parleremmo, ch'ella è primo vanto e
gloria nostra, e Dio sa quantoci gode il cuore in pensare che abbiam noipure il
nostro Dante; m a sarebbe un varcar quei limiti che ci siampostiinquestolavoro:dappoichènon
abbiam voluto intrattenerci intorno alla scienza della Storia, m a solo
indicare una opinione che avevamo del suo progressivo svolgimento,cavandolo
daquellodelpensieroumano.Non però di meno vogliam mostrare che quell'idea che
d'una vera e compiuta Storia filosofica osservando e ragionando ci siam fatta,
quella stessa aver partorito e fecondato la Scienza nuova.Infatti, poichè il
Vico dallo studio psico logico dell'uomo ebbecavato quella sua comune natura
delle nazioni, vale a dire le leggi universalissime della Sto ria, andò fino a
riferirle alla prima Cagione, e le tenne espressione visibile del Consiglio
divino; ond'ei medesimo scrisse,l'opera sua doversi riputare una Teologia sociale
e una storica dimostrazione della Provvidenza. E concios siache per potersi
elevare, sccondo che dicempo, dal reale all'ideale, ei bisogna che il
primo ci sia noto, as sai giovossi il Vico della FILOLOGIA DELLA LOQUELA DEL
LAZIO, che al dir del Michelet, è la scienza del reale, o dei fatti storicie delle
lingue; e sull'ale poi della filosofia cacciossi in quella potente e lontana
astrazione. La filologia adunque e la filo sofia, cioè le scienze del reale e
del vero (ch'è l'idea le ), son le due fecondissime sorgenti a cui ha attinto
la Scienza nuova; e una storica dimostrazione della Provvi denza è l'ultimo e
proprio suo obbietto. Ma se grande nella Scienza Nuova è la parte del l'uomo e di
Dio che fuungran passo do poche il Bossuet in Dio solo s'era affisato ), la
parte del non-me o della Natura è nulla, o incerta e poverissima; la qual cosa
poi tanto crebbe e ingigantissi nell'Herder per sual filosofia di quel tempo,che
l'uomo ne venne presso cheschiavoallaNatura,ev'ebbeaperdereilsuoli bero
arbitrio. Perciò questo elemento tra l'altro devesi aggiungere alla Scienza
Nuova;essendochè l’Uomo,Dio e la Natura sono i tre obbietti alla filosofia, e
questi stessi entrar debbono,e in bell'armonia legarsi nella Storia,
sesivorràch'ellasiacompiutae perfetta,echearrivi a quell'idealesupremo cheil
progresso della scienza ci promette,e cheledotteedoperosefaticheditantichiari
uomini del nostro vivente ci fanno sperare non lontano Raccogliendo ora tutte
le coseche inquesto secondo periodo abbiam toccato,diciamo che la Storia dopo
di es ser nata artistica vuol esser utile, indi vera, ed ultima mente
filosofica; che questoavvieneper l'obbiettoepelsub bielto, secondochè abbiamo
or detto espressamente, or sol tanto lasciato intravedere. Quanto alle vicende
e al progressivo cammino della Storia,questo è il nostro pensiero. E qui
porremmo fine al nostro lavoro se tutti i lettori così fossero, li vorremmo. Ma
ci ha di tali uomini, che non san ve dere nei fatti che dissimiglianze e
contraddizioni, e non si elevando più che tanto, stringer non sanno più di due
cose insieme, e non diciamo porre un po' d'ordine e d'armonia in quel caos
d'avvenimenti, ma nemmanco innalzarsi a un sol pensiero, a un qualche men che
vi la sen gran fatto. come noi cino rapporto. Costoro certamente vorranno
che tutta la Storia vadasi per cosi dire a adagiare nel disegno che in fino a
qui siam venuti delineando, e che d'ogni Storico subito e chiaramente si possa
diffinir la natura e 'l tempo del suo venire; e perocchè questo, non potendo
essere non viene lor fatto, eccoveli gridar tostoall'errore e al sistema: come
se i casi valessero a romper le regole, e come se negli uomini non fosse libero
arbitrio, ed oltre alla ragione non fosse la personalità del volere, la quale
di quanto conturbi, e modifichi, e arresti e affretti al l'idea il naturale e
logico suo svolgimento, non è chi non vegga. Per non dire che in alcuni storici
la stima e l'imi tazion dell'antico, in altri l'indole o le false opinioni o la
povertà del sapere son cause che sovente essi dienci parti fuori tempo; e che
ifatti talvolta sembri che vadano a ritroso con le idee. E valga l'esempio
delBotta venuto troppo tardi per esser, com ' egli è, storico morale e p o
litico. Oltre di che alcuni, venuti nella intersezione di due periodi, e però
accogliendo quel che cade e quel che sor ge, hanno in quei loro scritti alcun
che d'indeterminato, il quale cosi n e asconde e sforma la vera faccia, che non
sapreste a quale specie di storici li dobbiate propriamente riferire. Cosi in
Livio vediamo a un tempo l'artistico e'l patriottico o politico e anche un po'
del morale, ed era mestieri per i tempi in che scrisse; in Sallustio ancora
l'artistico, ma il morale più determinatamente; in Sveto nio quasi intutto il
positivo. Del rimanente il reale o quel che accade può ben rifermare, ma non ha
potere di con trastar l'ideale o quel che è: laonde se la nostra osser vazione
psicolologica è stata accurata,esatta e compiuta non ci si avrà a contraddire,
e le vicende della Storia quelle saranno, che abbiamo fuggevolmente descritto.Giambattista
Ajello. Ajello. Keywords: Roma antica nella filosofia di Hegel. Refs: Luigi
Speranza, “Grice ed Ajello” – The Swimming-Pool Library.
Grice
ed Albergamo – Crotone– filosofia italiana – Luigi Speranza (Favara).
Filosofo italiano. Grice: “Albergamo is a fascinating author – a very Italian
philosopher who can teach Lucrezio and the classics at the ‘gym,’ as they call
it, and yet survey the ‘storia delle scienze essate’ and the ‘storia delle
scienze empiriche.’ Alla Bridgman, he is into ‘the logic of the science.’ But
he can also define the ‘spirit’ in terms of ‘freedom.’ He has also analysed,
vis-à-vis- his interest in Galieleo and science, the very Italian idea (already
in Cicerone) of ‘super-stitio’ and magic – his approach to these matters is
phenomenological, which coming from Favara as he does, is understandable!”
-- Filosofo. e un pioniere della
filosofia della scienza in Italia. Nato a Favara, in provincia di
Agrigento, da Giacomo e Giuseppina Butticé. Suo nonno era un ricco proprietario
di una rinomata pasticceria di Favara. Il padre, ferroviere, fu trasferito
prima a Messina e poi a Palermo, portando con sé la famiglia. A causa di questi
trasferimenti, svolge gli studi liceali da autodidatta, conseguendo poi la
laurea in filosofia presso l'Palermo. Nel 1931, vinto il concorso a
cattedra di storia e filosofia, si trasferisce a Trapani, dove insegna al liceo
classico Ximenes, e dove sposa Maria Carmela Rizzo, da cui avrà quattro figli.
Insegna poi a Benevento ed infine a Napoli presso il Liceo classico statale
Vittorio Emanuele II, dal 1936 al 1967. Pressoché tutta l'attività
filosofica e didattica di Francesco Albergamo si svolge a Napoli, ed è
caratterizzata dal clima culturale molto vivo nella città di Benedetto Croce.
Come filosofo, si dedica a due principali linee di attività. La prima è
dedicata all'insegnamento ed alla didattica della filosofia, l'altra allo
studio del rapporto tra filosofia e scienza. In entrambe le linee, il suo
lavoro ha avuto una grande caratura culturale, e la sua personalità fu
considerata, nella città di Napoli, di grande spessore etico, per la generosità
e l'impegno che hanno contraddistinto la sua vita. Circa la prima linea,
il ricordo della sua attività didattica è rimasto a lungo nei tantissimi giovani
che hanno ricevuto una solida formazione filosofica di cultura laica,
razionale, liberale. Vero è che a Benevento, dove aveva insegnato per soli due
anni, gli è stata dedicata una strada che, significativamente, parte da
Piazzale Benedetto Croce per poi ricollegarsi a Via Francesco de Sanctis.
Al Liceo Classico Vittorio Emanuele tra i diversi allievi che si sono distinti
nel campo della filosofia e della cultura ricordiamo in particolare due delle
figlie di Benedetto Croce. Il suo nome è ricordato in una lapide dedicata alle
più illustri personalità che vi hanno insegnato, tra cui Giovanni Gentile.
Oltre all'insegnamento nei licei, è stato libero docente di filosofia teoretica
presso l'Napoli, dove ha svolto una intensa attività di corsi e conferenze.
Con i suoi manuali di storia della filosofia, e con numerose pubblicazioni
dedicate ai licei, FA costituisce un importante punto di riferimento nella
didattica della filosofia a livello nazionale, prima per il classico e poi
anche per lo scientifico. Una notevole attività è anche dedicata alla
formazione dei docenti di filosofia, con numerosi articoli, pubblicazioni,
corsi e conferenze. L'altra linea di attività, quella dedicata allo
studio del rapporto tra filosofia e scienza, si snoda lungo un arco di tempo
molto vasto, che va dall'inizio degli anni '30 fino alla sua scomparsa. I
risultati sono confluiti nella pubblicazione di importanti saggi filosofici. Di
formazione idealistica e kantiana, appena trasferitosi a Napoli, nel 1936,
instaura un rapporto stretto con Benedetto Croce, con frequenti visite e
colloqui nella sua abitazione a Palazzo Filomarino, guardata a vista dalla
polizia. Dalle sue lettere a Croce si evince un chiaro riconoscimento di
Croce come suo Maestro, oltre a forti sentimenti di devozione e di sincera
amicizia. In particolare, alla caduta del fascismo, esprime al Maestro la
sua "profonda gioia" perché "finalmente l'Italia comincia a
incamminarsi per la via maestra che le avevate additato", e prosegue poi:
"Gioiamo della gioia vostra e dei vostri cari: della gioia che ora, dopo
tutto quello che voi, giusto, avete sofferto, aleggia sulla vostra casa. Questo
rapporto si affievolisce a partire dai primi anni '50, quando più che la
filosofia fu la politica a provocare un allontanamento di Francesco Albergamo
dall'ambito crociano, per aderire progressivamente agli orientamenti ed alle
ideologie della sinistra e del marxismo. Già agli inizi degli anni '50,
aderisce al movimento dei "Partigiani della Pace", nato a Parigi nel
1949 sotto il simbolo della colomba della pace, appositamente dipinta da
Picasso,stringendo una forte amicizia con Lucio Lombardo Radice, Maurizio
Valenzi, Renato Caccioppoli, Ambrogio Donini e altri. Nell'estate del
1952 partecipò ad una delegazione in visita alla repubblica democratica
tedesca, assieme a Pajetta, Guttuso, Flora. La visita era, naturalmente,
finalizzata a diffondere ed esaltare le "conquiste del socialismo".
Di ritorno dal viaggio, il Ministero dell'Interno dispose il ritiro del
passaporto, e quello della Pubblica Istruzione gli comminò una ammonizione,
come se avesse abbandonato il servizio senza autorizzazione, mentre il viaggio
era stato fatto nel periodo di chiusura estiva delle scuole. Fu forse questo
episodio, che Francesco Albergamo considerò una manifesta soperchieria di
stampo scelbiano, che lo indusse l'anno successivo ad iscriversi al PCI,
salutato da Togliatti con un cordiale telegramma di benvenuto. Nel corso
di tutti gli anni '50, partecipò attivamente alla vita culturale e politica della
città di Napoli, che in quel periodo era in grande effervescenza. Il movimento
culturale della sinistra napoletana non si riconosceva pienamente in una
ideologia, come afferma Gerardo Marotta, "ma si fondava su un dibattito
filosofico che traeva i suoi succhi da un corale sforzo di comprensione del
proprio tempo. Il dibattito raccoglieva e valorizzava l'eredità culturale degli
illuministi e degli hegeliani napoletani del secolo precedente, attingendo alla
lezione storicistica meridionale che va da Vico a Croce, passando per F. De
Sanctis e G. Salvemini, e collegandosi poi al pensiero di Antonio
Gramsci. L'Albergamo partecipa con conferenze che venivano organizzate
dalle associazioni culturali napoletane tra cui "Cultura Nuova" ed il
"Gruppo Gramsci", ed accetta, sia pure a malincuore, una candidatura
del PCI alle elezioni comunali di Napoli. Il problema del rapporto tra
filosofia e scienza viene visto in termini di nuovi modi e nuovi contenuti per
la didattica delle scienze e della filosofia. Tra i primi in Italia, ed in
aperta polemica con la scuola crociana ed il clima dominante, Francesco
Albergamo avverte i rischi, per lo sviluppo della società italiana, di una
cultura prevalentemente classica: Con la seconda rivoluzione industriale che è
in atto in tutto il mondo, noi italiani non ci possiamo permettere il lusso di
rimanercene ancorati ad una cultura prevalentemente classica ed
umanistica." L'Albergamo lavorò con la passione di una intera vita,
fino a pochi giorni dalla sua morte. L'ultimo suo scritto uscì postumo su
"Critica" marxista. In seguito alla sua scomparsa il quotidiano
comunista L'Unità dette notizia della sua scomparsa con un lungo saggio. Possiamo,
per semplicità di esposizione, dividere l'opera dell'A in tre periodi. Nel
primo periodo, il pensiero dell'Albergamo si muove nel quadro di una concezione
filosofica di tipo idealistica, dominata in Italia da Croce e Gentile. Tuttavia,
più che alle tematiche tipiche dell'idealismo, è interessato ai problemi nuovi
che si pongono al pensiero filosofico a causa dello sviluppo impetuoso della
scienza nel novecento, in particolare nei settori della fisica relativistica e
quantistica, della matematica, e della biologia. Albergamo precorre, in una
prospettiva idealistica, la necessità di un dialogo costruttivo, osmotico,
della filosofia con le particolari discipline scientifiche ed empiriche.
Nel primo lavoro scientifico (1), richiamandosi all'insegnamento di Kant,
sostiene che la scienza, come esperienza dell'attività dello spirito, è resa
possibile dalle forme trascendentali. Tuttavia, sostiene l'Albergamo, gli
sviluppi più recenti della matematica (geometrie non euclidee, matematiche non
archimedee, gli iperspazi, ecc.) e della fisica (teoria della relatività di
Einstein, meccanica quantistica, principio di indeterminazione di Heisenberg)
provano la contingenza di tali forme trascendentali,. Affronta anche il
problema, fortemente dibattuto, dell'alternativa tra determinismo ed
indeterminismo, e perviene alla conclusione che anche l'alternativa indeterministica
sia egualmente legittima: la conoscenza scientifica può essere costruita anche
se si ignora il principio di casualità e si finge che i fenomeni si succedano a
caso, secondo le leggi matematiche della probabilità. Queste tesi originali
furono apprezzate e commentate, all'epoca, da diversi filosofi italiani, tra
cui C.Ottaviano, Aliotta, ed altri, fino a pervenire ad una ampia esposizione
della problematica filosofica connessa alla scienza del novecento. Il saggio La
critica della scienza nel novecento", pubblicato in prima edizione nel
1942 e poi più volte ristampato fu giudicato "assai pregevole" da
Croce. Di questa opera, Guido De Ruggero scrisse che essa "offre una delle
più efficaci sistemazioni speculative che io conosca delle vedute
pragmatistiche della scienza, compresa quella del Croce alla quale più strettamente
si connette. L'ambizione dell'Albergamo, che traspare chiaramente nei diversi
spunti critici nei confronti dei limiti dell'idealismo nell'affrontare il
problema della logica della scienza, è quella di "costituire una
confutazione dell'idealismo per via dell'idealismo stesso. In altre parole,
vuole in qualche modo superare la concezione che relegava la scienza nel limbo
degli "pseudoconcetti", per dare piena legittimità ai processi
conoscitivi, sia delle scienze esatte che delle scienze empiriche, restando
comunque ancorato all'idealismo. Benedetto Croce in qualche modo accetta
e favorisce la ricerca di A, giudica "assai ben pensato e ragionato"
il suo lavoro, ma rimane rigido nell'accogliere la storia della scienza come
parte integrante della storia della filosofia. Finito il periodo bellico,
l'attività dell'A si sviluppa poi in una serie di opere in cui
sistematicamente, ed in un quadro storico, vengono trattati i problemi della
logica delle scienze esatte e della scienze empiriche. In questo periodo A,
dirigendo per l'editore Laterza una collana di scrittori di teoria delle
scienze, propone alla cultura italiana la conoscenza di importanti pensatori
d'oltralpe, come Poincarè, Bergson, Bachelard, ed altri. Il secondo
periodo dell'attività di Francesco Albergamo può datarsi attorno ai primi anni
'50, ed è caratterizzato da un progressivo allontanamento da Croce e dalla sua
scuola, dovute alle difficoltà dell'Albergamo a trovare un pieno accoglimento
delle sue tesi sulla scienza, ed anche, in qualche misura, a diverse
valutazioni politiche. L'esigenza di Francesco Albergamo era quella di
dare piena legittimità filosofica alla logica del pensiero scientifico. Per
raggiungere questo obiettivo, era necessario operare un
"capovolgimento" dialettico nel rapporto Natura-Spirito della
filosofia crociana, allo stesso modo in cui Marx aveva operato nei confronti di
Hegel. Per Albergamo infatti "spiritualismo e materialismo costituiscono
in realtà una opposizione dialettica, nella quale di continuo ognuno dei due
deve vincere la resistenza opposta dall'altro... come già nella dottrina
hegeliana, così anche quella del Croce esige… un "capovolgimento", in
maniera che il suo oggetto…trovi proprio nel suo opposto la condizione per
vivere e svolgersi. Nel terzo periodo di attività, a partire dal 1967, quello
della massima maturità ed originalità, affronta una analisi sistematica delle
forme di "pensiero prelogico", inteso come "pensiero che,
spontaneamente, senza alcuna riflessione logica, veniamo indotti a formulare
per una suggestione tanto irresistibile quanto inconscia che inibisce la nostra
intelligenza. Analizza con grande attenzione tali forme di pensiero, sulla base
dei risultati e delle osservazioni di etnologi ed antropologi (da Frazer a
Levy-Bruhl, Levy-Strauss, H. Kelsen, ed altri), oltre che dei risultati della
scuola psico-analitica, da Freud a Cesare Musatti. Analizzando questa
poderosa base di osservazioni sperimentali, perviene ad individuare i
principali meccanismi della prelogica: automatismo associativo, intuizione
animistica, inibizione dell'intelligenza ad opera del sentimento. Vengono
così portati alla luce della consapevolezza quei processi inconsci ove si
generano mito e magia. Le molteplici e diverse credenze mitiche e
magiche, con la loro uniformità di struttura e le loro coincidenze spesso
sorprendenti, sono interpretate come il risultato di un automatismo psichico
inconscio, che persiste pur attraverso le situazioni storiche più
diverse. La tesi dell'Albergamo è che tali forme prelogiche, che sono
alla base dei miti, dei riti, e delle pratiche magiche dei popoli primitivi,
lungi dall'essersi esaurite con il progredire del pensiero scientifico e
filosofico, sono presenti in maniera diversa, non solo in età infantile ed in
alcuni soggetti psicopatici, ma anche nelle stesse persone colte, nonché in
alcuni ambiti dello stesso pensiero scientifico e filosofico. Accanto a questo
nuovo ed affascinante filone di ricerca, si intensifica l'opera di educatore,
con decine di opere destinate alla scuola, manuali, antologie, trattati, nonché
da studi e pubblicazioni sulla didattica delle scienze e della filosofia degli
scritti di Albergamo. Opere: “Saggio di
una concezione filosofica della scienza” (Napoli, Loffredo); “Disegno storico
della filosofia ad uso dei licei classici e degli istituti magistrali” (Milano,
Sig.); “La tesi finitista contro l'infinito attuale e potenziale” in Atti della
Società Italiana per il Progresso delle Scienze; “La filosofia di Spir”, in
Annuario Liceo Vittorio Emanuele di Napoli); “Critica del concetto di
infinito”, in Annuario Liceo Vittorio Emanuele di Napoli, “L'Italia di Augusto
e l'Italia oggi” in Augusto. Celebrazione nel bimillenario augusteo, a cura del
R. Provveditorato agli studi di Trapani, Trapani); Cura di I. Kant, Prolegomeni
ad ogni metafisica futura che vorrà presentarsi come scienza” (Bari, Laterza);
“Il criticismo kantiano e la scienza moderna” (in Atti della Società Italiana
per il Progresso delle Scienze); “Kant e la scienza moderna, in Archivio della
Cultura Italiana, “Le basi teoretiche della fisica nuova” (Padova, Milani); “Filosofia
e biologia, in Sophìa; Recensione di A.V. Geremicca, Spiritualità della natura,
Bari, Laterza, «Sophia», “La critica
della scienza del Novecento” (Firenze, La Nuova Italia editrice); “Lo spirito
come attività creatrice” (Firenze, La Nuova Italia editrice); “Il concetto di
realtà e le scienze empiriche”, in Ricerche filosofiche. Rivista di filosofia,
storia e letteratura, n. unico; “Vitalismo e meccanicismo nel secolo XX”; in
Rivista di Fisica, Matematica e Scienze naturali; Versione, studio introduttivo
e note di G. Berkeley, Trattato sui principi della conoscenza umana” (Verona,
La Scaligera); “La matematica nella critica della scienza contemporanea, in
Sophia, L'ordine nel mondo degli oggetti, in Logos, Recensione di A. Marzorati,
Spiritualismo, Milano, Bocca, Sophia», La natura: Saggi filosofici, Verona, La
Scaligera); “Croce critico della matematica, in Rassegna d'Italia; “Storia della
logica delle scienze estate” (Bari. Laterza); “Traduzione, studio introduttivo
e note di H. Poincaré, Il valore della scienza” (Firenze, La Nuova Italia); “La
scienza nell'antichità classica, in A. Padovani (a c. di), Antologia filosofica,
Milano, Marzorati); “Traduzione, introduzione e note di H. Poincaré, La scienza
e l'ipotesi, Firenze, La Nuova Italia, Cura di La scienza nell'antichità
classica. Antologia filosofica, Como, Marzorati); “La scienza nel Rinascimento,
in Grande antologia filosofica, XI Scienza, natura e storia in Gramsci, in Società;
Introduzione a S. Laplace, Saggio filosofico sulla probabilità, Bari); “Cura e
introduzione di G. Bachelard, Il nuovo spirito scientifico, Bari, Laterza (Nuova
ed. riv, L. Geimonat eRedondi, Bari, Laterza). Storia della logica delle
scienze empiriche, Bari, Laterza); Le scienze naturali nella filosofia di
Croce, Bari, Laterza Il pensiero scientifico contemporaneo. Antologia storica; Le
scienze esatte e le scienze fisiche; Le scienze naturali, Firenze, La Nuova
Italia); Il pensiero scientifico nell' 800 e nel Questioni di storia contemporanea);
“Il millesimo anniversario della morte di Avicenna, in Rinascita, Il valore
teoretico della matematica, in Atti del Congresso di studi metodologici, Torino,
Torino, Introduzione a J. W. Goethe, Scienza e natura. Scritti vari, Bari,
Laterza); “presentazione di A.V. Geremicca. Prefazione a A.M. Frankel, Le
scienze naturali nella filosofia di Benedetto Croce, Bari, Laterza); “Cura di
E. Bergson, L'evoluzione creatrice, s. i. t., Mazara (Trapani) Le scienze nella dottrina crociana delle
categorie, in E FLORA (a c. di), Benedetto Croce, Milano, Malfasi Editore, La
critica della scienza oggi in Italia, Roma, Perrella); “Il dogmatismo religioso
contro la libertà e l'autonomia della scienza, in Il Calendario del popolo, La
vita nella dialettica della natura, in Società,
Recensione di S. Timpanaro, Scritti di storia e critica della scienza,
con una avvertenza di Sebastiano Timpanaro jr. (Firenze, Sansoni «Belfagor»); Recensione di C. Luporini, La
mente di Leonardo, «Belfagor», La geometria di Euclide non è la sola possibile,
in Il Calendario del popolo, Scienza e filosofia di Einstein, in Rinascita, Recensione
di H. Reichenbach, I fondamenti filosofici della meccanica quantistica,
«Società», Introduzione alla logica della scienza” (Firenze, La Nuova Italia);
“I rapporti tra la filosofia e le scienze nel liceo scientifico, in Convegno
nazionale di studio sulla didattica della filosofia I Licei e i loro problemi, Intuizione
e ragionamento nella matematica, in Atti del Convegno Nazionale "La
didattica della matematica nella scuola primaria", Roma, Matematica e realtà, in Società, “La teoria dei quanti nelle interpretazioni fenomenistica:
del Reichenbach”; in VIII Congrès International d'histoire des sciences, Florence
Milan, I, Paris, Direzione della sezione ‘Scienze’ del Dizionario Bompiani
degli autori di tutti i tempi e di tutte le letterature e redazione delle voci:
Albert Einstein, Luigi Galvani, Hendrik Anton Lorentz, Edme Mariotte, Carlo
Matteucci, Emile Meyerson, Hermann Walther Nernst, Julius Robert von Mayer
Storia della filosofia per i licei scientifici, voll. 3, Padova, Milani, Sopravvivenza
della prelogica nel pensiero scientifico e filosofico, Stabilimento Tipografico
G. Genovese, Napoli, estr. da «Atti dell'Accademia di Scienze morali e
politiche della Società Nazionale di Scienze, Lettere ed Arti in Napoli», Cura di A. Einstein, Filosofia e relatività,
Palermo, Palumbo, Pensiero e attività educativa nel loro corso storico, va.
Palermo. Palumbo; La natura: Saggi filosofici, Bologna, Patron); Fenomenologia
della superstizione, Roma, Editori Riuniti); Mito e magia, Napoli, Guida); L'educazione
scientifica, Milano, Vallardi, estr. da La pedagogia. Storia e problemi,
maestri e metodi, sociologia e psicologia dell'educazione e dell'insegnamento,
diretta dal Prof. Luigi Volpicelli, La ricerca umana. Storia della filosofia,
Palermo, Palumbo Problemi del pensiero.
Guida interdisciplinare per lo studio della storia della filosofia, Palermo,
Palumbo, La teoria dello sviluppo in Marx ed Engels, Napoli, Guida, Lo
strutturalismo di Claude Lévi-Strauss, in Critica marxista; Lo sviluppo
dell'Antropologia culturale, in Genus, La "Storia del pensiero filosofico
e scientifico" di Ludovico Geymonat, in Critica marxista, Il pensiero
filosofico e scientifico nell'antichità e nel medioevo, Napoli, La Città del
Sole (rist. del testo del 1963, con aggiunte di A. Gargano). Il pensiero
filosofico e scientifico in età moderna, Napoli, La Città del Sole (rist. A.
Gargano). Il pensiero filosofico e scientifico nell'età contemporanea, Napoli,
La Città del Sole (rist. A. Gargano). Fonti Fondazione Croce, Napoli Lettere
tra Croce e Francesco Albergamo e di Albergamo a Codignola, Gentile, Ottaviano
e Sciacca, In Giornale critico della filosofia Italiana, gen. Apr. Due lettere inedite di Croce a
Francesco Albergamo,in Rassegna Storica Salentina, La Veglia ed. Carmelo
Ottaviano, Recensione al Saggio di una concezione filosofica della scienza, in
Sophia, A. Aliotta, Recensione al Saggio di una concezione filosofica della
scienza, in Logos, R. Mck, Recensione al Saggio di una concezione filosofica
della scienza, in Journal of Philosophy,
3Profondo cordoglio per la scomparsa del compagno Albergamo, L'Unità, G.
Marotta, Renato Caccioppoli, la Napoli del suo tempo e la matematica del XX
secolo, Napoli, la città del sole, Lettera di F.Albergamo a M.F. Sciacca, 2 Centro
Internazionale i Studi Rosminiani, Stresa, citat. Francesco Albergamo.
Albergamo. Keywords: Crotone, il finito e l’infinito, idea de la scienza,
scientia, la scienza italica, la scuola di Velia, la scuola di Crotone – la
scuola di Girgentu – scienza naturale – scienza fisica – fisica – fisica
filosofica – scienza umana – scienza esatta – scienza empirica – anti-finalismo
– meccanicismo, galelei, il liceo classico, prmenide, zenone – la scuola di
crotone – girgentu – empedocle e i fenomeni – l’entita matematica alla scuola
di Crotone, disegno della storia della filosofia ad uso dei licei classici –
liceo classico – liceo scientifico – Benedetto Croce – carteggio
Croce/Albergamo – la logica della scienza – la non-sicenza, mito –
superstizione – animismo – l’italia nei tempi di Augusto ed oggi – la critica
della scienza in Italia oggi – lo spirito – lo spirito come liberta creatrice –
meccanicismo e vitalismo – il kantismo – la filosofia della scienza – la
metafisica – la filosofia nell’eta fascista – saggio filosofico sulla scienza –
la natura – saggi filosofici -- saggio
su una concezione filosofica della scienza – scienza della natura – pitagora e
la scienza della natura – fisicismo – naturalismo -- Refs.: Luigi Speranza,
“Grice ed Albergamo” – The Swimming-Pool Library.
Grice ed Alberti –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Bologna). Filosofo
italiano Grice: “I like [Leandro] Alberti; his “Tutta Italia” is a must; his
claim to fame is to translate from Roman to Tuscan (no big deal there) what is
deemed the first ‘daemonological’ tract – Mirandola used ‘ludificatio,’ which
was vastly translated as ‘inganno’ or by Leandro as ‘illusioni’ – which has
echoes with Descartes’s malignant demon hypothesis and my “Some remarks about
the senses”!” – ‘Filosofo. Nato da Francesco Alberti, di origine
fiorentina, fu condotto agli studi umanistici dal noto medico e umanista
Giovanni Garzoni. Entrato nell'Ordine domenicano nel 1493, studiò teologia e
filosofia con Silvestro Mazzolini da Prierio continuando tuttavia a coltivare
con il Garzoni i propri interessi umanistici e storici. De viris
illustribus, Bologna. Il primo risultato dei suoi studi fu il contributo che
egli diede, in soli 18 giorni, alla stesura dei De viris illustribus Ordinis
Praedicatorum libri sex in unum congesti, opera collettivacon il Garzoni, il
Castiglioni, il Flaminio e altridi biografie di domenicani, stampata a Bologna.
Traduce dal latino in volgare la Vita della Beata Colomba da Rieto Tenuto
al dovere della predicazione, fu «provinciale di Terra Santa»cioè compagno
nelle predicazioni itinerantidel maestro generale dell'Ordine, Tommaso De Vio e
del successivo maestro Francesco Silvestri: con quest'ultimo percorse tutta
l'Italianell'ottobre del 1525 era a Palermo e la Francia dove, a Rennes, il 19
settembre 1528 morì il Silvestri. È poi attestato, a Roma, prendere parte al
capitolo generale nel giugno del 1530. Negli immediati anni successivi
rimase nel convento di Bologna, dove commissionò a fra' Damiano Zambelli le
decorazioni da eseguirsi nella cappella dell'Arca di san Domenico e i
bassorilievi eseguiti da Alfonso Lombardi, questi ultimi pagati dalla città
dopo la richiesta in tal senso avanzata dall'Alberti. In quest'occasione
scrisse un opuscolo sulla morte e la sepoltura del Santo, il De divi Dominici
Calaguritani obitu et sepultura, pubblicata nel 1535. Un'altra sua operetta, la
Chronichetta della gloriosa Madonna di San Luca, fu pubblicata nel 1539 ed ebbe
altre edizioni accresciute dal contributo di altri autori anonimi. Il 20
gennaio 1536 fu nominato vicario del convento romano di Santa Sabina, un
incarico che non dovette prorogarsi per più di due anni, giacché dal 1538 è
sempre documentato a Bologna. Fu anche inquisitore di Bologna. L'opera
più importante dell'Alberti, dedicata ai sovrani francesi Enrico II e Caterina
de' Medici, è senz'altro la Descrittione di tutta Italia, pubblicata a Bologna
nel 1550. Ad essa seguirono in ottanta anni altre dieci edizioni a Venezia e
due traduzioni latine a Colonia: nell'edizione veneziana del 1561 si aggiungono
per la prima volta le Isole pertinenti ad essa, mentre quella del 1568 è
arricchita dalle incisioni di sette carte geografiche. Opera di geografia e di
storia, ricalca in gran parte la Italia illustrata di Flavio Biondo,
ampliandola e migliorandola nell'esposizione e nella citazione delle fonti, ma
mostrando scarso spirito critico, attenendosi egli «ai dati dei geografi
antichi o, per la parte storico-antiquaria, ad autori moderni di dubbia
attendibilità come Raffaele Volterrano o Annio da Viterbo: e solo quando
vengono a mancare testi precedenti ricorre a elementi di più diretta esperienza
[...] parimenti nella critica storica preferisce riferire insieme le differenti
versioni, anche di tempi e di valore molto diversi, senza prendere
posizione». Opere: “De viris
illustribus ordinis praedicatorum libri sex in unum congesti” (Bologna); “De
divi dominici calaguritani obitu et sepulture” (Bologna); “Historie di
Bologna”; “Libro detto Strega o delle illusioni del demonio”; “Descrittione di
tutta Italia, nella quale si contiene il sito di essa, l'origine et le Signorie
delle Città et delle Castella” (Bologna); “De incrementis dominii veneti et
ducibus eiusdem” (Lugano); “De claris viris reipublicae venetae” (Lugano). Universal
Short Title Catalogue, Scheda delle opere di Leandro Alberti. Così scrive egli
stesso: De viris, c.A. L. Redigonda, “Liber consiliorum conventus Bononiensis, Archivio
del convento di San Domenico, Bologna. A. Battistella, Il Santo Officio e la
Riforma religiosa in Bologna, Bologna, G. Roletto, Le cognizioni geografiche di
Leandro Alberti, in Bollettino della Reale Società geografica italiana, Abele
L. Redigonda,Dizionario biografico degli italiani, 1, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,
Descrittione di tutta Italia in Il Genio Vagante, Bergamo, Leading Edizioni, Massimo Donattini, Il territorio emiliano e
romagnolo nella descrittione di Leandro Alberti, Bergamo, Leading Edizioni, Michele
Orlando, La Puglia nell'odeporica domenicana di fra Leandro Alberti, in Rivista
di Studi italiani, ora al sito rivistadistudiitaliani La Puglia, introduzione e
note al testo dalla Descrittione di tutta Italia, Michele Orlando, UNI Service,
Trento, Liber Liber. Opere di Leandro Alberti, su open MLOL, Horizons Unlimited
srl. Opere di Leandro Alberti, Leandro Alberti, in Catholic Encyclopedia,
Robert Appleton Company. Descrittione di tutta l'Italia su culturitalia.uibk. ac.at.
LA STREGA; OSSIA, DELLE ILLVSIONI DEL DEMONIO. Dialogo composto dall’illustre e
molto dotco Prencipe Segnore Giovanfrancesco Pico della Miradola, segnore e conte
della Concordia, volgarizzato dal Ven. P. F. Leandro dell’Alberti, Bolognese, dell’ordine
de predicatori. LE PERSONE PARLANO. APISTIO -- FRONIMO -- DICASTO -- STREGA.
APISTIO. FRONIMO. Dimmi do juevacola cosi infreta caminando per la piazza ove
vendon sil herbe tanta moltitudine di popolo. FRONIMO. No loro, ma andiamo anche
noi un puoco, accio intedia mola cagione di tanto concorso, conciolia che puoco
di no potra esserela perduta di puochi passi. APISTIO. Noi in ver un
luogo. FRONIMO. Di quale augello ragioni tu en. APISTIO. Della strega. FRONIMO.
Tu giuog h i he Apistio. APISTIO. Pensa purche quello ho detto I ho detto no per
givo con e periscrizzo, ma da dovero Conciosia che debbia esser molto aggrado a
ciascun huomo, ma maggiormete alli gentili e curiosispiriti, di conoscerequello,
loqualeno hamaicon osciutolaantiquita. FRONIMO. Dunque tuteaffas tichi
diuuolerintendere quello chenon ha inteseuerunos APISTIO. Dunque il timitacheiovogliammi
persuadere diconoscerequello che non mai hanno volute conseffarede haue r e
intero li huom n i gradi e molto litterati, e pur se l’ha a veranno inteso non
appareinuer un luogo. FRONIM. Chi co far. APISTIO. L.oaugello Strega. Béchegiahabbia
lettot CollaliinfamelanotturnaStrega.E coficonfeffadino sapere, di qualeger
neratione de ucceglistala stregha. FRONIMO. Affaimi meraueglio chefendo tu molto
dotto nelli Poeti, ficomea mepare cunonhai lettocomeeraconsuetudinenellitem
pianti chi di esserscacciatofuoridelleporte & uscile ftreghe cosa che
seraanoi aggradeuole, perche sepuotra comput: tare in uecediuiuandenel
pranso,quandoritornaremo. E forsi anchora ser amolto piu utile cosa chenon
sapiamo, intendendo qualche nuouo secreto. Conciolia che am e pa
te,etragioneuolmére istimo,fiapresa una Strega etiuieffer douecorre peruederla
tantamoltitudinedipopolo.mesco T a t o c o n li fanciulli. APISTIO. Habitano in
questi luoghi le streghe? O cercamente non mi serebbe grave di caminare
diecemiglia, peruederle. FRONIMO. Hor su, sea dunque non m a i uedeftiueruna, forfihora
fara satisfacco alla tua cu. riosauoglia. APISTO. sepur accadesse cheiopoteffi
ci trovare coteftoaugellodam e contantodesiderio cerco, eno giamai citrouato
Meftitia augurio infaufto edanno efpresso Peggio chel bubo annontia porge, etlega.
Anchorpurhouedutonellantichemaledittionifusknomi nalala Strega. Machecofasiaquella
ediqual naturanon ficouiene. EtiftimaPliniochesiaunafauola,quello cheers
scritto deltelitreghecioe che asciuccaueno collelabbra le p o p e delli
fanciulli Da uiciaticorpiaforzaegreffo. Er egliecoteftoluto
offeruato pinsino dalli Heroici tempi.' Quellecosemimoueno che sono venuti nellithalamieca.
mere delli Proci, o siano delli lascivi e molto libidino f i buo, m e n i
cosidicendo Ouidio. Procàildimostraqualesiaqueftoangue Chere-laceratoda
questoanimale, Aforbe il sanguela ftrega in felice, Delle Streghe gia
preda fortelangue, Puoco iluagitofanciullefcouale, Et chi ederspello agiuto
allanodrice. bb ii conuna uergadispinobianco, ecome hannoqueda natu. ra, chesonobråminosiucceglicon
ilcapo grandeliocchi fermi,ilbeccotoruo,epartedellepennecanute.colunghie
rampinate,eperciocolisuolenoefferechiamatepercheha n o confuetudine di Atridere
nella spauenteuole norte. Hor tu uedi il nome la cagione diello,lanaturadiquella
&ancho talafigura comeegliestaraifcrittadalliantichi. APISTIO. Ben intendo
quelloturaccolima forsi sonodidiuersemanie re e generationi cotefte ftreghe,edi
differente natura,c o n cioliachefedice,comenon fucciano colle labralepope di
fanciullini, ma ch beueno ilsangue.Ilpche cofidiffe Ovidio Di notte ai fanciulliniuola
spesso Empiendo il petto dellionoffiosangue Siprefto conlalinguainfatiabile,
Chelsoccorso opportuno effernon lice: N o
paionoatecoteftiofficiifrafedellestreghe, tanto diuer Se nontidimoftranouaria &
anchorcontrarianaturaecó ditioner Erano ragioneuolmente da
efferiftimatiquelliaus gel li misericordiofi, liquali faceuano Ifficiodellanudrice,
ma quefti sono da esserreputatigrandemêtenoceuoliema kegni dalli quali sono occisi
li fanciullini havendoli bevuto il sangue.FRONIMO. Iotediro'ilueroaniipaionopiupre
ftociascunadiquestecosefauolė,che altro. Mapurseuisiri trouaqualchecosadiueronellafauola
iopenso chenosias nonatiquelliaugelline anchor che se ritrouano nell’inerf.
Chalquinto giorno depuo fuo natale Perche quelli fallititolieuerfi figuranola
uecchianelliuc.. celli. Mabenpensofuflifattoquesto conloagiutodelliDe.
moniiiniquiemalederti cio echeliancidentiaugellihora appareuono in una forma
della nodrice ethora dellainlidia trice E. questomaggiorméte am e lofa credere
percheildi monio insegno il gioueuolerimedio contro delleincantas
tioniemaleficii,perliqualieranoligatelementi delli huo. mincio n inganni,econ
bugie,dicédofeefferGiano,uuole uachetreuoltetoccaffilioconlarburafrödaleporteetuscii
cioeconlafrondade unoalberosimilealcitrono &treuol tesegnandocon
dettafronda le pietre chesono sottolain trata delluscio, bago ando la intrata
con l’acq ua, e com i m a d a gaanchorsefaceslino dell’altre cose che non erano
sagre, ma anzi a b omine uoli sacrileg i i e p o rtéri, Bé che anchor de quelle
confedica. Se poil infanti per la nocte oscura Vesla ecilsangue elucca con l’esperti
Labrila Strega,etintalmodo leindura. Cosine tempinoftrihanno consuetudinedifare
le streghe, quando se narra che sono portare al giuoco di Diana. Guaftas no
nellecune lifanciullininuouamente natiche piangono,
dipoiincontinentiledanoligioueuolirimedi. Liquali, co m e ainepare, fonoinloro arbitrio
e poßianza di doucrlida re. Imperhomeritamenteegliederiuatoquestonome.Ca ciofia
che queste crudeli e bestiali femine lequali cometter no tanta
scelerita,anchorda noi cosicome dalliantichi có. uenientemente sono chiainate
streghe. APISTIO. Hammi parccute inganni Fronimo pariméte inlieme con
moltialtri,cte dendo efferuero,quello chescioccamentediceiluolgo,cio eche
fononoloche feminuzze, lequaliuolanonellamezza notte alliconuiti, et alli delette
uoli piaceri carnali delle L e muriofianodellispiritidellaoscuranottee che
coteftefer minuzze guastino con incantili fanciulli. FRON.Meglio potreste
parlare Apiftio.Conciosia che non mai fe debbe di re checoloroerrano, liqualiapertamenteracontano
quello che hanno con locchio dellaragionechiaro e manifeftono puochihuomeniben
docci, & amaeftraticólacõținua prati 1 caet. sa
etanchorfonoomatidebuonicoftumieuertuti. APISTIO. Io ti prometto
cheno'e-maiftatopossibiledieffermiper fuafo queftoche tu di percoralm o d o che
lhabbia creduto. FRON. Per qleragione,no teha poffuropsuadeiuecuno A PIST. Per
que f t ca, i n e che pare una cosa da ridere, come fiapoffibicleh e fattoun
cerchio et unto il corpo conno fo che unguento,in un'certo m o d o er dettepoicecce
parole coun no fochemormorio fecógiúganodettefemenuzze incontinéte colli demonii
infernali e che caualcanodinot. te souradiunolegnodetto Gramitaconilqualesifuolecal
fecrareillino,elacanoua oyerosaliscanosouradiunacaura o diuno beccoo diunomoncone,esiano
portateper aria, eche trapallino li Spatji delli'uenti e ricrouanfe alli cantie
ballidi Diana, ediHerodiade, E cheiui giocano, mangio no
beueno,epiglianolasciui piaceri- Puruoglioanchorago giungere un altra cosa cioe
che non seaccozzanonel parla. re, ficomeho inteso conciofiache alcune dicono
efferpors tate moltoinalcoperaria, eraltrediconoappo diterraalcu ne
confeffanodiandaruifolamente con la imaginatione e noncon ilcorpo, epoifermarsisouradellagodi
Benacoo Hadi Garda, nellialtiffimimonti, vero e chemolto m i m e raueglio che nondicanodiefferefermatefoura
della cima delmõte Micalainsiemecon Thalete overo sula cima del Mimante siano poste
a caminare con Anaslagora, Ilquale c -u n non t e n o n guar i discosto d a
Colophon e da continue neui affediato, dacuife conoscelatempeftadebbe venire.
Altrecacótano de esser portate allo albero di Benevento det tolanuce,rebême
arricordo.Ma qualee la cagionenosi fermano piu presto nelterritoriodi Arpino
piu vicino (fico/ me io penso) alla nostra regione coueroportate alla Quer zadi
Mario,etanchorfeno leparefaticadiandarepiudiß costo perchenon sono portate per infino
nella Cheronea alla Querza di Alessandro Dicesianchorache hannoamo
rosipiacerecolli demonii che non sono congiunti colli corpirei on oerro. Ma dimmi
un puoco Apistio, che toccame ci possono esser cotefti? Chepiacerisouerinche
modo poffo no hauece amorosi solazzi conqueftauana, efintaimagine, efeminedicarne.
Ho letto come le larve oʻsianolenuo's ceuoliombre dellanorię e dellinferno
pigliano piaceri colli' morti etche combatteno con effi, e no con liuiui. FRONIMO.
Dimmi Apistio, seiosciorco tutteletue ragioni, fico me spero consentirai. APISTIO.
Io ti prometto di cosenti re. FRONIMO. Egli e certamente cosa da huomo ragioneuole,
e di sano intelletto, dilaffarsi muouere 'e guidare dalle ragio ni
effcnipij,etdalleauthoritatidelli antichi,lequaligia sono con cómun sentimento
confermate,edipoi quiuifermarsi ma molto maggiornéte- eropera di coluicheedigradeinna
gegno,echeha lógo temporiuoltolilibridellidoctihuome ni. Donqueseiocolletueragioniticonduceroa
cosentirea quello de cui hora tenemenibeffe, chefaraipoi? APIST. Che faro: Vimetterolemani.
FRON.Pensocheancho, sauiinetteraiipiedi. APISTIO. Ma nongianelliceppi. FRONIMO.
Deh non hogiamaicercaměte pensato co testo. Vero-e. chebengrandemece
desiderocuintédique. fto,accione uenghinellamia oppenione, collipiedi, e cole
mani, ficomedire sisuole. APISTIO.lononfifiutoquello chesperi, e desideri,sefaraiquelloche
tudietprometti. FRON. A me pare perilragionarehauemofattocaminan do, chetuseimoltodottonellipoeti
delli Gentili,etanchora affai siaornato de Philofophia. APISTIO.Il mio Fronimo
diquestohoranomiuogliodareiluanto cioeche beninte dali Poeti et fia dotto nelli
parlari. Con c i o fia che egli e molto maggiore lacognitioneadouereintéderequelliper
co ialmodo chesouerchia le forze decoluiloqualearrogáte? mente
alcunauoltaselauoglia attribuire, hauendopuoco ftudiatoinesli, ethauédolipuocapratica.
Ilpercheegliegra demente necessarioa coluiauoleintendereefli poeti e philosophi,
diconoscereetintenderenon triuialmenree grossa, mente la l i n g u a greca e
latina. Et anchore gli e bisogno d i hauere ben intese lifecreti,esentimenti
extratti fuori delle crerario della philosophia. Delliqualisonoornatiebenue
ftitili poeti emaggiormente Homero. De cui,ho udito che
fuillustratoetaddobbatocon grandi CómétariidaAristo. tileetanchora dallialtri Philofophidelladotta
schuola. Anchor c h o r ho inteso che se sforzo il Plutarcho con
uno molto grande libro di attribuire ogni scientia, ogni arte, e finalmente
ognicosadiuinaethumana, aquellocieco Homero.Ilperá cheionegoeffereinme
quellacognitione perfetta, sicome tudi,m a no nego
pechoesfermiessercitatoalcuna'uolta per piaceredellanimomio inleggere
quelli,licomeiocercaffi lacognitionedellelingue econquasileggermētebeuendo
qualchi amaeftramétigioueuoliallicostumi,etanchora ac c i o n o n fufli
riputato ignorante, fra li amici e compagni, o c curendola occafione.Cosi
senóho beutalargamétela philosophia, de cui se dice che -e nascosta in detti
author i a l m a c o (l i come di r e si suole). I h o t o c c a t a e gustat a
con l a l o m i t a dellelabra. FRONIMO. Io credochetusiaconduttonon dalla
arrogantia ne anchor dalla fimulatione,m a solamen tedallauerita.Laqualeuertu
ecollocatadaAriftotelenel m e z z o fra ğiti uitii. Imphoche dimostri di n ó
effer ignorare ne anchortutiuátidisapereognicosa. Ecosiquellecosehaj dettodella
notitia ecognitióedellipoeti nó fon discoftodal lauerita. Cóciosiache Platoneet
Aristorelesonopieniditer ftimoniidiHomero, diHefiodo di Simonide, Pindaro,E u
ripide,edellialtriPoeti.Ilpercheiodubbiro affaichetu lia molto dottonella
philosophia decui pare non molto inte diedimoftridinonsapere.E cosiho
istimationeche dis mostrarai molte cose chesonodategiamolto tempo con
gregateinfiemenelfinedenoftriragionamenti, le qualidi. mostrihoradino sapere.
APISTIO. Io te diro, come sono alcune cose che qualche uolraci sonofuto donare
dalla natura leaza uer uno studio o fiano uertuti, ouero altre cose,fi come
prencipiidelleuertude. FRONIMO. Non per que, Atosonomacatodallamia oppenionem a
anzi hai tu posto inme maggiore dubitatione con corefta tua risposta.APII STIO.
Chehaicudetcos 'FRONIMO.Iohodetto,e dir Co cbe ragionocon uno Philosopho.Vero eiche
meglio allhoramicauaro questafantafia,pigliando prencipio imi perho da
quiui,cioe se uuoi promettere di responde -- re a quellecose,dellęqualiho
desideriode interrogarti, perlequalihauemo comenciatodiparlare. ĄPISTIO.Io
DELLE STREGHE 8 to matrimonio prometto de responderti
liberamente. Horlu addimanda. FRONIMO. Dimm i il mio Apistio, hai tu giamai
letto in Omero che anda li e V l y f f e alli Cime r i i s. APISTIO. Si. Et
anchora ho letto in chemodo andodaquella gére chefa ua nellaariacaliginofa.cioe
che erasenzauiada poceruien trarei raggi del sole.FRON.Dimmeseltepiace,checol
lafeces. APIST. Hoaffaicole.FRON.Nó leggiamoquel le parolediessoingreco, le quali
horaledicoinnoftrouolga' re cosi.lo fu quello che cauai fuora allhora allhora
ilcoltello dellacosciase cominciaidicauareconilscarpellounafofla,
allamisuradiun gomito,indiequindiincerchioetancho
rainfundeililibamini,cioelifacrificii,colleumbres APIS. Tu hai molto egreggianiétedechiarato
il sentimento,eno manco ageuolmente isposteleparole. FRONIMO. Credo habe
bilettono una uoltam a louéte ligiuochidiDiana,eliballi collecompagne
Nymphe.APIST.Eglieuero,etu non re inganniapunto.FRON.Anchoriopensochetuhabbiri,
uoltoquelli libri douesonoscrittiliamorosi ragionamenti, erlafciuisembiatide Anchiseconlaimpudica
Venere eco 1 ·me fufferogenerati molti Baroninellitempiantichidicote
Atifallacietingánatori Dei. APIST.Etanchoraquestosper seuolueholetto. FRONIMO. Tu
debbisapercome queftimal uagi Dimonii ingannaueno con merauigliosi
huominicheerano deditialle opererufticaliepastoralisico me eracommunamente
lauitadi quelliliqualifurono rie trouati nelli tempi Heroici.Cosianchorainganno
il Demonio Peleo pastore padre de Anchise, conciolia che effo fico me
diffecoluilaffolagreggedelli porcielarmentonógus cidiscosto dallemura inuna
ombrosa ualle forto laimagin ne della Thetide dea marina.cosiiftimatadalle
genti. Et ac ciomancoseaccorgessedelfrodo glifuin SEGNATO dauno altro frodulento
demonio uno delli Capitanii Grecichiama to Proteo con il qualepigliarebbe There
madre de Achille la qualedimostrauafiincentofigure.Ma benuedieconfi dera uno
altrofrodo,con loquale grandemente inganno, cioeche non dimost.raua di uuolere
commettere iltupro, n e anche lo adut l e r ' o, ma fi n sed i u g o l e r e
contra h e r e i l l e c i. di quelli to
matrimonio, Loquale con suoiuersiegreggiamere carito Hesiodo, ficomeseuede nelle
scritture de Greci. Ilpchepra babilméte dicemoeffer da quiui deducto,cioedallo
effem. pio diHefiodo, loEpithalamiodi Catullo.Ilche anchorr dimoftra il tenore del
verso, chiaramente demostrado quella ancica facilitate questodechiarailcontinuo
e sollecito ftu diodi Catullo I seguitare li Greci, pcotalmodo che ispreffe
leintegre Elegiedi Callimacho,alcunauoltarendedoilsen timentoetaltreuolteisprimendoleparole.
Anchora inganno per co t a l via il demonio facilmente Paride, focto figura di quelle
ore Dec. Il quale fi come scriffe Colutho Thebano nellibrodellapresa di Helena,
nosolamentepafceualeper corelle del suo padre, ma anchorli Tori, eptal modo feue
ftiuadelleueftimente che pareuàun rozzopaftore etigno fantebifolco. Le quali cose,
ampiamente con sue scritture quellolerecita. In questo modo fece inuisibile il Demonio
quello Lidio paftore regale,con lainuersapaladelloanel
lo.cioeconquellapartegiacesottolagemma,epretiofapic tra,ma ciuolta,conlaquale
Atupro ecomesseilpeccatocon la Řeina. Il perche pigliauono li Demonii uariee
diuerfe fi gure alcunauoltadelle Dee,che erano uolgate, altreuokic
leformaucnoin effigia delle terrestre Nymphe efouerere
presentauenolefiguredelle Dee marine.Epercheeracredu c o c h e s e
nascondessino, con il suo ingegno sotto le unde del e tacqua accio puotessino
effer ucdure etpiu fortemente abr bruggiare licuoridellimiserie ciechj huomeni,
ftauanoa p po delliprofondiluoghi dellacqua doue dicontinuoper dri uoltare di quella
cui si ritroua la candida fpuma et iuipa teuafussero appodellenodrici, doue
eranonudrigateda güellet Anchora appareuanocolleimaginifintedi nuvoli, fi c o m
e fauolefcaméte raccontano appareffe Giunone ad Tinone, De cuifingononascelliilsuppositi
Coéraur. Cofifin gono d i c o s t cu i i o c c ħ I f f i o n e p pieta di Giove
fu f f i trasferito ne cieli, e fussi fatto secretariodiqllo,etpõstoufficio
hauefli ardireditécare Giunonedelftupro la qualela mentadosicon Giove uimando ad
Ilione una nuuolaafimilitudinedi Giu donc. cn la qualegiacedoIrionc, ecredendosi
dipigliare co amorosi piaceri con Giunione, ne ebbe li centauri. A l e r i
demonii apparecchiaueno prestigiicioefalsedemoftrationi, illusionie incantarioni,collequaliiogannauenolegenci,
popoli, etinescaueriocon doppia frodeil Cozzo uolgo, ecan choralidorci huomeni.
Ecosinonlaflauauerunocoloreet imagine della diuinita (la quale con diuerse menzogne
e bugie sifforciava di usurparlaetafeattribuirla) conlaquas
le'noncostringeffeilcozzoetignorantesecolo, afarsiadora re, etanchoraleciïauaconlalasciuia.Cóciosiacheeglie.cee
to che anchora eglivergognasse Diana,laquale fugeuadi amare lauerginita accioforfitirassiasesllihaueanoiodio
la fozza libidine. I dl e c u i gioco, havemo scoperto in di forccio del
demonio. EcosisottoilnomedellaLuna(laquale senza uetun dubbio chiamauefli Diana
) raccótaueno fuffi fuergognata da Endimione, eda Hippolyto licome dimot Atra Firmiano,
fotto il nome di Diana il quale pensava per s r e n e s e a quel luogo. E il
nome di Virb i o c i o e di tre volte huomo elaleggemolto diligétemente
cercata,doue fedo ueffe ponere,elemani medicheuolidi Esculapiocheporr Sino
agiuto alle piaghe debbost credere fuffero tutte queke lecose fauole
etillusioni delli Demonii, epurfeuifuffe qual che cosache pareffeinuero
fuffiftara iltuttofedebbe pene Sareesserefattoperartemagica
delDemonio.Vero-e-che Efculapio al fine fupo ipremiato con la mercede e premia
delliincantadoriche/elamiserabilemorte. Concioliache eglienarrato da
tuttiliantichiauthori,qualmente fuoce ciso dal fulguro, benche fia no uarie oppenioni
perqualecat. gione,e per quale sacrilegio, fufficosi crudelmente Occio. I APIST.
Dice Vergilio che cosifufliocciso, percherefufciso Hippolyco dalla morte.Nonfajcu
cheduolendo Hippolyco fugire dauanti da Theseo suopadre infuriaro loquale cerca
uadeucciderlosendelifalsameceaccusatodalla madregna Phedra etsendofalitosouradellacarretta
e(pauêtatilicat ualliperlimoftrimarini,f icomenarra Seneca, cadėdofuoci
delcarroploimpito, etracciatoemorto, sendoitoneline ferno fu resuscitato, efanato
da Esculapio Veroie-chedice Plinioche cosifuflipercoffodalfulgureEfculapioe r
cagio nedi CastoreedipolucefigliuolidiTjidare Re di Oebalia quello che scrive Tertulliano, cioechefur
& arfo dal cielo Esculapio, perche biasimeuolmente hauea
effercitatolamedicina.E cosiritrouiamomolto maggior us dietanellanarrationedi cotefta
cosa chenellamorte di Romolo. Maegliebenvero checiascunodiloro,e-ftatoreferi,
20c computato fra gli Dei, benche coftui fuffe uno ladrone, e quellaltroun mago
erincantatore.Vero -e-chemoltopiu mimaraueglio digildo, e cuihorauoglioraccotare,cioe
che nó ben péfaflılifattisuoi quelgradehuomo, ilğleerasoftēta
toetenatocórâreifperedaun certogrăprencipene giorni d e noftri agoli che le
ubrigaua di far. FRONIMO. I n altrom o d o scriffero Panaiaso,Poliantho,
Phylaccho, eThelefarcho Anchoraltcidicono p altrecagio nifuffeoccifodalceleftialefulgure
Esculapio. APISTIO. Deh no ti siag r a u e d i r a mentare il cutto, i m p e r
h o felti piace e tu ti ricordi. FRON. Io son côtéro.Furono alcuni, liqualilcriffe
tochecofifpauêteuolmétefuffeucciso percheresuscito Tyn daro eno
lifigliuoli,Vero:e-cheStaphylodiceno fuflire fufcitaroueruno da Esculapiom a
ben -e-uerochefusanato Hippolypo chefugiuada Troezeneecofip qua caufa, fufli
percoffo emorto dalfulgure. Ma Polyantho scriue che cosi fuffiuccisopchelibero
lifigliolidi Pretodallasciochezza. E puo le Philarcho esser li cio iter venuto
p che a g i u r o li figlio bdi Phineo. Ma fraquelli cħ háno voluto
refufcitaffeimorci alcuni di loro dicono cheresuscitomoltidiquelliche furo
noucefinella battaglia e guerra di Troia. Et altri scriveno che resuscitaffede
qlli chemancarono nella guerra de Tebani. Egliebenuerochenó cimanca Telefarcho,
che dice come fusse in tal modo percoflo,perche se fforzaua di riuo
careallauita Orione nolorefuscito imperho.Anchoreglie moltomanifefto uedere la
guerra etan chor la battagliade Ilio, e di Troia, e tuttilimodi delcome batrer
ioisefece.E cosi designado ilcerchio,accio demostra Bidouiandarono, ecobarteronoThelamone
e Peleo figlioli di Eaco.c doue Olyffe,collialtri Troiani,fu portato dal De:
monio,egiapiunó cóparfe inuerun luogo.APIST.Turac contimarauigliose cose. FRON.
Sono certaméte marauia gliose etanchor vere. Dipoiquelloprenicemádo indiuerfi:
CC cuaniluoghie paeli, etanchora'per infino nellaGermania
etanchoradiroequefto etdouenonmando épercercare guelhuomo: Horlendopericolatocostui,uêneincoteftono
Aroeccellete Caftello uno dellsiuoi discepoli,chelaffoliues ftigiidelle sue
malgradeuoli e diabolice opere perinfinoallo noftrigiorni. Concioliachedesignaualaimaginediquella
chehaueafattoilfurto,etdimostrauelaa colui,a cuierano
Aatorobbarelesuerobbe,nellaincheftaradiacqua,osianel kaamola, cocertifacrilegii.
e fuperftitioni, etiujlefaceuauc dere la figura iueftimenti con tuttiim o di
erano fucoserua. tiinrobbarequellacosa.Joconobbiunodaluimanifeftato,
ilqualehauearobbatoleámolette ciocalcuniremediicon
troliueneficii,econtrodealorimali etoccultamere Shauca portatoa
casa,efecretamenteferratinelcophinonon lofa pendoueranapersona.Emi ricordodel
tempo pelquale la fciodettesoperftitionierinego larte magicaS. e caminaffis mo
insiemediecegiorni, pareamenonsarebbonobafteuo bidaisprimeree ramentare
quellecose,lequaliho osferuar to enotato dellemanifefteinfidic del Demonioneanchor
ferebbono sufficienti dipuorerenarrarelimodi, cheofferus
elloperingannarelhuomo.Ilperchemericamenteie chiar mato Saranaffo.Conciofia che
sempre fu,e,et fara nemica dellhumanageneratione, cosiincuttelealtre cose,come
in quefta, decuihoggi hauemo determinate di ragionare Quanto al modo che dimostra
dipigliarecarnalipiaceriio le dico che quello lo vuole negare (si com e
contrario a t a n u vidottiefauiihuomeni Jiquaidiconobauerloconosciutoda
quellichelhanno isprimentato,etanimosamente teftifica no dihauerloudito) e-riputatoftoltoe
pazzodafanto. Agostino il quale scrise con ieftimoniidi coinufa a m a nel quintodecimo
libro della CittadiDio,qualméresonostatoritro.
HatifouentedelliSelaaniepergersiFauni faftidiofialledon De, chiamatidaluolgoIncucbbiioe
chesefforcianodico metterelafozzalibidineinfiemecolledonne etchesonori
trouatidiquellichehannohauutoilsuodesiderio,pigliado. ne amorosi piaceri con effe.
Et anchor diceche sono alcuni alori demonii chiamati da Galli Dusiili quali di
continuoco grande importunita tentano le donne per avere l a f c i u i p i
š ceri, efouêtenedcuenenoalcocento dellilorobrimatid e fiderij, ecotetidanoifonoderij
Folleti. APISTIO. Ti priegoo, feguitapur olera, FRONIMO. Horquantopettenne
aluiaggiofannoper aria credocheanchor habbia udito (cc c e t o se tu non
l’hauer a j letro) come ne vemn e Abb a r e nell’Italia foura diunavolátefaecada
Pythagora, perinlinodal lo HyperboreoTempiodiPhebo.APIST.Ne ancheque fto-e dame
narcofto cóciosiachelhoritrovatoscrittodaun certo Philosopho Platonico. FRON. Se
bentutiramenta taiqueftecole, facilmerecrederaile altri.Ilperchetu debbi Sapere
qualmente comenciaffe cutiaquella Necyomátia di
Olyffe,dalcerchio,cioequellaartedidiuinaremediãtelicor pi morti.E
cosifacilmentepuo conoscerenon efferecosa
nuouaqueftifigmenticfittionidifarelicerchi,m a anzifos no
antichipreftigii,cfalse delusionilequalianchora hanno cercato di seguitare li Poeti
Latini. Cóciosiachesefinga Scipion c c avare con il ferro la cavata terra altre,etutte
qucile cose che seguitano,adeffempiodiOlyffe.Quanto alliragio
namenticolleombreo sianocollispiritiiotedico chesono molto piuantichi che
fufferoritrouatida Homero.Ilchef a cilmente quelli ilpoffon sapere, liqualiconoscono
fufferorj trouatiliuersidiOrpheop queftacagione,econosconoco m e Omero ha seguita
qt ou e l l o non solamente in nominare Tyresia ma anchora ha imparato essi nomi
congranfole lecitudine econnon menore offeruatione.Ilpercheferiue GiustinoMartyre,come
furon composti escrigriliprimiuer fidella Iliade ad esempio delli primi uersi di
Orpheo, liqua Jiera noi ntitulaci di Cerere. E coliconuarü riti, costumiciof
feruationiogniuno desiderayaecercauadihauer compagnia familiarita e ragionamenticollimorti,per
cotalmodo,che dipojera detto come quelli scende vanto giu nellinferno. che
narrafi interaenefiaPythagora,poilògotempo dopo Orpheo etHomero, edicesicome
uedessejuinelloinferno JanimadiHefiodo,ediHomero,cheeran tormentateper
quellecosehaueanoscrittodelliDei.E pqueftofediceche fu grădemete honoratoe
reueritodalli Croroniati, etancho sa molto piuperche racconto dihauere ueduto
efferui gran 1 demente cruciati, e martoriati quelli,che
refiutaueno di pigliare amorosi piacericolle sue dolcimogliere. Ma quanto
atrapassare per ilfpatio dellaria,ionon fo in che cosa dubiti, ouero p e c che
t u li maravegli. Con c i o l i a chea m e parc non importa,febene misuri
lepenne delliuenti con una laeta o con uno scanno,ouero con una caura. Non fe
dice in qual m o d o fuffi portato Pythagora, o Empedocle, neinluunocarrodaduerote,oda
quatro,o dauno alatoPegaflo oda Dragoni,oda Olori, accio seguicaffeVes
nere,Medea ouerofulficondottoconduiserpentisottoil giouo comecòduceuano
Circe,ocollilioniamodo diCya
bele,o.colliLynciadessempiodiBaccho,ouerofuflitcapor tato in
altosouraEuropeelaterra Asidafecondo lacoluetų dinedi Triptolemeo,acciochequellofusliportato
lauorato redelle fructa, e questo coltore della philofophia, m a inueco furono
amenduoiingannati da Pallade cioe dalla astutia e melitia del demonio. APIST. E
cio mi ricordo d’avere udito narrare feno me inganno, di Simonemago, ilqualeebbe
are diméto diuuolereandareperaria imperhoinsuamalhora. Conciofiache desidetandodi
vuolersaliresouralaria.c fina
gēdodiuuolereascederenellaltocielo,ecosisendogiapore catomolto inalto
dalliDemonii,percomandamétodiSan toPietroapoftolfou laffato uenireconrátaftetagiu
interra d a dettimalegni fpiriti,chrópedofi tutte loffa,fu Ioétedella,
uita.FRON.Ě forlianchehai udito dinon so che Ethiopili quali haueanoinusanzadiimporeilfrenoe
labrigliaalla Dragoni, edipoiseggédosouradellaloro fchinaueneuano
inEuropa.Cosisediceeffernarratoda Ruggeri Bacchone. Ma
purcrcdaquellouipareilprudente edotrolettoredi questa cosa accio tu no pens
voglia ramétare liuoli di Dedalo, liquali se n o sono semplice menzogne, sono
al m a c ocre duticomefrodiet inganni del demonio eta nchorajotaci in che modo
sparue Apollonio Tyaneo, dalla presentia di Domitiano Cesare. Oltro dicio fetu
confeffi fuffero appo, delli antichi lispiritiincubi e succubi,cioe che si
dimoftra p e n o i n f o r m a e FIGURA DI MASCHI e di femine donand o amor
tofielafciuipiaceriimodo diciascuno feflo allimiseri mor Y tali c o n certiunguéti, accio
appareffe a led vero alli altri che fufferotraffigurate e c o n uerfeinunaaltra
figura diffimile dalla prima. Ebenche, co teftohuomo dotto,fingeffediessere
trafinutato,non perho dicefufficóuersoinuno uccello benchehau effeufato quel®
lamędeme medicina. Ma bugiardamente narrafufftramu tatoi uno asino. Anchor
dicecheebbe gran cordoglioquel Ja femina, dubitandoperloerrorehauea
fattoinpiglia: relabuffolettache fufficangiatoLuciano inuno Alino.Il perche
dimoftroe non effereuarialaeffentiadella cosa,m a
lilaimagine.Etelloconquestochiaramente ilconfermo, econfettoche fendodiuenuto
Asino, hauearetenutolame te,elintellettodi Lucio. Etanchotanó edaistimarechegli
ueneffeinfantasiatalesopinio cioeditrasmurare la forma f e l non fuffi f u r a
c h i a r a fama come c o t e s t e cose erano molto
inufanzaappodiquelledonnedi Theffalia,ecome elle molio fe delectaueno
letefsercitauenoineffe. Non lo con fermoanchora quefto, quello Platonico Apulegio,
chepoi boseguito:fingendo diessereprimaitoin Theffaliaauanti tali
perquale cagione non uoi credere chesiano anchora fimilif piricipe noftri tempi
scóciosiachecotestose côferma có tálietátitefti moniicli qualiioglicamétaro, feltipiaceras
Quanto allunguento, iocredolosappi,perchediffusamen tenehascrittoil Syro Luciano
el africano Apulegio, uno in greco e l’altro in latino, Eco si se ha queste cose
i scritte da l u i. Dunque cheuuoledirecofiquellocophinetto,e quelletan te
buffelette equellooliodiquelladoma puoca istima nella sua CONVERSAZIONE. Di poi
esfo m e d e m e authoreledichiara dicendo. Incontanentefuunta delluny
guento,fufattaageuole dauolare. Edipoifoggionge. Dop po puoco spario di tempo
non douento altro cheuno cor, u o da norte.E cosi pareua aquelli,liquali
guardaueno,00€ tofingeuano diguardare fuflidiuenutouncoruodinotte. Io non mai
crederei, che ver uno se potesse tra f f o r m a c e d i una specie dicreatura
in una altra osiaper uirtu de alcuno unguento overo per incanto magico. No dimenoy
voleuano quelle sreghe effecuedute ungersi decuine fatto fingeffe
diefferueftito diuna nuoua forma sendo priuo del laprimar Sedricamenteio referisco
le parole diquello cosi diče. pigliaanchoraunpuocopiudellunguentoefatte& c.
Et assai alcrecosescrissenelle quali parecotuttiimodiquafi habbia uoluto
seguitare il Samosateno. Cóciosia cheha fato tomentionedello Thebalicomormorio
dellolio trasforma uadiuna formanellalera edelliremediidellecosecontrodi quegli
incatiliqualifaceuanoritornare lhuomo alla prima figura. APIST. Per qual cagione
creditusiafattomentione diquellemedicinedicose lequalieranoinagiucorio,econ.
traquelliincanti,efrodimagicedFRON. Segliepurcosa uera egioueuolein queste medicine,
penso siapreso d’Arisotele. Nelle operedecuiholettcohe e ripostofralemera
uigliosecosecomee cosuetudinechemuoionofacilmeteli Aliniperloodoredelle rose. Il
che sapendo Luciano e Lucio finseno di mancare dalla formadellalino,de
cuiprimaha? ueano fintiesserne figurati. Oueroforse egliequiui nascosta
unalcracofa magica. Eglieda saperecome gia grandemente eran o infamate le donne
di Thessalia e di Thressa, che fa ceflino delliueneficii e dell’incanti, et
anchora era detto che fussi condutta la luna e m e nata secondo le piace u a
colli u e r sida quelle, e chiamate lefiffeftelledel cieloilche anchora
cracoftume delli Sabini ficomescriuc Oratio, etokro di cio diceuasifuffero inspirate
da Baccho eteranochiamateMis mallonecioe seguacidi Baccho porradolecornasicomefa
ceua ello,etanchoraeranodecreAdonidee furiauanocollo complicate ferpefrali Thyrliconillusioni
magice, etincáti, prestigii Et erano tenute in tanto honore e veneratione che uuolsiintrare
nella compagnia di quelle la Reina Olympia madre delgrade Alessandro.loistimo forseche
quelle cose paionobugie Quotrebbenohauerpresoprencipiodaquale che fimilitudinee
colore deluero.Pare anchor cosa piu pro babileche haueffono qualcheaccrescimentodadertiprodi
güemerauiglioseopere de demonii non senza qualcheue rofondaméto
dellauerahistoriacoloratoer adombratoco molteuanitatie fitrionichedallifonniilicomee
scrittoda. Synelio il qualeuugleua haueffonohauutolefauoleantedit 1
tecCOG m i ricordo il qualesefforzodidimostrarecon grade ingegno inchemo
do haueffonolamaggiore partedellefauolefermo fonda mentodallahistoria
etanchorafforzofididimoftrarecome dipoi fufferofuco fouente ampiate in maggiore
cose effe fauolefondarefouta diefla verita dalla falra fama del cozzo vuolgo.E
coscredo iofcriuefleVergilioquelperso. La dotca carta teftese di Palephato.
1 il Sole confinteparoleeconaflạipersuafioni,dauaad inte.. derealledonne di
Thessalia, l equalinointēdeuanosimileco. Sfimilifinteopere,ouero dagrande aftutiae
faggacita. Ilper che fu uno greco chiamato Palepharo fe beu
teecofilialtii,daeflisonnü. Ecertamentenon sarebbe itaa to alcunäcánto brammoso
di uolgare e manifeftare quello cose, chefufsero hauute e uedutenefonnii,licome
ueduce fuoridel somnio collequali fuffero tanto tirauefforzatilhuo
minidimerauigliarsi. O quátofonoliueneficii,maleficiiec incantationiramércate, iscritte,
enátrate coli dalli Greci.co me dalli Latini, Percia da Vergilio e detto di quella
antifti tee sacerdotessa della stirpe de Mafsilli, la qualeprometteua
disciorelementidellihuomenicolliuerfi,cioedifarlifarefi come lepiaceua, etdifarefermare
lacquane fiumi,difareci tornarea dietro li pianeti e dichiamare, etfareuenireafelc
notturnemani cioelispiritidellanotte.Anchoraperquesto senarranolemedicineer in canti
di Circe,diMedea diCar nidia,equellealtregenerationidiueleni,lequaliconduco. no
lhuomenialpazzescoamore chiamate da Theocrito Si ciliano Philtre di Simetha
ecofida luiscritte,loquale regui, to Marone ne fuoiuersi. Puo efferche douiamo
pensare che fianotuttequestecose finte senza uerun fondamentos Ver
toechemiramentodhauerlettonelPlutarcho,quellafauo lacon gradeingenoe
segacicaritrouaradiAganice diThef falia, laqualenarracome conduceuaasuauoglia
laLuna. Ma cosi era la verita, chequella conoscendo la cagione che la Luna horaeraritondahoracornuta,
ethorapiuno seue deua, perlainterpositionedellaonibradellaterrafraeflaet fa come
le coduceuain quel tempo la Luna interra ficome: lepiaceua. Eco sidiconohaueffero
principio lalorifauoleda Veramente eglie molto chiaro qualmenteochelhuomeni
eranotramutatico lliincaptieueneficiiindiuerse figure sig come bugiardamente et
anchora scioccamente parlaueno alcuniouerocheappareuonocosi. Ilpercheparenonsepose
finegare senzaqualche Atoltitiachealmancoquellinonpa
refsonoaleoadaltriefferefimilecofa. Non tiraccordidi quello che tanto chiaramente
se dice delle figliuole di Prei t o cioe che impieno con falli m u g i t i e voci
di animali li c a m pifet hauer havuto paura dello aratro, eta nchora hauer, cer
cole cornanellaleggierefronterCofice-narratacorestafas uola;Come furonotre figliuole
di Preto, le quali sendogia. Nel fiore della giouentu e conoscendo seefter bellissimeintras.o
nel Tempio di Giunone, spreggiarno la Dea Giunone, cipucandosieffer piu belle
diquella perilcheadiratala Dea ai miffe tale folia inesse che le pareua fulsero
diuenute in formadiuaccheilperche hauendopauradiportaree con ducereloaratro
fuggirononelleselue.CosinarraVergilio, con il testimonio di Homero, ma Ovidio
dice in altro modo cioechecosi diuennene nel furore e pazzia,che glipareus
dieffer douentate uacche nella Isola di Chea, perche haues no consentitoaquelli
haueanofurato alcuni animali dellar) mento d’Ercole. Le qualidi poifuronoreduttease,
etui suilluminatalafantasiada Melampo, ficomefu Lucio con la rosa,m a dicono
alcuni altri che furono fanatee ritornare allaprimafiguradaEsculapio, siacomesi
uoglia, cosiegtie narrato uariamente.Vero e-oche intraffinoin fimilifurie
pazzie, o fufli per ira opera del demonio, overo pe t qualche corporale
infirmita ritrouolantichita a quelle gios ucuolie diuerfici medii. Ma tu debbe
faperecome bebbero li Demonii uariie'diuersi modi, eranchoracótinuideingan
nareli uomini, in quelli tempi, nelli quali teneuano loim perio quali ditutto
il mondo, e non solamente per lifacerdo
dietAntiftitidelliTempii,cperlioracolierefpoftededi Ido lictimagini,m a anchora
ingannauenoper mezzodeals çunedonniciuole inspiratedalfalsoPichia,et
fraudolente Apollinc.E cosipercotcftimcoodinduceuanoglihuomen afare
ftupefattiemaraueglioldellelorooperationi et ins. uiluppauono
YA ma non gia con quello il quale seguito Varrone nelle Satire. Conciosiache
quello Litio e-moltopiu anticodicoteftoálcro Menippo. Ben che so che tu intendi
quello SIGNIFICA (SEGNA) Larva pur anche
io i uoglio ramentare, per parere disaperlo, etanchora per raj zentarlo
lecosihora horanon te occorrefi:Sono Larue mooceuoliombre dello inferno,ouero
ispauenteuole scon bodellanoue ele Lamieeranochiamarealcuneimagini efpiripi moltibrammosidelafciuiamorie
fozzipiaceri,es mche grandemente desideraueno dimangiarelhumana arneV.edimo
chefauoleeranocotefte.PurdimmiApi nonpaionoatecotestecoseche hauemo narrato s o
p r a molto similia quelle delliquali longamente dicesi dellemaluagie Streghe
dellanoftra etades APISTIO J n neticaame
paionoquasisimili.Iiperchehoraoccorrono a me quelle parole dell’antica fauvola
cioe Larva Lamia etIn cubicongutellodiersodi Ausonio. a l a p p a don o
quelli nelle precipitanti rouine delle scclerita, defotto colore della sagrata religione.
E perciopigliauono Qaric formeediuersefigure.Colisepuouedere e consider rue
Protheo figliuolo dell’Oceano appo de quasituttiipoet p.loquale ledemoftro in
formadiuariifimulacri efigure, ficomedice VergilioconloteftinioniodiHomero,cioeche
fubitosufatrohorrendoporco efuriosa Tigre, squammolo dragone,et una Lioneffa
con lafuluante egialda ceruice molte altre coseramentanodilui,che
lafloperbrcuita'. mente appareueno quellieccellentiBaroniche furono oce siliad
Ilio alVinicore.Coli anche liramenia in che modo agparessead ApollonioTlaneouna
fantasmaouetoappal tente figuradellaEmpusa,cioediunacerta generationedi Larue o
fiaspauenteuoleimagine auuotara a Diana,cheua no,licomesefinge,conunopiedee
conuertonseinuariefi gure et alcuna uolca incontinéte che si sono rappreferiate
fpareno,epiunon feuedeno. Anchora dicesicomehauesse conuerfácioneuna
Larua,ofiaLamia, forrocoloredị hono. Kuolematrimonio,conMenippo Cinico dd
Dimofte bomio, Nora e-la stregain cunede fanciulli, con
quelladonnescasceleragine. FRONIMO. Hor piuolcre, ramentiamo pur del altre cose,
a c c i o f e possa donare egual giudicio e g i u i t o senz pa u n t o di
menzogna. Credo chetu fappi,qualmente sonoscrittiiu
finitiuersidelliueneficii,et incanci,dellilicquorie beuande delli Pharmachiemedicine,etanchorsonocantate
fauole fchedociele Nenie Marsice cioelefauolede Marfi. Matu debbe sapere come
sono iscritte e cantar ce o n una certame Laphora e similitudine quelle cose
che cosi leleggono,cioè che lhuomeni,liquali remigaueno gcupisceno colliporci,
perledonneche lusinghe e chebruggiasseHercole lendo unto con ilsangue di Nesa
eche fufferoinstillasili amori col li veleni di Colcho, cóciofiachechiaramenteseconosceful;
secosignificateemanifeftatelesceleratecompagnie epros phanimodidellasozza
enefanda libidine,collanridetteor seruationiecanti.Vero-e-cheuoglio tuintenda, come
non erano imperhodetci incantine anchora detre representatio
nifofficientidispauentare ueruno,m a folamente pigliauei no, epauentaueno
quelliche uuoleuano il perche narra Homero qualmente OliffeasfaltoCirce
incantatrice non con ildolcebaso,m a siconlagutocoltello.Jlqualecosi comená fu
presodal ciecoamore,cosianchor nó fu inuiluppato dalli incantamenti: Li quali non
nuocenosenza malegna sottilita delli demonii. Leganoquellicheugoleno et acciocheuuoi
leno ufano uariearti, e diuersimodi.Pigliano il rozzo volgo con lafozza
libidine,ecolli deletreuoli,etlafciuipiacerie giranoase quellichesonodeditiallauita
ciuilecollericchez ze,econladouicia epuranchoraltrinecoduconoasuoiuo“ tibenche
puochi con lepromiffioni,econ laesca dellaglo ria; ed ellhonori,cioe quelli chese
sono dati allistudi della philofophia. Ma quátopertenealliconuitiattédiben.
Sedito, come quelli inpartefonoyerietinparteimaginationiet ilusioni,non
perhofarodiscoftonedisconueneuole dalli antichi scrittori. ConcioGache
ritrouiamoiscrittoda Herodor." todellamenfa del Sole eda Solino
essere-istimata quella unacosadiuina. Cosiritrouiamonellauita di Apollonio Tia
teo neo, il convito della spora di quello, la quale era riputata una dell’antidette
Lamie o delle Larve, o delle Lemire, eLeg. giamoiui, coine'sparbinoliyasipareuanodioro,ediariento
cheeranofulamenfa. Etincoralmodo appareuanoiDes monii all’huomeni sottouarieimagini
e figure chiamate da PhiloftraroEmpuse eLamie eMormolichie,ofianoLate ue.Gia
puocoavantihauemodechiarato checosasianocos teftifpiriti,etombre.Ma quanto
alleLamieritroviamoin Esaia dicono.co m e raprefentanouna certa beftialefigura:
AlcuniHebreial trimentescriueno,dicendo come seintendeper leLamie alcune ombre
e fpiriti furiosi,benche siafattamêtione nelli Treni di Geremia propheca dellem
a m m e ouero p o p e della Lamia. Ma altriistimano fia derivato cotefto nome
dal lapiaree spaccare etalquantidallaLama cheuuoldirenok sagine,oispauenteuole
pronfondita.E dequindicredono sia derivato quel detto di Horatio. Ne traggiil fanciuluiuodepasciuta,
Lamia deluentre. AnchornarrafifusserogiaconduttinelspettacolodaProbo Cesare
molte Lamie.lu qual modo e figurafufli quella che inganno Menippo,non
lipuofacilmentecofidaaltroluogo conoscere quanto da Philostrato. Ilqualenarracomefu
ingamnatoeffo Cinicoda quellaLamia,quandoellafinger ua dipigliarloper marito, edipigliare
amorosi piaceri con quello. Parimente i o i s t i m o fulfi uccellato e s che r
n i r o Apollonio, quando
erapregarodaquellanonseincrodeliffenelli tormenti. Cofiera ingannato,percheiftimauaefferele
Lal miemoltofacileadouereamare Hhuomeni,edipoipensaus che grandemente
brammasino dehauere amorofi piaceri coneffi,enonmanicodipoicredeuache mangiassimolecat
ni humane. Ma il mio Apistioio techiariscoqualmentenon fonotiratii demonii dalle
brammofe voglie d eamorosi pia propheta il luogo delle Lamie, doue
famentione del fcontrodelli Demonii incubicioede quellichefedimostra no
allhuomeniinfiguradifemine, ecolidanolafciuipiace riallimaschi eriftimano
coftoroche siano leLamie dihur mana effigia dal mezzoin fue dal mezzoin
giu c e r i n e condutti da desiderii libidinosi, ma sono codutti
dalla malgradeuole invidia adimostrarecoreste cose accio ro uiniiso emandano
nelprecipitiodelli peccatilhumanagę.nerationeetalfinelaconducano nella
infernale dannatio ne doue efli sonoconfinatiinperpetuo. Etacciobenintens di
infiamniano cotestisceleraci spiriti,limiferi mortali, cioc
quelliimperhochefilaflinoingannare conunacerrafiam m a occoltam a non sono
efiinfiammarida quelli ilche ini teseilpoeta
Vergiloquandodiffe.Inspirainelliunooccolto fuogo. Conciosiachemi
arricordochefunariatodallaStre ga che quando se appresentata il demonio allisentimenti
suoi in diuerse e uarie forme haueainu sanza diconoscerlo e didiscernerlodalliueri
animali delliqualiello hauea pigli ato la forma in questomodo.Lepareua che
uiintraffenel pettouncertocalore,etuna certafiamma,per laquale era
certificatacome quelloerailDemonio.Anchoranarraua qualmenteera apparechiata alla
fpreuedura una fiamma đı fuoco, ficomele pareua nelgiuoco, douc conueniuano
tuttiauantila Donina, olaaukti del Demonio che seprefen
cainformadiornatiffimaReina con la quale fiammadice uache
incontinentesecocceuanolecarni femagnono ren dolemoftrateadeflafiamma. NonbrammanoliDemoni
ilsanguehumano,neanchordesideranolecarniper managiare, ma il tutto opera d o e
p r o c a c c i a n o, a c c i o conduchin o lanimee corpi delli miseri mortali
nelli sempiterni tormenti. Laqualcosaiofocheegreggiamente inrenderai,quando
udiraiparlareDicafto.Ilqualefebenuedoenonme ingan palocchioperillongospatio,ame
pare gia fiaallemani,a combattere con la strega. APISTIO. Benben Fronimo. Tume
haigiunto. Bêcheame paressedidisputarecoliuno degnoe nobile
caualiere,percheioteuedo vestito coriquel le ciuiliet egreggieueftimente, ecintodiuna
moltoornata {pata manon credeuogiadidifputareconuno cheintens deffe tanto
eccellentemente linascoffi sentimenti delli P o c tihiftorici,Philofophi
etanchora delli ChriftianiTheologi. Ilpercheconoscendoiolatuasufficientia,tipriegouoglitu
per talm o d o adaptare in cotefta parte che ciretta deluia, gio,
gio,chepuoffi seguitareitgia comenciato ragionamento, et anchor puoffi
dimostrare dellaltre cose,con ilsecondo dit to,sicomegia hai fattoquelle prime
con il prino,ficomese fuoledire.cioe coli tanra facondia fortilica,e
dechiaratione chepossonointrareinme bendigefteedechiarateficome f avesse io ben
poi mastigare H o r n o perdiamo tempo, ma te priego seguita lagia comeciara
disputatione.FRON.Se rebbe bisogno dimolto piu dotro dim e,et anchor sarebbe
necessariodino puoco,ebreue viaggio,m ad i longo tiposo in douere fatiffarealletue
humaniffime petitioni No dimen o pur mifforzaro disatisfare a tequáto porro .Cerraméte
farebbeuilan, eprivodiogniciuilita,feionon efsaudillele gratioseetanchor
honefte addimandedicoluide cuihogia conosciutoperlesueresposte che grandemete desideraebrå
ma deintéderelauerita. Dunque seguirolagiacomenciata difputatione, eramétaro
quelle cose paionosianoaccómo date aquelloauãtidiceuamo,quáto
imperhociconcedera ilbreue spatiodel uiaggio.Giahauemodettomolte coseet hora
uoglio rispóderea quello tu dicesti cioe che pare nale accozzanole Stregheisiemenelnarrarelecosefatteadeffe
dal Demonio, eparenó fecóuieneno inreferire quelle cose delloro
sceleratogiuoco,ma cheunadiceinunmodo elal t r a i n altro modo.I o ti rispondo
che cotesto puo intervenire o dalla
paura o da mancamento di memoria, perche c o m u n a mēte fonogroffe de
ingegno,ecôradinedella uilla.Anchor Sepuo cagionare et in col parlea malitia
del demonio il qual inganamano tuttoiunmedemomodo. E questofacilme. te lepuo
conoscere nellantichiprestigii,etillusioni. Concio Siacheegliealtrageneratione
dejucătationinello Euflino altra nella regione Taurica etaltra maniera nella
Italia E fében consideraraj conoscerainon esser fimile totalmen re quella
Pharmaceutria di Theocritoaquelladecuipar la Vergilio cioenoii.e-fimilelartede
ueneficii et incanta, menti unacon altra. Anchorpareinteruenisseilfimilenel li
oracoli e responsioni. Perche altre erano le resposte date per le femine inspirate
dalli malegni demonij,etaltre erat n o quelle hauute per le aperture e coragini
della terra, et altreanchoraquellecheeranopigliate dallhuomeniper
lifonnii nelli Tempii. HperchealcunidormiuanonelTem piadiPaliphea,elmiedici
Calabresianchora essihaucano confuetudine, con& Dauni,diriposarsiappodelsepolcrodi
Podalicio,ilqualePodaliciofufigliuolodiEsculapio efueca cellentejnedico.Anchora
emanifefto comesoleuanogia Gece affaipersoneneltempio diEsculapio. Ilchenon
solas mene fuofferuatonellitenipi Heroicim a anchoraperinsie no allaeta di Antonino.
De cuiraccontaHerodiano chean doa Pergamo perlanti decta cagione.Anchoraleggiamo
q u a l m e n t e haueuano consuetudine li oracoli di dare responsioni per il
mezzo di intier esta r u e, e t a n c h o r a p e r m e z e zestatue,emediante
anchoralecolombe,ofufferoquelle neriaugellio fussero femine disimile nome non
loro, m a benfoperdetci modireuelaueno lecoseocculte etannon tiaueno quelle
doueano uenire. Anchora assai auttori narrano come erano farte simili cose nella
India per il mezzo del Jalberi, et in Dodone,ficomeracconto Aleffandro Magno,
Erano anchoraaliriliqualisubicamenteintcandolisopraun certo furore narrauano
marauigliore cose.Ecosi ritrouauoni ficoteitietaltrimillimodi, ediuerfiJunodallaltroda
reuela re lisecret, etannonciare le coseda uenire.E come erano di uersespecie egeneracionidellaugurii,ediuersilimodi
del fceleratorico, da manifestare le coseoccoltee da aluontias rele cosedouéano
uenire,cosieranodiuerfi i sacrificiicollir quali sagrificaueno,eanchora
diuerfi'imodi dieffofcelefto prophano,eteffecrando sagrificio.Anchora erano
diuersili incantamenti delli antichi enon manco sonouarii nella10 ftra eta enon
manco sonofatticon altri scelerati coftumie modi chesoleuanofarequelliantichi Romani.
Sononarra tealcunecosedallantico Cacone nellilibridella agricoltu raditátasciocchezzache
retrouansipuochile poffonoleg gere senza gran riso etischerno.Nondimeno furono
imper r h o i scritte DA UNO UOMO ROMANO, il quale fu censore e triomphatore. Ma quanto al moto.cioeinchemodo
fiano portatedalDemonio,equanto alluogodoue fono ferma te tunon tidebbi merauegliare.
Concioliachequellacosa che e conåfuoingegno. bugiardafallace, etingannaterigcel
i e quellafouentdee piumodi, ediuatianaturainaquellache c-ueracefeaccostaalla semplicita.
E corefto efaciledauc derein quelle coseche hauemo ramentare,enon manco anchora
se puo conoscerepellifigmenti,e fauole de poeti, comefonola
fedariietanchorcótrarii.Etanchefpeffeuol tequelloferitrovanellenarrate historie.
Ilperche fouente seritrovauna cosascriccainduoietremodi, eta nchorqual che
uoltaipiuan o cótrarioallalto, esepurno seranocorra tii alm a n c o seranno
diuerse uarii.lisimile intecujene anche nelleoppenionide philofophi, enellerefponfionidelli(auii
(ureconfolti, e doctoridelleleggicosipontificalicome imps riali conciolia che
se citrouano varieoppenioni circauna medema cosa, Manon maiimperhoseritrouaquea
cofa, nelle (criteurede Theologgi, eccettoche inquelle cosel e quali sono
communi coli alliPocci comealli Philofophi. M a inquelle cose, lequalipropriamentepertengonoadeffs
TheologgiciocnellicomandamentideIddio ecosinella! He cose, che pertengono alla fedecatholica,etaliicoftumi,
chefononeceffariiallafalurenoftranon uifaricrouaucig. na diffenfionem a
fonodatutti:narráciedęchiaraticongran deconcordiae consonantia
etinunomedesimomodo.Ve to-e- chel Demoniomalegno amicodelladiffenfione,con c o
m e -e-bugiardo et ingamatore cufi-e.uario,e uerfipelle. accio dicameglio. Ilquale
uocabolo segondoliftudiolid e l la lingua latina e-cauaro kuorida quelle favole
delle quali gia auantipädladimo,per ilcuiinganno diceuanli effertraf murai
Thuomeni nellilupitcoicomeingamaha Pichau gora,Empedocle,Apollonio
ellaleriantichiPhilofophi disi mile generatione con ilcolore della
dottrina,(üpercheula "Ha coteftilaciuoli,ecotefti
modi,colliqualifacilmenteuili quoreua tenereligari) ecosicomeanchoragia
tirauaafe de donneci uole con il mangiar e beuere, imbriagaree con lila sciui e
carnalii piaceri.cosi anche hora tira similmente a fe, Thuomiciuoli e
donniciuole c o n fimili piaceri,liquai c o m e chiaramente sevede furono
sprezzati da moltiPhilofophi. M a quelli Philosophiconduceuaconmoldimodiafarliado es
tare cioeoconilcolore della capientia oucto con lasuperti
cionedellafallareligione.Concioliache perhauere e gra. di della cognitione,e
per ottenere la doutrina faceuano esto OrationielaudeuoliHinnialli Oracoliquero
all Tempo dellifall Dei Per lequali cose gli pareuade impetrare la cognitione dellecose
chedoucano uenire,etanchor pareuali diotteniredicflereportatiperariaindiuersi
luoghi.E coj fendofatięquestecose con loagiuto delDemonio,quellilo attribuuano
ad una certa cosa diuua,che pareua fufli 11€ dettihuomeni.Inchemodo
altramentehauerebbonopor furouedeteli discepolidiPichagoraestofuo
precettoredif. putarehoranelTaucominiodi Sicilia erhoranelMetaponto in cosi
puoco spacio di tempo. Per quale via f e r ebbe camminato per aria Empedocle et
anchora in che modo cofi prestosouradellafactaferebbecorsoAbarc,perilchefuchia
maco Acrobares Coluigrandementese inganna, chicrede, che Apollonio conosce ffeaffai
delle cose doueano uenireet icheluicomidaflealliDemonijetquellilubbedisceno,per
paurahauciserodiluiFengeuaiDemonioaftutoemalus gio diessere martoriato da
luietanchoradiesseresforzata accioche sendo quello inescato fottocolore della
finta diyi nita, dipoipiu forcemente seaccoftafse alalere cose etotal mente
rouinalenellipeccati.Ilche facilmente, fel apiace. i puotrai conoscere dal fine
che seguicaua.Sforzosi difare uccidereprimicramétePithagoranellaseditione,e
dipoidi farlotagliareipezzi.Amazzo Empedocle neluergognolo Iceco
loqualehaneacoduttoatantasciocchezza checrede ua dihauereortenuto ladiuinita.Ilperchecidiceuaallícom
pagniqualmentefcdoucuanoalegrare,concioliachenon farebbe piu uomo mortale m a
douentar ebbe Dio immortale. Im pe r h o c o f i f c c i f f e quello in greco,
m a i o l o voglio e mentareinuolgare.Remanetiuiinpace,conciolia che io f o n o
a u o i Dio immortale, e non piu mortale. O che morir con questa morte, quero
di quella decuiscriffe Democrito Troegenio, quando diceva, qualmenteello
pendeouaucto Seeta attaccato ad uno cornale con uno lacciuolo al collo églieda
pensare chelipaffalidicoteftauicaperin&igatio ne super persuasionedel
Demonio. Anchora non l contenu focdiquello inganno,et illusionem, a anche
diceua come gia erapassatalanimafuaperdiuerficorpicon questepar role
grecelequale uolgarmente lediro cofi.Gia tofuuna Lanciula etun
fanciullo.Ecolialfinefuconducoallamor le colleuocidelli Demonii,econilfpiandore
dellefiaccole ficomeraccontaHeraclide.Forsianchorane conduffiApof
lonionelTempiternosupplicio con tanima insiemecoilcom p o. La quale morte no
parech e ha indegni a alli n j a g h i e t incantatori. Con cio la che variamente
egli e narrata la morte di esso, perche sono alcuni che dicono come mori in
Efeso ultriscriuenochemoriin Creta, et alquanti alttiuuolero mancale
inRhodo.Vero-e-chenon erainpiediilgodose polcrodiquellonerempidi Philoftraco.Benchefuffyadors
toereueritaperDiodaalcunistoltiepazzi.ilquale scelera to costume ficomelaltri
frodidelDemonio manico etheb befinefrapuoco spatio di tempo.Cofianchoraporloayenimento
di messer Giesu Christo pero Imperadore di tutto il modo mancarono tutti li oracoli
respofte, edomesticiragio namétideliidolierdelifalfi Dei. Nelliqualierainusluppa.
toe strettamente legatoquasi tutto ilmodo.E cofiquello, dquale apercaméte, epublicamentedauaresposteperliora
coli per liIdoli,eper lialtrim o d i hora fcioccamente parla
perleoscurecauernedesiderandolilasciyiecarnalipiaceri, fiqualihorasono
uergognofi cheallhoraallegentierano gloriosi.ltperche fa scritto quelparlares
Dignate Anchisa del Paphio coniugio. Ino solamétefuronoquellilasciin piaceri gloriofredigrar
de reputatione ne tempi eroici, ma anchor nella era di Alessandro e di Scipione.
Alliquali fu attribuito cotefta gloria, che eranoistimatida molti figlioli di Gioue.E
questomolto maggiormenteemanifeftoperlehistorieche iopossacon Ognidiligentia
raccontare cioe cheera credutoche il D e. monjo chesefaceuachiamareGiouein
figuradiferpente hauessehaguto amorosipiacericon lamadre diScipio ne, econOlympiamogliere
delRe Philippo.Et eranoin tantaoscuricadiméte checredeuonofulliGioueDio.Eco Gin
coteftie fimilimoditicauane peccatiquelli che erano la f c i u i libidinosi e
carnali, meschiando li impe r h o anchora ce ii LIBRO PRIMO qualche colore
di supexftnione. Anchor cofiinelengaquelli, liqualidefiderauenoebrammauenola
gloria,eteccellencia dellihonorimondani,liqualitendofralimortalijeshauédo
proirontiatilecosedauenireper la conuerfaçione, familia cicacontinuahaueano
hauuto colliDemoni anchora fimile méte dopo lamorce
pronosticaueno.Ilperchefauolefcame tenarraflidiOrpheo comesendouiuofu riputaco
profeta. et dipoisendo morto fedice comedaua anchor resposte. È dicefle
anchorqualmentesendolitagliatoilcapo,dalledon ne Theeffe,ando
effocaponelLelbono;etiuihabito in una spauente uole ruppe uaticinando
edandarefpoufioni perliIpiracolietaperturedella terra .Portauanoanchora in
yoltali oracolidiAmphiarale diAmphilochouanie diuina torifendoanchee
gliuiuietil simile fecero doppo la morte, Ilche forsigrandementedefidero Empedocle
quidouuol. fiefferciputatoDio immortale.Fauolosamente anchorrac contano
comeeffercitayanolamiliciaelaguerraliReggi doppolamorte efaceuano battaglia, ecombatteuanoa
cheandauanoacacciarelianimali,e luccellietcayalcauay
poficomenarrauanodiRhefoRedi Traciachecaualca, uainRhodope. Oltradiciodiceuano
comenosolamente fc eccicauano,etferappresentauenoleanimede quelli con
lopradellicerchii,edellisagrificiiramétatida Homero,m a anchora
spontaneamente,econalcunipattiinquelmodo, ficomeseriue Philoftrato,leappresentarsiAchillealTianeo,
etal Vinicore Protesilao,collaltri Capicanii fecero baccaglia co Priamo.Veroeche
lafaccia juoltiicoftumi,eliatti,ege Aidequelli, perchefonodialtra maniera
emolto diuerfi,e Yariida quelli chesonoiscrittida Homero eperchesonoan chor
diffimilidaquellichenarrano lhistoriediDarete Phri gio edi Ditto Creteseteinsegnanoquantosianolijnganoi
delli Demoni elebugiechehannopoftonellacognitione etanchorti dimostrano li noceuoli
deliramenitie pazziem e fchiatecollibuonicoftumi. Perilcheseil Demonio hauccel
laioebeffato,etingannatoperquestimodi quegliliqualise iftimauerosauiiedotti
credendo lecose contrarie e totalmente da l ragione discoste quale ci la cagion
ce h e t anto grandemente tuti marauegli diuditezediuedere molte co feuarie, diuerfe
collipiedilaconfegratahoftia.E cosiinquestomodo comanda quellofceleratonemico
deIddioachiunqueuuo leentrarenellasua profana, maledetta, eperfidecópagnia, che
abbandonino, preggino,etischetniscanolanoftra fan:
ciffimareligioneChriftiana.Imperhononsipuoaccozzare
neconuenireinsiemelabugiaefalsitacon laueritanellete n e b r e et oscurisa c o
n la luce n e anchor la fuperftitione c o n lareligione.Io credo ilmio
Apistio,chehormaitutifiaaffaj certificato e chiarico cosipian pian caminando di
quello decuihauemocóferitoe disputatoetanchordi quellodel qualemi addmandasti. Deh
pertuafedeuediuedicola la Strega, che eagrandiragionaméticonildotto Dicafto,
nel portico avanti del sagrato tempio. APISTIO. Diovi fa lui. DICASTO. Siatie
benuenuti checosa ci e dinuouoil no sciocchee pazze
econtrarielunadellakira nelleStreghedenoftritempirM a anzimaggiormente cu
tidebbi merauigliarediquella eccellentesapientiaepoffan
zadiChrifto,laqualetalmérehaoperato chequellohauca persuaduto il Demonio
malegno eperuerfo inanti lo auek nimento di esso a tantiReggi,Oratorie
Philofophi delle genti,ficomecosaeccellente emolto meracigliosa edegna dogni
sapientia hora a pena ilpoffa perfuadere ad alcuni huomiciuoli e
donniciuolecioeche lo adorano loreuerisco Do
Ihonorano,efacjonoquellecosecheglicomandae cos fiperqueftomodotu
odebbemacauegliarechequello chegiaerafatropublicamenteintuttoilmondo,etfratutte
le generationi sicomecosa honoreuole e gloriosa che hora H a fatta nelli
picciolie Atretti canto n i da puochi secretamente, e con ignominia e vergogna.
Ma voglio che tu ben consideri una cosa de divina gloria frale altricioeche
glie, tanto fodo,fermo,eftabileilfondanientodellatriomphantefede de Chrifto
chenon uvole ilDemonio peruerfo emalegno niuadinoallesuefcelerate
congregarioni, eradunamenti, neanchorauuole che conuersino con luile
Streghe,fepris manop reneganolasantiffimafedediChrifto,e Spreggiar
nolisagramemidellasagrosantaRomana Chiesa,econcul cano Kro Apiftio
APISTIO. Loaddimandamo ate. Conciolig che Fronimo noftro erio ftamo venuti quiaccio
udiama imperhosettipiace. STREGA.Heime doue fon giuntai DICASTO.Non hauer paura
M a ftapurdibaona uoglia e parla senz auerunpauéto. E nodubitaredi meconiciofia
che iotiseruaroquátotihopromeffo ciocche'nóseraimar toriata feliberamente
manifeftarai iurre letue maluagic opere lequalinonpoffonopioefferpalcofte, perchegia
ho liteftimonijcometuseiindettoerroreepeccato etanchot fulhai cófeffato fi comeiográdemenre
desiderauo. STREGA. Deh heime. Gia lho detto. Per qualecagionedonque m
itormentatidiuolerloanchoraunaltrauolrahora inten; dere? DICASTO,Perche e
bisognodiritornarlo a confef faren o n solamente inantidi duoiu e r ditre
teftimoniim s anchoraauantidipiu etalfineanchedavantidituttoilpo polo
fedesideridiIchifare la pena tassata dalle leggi e a voi che setidi
questa'maledetta compagnia,per tantifacrilegii, et ā r e f c e l e r a t e o p
e r e c h e uoi facte. Vero e che gia h i a m e promessodi
faretuttoquellocheticomandaro,et10teho promesso
seruandotulepromiffioniantidectedinon confo gnartinellemani delGiudice il quale
in contanentetifareb b e brugiare cosi sendoli c o m a n d a t o dalle
leggie.Hor a noir tic o m a n d o altro eccetro che tu ramêti unálıca uolta
quelle c o s e c h e t u h a i f a t rco o l i demonii nel giuoco o s t a nel
corso come fedice uolgarmente. STREGA. O maladerco giuo co, O giuocoin felicepme,
mala fortemia. DICASTO. Nonbisognanohoralagrime,non piantine anche gridi.
STREGA.Deh perquellahumanitaetgentilezzachein uoi leritroua,priegouinon mi
uogliateperhora piu darmi faftidio.M a fiaticontentidi concedermiun puoco
fpatio di tempo,etun puoco diriposo narta tanto chemiramentiiltutto
ecolidipoiuinarraroognicosa chehofatto:DICASTO. Piacédouigli
cöcedero,quellochele piace,etaddimanda. Conciosia chepoiraccotarajl
tuttoconmegliore animo, conpiuageuoleuoce,seespettaremoadintrarenelliragia
namenti perinfinoadomanc.Doue haueromolto Alberti (Bologna).
Grice: “I like [Leandro] Alberti; his “Tutta Italia” is a must; his claim to
fame is to translate from Roman to Tuscan (no big deal there) what is deemed
the first ‘daemonological’ tract – Mirandola used ‘ludificatio,’ which was
vastly translated as ‘inganno’ or by Leandro as ‘illusioni’ – which has echoes
with Descartes’s malignant demon hypothesis and my “Some remarks about the
senses”!” – ‘Filosofo. Nato da Francesco Alberti, di origine fiorentina,
fu condotto agli studi umanistici dal noto medico e umanista Giovanni Garzoni.
Entrato nell'Ordine domenicano nel 1493, studiò teologia e filosofia con
Silvestro Mazzolini da Prierio continuando tuttavia a coltivare con il Garzoni
i propri interessi umanistici e storici. De viris illustribus,
Bologna. Il primo risultato dei suoi studi fu il contributo che egli diede, in
soli 18 giorni, alla stesura dei De viris illustribus Ordinis Praedicatorum
libri sex in unum congesti, opera collettivacon il Garzoni, il Castiglioni, il
Flaminio e altridi biografie di domenicani, stampata a Bologna. Nel 1521
tradusse dal latino in volgare la Vita della Beata Colomba da Rieto
Tenuto al dovere della predicazione, fu «provinciale di Terra Santa»cioè
compagno nelle predicazioni itinerantidel maestro generale dell'Ordine, Tommaso
De Vio e del successivo maestro Francesco Silvestri: con quest'ultimo percorse
tutta l'Italianell'ottobre del 1525 era a Palermo e la Francia dove, a Rennes,
il 19 settembre 1528 morì il Silvestri. È poi attestato, a Roma, prendere parte
al capitolo generale nel giugno del 1530. Negli immediati anni successivi
rimase nel convento di Bologna, dove commissionò a fra' Damiano Zambelli le
decorazioni da eseguirsi nella cappella dell'Arca di san Domenico e i
bassorilievi eseguiti da Alfonso Lombardi, questi ultimi pagati dalla città
dopo la richiesta in tal senso avanzata dall'Alberti. In quest'occasione
scrisse un opuscolo sulla morte e la sepoltura del Santo, il De divi Dominici
Calaguritani obitu et sepultura, pubblicata nel 1535. Un'altra sua operetta, la
Chronichetta della gloriosa Madonna di San Luca, fu pubblicata ed ebbe altre
edizioni accresciute dal contributo di altri autori anonimi. Il 20
gennaio 1536 fu nominato vicario del convento romano di Santa Sabina, un
incarico che non dovette prorogarsi per più di due anni, giacché è sempre documentato a Bologna. Fu anche
inquisitore di Bologna probabilmente all’anno della sua morte. L'opera
più importante dell'Alberti, dedicata ai sovrani francesi Enrico II e Caterina
de' Medici, è senz'altro la Descrittione di tutta Italia, pubblicata a Bologna.
Ad essa seguirono in ottanta anni altre dieci edizioni a Venezia e due
traduzioni latine a Colonia: nell'edizione veneziana del 1561 si aggiungono per
la prima volta le Isole pertinenti ad essa, mentre quella è arricchita dalle
incisioni di sette carte geografiche. Opera di geografia e di storia, ricalca
in gran parte la Italia illustrata di Flavio Biondo, ampliandola e
migliorandola nell'esposizione e nella citazione delle fonti, ma mostrando
scarso spirito critico, attenendosi egli «ai dati dei geografi antichi o, per
la parte storico-antiquaria, ad autori moderni di dubbia attendibilità come
Raffaele Volterrano o Annio da Viterbo: e solo quando vengono a mancare testi
precedenti ricorre a elementi di più diretta esperienza [...] parimenti nella
critica storica preferisce riferire insieme le differenti versioni, anche di
tempi e di valore molto diversi, senza prendere posizione». Opere: “De viris illustribus ordinis praedicatorum
libri sex in unum congesti” (Bologna); “De divi dominici calaguritani obitu et
sepulture” (Bologna); “Historie di Bologna”; “Libro detto Strega o delle
illusioni del demonio”; “Descrittione di tutta Italia, nella quale si contiene
il sito di essa, l'origine et le Signorie delle Città et delle Castella”
(Bologna); “De incrementis dominii veneti et ducibus eiusdem” (Lugano); “De
claris viris reipublicae venetae” (Lugano). Universal Short Title Catalogue,
Scheda delle opere di Leandro Alberti. Così scrive egli stesso: De viris, c.A.
L. Redigonda, “Liber consiliorum conventus Bononiensis, Archivio del convento
di San Domenico, Bologna. A. Battistella, Il Santo Officio e la Riforma
religiosa in Bologna, Bologna, G. Roletto, Le cognizioni geografiche di Leandro
Alberti, in Bollettino della Reale Società geografica italiana, Abele L.
Redigonda,Dizionario biografico degli italiani,
1, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Descrittione di tutta
Italia in Il Genio Vagante, Bergamo, Leading Edizioni, Massimo Donattini, Il territorio emiliano e
romagnolo nella descrittione di Leandro Alberti, Bergamo, Leading Edizioni,
Michele Orlando, La Puglia nell'odeporica domenicana di fra Leandro Alberti, in
Rivista di Studi italiani, ora al sito rivistadistudiitaliani La Puglia, introduzione
e note al testo dalla Descrittione di tutta Italia, Michele Orlando, UNI
Service, Trento, Liber Liber. Opere di Leandro Alberti, su open MLOL, Horizons
Unlimited srl. Opere di Leandro Alberti, Leandro Alberti, in Catholic
Encyclopedia, Robert Appleton Company. Descrittione di tutta l'Italia su
culturitalia.uibk. ac.at. LA STREGA; OSSIA, DELLE ILLVSIONI DEL DEMONIO.
Dialogo composto dall’illustre e molto dotco Prencipe Segnore Giovanfrancesco
Pico della Miradola, segnore e conte della Concordia, volgarizzato dal Ven. P.
F. Leandro dell’Alberti, Bolognese, dell’ordine de predicatori. LE PERSONE
PARLANO. APISTIO -- FRONIMO -- DICASTO -- STREGA. APISTIO. FRONIMO. Dimmi do
juevacola cosi infreta caminando per la piazza ove vendon sil herbe tanta
moltitudine di popolo. FRONIMO. No loro, ma andiamo anche noi un puoco, accio
intedia mola cagione di tanto concorso, conciolia che puoco di no potra
esserela perduta di puochi passi. APISTIO. Noi in ver un luogo.
FRONIMO. Di quale augello ragioni tu en. APISTIO. Della strega. FRONIMO. Tu
giuog h i he Apistio. APISTIO. Pensa purche quello ho detto I ho detto no per
givo con e periscrizzo, ma da dovero
Conciosia che debbia esser molto aggrado a ciascun huomo, ma maggiormete
alli gentili e curiosispiriti, di conoscerequello, loqualeno
hamaicon osciutolaantiquita. FRONIMO. Dunque tuteaffas tichi
diuuolerintendere quello chenon ha inteseuerunos APISTIO. Dunque il
timitacheiovogliammi persuadere diconoscerequello che non mai hanno volute
conseffarede haue r e intero li huom n i gradi e molto litterati, e pur se l’ha
a veranno inteso non appareinuer un luogo. FRONIM. Chi co far. APISTIO.
L.oaugello Strega. Béchegiahabbia lettot CollaliinfamelanotturnaStrega.E
coficonfeffadino sapere, di qualeger nerationedeucceglistalastregha. FRONIMO.
Affaimi meraueglio chefendo tu molto dotto nelli Poeti, ficomea mepare cunonhai
letto comeera consuetudine nellitem pianti chi di esserscacciatofuoridelleporte
& uscileftreghe cosa che seraanoi aggradeuole, perche sepuotra comput:
tare in uecediuiuandenel pranso,quandoritornaremo. E forsi anchora ser amolto
piu utile cosa chenon sapiamo, intendendo qualche nuouo secreto. Conciolia che
am e pa te,etragioneuolmére istimo,fiapresa una Strega etiuieffer douecorre
peruederla tantamoltitudinedipopolo.mesco T a t o c o n li fanciulli. APISTIO.
Habitano in questi luoghi le streghe? O cercamente non mi serebbe grave di
caminare diecemiglia, peruederle. FRONIMO. Hor su, sea dunque non m a i
uedeftiuer una, forfihora fara satisfacco alla tua cu. riosauoglia. APISTO.
sepur accadesse cheiopoteffi ci trovare coteftoaugellodam e contantodesiderio
cerco,eno giamai citrouato Meftitia augurio infaufto edanno efpresso Peggio
chel bubo annontia porge, etlega. Anchorpurhouedutonellantichemaledittionifusknomi
nalalaStrega.Machecofasiaquella ediqual naturanon ficouiene. EtiftimaPliniochesiaunafauola,quello
cheers scritto deltelitreghecioe che asciuccaueno collelabbra le p o p e delli
fanciulli Da uiciaticorpiaforzaegreffo. Er egliecoteftoluto
offeruato pinsino dalli Heroici tempi. Quellecosemimoueno che sono venuti
nellithalamieca. mere delli Proci, o siano delli lascivi e molto libidino f i
buo, m e n i cosidicendo Ouidio. Procàildimostraqualesiaqueftoangue
Chere-laceratoda questoanimale, Aforbeilsanguelaftregainfelice, Delle
Streghe gia preda fortelangue, Puoco iluagitofanciullefcouale, Et chi
ederspello agiuto allanodrice. bb ii conuna uergadispinobianco,ecome hannoqueda
natura,chesonobråminosiucceglicon ilcapo grandeliocchi
fermi,ilbeccotoruo,epartedellepennecanute.colunghie rampinate, eperciocolisuolenoefferechiamatepercheha
n o confuetudine di Atridere nella spauenteuole norte. Hor tu uediilnomela
cagione diello,lanaturadiquella &ancho talafigura
comeegliestaraifcrittadalliantichi. APISTIO. Ben intendo quelloturaccolima
forsi sonodidiuersemanie re e generationi cotefte ftreghe,edi differente
natura,c o n cioliachefedice,comenon fuccianocollelabralepopedi fanciullini, ma
ch beueno ilsangue.Ilpche cofidiffe Ovidio Di notte ai fanciulliniuola spesso
Empiendo il petto dellionoffiosangue Siprefto conlalinguainfatiabile,
Chelsoccorso opportuno effernon lice: N o
paionoatecoteftiofficiifrafedellestreghe, tanto diuer Se nontidimoftranouaria&
anchorcontrarianaturaecó ditioner Erano ragioneuolmente da
efferiftimatiquelliaus gel li misericordiofi, liquali faceuano
Ifficiodellanudrice, ma quefti sonodaesserreputatigrandemêtenoceuoliema kegni
dalli quali sono occisi li fanciullini havendoli bevuto il sangue. FRONIMO.
Iotediro'ilueroaniipaionopiupre ftociascunadiquestecosefauolė,che
altro.Mapurseuisiri trouaqualchecosadiueronellafauola iopenso chenosias
nonatiquelliaugelline anchor che se ritrouano nell’inerf. Chalquinto giorno
depuo fuo natale Perche quelli fallititolieuerfifiguranola
uecchianelliuc.. celli.Mabenpensofuflifattoquesto conloagiutodelliDe.
moniiiniquiemalederti cio echeliancidentiaugellihora appareuono in una forma
della nodrice ethora dellainlidia triceE. questomaggiorméte am e lofa credere
percheildi monio insegno il gioueuolerimedio contro delleincantas
tioniemaleficii, perliqualieranoligatelementi delli huo. mincio n inganni,econ
bugie,dicédofeeffer Giano,uuole uachetreuoltetoccaffilioconlarburafrödale porteetuscii
cioeconlafrondadeunoalberosimilealcitrono &treuol tesegnandocon dettafronda
le pietre chesono sottolain trata delluscio, bago ando la intrata con l’acq ua,
e com i m a d a gaanchorsefaceslino dell’altre cose che non erano sagre, ma
anzi a b omine uoli sacrileg i i e p o rtéri, Bé che anchor de quelle
confedica. Se poil infanti per la nocte oscura Vesla ecilsangue elucca con
l’esperti Labrila Strega, etintalmodo leindura. Cosine tempinoftri hanno consuetudinedifare
le streghe, quando se narra che sono portare al giuoco di Diana. Guaftas no
nellecune li fanciullininuouamente natiche piangono,
dipoiincontinentiledanoligioueuoliri medi. Liquali, co m e ainepare, fonoinloroarbitrioepoßianzadi
doucrlida re. Im perhomeritamenteegliederiuato questo nome. Ca ciofia che
queste crudeli e bestiali femine lequali cometter no tanta scelerita,anchorda
noi cosicome dalliantichi có. uenientemente sono chiainate streghe. APISTIO.
Hammi parccute inganni Fronimo pariméte inlieme con moltialtri,cte dendo
efferuero, quello chescioccamentediceiluolgo,cio eche fononoloche feminuzze, lequaliuolanonellamezza
notte alliconuiti, et alli delette uoli piaceri carnali delle L e
muriofianodellispiritidellaoscuranottee che coteftefer minuzze guastinocon
incantilifanciulli. FRON. Meglio potreste parlare Apiftio. Conciosia che non
mai fe debbe di re checoloroerrano, liqualiapertamenteracontano quello che
hanno con locchio dellaragionechiaro e manifeftono puochihuomeniben docci,
& amaeftraticólacõținuaprati 1 caet. sa
etanchorfonoomatidebuonicoftumieuertuti. APISTIO. Io ti prometto
cheno'e-maiftatopossibiledieffermiper fuafo queftoche tu di percoralm o d o che
lhabbia creduto. FRON.Per qleragione, no teha poffuropsuadeiuecuno A PIST. Per
que f t ca, i n e che pare una cosa da ridere, come fiapoffibicleh e fattoun
cerchio et unto il corpo conno fo che unguento,in un'certo m o d o
erdettepoicecceparole coun no fochemormorio fecógiúganodettefemenuzze
incontinéte colli demonii infernali e che caualcanodinot. te
souradiunolegnodettoGramitaconilqualesifuolecal fecrareillino,elacanoua
oyerosaliscanosouradiunacaura o diuno beccoo diunomoncone,esiano portateper
aria, eche trapallino li Spatji delli'uenti e ricrouanfe alli cantie ballidi
Diana,ediHerodiade, E cheiui giocano,mangio no beueno, epiglianolasciui
piaceri- Puruoglioanchorago giungere un altra cosa
cioechenonseaccozzanonelparla. re,ficomeho inteso conciofiache alcune dicono
efferpors tate moltoinalcoperaria, eraltrediconoappo diterraalcu ne
confeffanodiandaruifolamente con la imaginatione e noncon
ilcorpo,epoifermarsisouradellagodi Benacoo Hadi Garda, nellialtiffimimonti,
vero e chemolto m i m e raueglio chenondicanodiefferefermatefouradellacima
delmõte Micalainsiemecon Thalete overo sula cima del Mimante siano poste a
caminare con Anaslagora, Ilquale c un n o n t e n o n guar i dis c o s t o d a
Colophon e da continue neui affediato, dacuife conoscelatempeftadebbe venire.
Altrecacótano de esser portate allo albero di Benevento det tolanuce,rebême
arricordo.Ma qualee la cagionenosi fermano piu presto nelterritoriodi Arpino
piu vicino (fico/ me io penso) alla nostra regione coueroportate alla Quer zadi
Mario,etanchorfeno leparefaticadiandarepiudiß costo perchenon sono portate per
infino nella Cheronea alla Querza di Alessandro Dicesianchorache hannoamo
rosipiacerecolli demonii che non sono congiunti colli corpirei on oerro. Ma
dimmi un puoco Apistio, che toccame ci possono esser cotefti?
Chepiacerisouerinche modo poffo no haueceamorosisolazziconqueftauana,
efintaimagine, efeminedicarne. Ho letto come le larve oʻsianolenuo's
ceuoliombre dellanorię e dellinferno pigliano piaceri colli' morti etche
combatteno con effi, e no con liuiui. FRONIMO. Dimmi Apistio, seiosciorco
tutteletue ragioni, fico me spero consentirai. APISTIO. Io ti prometto di
cosenti re. FRONIMO. Egli e certamente cosa da huomo ragioneuole, e di sano
intelletto, dilaffarsi muouere 'e guidare dalle ragio ni
effcnipij,etdalleauthoritatidelli antichi,lequaligia sono con cómun sentimento
confermate,edipoi quiuifermarsi ma moltomaggiornéte-eropera di
coluicheedigradeinna gegno,echeha lógo temporiuoltolilibridellidoctihuome ni.
Donqueseiocolletueragioniticonduceroa cosentirea quello
decuihoratenemenibeffe,chefaraipoi? APIST. Che faro: Vimetterolemani. FRON.Pensocheancho,
sauiinetteraiipiedi. APISTIO. Ma nongianelliceppi. FRONIMO. Deh non
hogiamaicercaměte pensato co testo. Vero-e. chebengrandemece
desiderocuintédique. fto,accione uenghinellamia oppenione, collipiedi, e cole
mani, ficomedire sisuole. APISTIO.lononfifiutoquello chesperi, e desideri, sefaraiquelloche
tudietprometti. FRON. A me pare perilragionarehauemofattocaminan
do,chetuseimoltodottonellipoetidelliGentili,etanchora affai siaornato
dePhilofophia. APISTIO.Il mio Fronimo diquestohoranomiuogliodareiluanto cioeche
beninte dali Poeti et fia dotto nelli parlari. C o n c i o f i a c h e e g l i
e m o l tomaggiorelacognitioneadouereintéderequelliper co ialmodo chesouerchia
le forze decoluiloqualearrogáte? mente alcunauoltaselauoglia attribuire,
hauendopuoco ftudiatoinesli, ethauédolipuocapratica. Ilpercheegliegra demente
necessarioa coluiauoleintendereefli poeti e philosophi,
diconoscereetintenderenon triuialmenree grossa, mente la l i n g u a greca e
latina. Et anchore gli e bisogno d i hauere ben intese lifecreti,esentimenti extratti
fuori delle crerario della philosophia. Delliqualisonoornatiebenue ftitili
poeti emaggiormente Homero. De cui,ho udito che fuillustratoetaddobbatocon
grandiCómétariidaAristo. tileetanchora dallialtriPhilofophidelladottaschuola.
Anchor c h o r h o inte s o che s e sforzo il Plutarcho con uno
molto grande libro di attribuire ogni scientia, ogni arte, e finalmente
ognicosadiuinaethumana,aquellociecoHomero.Ilperá che io nego effereinme
quellacognitione perfetta,sicome tudi,m a no nego pechoesfermiessercitato alcuna'uolta
per piaceredellanimomio inleggere quelli,licomeiocercaffi
lacognitionedellelingue econquasileggermētebeuendo qualchi
amaeftramétigioueuoliallicostumi,etanchora ac c i o n o n fufli riputato
ignorante, fra li amici e compagni, o c curendola occafione.Cosi senóho
beutalargamétela philosophia, de cui se dice che -e nascosta in detti author i
a l m a c o (l i come di r e si suole). I h o t o c c a t a e gustat a con l a
l o m i t a dellelabra. FRONIMO. Io credo che tusiaconduttonon dalla arrogantia
ne anchor dalla fimulatione,m a solamen tedallauerita. Laqualeuertu
ecollocatadaAriftotelenel m e z z o fra ğiti uitii.Imphoche dimostri di n ó
effer ignorare ne anchortutiuátidisapereognicosa. Ecosiquellecosehaj
dettodellanotitia ecognitióedellipoeti nó fon discoftodal lauerita.
CóciosiachePlatoneet Aristorelesonopieniditer ftimoniidi Homero, di Hefiodo di
Simonide, Pindaro ,E u ripide,edellialtriPoeti.Ilpercheiodubbiro affaichetu lia
molto dottonella philosophia decui pare non molto inte diedimoftridinonsapere.E
cosiho istimationeche dis mostrarai molte cose chesonodategiamolto tempo con
gregateinfiemenelfinedenoftriragionamenti,lequalidi. mostrihoradino sapere.
APISTIO. Io te diro, come sono alcune cose che qualche uolraci sonofuto donare
dalla natura leaza uer uno studio o fiano uertuti, ouero altre cose,fi come
prencipiidelleuertude. FRONIMO. Non per que, Atosonomacatodallamia oppenionem a
anzi hai tu posto inme maggiore dubitatione con corefta tua risposta.APII STIO.
Chehaicudetcos 'FRONIMO.Iohodetto,e dir Co cbe ragionocon uno Philosopho.Vero
eiche meglio allhoramicauaro questafantafia,pigliando prencipio imi perho da
quiui,cioe se uuoi promettere di responde -- re a quellecose,dellęqualiho
desideriode interrogarti, perlequalihauemo comenciatodiparlare.
ĄPISTIO.Io DELLE STREGHE 8 to matrimonio prometto de
responderti liberamente. Horlu addimanda. FRONIMO. Dimm i il mio Apistio, hai
tu giamai letto in Omero che anda li e V l y f f e alli Cime r i i s. APISTIO.
Si. Et anchora ho letto in chemodo andodaquella gére chefa ua
nellaariacaliginofa.cioe che erasenzauiada poceruien trare i raggi del sole. FRON.Dimmeseltepiace,checol
lafeces. APIST. Hoaffaicole.FRON.Nó leggiamoquel le parole diessoin greco, le quali
hora ledicoinnoftro uolga' re cosi. lo fu quello che cauai fuora allhora
allhora il coltello dellacosciasecominciaidicauareconilscarpellounafofla,
allamisuradiun gomito, indiequindiincerchioetancho
rainfundeililibamini,cioelifacrificii,colleumbresAPIS. Tu hai molto
egreggianiétedechiarato il sentimento,eno manco ageuolmente isposteleparole.
FRONIMO. Credo habe bilettono una uoltam a louéte ligiuochi di Diana,eliballi
collecompagne Nymphe.APIST.Eglieuero,etu non re inganniapunto.FRON.Anchoriopensochetuhabbiri,
uoltoquelli libri douesonoscrittiliamorosi ragionamenti, erlafciuisembiatide
Anchiseconlaimpudica Venere eco 1 ·me fufferogeneratimolti
Baroninellitempiantichidicote Atifallacietingánatori Dei.
APIST.Etanchoraquestosper seuolueholetto. FRONIMO. Tu debbisapercome queftimal
uagi Dimonii ingannaueno con merauigliosi huominicheerano deditialle opera ruftica
liepastoralisico me eracommunamente lauitadi quelliliqualifurono rie trouati
nelli tempi Heroici. Cosi anchoraingannoilD e m o nioPeleo pastorepadrede
Anchise,conciolia che effo fico me diffecoluilaffolagreggedelli
porcielarmentonógus cidiscosto dallemura inuna ombrosa ualle forto laimagin ne
dellaThetide dea marina.cosiiftimatadalle genti.Et ac
ciomancoseaccorgessedelfrodo glifuin SEGNATO dauno altro frodulento demonio uno
delli Capitanii Grecichiama to Proteo con il qualepigliarebbe There madre de
Achille la qualedimostrauafiincentofigure.Ma benuedieconfi dera uno
altrofrodo,con loquale grandemente inganno, cioeche non dimost.raua di uuolere
commettere iltupro, n e anche lo a d u t l e r ' o, ma fi n s e di u g o l e r
e contra h e r e i l l e c i. di quelli
to matrimonio, Loquale con suoiuersiegreggiamere carito Hesiodo,
ficomeseuedenellescritturede Greci.Ilpchepra babilméte dicemoeffer da quiui
deducto,cioedallo effem. pio diHefiodo,loEpithalamiodi Catullo.Ilche anchorr
dimoftrailtenoredelverso, chiaraméte demostrado quella ancica
facilitaetquestodechiarailcontinuo e sollecito ftu diodi
CatulloiseguitareliGreci,pcotalmodo che ispreffe
leintegreElegiediCallimacho,alcunauoltarendedoilsen
timentoetaltreuolteisprimendoleparole.Anchora inganno per co t a l via il
demonio facilmente Paride, focto figura di quelle ore Dec. Il quale fi come
scriffe Colutho Thebano nellibrodellapresadi Helena, nosolamentepafceualeper
corelle del suo padre, ma anchorli Tori, eptal modo feue ftiuadelleueftimente
che pareuàun rozzopaftore etigno fantebifolco. Le quali cose, ampiamente con
sue scritture quellolerecita. In questo modo fece inuisibile il Demonio quello
Lidio paftore regale,con lainuersapaladelloanel lo.cioeconquella partegiacesottolagemma,epretiofapic
tra,ma ciuolta,conlaquale Atupro ecomesseilpeccatocon la Řeina.Il perche
pigliauono li Demonii uariee diuerfe fi gure alcunauoltadelle Dee,che erano
uolgate,altreuokic leformaucnoineffigiadelleterrestre Nymphe efouerere
presentauenolefiguredelle Dee marine. Epercheeracredu c o c h e s e
nascondessino, con il suo ingegno sotto le unde del e tacqua accio puotessino
effer ucdure etpiu fortemente abr bruggiare licuoridellimiserie ciechj huomeni,
ftauanoa p po delliprofondiluoghi dellacqua doue dicontinuoper driuoltaredi quellacuisiritroualacandidafpumaet
iuipa teuafussero appodellenodrici,doue eranonudrigateda güellet Anchora
appareuanocolleimaginifintedi nuvoli, fi c o m e fauolefcaméte raccontano
appareffe Giunone ad Tinone, De cuifingononascelliilsuppositi Coéraur. Cofifin
gono d i c o s t cu i i o c c ħ I f f i o n e p pieta di Giove fu f f i
trasferito ne cieli, e fussi fatto secretariodiqllo, etpõstoufficio hauefli
ardireditécareGiunonedelftupro la qualela mentadosicon Giove uimando ad Ilione
una nuuolaafimilitudinedi Giu donc. cn la qualegiacedoIrionc, ecredendosi
dipigliare co amorosi piaceri con Giunione, ne ebbe li centauri. A l e r i
demonii apparecchiaueno prestigiicioefalsedemoftrationi, illusionie
incantarioni,collequaliiogannauenolegenci, popoli,
etinescaueriocondoppiafrodeilcozzouolgo,ecan
choralidorcihuomeni.Ecosinonlaflauauerunocoloreet imagine della diuinita (la
quale con diuerse menzogne e bugie sifforciava di usurparlaetafeattribuirla)
conlaquas le'noncostringeffeilcozzoetignorantesecolo,afarsiadora
re,etanchoraleciïauaconlalasciuia.Cóciosiacheeglie.cee to che anchora egli vergognasse
Diana,laquale fugeuadi amare lauerginita accioforfitirassiasesllihaueanoiodio
la fozza libidine. I dl e c u i gioco, havemo scoperto in di forccio del
demonio. EcosisottoilnomedellaLuna(laquale senza uetun dubbio chiamauefli Diana
)raccótaueno fuffi fuergognata da Endimione,eda Hippolyto licome dimot Atra Firmiano,
fotto il nome di Diana ilqualepensava pers r e n e s e a quel luogo. E il nome
di Virb i o c i o e di tre volte huomo elaleggemolto diligétemente cercata,doue
fedo ueffe ponere,elemani medicheuolidiEsculapiocheporr Sino agiuto alle piaghe
debbost credere fuffero tutte queke lecose fauole etillusionidelli Demonii, epurfeuifuffe
qual che cosache pareffeinuero fuffiftara iltuttofedebbe pene
Sareesserefattoperartemagica delDemonio.Vero-e-che
Efculapioalfinefupoipremiatoconlamercede epremia
delliincantadoriche/elamiserabilemorte. Concioliache eglienarrato da tuttiliantichiauthori,qualmente
fuoce cisodal fulguro,benchefianouarieoppenioniperqualecat. gione,e per quale
sacrilegio, fufficosi crudelmente Occio. I APIST. Dice Vergilio che
cosifufliocciso, percherefufciso Hippolyco dalla morte. Nonfajcu
cheduolendoHippolyco fugire dauanti da Theseo suopadre infuriaro loquale cerca
uadeucciderlosendelifalsameceaccusatodallamadregna
Phedraetsendofalitosouradellacarretta e(pauêtatilicat ualliperlimoftrimarini,f
icomenarra Seneca, cadėdofuoci delcarroploimpito, etracciatoemorto,sendoitoneline
ferno fu resuscitato,efanato da Esculapio Veroie-chedice Plinioche
cosifuflipercoffodalfulgureEfculapioe r cagio nediCastoreedipolucefigliuolidiTjidareRe
di Oebalia quello che scrive
Tertulliano, cioechefur & arfo dal cielo Esculapio, perche biasimeuolmente
hauea effercitatolamedicina.E cosiritrouiamomolto maggior us
dietanellanarrationedicotefta cosa chenellamorte diR o molo.Maegliebenvero
checiascunodiloro,e-ftatoreferi, 20c computato fra gli Dei,benche coftui fuffe
uno ladrone, e quellaltroun mago erincantatore.Vero -e-chemoltopiu mimaraueglio
digildo, e cuihorauoglioraccotare,cioe che nó ben
péfaflılifattisuoiquelgradehuomo,ilğleerasoftēta toetenatocórâreifperedaun
certogrăprencipene giorni d e noftri agoli che le ubrigaua di far. FRONIMO. I n
altrom o d o scriffero Panaiaso, Poliantho, Phylaccho,eThelefarcho
Anchoraltcidicono p altrecagio nifuffeoccifodalceleftialefulgure Esculapio.
APISTIO. Deh no ti siag r a u e d i r a mentare il cutto, i m p e r h o felti
piace e tu ti ricordi. FRON. Io son côtéro.Furono alcuni,liqualilcriffe
tochecofifpauêteuolmétefuffeucciso percheresuscitoTyn daro eno
lifigliuoli,Vero:e-cheStaphylodiceno fuflire fufcitaroueruno da Esculapiom a
ben -e-uerochefusanato Hippolypo chefugiuada Troezeneecofipquacaufa, fufli
percoffo emorto dalfulgure. Ma Polyanthoscriue che cosi fuffiuccisopchelibero
lifigliolidi Pretodallasciochezza. E puo le Philarcho esser li cio iter venuto
p che a g i u r o li figlio bdi Phineo. Ma fraquelli cħ háno voluto
refufcitaffeimorci alcunidilorodicono cheresuscitomoltidiquelliche furo
noucefinella battaglia e guerra di Troia. Et altri scriveno che resuscitaffede
qlli chemancarono nella guerra de Tebani. Egliebenuerochenó cimanca Telefarcho,
che dice come fusse in tal modo percoflo,perche se fforzaua di riuo
careallauita Orione nolorefuscito imperho.Anchoreglie moltomanifefto uedere la
guerra etan chor la battagliade Ilio, e di Troia, e tuttilimodi delcome batrer
ioisefece.E cosi designado ilcerchio,accio demostra
Bidouiandarono,ecobarteronoThelamone e Peleo figlioli di Eaco.c doue
Olyffe,collialtri Troiani,fu portato dal De: monio,egiapiunó cóparfe inuerun
luogo.APIST.Turac contimarauigliose cose.FRON.Sono certaméte marauia gliose
etanchor vere. Dipoiquelloprenicemádo indiuerfi: CC cuaniluoghie paeli,
etanchora'per infino nellaGermania etanchoradiroequefto
etdouenonmandoépercercare guelhuomo:Horlendopericolatocostui,uêneincoteftono
Aroeccellete Caftello uno dellsiuoi discepoli, chelaffoliues ftigiidelle sue
malgradeuoli e diabolice opere perinfinoallo noftrigiorni. Concioliachedesignauala
imaginediquella chehaueafattoilfurto,etdimostrauelaa colui,a cuierano
Aatorobbarelesuerobbe, nellaincheftaradi acqua, osianel
kaamola,cocertifacrilegii.e fuperftitioni,etiujlefaceuauc dere la figura
iueftimenti con tuttiim o di erano fucoserua. tiinrobbarequellacosa. Joconobbiunodaluimanifeftato,
il quale hauearobbatoleámolette ciocalcuniremediicon
troliueneficii,econtrodealorimali etoccultamere Shauca portatoa
casa,efecretamenteferratinelcophinonon lofa pendoueranapersona.Emi ricordodel
tempo pelquale la fciodettesoperftitionierinego lartemagicaS. e caminaffis mo
insiemediecegiorni,pareamenonsarebbonobafteuo bidaisprimeree ramentare
quellecose,lequaliho osferuar to enotato dellemanifefteinfidic del
Demonioneanchor ferebbonosufficientidi puorerenarrareli modi,cheofferus
elloperingannarelhuomo.Ilperchemericamenteie chiar mato Saranaffo.Conciofia che
sempre fu, e,et fara nemica dellhumanageneratione,cosiincuttelealtre cose,come
in quefta, decuihoggi hauemo determinate di ragionare Quanto al modo che
dimostra dipigliarecarnalipiaceriio le dico che quello lo vuole negare (si com
e contrario a t a n u vidottiefauiihuomeni Jiquaidiconobauerloconosciutoda
quellichelhanno isprimentato,etanimosamente teftifica no
dihauerloudito)e-riputato ftolto epazzodafanto. Ago itino il qualescrise con
ieftimoniidi coinufa a m a nel quintodecimo libro della CittadiDio,qualméresonostatoritro.
Hatifouentedelli Selaaniepergersi Fauni faftidiofialledon
De,chiamatidaluolgoIncucbbiioe chesefforcianodico
metterelafozzalibidineinfiemecolledonne etchesonori trouati diquelli chehannohauutoilsuodesiderio,pigliado.
ne amorosi piaceri con effe. Et anchor diceche sono alcuni alori demonii
chiamati da Galli Dusiili quali di continuoco grande importunita tentano le
donne per avere l a f c i u i p i š ceri, efouêtenedcuenenoal cocento
dellilorobrimatid e fiderij, ecotetidanoifonoderij Folleti. APISTIO. Ti
priegoo, feguitapur olera, FRONIMO. Horquantopettenne aluiaggiofannoper aria
credocheanchor habbia udito (cc c e t o se tu non l’hauer a j letro) come ne
vemn e Ab b a r e n e l l a Italiafouradiunavolátefaecada Pythagora,
perinlinodal lo HyperboreoTempiodi Phebo. APIST. Ne ancheque fto-e dame
narcofto cóciosiachelhoritrovatoscrittodaun certo Philosopho Platonico. FRON.
Se bentutiramenta taiqueftecole, facilmerecrederaile altri.Ilperchetu debbi
Sapere qualmente comenciaffe cutiaquella Necyomátia di
Olyffe,dalcerchio,cioequellaartedidiuinaremediãtelicor pi morti.E
cosifacilmentepuo conoscerenon efferecosa nuoua quefti figmenticfittionidi farelicerchi,m
a anzifos no antichipreftigii,cfalse delusionilequalianchora hanno cercato di
seguitare li Poeti Latini. Cóciosiachesefinga Scipion c c avare con il ferro la
cavata terra altre,etutte qucile cose che seguitano,adeffempiodiOlyffe.Quanto
alliragio namenticolleombreo sianocollispiritiiotedico chesono molto piuantichi
che fufferoritrouatida Homero.Ilchef a cilmente quelli ilpoffon sapere,
liqualiconoscono fufferorj trouatiliuersidiOrpheop queftacagione,econosconoco m
e Omero ha seguita qt ou e l l o non solamente in nominare Tyresia ma anchora
ha imparato essi nomi congranfole lecitudine econnon menore
offeruatione.Ilpercheferiue GiustinoMartyre,come furon composti
escrigriliprimiuer fidella Iliade ad esempio delli primi uersi di Orpheo, liqua
Jiera noi ntitulaci di Cerere. E coliconuarü riti, costumiciof
feruationiogniuno desiderayaecercauadihauer compagnia familiarita e
ragionamenticollimorti,per cotalmodo,che dipojera detto come quelli scende
vanto giu nellinferno. che narrafi interaenefiaPythagora,poilògotempo dopo
Orpheo etHomero,edicesicome uedessejuinelloinferno
JanimadiHefiodo,ediHomero,cheeran tormentateper
quellecosehaueanoscrittodelliDei.E pqueftofediceche fu grădemete honoratoe
reueritodalli Croroniati, etancho sa molto piuperche racconto dihauere ueduto
efferui gran 1 demente cruciati, e martoriati quelli,che
refiutaueno di pigliare amorosi piacericolle sue dolcimogliere. Ma quanto
atrapassare per ilfpatio dellaria,ionon fo in che cosa dubiti, ouero p e c c h
e t u li maravegli. Con c i o l i a c h e a m e parc non importa,febene misuri
lepenne delliuenti con una laeta o con uno scanno,ouero con una caura. Non fe
dice in qual m o d o fuffi portato Pythagora, o Empedocle, ne in luunocarrodaduerote,
oda quatro,o dauno alatoPegaflo oda Dragoni, oda Olori,accio seguicaffeVes
nere,Medea ouero fulfi condotto conduiserpentisottoil giouo comecòduceuano
Circe, ocollilioniamodo diCya
bele,o.colliLynciadessempiodiBaccho,ouerofuflitcapor tato in altosoura Europeelaterra
Asidafecondo lacoluetų dinedi Triptolemeo,acciochequellofusliportato lauorato
redelle fructa, e questo coltore della philofophia, m a inueco furono
amenduoiingannati da Pallade cioe dalla astutia e melitia del demonio. APIST. E
cio mi ricordo d’avere udito narrare feno me inganno, di Simonemago,
ilqualeebbe are diméto diuuolereandareperaria imperhoinsuamalhora. Conciofiache
desidetandodi vuolersaliresouralaria.c fina gēdodiu uolereascederenellaltocielo,
ecosisendogiapore catomolto inalto dalli Demonii, percomandamétodiSan
toPietroapoftolfou laffato uenireconrátaftetagiu interra d a dettimalegni
fpiriti,chrópedofi tutte loffa,fu Ioétedella, uita.FRON.Ě forlianchehai udito
dinon so che Ethiopili quali haueanoinusanzadiimporeilfrenoe labrigliaalla
Dragoni, edipoiseggédosouradellaloro fchinaueneuano in Europa. Cosisediceeffernarratoda
Ruggeri Bacchone. Ma purcrcdaquellouipareilprudente edotrolettoredi questa cosa
accio tu no pens voglia ramétare liuoli di Dedalo, liquali se n o s o n o
semplice menzogne, sono al m a c ocre duticomefrodiet inganni del demonio eta
nchorajotaci in che modo sparue Apollonio Tyaneo, dalla presentia di Domitiano
Cesare. Oltro dicio fetu confeffi fuffero appo, delli antichi lispiritiincubi e
succubi,cioe che si d i m o f t r a p e n o i n f o r m a e FIGURA DI MASCHI e
di femine donand o amor tofielafciuipiaceriimodo diciascuno feflo allimiseri
mor Y tali c o n
certiunguéti, accio appareffe a led vero alli altri che fufferotraffigurate e c
o n uerfeinunaaltrafiguradiffimile dallaprima. Ebenche,co teftohuomo
dotto,fingeffediessere trafinutato, non perho dicefufficóuersoinuno uccello
benchehaueffeufato quel® lamędememedicina. Ma bugiardamente narrafufftramu
tatoi uno asino. Anchor dicecheebbe gran cordoglioquel Ja femina,
dubitandoperloerrorehauea fattoinpiglia: relabuffolettache fufficangiatoLuciano
inunoAlino.Il perche dimoftroe non effereuarialaeffentiadella cosa,m a
lilaimagine.Etelloconquestochiaramente ilconfermo, econfetto che fendodiuenuto
Asino, hauearetenutolame te,elintellettodi Lucio. Etanchotanó edaistimarechegli
ueneffeinfantasiatalesopinio cioeditrasmurare la forma f e l non fuffi f u r a
c h i a r a fama come c o t e s t e cose erano molto inufanzaappodiquelledonnedi
Theffalia,ecome elle molio fe delectaueno letefsercitauenoin effe. Non lo con
fermoanchora quefto, quello Platonico Apulegio, che poi boseguito:fingendo diessere
primaitoin Theffaliaauanti tali perquale cagione non uoi credere chesiano
anchora fimilif piricipe noftritempiscóciosiachecotestose côferma có
tálietátiteftimoniicli qualiioglicamétaro,feltipiaceras Quanto allunguento,iocredolosappi,perchediffusamen
tenehascrittoil Syro Luciano el africano Apulegio, uno in greco e l’altro in
latino, Eco si se ha queste cose i scritte da l u i. Dunque
cheuuoledirecofiquellocophinetto,e quelletan te buffelette equellooliodiquelladoma
puoca istima nella sua CONVERSAZIONE. Di poi esfo m e d e m e authoreledichiara
dicendo.Incontanentefuunta delluny guento,fufattaageuole
dauolare.Edipoifoggionge. Dop po puoco spario di tempo non douento altro cheuno
cor, u o da norte.E cosi pareua aquelli,liquali guardaueno,00€ tofingeuano
diguardare fuflidiuenutouncoruodinotte. Io non mai crederei, che ver uno se
potesse t r a f f o r m a c e d i una specie dicreatura in una altra osiaper
uirtu de alcuno unguento overo per incanto magico. No dimenoy voleuano quelle
sreghe effecuedute ungersi decuine fatto fingeffe diefferueftito diuna nuoua
forma sendo priuo del laprimar Sedricamenteio referisco le parole di quello cosi
diče.pigliaanchoraunpuocopiudellunguentoefatte& c. Et assai
alcrecosescrissenelle quali parecotuttiimodiquafi habbia uoluto seguitare
ilSamosateno. Cóciosia cheha fato tomentionedello Thebalicomormorio dellolio
trasforma uadiunaformanellalera edelliremediidellecose controdi quegli
incatiliqualifaceuanoritornare lhuomo alla prima figura. APIST. Perqualcagionecreditusiafattomentione
diquellemedicinedicose lequalieranoinagiucorio,econ. traquelliincanti, efrodimagicedFRON.
Segliepurcosa uera egioueuolein queste medicine,penso siapreso d’Arisotele.
Nelle operedecuiholettcohe e ripostofralemera uigliosecosecomee
cosuetudinechemuoionofacilmeteli Aliniperloodore delle
rose.IlchesapendoLucianoeLucio finseno di mancare dallaformadellalino,de
cuiprimaha? ueano fintiessernefigurati.Oueroforse egliequiui nascosta
unalcracofa magica. Eglieda saperecome gia grandemente eran o infamate le donne
di Thessalia e di Thressa, che fa ceflino delliueneficii e dell’incanti, et
anchora era detto che fussi condutta la luna e m e nata secondo le piace u a
colli u e r sida quelle, e chiamatelefiffeftelledelcieloilche anchora
cracoftume delli Sabini ficomescriuc Oratio, etokro di cio diceuasifuffero
inspirate da Baccho eteranochiamateMis
mallonecioeseguacidiBacchoporradolecornasicomefa ceua ello, etanchoraeranodecre
Adonidee furiauanocollo complicate ferpefrali Thyrliconillusioni magice,
etincáti, prestigii Et erano tenute in tanto honore e veneratione che
uuolsiintrare nella compagnia di quelle la Reina Olympia madre delgrade
Alessandro. loistimo forseche quelle cose paionobugie Quotrebbeno hauerpresoprencipioda
quale che fimilitudinee colore deluero.Pare anchor cosa piu pro babileche
haueffono qualcheaccrescimentodadertiprodi güemerauiglioseopere de demonii non
senza qualcheue rofondaméto dellauerahistoriacoloratoer adombratoco
molteuanitatie fitrioniche dallifonniili comee scrittoda. Synelio
ilqualeuugleua haueffonohauutolefauoleantedit 1 tecCOG m i
ricordo il qualesefforzodidimostrarecon grade ingegno inchemo do
haueffonolamaggiore partedellefauolefermo fonda mentodallahistoria
etanchorafforzofidi dimoftrare come dipoi fufferofuco fouente ampiate in
maggiore cose effe fauolefondarefouta diefla verita dalla falra fama del cozzo
vuolgo.E coscredo iofcriuefle Vergilioquelperso. La dotca carta teftese di
Palephato. 1 il Sole confinteparoleeconaflạipersuafioni, dauaad inte..
derealledonne di Thessalia, l equalinointēdeuanosimileco.
Sfimilifinteopere,ouero dagrande aftutiae faggacita.Ilper che fu uno greco
chiamato Palepharo fe beu teecofilialtii,daeflisonnü. Ecertamentenon sarebbe
itaa to alcunäcánto brammoso di uolgare e manifeftare quello cose, chefufsero
hauute e uedutenefonnii,licome ueduce fuoridel somnio
collequalifufferotantotirauefforzatilhuo minidimerauigliarsi. O
quátofonoliueneficii, maleficiiec incantationiramércate,iscritte, enátrate coli
dalli Greci.co me dalli Latini, Percia da Vergilio e detto di quella antifti
tee sacerdotessa della stirpe de Mafsilli, la qualeprometteua
disciorelementidellihuomenicolliuerfi,cioedifarlifarefi come lepiaceua,
etdifarefermare lacquane fiumi, difareci tornareadietrolipianetiedi chiamare, etfareuenireafelc
notturnemani cioelispiritidellanotte.Anchoraperquesto
senarranolemedicineerincantidiCirce,diMedea diCar nidia, equellealtregenerationidiueleni,lequaliconduco.
no lhuomenialpazzescoamore chiamate da Theocrito Si cilianoPhiltre di Simetha
ecofida luiscritte,loquale regui, to Marone ne fuoiuersi. Puo efferche douiamo
pensare che fianotuttequestecose finte senza uerun fondamentos Ver
toechemiramentodhauerlettonelPlutarcho,quellafauo lacon gradeingenoe segacicaritrouaradiAganice
diThef falia, laqualenarracome conduceuaasuauoglia la Luna. Ma cosi era la
verita, chequella conoscendo la cagione che la Luna horaeraritondahoracornuta,
ethorapiuno seue deua, perlainter positionedellaonibradellaterrafraeflaet
facomelecoduceuainquel tempo la Luna interra ficome: lepiaceua. Eco
sidiconohaueffero principio lalorifauoleda Veramente eglie molto chiaro
qualmente o chelhuomeni eranotramutaticolliincaptieueneficiiindiuerse figure
sig c o m e bugiardamente et anchora scioccamente parlaueno
alcuniouerocheappareuonocosi. Ilpercheparenonsepose finegare senza qual che Atoltitiachealmancoquellinonpa
refsonoaleo ad altri effere fimile cofa.Non tiraccordidi quello che tanto
chiaramente se dice delle figliuole di Prei t o cioe che impieno con falli m u
g i t i e voci di animali li c a m pifet hauer havuto paura dello aratro, eta
nchora hauer,cer cole cornanellaleggierefronterCofice-narratacorestafas
uola;Come furonotre figliuole di Preto, le quali sendogia. Nel fiore della
giouentu e conoscendo seefter bellissimeintras.o nel Tempio di Giunone,
spreggiarno la Dea Giunone, cipucandosieffer piu belle diquella
perilcheadiratala Dea ai miffe tale folia inesse che le pareua fulsero diuenute
in formadiuaccheilperche hauendopauradiportaree con ducereloaratro
fuggirononelleselue.CosinarraVergilio, con il testimonio di Homero, ma Ovidio
dice in altro modo cioechecosi diuennene nel furore e pazzia,che glipareus
dieffer douentate uacche nella Isola di Chea, perche haues no consentitoaquelli
haueanofurato alcuni animali dellar) mento d’Ercole. Le qualidi
poifuronoreduttease, etui suilluminatalafantasiada Melampo, ficomefu Lucio con
la rosa,m a dicono alcuni altri che furono fanatee ritornare
allaprimafiguradaEsculapio, siacomesi uoglia, cosiegtie narrato uariamente.Vero
e-oche intraffinoin fimilifurie pazzie, o fufli per ira opera del demonio,
overo pe t qualche corporale infirmita ritrouolantichita a quelle gios ucuolie
diuerfici medii. Ma tu debbe faperecome bebbero li Demonii uariie'diuersi modi,
eranchoracótinuideingan nareli uomini, in quelli tempi, nelli quali teneuano
loim perio quali ditutto il mondo, e non solamente per lifacerdo
dietAntiftitidelliTempii,cperlioracolierefpoftededi Ido lictimagini,m a anchora
ingannauenoper mezzodeals çunedonniciuole inspiratedalfalso Pichia,et
fraudolente Apollinc.E cosipercotcftimcoodinduceuanoglihuomen afare
ftupefattiemaraueglioldellelorooperationi et ins. uiluppauono
YA ma non gia con quello il quale seguito Varrone nelle Satire.
Conciosiache quello Litio e-moltopiu anticodicoteftoálcro Menippo. Ben che so
che tu intendi quello SIGNIFICA (SEGNA)
Larva pur anche io i uoglio ramentare, per parere disaperlo, etanchora
per raj zentarlo lecosihora horanon te occorrefi:Sono Larue mooceuoliombre
dello inferno,ouero ispauenteuole scon bodellanoue ele Lamieerano chiamarealcuneimagini
efpiripimoltibrammosidelafciuiamorie fozzipiaceri,es mche grandemente
desideraueno dimangiarelhumana arneV.edimo chefauoleeranocotefte.PurdimmiApi
nonpaionoatecoteste coseche hauemo narrato s o p r a molto similia quelle
delliquali longamente dicesi dellemaluagie Streghe dellanoftra etades APISTIO J
n neticaame paionoquasi simili. Iiperchehoraoccorrono a me quelle parole
dell’antica fauvola cioe Larva Lamia etIn cubicongutellodiersodi Ausonio.
a l a p p a don o quelli nelle precipitanti rouine delle scclerita, defotto
colore della sagrata religione.E perciopigliauono Qaric formeediuersefigure. Colisepuouedere
e consider rue Protheo figliuolo dell’Oceano appo de quasituttiipoet p.loquale
ledemoftro in formadiuarii fimulacri efigure,
ficomediceVergilioconloteftinioniodiHomero,cioeche fubitosufatrohorrendoporco
efuriosa Tigre, squammolo dragone, et una Lioneffa con lafuluante egialda
ceruice molte altre coseramentanodilui,che lafloperbrcuita'. mente appareueno
quellieccellentiBaroniche furono oce siliad Ilio alVinicore.Coli anche
liramenia in che m o d o agparessead ApollonioTlaneouna fantasmaouetoappal
tente figuradellaEmpusa,cioediunacerta generationedi Larue o
fiaspauenteuoleimagine auuotara a Diana,cheua no,licomesefinge,conunopiedee
conuertonseinuariefi gure et alcuna uolcaincontinétechesisono rappreferiate
fpareno,epiunon feuedeno. Anchora dicesicomehauesse conuerfácioneuna
Larua,ofiaLamia,forrocoloredị hono. Kuolematrimonio,conMenippo Cinico dd
Dimofte bomio, Nora e-la stregain cunede fanciulli, con
quelladonnescasceleragine. FRONIMO. Hor piuolcre, ramentiamo pur del altre
cose, a c c i o f e possa donare egual giudicio e g i u i t o senz pa u n t o
di menzogna.Credo chetu fappi,qualmente sonoscrittiiu
finitiuersidelliueneficii,et incanci,dellilicquorie beuande delli
Pharmachiemedicine,etanchorsonocantate fauole fchedociele Nenie Marsice
cioelefauolede Marfi. Matu debbe sapere come sono iscritte e cantar ce o n una
certame Laphora e similitudine quelle cose che cosi leleggono,cioè che
lhuomeni,liquali remigaueno gcupisceno colliporci, perledonneche lusinghe e
chebruggiasseHercole lendo unto con ilsangue di Nesa eche fufferoinstillasili
amori col li veleni di Colcho, cóciofiachechiaramenteseconosceful;
secosignificateemanifeftatelesceleratecompagnie epros phanimodidellasozza
enefanda libidine,collanridetteor seruationiecanti.Vero-e-cheuoglio
tuintenda,come non erano imperhodetci incantine anchora detre
representatio nifofficientidispauentare ueruno,m a folamente pigliauei no,
epauentaueno quelliche uuoleuano il perche narra Homero qualmente
OliffeasfaltoCirce incantatrice non con ildolcebaso,m a
siconlagutocoltello.Jlqualecosi comená fu presodal ciecoamore,cosianchor nó fu
inuiluppato dalli incantamenti: Li quali non nuocenosenza malegna sottilita
delli demonii. Leganoquellicheugoleno et acciocheuuoi leno ufano uariearti, e
diuersimodi.Pigliano il rozzo volgo con lafozza libidine,ecolli
deletreuoli,etlafciuipiacerie giranoasequellichesonodeditiallauita
ciuilecollericchez ze,econladouicia epuranchoraltrinecoduconoasuoiuo“ tibenche
puochi con lepromiffioni,econ laesca dellaglo ria; ed ellhonori,cioe quelli
chese sono dati allistudi della philofophia. Ma
quátopertenealliconuitiattédiben. Sedito, come quelli
inpartefonoyerietinparteimaginationiet ilusioni,non per hofarodiscoftone disconueneuole
dalli antichi scrittori. ConcioGache ritrouiamoiscrittoda Herodor."
todellamenfa del Sole eda Solino essere-istimata quella unacosadiuina. Cosiritrouiamonellauitadi
Apollonio Tia teo neo, il convito della spora di quello, la quale era
riputata una dell’antidette Lamie o delle Larve, o delle Lemire, eLeg.
giamoiui, coine' sparbinoliyasipareuanodioro, ediariento cheeranofulamenfa.
Etincoralmodo appareuanoiDes monii all’huomeni sottouarieimagini e figure
chiamate da PhiloftraroEmpuse eLamie eMormolichie, ofianoLate ue. Gia
puocoavantihauemodechiarato checosasianocos teftifpiriti,etombre.Ma quanto
alleLamieritroviamoin Esaia dicono come raprefentanouna certa
beftialefigura:AlcuniHebreial trimentescriueno,dicendo come seintendeper
leLamie alcune ombre e fpiriti furiosi,benche siafattamêtione nelli Treni di
Geremia propheca dellem a m m e ouero p o p e della Lamia. Ma altriistimano fia
derivato cotefto nome dal lapiaree spaccare etalquantidalla Lama cheuuoldirenok
sagine,oispauenteuole pronfondita.E dequindicredono sia derivato quel detto di
Horatio. Ne traggiil fanciuluiuodepasciuta, Lamia deluentre.
Anchornarrafifusserogiaconduttinelspettacoloda Probo Cesare molte Lamie.lu qual
m o d o e figurafufli quella che inganno Menippo,non
lipuofacilmentecofidaaltroluogo conoscere quanto da Philostrato.
Ilqualenarracomefu ingamnatoeffo Cinicoda quellaLamia,quandoellafinger ua
dipigliarloper marito, edipigliare amorosi piaceri con quello. Parimente i o i
s t i m o fulfi uccellato e s c h e r n i r o Apollonio, quando
erapregarodaquellanonseincrodeliffenelli tormenti. Cofiera
ingannato,percheiftimauaefferele Lal miemolto facileadouereamare
Hhuomeni,edipoipensaus che grandemente brammasino dehauere amorofi piaceri
coneffi, enonmanicodipoicredeuache mangiassimolecat ni humane. Ma il mio
Apistioio techiariscoqualmentenon fonotiratii demonii dalle brammofe voglie d
eamorosi pia propheta il luogo delle Lamie, doue famentione del
fcontrodelliDemonii incubicioede quellichefedimostra no
allhuomeniinfiguradifemine, ecolidanolafciuipiace riallimaschi eriftimano
coftoroche siano leLamie dihur mana effigia dal mezzoin fue dal mezzoin
giu c e r i n e condutti da desiderii libidinosi, ma sono codutti
dalla malgradeuole invidia adimostrarecoreste cose accio ro uiniiso emandano
nelprecipitiodelli peccatilhumanagę.nerationeetalfinelaconducano nella
infernale dannatio ne doue efli sonoconfinatiinperpetuo.Etacciobenintens di infiamniano
cotestisceleraci spiriti,limiferi mortali,cioc
quelliimperhochefilaflinoingannare conunacerrafiam m a occoltam a non sono
efiinfiammarida quelli ilche ini teseilpoeta
Vergiloquandodiffe.Inspirainelliunooccolto fuogo. Conciosiachemi arricordochefunariatodallaStre
ga che quando se appresentata il demonio allisentimenti suoi in diuerse e uarie
forme haueainu sanza diconoscerlo e didiscernerlodalliueri animali
delliqualiello hauea pigli ato la forma in questomodo.Lepareua che
uiintraffenel pettouncertocalore,etuna certafiamma,per laquale era
certificatacome quelloerail Demonio. Anchoranarraua qualmenteera apparechiata
alla fpreuedura una fiamma đı fuoco, ficomele pareua nelgiuoco, douc
conueniuano tuttiauantila Donina, olaaukti del Demonio che seprefen cainformadiornatiffimaReina
con la quale fiammadice uache incontinentesecocceuanolecarni femagnono ren
dolemoftrateadeflafiamma.NonbrammanoliDemoni
ilsanguehumano,neanchordesideranolecarniper managiare, ma il tutto opera d o e
p r o c a c c i a n o, a c c i o conduchin o lanimee corpi delli miseri mortali
nelli sempiterni tormenti. Laqualcosaiofocheegreggiamente inrenderai,quando
udiraiparlareDicafto. Ilqualefebenuedoenonme ingan palocchioperillongospatio, ame
pare gia fiaallemani,a combattere con la strega. APISTIO. Benben Fronimo. Tume
haigiunto. Bêcheame paressedidisputarecoliuno degnoe nobile
caualiere,percheioteuedo vestito coriquel le ciuiliet
egreggieueftimente,ecintodiuna moltoornata {pata manon
credeuogiadidifputareconuno cheintens deffe tanto eccellentemente linascoffi
sentimenti delli P o c tihiftorici,Philofophi etanchora
delliChriftianiTheologi. Ilpercheconoscendoiolatuasufficientia,tipriegouoglitu
per talm o d o adaptare in cotefta parte che ciretta deluia, gio,
gio, chepuoffi seguitareitgia comenciato ragionamento, et anchor puoffi
dimostrare dellaltre cose,con ilsecondo dit to,sicomegia hai fattoquelle prime
con il prino,ficomese fuoledire.cioe coli tanra facondia fortilica,e
dechiaratione chepossonointrareinme bendigefteedechiarateficome f avesse io ben
poi mastigare H o r n o perdiamo tempo, ma te priego seguita lagia comeciara
disputatione.FRON.Se rebbe bisogno dimolto piu dotro dim e,et anchor sarebbe
necessariodino puoco,ebreue viaggio,m ad i longo tiposo in douere
fatiffarealletue humaniffime petitioni No dimen o pur mifforzaro disatisfare a
tequáto porro.Cerraméte farebbeuilan, eprivodiogniciuilita, feionon
efsaudillele gratioseetanchor honefte addimandedicoluide cuihogia
conosciutoperlesueresposte che grandemete desideraebrå ma deintéderelauerita. Dunqueseguirolagiacomenciata
difputatione,eramétaro quelle cosepaionosianoaccómo date aquello auãtidiceuamo,
quáto imperhociconcedera ilbreue spatiodel uiaggio. Giahauemodettomolte coseet
hora uoglio rispóderea quello tu dicesti cioe che pare nale accozzano le Stregheisiemenelnarrarelecosefatteadeffe
dal Demonio,eparenó fecóuieneno inreferire quelle cose delloro
sceleratogiuoco,ma cheunadiceinunmodo elal tra in altro modo.I o ti rispondoche
cotefto puo intervenire o dalla paura o
da mancamento di memoria, perche comuna mēte fonogroffe de
ingegno,ecôradinedella uilla.Anchor Sepuo cagionare et in col parlea malitia
del demonio il qual inganamano tuttoiunmedemomodo.E questofacilme. te lepuo
conoscere nellantichiprestigii,etillusioni. Concio Siacheegliealtrageneratione
dejucătationinello Euflino altra nella regione Taurica etaltra maniera nella
Italia E fében consideraraj conoscerainon esserfimiletotalmen re quella
PharmaceutriadiTheocritoaquelladecuipar la Vergilio cioenoii.e-fimilelartede ueneficii
et incanta, menti unacon altra.Anchorpareinteruenisseilfimilenel li oracoli e
responsioni. Perche altre erano le resposte date per le femine inspirate dalli
malegni demonij,etaltre erat n o quelle hauute per le aperture e coragini della
terra, et altreanchoraquellecheeranopigliate dallhuomeniper lifonnii nelli
Tempii. HperchealcunidormiuanonelTem piadiPaliphea,elmiedici Calabresianchora
essihaucano confuetudine, con& Dauni,diriposarsiappodelsepolcrodi
Podalicio,ilqualePodaliciofufigliuolodiEsculapio efueca cellentejnedico.Anchora
emanifefto comesoleuanogia Geceaffaipersoneneltempio diEsculapio. Ilchenon
solas mene fuofferuatonellitenipi Heroicim a anchoraperinsie no allaeta di
Antonino. De cuiracconta Herodiano chean doa Pergamo perlanti decta cagione. Anchoraleggiamo
qual mente haueuan o consuetudine li oracoli di dare responsioni per il mezzo
di intier esta r u e, e t a n c h o r a per m e z e zestatue,emediante
anchoralecolombe, ofufferoquelle neriaugelliofussero femine disimile nome non
loro,m a benfoperdetci modireuelaueno lecoseocculte etannon tiaueno quelle
doueano uenire. Anchora assai auttori narrano come erano farte simili cose
nella India per il mezzo del Jalberi, et in Dodone, ficomeracconto Aleffandro
Magno, Erano anchoraaliriliqualisubicamenteintcandolisopraun certo furore
narrauano marauigliore cose.Ecosi ritrouauoni
ficoteitietaltrimillimodi,ediuerfiJunodallaltroda reuela re lisecret, etannonciare
le coseda uenire.E come erano di uersespecie
egeneracionidellaugurii,ediuersilimodi del
fceleratorico,damanifestarelecoseoccoltee da aluontias rele cosedouéano
uenire,cosieranodiuerfi i sacrificiicollir quali sagrificaueno,eanchora
diuerfi'imodi dieffofcelefto prophano,eteffecrando sagrificio.Anchora erano
diuersili incantamentidelliantichi enon manco sonouarii nella10 ftra eta enon
manco sonofatticon altrisceleraticoftumie modi chesoleuanofarequelliantichi Romani.Sononarra
tealcunecosedallanticoCacone nellilibridella agricoltu raditátasciocchezzache
retrouansipuochile poffonoleg gere senza gran riso etischerno.Nondimeno furono
imper r h o i scritte DA UNO UOMO ROMANO, il quale fu censore e triomphatore. Ma quanto al
moto.cioeinchemodo fiano portatedalDemonio,equanto alluogodoue fono ferma te
tunon tidebbimerauegliare. Concioliachequellacosa che e
conåfuoingegno.bugiardafallace,etingannaterigcel i e quellafouentdee
piumodi,ediuatianaturainaquellache c-ueracefeaccostaallasemplicita.Ecorefto
efaciledauc derein quelle coseche hauemo ramentare,enon manco anchora se puo
conoscerepellifigmenti,e fauole de poeti, comefonola fedariietanchorcótrarii .Etanchefpeffeuol
tequelloferitrovanellenarratehistorie.Ilperche fouente seritrovauna
cosascriccainduoietremodi,etanchorqual che uoltaipiuan o
cótrarioallalto,esepurno seranocorra tii alm a n c o seranno diuerse
uarii.lisimile intecujene anche nelleoppenionide philofophi,
enellerefponfionidelli(auii (ureconfolti,edoctoridelleleggicosipontificalicome
imps riali conciolia che se citrouano varieoppenioni circauna medema cosa,Manon
maiimperhoseritrouaquea cofa, nelle (criteurede Theologgi, eccettoche inquelle
cosel e quali sono communi coli alliPocci comealli Philofophi. M a inquelle
cose,lequalipropriamentepertengonoadeffs TheologgiciocnellicomandamentideIddio
ecosinella! He cose, che pertengonoallafedecatholica,etaliicoftumi,
chefononeceffariiallafalurenoftranon uifaricrouaucig. na diffenfionem a
fonodatutti:narráciedęchiaraticongran deconcordiae consonantia
etinunomedesimomodo.Ve to-e-chelDemoniomalegno amicodelladiffenfione,con come
-e-bugiardo et ingamatore cufi-e.uario,e uerfipelle. accio dicameglio.Ilquale
uocabolo segondoliftudiolid e l la lingua latina e-cauaro kuorida quelle favole
delle quali gia auantipädladimo,per ilcuiinganno diceuanli effertraf murai
Thuomeni nellilupitcoicomeingamaha Pichau gora,Empedocle,Apollonio
ellaleriantichiPhilofophi disi mile generatione con ilcolore della
dottrina,(üpercheula "Ha coteftilaciuoli,ecotefti
modi,colliqualifacilmenteuili quoreua tenereligari) ecosicomeanchoragia
tirauaafe de donneci uole con il mangiar e beuere, imbriagaree con lila sciui e
carnalii piaceri.cosi anche hora tira similmente a fe, Thuomiciuoli e
donniciuole c o n fimili piaceri, liquai c o m e chiaramente sevede furono
sprezzati da moltiPhilofophi. M a quelli Philosophiconduceuaconmoldi modiafarliado es
tare cioeoconilcolore della capientia oucto con lasuperti
cionedellafallareligione.Concioliache perhauere e gra. di della cognitione,e
per ottenere la doutrina faceuano esto OrationielaudeuoliHinnialliOracoliquero
all Tempo dellifall Dei Per lequali cose gli pareuade impetrare la cognitione
dellecose chedoucano uenire,etanchor pareuali
diotteniredicflereportatiperariaindiuersi luoghi.E coj fendofatięquestecose con
loagiuto delDemonio,quellilo attribuuano ad una certa cosa diuua,che pareua fufli
11€ detti huomeni.Inchemodo altramentehauerebbonopor furouedeteli
discepolidiPichagoraestofuo precettoredif. putarehoranelTaucominiodiSicilia
erhoranelMetaponto in cosi puoco spacio di tempo. Per quale via f e r e b b e
camminato per aria Empedocle et anchora in che modo cofi
prestosouradellafactaferebbecorsoAbarc,perilchefuchia maco Acrobares
Coluigrandementese inganna, chicrede, che Apollonio conosceffeaffaidellecose
doueano uenireet icheluicomidaflealliDemonijetquellilubbedisceno,per
paurahauciserodilui Fengeuai Demonio aftutoemalus gio diesseremartoriato da
luietanchoradiesseresforzata accioche sendo quello inescato fottocolore della
finta diyi nita,dipoipiuforcemente seaccoftafse alalere cose etotal mente
rouinalenellipeccati.Ilche facilmente,fel apiace. i puotrai conoscere dal fine
che seguicaua.Sforzosi difare uccidereprimicramétePithagoranellaseditione,e
dipoidi farlotagliareipezzi.Amazzo Empedocle neluergognolo Iceco
loqualehaneacoduttoatantasciocchezza checrede ua dihauereortenuto
ladiuinita.Ilperchecidiceuaallícom
pagniqualmentefcdoucuanoalegrare,concioliachenon farebbe piu uomo mortale m a
douentar ebbe Dio immortale. I m p e r h o c o f i f c c i f f e quello in
greco, m a i o l o voglio e mentareinuolgare.Remanetiuiinpace,conciolia che io
f o n o a u o i Dio immortale, e non piu mortale. O che morir con questa morte,
quero di quella decuiscriffe Democrito Troegenio, quando diceva, qualmenteello
pendeouaucto Seeta attaccato ad uno cornale con uno lacciuolo al collo églieda
pensare cheli paffalidicoteftauicaperin&igatio ne super persuasionedel
Demonio. Anchora non l contenu focdiquello inganno,et illusionem, a anche
diceua come gia era passatalanimafuaperdiuerficorpi con questepar role
grecelequale uolgarmente lediro cofi.Gia tofuuna Lanciula etun fanciullo. Ecolialfinefuconducoallamor
le colleuocidelliDemonii,econilfpiandore dellefiaccole
ficomeraccontaHeraclide.Forsianchorane conduffiApof lonionelTempiternosupplicio
con tanima insiemecoilcom p o. La quale morte no parech e h a i n d e g n i a
alli n j a g h i e t incantatori. Con cio la che variamente egli e narrata la
morte di esso, perche sono alcuni che dicono come mori in Efeso
ultriscriuenochemoriin Creta, et alquanti alttiuuolero mancale
inRhodo.Vero-e-chenon erainpiediilgodose polcrodiquellonerempidi
Philoftraco.Benchefuffyadors toereueritaperDiodaalcunistoltiepazzi.ilquale
scelera to costume ficomelaltri frodidelDemonio manico etheb befinefrapuoco
spatio di tempo.Cofianchoraporloayenimento di messer Giesu Christo pero
Imperadore di tutto il modo mancarono tutti li oracoli respofte,
edomesticiragio namétideliidolierdelifalfi Dei. Nelliqualierainusluppa. toe
strettamente legatoquasi tutto ilmodo.E cofiquello, dquale apercaméte,epublicamentedauaresposteperliora
coli per liIdoli,eper lialtrim o d i hora fcioccamente parla
perleoscurecauernedesiderandolilasciyiecarnalipiaceri, fiqualihorasono
uergognofi cheallhoraallegentierano gloriosi.ltperche fa scritto quelparlares Dignate
Anchisa del Paphio coniugio. Ino solamétefuronoquellilasciin
piacerigloriofredigrar de reputatione ne tempi eroici, ma anchor nella era di
Alessandro e di Scipione. Alliquali fu attribuito cotefta gloria, che
eranoistimatida molti figlioli di Gioue.E questomolto
maggiormenteemanifeftoperlehistorieche iopossacon Ognidiligentia raccontare
cioe cheera credutoche il D e. monjo chesefaceuachiamareGiouein
figuradiferpente hauessehaguto amorosipiacericon lamadre diScipio ne,
econOlympiamogliere delRe Philippo.Et eranoin tantaoscuricadiméte
checredeuonofulliGioueDio.Eco Gin coteftie fimilimoditicauane peccatiquelli che
erano la f c i u i libidinosi e carnali, mesch i a n d o l i i mpe r h o a n c
h o r a ce ii LIBRO PRIMO qualche colore di supexftnione.Anchor cofiinelengaquelli,
liqualidefiderauenoebrammauenola gloria,eteccellencia dellihonorimondani, liqualitendofralimortalijes
hauédo proirontiatilecosedauenireper la conuerfaçione, familia
cicacontinuahaueano hauuto colliDemoni anchora fimile méte dopo lamorce
pronosticaueno.Ilperchefauolefcame tenarraflidi Orpheo comesendouiuofu riputaco
profeta. et dipoisendo morto fedice comedauaanchorresposte. È dicefle
anchorqualmentesendolitagliatoilcapo,dalledon ne Theeffe,ando effocapone lLelbono;etiuihabito
in unaspauenteuoleruppeuaticinando edandarefpoufioni
perliIpiracolietaperturedellaterra.Portauanoanchora in yoltali
oracolidiAmphiarale diAmphilochouanie diuina torifendoanchee gliuiuietil simile
fecero doppo la morte, Ilche forsigrandementedefidero Empedocle quidouuol.
fiefferciputatoDio immortale.Fauolosamente anchorrac contano
comeeffercitayanolamiliciaelaguerraliReggi doppolamorte
efaceuanobattaglia,ecombatteuanoa cheandauanoacacciarelianimali,e
luccellietcayalcauay poficomenarrauanodiRhefoRedi Traciachecaualca, uainRhodope.
Oltradiciodiceuano comenosolamente fc eccicauano,etferappresentauenoleanimede
quelli con lopradellicerchii,edellisagrificiiramétatida Homero,m a anchora
spontaneamente,econalcunipattiinquelmodo, ficomeseriue
Philoftrato,leappresentarsiAchillealTianeo, etal Vinicore Protesilao,collaltri
Capicanii fecero baccaglia co Priamo.Veroeche lafaccia
juoltiicoftumi,eliatti,ege Aidequelli,perchefonodialtra maniera emolto
diuerfi,e Yariida quelli chesonoiscrittida Homero eperchesonoan chor
diffimilidaquellichenarrano lhistoriediDarete Phri gio edi DittoCreteseteinsegnanoquantosianolijnganoi
delli Demoni elebugiechehannopoftonellacognitione etanchorti dimostrano li
noceuoli deliramenitie pazziem e fchiatecollibuonicoftumi.PerilcheseilDemonio
hauccel laioebeffato,etingannatoperquestimodi quegliliqualise
iftimauerosauiiedotti credendo lecose contrarie e totalmente da l ragione
discoste quale ci la cagion ce h e t anto grandemente tuti marauegli
diuditezediuedere molte co feuarie, diuerfe collipiedilaconfegratahoftia.E
cosiinquestomodo comanda quellofceleratonemico deIddioachiunqueuuo
leentrarenellasua profana,maledetta, eperfidecópagnia, che abbandonino,
preggino,etischetniscanolanoftra fan:
ciffimareligioneChriftiana.Imperhononsipuoaccozzare
neconuenireinsiemelabugiaefalsitacon laueritanellete n e b r e et oscurisa c o
n la luce n e anchor la fuperftitione c o n lareligione. Io credo ilmio
Apistio,chehormaitutifiaaffaj certificato e chiarico cosipian pian caminando di
quello decuihauemocóferitoedisputatoetanchordi quellodel qualemi
addmandasti.Deh pertuafedeuediuedicola la Strega, che
eagrandiragionaméticonildotto Dicafto, nel portico avanti del sagrato tempio.
APISTIO. Diovi fa lui. DICASTO.Siatie benuenuti checosa ci e dinuouoil no
sciocchee pazze econtrarielunadellakira nelleStreghedenoftritempirM a
anzimaggiormente cu tidebbi merauigliarediquellaeccellente sapientiaepoffan
zadiChrifto, laqualetalmérehaoperato chequellohauca persuaduto ilDemonio
malegno eperuerfo inanti lo auek nimento di esso a tanti Reggi, Oratorie
Philofophi delle genti,ficomecosaeccellente emolto meracigliosa edegna dogni
sapientia hora a pena ilpoffa perfuadere ad alcuni huomiciuoli e
donniciuolecioeche lo adorano loreuerisco Do
Ihonorano,efacjonoquellecosecheglicomandae cos fiperqueftomodotu
odebbemacauegliarechequello chegiaerafatro publicamenteintuttoilmondo,etfratutte
le generationi sicomecosa honoreuole e gloriosa che hora H a fatta nelli
picciolie Atretti canto n i d a puoch i secretamente, e con ignominia e
vergogna. Ma voglio che tu ben consideri una cosa de divina gloria frale
altricioeche glie, tanto fodo,fermo,eftabileilfondanientodellatriomphantefede
de Chrifto chenon uvole ilDemonio peruerfo emalegno niuadino allesuefcelerate
congregarioni,eradunamenti, neanchorauuole che conuersino con luile
Streghe,fepris manop reneganolasantiffimafedediChrifto,e Spreggiar
nolisagramemidellasagrosantaRomana Chiesa,econcul cano Kro Apiftio
APISTIO. Loaddimandamo ate.Conciolig che Fronimo noftro erio ftamo venuti
quiaccio udiama imperhosettipiace. STREGA. Heime doue fon giuntai DICASTO.Non
hauerpauraM a ftapurdibaonauoglia eparlasenzauerunpauéto.E nodubitaredi
meconiciofia cheiotiseruaroquátotihopromeffo ciocche'nóseraimar toriata
feliberamente manifeftarai iurre letue maluagic opere lequalinonpoffonopioefferpalcofte,perchegiaho
liteftimonijcometuseiindettoerroreepeccato etanchot fulhai cófeffato fi
comeiográdemenre desiderauo. STREGA. Deh heime. Gia lho detto. Per
qualecagionedonque m itormentatidiuolerloanchoraunaltrauolrahora inten; dere?
DICASTO,Perche e bisognodiritornarlo a confef faren o n solamente inantidi
duoiu e r ditre teftimoniim s anchoraauantidipiu
etalfineanchedavantidituttoilpo polo fedesideridiIchifare la pena tassata dalle
leggi e a voi che setidi questa'maledetta compagnia,per tantifacrilegii, et ā r
e f c e l e r a t e o p e r e che uoi facte. Vero e che gia h i a m e
promessodi faretuttoquellocheticomandaro,et10teho promesso seruandotule promiffioniantidectedinon
confo gnartinellemani del Giudice ilqualeincontanentetifareb b e brugiare cosi
sendoli c o m a n d a t o dalle leggie.Hor a noir tic o m a n d o altro eccetro
che tu ramêti unálıca uolta quelle cose c h e t u h a i f a t rco o l i demonii
nel giuoco o s t a nel corso come fedice uolgarmente. STREGA. O maladerco giuo
co, O giuocoinfelicepme, mala fortemia. DICASTO. Non bisognanohoralagrime, non
piantineanchegridi. STREGA.Deh perquellahumanitaetgentilezzachein uoi
leritroua,priegouinon mi uogliateperhora piu darmi faftidio.M a fiaticontentidi
concedermiun puoco fpatio di tempo,etun puoco diriposo narta
tantochemiramentiiltutto ecolidipoiuinarraroognicosa chehofatto:DICASTO.
Piacédouigli cöcedero,quellochele piace,etaddimanda. Conciosia
chepoiraccotarajl tuttoconmegliore animo,
conpiuageuoleuoce,seespettaremoadintrarenelliragia namenti
perinfinoadomanc.Doue haueromolto ápiace re,felno uifera graue uiritrouiaci presenti.
APISTIO.NO parui Pauigraueaquellihuomeni desiderosididottrinadiparz
cicledesuoipaesia andarperinfinoaGnosocittadiCreta allaspeluncae tempio di Gioue
perudire le leggi ualiee di Puiocomomento di Minoffe,ediLicurgo,etferaame dun
que faftiddioi caminareunmiglio,accioimparqiuellecose lequalinfeo sonovere, almancopaionouerifimilipladispu
tatione di Fronimor FRONIMO. Hora mi callegromolto
perchetiucdotantoiftimareiionm e nialauerita, puran choraseben nolhai certa cu
faialmaco contodellafupility dinediefi. IIperchenoseraanchorame
grauedicitornare quidalnostroCaftelloperessercitiodelcorpo. DICASTO
Cofi.dunqucretornareridanoi,etioue aspettaro con gran difio, Andatidunqueinpace,E
tu guardianodellacarcere ritorna colala Strega,etu Strega pensa benil turco,
accio il polli ordinatamente, efenzauerusiabugianarrare. &c. molgariggiato
dal Veń.P.F.Lcadro delli Albert Biologuese. LE PERSONE RAGIONANO. DICASTO, APISTIO,
STREGA. FRONIMO, DICASTO. O fiatreeben uenuti.Atempo fecigiúti,con
Icioliachehorahoraseracondutto fuoridella pregione laStrega
esecamenataauktidinoi. APISTIO. martoriare quel lachegiahacófeffatorAPIST.Deh
buonadónano-e-ita to portato quiuerunacosa da sormérarti Vero e cheFroni moetio
Gamouenutiquiso lamétcp uedertietudirtietan chor p aiutarti quáto potremo. FRON.In
Heritacosi-e c o m e ha detto Apifio.STR,Deh quäto grauemetemi mars torianocotestemanettediferro,ecotefinodiegroppidelle
legatureDeh cheioho pauran o mi siendatimaggiori tor menti. F R O N.TipriegoDicafto,comanda
chelasciolta. DICAST O. I o son cöteto.O caualiere supresto sciogliela. STREGA
Hormai cominciaro'un SNN DELLE STREGHE Ecco coco che e-menata legata.
STREGA. Eime,cime.Inquestomodo ferua sile p r o m i s s i o n i P e r qual
cagione u u o l e t i poco diripigliar lispiriti DICASTO. Sta
purdibuonauogliaperchetipromettodi non mancare in ueruna cosa di quello ti ho promesso
o u t chetuserualepromiffionididireiluero senzabugia edi narrareognicosaa punto
diquelloferaiinterrogara.Siche racconta iltuttointeramente. Vi prometta di
feruarequello cheajho promessoliberamétefenzaalcuna menzogna.DICASTO.Dunque
comeciadinarrarequel lecoselequalilaltro giorno,etalichorahierifuiltardoam e
folo cöfeffaftiscriuendoleilNotaio. STREGA.Seuoilerar mencarete,elereducerete
amemoria, colleuoftré intercon gationirefponderocon quelordine, cheuoreti.DICASTO
AddimadatiuoiApiftioe Fronimo,concótentolepofsetiin terrogare cóciolia che hoggi
farauoltroquestospettacolo, cotesta impresa.Ma eglie be uero che
uoglio'effecuipresente acciola ammonisca leusciffefuoridellacarreggiataçlıcome
fifuole dire cheritorniallauiadrita. APISTIO.Hor luStrega d i m m i a n d a f t
i m a i a l g i u o c o d i Diana o u c r o d i H e r o d i a d e r STREGA. Si
sono bene andata al giuoco m a chel fia o diDianao diHerodiadenon
il-fo.Conciosia chepia non houditoramentare quelligiuochi. FRONIMO.Gia tedif Si
b i e r i Apistio come il Demonio ingannava i uomini in diversi modi. Il perche
in queltempo, nelquale era adorata Diana dalle genti, et era molto honorato e
glorioso iln o m e d i q u e l l a p e r ilmondo, p a r e u a u n a e c c e l l
e n t e c o s a d i p o t e r uiessere annouerato fra le compagne di effa Diana.Benche
inpechofufferodetteuergininondimento eranochiamare Nimphe cioespore, eco filepiaceuadieffereaddimandate
f p o s e, m a m a g g i o r m ē tele a g gra di valo effetto et opra, ben che
non fuffecercatacon legitimorito,ecostume.Concia. siache erano iui
continuiftupriet adulterii. Perilche serie ue Homero
nellisuoiuerfifouentequella colgata sentens tia, Nella mefchiaraamicitia. Imperho
fauolescamentedi cano comely Dei falsioueroquelli antichi Baconi ebbero
amorosipiacericonlacompagniadiDiana,ouero diunal traNimpha,odiNapea
odiOreade,odiDriadeFengrua noefferleNapeeleDee
dellefelue,dellicolliemonticelli, dellifiori, ficomediceuano esserele Orcade Nimphe
delli monici I monni,ele Driade Nimphedelli alberi, Anchora credeuang li
Gentili,etilgozzouolgo,chefufferoinamoracęleN i m phe Marineedellifiumi E.
Colifouenceleggerai di Cirene Leucotheafintadallantichieffecla Dea
Matutacioelauro ta chiamata Dea marina p c h e e r a s o u r a s t ā r c a k c
e m p o m a i s mino Et anchor ritrouacaiscrittodiCimgdecene cioediquel
laDea,laquale faceua acque care le onde marinesche, secondo le loro fauole,
nomanco uederai iscritto molte cose del laltrefinte Dee odelmare,odellifiumi.E
percheglipareua efleremolto piu sicuro diconuersareperlim o n i,che som
mergersi nellonde delacque etanchorpareuaeffercosa pia
aggradeuole.dimitromettersinelle cacciagionidiDiana,che
inuilupparfinelliprocellosiflutidi Tritono enelleondema r i n e s c h e, in per
ho maggiormente se deleitarono nel giuoco di Diana, ene balliesalci di quella
ficome cosepiuaggrade uoli, gioconde,e piaceuoli.Anchora tico dapoi molti altri
conlusin ghe uoli modi sottolafiguradi HerodiadeIdumea
laqualegrandementesedeletrauanelliColazzeuoliecraftu. Fattamentionedicotefto
giuoco di Diana, ouerdiHerodia de belle leggi e decreti de Ponteficidouifiramécanoleleg.
gifuronocófermateper ilConcilio.Nelqualfu fatto quel l o f t a t u t o, che si
dove f f e r o s cacciare le maghe et incantatrici. FRONIMO.Deh
ptoafededimmiDicafto,iltimitueffere cotefto quelmedemo giuocode
cuinefattomemoria juic DICASTO. lote dito ilmio Fronimo.Sono uarieoppenio
nidiquestacosa, conciosiachesonoalcuni,chedicodnoe 6, etsonoaltriche uuoleno
siauna noua heresia. FRONIMO Dirolamiafancasia.Iocredochequelloinparcefiaantico
etinpartenuouo, cioenuouo quantoalle nuouefuperftitio niceerimonie
iuihorsaesatino, ficometudicefti,parlando da Philosopho, chelfüfliantico quáto
allaesseruia,etsiuouq quanto alliaccidenti. DICASTO.Ben ben Fronimo, cerca
mente tuhaiiniaginatouna eccelletedistintione;conlaqua keaffaicofefescioråno che
hannodependentiada quelluo 8o, dacuihannopigliaioalcunigrandeoccasione dierrore
Iftimadochecotestedonnuzzesianosempreportatealgiuo . RAZO. BIBLIOTECA
EMANUELE LOORIO ) ff co solamente con la fantasia enoni con
ilcorpo. APISTIO. I D u n q u e ru istimiche le Streghe F a n o sempre
strafferrite e portatealgiuococon ilcorpo DICASTO. Nonfongiadi quefta oppenione
che sempre fano portate cola al giuoco con il corpo, perche a l c u n a v o l t
a f o n o f u s e r i t r o u a t e p c o c a le modo accostato f o u r a di un
travo c n tanto profondo sono chenofemiuanocosaalcuna benchefufferofortemērebuf
sate, etelle di poi crede uono di effer state portatealgiuoco, é nondimenoeranojui.
Anchora altreuoltesonostateuedo tefralegambe de aleurie,efra lecoscie,esserui
delle feope feratecon tanta fermezza chen o sepuoreuano cauare fuori rida che
fouente sono portare al giuoco e con ilcorpo e con lanima,et altre uolte pur
credendo di efferportateinquelmodo,folamentesono iuipresentecon
lafaritafiaetimaginatione: DICASTO. Eglie alcunauolr ta preftigiodelDemonio
ouerofalsademostrationeetuna aftura delusione etaltreuolte efecondo che
uoglionolestre ghe.Imiricordodihauerelettonellilibridifrate Artigo,e difrate GiacoboThodeschiMaeftriinTheologia
dellordia ne de frati Predicatori ,qualmenteeglienarraro diunaftee, ga
laquale pensitu occorca questo
quellechedormiuano,collequalecofe credeuanoeffe dieffereportate al giuoco.APISTIO.Per
qualcagione pafsaua quellispatiiintuttiduoi e modi fecon. do che le
piaceua,cioe con ilcorpo uigilando etanchor (per fe uolte folamēre con
lafantasiacioe quâdo le rincresceua i uiaggio.Ilpercheallhorafedendonelletto
ethauedodetto alcune diaboliche parole, regli rappresentavano tutte le com e!
del giuocoi una uerdanuvola etoscuracome lacqua det mare
ficomeuifufferorealmentestatepresente. FRONTIMO. Che cosa responderefti
alliaduerfarii. DICASTO. Primieramente cosiglirispondereicheiomi maraueglio
come uoglia nomisurare tuttilimodidellisacrileggidelle fuperftitioni edelle
magiche uanitadi,con uno folom o d o delviaggio
alcunauoltaferuatoinunaregioneepaesedel mondo dauna certafcelefte compagnia didonne
profane e rubelledinostrafede ecosivoglianoiftéderequestacosa.
atuttelepartidelmodo.Et anchordireiche pěsanoforfidi Capere
scrittore di maggio te autorita dicoluilo racconta.Conciosa che fano
aflaicore da Gratiano altrimenteiscritteerivolte, enarraremolto di nerfeda
quelle chefuronopublicate nellicöcilii,edallion teficiIperche credoche
coteftafussiuna cagione fralaltre perlaqualeironfußlipercoralmodo
approuatalacompilaa tione del Decretodaluifatta,dalliVenerabiliPadri della cose
cheseucdeano in quella regione,lequale sonod a n nate perilConcilio.Nondimeno
se fanno imperho affat core dellequalinonseleggefufferofattejui I fapere
táto che glipäre di potere coftrēģere tampiao f á n za
delDemono,laqualehebbedalprincipiodellasuacrea tioneinunomoriario. Dipoianchoradireichecostoronon
polionopatire che siaispofto quelcestodellalegge co ilgiu diciode
altrui,liqualicertameresonodi maggiore dottrina acciachecauano fuoriquelle
egiudicio,dieffi, coselequali pertegono allanatura,da
quellechesonopertinentiallafe de catholica.Anchorfefforzatiodi dimoftrarelaperiamente
cfenza uergogna chenon siaquellacosa,laqualenó poffor n o negare chenon sipossa
fare etanchorache non siafatta qualcheuolta,eccetto senonlauuolenonegarecon
suagiá de profomprione,etignominiacioe negando le migliara
deteftimonii.Mafotlianchoruno dimaggioranimodime direbbediuuoler uedereun
piufedele effempio delle leggi del Concilioche fuffiramentato da un Chiefa, che
fullofferuatainuece di leggi e dalla quale non
fuffilicitoauerunodiappellare.Horlupuranchoragliuud côcederequelloche diconom a
consideraben cheglisiaan choraferratolaboccaad effraduerfarii con la tua ottima
di Aintione, ficomeam e pare erinueroegliecos. Perlaquale facilmentefepuo
conoscere,qualmente ilcorso ofiailgiuo co dicotefte donniciuole
ethuomiciuolineconuienein •parte con quello giuoco,etinparte euarioe diuerfo da
quello.Conciosiache nonse dice quichese creda Diana
effereDeadelliPagni,neanchoraseuedonoquiui quelle che sono pur impercio communi
collealtrifuperftitionidelliGentili Pagani, etanchorafansiaffai
schernieuituperiode Dio,c 2 & ola i bialimeuoliofferuationqi,
uariiritiemaladettichefonofino insegnatidallimalignifpiritie Demonii a
questimiferih u o miciuolie donniciuole licomenellidannariunguéti da un
gerfi,nella deletratione difpargere ilsangue innocente del lifanciullininella
offeruationedelcerchio, nellimagichijn
cantamentinellaltrimoltidiabolicimaleficii,eneluiaggio) e discorso grande per l
a r i a con il corpo. Colui che e g a l
s e, che il Demonio non puotessemaggiormente mouere licor, pi, chenópoffonoruicilhuomeniinsieme,
parládoimperho, naturalmente, equantoalliprencipiinaturalidiciascunodia
effiiopenso,cheferebbedaefferreprouatoedánatocome Heretico, perchediceilfan&iffimolobbo
chenonepoffan, zafouradellaterrada egualare a quella del Demonio. Ants
choraritrouianoneluangelioqualmente fu portato Miffera Giesu Christo noftrosignordalDomoniosouradelMonte
eranche foura delpinnacolodel Tempio.E tenuto indubin tabilmėteuero dalli
Theologgi c o m efonoubbedienti cugi licorpi allefortarize separate o fiano
alli spiriti ispogliati del corpo, quáto perteneimperhoalmouereda luogoaluogo,
ecoli effifpiritinaturalmentelepuonomouere afuopiacess te purnon sianoimpediti
daIddio prima causa di tuttele creature ecosi quefta euna
disputationedellalegge natu rale cioefe poffonolispiritiignudie
priuidimatermiao u e te licorpilo no,m a chesianoportatida luogoa luogo
questihuomenicdonne inucritae senza menzogta,eglie, dispurationedel fatto cioe
fecost-e-ueramenteIlperchetu debbisapere chgeuadore-certochelepossafareunacolae
chetuuuoiintéderedapoieconoscerelee -fattaofefaci, i nólefacialtrimëreno
lopuotraiintendereeccettocheper
boccadelliteftimonii,ochelhauerannoeffifatto,oueroIba ueranno veduto coli
essere; overo l h a y e r a n o udito d aquelli che l’averano fatto che
feranostatoueriet certie fidelihuo meni.E cosihora quanto apertene a noi
cioeche siano por: tatialmaledetto giuoco, queftirebelliidnoftra fantiflima
fede, Ma ve m o fermoechiaro eper cofa indubitabile peril mezzo de gran numero
di testimonii, liqualilhannomolto largamente narrato. FRONIMO. Non
/ermaraueglia se quelli ghellisciocchezzanoinan
tefto,cociofiachecoficompren dono laueritacollialtri. I]perche
ficomeilgloriosoIddione wahe ilben dalmale cofilhuomenidimalo animo,edima
laopeniojie, sefforzanodicauareilmale dalbene.Écolipa rimente perla malignita dellicatriui
huomeni sonoftateca uate tuttele Hereniedallesagre litterenonperdifettoecol pa
dieflifagratissimilibri, efantissime littere ,m a per la per
uerfamalitiadellhuomeni.APISTIO.Deh peramore de
Iddioaipriegononuogliateinterromperelemie interrogazioni. Benche gia abbia
deliberato de interrogar u i poi de dettecore purnon parehorailtempo,fiche ui
priegonon m i datiadeffo noglia m a laffatimi seguitare. DICASTO. Tu hai
ragioneilnostroApiftio,Seguitapur oltreer addis manda aleiquellochetipiace.
APISTIO.Su Stregadimy m i, Andavi tua l giuoco con l anima insieme con il corpo,
o s pur con uno senza laleros Viandaga e con lanimae con ilcorpoinsieme.
APISTIO. Come e chiamato quefto. uoftrogiuocor'Eglie chiamato dallinoftriCom,
pagni il DELLE STREGHE, giuoco
della Donna. APISTI. Inchemodoane d a ui tu col a r Deh c h e nogli andava, ma
ben gli era portata. APISTIO. Conchecofa: Con una Gramicadacascetareil Lino.
APISTIO. Comefiapoffibi lequesto chesiaportataquella,non la portandoueruno
STREGA.Má beneraportatadalmio amoroso. APISTIO. Chi-e-coftui STREGA. Ludovigo.
APISTIO. EglieforsiunoqualchehuomocosichiamatoSTREGA.. Nonhuomono,ma
ilDemonio,chesepresencauainfor ma dihuomo,loqualecredeuofuffiDia ĀPISTIO. Mima
raueglio assai certamenteche il demonio ingannatore del Ihuominihabbipigliato
questo n o m e de Chriftiani. FRONIMO.T u si marauegli che colui habbia
pigliato quelto nome deriuatodalliGentiliePagani,ilqualefefuoletraffi, gurare
nello Angiolo della luce. APISTIO. Tudici molto gagliardamente
cheegliederiuatodalliGentili. FRONIMO. Anchoraildicoche ederiuatodalliGentili.Concio
wachenonmairetrouaraiinueruno luogone inGrecone ipLatino osiaconefsempio,ocon
origine (senonme ingå noimperho)dondefiaderiuato.Vero e che mi
ricordo di avere letto solamente ne Commentarii di Giulio Cesare r Litavico, da
cuidipoiun puoco-e.ftatopiegatoerecorto nella lengua franciefaer-e-detto Luilo
eriuoltatoanchor poi nella lingua del Lazio, e scritto Lodovico dovi quello se
referrisée. APISTIO. Nonuogliopiuoltrediqueftacofadisputare,
maggiormeieperhora,percheho deliberatoinqucho tem po divuolerragionare con
questanoftra Strega. FRONIMO.IlmioApiftio, hodettoquelloame pare, sempreim) per
hoapparecchiatodiudireleoppenionidepiudottiepia prudentidime. APISTIO.Non
piu.HorfSutrega.dehnó cisiamolesdtoi scoprire ameinteramentelicuoilasciui pia
ceti. STREGA. Dimmi de checosahaitudelideriode ing. Tédereç. APISTIO.
Pareuaateunohuomo queftoruoamor roso: STREGA.Sipareuahuomoi tuttelemembrá cecet
tochenepiedi.Liqualisemprepareuano piedidiOcchari uoltati a dietro e riuerfatip
e r cotal m o d o c h e era riuolto'm dietroquellosuoleesseredauanti. APISTIO.Per
quale ca gionecredituDicafto chefinga,ilDemonio tuttelaltrem e bra dahuomo
elipiedidaOcchasDICASTO. Setulegt geraituttiliproceflidicotefte Streghefatti
dalliInquisito titu ritrouaraiinefliqualmente il Diavolo osia il Demo nio,o
periluoglichiamare Saranaqffuo,a n d o secangiain cffigiadi huomo,sempre
apparecontuttele membrada huomo,eccetto checollipiedi. Dilche inueritatidico
cheso uentemenesonomoltomarauigliato ecoliframe hopen fato che forfi q u e f t
a e la ragione. C i o e c h e I d d i o n ó p e r m e s techeelloisprima, e
fingatuttalauerafimilitudinedellbuo mo,acciononingannieslohuomo
conlaeffigiahumana. E la ragione per che nó hafimiliipiediallaltriniembradel ta
finta EFFIGIA de llhuomo credo possaessereperche-e-con fueto
diefferelignificatoperipiedinellimisticiparlaridella fcrittura leaffertionie
desiderose uoglieet imperho gli pore tariuoltiadietro.cioe cheha
lisuoidefideriisemprecontra de Iddio eriuoluicontrodelbenfare.Ma perchecagione
p i u p r e f t o h a u uoluto fingere li piedi
de Occa che daltro animale io confesso chiaramente di non
sapere,ccettofelnoix 1 ui
fuffi ulfuflequalchenascostaproprietanelloccha,la qualsee poi feffe
ageuolmente adaptareallamalitia.Ve r o -e-che hora nonm i
arricordodihauereuedutoin Ariftotele che siaftai M offeruatafimile cofa da
quello,m a anzipiu presto dice; che-e-quella generatione di uccelli molto
uergognosa,fe ben miramento. FRONIMO. Diro dua parole Dicafto.
Puorrebbeessereanchorachelnoftronimico hauelliuolu to anchoraspargerealcune
occoltereliquiedellaantiqua Superftitione delli Genrili.A
cuieranogiafagcificateleocche fotroilfallofimulacroe fintaimaginedeInacho ede
Ina chide. Jlperchecosileggiamoin Ovidio. se Ne giova il Capiroglio per 'w a
Occa - e x f t a t o, $11.Turo,chelfeganon dia Inacho in lance Ma sicomeuuoleno
altricofifedebbe dire Inachide ioilfeganon traggiin piattor DicePliniocome
eraconsuetudinedipresentareilfigato dellocchaadInachoDiodelloArgiuo
fiume.Ilqualeuccel bo dilettaflimolto di praticare perleacque. Ma che fuflifa.
grisicatoad Inachide parqueltofacilmenteseproua, cong
cioliachefeuedeperlebiftorie di Herodoto comehauea.
nouranzaliSacerdotidelliEgipriidimangiarelecarnidel le ocche, et era i ui rece
r i c a et adorata con grande superstiztione Isia cioe
Diana.Anchora-emoltopiufaggiala Occa. chenon-e il Canericomediceello et
chefacilmentecomo pe c o n meravigliosi modi il silentio della n o t t e e
conturba il teporo. AllaqualenottecredeuantoefferefourastanteDia
na.IlpercheforsipigliailDemonio lafiguradellipiedidi coreftouccello,peruuoler
dareadintenderallisuoiprofani
esceleratiseruitoridiquestariaemaluagiacompagniache
debbianoseguitarequellouccelloin ftareuigilanti,enon dormirecome quellofa
ilquale eruigilanteedipuocofone no, e quando,etpigliare piaceri,equel tempo
cósumarlo nellisceleratiediabolicigiuochi.Anchor racconta sappodalcuniscrittoricome
egliequalcheparte di detto aagello bisogna farelaguardaemoltopreuifta
enon dorme etcofidebbono efferquelliche uanoalgiuococioe essereuigilanti et
ftarefuegliati c h e prouocaeteccitalefeminea libidines Puo essere
anchesegnodequalche occolto,epazzescoamo te,conciosia che fernroga iscritto
qualnienceb r a m m a r o n g leOcche dipigliarelasciuipiaceri con
altragenerationede animali.IlpercheritrouiamoscrittodaPlinio,comeseina?
morarono le ocche di Oleno fanciullo di Argo, e di Glauco sonatore di Cetra del
Re Ptolomeo.Ma egliebenueroche credo chemalefeacicordaffePlinioinquestoluogo,Cócio
fia c h e quello fanciullon ó b ebb e nome Olen o, m a A m p h i
locodellapatria Oleno ficomeramienta Theophraftonelli broamatorio.E non
fuquellacosacoralmentefuoridiragio ne,perchegiafurono annoueratele
palmedellipiedi delle Ocche fraledeletteuolietaggradeuoliuiuandedellameo fa.E
penso per quefte de efferesignificatole pretiofiflime ui uáde elaggradeuolicibidella
Delia mensa,cioedellamen sadel Sole,cheeranoperlaloroeccellentiadamettere auã
tiruttiquellicibicheerano dellamensa delSole di Ethio pia.Nellaquale non se
legge;ui fuffero posti soura de effa.
auantiliconuitati,lipiedidelleOcche,conciosiacheanchor nonhauea
penfatoMeffalino Cocta,didoverliarrostire.Par ionoa m e cotestecosemolto piua
proposto che quello dicono alcum i, cio e che le ocche abbiano prudenza perche
se narra che domesticamente conversaveno nelli bagnic on Lascido Philosopho, Il
perche io istimo chequestomodo dicon uerfationcedibeneuolentia, piupreftofuffifimilea
quello, c o n i l q u a l e c o n u e r s a u a Aiace L o cres e c o n il
dragone. E c o s i anchora penso non fuffi molto discosto daquesta cosa, quel
lafamiliareuoce,laqualeudiua Socrate,etanchora iftimo fuflimolto similequellaltrauoceper
laqualediuinaua leca seoccolteetannotiaua quelledauenire Atridea Laomea
dontiade,sicomenarranoquelli Versi, fccitcida Orpheo con iltitolo
dellepietre,ficome sedice. Non -e-anche total 'mente
discostodaogniragioneloproprietadellanaturadi questo uccello,quäto alla
uelocita del caminare che fanno nel uiaggio,laquale uelocita e'molto fimile a
quella del giuocodelleStreghe.Ilperchenonretrouiamochefulsigia maiuerunoaugello
ilquale faceffeapieditantolongouiag gio, quantoleOccheLequali uenerodalli Morini
lipopoli ( cioedal etancho fada
Ciceroneilqualenonerauedutodaalcroeccettoche dalai. DICASTO.Nonsolamente
qucftointeruieneinuc derelispettacolietfinteimaginidelDemonio m a anchors
nelliprodigiietapparitionidiuine,cioeche quellecosesono alcunauoltadapupchịuedute.Et
dimoftrate siano acciolas Gli altri solamente ioramentato di quell u m e che
era soura delcapodifantoMartinozilquale fuueduto dapuochifico me
narraSeueroSulpitio etanchorpurdirbediquelaltro lumecheilluminaua Santo Ambrogiochi
padaua, loqualso Jamérévedeua Paulino. Ma chequeltaimaginedel Demonio,
solamente l i q u e d u t a dalla strega, i o diro la mia o p p e li popoli
Belgicichesonoliultimidellhuomeni,licomedice Plinio,etcaminarono
colliproprijpiediperinfinoaR o m a APISTIO.Dimini Strega, Dimoftrauelo mai
altrafornia delli piedi,quando ueniua da te,eccetto chedi Occa. NO
maidiniostroe alıcamente.APISTIQ. In chemodo ueniualodatesSTREGA. Alcunauoltaaddima
datodame etanchefouentedaseisteffo.APISTIO.Neue n i y a m o s e m p r e in
FORMA DI UOMO. Si sempre fedimostrayaineffigiadi uomo quando pigliauaamorosi
piacecimeco, APISTIO. Q quegliconuna rugosa egia grinzafemina STREGA.Eie me
Eime,OimeOime.DICASTO.Dichehaitupaura Chi e quello che cifpaventa Vedetile, uedetile
DIGAS. Doui,douirSTREGA. Colti,cofti,almuro alm u to.DICASTO. Informadecui?STREGA,Di
Passece. DICASTO. Dehbémicati comehorahapigliatolaeffigia diun molto libidinoso
aụgello non contrasio alcagioname codellamiala femina,laquale fouerchja
conlasua infaçiabir lecifrenatauogliaturcisimoftridellafozza libidite. APIE
STIO.Hoquantomimaraueglio chenonsiaverundinoi, cheuediquestafintaPafferă
eccecto,chiella.DICASTO. Ben iopoffomirare,m a gianonlapoffo yedete,e cosipara
menon siauérundiuoichelaueda.APISTIO.O certame marauigliolacosa.FRONIMO.Deh
uedetiinchemodo semarauegliailnostro Apistio.Matunonsimaraueglidello
anellodiGigeLidiopaftore,ramétato daPlatone, che piaceri yuoreuano eßerç gg 0
el 70 CO 21 el al di no del Tagnione, lo penso posla interuenire
questofacilmereperlami citia,egrande familiaritahacon quello. E cosioccorre per
janridettafamiliaritache-eportataefanellamantocioein
quellocherätoamanonsolamente conliocchima anchor confla poffanıza imaginaria. E
t anchora ilconosce e distize
guedallialtciuccellietanimali,quandoseglirappresenta, ineffigiadiquegli,sicomehoudicoda
effa,percheleparë una fiammaardente glijmpinganelpetro,ilcheno leinter
nienenelscontrodellialtrianimali. Giafolio tregiorniche raccontotuttaspauentata
dihauere uedutolantidettofuo amoroso informadiunatortuofaserpecjuolainmododi un
cerchio. FRONIMO.Cosi haitu letto Apiftio,qualmen te apparelli il D e m o n i o
alliGentilii n effigia diserpe,et ant
chorainfimilitudinediaugelli.Nontiricordidihauerueda tonellilibricome
guidarcizoli CoruiAlessandroallo Orae culo e Tempio di Hamone, doui,egliandauas
APISTIO. Siholetto etanchorahorixouato,(febenmiricordo)com me
fecerolimileufficiopur ancheli Dragoni.FRONI M O, Chenedicudiquestecosemarauigliore?
Non istimie f u c h e f u f f e r o q u e l l i li demonii im a l u a g i i,i n
f o r m a d i C o r u i t Etanchor non creditu fufferofimilmente liDemonii quel
l i d uoi C o r u i a n n o v e r a t i fra le grandi marayeglie da Ariftotele,
chestavanoin CariacircailTempio di Gioues D u n g perchetantonimarauegli
conciolia cheritrouiamoinPli nio come fufle usanza diuscire fuoridella bocca
diAci ftea Proconesiolauaga anima di Hermolimo Glazomeno in fimileeffigiade Corui.
De cuisediceua fauolofamence chiquellafullanimadieffo,non datuttiuedutam a
Sola: mente daalcunihuomeni. Mamancotutimarauegliaretti se tu fapefliquello
che-e-raccontato da Ariftotele et anchor dapiualtriscrittori,diquellohuomo
Thalio.APIST.Deb p e r t u a c o r t e s i a r a c o n t a quello g l i i n t e
r u e n i f f e. F R O GN l. i interueneuache
gliandauainantiedietrolaboccaunalimi le figura,laqualenon era ueduta
dallalecihuomeni.APIST. Dunqu e senza leggerezzadianimofepuo crederéaleuna
uolta che quelli muoiono, fi comedi conoalcupniorkojjoue derelibuoniereifpiritinelliassumpticorpiliqualinon
fon ueduci geduti
dallaltri& FRONIMO. O fi fi,questa-e-cosacerta. Conciofia che e creduto
questo a tanti prodi,et eccellenti huomeni,liqualinarranocotefto
etanchoraeglieda molti dotti authori suco scritto.APISTIO. D i m m i b u o n a
d o n n a, feļanchora parritala paura,che haueuis STREGA. Si ben
feparte.coliperiluoftroragionare,come anchoraperlauo ftraprefentia.
APISTIO.pEoflibile chetuhaggicançapau ra del tuo amorosos Qime. Gia non lo
temeus, M a dipoiche sono condutta nella prigione,et haggio con: tra
suauogliaconfeffato linoftrilasciuipiaceri,grandemen te, etoltrodiquellofiapoffibilediraccontaremi
spauéta. E qualche uolca se fermaaquellousciuolodellaprigione,eta quella
feneftrella, reprehendomiedimoftrandosi molto for teturbatocomeco. Edipoimiprometteogniagiutorioper
cauarmifuoridi quiui,purche ioftiaquerae tacciperloaue
nire,epianoconfeffiuerunacosama anzinieghiquelloche gia ho confeffato.APISTIO.
T e spauentauelom a i quando tuandauialgiuocor STREGA. No certamente.APIŞTIO
Andauicu quiui ogni giorno,o pur inqualche tempo deteira minato:S T R E G A.Viandauanella
secondanotredopod giorno dalSabbato,edipoida quindi nellaquarta notte,
cioe'nellanottedel Lune e della Zobia. APISTIO.Glian daftimaidigiorno: STREGA. Nomai.FRONIMO.
De quindi sipuo anchorconoscere lereliquie dellamica super
Aicione,fetutiramentarailj ululatiuoci.egrida,fattiad He
cate,altrimentechiamata Diana, e Luna,nellinotturni Teja u i p e r l e C i t t
a d e. A c u i f o l e uano fare oratione le donne ficome scriue Pindaro, quando
li maschi separati, secondo la lo to usanza soleua no anche egli fare oratione al
Sole, per con ikeguire liloroamorosi piaceri. Ijpercheeradedicatolanoki "
re a c o r e f t i r a g i o n a m e n t i et a p p a c e n d o il g i o r n o,
i n c o n t a. nientierano terminati esiparlamenti.E percio leggiamo quel
uerfo. M i h a fiato laspro oriente collieqai anheli. APIS. Forhgiacesottodiquesuton
a cosamoltopiuascoffa FRON.Chicosa APIST. QuellochediceilgrecoPoeta Menandro.M
a iolodicoinuolgare quelloieringreco cofi. Com O nortererbisogno a tedi affaicaénalipiaceri.
D I C A S T O. Cerraméte ciascun di uoidotcaméte,m a humanaméte par l a. M a i
o u o g l i o r a c c o n t a r e u n a d i u i n a fetentia e n o n c o s a d
i paocomomento neanchoraproceduradalloinganneuole o r a c o l o d i A p o l l i
n e,m a d a q u e l l a s o p r a n i a u e r i t a d e I d d i o. APISTIO.N o
n bisognatanto proemio,fu di presto,selti piace. DICASTO. Ioildiro,nonhauerepauca.
Cofidice C h r i f t o n e l u ä g e l i o. C o l u i c h i m a l e o p e r a h
a in o dio la luce. FRONIMO. Certamente tuhairamentato quello chi e veriffimo. APISTIO.Horlu
dimmio bona Strega chivuol direche non andauati a questi balli e giuochidi Diana,odi
Herodiade ouero ficome le chiamatia quellidella D o n n a, nellaltrinortif
Maaccio iodica piu chiaraméte, perche non erauativoipresentelealtrinottiallimal
gradevoli prestigii, e b j a r m e g o l i i l l a f i o n id e l D e m o n i o
r o u e r p e r c h e n ó p a r e u a a teuifuffipresentes STREGA. I nollo fo. APIST.Te
appa recchiauicu,ouero loafpetrauicheteportaffe STREGA: C o s i f a c e u a f
atto il cerchio m i u n g e u a, e f a l i u a a cauallo d i un fcanno,
etincontanenteeraportataperariaper insinoak giuoco. Anchota
alcunauolaconculcauacolli piedilah o Atia fagratanelcircolo,conmoki
ischerni,etallhoraallhora sepresentavailmioLudouico,con ilqualepigliauaamorosi
piacerifecondochemipiaceua. APISTIO. Dichecofare. composto quefto uoftro
maladetto unguento:S T R E G A Fra laltticose, epermaggiorparte
fattodifanguedefanciul kini.APISTIO IncheparteteungeuitisSTREGA.Eime
Mivergognodiraccontarlo. APISTIO. Dsefacciataetim pudica meretrice ,tutiuergognidinarrare
quellocheto nonseivergognatodifare? ŠTREGA.E coreftamocofi gran merauigliar
APISTIO.Sutielenara ferpe gera fuori I u e l e n o. V i a u i a d i fu i n c h
i l u o g o u n g e u i t u r S T R E G A. Gia chefiabisognolodicahor
fuildiro.Vngenammiquel lifuoghicolliqualimi pongo asedere. APISTIO.Dehuer
deticonquantahoneftaibadetto.M ahograndesideriode intendere
inquantofpatioditempoeri túportatada cafa tuaperinfinoalgiuoco. STREGĂ.In
puocospatio.API STIO.Quátomo puocor STREGA.Inmanco dimezza: 1 hora.
APISTIO. Quanto eritu discostoda terraquando te
eriportata?STREGA.Tátoquanco-e-laltezzadiuna gius ftaforre.APIST.Ho pur gran
defideriode intendere quello che sifain questo uostro sceleratogiuoco.Iperche o
buona Strega se desideriche fa quiuenuro per douertiagiutare, de no
tirecrescadi narrare currequelle cose che iuisefanno per cotal modo
ficomelerappresentaffitotalmentea noi.Il faro sendo dunque giuntaal fiume
Giordano. APISTIO.Aspettaun puocoluSiregama dimme Fronimo;Che cola odiť
llfiumeGiordanos FRONIMO, Credo que ftaefferuna bugia del demonio
cioechesefacci tanto uiaggioperiosmoalfiume Giordaso in cofipuocofra tjoditempos
Perilchepensocheellodica queftinocabuli eccellentiluoghiaquestedonnuzze
acciomaggiormente leucceglie leinganniemoltopiu'letegalegalecollilega m i delin
o m i d eprimi e magnifici luoghi.. nore da creder t e c h e sia p o r t a t o
u n o h u o m o in m e z z a h o r a d e l l a I t a l i a n e l la Alia. Ma
forfihapigliato Sathanafloda quindiilcolore della fauolapchehabitauacola
Herodiade.Veroc chemol tomimara ueglio non finga chesianporcate nellaScithia
alTempiodiDiana. Ilcheforsfiengerebbe quello fraudu tente nemico
dellhuomo,fefufficoli domestico e familiare il n o m e d e l l a S c i t h i a,
q u a n t o q u e l l o d e l Giordano: L o g u a leconosce ciascunchi ha udito
recitareiluangelio nellia grati Tempii. Dipoinon -e-molto conueneuole quefto
fute m e a quello fcelerato giuoco,m a fiben ferebbe a propofto quello
Taurico,non sagro m a facrilego perle crudeliffime a c c i f i o n i e f p a r
g i m e t e d is a n g u e. M a f o r s e l e conduce a d u n altro fiuineiui
uicino,efa parere alloro, che siano altroui. Benchesianodella
trilequaliconfeffanodinon esserepor tate allacqua ouero alfiumem a fiben foura
delle fomitati dellimonti,etiuifermate. DICASTO. Non pareameim possibileche
possonoefferportate alGiordanealmanco per fpatiodi due hore,ficome quasituttele
streghe fra fecouie neno, edicono.FRONIMO.Iftimitu chequellepoffong
misuraretantospatio,quanto/e-fraquestanostra patria ela Siria,elaPheniciaincofipuocotempor
DICASTO. Dimmi Fronimo. Non puo il Demonio mouere li corpi afuopia cece FRONIMO.
Si. Manon seguita pecho cheglimuor uaincofipuocotempo
cioecheleconducaosiasouradella terra,uerloloIlluciohora chiamata
SchiauoniaOuero alla finestrauersola Ibracia,quero alladestraper lAfrica odero
passandoilmare lonio eloEgeof,ouradiCorcitadelPelo ponesfloo,u r a
leCiclade,guardando Rhodo eCipro,ecosi leggendofiano porte foura della rippa
del Giordano. D E CASTO. Chi prohibiffecoteita cufarFRONIMO.Lituoj dottori. DICASTO.
I n che m o d o ilprohibisconos FRONI M O In quelmodo cheuiera Santo Thomafo. De
Acquino come nonpuoeffermoffatuttalagrandezzadellaterradal
Demoniodaluogoaluogo,facendoliresistentialagranmae
Atranatura.Laqualeuierachefiarouinatoetotalmentegua ftoloimegroordine delle creature
e delli elementi.Eglic contro la natura del corpo humano d i e f f e r portato
c o n canta celerisa con laquale insiensefe conferui et fi guasti.Ilper che
uiueno quellecose cheferebbe neceffario perloimpi todellaria chemancallino, perchenon
effendo in ueruna cosamutata lanaturadiquello gliferebbegrandeoftacolo e grande
contrariera.M a lepurfimuralie diuentaffipiura do
facilmenteseabbruggiarebbeedouentarebbe fuogo,er anchora
sedouentaffepiuspeffoefodo,maggiormentei m pedirebbe la uelocita,etageuolozza
delcorso.Anchoraiosi uogliodire piu chelecumoueflituttalariacon latuafantam Sia
ficomefermoilcielo Ariftotele conla sua etappodelki Greci
feceancheilsimulePhilopono,efimilmenteScotoap podelli fuoiseguaci anchora
serebbe cotto dite,sendouiin oppositol a intrinsecanatura f i a d o, e d e l l
i u č c i, o d e l l a r i a l e c ó s u m a r e b b e p i u t e m p o assai
diquellochediconointerporui. APISTIO Vipriego,lagi cötenti,dilasare a
dechiararequefte sottilitadead uno altro giorno.HorsuStregaseguitaparoleo. S T
R E G A. Sendo dunque cola giuntivediamo federelaDonnadel giuoco 1 d e l
l a quätita.Perlaquale bife gnachesiaportatounapartedopo laleradieffo corpoper
quelgrandeuacuo dinullaariariempiuto.Iperchedaqui uiin Afiatoleo uiaogni
impedimento della resistencia del insieme 12 20.Eglie staro Berno
molto conos al la 10 OL ud NI 10 Hal insiemeconilsuoamoroso:APISTIO Chie/coluie
STREGA. N o n lo so. M a soben questo che è uno belliffie m o h u o n o d i u n
a ricca u e f t e d i o r o molto ben a d d o b a t o. APISTIO. Seguita pur. STREGA.
Quiuiporrauamoal. sembianti receuendole,lecomanda chesiano pofte
rouradiunoscanno,edipoicicomandalidiamoindi sprégiodeIddio
dellipiedifoura,edipoianchoracúole che gliurinamo foura eche lifacia
motuttiliuituperii poffemo. APISTIO. O Diobuono,oimeche odidire?Chifu quele
Jotantomaluaggio huomo chetidequestesagradehoftie daportarea
coteftomaledetto,etiscommunicatogiuocot sciutoinquesto Caftello DICASTO.O
scelerato.O inico operuerfohuomo:fouidicoche credosiastatouno delj p i u s c e
l e r a t i h u o m e n i c h e m a i fi r i c e o u a f f i n o a l m ó d o. I
l p e t che hauendolo ritrouatoimbratato in mille sceleritadelo giudicai fulli
primieramente degradato,cioe priuato della compagnia delli miniftri di Chrifto
e dipoi ilconsegnai al Podefta,etello incontenente,segondola ordinatione delle
leggi,lofecebrugiare.APISTIO.Deh Streganon laffareil comenciato ragionamente.
Poimangiamo, be temo,ecidiamo amorofipiaceri.Hormaicheuvoletipia
intendere?APISTIO.Voglioche raccontiaparteper par teiltutto.Ma
primadimmichecosamangiatic STREĠA. Dellacarne
edellialtricibi,chefifuolenousarenellicon
uiti.APISTIO.Dondebaueticotefteuiuande:STREGA. Vecidemo dellibuoim a eglieben
uero,che dipoi resusciz Tano. APISTIO. De chisono&STREGA. Sono dellinor
ftrinemici etanchora cauamo deluino fuoridelle uegge e
delliuaffelliacciopossiamobere.Et dipoichehauemomant giatoe benbeuutcoiascun
addimanda ilsuoamoroso,cioe Demonio informadihuomo'perfatiffareallasualibidino
fa uogliae con huomenichiedeno lesuc amorose, anche el 3 Dimoni i i n e f f i g
i a d i b e l l i s s i m e p o l c e l l e, e giovane e in t a l modo
ciascunpigliaamorosipiaceriefatiffaallefireffrena, an del Tai pi na 5ell ap Tin
adi 60 laDonnadellehostieconsagrate.E quellaconallegrafaca oli cia e gratiofi
36 teuoglie.DICAS.Paiono am e illusioni efauole quelle che diconio
dellibuoi.FRO. Sonosimiliaquellecosedellequali narrafauolescamente colui.
APISTIO.Chicola: FRONIMO .Conosco chetuvuoilodicainuolgare,quello che e
scriccoin greco,Hor fucosidice. Vápoje caminano e cuoi,ç
muggislenolecainidellibuoi. APISTIO. Vetaméte fono simili. Chedifferentiaechicaminafouradellaterrailcuoio
del buc,e che moto libra m u g g i f f e n o e ftridano le carni m e z z e
cotte, da queftoprestigioefincaimaginatione,cioechepiegatala p e l i e d e l b
u e g i a m a n g i a c a, f a l i l c a f o u r a li p i e d i: F R O N I K
MO. Gócederonoli antichichemandaffelauocelanauedi taggio di Argo,etanchor
diflenoche diuinosu cauallo di Achille.MacoluichinonnjegaparlafsıXanho
cioeilca. Hallodi Hettore, iltimamochenegara ilPegaffo, cioeilca
uallocollealidePerfeo oilDedalo,ouero coluiloquale ci porto marauigliose fpogliedelmoftrodi
Libia,ilqualeAtrac ciaualatenerellaariacolle ftridentialitAPISTIO. Masetu c r e
d i c h e u o l i e f f a Strega, Per c h e f o r r i d j e t u n e s a i b e f
f e q u a d o c u l e g g i, q u a l m e n t e le Par c h a l i e p e i n e p o
r t a r o no Perseo: FRONIM O. N o mirido fe tu ftimichesiano facceque
Itecoseconacte del Demonio,mafibenmi rido,etmene fobe ffefecucte di che siano facte
per opera etingegno del thuomo lopensochenone /similemoftro,cioe difingere che
l’huomo o ilcauallohabbialepenne peruolare, odifins gerecheilcauallo habbiaintalmodo
lalenguachelapossa tiuolarlaepiegarlaperproferireleparole.cócioliachemol
siaugelletri senza alcunomira coloperopera egradeactifs,
ciodellhuominiapuocoapocoimparanodiprofericemol
teparoleecofifendouiulaiileproferiscono S.e dunquese inlegna dirivolgerela
lengua acoteftiaugеlletiper cotale m r t che proferisconol humane parole,quanto
maggiore menteseporradire chelopossanofarelefoftantieseparate osjano buoni
oreifpiritiecioe di poter riuolgere la lengua per labocca
dellianimalipercotalmodo che proferiscano dritamenteleparolesAPISTIO.Tu
dichequestofępuo fare. FRONIMO. Anche ilconfermo conciolia che solo
ciascundeeffifpiritidinaturaeguale.APISTIO Ilpuoise ftiprouarecon
qualcheeffempio: FRONIMO. Molto ben i pollo prouare, M a h o t a ne baftiano
raccontato nel fagta libro d e i N u m e r i,cioeche la Afina di B
a l a a m parloe.E dit conoeTheologgicheparloeperoperadellangiolo concio fiache
effanon fapeua c o s i lendoli quelloche dicesse, rivol tae conduta lalenguaadire
quello cheera commodo er ageuole per loeffercito delli Hebrei.D e cuine hauea
gouee noe curailbuon Angiolo;sicomeraccontalascritturaecosi b o narrato quefto
effempio solamente accio io tacci quelle historiegia'narratede quellibuoi delli
Gentili,che parlaro 00, APISTIO.DedimmiStrega.Noisapiamocomenon hranno
liDemoniicarneneoffadunque come mangiano, b e u e n o, e l u f f u r i a n o r
S a respond i prefto. STREGSA i c o n. me ame pare,
fonosimiliq,uantoallepartiuergognosealla carne,APISTIO. Patreftidarciuneffempio
diqualcheco fa c h e sia f i m i l e a q u e l l i suoi corpi. STREGA. N o lo so ben Ma
purpaionoaffaisimilialla ftoppaouecoalbambagio, quando e-coffrettoinsiemee
condeniaio.Cosipaionoquel lineltoccare,miasempre sonoimperho freddi. APISTIO. H
o r seguica piu a u a n t i. STREGA. P o i e r a u a m o satiatidelli carnali
piaceri erauamo portatiallenoftrecase.APISTIO. N o n tiueneuam a i
quiuiaúisitare: STREGA.E fpeffeuola te. Anchor qualche uoltaquando andaua
almercato,eritor naua accompagniauammi.E ricordammicome ritornando
acasaungiornofuiltardodal Caftello effendoegliinmia compagnia,tre uolte
pigliaffimoinsieme amorosi piaceri auantigiongeflia casa. APIS TIO. Quanto
-e-discottola tua casadallemura del Castellor STREGA.Circadiun mi gliaro.
APISTIO. Danque non emarauegliafelfimoftro effomaluagio Demonio informa
dellamolto libidinofa paf feratM a pur Fronimo,iotedicoiluero,anchora non posso
capirceon ilmio ingengno cheuoglionosignificarecoretti
tantosozzipiacericarnali. FRONIMO. Tidirolamiaopi pênione Iopenso chefaccico testoeslo
ingánatoredellhuor menipersatisfacealleffrenateuoglie diqueste facciate et
impudichemeretricilequalinonhannoiltimore'de Iddio, Chi e
quellofienochefacaminarelhuomosecondoilraa gioneuole appetito
egiustodifio.Ilperché remofio tantideta t o f r e n o d e l l a r a g i o n re
i m a n e l h u o m o c o m e u n o a n i m a l e hh LIO 10 Eté 11 1 TO
xrationale, efi comeunabeftia, ecosidipoidesidebraram. ma et anchora
cerca le cose da bestia,etineffefedeletra. APISTIO. Ne
anchepercioeglieposibilechepoffacapite con lanimo donde poffono hauere tanti
lasciui piaceri DICASTO:Chehabbianograndipiacericredochelpoffa
interuenireperpiu cagioni,dellequalialcuneneraccontato
Jarrelaffaropermaggiorehonefta. Conciosiachehauemo a parlare sempre in cotalm o
d o,eprencipalmente incolga k cheanchorlapudica orecchiauipoffaftare.Puodunque
guestointeruenire, almiogiudiciopercheseglidimostrail Demonio
maladettoinunamolto aggradeuole figura,cioc belladifaccia colliladrjocchiecon
ilgiocondo uolto con ciofiachepuocoimportaalDemonio difingeree difigura. Re una
formadiariaofozzao veramente bella, ecosifigura te
formeficomeparepoffonpiacereaquellicheuuoleinga nare
Ilperchecofilosinghaetiraquellemeschinelledonni ciuolea fecon effa
fintabellezzaecolliocchicosifigurati, et conlafciuifembianti. Et anchora acciochemaggiorment
tele ingannano fingonodieffereinamotati di loro.11fimile fannouerfodiquelli
sciagurati huomeni,diinoftrandosi in forma di belle damiselle,ecosi uifanno
apparerecuttele proporcionidellemembra,etuttelebellezze,etuttililasci.
uisembianti che desidarano accio che meglio glipoffono ingannare.
Dipoianchorgli fannoparerequellipiaceriche
hannoconqueftefinteimaginisianomoltomaggiori che
poffonohanerecolli'uerihuomeni,econ leueredonne: Hor pensacome sono
inganriati,etuccellati dal Demonio.Ecoh n a r c a u a quello scel e r a t o, e
(maledetto incantatore di Don Benedetto auantinominato.IIqualeraccontauaqualmeno
tegliparcuadihauerehauutomaggioredelectationecon il Demonjoiqueftafintaimagine
chiamatadase Armelina checon tuttelalaifemine,collequalihaueamaihauutolara
uipiaceri.Etaccionon pensaftiche con puochefefuffii m pazzatio o
tiuogliodireche questafozza bestia,piu presto cofilo chiamaro che huomo anchora
hauea hauuto uno fie gliuolodella propria sorella.Ionon dicocosache sia secreta
cóciosiachetuttequeftecosecheraccoratosonoiscrittenel ljgrocelli U p r o t e f l i fatti di lui. Era tan t o i
m paz z i t o d e t mt o i s e r o h uomo in queftodiabolico
amore,epercotalmodo beftialme t e brugiaua di cotefta fua Armelina. cioe del
Demonio in do ficomefannoduoicompagni insieme benchenonfuffo ucduta
dalcunoaltro. Ilperchefendouditocosi ragionare, n o n sendo ueduta quella
pensaua chiunque ludiua chefufti doucntatopazzo. Debuditelescelerateopete
checostuifa ceuaperamoredicotestasua Armelina nonbattiggjaua fanciulliniquando
glierano portati fecondo la conluetudi medeChristianiperdouerebattiggiare, ma
hauendo fino de battiggiarliconliremidadaacasasenza battesmno, o n consacrauale
hoftic quádo diceualam e s a benche fengeffe diconsegrarleecolligefti,econ un
certomormorio,perna fcondere lisuoifrodi,ecosifaceualeadorare alpopolo,non
fondoconsegrate.Veco-e-chesepur qualcheuolcadritame t e haueffe consegrate,
alzando la sagrada hostia in alto per dimostrarla al popolo ci o e
ilcrocifissooaltrafu gura collipiedi riuoltiinsuinuituperioetiscerno de Iddio
edallasuafantiffimafede.Dipoileconseruauaperdarlealle
fccleratefemine,etallimaluaggihuomeni,accioleportaffe
toalmaledettoetiscómunicato giuoco.E coliquellodiabo tico ebeftialeamore era
causa dicantipeccati. Anchora -e nellam e d e m epazzia unaltroftoltoe
pazzo,chiamato ilPi heao ilqualetantopazzescamente amaunodiauolodetta dalui
Fiorinache seglidimoftraiu forma de femina,che fouente hămidettoiftaminandolo
piupreftodiuuolerepa. siteognimartorio,che abbandonaretantabelligimafer mina
conlaqualehahauutotantiamorosipiaceriquarant taanni. Eper
cotalmodo-erdivenutoatantapazzia chenå eredeefferaltroIddicohe
quella.Vedetiquantosonoinui, luppati costi meschinelli h u o m e n i nelle reti
del dem o n i o. Etanchor non pensati chesolamente commettano cotefti
fceleratispreciatori dellafantiffima c triomphacifima fede 1 formdai
femina,chesouentelhaueainsuacompagniaspas leggiandoper
lapiazza,ecosiandauanoinsiemeragionan f i c o m e sisuolela alząua con lafigura
luie-figurataridottaalcontrario 11 1 hh ii f el di Christo,dellipeccaticircalasagrahoftiaereffagloriofiff
m a f e d e f e n d lo e g a t i d a q u e s t o p a z z e s c o a m o r e, m a
a n c h o c o m m e t c e n o dellaltri male opere senza numero. C o n c i o
Siache cobbano lecose dealiruiimbrattano ogniluogo col lisuoimaleficii
esouradelcurto sonosommerli coralmente n e l l i a d u l t e r i i, n e s t u p
r i i n c e s t i e fornicationi. Non hanno co spettodicommettere lipeccati con
pacenti,sorelle,fratelli et altrepersone.Vccidenoli fanciulliasciugano ilsangue
di quellifannouenireedescendece dalcieloacerbiflimetemi p e s t e g u a s t i n
o li c a m p i e l e frutta con l a g r á d i n e, e g r a g n u o s la con
tanta ruina, che pare se ferebbono portati piu m o d e l Atamente quelliche
anticamente incantauano le feutta
controdelliqualidipoifufattalaleggeescrittanelledodeci tauole. APISTIO.
Dunquenon folamente sefforzano di daredannoallefrutta,etallealtrecose
cheproducelaterra ma ancheracercanoperogniuiadinuocereanoicon ilcic loe con
laria checi copri: Caccio so. DICASTO.Addimandalotua dei, APISTIO.
Haigiamaicu Stregacommoffolituonice, Catto balenare laria? Sifpeffeuolte.
APISTIQ. Hai tu guaftele biade con la grandineouerotempeftas STREGA. Nouna voltamalouentefi.
APISTIO. Inchi modorSTREGA, Fatto chehauea ilcerchioeccocheinco t i n e un u ei
n i u a i l m i o Ludovigo, ma non informa di bu o m o mainfigura di fuoco.
Allhoracomençiquenodiscedere del lariafulgore,efenteuasituoni,ebalenaua il
cielo edipoicas Scauala grandineetempeftasouradellicampie prencipal
mentesourade quellicheeranonoftrinemici,delliqualide fiderauafufferotouinatie.guafti.APISTIO.
Deh dimmi, peramore:decuifaciuicucantarouina: STREGA.llface uaperodio,enon
peramore. FRONIMO.Miricordodi hauerlettoneuersi comee Demoniifaceuanoli
ftrepiti,co fidicendoloingegnosopoetaOuidioinquestomodo nos minádolisottoilnome
delli Dei, oueroquellimaleficiiicuc.. cedella persona dieffo.
Perqualagiutoquandouolfaftrenfor: Ifiumiinfoncisuoitornare e mosh Inftabelcofe,
ftabelfompreuenfi, Regietto,euenci echiamo quandopiacemmi. Ma
questanoftraSirega,piupotentechMeedeaeccitoan thoralatempeftae grandine
elaconduffefouradellebia de. Anchora tirano gli animi dellbuomeni'ne peccati
colli fuoilafciuipiaceri,perchelosinghanolisentimenticon effi.
Ilperchehomai-e-qualirinouatoquel detto diLucano in queftonoftroCastello
cosidicendo, Ārfenoiuecchi dillicitafiamma Netantola bevanda nofsia uale 1.
Quanto la modella caua l l a e r e t t o Ri f a t o i n f u c c o, l a m e n t
e f e i n f i a m m a: E perisce incantata,né piu fale Deluelen haufto pura del
defetto. Eraquelmaluaggio Don Benedetto,decuihauemo ragio nato de annisettanta
duoi,quando gliscacciaflimolafiami niadelfceleratoamore con laqualetanto ama
quella sua Armelina,o quellofuoDiavolo,informadifemincaon una altra
grandiffimafiamma uscitadiuna granftipadi legoed E cosiromaseturcoincenere.E
questo-e-ilmodo dascaccia re u n fuogo con laltro.Vine-unalcroin quefto fcelera
s a m o te rommerfochibaoltrodisettanciqueanni,etanchoruno altrocheha
vedutooccanta folfitü,Liqual andauano aldet toprofanoetifcommunicatogiuoco
delDiauoloottouolre m e s e l e c o s t -e f t a t o c o n o s c i u t o pe r t
e f t i m o n i o e c o n f e f f i o n fiede molti dieffriniquiemaluaggihuomeni,chenon
sono folamenteunao due puero treStreghe,m a sonoingrande moltitudine,ecofiche
non sono solamente ute o quatro stre gonierscelecacimaschi,liqualiuannoa questo
indiauolato giuoco,ethannoquestiprofanipiaceri colli Demoniiinefli gia
difemine,m a egliesutotitrouatopercerto comeuiuar noingrannumero ecin
granmoltitudinpeercotalmodo che credono secondo la loro iftimatione che ui si
ritroua a quefta maledetta congregatione oltro di due migliaradi persone
APISTIO. Oh chefenteio diceslaantiquitasola, mentebalaffatoinscrittoditreouetquarto
Maghe digrå Caccio conlamiavoceilmalfe fpiacemmi Carco
dinebbie,enebbiealseren genero m a ame parechenenoftri fama,
giorniseritrouanomolte Medee,no puoche Candie, nó una sola Ericho. FRONIMO. Tu
cinaraucgliiche se ritrouano-secento M e d e e con cijoria chetusaibecn h e son
inuna Citra della lialiadodece
migliaradiCircecioedimeretrici,lequalisonotenuefora lenondimenotunon
timeraueglidieffe. APISTIO. Ben bente intendo.I percheperbuon rispetto,no
bisognaalati mente cercareouero inueftigareil sentiment dellpaarabo la
perlinascostiluogbj. FRONIMO. Diroe anche due pa role.loistimo chehabbiaIddio
con sua gran prudemtia uos lutofermareestabilirelasuafanciffimafedenelliapimi
del lifideliindiuersimodiperfarecrescerepiu ampiamentein ogni canto la christia
n a religione in questo infelice tempo, Helquale pareuadiognicoladimale in
peggio. APISTIO, Inchemodo FRONIMO.
Prencipalmėteincemodi.E
primaperilfucceffodellecosegiapredetteetannunciate,de poiper
limviracolifattidiuinamente epoianchoraperillco prireche ha
fattoladiuinaprouidentiadellescelerirade de de corefti indiauolari riti,e
maledetteopere dellantidecco molto bialme uole giuoco.
Giahauemouedutouenireapun tole sanguinolenti guerre la crudele fame e carifteia
lahore tenda peftilentia licomegia auantjerano state annontiate diuinamente
permoltjarniHauerebbono forsipoffutocre derealcunifacilimenteper cotalmodo
oppreflidallagrans dezza di queste tribulationi che fusseroproceduteo casual
menico fatalmentedate calamitadi etribulationifelnon fuffisutonuouamente
fuegliaraeteccitatalafedeinquesto
noftroCastellocontantimiracolifattidallagloriosaVecgie ne Mariamadre
deIddio.Lequalicofeficomedaseconfer m a n o,efortificanolafede
Chriftiana,cosianchora per acq denslaconfeffionedicotesteAtregheglida uigoria
eforza Per la quale confeffionee per il gran numero delli'teftimos nud i a m e
n d u o i li f e f f i c i o e c o s i d e l l i m a s chi com e d e l l e f e
y mine,cognoscemoapettamentequalmente liDemonijco
donemicietaduerfariidellafedeChriftiana Laquale e di tanta forza chequanto
maggiormente e con ognisuafor za,aftutia p e r fare di poi dello
unguentod a ungere di luoghiuergognofiquando uogliameoffereporcati algiuos co.
DICASTO. Acciononiftimatieffercoteftefavole eche fano sonniio
imaginationiechefianosolamenteillusioni, e non
siainverita,erealmentecioèdiandareper lecase di q u e f t o e d i q u e l l o a
d u c c i d e r e l i b a m b i n i, u i d i c o q u a l m e n t tefono
ftatoritrovatidellifanciullini,ben certamenteinfen ci,cheanchorpigliauanolapopa,etillatte,liqualihaueano
ledita forate,elepiagheebucchisottoleunghini. APISTIO.
RefpondiStrega.Aflaimimaraueglio chenon greffino,eche cridaslinodetti
fanciullini,quando uoili trag tauatitantomale,echelipungeuati.STREGA. Sonoal
Ihora per coralm o d o indormentatic h e non feiitino. M a dipoiquando sono
fuegliaticridanoad alta uoce e piango no e Aridono,efeinfermano,etanchoraalcunauoltamon
teno. APISTIO. Perche non muoiono tutti. Perchelifanamo.Conciosiacheglidiamodelligioueuo
/ lireniedi,ecofilikberemo.Hiperchenetiramograndiguza dagni. APESTIO. Chi uiha
infignato questi cemedii STREGA. E demonii. APISTIO. Questo a meno n p a s
teverifimile. FRONIMO. Eperche.Non faitucomeit Demonio
conosceleuirtudedelleherbe,lequalianchora za aftucia,etingannilacercato
di rouijare e di ofcurare, tantomaggiormente se alza erefpiandeperognilato.
APISTIO. O quáto ben lhai codutto questo tuoragionaméto. M a horfu
dimmiobuonaStrega.Vccideftigiamaiuerun fanciullorSTREGA:Non un folo,m a
simolti. APISTIO. Conilcoltello oueroconlamazza. STREGA.Con laagus
gliaecollelabra.APISTIO fucbimodor STREGA. Ine trauamodinottenellecase
denoittinemici,perle porteet usci cheeranoapertia noi,dormeudo e loro
padriemadei cpigliauamoi fanciullini,econducendoli appo delfuogo,
forauamoconlaaguglialortoleunghi,dipoiponendowic fabraasciugauamotanto
sangue,quantone puo tevamote n i r e n e l l a b o c c a. E parte d i quello n
e d e g l u t i u o, c i o e ilm a n dayagiùnel Romaco epartene
riseruauoinunabuffua o inuno uafetto piaa comeptatitis hanno
conosciuto lhuomenisanchortudebbifaperecome
giafuconoscrittemolteregoledamedicare nel Tempioda
Esculapio,lequalidipoilecolse Hippocrate,ele Scriffenelli suoi libcisicome citrouiamo.Anchor
sono fccicci molti g i o ueuolireinediciosialle piaghe,efedice,come contro
delli geleni,nellehistorie che furonoritrouatiperlifonnii. E puf anche leggiamo
qualmente soleuano dormire nel tempia diPasipheaenelláltri Tempii delliifimati
Deidalli Gentils ficomegiapiu auanti diceflimo,quellichi cercauauo li res
mediicontro delliinfirmitade,sapendo chegliserebbono
reuelatiperilsonnio.Ilperehetunon tidebbimarauegliaro
seanchoranerempipresentiglireuela ilDemonjoliremes diiaquestariaemaluaggia
generationedihuomeni,edifc mine lequalifrequêteméreconuerfano con lui,APIS TIO
Dichecosauidannospecáza,douiatihauerdaloro:S T R E GA.Longa
uita,Grandedoujtiaericchezze,econtinui pia cericarnalilequalihauemo,ene
pigliamo delettatione. APISTIO. Deh dimmiperquella fede chenonhai.Ti dok
nologia maidelli danaris Gia m e nc donoe ale quanti ucro'e che disparfono.Pur
seruai alquanti puochi quatrini.APASTIO.Veramentesonograndiricchezzeco
tefte.Dehpensachecosapoi serebbe felteprometteffeli T h e s o r i d i C r e s o
q u e r o ci promett e s s e m a g g i o r e d o u i r i a d i quella di
Alessandro Magno,cóciosia che era portato lo ora. diquellodaquarantamigliara
denuli,five-uero quello che scriueCurtio,quero ficomediceilPlutarchoin
Greco,ilqua lecosidicoinuolgarepersatisfarea ciascuno eraportatolo
orodieffodadiecemigliaradigiogatiOrichiisulecarrette erdacinquemigliarade
Cameli. FRONIMO.Paredicon tentarsicoteftauilee fozza fecedihuomenie di
donnesele d o n a t a n t i p i a c e r i q u a n t o n ó h a u e a S a r d a n
a p a l l o,n e S m i n dre,ne Stratone.E cosipiuolicanon cercanopurhabbiano,
queftipiaceridiabolici. APISTIO. Almáncoquelleerano h u m a n e e u e r e, b e
n c h e u e r g o g n o s e e b i a s m e uoli, m a q u e ftedelle Streghesono
coseda ridere,eda fars-beffe,esono: menzogne finteeuane. FRONIMO. Tunondirai
che quellesianowane,setu ben considerarai questo uocabulo pi 10 nie lo comentátitieecimaginarie cioe
parte finte,epartenuoue. DICASTO.Iftimo chequelle siano inparteuere cioe fon
dareinquellacosache-e-erinparcesianofallaciefinte,enó firmate
inuerunuerofondamento,emaggiormente circa diquelle
coke,dellequalenarranoalcunicomesecangiano in forma diGatteetinaltre figure di
animali,Ihuomenic d o n n e di questo maledetto giuoco,etche resuscitano libuci
che hånomágiato,sendolipoidatodellauerga dalladonna o dal Signore del giuoco,
fouradellapelledouiuisonoposto d r e n t o To f f a d i d e t t o b u o
mangiato. I perche f i a t i c e r t i c o m e tutte quefte cose sono
imaginacioni illufioni,etcose che cosifaapparere ilDemonio Icelerato,et aftuto
chesiano, mainueritanonsononeanchoraessolepuofare.Ma che
fianoalcunauokaporcatiperariaetchefouentemangiano
beueno,etdianslibidinofipiacericolliDemoniicofiin for
madimarchicomeinformadifeminenon e-danegare, neanchordariputarecosa falsanecontrariaallauerita.Puo
trebbi narrare afraicose confermate da digniffimi testimo nii fe v o n hauefli
paura che poi ui lamencafti di m e,d i c e n do
cheuihauefliingannatorobbandouiiltempoconcefloa uoi da douer udire la
Strega.APISTIO. Ti priego,fiacona tento di riferuare cotefta curiora
disputacione per infino a d o m a n e. DICASTO. G i a -e-diputato quello ad
altriragio.namenti,purmolticuriosi.Vero.e-fetu purtanto brammi deintendere
questo,fiaticontétodidisinarehoggiconmieco, benche fiamonella uilla non
mancarano imperhotandi cibiquantoseránoneceffariida iftinguerelafame. FRONIMO.Non
-e-darifutareilconuitodelloamico,douisiritroj u a n o a f f a i d o t t i r a g
i o n a m e n t ib, e n c h e p u o c h i c i b i. C o n c i o
fiachere-moltopiuaggradeuoleallifpiritigentili,etaquel l i c h e s e d e l e t
t a n o d e l l a d o t t r i n a il c o n u i t o o r n a t o d i c u r i o l
i parlamenti chede uariera edi moltitudine di uigande. APISTIO. Piacémmi
assaiciascunadicorefte cose.Perche c o n u n a si p a s c e il c o r p o e c o
n l a l t r a J a n i m o. D I C A S T O, HorchiederipuruoidallaStregaquelloche
vipiace,laffal. to coftuiquiVicarioetinmioluogo,perinsinoritornaroda noi.Perche
uoglio impore alsopraftäte della mensa,quello c h e d e b b i a f a
r e. APISTIO. S u S t r e g a d i. H a u e a il t u o a m o r
roso'uerunsegno,con ilqualeaddimandatodateuenesse n e l c e rchio: STREG A. S i
h a u e a in q u e s t o m o d o. c h e o g n i uolta chemi
fuffidiscostatadalli altri,ecosi sola due uole Ihauesichiamato
incontanenteuiueniua. APISTIO. M a per quale cagione non treouero quatro uolte.
Non loso.Coferaammaestratadalui.Maanzimolto for teme ammoniua
nólochiamassetreuolte. APISTIO.Chi ne pensitu di questa cosa Fronimos FRONIMO.
Questi pattidel demonio daluipendeno,esonoin fua dispositio ne,enon
solamentequestipattimanifefti,m a anchor li occulti. D e l l i q u a l i il n o
s t r o f a n t o D o t t o r e A g o s t i n o i n s i e m e c ó a l c u n i
altri Dottor i n e h a n n o scritto. Non dimeno p u r io c t e do chenon
sianaturalecaufainquesto numerodi duoine a n c h e p e n s o c h e u o g l i a
dimostra r e c o t e s t o il m i s t e r i o d e l l a
Diadeosadelladualita,dimostrato da Zarera Caldeo,per Pithagora alli Platonici. O liacoftuida
chiamare Zareia, frcome diceOrigenenellibrodelliPhilofophimenoni,o fa da
scriuereZarata ilcheula PlutarchoCheroneodesignano doilMaestro di Pithagora, dechiarando
una parricoladel Dialogodi Timeo oueroanzisiada dire Zaradaconciosia
chenellibrodelleleggi,lanominatodaTheodorito Theo logo ZaradonM.ache
cosaimportaal Demoniodidisputa rediquestacosaediquestonome loistimochequiuigia
ce nascosto qualche inganno,equalche aftuta frode delD e m o n i o m a l u a g
i o. O u e r a n c h o r i o p e n s o c h e il f a c c i a c c i o n ó se
accordi con lavoce della santiffima Trinita,e cosi uuole
pareredinonapprouarequella.LaqualeeDio uiuentein sempiterno.O
forsianchorailfaacciotiraetauertiscamag. Giormente Thuomodallaconsuetudinedellecerimonie
del la nostra religion e Christiana, A n c h o r a il puo fare per quale che
altro ingannoetfro de il quale noi non sapiamo ritrovato dalli antichi Gentilie
Pagani sottoilnumero pare.Loqua leuuoleuanofufficonsegratoalliinfericioeallispiritierano
giu nel profondo elo dispare allisuperi,cioe allispiritihabir tauano
Touradellicieli.APISTIO.Aftaisonfatiffatto.M e dimmi Strega.Conosceuitudiesser
ingánatada questotuo amoroso STREGA.Non mai.APISTIO.Come-e-posli! b i le cotesto: Quando tu vede u i d e s p a
r i c e l i d a n a r i, c h e c o s a ittimauitur STREGA. In chemodo de
parefsinonon con, Sideraua,Vero-e-cheeglidame ritornaua,etmicompara
uaconmolciamorofipiaceri,epercotalmodomi legaua, chenon
pensauaaltcochedela.APISTIO.Che cosaaddi mandaua che uuoleflida tequando
tiprometteua ianitecol se,quandocidayatantipiacericarnali,echefingeuadiesser t
a n t o g r a n d e m e n t e i n a m o r a t o d i t e s STREGA. N o n a d i.
mandauaaltrodameeccettocherenegasselafedediChri/ Stoenon
uuoleffehauersperanzapiuinello,ma cheme ilu genocchjassealuieloadorasse
eloteneffeper Div. FRONIMO. O iniquiilimo,o fpurcissimo,o fceleratiffimofpiri
to detto ueramente dalliHebrei Sathanaflo ouero aduerfä rio,edalligreci
Diauolo,edalliLatiniCalunniatore.Se puo pensare maggiore calunnia,emaggiore
ingiuriacontrade iddio quáto eche faccicanta forza questo fcelefto colle fue
maluagie parole diuuolerlirobbareladiuinita,echelauor
gliaattribuireasecontantaatroganza,econ tante bugies IlpercheforsihaamatoquestonomediDemonio
osiaper dimostrarechehabbiala scientia ouerper daretimorealle creature.Eglie
uero cheecosasupremante aluipropria efa miliare ditessere ordinaree comporre le
isisidie et ingani, Coliparimenteingannoilprimohuomo,sottoilnomedelli Dei
donde-e-uscitoiluocabulo del Calumniatore,ficomedi
ceGiuftinophilosophoemartire. APISTIO.Sa Stregadi, Inchemodo erasu
discernuraeconosciutafralialuribuoni Christiani:STREGA.Non
uierauerunadifferentiaframe elialtri.AndauaallaChiesa,miconfessauaneltempo
della QuaresimaauantidelSacerdote decurtiemia peccatieco cerco che diquefto
Dipoi andauá collalori a comunicarmi alloálcare.E cosinon
eradifferenciaalcunaframe elaltre donne.Non uierauaane coteftecoreilmio
amoroso.Sola. mente eglimi comádaua che douessedirealcune cosepian
pian,enafcoftamentefacessealcuni arcilequalicosedetree faite altro da nienon
uuoleua. APISTIO:Racconta iltur to aparteperparte.Sendo nella Chiesane giorni
delle feste,comandauaame cheleggendoilSacerdote lamessa
adaltauoce(sicome;Tesuole)diceffeiopianpian ii ii Hon
euero,tunenientpierlagolaequandoleuauaquel lola hostia consagrara soura del suo
Capo per dimostrarla atuttoilpopolo acciochesiaadoracae reuericamoleus
cheioriuoltafi liocchialtrowe,enon laguadasse, etanchor
micomandauarivoltafsilemani dopo lespallee piegaffele deta sottoleueftimente
incotestomodo,sicome uoi uedeti io facio.cioecheglifaceffele
ficca.Dipoianchoramidiceua.
nondouesliscoprireuerunacosadellinoftriamorofipiaceri, al Confeffore n e
anchora di quelle cose che pertengono al giuoco.Egli iftimaua poiche non
importafle cosa alcuna se ben uuoleffedirealConfefforelealtrecoseoueronon ledi
ceffe.Voleuaanchora,chesendoandataa communicarmi, fecondolausanza
incontinentisendonimipoftal hoftia consagrata nella bocca, la giraffi fuora
fingendo di asciuca r mi la bocca e
laconferuaffenelfacciuoloperportarlaalgiuoco, accioilbeffalimo,
etischernissimoconquelli fceleratim o di,sicome disopra disse,etanchora perche
il conculcassimo collipiedicon quelliuituperiigiaauantiraccontati.Dipoi
portauadicontinuo due hoftieconsagratenella miaueste culite,percheellome
diceuache uieratālauectuineffefen dole portate in quel m o d o senza
riuerentia,m a anzicon uie tuperio,chemainonpuotrebbe
confeffarelinoftripiaceri, neanchoraaltracosa delgiaoco,benchefußiancheinterro
gata dallo Inquisitore n e con tormenti,ne con altrimodi. N o di meno
aftreggendommi imperholo Inquisitore em e pacciandommidiuuolermgirauemente
martociarefenon confefauaquestenostrescclerate operemi commando quel demonio
maluaggio, legetraßein queluafo,loqualehai uea portato a m e il Guardiano della
pregione per farele mie necesitati.APISTIO. Facefti questoiscómunicato.com
mandamentos STREGA. O me mischinella, et infelice's bubbidi.Ma non ui rencresca
diudire una cosamolto hori rendae pauentosa cheoccorse.Rompendoioinfeliceescia
gurata quellesagratissimehoftienelfterco,con unuaerga, vide uscire da quelle il
vivo sangu e. FRONIMO. Che odi dire hoggi: Puoesserequesto
Credocercamentechemai piuno udiranolemie orecchie finilioperefcelerate etis
communicate. DICASTO. Andiamo un puoco nel giardino
ecosiforsicaminandoefpasseggiandouiritornara lo a ppetito. H o r f u r a m e n
a la strega nella pregione. APISTIO. Inueritauidicochenómaihauerebbecreduto che
fe poteffino,non dico fare,m a pur penfare tante fceleritade, tantemaluagioperee
tante ifcomunicate cose,quante ho udito hoggidalla Strega.Ilperche avanti
facilmenre haverebbe perdonato acoteftagenerationedihuominie didon ne credendo
chefufferocondurrida qualche leggierezza o ueroda qualchemancamento diceruello
adintrareinque fto errore etanchora iftimaua che fusserocotefteStreghe e
Stregoniingannati dalle apparentiuisioni e illusion e fittio nidelDemonio
etanchora(iodirolamiaoppenione)non giurarebbichenon sianoingannati, ma
hora11comebuono e fedele Chriftiano come sono itato eth o creduto quello, che
debbe credereciascunuero Chriftiano, non mai con fentirebbifedouessedare
uenia,neperdonareacoresti ini. quifcelerati
emaluagginiolatori,efpreciatoridella nostra fantiflimafede. DICASTO. Se
tidimostraroche cotestoap pertenne alla Religione Christiana di douer credere
che sia noinuerirafattedaqueftifcelerarihuominialcunemaluag gie opere etseiɔti
conducero tantiteftimonii, ilperchne o n puottaifaredinon credere efferemolte
cosenellantidetro giuoco chesonouere,enonfintene ancho imaginate,m a Li come
siamo consue t i d i parlare che siano reali io penso che dipoinon
farajostinaraméter efiftentia. APISTIÓ. Ancho ranon sepiegailmio
animopiuinunaparte che nellaltra. DICASTO.
Dimmifettepiace,Vedeftimairefuscitare municate.APISTIO.Anchora
iosondicoteftaoppenione dinonudiremaipiufimilisacrilegginesimilihorrendeope te.
FRONIMO. Dehperamore deIddiopartiamocidi quietandiamoincontrodi Dicafto,
feltipiace,cheritorna danoi. APISTIO. Moltomipiace Andianio. DICASTO Hoben
comeuafecifatiffattir Vi-e-anchorarimastaalcuna cosa da dovere intendere.
FRONIMO. D e h il n o f t r o D i cafto,iotedico chepercotalmodo siamostomacati
cheno hauemopiubisognodipranso.Iotesoben direchesiamo per una uolta
sariati uerunmorto. APISTIO. Non maihoueduto tantomira, colo.
DICASTO. Creditu che possono resuscitare e mortis FRONIMO. Non lonegara no.
Conciosache-e-quefta cofamoltocancataefouente ramentaca dalli Poetietand
chora-e-scrittadalli Philosophi, e maggiormente da Platone. Liqualinarrano come
resuscitarono limorti,etusciros no dell’inferno. APISTIO. Ne ancho per queste
cose m i acqueto,incoteftaoperachi-e-ditantomomento. Ecolino
credoalliPoetinealliPhilofophidicioma libenaluange lioDICASTO.Io
tiuoglioproporreanchordelliefsempii dialtracosade cuinonlefamentionenella
fagrascrittura, Dimmi credi tu siano uscite le naui dalle Gad i cioe da quelle
due Isolecheso non elfinedella Bethicanellaetremita della terra
noftrauersolooccideniedouife diuide la Euro padallaA
fricaretanchorchesianouscirefuoridelportode VlissiponadiLusitaniaosiaPortugalljareche
quelleriuolte versiol Zephiro siano stato portate da circauentimigliara di
ftaggi,o piuomanco fiacome silioglia,perinsinoa quel
larantoampiaterra(lagrandezzadecuianchornon fecor nof c e) e cosi portando le
hora il Zephiro per il mare atlantico
siano giunte allo Indico feno. APISTIO. Si lo credo. DIGASTO.Tu locredi.
MadimmiacuilocreditAPIST. A tantimercatapti liqualiraccontanoin che modo hanno
fattotaluiaggio souradellelarghespaledelmare colle 11o dantinaui. DICASTO.
Haicu maiparlatocon quellis. APISTIO. Non ho gia ragionato con quelli ma pur
alcunayol ia ragionando di cotesta cosa curiosacon quelli liquali h a uerano
udito daquelliche hannonauigato per detti luoghi lo diceuano,etconfermauano che
coli era. DICASTO. Il mio Apistio dimmi non ti hauerebbono poffuto ingannare
quegli. APISTIO. Deh, no chi serebbecoluichi dubi tal, che l’huo m e n i gravi
e gia maturi di conseglio si d e l e tra s s i n o d i favole e di menzogn e s
DICASTO. e dunque io producero quiuinelmezzo non menore numero ditestimonii
dinon manco grauica:edinon manco.oppenioneet istina tione,de quellituoi
liqualihanno cófermato con giuramer to come. Sono portate algiuo cole streghe e
li stregoni, come li demonii danno amorosipiaceriállhuomini in effi g i a
d i donne et alle donne in figura di huomini, e cotesto Thanno havuto dalla
bocca dies li stregoni e streghe conil 20 line old od sagramento
costretti chene dirai esera tu poi fatiffatto. FRONIMO. Se potrebbedire
ueramenteche coluinon fussiin talmodo satisfatto,fuffioscioccoo pazzoouero
oftinato. APISTIO. Deh pertuafede di'per quale cagione. FRONIMO. Percio
chequando sono moltidiunamedeme voce, 11on pare c o n u e n i e n t e c h e sia
u e r u n la d e b b i a n e g a r e eccettosilnofussida qualchebuonaragioneper
cotalm o po costrettolaqualehabbiatåraforzacheportagettareal baffo
quellaoppenionecosiconfermata ditantihuomeni. Jlchecredotunon
habbi.APISTIO.Questatuaragionc h a puoca forza in quelle cose che paiono
louerchiare lefors ze dellanatura,m a ben affaine ha in quelle cose ne ueneno
nellulodellhyomo.Ilperche non ho fattodifficultadi crede
requelviaggiodellenauidiSpagna nella Indiaetaquella
terranuouaecofiaquellialtriluoghima benfogran diffisculta in credere il giuoco
di Diana. FRONIMO. Puo' esserre uno molto maggiormente contrario a quelli che
raccontano il viaggio della India che aquelli che narrano I givo;
codellanotturneHecare cioediDiana.Concioliache dets.
touiaggiononfugiamaipiùperuerun modo conosciuto dalla antichita,m a solamente
furono ritrovatialcunipuochi segnali con liqualidicono gia giongeffe non soche
naui dal JaIndiaal litto di Spagna. M a hora senauigadella Europa per il mare
di Ethiopia nella India. Eco si hora gia f o r o s r o
gnatiiporti,etilittinellecauoledepinte.Anchoraalpresen Refono ftato
ritrouatealcune Isoledi marauigliosa grandez za chemai non furono conosciute
dalli antichi.Et anche nonfumai ramentata nescrittaquellaampiaterra,emol to
marauigliosa per lasua grandezza retrouaraquesti anie ni paffatiLaquale, fefusiAtataconosciutadalliPhilofophi,
liqualiseimaginauanoesserepiuMondi nellordinedella natura,forsicon maggiore
ragione hauerebbono dimo, Atratolaloropazzia.Delle qualicofeinouamétecontantefa
ticheritrouare'non hanno fattopur uno puoco dimentione o Strabone,o
Ptolomeo,quero anchora quellialtri;che for no suco
reputatipiufauolatoridiefli.M a delle Streghe ne fattochiaramentione
nellilibridelliantichietanchor delli moderni.APISTIO.Io lento, m a nó
foimpechoin chem o do,apuocoapuocomouersilanimomio accioconsentialla quaoppenione.Vero-e-cheuolétieriudireieteftimoniipro
mellida Dicasto diconducerliauantidinoinelmezzo,ec a n c h o r a d i s i d e r
o d e i n t e n d e r e d e l l e r a g i o n i se ne ha della l e tri,olcro di
quelle che ha detto. FRONIMO. Deh il mio Apiftio tu debbefaperecome-e-fegnodipuoca
Atabilicadi animodiuacillare,erdipiegarsimoquiidimo riuolgerli indimo
fermarsiedipoimouersidalluogodouieraferma, to. Conciosia che quelle
cose,dellequaliauanti diceuamo. Senonpareuanoateuerepurpareuano imperhomolte fi
milialuero dapoianchoracontradiceuie dicenichemeri tamente era da
esserecontradetroda tea similicose, ma ho ta c o n una certa inclinatione di
anim o confeffi dieffere tirar
toesforzatodidouercósentireallanostrafentétiaetoppeni one. llpercheame
pare(perdonamiperho)chemeritame tepuotreffieffernuotato diinstabilita
eccetto,setunon ha) ueffiusato iconia,ouero simulatione,e ficcione. E cotefto n
o serebbe meraueglia, perchetuseiusatonellifintigiuochide gli Poeti
etanchoraseitumoltoeffercitatonelliDialoggidi Socrate.Perilche interujene che
lepersone sono usate in der tilibri, onon maio uero con gran difficulta
sepossono rimo ueredallidettimodi.APISTTO. Fronimo mio io non fingo in cosa
alcunane anche giudico che fiabi sognofra teem e de Ironia ouero simulatione,
ma io te dico il vero, che non quorejcofi prorontuosamente credere una
cosaditantom o mento.Ilperchepaream echedamegliodidubitare pur che modestamente
sefaccietanchoradiscoprireetidi e quindiledubbitationidellanimomio,cioemoa
temoa Di cafto,ficomescopreloinfermolesue infiaggionie piaghe. Al
Chirurgico,checrederefacilmente senzaragione.Cone
ciofacheiersententiadiungrandehuomo(fiben miricor do )come sedebbe andarepian
pian,edipaffoin passo in quellecoselequalipaionoche Couerchiano lepoftre forze
accioche se inconcanéti fufferosprezzate n o s a m o da nasco
ftoinuiluppatinellifrodi, epelcontrario,seincontanétefuf ferocredutedanoi
1100siamopresinelleceticollesuspicior ni delle fcioccheuecchiarelle.In
uero'fisonftato dubbioso nell’animo mio, c o s i m i p a r e u a d i d o u e r
dubitare N ó h o i m perhomai contraftato conlaninoostinaco.FRONIMO.
Secolie-echetusiadiquestobuonanimo cioeche uogli in coresta cosa
usarelintellettoenonla uolonta,certaniente possemo havere buona speranza dite.
M a t i u o g l i o d a r e u n buonricordocosiinquesta cosa
decuihoradisputiamo.co m e n e l l a l t r i c h e p o r t a n o p e ricolo, e
sono de importanza (si o m e si s uole
dire) c i o e c h e p e r c o t a l modo fa c c i c h e n o n u a
diauantilauolontaallointelletto cosiuogliodire chenon uogliuna cosa seprimanon
hauetaibenintesa econosciu ta.M a sono alcunichecaminano pel contrario
nellordine delliftudiidelladottrinacioeprima diffiniendo,e concludendo con l a s u a uolonta, ouero secondo il suo u
uolere che cosasiailuero auanriben consideranoconlointelletroeffo vero.APISTIO.
Hogran seredintendere che cosa ha da direinqueftonoftro caso
Dicasto,Joqualeuedo ritornare d a noi. Certamente non puotrano essere(almio
giudicio ) eccettechedegneeteccellenticose,purcheluuoglia ferua tele
promisfioni. FRONIMO. Bisogna primeraméte iftin guere lanostra fame
edipoisifatiffaraallacuasete. DICASTO. Andiamo
perche-e-apparecchiatoilpranso.Dehpec noftrafedenon tardiamo piu conciosia che
affailongamen tehqucmohoggidisputatofichenonbisognapiu dimota re.Equando poihaueremoinkaurato
ilfarigatocorpo di quelloeglieneceffarioperla continuarouinadelnaturale
caloreintraremo poi nel giardino della disputationec h e cirimane.fando fram e
fe-e-uero imperho quel lo che ha narrato la strega. DICASTO. P i a c i m m i,a
d d o manda lantis dettiuitiiesceleritade,cioeche spesieuoltefacionola penin
tentiapelliufernodopo lamorte etiuisianomartoriatigrai uemente.Non
ferebbemegliocheleprohibiffeIddio non si faceffino,che dipoi lhauerano fatte
didarli la penitentias DIÇASTO.Meglio certainére ferebbe felsereferisceque, Hoa
coluichihafattolemaluagieoperepercheselnonhain uefleoperatomale hauerebbe
fattoben per fo.APISTIO. DunqueperchenonleprohibiffeIddio.Non ferebbemag giore
cosa epiudiuina,lefusserodiuinamente 'uietare& DICASTO. Sono b e n u i e t
a t e c o n la l e g g e m a n o n c o n l o p e t e ra
CioeIddioļeprohibiscemediantelalegge,m a nowole per forzateniceIhuomo non
operia suo piacere.A P L S T I O Perche épermeņa da Iddiolamalgradeuole
operatione, et il peccato cioeperchepermettechelhuomo facciopecca to
DICASTO.Perchere liberolhuomo,er-e-infuoarbi. trioe volunta elibertadioperare
ficome alai piace,oilben oilmale.APISTIO.Nóferebbestatomeglio chenófufli
mainatocoluiloqualeconosceuaIddio,chedouea fouina rcin. APISTIO. JIP OICHE
HAVEMO SCACCI a t o l a f a m e c o l l i c i b i e u i u a n d e t i p r i e
t. g o Dicafto Inquisitore delliHeretici uoglieffer concento,chepossachiede
reinantidituttelaltrecele,una certa m i a dubitatione Laquale ha granden mente
feditolanimomio,no con uno scrupulo niacon una agura láza,pen pur quelloche tu
uuoi.APISTIO.Non guarimi sa tiffanoquellecosechediconoalcuni della
pena,chi-edata da Iddioacoteftibiafimeuolihuoineni e donne, 3 e,per
teinquefe grandisceleritadeetiniquitade&DICASTO. Si Terebbestatocertamentemeglio
chenon fuffimai apo paruto almondo coluichiperfeuerane peccatiper infinoal f i
n e d i s u a u i t a, m a c h e f u f f i m o r t o n e l u e n t r e d i sua
madre. APISTIO. Maremainonfuffeftatoperuerunmodo peii
fituchelfuffemeglioperquello DICASTO.Perchi: APISTIO.Per luj.DICASTO.
Perdonamiilmio Apistio Tu parli moltoscioccamente. E poffibiletunoucoulideri
che questaje,unapazzescaquestionesConciofiachetanto
ifrasesonocorrarij,elloreniente cheuno-e-rouinatodallalt t r o: N o n f a i t ü
c h e n o n p u o i n t e r u e n i r e u e r u n a c o s a o sia p r o
fperaouerfineftraa niente chediinaginamorAPISTFO.
PerqualcagionedunquehacreatoDio coluiloqualecono fceua douefte andare
allieterni fupplitii DICASTO. Per sua fommaetinfinitabönta.APISTIO.Come
fiapoffibi. de coteftor DICASTO. Cofve-poffibile.Perche non sia for uerchiata
lainfinitabonra di Iddio dellaperuersa malitia dellhuomeni.E cosisenarra
cherespondeflesamo Pietro Apoftolo a Simon M a g o,rendointerrogato da quello
quali di fimile cofa feben referisceClemente ladisputationefatta f r a ' e f i.
D i m m i u n p u o c o A p i s t i o ti p a r erebbe fuffi b e n c h e
ceffafliIddiodacantogranbeneficio cioedicreareleante m e pedrespettodellhuomo
chel doueffe dapoimale ufarec conciosia chereioperadifomina bontae de infinita
poteny tia Anchorasebenconsideraraiconlameitėtuatuttele uercudeetopere
dilddiodimostratealmondo tu uederái che secauafuorila Giustitia
dasemedeme,folamenteftren gédo quelliliqualipiuprestohanno puolutofuggire
fabori t e la benignita di quello che receuerla.N e anchora per
questoseiftingue ouero se diminuisce lamisericordia cory cioliachemanco punisce
quellicherechiederebbeilrigo redellagiustitia.Efouenteuseissequalche cosa
daeflafcelel tagine perpetratapfreie carciuiliuomeni edonne cauata d a I d d i
o p e r q u a l c h e m e g l i ore fine. De cui dice farito Agosttino, che
etantobuono,chenon permetterebbeueniffe ueruntmale fenonvuoletteda quello
trarne maggior ben. Ilche spefeuolte,li1100fempre,elftátoüeduto uscirnede kk
ii la cariftiadellauixuaglia.Etanchot conoscono
qualmėteseguicaronoperdettaingiustauendu ta
moltiegrandimisterilliqualiramentano con gran ciuerentia. Anchor per i tormenti
et occisioni, e crudelta de che feceroi Tiranni contro delli secui de Iddio,
cispiandelauercia egloriadicflimartiri.MachepiudirorPerlacrudelemots te e
durissimapaflione etuituperofamorte dimiffer Giefu
ChristoueroDioethuomo,apparuilainfissigabuontadeId dio riscuotando,eredimendo
tutta lhumana generatione dalla eternal morte, etaprendo laportadellamilericordia
ec anchordellaGiufticia.APISTIO.Dob quantoben hanno f a t i f f a c t o a m e c
o r e ft e tue ragioni. Cos i a n c h e p a r e a m e c h i
fiailueroquellochituhadetto. Ma horasendoiofatiffatre da re quanto
aquestedubbitationi pregoriuoglifeguicart il giacomenciato ragionamento auanti
delpranso,ciodi narrarecomeegliecoreftogiuoco cosavera enon finta ti
Titrouatnaelle fauole, sicomeprometteftįdidouer dimotta
re.FRONIMO.Vuotucredereatuttelhistorie APG
STIO.No.percheseritrouanodellefauolenarrate con co lorede historia,licome
equellafauola Samofatenacioe di
Luciano.Anchorasonomoltealtrehistoriepercoralmodo incertee
scritreinduoimodi,efouenteancheinpiu,tanto uarieediscopueneuolifrafediuna
medeme cosache paio n o ellernon guari discosto dallesemplicifauole. FRONIM O.
Certamenteturespondibenenonmancobeninten di.Ilperche ficome alcuna uolta
rispiande fralletenebreet maliilben, dallidottihuomeni, feben
forsinofiafutócon fiderato dalrozzo uolgo. E per dimostrare che colisia ftato
uoglio narrare alcunipuochi effempii,benche sepuotrebi
boiioramentareintiniti.Leggiamo qualnientefuflivendu -to ilgiusto Giosepho da
frategli,con graue loro peccato.Il rozzo uolgo non pensa piuolaa,m a solamente
eglieag, gradevoleihistoriam a lhuomenidottiedigranfpicito,pici
tofamenteconsiderandoauertisconoqualmenteperdetta iniqua
emaluagiamercantia,interuienechedipoifufatto Iosephoquasisignore,eRe
dituttoloEgittoecheliberoil padre efiategli etuccalafameglia dallamorte,che
glifey rebibneteruenura per ofcurita dellefauoleun puoco
ditumedellauerita.colifral denarrationidellehistorieche sonofra le
contrarie,forfaucie ritroueraiunauera,ecosisendo Jaltce false,eneceffario dian
nouerarlefrallefauole.Conciofia chenon fie poflibile,che
combarrijlaueritaconlauerita. Mao Dicafto,amepare dintendere quello chiuorebbe
Apiitio. DICASTO. Chi cosa s. FRONIMO. Vna historia da molti teftimoniirappro
uataa cuinoferitrouaffealtranarrationecontrariadimag
gioreouerodiegualeauttorira.APISTIO. Jaueritatuhai dettoquello
chedesiderauo.DICASTO.Iuiprometiodi dimostrareche ficomepertenealli Chriftiani
didouercrede reche fifacciquestomaladetto e iscómunicatogiuoco.com
fianchegliapertene didouerlo iftirpare esuelgere,erouina re.
Ecofruipramettodiparcareaffaihiftorienon contrarie frafe, mafjben moltoconcordeuolie
fimili.Anchor uoglio farecodacui qui auanti la Strega, elacostregnerocon ilgiu
ramentoaccioconfeffiiluero.Suoguardiano della carces
tepreftoconducequivilaStrega.Efapiatiqualmére testi monii,che uiproducersoo n o
molti,esonopigliatidaquel di che fono ha u u w i dall’huomeni costretti colli
giuramenti et anchora sono iscrittipermemoriadequelliseguicaranodie tro anoiet
anche per approuarelauerita:APISTIO.Core ifto ho a piacere deintendere. Horfu
dunque comenza. DICASTO. Benche uipotrebbimádare a leggere li-libriferic
tidiqueste cose congransollecitudineefochecotestonon fpiacerebbe a Fronimo,
ilqualemoftra dihatere ftudiatoin tuttelegeneracionide
scrittoriperquelladegnadifpurcacio ne che hafacto,purno mi parephoradi farlo
perche cono fcoche Apiftio non remanerebbe contento,ilquale dechias facon il
suo parlare tanto elegante di hauer gran pracicanel lilibriscritticon
ilpolitoetersoftilo,etanchorpacedilettat fi grandemente
dequelliscrittoripolitietben accommoda tinelparlare etornatidiun
certofaufto,epompadieloqué tia,ecosiparechenonlipiacerebbonoquellialtrilibripriui
dedetta policita,edidettaelegátiadidire.APISTIO.Puo effer Dicasto che tu
condanni quesse figure di rhetorica hi uit Ea nico Zio U ouero cheforecilornato
parlare cofidellidersi come della prosa o fia sciolta oratione
DICASTO. No. Non maillofatto ne anchorfonperfarlo. APISTIO.E pur imperho usanza
de alcuniliqualiquandoharannointeleladoctrina dePaci
secioequellachire-scrittaperquestjúcellediuuolerilehet nire,ebeffate
lacontinuata oratione,ben ordinata ediftit tamentecomposta collicoloriefigurerechorice,benichean
chotapurhoueggiutodellilibriiscrittiaPacifedaeflıBarn bacielegantemente
etornatamere compofi. DIGASTO. Vuoreftimai cuchefufliunodiquelliche sono
amouerati frallirozzietinelegatirconciosiachefocome colielegante
mentefecissecoSanGiovanniGrisostomo,ilmagno Baglio, Tee Gregorii in Greco, et
in Latino san Geronimo, Agoftino Ambrogio, Cipriano conmoltialcis APISTIO
cioefodaefenzaerroree senza fauple, laela quentia non solamente debbe
efferecondemnata eciproua. ta,ma anzidebbeefferdacuctilodataficomeeccelétebud
non fralliinortali,chi-e-approvatoconlaragione etauttori
tadelliantichiefapientidoctori. APISTIO. Chelibrifono
coteftisetinchetempofuronofcrircis. DIGASTO.Sono molti.Veto
echealcunidieffifuronoscrittigiafesantaany
nifactunoui-e-chifucópoftonellanoftraeta. APISTIO. Chi furonoliauttoride
dictilibri. DICASTO.Credo chi f u f f e r o Belgici o e Galli, over Germani e
Thodeschi. Ma di que h o ultimo de cui h o det o Furono li scrittori duo i
Thodeschi. Liqualilif forzaron odispaccaree rompere limaghi incantatori, e le
Siregheconunmaltello, emolto piu'forter menteeconmaggiore giustitia,chenonfece Nicocreonc
ciránodi Cipro ad occidere collimaltelliAnaffarco Abdeci de philofopho.APISTIO.
De chiftillosono. DICASTO. Di quello chiuolgarmétesechiamaPacifinocioeperque
ftiuncelle Dimmi Scrifferoanche egliikerli: DICASTO.Sialquátidiloco,ac
ciolaffanoalcunididire comeeraconuenièrenellantidetti
sempidiscriuereinquelmodo,conciosiache anchoracom
batteuanocollinemicidellafededi Cbrifto colliuerft.Non mancano
anchoranenoftritempidi quelli liqualifacilme tesonoriratiallefagre
cosedellasantiffimafedediChrifto, conloelegåteftilo econ loaccomodato
parlare.Purchesia calta,e fobria EN 0 0 1 1 2 lo Y li libri. Et anchor la
strega la quale gire appropinqua a n i c i condutra dal Guardiano della
prigione forsiramentaradel laltrecofe altro diquellecha racco:ato che nófono
anche elleiscritrein uer un libro.DICASTO. Son contéto difare horacome
uuojparimpechochiedédoniperdouăzs, ledi toequalche cosa chenon fiaticonfueri
diudire. Cosiciofia fiqhcelle,m a fono (crittecon molta sottilira,quanto fiapof
fibileascriverediessamateria,decui parlano, ficomeimpe sho h a m m ipareet
anchorsonofermati con la verita delle teftimoniidefantihuomeni.E non
folamentepareame co teftoma anchoraamolijeccellentiTheologgi.Ilprencipio
diquefto ultimo uolume comencia dal Pontefice Maximo, ecil fin-erapprouato con
la auttorica di Cesare.Gia ho chiai ramenteefermamenteintefecome
landdettolibrofu publicamente approvato dalli dottori di sagra Theologia del
Juniuerfita di Colonia Agrippina. APIST10.Vuorej Dicaa
ftochetuminarraffiquellecose lequalituhaipromeffodi narrare al propofito noftro
ofiano di quelle da quei luoghi cavate, overo de altri luoghi accio le possam o
meglio intendere con il cuo parlare concio sia ch e meglio le dechiarara i
narrandole tu.Tlperchefendo anchorquiuipresentealladi fputationeilnoftroFronimo
credocheanchealuinófera grauediramentare dellalırecosecheforfinonfiritrouano
Icricce,ficome p suagétilezza hieriethoggi non liparuigra medinatraremoltecose
degue,chenon fonoscritteinquel che de ben h o apparato le littere Grece e
Latine, non di meno imperhonionm i fono con menore Audio effercitato fralli
Theologgi. Liqualiłassanolapolitiaerornamento dellino caboli etanchora
tantatersitudinedi parlare folamente se fforzanodiconoscerelecosecome
inueritafono. FRONIMO. Eglie menoredanno quello delleparole che quello delia
cognitizione delle cose. Mare-ben neto cheioiftimo,
chccoluidebbeellereffaltatoelodato fouradellaltriilqua Jehalornarodelparlarecongiuntocon
la cognitionedelle cofe cioefoura di quelli chi hanno solaméte o lungoialtro.
Vero echesepurnonliposloviohauereamenduoi, iftima shec'megliodịhauere
lacognitionedellecose chelparla re polito,et ornato,dieloquentia.Benche
ficome ho poflur coconoleereperiltuoragionare,pofseuilafare ftacediad.
domandare questa uenia eperdono. DICASTO. Io diro latinamente al meglio puoco.
Hor sucomenciaro. Auanti diognicosauoidoueresaperecome egliechiaroemanife.
fto,chicolui,chinegaffeesserelaDemonii,meritarebbedi
eserschacciatofuoridellacatholicaChiefia,licome grádea.
meiitecontrarioallasagra scrittura,e maggiormetre aluanı: gelio.APISTIO.Concedo
cotefto effer uerissimo sanza ver un dubbio. FRONIMO. Anche meritarebbe di
essere Scacciato coftuidisinileoppenione cioeche diceffenó effer
iDemonii,fuoridella Accademia edalLiceo.cioe fuoridel
JaschuoladiAriftotele.Concioliacheappo diPlatone e di tutiie Platonicie
fationon puoca memoria delli Demonii, acuinone-contrarioAristotele,m a
anzifouentenefamen tione non solamente nella Ethica, Politica e Rethoricama
anchor nell’altri luoghili qualihoranóscrivo. DICASTO. E ben vero che ne
faniioricordo, ma sonoimperhoinques Sto differentiate dalli nostri dottori
cioechequelliistimano aisianodelliDemonü buoniedellimaluagieperuersi.Ma noi
diceno che cutri i demonii sono perversi, iniqui, e malegni. Liquali benche li
nominamo sotto dicotetto nome Sat canasio e di diavoli pur piu chiaramente
anchora sono SIGNIFICATI per questo nome “demonio”. Il perche dice il Propheta
David, tutti li dei delle genti sono demonii e lo Apostolo Paulo anche egli
scrive. Non uuoreidouentafticompagni del i demonii e in uno altro luogo dice,
Credono e demonii, e tremanodi paura. Non fugia maiuerun huonofa uioche
dubitaffe,chequandolimalificiincantadori,eStre
gheeStregonirouinanolefruttacollisuoimaluagiincana elegano edipoisciolgono a
suopiacerelibeni del cagioni ? matrima nio,cioeche fannopermodo che
licôgiugatinel matrimo nionon poffoliohauerehonefti piaceriinsieme,edipoiqui
dolepiaceglidanno facultadipuoterli hauere,etche an. chora tormentano
lecreaturefuoridelconsuetomodo del lanatura chenonsianofattedettecoseconpattieconuen
tionidell Demonii. Boperqueftoetanche
permoltealtre cagionisonofateordinatemolte altrecosecontradicotefti
teretiniquihuomenje donine dalli Theologgi cosi antichi c o m e moderni
etanchora dalla facra scrittura, edalleleggi Canonice della santa Romana Chiesa
etanchordalleleg giImperialt.Imperbo cheritroviamoilcomandamentode Iddio
nelDeuteronomiocome fedebbonoucciderelima. leficietincantatori_ilfimilecomanda
nellLeutico,cioeche SranolapidatiliAriolie, quellichihanno ilfpitico Phitonico,
dioe lidiuinatori. E Gratiano radunaaffaicosenella vigesima festa causa de
decreti contro dicoteftifcelerati malefici. Anchora sepoffonouederequelle cose
chescriue SantoAgostione libridellaCittadiDio;edelladottrina Chriftiana
diqueftamaladetragenerationed /perchefepor fon piu p u o c h e cose raccontare
oltra di quello, che h a esso fantiffimoe doctissimo huomo scrittoinquejluoghi.
Iocacı giolimoderni Theologgi liqualinon puoco hanno scritto contra
dellimaleficietincantatori,eparimente anche con trodellimaleficiter
incantamenti sono anchora constituce leggi contradieffumaleficiemathematicinelle
Ciuilileg.: gicioenel Codigo di Giustiniano Imperadore: FRONIMO. Anchor se
vedono affaicolene libride moderni philosophi.colide Platonici come de
Peripatetici, cioedilambli co di Proclo, e di Porphinio, lequali
poffoneffer'moltoapro pofito. APISTIO. Sicomeiononnegoche siano e demonii e
chepoffonfareaffaicofeconlafuaperfidamaliciacosián theio defidecochemifano
dechiarate quellecose, chipro, priamentepentengonoa quefte Streghe,
cioesedannoal giuoco ouero uisiano portate con ilcorpo enonfolamente con la
uolontao con una imaginatione, e finta reprefenta tione. DICASTO.Suole dare
gran faftidioquefta queftio. ne ecagionaregrandubioinmoltepersonetragendoneof
calionedalleparole del Concilio dell equaline faicoquanti mētione.
Lequaliparoleleggonfinellaquintaquestiondel Laurigesimafefa Causa.Ilperchecredonoalcuni
noefferui presentialli dettigiuochiqueftedonnuzze ehyomuzzicon il corpo,una
solamente con lainagniatione. M a alcuni altri diconoeffercocefto
giuocounanuoua fpeciediHereliadi versa da quella antica superftitione.
Anchorà altrinuoletto chelafiatotalmente quellamedememacheiuifiafatiofo
lamételaquerellaetimpoftalaperda quellicheistimano essere Diana Dea overo
Herodia, ferebbediuerfanaturadelcapro dadiuerfopeco cipiouscita.Vero
echesonoportatialliballieconuiti,etal lila fciu i piaceri della norte uuolendo
euigilando. Il perchie Fronimo e dame approuata la tua diftin&ione della
disputa rionedihieticon laqualeconchiudefticontecoteftogiud codelle streghee
malefiche e antico quanto alla essential e oftantiamare nuouo quanto
alliaccidenticide quanto - lecerimonie. FRONIMO.Sehoritrouatonellantichefu,
pecftilionidej Demonio ilcerchio,lounguento !, lincanto, il caminare de lcl
iorpi humani per il spacio dell a r t a, li conviti apparecchiati di piaceri
carnali donati all’huomeni e donne dalli demonii in figura de maschi e di
femine chi cosa ci manca piu accionoiftimamoessereantico ilcommertiot
familiarita dellis piritimaluagie scelerati colliperuerfiet in quihuomini?M a
percheseritrovano alcunecofe in questo vituperoso etis communicato spettacolo
di demonii hora da moltinarrate; lequalinon fileggono fussero anticamente
dimostrate ho detto lacagione, cioecheiltuttoseattribuiffe allagrandiffima afturia
emalignita, delsceleratoeperuerfo n e m i c o dellhuomo.ilquale in diuersitempi
a diuerfiordim e gradidi huomini haue apparecchia tomoke aru, e modi
dingannardi accio che cosicondettiuarii coftumiecondi uecli ingannie
piaceritrageffe efli huomeni delle precipito ferovine delli peccati. DICASTO.
Per cotefta ragione assai ouerochicredonochi.fi cangianoe trasformanoe
corpi humaninęlicotpidi Gatge ode alorianimali, per opera del demonio e
anchoraquel liche affermaucnodiefferforfipentalmodo difcetuto il rapto della
mente quando sefachefeipuo bên conoscereic reconoscerepereffofel fia portato il
corpoinquelluogodo Disalisselamente consciosiachedicaSanpauloapoftolodi n o n
sapere cotesto:M a quefte Streghe q u a n d o sono portál te con ilcorponon
sonorapitecom låninocioe ficome G fuoledirenon sono in fpirito, ma purse.
Fussero rapite in questo modo ami al 01 tel do od th que Ich til che ON
efto ad LO me ol fal ad cit ced era din hadi ad 20 il a m i e piaciuto quello
chehaidetto APISTIO. D u g uoi cerdetechesianoportaticolaconilcorpo DICAS Sicre
dochesiano portatialcunauolraconilcorpo etalcuirauol ta che cosi facilmenre
posson esser ingannati cioe che rendo naadamente illurae schernitala imaginaria
potemiase pene fano, e gli parediessere portati corporalmente oltro di Carr
gatacheier nodelli colli del Morite idea, et anchorglipa
reditraparfareloAscaniolagodi Frigia,etanchodiandare oltro dello
ululatodelloaltiffimoMonte Caucaso dellai n diacollarmi delle Amazoni. E
péfano,diuolare colle penne di Dedalo sicome lepare nel sonno. Ma per queste
coseno fono perseguitatineprelidalli Inquisitori neanchorefsami nati, ne
tormentacinecondentatiouero giudicati.MAPer Questonoicerchiamoconogni
diligentiacocesti STREGONI E e Malefic iperche hanno renegato lafede di Chrifto
chipigliatononiel fantiffimo battesimo,e
promiTonodiferuaria.eranchorperchehanno ischernicoc beffaro Wlagraniéti della
santa Chiesa, et hanno sprezzato Christouero dioeuerohuomoredétoredelmodo
ethino adorato il nefandissimo e spur i f li mo demonio invece de Iddio,et
anchora permoliialtrimaleficii che hannofarro liquali serebbono troppo longhida
douerliraccărare. PER Quelle cose Et Altre fimilifatte contro de Iddioe
dellasua trionphantillima fede noili perseguitamo,elieffaminamo e facciamo
liprocessi e cosidipoiretrouati e conuinri nelle lorofceleritadepertalmodo che
non lopofson negare, dia moli nelle mani delli Reggi, Signori, PrencipieBaronio
gerodelliloro ufficialiaccioli puniscano egli diano la penitentia secondo che
comandano non solamente le leggi an. sichedella Chiesama anchoralenuoue
etanchorane no. ftrigiornirinunuate,primeramenteda Papa Innocencio Otrauo, ed a
Papa Giulio secondo.Vero-echetiammonia sco che ben auerufle da iftimare,che non
sianoporrato al giuoco corporalmente la maggiore parte di coreftirei huomini.
FRONIMO. Il nostro Dicasto hieriammoni Apistio egli feci intédere.comne n o
doueffe fprezzare e farfi beffe di I. quellochịe creduto da tutti o
uedr’alla maggior parte probabile cioechelepoffa fareintaleeralmodo.
Concioliachg ersententiadi Aristotele, come non erin tutto falsoquello chi-e
decto da tutti. Il che intendendo quel Glorioso Thomaso Acquistato annouerato
frallisanciper lasua bonta e piet ta,&anchor p lasuaegreggia
dottrinarepucato frallieccel
lenriffimidottoriiftimoefferedelliDemonii,liqualidaua
nocarnalipiaceriallhuomeni& alledonne ineffigiadima.
fchiedifemine:dertiIncubi esucubi equestomaggiormés teconfermonelsecondo libro
delle sententie, percheuiera. No molti saggi, prodi, & anchordorti
huomenidicotefta oppenione. I perche o Apiftio,non vuole contradirea quello
chive-statorenuroueroconiantapublicafama,& anchorap prouato con
ilcosentimientodicanti eccellenidottori.DICASTO.Ben etottimamentelhaiammonito.M
a anchor accio se posta haver maggior certezzadicotefta cosa,uien qui dame
stregae giura allisantiu angelii de Dio, liq uali ho posto fo r c o l e r u a m
a n i come tu vedi, di racontare, e di respondere il vero di quello ferai
interrogata. Esappiqualme tefeiubbrigara atalegiuramento chesetune mentiraiedi
raipur unam e n o m a bugia,no ritrouaraiperdono,ne remis fione; appo
dinoi,& anchorpurpensa dinonritrouarlanel Jaltromodo appo de Iddio. Ho
giarato, E cosisia ricerticheno uiingānaco;neanchorm i.DICASTO Dunn que dimmieratuportara'algiuococonilcorpo,ouerofajn
lamente con lanima o sia con la imagination. Con ilcorpoinsiemecon
lanima.DIGASTO.Come puotu saperedieffereftataportataperariacola con il corpo
congiunto con l’anima Perchejo toccava con que mani il demonio detto Ludovico.
DICASTO. Deh, chi co s a t o c c a u i t u r
Il corpo di quello. DICASTO. E m o quel tale, quale e ciascun delli
nostri. E porpiumolle. DICASTO.Vieranoquiuidellialtri colli corpi r O l i fi in
g r a n moltitudine. DICASTO. E cosi diconotuttilaloricheho giamai essaminato,
anchor sanza darlinerunmartorio & il simile anche diconodi
Inquisioridelaleriluoghi,cioechieframinando quellidi questamaladetra
compagnia comesimilmentehanno di [posti,vo discostandosi da quello cheh a
mconfessatoquel liinquesto medememodo. BENCHE SAPÍAMO checo teftanone la
cagioneperlaqualedebbianoeffermartoriati e puniti, ma anci per havervi o l a t
a e t o t a l a fede promessa nel facto battesimo non dimeno imperho tuttie
maschi e le femine di queftafceleratiffimaradunanzae compagnia.co
fidiquestoCaftellocomedellaltriluoghidelmondo,coli dellicaliacome fuori di essa
dicono inqueftomodo etcone fermano esser il vero di esservi portati
corporalmente con quell’altre cose, delle quale ne ha detto la strega. Et a c c
i o maggiormente lo poffeti crederevi voglio narrare unahifto siachenó fu
favola ne anchorae cosaancicamangoua,Gia puochi mesi paffari eta porcato nelle
brazza della madre un faciulito maschio, fi comesifuole aquella fortiffimaroc
ca diquesto nostro castello chi'c circodata di larghiffime fosseet incorniata di
fortiffimeetanchoraaltiffimemura, hora vedendo detto fanciullinoquello
fceleratiflimo Don Benedetto Bernio,ilqualefudipoibrugiaroperle suemale
magieopereficomeauanti diceflimo) che parlava all’hora copil Castellano della
coccafuo parente, gliuieneincontinente una brammosa e bestiale voglia di
asciucarli il sangue. Al perche moltogliparuipiulongoquelgiorno che non pa
reaquelliJigualidebbono receuere lamercededellesue
Atentarefatichepertantobeftialeappetitoe desiderioham uça diguftare
dellinnocente sangue del destofanciullino. Hor sendo pur alfinegiunto laoscura
notte dellescelerira. de madref, efeceportarperaria al demonio efermarfinel Ja
casa doue giaceua ilmischinello fanciullo nella cuna.Et asciugotantsoangue
daquello infelice bambino,cheroma Sefi comeunatrasparente ombra,che preko
preftopalla, non hauendoeffigiahumana.Ma nomaiimpo faconosciu itala cagione
dellinfirmitadieffone della pallidezza perin finochenon
fugiudicatoecondannatoeffomaluagiohuo. m o al fuogo. Perche
allhoraelloaddimaudo perdonanza al padre del fanciullino, per il male havea
farco. Ecosiandoe ri cornoperariapassandofouradiquellealtemura
dellanuje detta rocca
laqualeuedericola. Vadimo auantarfilantiqui cadelli antropophaggicive de quelli
popoli di Scithia chi magnaveno le carni dell’huomini, et anchora purmaraue
gliatlilanottraetadiquellihuominįhoraritrouatinelle110 de detmare Eoicide
orientale che ancheessisecibano colle carnihumaineconcioliachenelmezzo
dellaItaliain una regiunemoltohabitataefrequeritatadalli mortali, discolo da
ogniferitae bestialica, fi-e ritrovata una gradiliima c o m pagtira d’huomim
cosi maschi come femine laquale/e-par sciucapinftigatione del demonio
disanguehuinano. M a ritorijateStrega.Che piacerihaueuitunclloprelafciuccó un
corpodiaria STREGA. Non soc on chi corpo. Malo ben questo che havea molto
maggiori piaceri con lui che con il mio marito: DIGASTO Non faueuiumai paura,et
horrore efpauonto conoscendochi quello era il demonio, icon ilquale cu haueui
questi iscommunicati e sceleracipira c e r i: No. C o c i o sia che n o u e d e
u a a l t r o c h e una figura di huono. cccettochenepiedi,liqualinon pareuano
am eficonelafacciailperco, el altre membra. APISTIO. O chi figura o chi aspetto
o chi effiggia di finuto animale, er di finta bestia. FRONIMO. Eglie imperho taleche
nascon de lacrudeleaetasprezza edimostraunagentileforma,et fuauemolilia con
altribeltadedallequalif.noquellidol cemente tiratielusengati.Fingono
lantichiche essercitarse Venere lufficio dicacciatrice cercando per le Selve li
lasci uti piaceri di Adono, ac c i o n e t r a g g e f f e à fe il cacciatore.
H perche dicelo ingenioso poeta. Noda il gignocchio al modo di Diana
Cintralauefte,ecaniellanimali. Della predafecuraadhorta, e inganna. Et anchora
non alorimére inganno ilpaftore Anchise,eccet t o c h e in q uel modo, che
e’aggradevole ad un huomo che habitasse nella villa. Cohanchorcalitafsiinun
cerco Hii Hio da Homero inchemodoferapresentopuressaVenereaus tididetto
Anchiseineffiggia egrandezzadiAdmeta uergi nie.llpcheiuisiritrouano
quelleparole greche lequali hora Jetaccio. DICAS.
Dehpertuafedeegentilezza,fiacontéto di Simile a Adameta
fanciulla pura. DICASTO. Chicora pensi tu uuolefli SIGNIFICARE quellasimi
Jitudine del Poeta: FRON.Non puo coildimoftranoquel le coseavanti
precedono,& anche quelle che seguitano. Conciofiache addomando coluichi
caminaua solo disco Ato dallisuoi buoi eloeccito efuegliocon ilsplendore e con
Na gratiae lotiro a douerfi inarauigliare, fingendoff mors
ditrafferricleinbolgaré. APISTIO. Horfudilleinquel modo che face f t i h ieri,
quando tu dice f t i q u e l l altri p u t greche nel nostro volgare. FRONIMO.
Non semprese accorda talacerra,ficomefisuoledireperdouerefuonarene anche
Temipresuccedennapiacevolmenteesecondoildifioleco Yefatte allaf provedurae
prefontyofainéte, Cojneltrasferim t ë i patlare greco in latino et in volgare n
o n sid e b b e face enzabuonpenserb esageublezzaditempo. DICASTO. Priegoti
cheluoglihoratrafferiregiustamente fepuoi,feair choranonpuoifarecome
uuoi,faalmegliotifiapoffibile. FRONIMO.Io son contento,pernonparere
diefferofti. nato. Cofiuuoledire. Dar Sre Venere nata delconante Gioue. Avanti
di Anchifein forma e figura,
taleecosidipoihauendoliraccontarolageneratione,esuc ceffionedelli fuoi antichi
con longhe fauole,lo conduffe alfineallilasciuipiaceri. APISTIO. Holettocome
feciA n chise la meriteuole penitentia per dette cose,conciosia che f u p e r
cof f o d al fu l g u r e e cosi ritro o che gli fu a nnonciato qualmente
cofiglidouea interuenite.Ilperche ritrouiamo queluerso scritto in greco,
loquale hora hora cofi lo dico it? nolgare perchefo
uiferamoltoaggrado.LoadicatoGioue fediffecon lardente fulgure.E benche dimostra
chiello d o ideaefferpercoffo con talepena epunitione perrefpettodel peccato
chi era manifeatato, non dimenoanchora inanji fignifica c o m e colui ferebbe
punito dalli dei, il quale d e fideratebbe diuuolerehauere amorofi piaceri
elibidinofe deleteationicoeffiDei:Penichecôigegnofee maravigliose fauole
fingonolantichiqualmėte per simili cofe fuffjuccisa Semele
figliuoladiCadmodallo fulgure.N e anchorasong cótrarioa Callimacho,inquella
cosa che se narra di Tiresia at. ce che 710 qui Erg hon havuto figliuoli,
conciofiache foué tefe leggi delli figliuoli delli Dei. Anchemi ricordoqual
méte giadoidifadicellicomeerapurqualchefondamento delle favole. Pe č i l c h e
s e g l i c q u a l c h e fondamento d e c h i Cortijslono. Thebano
cioechisupriuatodesuederedallaDea Giunone perchehaueahauutoamorofipiacericon
Pallade,oalman cohauea cercatodihauerlibenchealtramenteloracconi
taCuidio.Vero-e-chi Callimacho,finge questa cosacon
'piuhoneftoparlaredicêdochecofigli interueneffe, perche uide Pallade ignuda.
FRONIMO. Chicosa ne hauemp per queata facola? APIS IO. Io te lo dico. Havemo
questo al mio parere chejopensoo al manco dubitochehanocge te quefte cose
efimulateefinite. FRONIMO. Ifimatuche apparefseno li Demonii in
quelliantichitempidiquelliB a Toni di Troia e di Grecia Li quali demoniic
redoche tufen do Chriftiano sianofermamenteda tetenuti effere una ria
emaluagiaschiattae generatione de spiritie APISTIO. O si. fi fermamente lo
credo. FRONIMO. De b n o n ti r i n f cresca di rispondere. Da chi procede che
pare tu non uogliccedere, chequellimaluagiTpiritidefideraffino,etanchecers
cassinodidarelafciuipiacerialledonne informa dihuomi ni & allhuominiineffigia
didonnecAPISTI0.Doh cbi e'beni gran cosa questa da doverti rispondere. Io te lo
dico. Per ciono locredo, perche non sapiamo qual menrenolonjo i demonii di
carnenedioffa, comenoi.Ilperchenon sipossono delentareincoresticarnalipiaceri.
FRONIMO. Egliepur una gran cosa Api f t i o che tu n o n ti u u o i r a mentare
di quello che f o u e n t e h a u e m o d e ciall perche se tute lo ricordafi,
noti maraueglia restine anchor direfti, quello che horadi. Gia
fpeffeuokre-e-ftatodetto, comedannoeflimaladeeti nemici de Iddio erdellihuomini
coteftifceleratipiacericar naliallihuomeni,er alle donne n o n per
delectatione,chi habbianoeflireispiriti ma solamenteperingannaregli huomeni e
conducerlinepeccati eralfinehell inferno dove efli sono confinatii n perpetuo. APISTIO.
Il mio Frenimo ti pregono t i turbare, Pur anche io ho un dubio, Se l n o
fussiperaltroeccettochep qirarelhuomeninellipeccatino se ditebbe che haueffero.
l fono dong figliuoli quelli detti figliuoli delli Dei, pche lispi
ricisenza carne &oftanópoffono generare: FRON. Core Atanó epuoca
dubitatione, cociolia che facendo Moises, mer moria nel Genesisdelli figlioli
didioedellifigliolidell’homi ni furono alcuni che istimarono fuffero
SIGNIFICATI peili alli piaceri carnali hauutifralli demoniie le donne, &
altci,uno Jenofianosignificatililibidinosipiacerichehaueano lhomj.
Nidellagiustagenerationeeftirpedi Sech:collefeminedel
laingiuitagenerationedellaschiatadiÇainIlperche seale
cunauoltafeleggediqualchuno,chefulle decto figliuoloo di Gioue o di Apolline non
perhosedebbecrederechecoftui ueraméte fianato delsangue delliDemonii,cóciohache
nó hanno sangue,m a sedebbe iftimare chelsia nato del semç di qualche huomo,
dacuilhaueranpigliaro. Serebbonoass Saicosedar accontare delmodo de cuipaiono
esse regenerati gli figliuoli dalli demonii che hanno libidinosi piaceri colle
donne:m ape c non aggravare le orecchi e del pudico lettore paream etitacerlene
parlar volgare. Anchorpuo effe rche qualcheuoltaquellichesono
ftaroreputatifigliolidellidei odelleDee:ssanoftatocubbati fendofanciullioidalle
loro madre,peri Demonii,sendoanchoressenelparto, etoccul, taméte
postisottodiquelledóne.che ingánauano etledaua n o libidinosi piaceri facédole
parere cħefli lhaueffono gene ratidiquellee cosico doppia le st mm De 70 li al
frode leingånauano,cioe pri mieramenre facendole parere che glicócepiffeno e
parcuri scenoedipoifacendolinudrigareinuecede suoifendo de altrui. Ma se p r f
u f f i q u a l c h u n o che vuolesse dice che in verita fuffero faci generaci
quelli chiamati dalla antichita fi gliuolie figliuoledelliDei,edelleDee,enon
efferstarafro deinportarli,ma checosifufferogeneratidalli Dei e dee (ben che
credo che sia il falso conci o s i a che conosco come sono alfaicose
fauole)direicome furonogeneratidelseme del JiuerihuominiportatodalliDemonii nel
tempo della concettione, quando dauano lasciui piaceri aquelle,E cosi in
questomodo sedefenderebbedaefliilnascimentodiEnea nellAsia e quello
diAchillenella Grecia, li quali furono digniffimi huominine tempi heroici, o
siadiquelli eccellenti Baroni,cosidiTroiacome dellaGrecia:
Alichorfepúotreb: bedirequalmentein questo modoconcepilaReinaOlim p i a m o g l
i e d i Philippo, Alessandro Magno, nella Macedonia e nella Italia lainadre del
grande Scipione Africano. DICASTO. Il nostro Fronimo cercamente paiono corefte
cose che tu hai raccorato molte semiglianti a quelle che narra santo Agostino.
FRONIMO. Dirotti anchor molto piu quanti come non solamente tirauano a fe li
Demoni t i n i q u i e fceleraci le femine collilasciuie carnali piacerim a
anchor tentaueno l’huomini del'maladetto uitio della sodomia, colli maschi. Il
perche facilmente era persuaso alli mortali cotesto sozzo e uergognoso amore de
fanciulli coll’essempio dequel lili quali erano tentati dalli demonii dicendo
che pigliaua. no il fioredies li fanciulli. Hebbe questo vergognoso e seele
rato uicio di contra natura primieramente origine dell’Asia, e' deindi nella
Grecia e nella Italia, e poi i puoco spatio dite po introperinfino nelli Celti
popoli della Gallia. Per il che non e dubbio che la captura e presa di Ganimede
in Troia non sia antica e non solamente e manifesto lo molto antico incendio e
ruina con il fuogo di Sodoma, di Gomorra,edi quelle altreCitade della āfia,
appo delli Christiani e delli Giudei,m a anchoreramentatodalliGentili.Fu primo
au thore appreffodelliThracicosidi questopuzzulentouitio, come delculto&
honoredelliDei, Orpheo sendo andato di Asia nellaThracia,Veroe che sonoalcuni
altrichiuuole no fuffiilprimo inuentoredieffofcelerarissimopeccato,np Orpheo,ma
Thamira. Fugiapercotalmodouolgatoemãe nifeftatoqueftotantofceleratiffimo
uiio,che eracredutb dallireiemaluaggihuominichelfuffilicito. E cosi'pareja
appreffo delliCeltichelfuffefatizauerun punto dipeccato, ficome dice
Ariftotele.Veroeficomecrediamochesiaistin to eruinatoinquellipaesiperilbeneficiodellafantissimafe
de diChristo, cosimaggiormente uie-ftacoinconsuetudine appodelliPerfi, perlagiaanticasceleritae
perchenon uie ftarafermalaleggedimefferGiesu Christo perlaquale fan
tiffimalegge conoscemo quellochie bono,eche sedebbese guitareeparimêreintédemo
quello chiemaloepeccato e chi fedebbe fugire.E costilDemoniorio
eperuersonon sol laniente ritrouo quelli maladetti giuochi e quelli scelerati
piacericarnalipertirarealecosimilipiaceri quellefemine erano inclinate alla libidine
& anchoriquicandole alla ge. neratione dellifigliuolilanatura,m a anchora
ritrouo questa abomizatione dellasozza esporçalibidine contra natura. E non
contento anchor di hauerla solamente ritrouatam a facciomaggiormente ne
tiraffiIhuomeni,anchorprometre? jua
diuersipremii,aquellichesefusserográdemetedelletrati &
efferciratiinefa.llperchepromesse adalcunila perpetua
vita,cioelaimmortalita,sıcomefeceaGanimede De quira scontano liibri qualmente
crederonolantichi,uonmácoim piamentechescioccamétechelfullportatojucielo.Ad al
trianchorpromesseloindiuinare,ficomeaBranco pastore, D e cuidiconocolle fue
faliole che glifuinspiratoilu perche loistimocheben sipuo
suonarelarecolta,(licomecomuna mentefedice quandosehaueratrascorsodallitempi
Heroi cicioeda quelli temp iquando furono quelli Baroni e huoi miniriputaci
Dei,ecapitaniiforciflimipecinsinoaScipione, perchecredonon
hritrouanochesianopiuftatesimilecofe. DIGASTO. Chi cosaditurTudebbe sapere
comesonoin teruenuteinognitempo,& inognieta qualchenotabilico ke.APISTIO.
Ma perchenon losano DICASTO, Affaibe fonomanifeftemanoimphotutte.APISTIO.Da
chipce de chenosianomanifeftate DICASTO. Perhora occorce noa me
duaragioni.Vnaeche sendo fcagiato ilDemonio malegno nemico dell’huomo dalla
segnoria del mondo p forza del sanguee dell atrjófantemortedimeßer Giesu
Christo non cofi importunaméte epublicamétecollesueillusioni
ingánalhuomo,Percheficomefcacciatoebaditobabitanel Jiluoghinascostiedeserti,m a
anticamente era adorato sot tospeciedidiuinita.Laltraragioneeperche giaistendeuale
retidello amore lafciuoatuttele generationi dellbuomini, Ito 1 di Appolline APISTIO. Io ti priego non
parcarepiudicote fecofelequalesicomefonomanifesteam e colifonomnara uigliofe,
Ma uoreiintéderedi quellechesonooccorse peral tritëp Ci,
óciofiachecredosianopocheroseoccorse Haticinio. 1 te $ mmi ma
horaforzasigrandementedipore lilaciuolifolamente perpigliaredue
generationidhuoniinicioeliottimieliper limi. lo ad domando ottimi que gli che
se sono dedicati e cosegrati ad Iddio con tutte le sue forze havendo conculcato
esprezaroturteledelectationiepiacerianchor boneftidi questo mondo. Efa
continuamente a q u e s t i aspera e crudele guerra. M a sendofactaquesta
guerra danascostoetoccul tamente nosimanifestauerunacosadiquelle,eccettoche
alcuna volta per essempio e per salute delli altri. Poi io chiamo quell’altra
generatione pellima, cio e quella delle becer ghe edelli Seregonidelliquali
hora parlamo,Ta sai ben quanteminacie,equantitormétifienobisognoper cauatı
lifuoridellaboccaquellifuoiindiauolatiamori efceleratiffi mi
piaceri.Ilperchenon parlanoliberalmentedi quelli non liraccoranocome
fonio,eccettochecollisuoinefandiffi micompagnidelgiuoco. APISTIO. Dung anchor
iftéde J a r e t e d e l l a s c i u o amore il demoni o alli f a n t i huomini
e t a figura della ingainatrice Venereshauendosi pinto le guan c i e e le l a b
r a c o n la c e r u facio e con un bello colore, e c o n il
quellichitotalmentesefonoaugotatiaDior DICASTO. fetu hauefli
cognitionedelleuiteedelloperediquelliiscrit tenellilibrinon hauereftipuntodi
dubitatione.M a accio tu ne conosciqualchepartesepiunó lhauerai conosciuto,a
uogliopurraccontarealcune puoche cofe diquesti ottimi huominie fanti,
cioeinchemodo sefforzasse il demonio di doverli pigliare con
lareteelaciuolodellalibidineelasciuo amore. Narra Sufpitio Seuero, come fece
ogni forza esso nemico dellhuomo per ingánare quello gloriofifsimouescouo santo
Martino in figura diGiouedi Mercurio,diPallade,e di Venere,Dimmiilmio Apistio
non iftimituchequando fefingeuade esser Giove no gli promettesse delli Reamie
dellelignoriere che quando sedimoftrauaineffigiadi Mercurio
chegliprometesselaeloquentia eladottrinaecogni tiondei tuttelescientiehumane
equandoseappresentaua in sunilitudine diPallade che non glioffereffela
fapientia,e laprestancianellartemilitarelaqualegiahaueuasprezzato e renunciaror
Chi cosa puo tu pensare gli promettestesottola purpuriffo con lo quale tingono
le femine le maffelle con il bomagio, eccetto che diletteuoli elasciui piaceri
N o n penso tuchelfingefsediesserueftirodericcherobbe eueftimétidi
diuerficolori,ethauesse anche fintoin questa imagine liua
ghielusingheuoliocchipertirarlonellasciuo amoreset an chorchel ragionale
delasciui & libidinosi piacerisTi dira Athanafiosanto,conquantiuariinodi
tentoilmalegno spi ritoquellogloriofoabbate.S.Antonio nel deserto,ilquale
Athanafiofcriffelauicaecostumidiquello.Anchore buon teftimoniolafreddaneue
diquátofuogodilibidinetentaffe ilserafico Franciefco nella quale accio
iltingueffeloincen / dio dieffo,segligeto dentro ignudo.Te inligaara anchor il
cespugliodellepungenti spinne quanta delicatezzadiamoro fipiaceri presentaffe
auantidellocchidellamente del pudi coe cafto santo Benedetto,collequaleritrouo
ilgioueuoleri medio controditanta Cozzacosacruciandolapropria pelle
delsuodelicatocorpo. Non crediariimperhochelmanca di punco
anchehoradicicarealcunidellaturba emoltirudire nello pazze s c o a m o r e é
volgari piaceri carnali, pur che veda di possere, ma anzi di continuo
grandemente cerca con milli modi e con mille arti percoducerlinellasuamaluagia
eriauoglia. FRONIMO.Vi voglio narrare una cosa intervenuta ne nostri giorni a
comfermatione di quelloche ha detto il nostro Dicasto. Ho conosciuto uno huomo
molto essere citato nella militia, a piedi il qualehammi dico fovente di haver
havuto piaceri libidinosi o n il demonio, *credendo che* lfuffs una vera
femina. E fu in cotesto modo sicome egli narrava, chi era huomo semplice e
senza malitia. Sendo ello nella Toscana e caminando peralcune sue occurrentie
verso Pisa e venendo da un castello pur del Pisano, dovi havea perduto nel
giuoco de dadili danari, eco si molto di mala voglia lamentandosi
dellifanti& anchor ed Iddio per la per dutadielli, ecco rivede seguitare
dopo lui dui a cavallo che parevano mercatanti, e parevano che cavalcaflino molto
infretta, doue adietro diunodjeflisedeuaingroppadelcas uallo una femina la
quale dimostrando dinon poterepiyol troftarea canalloperlagran fretra che
facevano paruiche 3 scendeffe interra. Hor costuiuedendola bella &
anche sola pigliandola per la mane caminauano insieme e la inuito allo
allogiamente seco quando serebollo a Pisa, e cofi parupi che quella
gratiofamemreaccecai se l’invito. Eco si pur oltca caminando insieme e anchor
piacevolmente ragionando, canto colui se in siammo di amore di lei, che senza
ver un freno della giusta ragione, ec iecamente chiedendola de piaceri
dishonnestie quella consentendo linediuiénea quello che tanto pazzescamence
bramata. Ma' uditi cosa meravegliosa, come hebbe havuto li suo i s c e l e r a
t i d i s u r e i s c o s t i da ogni
ragione di huomo, ecco che incotenenti quasi tramortie diurene tanto manco di
animockegiacque nel campo dovi la vea comesso il fozzo peccato dalejhore come
mezzo morso.Vero eche foura giungendo e suoi compagni chi ne venevano dopo lui
d a longhi e ritrovandolo in coral modo giacere fanza forze corporali, il
portarono alla citta e fusei meti infermo, e gli cascarono tutti gli pelli
dalla persona e narrava come per tal modo vi fussero brugiate le calze nella
soperficie disoura comme selfulfiftatoil fuogo vero l’havesse brugiare. Dipoi
diceva comesericor dava che quella femina, ma piu presto quel diavolo in forma
di femina l’havea molto pregato cheldevesse getare a terra una
haftateneuaiimane douiuieranel Ja cima un ferro in forma di croce, cioe un pedo,
li corne noi diciano promettendoli di darli una molto piu bella lanza
segliubidiua. APISTIO. Molto mi ritrouo fatisfactoquae
toallipiacericarnaliprocuratidalli Demonii dalprincipio dellaniquita. FRONIMO.
Hor voglio chetuintèdicome ha ilDemonioquestausanzaperdouerpigliareThuomini, di
ufare ogni frodo nel conuerfare collhuomirificome iften desseuna
reteperinuilupparli.Ilperchenon solamente usa queftonelli piaceri carnalim a
anchor intutte le altre fami: liaritade. Etacciotupoffi conoscerechelfia
vervooghioh o racomenzare dalle bataglie di Troia. Che penfitu uuolefle
SIGNIFICARE quell Dragone di altezza di fette gomiti canto dia mestico
chibeueuacóAiaceLocrese& andaualiauantinel liuiaggi
demoftrådoltlauiarecoliftaua tantodimefticame teconlui, ficomefuffiftatouncagnuolo.
Che cosauogliono dimostrare le penne diDedalo:e lealidelPegafloretuttel.
laltcicose,annouerate frallimoftri delle fauole Et anche quelli tapti prodigii
emiracoli delli Philosophi C h e crediçu uuoleffe
direquellotantoaceleratouiaggio che fece Pythagora andando e ritornando per u n
aviam o l t o longa d a (t a. Jiaperinsino nella Isola de Sicilia in cosi puoco
tempo.Cor m e pensi tu puotesse caminare tanto spario di paese cosiuelo
cementeri come uno uccello Empedocle inchemodoisti mitucheandaffecon tanta
uelocitalicomelaborea Abaro fouradiunafaetadi Appolline a vificare Pythagora.
Di che luogo creditu uscisse quella voce, che refiro Socrate, ma non losforzor
Ghi vuol dire quel genio e familiare spirito di Plotitro: Che significaquella
Occa che habitava tanto dimesticamente con Jacy de philosophore fic ome fono
puochie philosophi in comparatione dellaltci huomeni,cosianchor
questoperuerfonemico dell’huomo tirauamolto piu delli mortali nella uoragine
precipitosa della sporcha libidine che litentaffidi vanagloria.
Enonfolamentelitencauaisteriormente e visibilmente, ma anchor f o u e n t e
interiormente e invisibilmente. E se tu pensarai che puoco importa siano
tentati l’huomin idal demonio dilasciuiaedi. Carnali piaceri o interriormenteo
veco isteriormente, te lasaperadire que itadifferentia Santo Geronimo Il quale
chiaramente scrisse ledicedi quelli fantiheremite,doujraccontale grandi ten
tationipatirononeldesertodalliDemonii,ecoteftofeceper ammonitione di quelli
doueano uenire,Atchor 11on m a n coeglifcriffequellegranditentationichelfuftene,dicendo
qualmente inuna carne quasi morta solamente bugliua. noliincendii&
asperifuoghi della fozza libidine. APISTIO. Dung feaffatico anchor Venere, cio
e il demonio di u u o l e r combatare con Santo Geronim o colli dardi del a
puzzolente libidine? FRONIMO.E bensefforzo difaretutto quello puote & anche
non fece manco cru delleguerra con ilglorioso Pontifice.SantoMartino,sotto
questo n o m e di Venere ficome racconta Severo doveder scriue li laciuoli e
itele retida quello nemico in effigia di Venere. Ma chelfedimoftrafiea santo
Geronimo vi fibilmenteoueroiltentaffe interiormente, non Ihaveto chiaro.Vero
echecredotuhabbilettonelliantiquissimiau thoridelliGentili,come hauea
consuetudine Venere dim o were lhuomini interiormente & ancoisteriorméte.Ma
eglie ben ueroche quando serapresentaalliocchicorporali,efaci lecoladadouer
conoscerem a quandosolamentesedimo A t r a nella imaginatione, & e c c i t
c a e m u o u e li sentimenti i n t e riorinonsonocosi facilmenteconosciutidaogniunolisecre
*titradimentietaftureinsidiediquella.Ilpercheeglie detto pellihinnidiOrpheo
Venereuifibileet inuisibile. Et anchora e detto che li amori u s c i f f e n o
d i quella f e c i s c o n o l a n i m e colle intellettualisaete. Imperhodice
Orpheo in quell altro himo greco coli in volgate noftrohorada me trasferito,
aparente e non aparenteo vero paiono e non paiono. E pur ancheinun
altrohinnocosiscriueingreco quello che hora diro volgarmente uuolendo
dimostrare che sianopercorso lanime colliintellecualidardi,queste
fedissenolanime colle intellettualisaete. Anchor feuedonoquelliuersi di Procolo
Platoniconellhinnofatto alla licia Venere in Greco uiauia da me co f i i n
volgare tra dotti acci o si manifestano le intellettuali nozze. Hauendo INDICIO
delle intellettuali nozze edel liincelletcualihymenei, cio e delli
intellettuali Dei delle nozze. APISTIO. Dice Apulegio che qlo spirito ilquale
couet s a u a t a t o d i m e s t i c a mente con SOCRATE era dio e no il
demonio. FRONIMO. Ma pel contrario scrive il Plutarco & a n Co Massimo
Tirio chiamadolo il demonio. Decujunodieffi ne hascrittoun libro,elalcrodui.
Perqualcagionefedicech unaltro demonio pigliafféilpatrocinioegouernodiplatone o
di Zenone ouer di Diogene Perche fu un altro demonio inolto domestico di
Plotino s9i veriraui dico che questo fa ceuanope ringanarli. Sono tutte
menzogne quellechedie cono alcuni comesonouarielenature del Demonio, cioe che
alcuni dieslisedeletranodigouernare le Cittade, ele co sedomeftice,
efamiliarieraltriuolentierifeoccupanonelle coferufticaneedella
uilla,etalquantiallegramente se in tromettono nellopre della terra,et anchora
fono reputati molti che habbino cur adelle cose marinesche. Sono tutte
coteste cose & aliri ale loeffercitarsi nellarmi della
battaglia. Ilperche fauolescame tenarrauano, cheinspirasseperlifomnijlamedicina
Esculapio e Podalicio, e che fussero T o u r a f t a n e i a l l e p r o c e l
l o s e o n d e etépeste delmare li Dioscuri, cioe Castore e Poluce figliuoli
di Gioue, et anchor dicevano che essercitasseno le opere della guerra dopo la
morte Rheslo & Achille, & in antichi tempi di Troia, Theseo.
ueroecheraccotauanochequelliprimi nascostamenteeffcrcitauanolarme,m a
questoultimoaper tamente enellampio campo. Racconialianchor perfama checombatreffenellicampiepianuradi
Marathono laeffi giadi Theseoper li Atheniefi contradelli Medi, equeftoan che
scriffe il Plurarcho. Deh vedi una gran pazzia. Credeuano foftoro che li
demonii fuffero lanime separatedallicorpill., gerche diceuano che Asculapio
medicaua, Minone e Rhal damáto giudicaua,Scacciaua le gragnuole etépefteli
Dioscurio sia Castore e Polluce, Diuinaua Amphilocho, Mopro, Orpheo, eT
rophonio,elebattaglie eguerre trattaua Rhei fo, Achille,e Theseo.Ditutte
coteste cose era authore ilD e r monio,Ecacciolifuffero preftatelorecchie edato
fede,ecoli maggiormentefusserotiratilhuominieglifaceffinolifagri
ficiilicomeallanime delli Baroni signori & eccellenti huomini con una cerca
vana speranza f, ing e vano tutte queste cose. Dalle quali superstiitioni e
inganni, non furono contrarii Platone et Aristotele, e maggiormente scrivendo
li libri delie publice leggie disputando delle institutioni & artici
uiliecittadinesche. Anchor e cosa publica,comene noftri giorni son ftato tenuti
e portati delli demonii nelle guasta, deo sianoualidiuctro enelle annelli,&
inaltrecose, & anie chorcomequellineinici dell’huomini hanno dato resposte
perilgérre,perlacosta,&altrimembri dellimortali ficomie dalspiritodi
PythiaodiApolline,acciopoffemofacilmente coteste cose elalorisimilisonniidellisciocchiepazziGecilie
pagani,propriamente semilia quelli narrati daalchunifa uolescaméte,qualmente
alquanti diquellifeeffeccicauano nella medicina,& alirihaueano cura e
gouerno delli naui. Gheuolilegnie delli gouernator idieffi, & chealquantierat
no sourastantialdiuinare,enon puochialleleggi, cono s c e r e come
il f c e l e r a c o nemco de Dio e dell'humana generatione ha pensato in
diuersi tempi diverse vie e modi de ingannare Ibuomofouo specie di familiarita.
APISTIO. In uerita cosiancheioistimo, DICASTO. Nó dubitarem a siapurdibuona
uoglia,cóciosiacheapuocoapuoco ne ue. rainella nostra ferma oppenione e vera
sententia. APISTIO. Ma nongiain questomodo.Maegliebenuerochemilasto coducere
dalleragionie dalliteftimonii. DICASTO.
Vieni qui Strega, esappiacome fei coffretracon quelmedeno giurainento
cheeriauanniesappia qualmente in brieuisem
raipunicaconilnostrofuogo,edipoiincontinenciconquell altro che mani o n
mancara: fe tu mentirai in pun to d i q u e k
locheteinterrogarodeluoftromaladecco giuoco, I doso,enon houerun dubbioin
questa cola. DICASTO. Dimmi. Magirali e beueti cola al giuoco uostro scele
ratorVero echequantoallipiacericarnaliaffaisiamofacil fatto.E cosipiu non
bisogna diaddimandartine. Simangiauadainquelmedemomodo ebeueua comeera cófueto
dimīgiareincasaconilmiomarito,econlimieifir gluoli. FRONIMO.
HieritipropofiApistio iefsempio quel lamensadelsole cotanto noininarae
iamentara da Heroi doro,edaSolino,& anchordaPomponioMela.Ilperchetu debbe
(appere qualmenteil Demonioastuto ne cira affai dellipoueri e delcozza uolgo
collipiaceri della gola olico dellasperanza lo chiariffeneanchor
dicecheufcisfenoledittecarnifuo kidellaterrane che saliscenosouradicffamesa
béchelodi caHerodoco.VeroechePomponioMelae, GaioSotivo dicono
cheeranodiuinaméteportatedittecarni.Machies coluidi cosicozzoingegno chinon
adaerciscacome fussero quelleuiuandeecibilusingheuoliingamida ingannareil gufto
dellaignoranteturba,Et anche chi'e-coluidicofipuo R e
promissionidelledelettationicarnali.Che cosa pođemo istimare uyolessunosignificare
quelle carni poste souradellapridettamensadel Solerde cuilefameir tione fanto
Geronimo fcriuendo a Paulino,ficomedi una cosamolto uolgata,emolto
marauegliofarMachicofa fuffe nó co discorso co discorso, il quale
veda Solino contrario ad Herodoto, et il Mela contrario di Solino chenon
coilofcacomeuariament tee dimostrata quefta fuperftitioner cóciofiache quello
fcri ua qualmente eranoiuiportelecarni nelpratoappo della
citadalmagiftratonellaoscura notte,chesemangiauano nelgiorno,echedipoieradetto
daquellidel paesfeu,ffero uscitefuoridellaterrasEgliebenuerochediceSolinocome e
quellaméfainunluogodellombre,etiersempreapparec chiata abondantemente di
lauri,dolei, etaggradeuoli cibi, et uiuande,dellequaline
puomágiareciascunchevuole et atuetasuauoglia,ebenchenefianomágiatein grancopia
da quellicheneuuoleno,non dimeno imperho non mai mancano, ma sempre
iuicresconodiuinamente. Ma Pomponio non dicepurunamejionaparoladoue fifa questa
mensa,o apreffodellaCittaouernoellaoscuracarcereeca cetto che dice com e
divinamente iui nascono li cibi. E ben o
che cotetti Scrittorinon convienono insiemein ogni cosa, purimperho eglie
fermamentedacuttiquellicenuto feno za
contrarierac,omeèunamarauegliosacofa,&anzidiuis nalantidetto conuito del
sole. Ilchere-molto conueneuol le conquesto di Diana, sorella di Phebo o del
Sole sicome egli dicevano. Anchora istimono essere puoco a noftro proposito
quello che racconta PomponioMelanelladescricio, niedel Mondo cioeche
seritrovaunluogodoni continua mente tilpiandono grandi fuoghinellaoscuranotteetpaio
noefferiuiquafieffercitidi soldati chi occupano ampiopa ose eriuifiano fermati
suonandocimbalitamburini,fiauti, e trombeche paionomoltomaggioredequelli
cheusano Thuomini. Dimoftrauano anchora una fimilitudine diC o n uito
lincantamentiemagicheopere deOliffe,sendofpar foilsangueintornointorno.
Nelqualeluogo ui ueneuono li demonii, e t f i demostravano in diverse et varie
figure. In qual modo diceva il Vinitore, che conuerfaffi l’anima di Olisse
cauata da Homero collombre &imaginidi Pro tefilaoedellialcriBaronificomedicePhiloftrato.Ma
hora lescelerateemaladetteStreghee Stregonidenoftritempi, TI ro fir Tiel
TOY MU feron ii be KTOV DIO I cavano il
sangue dalli fanciullini, epermaggiorpartelocon servano
nelliuafiperfarequelmaladettounguento, E bep che paiono
coteftecoseaffaisofficienci, per hauernarrato il detto convito, non dimeno
imperhouoglioanchorloggiun gere la mensa di Achille. APISTIO. Che cosa s e c a
m o g u e. fta fiammo pucadudire. FRONIMO. Non ti marabigliare E t anchorari
pricgonon uoglisprezzare quello,che uoglio nafcare conciosiachenon
fingouerunacosa Ipera che senonmivuoicredereaddimadalotua Maflimo Tirio, Il che
fe f u f a r a i, te l o raccontara, ma anzi te lo dimostrara colle suecatre
scritctei o e iinarrara dimia certecosaiferittapermo lu i secoli, ci o e avant
i d i mill e s a n n i c o m e a c f u o i tempi fiz manifefta la Mensa di
Achille che eramolto simile a quella delle ftreghedouidicono chehocauiseggiono
mangiano'e beueno APISTIO. Il mio Fronimo io creda alle tue parole. FRONIMO.
Puc quando anchornonmiuuolesti credere, ioti moftrarebbi il libro
dell’antidetro authoree Greco e anche latino cbieapreffodim e. Nelquale
anchorvie foritto di unacerta isoladelmare Euffindouie il Tempio di Achille
Nella quale Cove n t e e f t a t o u c d u t o d a l u i, esso Achil e ch e ha
fatto conuiro a quellihuomini iuiandauano & che ha cono sciutoP atroclo
figluolo di Thete e altri demoni (& fico meeglidice)
lichoridelliDemonii.cio elemoltitudinidief ft& anchobaneucduto di
Dioscurichedannoagiatorioal., lenani
chepericolquotio,accioiolascidiramentarequello cheeffofcriffc.comeera
confuetudine diefferueduto nello Ili o le forze di Hertore. Ma co r e f t e c o
s e n o n p e r t e n g o n o a l conuito delleLemuri.APIST.Nó pareno queftecolemol.
todiscosto dalconuito diNereo edelloceano,delliqualine fannomemoria
diuerst-poeti.FRONIMO.Réfo I lmaligno Saftuto
nemicodellhuomocoreftivelenatiConuiti,accio
priuaffeIbuomodelloeccellentifmocouitodiChristo che: ha apparecchiato f o u r a
d e l l a mensa s u na e l suo R e a m o. M a h o r a, u r voglio raccontare,
non un convito finto e scrito dalli poeti ma w a maraveglosa cosa gia puochi
anni passati ha mi narrata da un grande huomo ornato cosi di eccellentedi
gnitacome didouitiae di ricchezze. Fuunbuonfacerdote nelle nelle
Alpi Rhetie cioe di Germania gia dodicianni fa ilqua le dovendo
portareilfagrosantouiarico del corpo di Messer Giesu Christo
adunogravementeinfernio: &efTendolimola to discosto, eaedendo dinon poterlo
cosiprefto portare ca minando apiedi,sicomeerailbisogno,falisuilcauallo e le
goflralcolloinona affaihonoreuolecaffetta dilegnos fan, tiffimosagramento, e
comenzoaffaiinfreta di caminareper f a c i s f a r e a l d e b i t o f u o. H o
r s e n d o a l quanto caminato f e g l i f e r ceincontrauno che
loinuitoascienderegiu del cauallo, et andare cô luiper uedere uno marauegliofo
fpetracolo.Ilche imprudentemente eglifacendo per uedere cotefta curiosa
cofacome fufcielo, ecco incontenentisentidiesserportato
perariainfiemeconcoliche Thauea inuitato, & in puoco spacio d itempo feue
diporre foura la cima diun akiflimo monte dovie rauna molto ampia &
ameneuole pianura, in/ c o r n i a r a da altissimi alberi e con pavente voli
ruppi se trata. Nel mezzo de coi ui fiue devano diversi e varii balli, & an
c h o t u t e le maniere de g i u o c h i c o l l e n i e n s e apparecchiate
dilautirdiuecficibi, & ancheseudiwanotutre le generationi de fuoni e di
deletteuoli canticono gni dolcezzaetrastullo cbrieuemenite semteuasi &
udeuafitutte quellecose, lequali suolenorallegrarelianime
dellhuomiui.Dilchenjoliomara uegliandosiilbuonefemplicefacerdotee purnonhauendo
ardimento diparlareperlagrannjaraueghia,& sendomez zo fuoridi feifteffo
glifuchiedutodal copagno, che lhauea condotto quiuifeuvoleuaadorareefarerinerentiaallaM
a donna cheera jui, & ufferitliqualcheduono,fecondo che fa
ceuanolaltriEraasederenelmezzo unabellissimaReinari c a m e n t e u e f t i t a
f, o u r a d i u n a r e a l e f e g g e, a c u i l e p r e f e n t a u a
ciascunaduoiaduoioaquattroaquattro conuarioordine areuerirla & ad adorarla
presentandolidiuerfi duoni. Horudendo costuitainentare la Madonna e uedendola
ornata ditantofpiandoriedatantisergentiferuita istimochelafus
filagloriofamadrediDio eReinadelcieloedellaterra,cô ciofiachenon sapeva
checotestecosefufferoinaencioniere trouidelli Demroni
ilpercheselohaveffeiftimato,novaise rebbeandato.Horafrafeben
pensandochecofaglidouelle presentareperifdoi non
puoterleoffericepiuaggradeuole presenteallamadre che ilcorpo fagratiffimodelluounige
n i c o figliuolo, e c o l i a n d o d o u e f e d e u a q u e l l a e t a d o
r o l lia n ginocchiadoli alli piedi; edipoileuádolidalcollolacafferra
doueerail-fagrauiffimocorpodi Misser Giesu Christo, divotamente u i l pa o f e
n e l g r e m i o. O di cosa meravigliora, ecco che incontinenti, come la hebbe
poftasoura del gremio di quellaReina,coliprestofparuilafeggedi oro elaReina
erauifu con tuttaquella moletudine,etcon ognicosa che
pareuaiui,epiunonfuuedutopurun puoco diueftigiodi quellinedelļicóukinedeli giuochi,
neapparui quelloche fuffe fatrodelcompagnio. Hor conoscendo ilfemplizzotro p r
e t e come full e stata quest caos a opera del demonio tutto smarrito e mezz o
fuoridife fteffo comentio di pregare Ido dio che non lo abbandonasse in
quellifilueftri luoghipriui diognihabitationedemortali.Ecosigirádohorindiequin
dilocchi,eandadomo qui,noliperquelliaspriluoghiper uedere sepuoteuaritrouare
qualcheueftigiodihuomini ac cioplotesse intenderedove fuffe, eritrouandofi
sempre in maggioriruineeboschie feluealfinpurranto caminoper quelle precipitose
ruppi, che dopo molto longa fatica, edoi po longospatioditempo con
grauiaffanniritrouo unpaz Atoredacuiintese,comeeradiscostoda quelluogodoue
andaua a portare ilcorpo di Christo da circa cento miglia, Poi che fu
ritornia:o con gran strache zza alla fuahabitatio ne
andodalMagistratodiMassimiliano Imperarore,erae coiolíiltuttoper ordineficome
horaio honartaro. Ma che coteste cosepoffoirefferfattedal Demonio telo dirano
Hi Theologgiliqualimostrano comelanatura dellicorpieub bediente alla uolonta
delle foftantie separate dalla materia quanroimpechó pertene almouere daluogo
aluogo.A n chora puotraiintêdereallaiessempiidellicorpihamanipot tatiperaria da
luogoaluogo,seryutoraidallilibridiFras teArrigo,etdi FrateGiacopo Thodeschi
eccellenti Theo Soggi dellordine'de Frati Predicatori chiamati il maltello,
loquale fecero,confirmandolocon affaiteftimoniodimoke cole che effi uideno
colliproprii occhi.Loquale maltello puotrai hauere,fetulouuoraiusarecontrodiquellicheso
noduri,enon uogliono credereiluero acciochetu lipieghi à douer
crederequellochesono abbrigaci ouero lilpacchi in cento migliara de pezzi.
APISTIO. Cenamentehoudij tounamarauigliosa cosa, laqualenon puooffuscare la
sera nottene anchose puo direche fusseun fomnio nechesalu ta cófeffataper
paura,ouero permatrocio,operqualche al trafintacagione.Ma
uorebbiintenderedachepuotepros cedere che sparislinotutte quelle cosenel
toccare diquella hoftia fagraca, concioliache li demonii, non solamentete m a n
o il toccare d i quella ma ancho cercano. e c o m a n da no che siano portate
assai di quelle al giuocoe di poi le fa m o gettare in terracon grādi scherni e
lifanno dare foucadelli piedi elifan faretuttequelle uergogne siposson
fare,fico m e disouraha parrato la Strega. DICASTO. Tunáti deb biper
questomarauigliare conciofiachefapiamo come se (pauentanoeDemonii
perilsegnodella santissima Croce,e nondimeno anchora qualche uolta
apparisconoinfiguradi Chrifto crocifisso accio piu facilmére posson ingånare
lhuol. mini.Inueritatidicochetunon timacauegliarestisetu ha. Yefli
Jettoleopereelauicadi santo Martino e di. S. Francesco di molti altri santi
eseancho. tuhauefliben effaininato come Messer Giesu Christo sendo anchor in
questa mortale CarneilqualescariaualiDemonii silasciotétatead esso De monio
eglipmeffecheloportafferouradelpinnacolodel
Tempio,edeindipoi'sourdaelmonte,& anchepermesle maggiorcosa,cioeche
fuffemalerattato da quelliperfidi Giudeiferui del demonio e tormentato, et ultima
menrecrocifico. Olcrodecio tupresupponichelaStreghenarrano
cheliDemoniiconculcano,ediano dellipiedisoucadelle hostie consegrare, ma non e
c o l i, con c i o l i a che non fanno corefto li Demonii m a/elbenverochelofa
questo lamay legnita dell’huomini asuggestione dieffiDemonii.Anchos
racredochecosicomefalafedeinsiemecon lariuerentia che fanno l’huomi in essa
santissima Croce,enella fagrolan (a hostia consagrata che il maladecto demonio
se ne fugge: cos ianchor uifaccifaretantiuituperiieffoperlagranmalistia de
essi, eper ilricuperio lifanno. Ma quanto al semplice u coprere. Credo
chefuflila semplicita diquello cagioneche sparefsinotutti quelli
apparecchiamenti, etuttequellalerico fé,emaggiormiére la
forzadellafedefecechenon solamente non f u ingannato in suo danno, ma anchor
fece c h e f u p e r e serunoacciopuotes le narrare allialorie dechiarare come
quella cofa dequihocą parlamehepareua effermoltodu biofa, cioelele streghe e
STREGONI vano al giuoco con il cor poouero solamente con la fantasia &
imaginatione ouero se vi possono andare punefleruera, & e verae non una
imaginatione. Auchar permette alcuna uolta la possanza de id
dio,chesiaschernitoilsagramento elaCroce,ellaltricose diuine,
&alcunavoltano:segondochealuipare.E perchela fa,sepuosempredarequalcheragioneingenerale,mianon
re puo imperhosempre isplicarein particolare, conciolia chi e tanto rozzo e
grosso l’occhiodell intelletto poftro, a dovere INVESTIGARE li secreti della
divina magiesta. APISTIO. Hormai son satisfattocon queste ragioni, ecitrouomi
conten to rendouscitodellenere& ofcurecauernedelledubitatio pi.FRONIMO.Ben
uedisetuhaialtrodubbio,efupresto chiedelachiarezzaa Dicasto, perchegia glimolto
poffenti euelocicaualliquasi hannotiratoilcarrodelsoleappo del suo SEGNO,
quabto al nostro hemispherio, accio non bisognali poi remanere quicoteftanotte,
sendo ferate le porte del castello. Il percheftareffimomolto
maleagevoli,questanotte delfinuerno,in cotesto Monastero a pena comenzato doui
non stritrouaanchor uerun letto. APISTIO. Hamnipare. che non cifiaaltroda
chiedere eccetto che delliueneficii o fano incanti. DICASTO. Di che cosa
dubith. APISTIO. Se fouofatti veramenteo purchepaionoesserfacti solamente con
la imaginatione. Conciona che affai ha manifeftato la forza
delladiuinaGiusticiasempregiustaenon sempre co: nosciuta perche Iddio alcuna
volta permetta, fepursefallo, & alcuna volta il prohibisca. FRONIMO. Non te
ricordi di: Lucio Samofateno, e di Lucio Madautefo. APISTIO. Si ben. Et ancho
mi ricordo di hauere alcunauoltaletto dette 5 cose, & anchegiaduoigiornifaleho
uditoramentarea te. Ma egli e ben vero che dubito affainon fianofauolee che in
ueritanó fufferofattecofiquellecoseche se narrano in quel asino greco et anche
latino. FRONIMO. Coli come iono dubito che siano assai cose finte emoltopiudiquellochelo
Etanchor sepurcoliuuoi che sianotutte quellecose che for n o ne detti libri
fauole et imaginationi, cosi anche credo che dett e favole e f i t c i of n i i
a n o c a nate da qual che vero fondamento.Conciosia che il nostro Divo Aurelio
Agostino iftir mo chequelle trasformacioni e tramutationiiscritteda Varrone cio
edelliaugelli di Diomede, delle bestie di Circee delli lupi di Archadia
pigliaffono origine e principio da qual, che cofa uera. Et anchor raccontanel
decimo otcauo libro della Citta di Dio, comeerausanzanetepi' suoi difaremol te
coseaffaifimilia quellechenarraouerofingea pulegio. Veroe che dice, come gli
demonii non possono fare ver una cora con la forza della sua natura se non la
permette Iddio. Lioccolti giudici di cui, fono infinitie non uisiritrouaimpe
tho verun dieffiingiufto. IIperchesepare che li demoni fa ciono qualche cosa
similea quelleche ha creatolomnipo. tente euero Iddio, eche pare chemutano una
speciedi uno animaleinunaltra:ouerotramutanouna creatura in unal tan,on euerochecofi,
fia,maebenuerochecosifaappare teouero imprimendo
dettefpecieefigurefintenellimagi, natione e fantasia, overo mettendo avanti li
occh i corporali un altraf inta specie e figura. E cosi io ile di 5 lui
che ha conturbata la fantasia, diesser una cosa in luogo di analera & il
simile parera allaltci. non dimeno fera imperho quel medemo, overo gli prepora
una similitudine auktiloco chi la quale di continuoglifaraparereefferecofi,
ecosicre. deca dieffer veduto anchedall altri.E coteftanon egramel raueglia,percheseun
corpo puo ingannarelifeptimeci corporali e farli parere una cosa altrimento di
quello che e-fico m e vediamo che failuietro, il quale imprime quell suocolore
nellocchio percotalmodoche fa parere tuttelaltrecosefimi leaTenelcolore, benche
fianoaltrimentoinsecolorate,quá t o maggior mete i spiriti ignudi da ogni
corpo, cio e li demo qualche uolta pareraacoi
nit Quotrano conturbare la fantasia er ingannare l’occhi elal
trisentimenti delle creature inferioris E coliin cotéfto modo iftimaraifuffero
quelle operediquei Almi, e di quella specie di quello prestance cauallo,
chiporcaua li gradi pesi ladispu tatione del philosopho, chdiifpucaua senza
corpo le cose di Platone le astute opere delli lupi di Arcadia, e liuerfi di
Circe che trafformaronoli compagni di Oliffe. Ecosituttecol tefte cosefedebbono
attribuire al spirito imaginario, ouero alla fantasia. che cosi era ingannata a
cui pareua essere quel la cosa che non era. Il simile anchor diremo della cerva
in uecede Iphigenia, e li augelli i uece delli compagni di Olisse, cioe
chefufferoposte simili imaginie figure dalli demonii
auktilocchidellhuomini,opur ancheforliuifuffipoftauna uera
cerua,etancheueriaugellinóuiapparëdoIphigenia nelicompagnidiOliffe,o
sendoiuipresente,oueroportati in aloriluoghi. DICASTO. O quanto ben, e quanto
brieueme tehaicuraccontatoquellecosdei santoAgoftino,enóman co uere ficomeio
iftimo.Eglie ferma cóclufione tenuta dal li theologgiqualmente sono soggietti
naturalmente i sentimenti dell’huomini e la imaginatione e fantasia alla
poffanza delli demonii, perche sono essi sentimenti e imaginatione inferiorie
manconobili di dettefoftārie separate eprine di ogni corpo eco si sendo
piunobili,glisonosoggietrequei Accosemen nobili,Iipercheanchor uoglionarrare
alcune verissime coseacoteft opposito per confermare quello che havemo detto
Eglietaccotatonelleuitedesati Padri come fuacconciataunagiouenenper incanti
incoralinodo ch epare g a u n a sfrenar a cavalla. I perche sendo presentata
avanti di santo Machario, perle orationi dieffu fuleuato d avanti l’occhi
diciascun quel prestigio, equellaillusione del demonio, eco si pareva in quel
modo sicome era in verita. Puote il demonio commovere li interiori sentimenti a
molti, alliqua lipareuafufli altrimentequellameschinagiouine di quello che eram
a non puote mouere imperhoeffisentimentiinte tioridisanto Machario fortificati
principalmene con loadiu torio di Iddio aface parere quello che non era Anchor
non aftregnega la finta figura di quel huomo, che paceua uno asino nella Citta
di Salamina della Isola di Cipro,liocchi
diciascuncheloucdeuadaiftimarecbelfuffeun Alino.eca cetto di quella donna m a g
a el incadratrice laquale glih a. uea per talmodo conturbato la fantasia colli
suoi maleficii, che anchealuipareyadi esser douentato uno asino, ecosi portaua
le legna in vece di giumento.Vero erchefaugiutato per prudentia dialcuni
niercatanti Genoueh, liquali ue: la Chiesa perfareriuerétiaetadorare Iddio
iftimaronoche quello non fufleuna vera bestia, eco si cercarono di agiutar. e
difareportarelamerite uole pena alla incantatrice. In verita ui dico che
possono fare li m alegni demonii appare temoltecose altrimente di quello che
fono,epossonom o ueremoltecoseerappresentarlenella fantasia,efareparece u n a
cosa in altro m o d o di quello chi-e-et anchora fare i li mile nelli corporali
senrimenti in un medelimo huomo. Oltro dicio occorre che fono ingannati liocchi
di quelli che vedono, et ancho e conturbato l’occhio della mente, fendomoffa la
imaginatione. Anchorsıcome,giaauantidi ceffimo,puo esserportatoilcorpo per
diuerfiluoghi.Ilger cheinteruiene che quelliliqualinon ben e sollicitamente
ellaminanoquestecosea parteaperparte facilmente sono ingannati ecosi non ben
chiaramentec onsiderando lilibri delli doreielitterati huomininon possondcitta
mente giudicare quanta differentia e fralle cose create, equelle che uscis seno
da qualche natura delle creature efra quello chi e intiero, e quello
chilerparte,efra iluero,e quello che erfimile aluero,equellochedimostra
lasuaimagine,equello che dimoftraquelladaltrui.Enon ben pesanocon la giustabio
y lanza la forza di tutta la natura nelaportanza delli demonii Er
alfineanchonon confiderano ligiudiciide Iddio,liquali speffe uolte sono
occultissimi anoi,ma impho sempresono fatlicolomma giustitia. FRON. Hormaise
appropinquala fera egia comencia di apparere la oscura noite il oche l’hora
tarda ciinuita di ritornare a casa. Siche Apistio se non seifatis Gattopģīta
nostra longa disputatione n ó poflo piu ueder che. Chi inginocchiare e
prostrare in terra aukti la porta del coradobbian
fareacciopollieffercôtéto.Cöcioliachetuhal poffutoconoscere come
queftomaladetto eriscommunica to giuoconon efictionene fauola. coliperli libri
dell’antichi, con e per l’opere fatte ne tempi nostri, e come egli e in
sostantia antichissimo e nuouo per molte conditionier che e Atato mutaro
secondo la maligna e perversa volonta delli demonii, eforsianchorlomutara,
percheetantalaasturiaelucili tadieffoiniquo inganrratoredell’huomini che
continuamen e cerca nuovi modi daposferingannarenoi. Ho dimoftrato a te li
Cerchi li unguenti, le parole magiche et incanti liu i a g o
giperligrandifpatidellariali lascivie libidinosi piaceri del li demonii che
sisonoritrouaricosi' ne tempi nostri, comene tempi delli Baroni antichi. E tho
dimostrato qualmente pen Saronolipecaerfi demoni di douer calonniaree
uituperare l’humana generationedallaprimaantiquitacioedalprimo huomo
perinfinoadhora.E comehaingannato Ihuomo collesueresposte,colliragionamenti con
lafamiliarita edi mestichezza,ecome ha cercatoperogniuiaemodo di ingå nare
ognifeffo,etognieracollifimulacri euarie imagini,et che
seesforzatodiufurpareladiuinita,e farsiadorarecome Dio,etche ha fatto
nuoceuoliconuitiallimortali,etcheliba portatoasimilitudinediun giumento
chehabbialeali, eco me hadesideratodihauer lisceleratiffimipiacericarnalicolo
lihuomini.M a perche iotiueggiohoramolto Atracco per tantouiaggiochehaifactocon
lanimotuoin diuerseregio nie paesi della [calia della Sicilia,etiolcrodel Ionio
mare e dello Eulino e tan cho r perche te ho codoico colli mei ragionamenti
nell’Africa nell'Asia, e perinsino alli Hiperborei Mode dovi non ci ho
condotto. Il perch es e ra h o ma i tempo ne debbicitornaremeco acasa. APISTIO.
Tudiiluero, liben hormaiehora.E cositecone uengo,emolto satisfaco. DICASTO. Se
i tudung content di quello chehauemodetto: Ec in uericaneuieninellanoftra
oppenione. APISTIO. Si certamente son contento, et inueritauidico, che credo
quello che e statodetto. DICASTO. Dicupurdado vero o pergivoco. APISTIO. Puo
effer quefto Dicasto, che tu iltimiche io dica quello per iscrizo e giuoco che
ha creduto tutta l’antiquita e tutta anchor la pofterit ad Io dico quello che
ancho confermano colli isperimenti & efsempii, li Poesi, Oratori, Hiftocici
leggitti, philosophi,theologgi, Ihuominipruden tili soldati lirufticie contadini,
beniche le ritrouano alcuni Sauioli, liqualiripucandosi piu
dotiefauiiditurcilaltri,che queftoniegano, DICASTO. Dung ficome io uedo tu hai
mutato oppenione. APISTIO. Che bisogna piu affirmarlo, Gia te l’ho detto, Eco
sipercheioho uefitolanimomiodi un altrohabitocuesta, epareame
dihauerritrouatola verita di quello cheprima non credeuo in questa cosa
giacendo nella nera et oscura tenebradella igriorantia e della fallita,
desiderograndemetediunutareilnome edipigliarneuna tro conueneuoleaquefto nuovo
habito, de cui hora son vefito. DICASTO. Molto mi piace, Eco li per fatiffare
alla tu honesta voglia cidarounnome
conuenientesicome addj mandi. Dug perlo auenire serai chiamato. PISTICO.
APISTIO.O. quantohammi piace queftonome.Horacoliper
ognimodouoglioefferchiamato. FRONIMO. Se piu non cirestacosa alcuna de cuitu
habbi desiderio de intendere. egli e hora che ci partiamo con buon al i centia
del Reverendo padre Inquisitore e che presto retorniamo al castello, Il perche
Vale Reverende padre. DICASTO. Ite tan in pace. Leandro Alberti. Alberti.
Keywords: diavolo, satana, mefistofele, angelo caduto, demonio, eudemonico.
Refs. Luigi Speranza, “Grice ed Alberti” – The Swimming-Pool Library, Villa
Speranza, Liguria.
Grice ed Alberti – della thoscana senz’autore -- filosofia ligure
– filosofia italiana – Luigi Speranza (Genova). Filosofo. Grice: “I like [Leon Battista] Alberti;
of course he is from Genova – Liguaria being the heart of my Italy, or the
Italy of my heart!” – Grice: “I like Alberti’s ramblings on love to his lawyer
friend – a full page without a p.s. – and it’s none of the Kantian
conversational maxims or Ovidian tactics, but just a prohibition to mingle with
the ladies!” -- Italian philosopher, on
‘aesthetics.’ Cf. Grice on sensation. Grice: “No one can fail to be enchanted by
Lusini’s great likeness of Alberti at the loggiato of the uffizi! Ah, if we had
the same at Oxford!” -- Genova-born essential Italian philosopherGrice, “I love
his “De statua”it’s more philosophical anthropology than aesthetics!” «Ci è un uomo che per la sua universalità parrebbe volesse
abbracciarlo tutto, dico Leon Battista Alberti, pittore, architetto, poeta,
erudito, filosofo e letterato» (Francesco de Sanctis, Storia della
letteratura italiana). Filosofo. Una delle figure artistiche più poliedriche
del Rinascimento. Il suo primo nome si trova spesso, soprattutto in testi
stranieri, come Leone. Alberti fa parte della seconda generazione di
umanisti (quella successiva a Vergerio, Bruni, Bracciolini, Francesco Barbaro),
di cui fu una figura emblematica per il suo interesse nelle più varie
discipline. Un suo costante interesse era la ricerca delle regole,
teoriche o pratiche, in grado di guidare il lavoro degli artisti. Nelle sue
opere menzionò alcuni canoni, ad esempio: nel "De statua" espose le
proporzioni del corpo umano, nel "De pictura" fornì la prima
definizione della prospettiva scientifica e infine nel "De re
aedificatoria" (opera cui lavorò fino alla morte, nel 1472), descrisse
tutta la casistica relativa all'architettura moderna, sottolineando
l'importanza del progetto e le diverse tipologie di edifici a seconda della
loro funzione. Tale opera lo renderà immortale nei secoli e motivo di studio a
livello internazionale da artisti come Eugène Viollet-le-Duc e John Ruskin.
Come architetto, Alberti viene considerato, accanto a Brunelleschi, il
fondatore dell'architettura rinascimentale. L'aspetto innovativo delle
sue proposte, soprattutto sia in ambito architettonico che umanistico,
consisteva nella rielaborazione moderna dell'antico, cercato come modello da
emulare e non semplicemente da replicare. La classe sociale a cui Alberti
faceva riferimento è comunque un'aristocrazia e alta "borghesia"
illuminata. Egli lavorò per committenti quali i Gonzaga a Mantova e (per la
tribuna della SS. Annunziata) a Firenze, i Malatesta a Rimini, i Rucellai a
Firenze. Presunto autoritratto su placchetta, (Parigi, Cabinet des
Medailles). Leon Battista nacque a Genova, figlio di Lorenzo Alberti, di una
ricca famiglia di mercanti e banchieri fiorentini banditi dalla città toscana a
partire dal 1388 per motivi politici, e da Bianca Fieschi, appartenente ad una
delle più nobili casate genovesi. I primi studi furono di tipo
letterario, dapprima a Venezia e poi a Padova, alla scuola dell'umanista
Gasparino Barzizza, dove apprese il latino e forse anche il greco. Si trasferì
poi a Bologna dove studiò diritto, coltivando parallelamente il suo amore per
molte altre discipline artistiche quali la musica, la pittura, la scultura, la
matematica, la grammatica e la letteratura in generale. Si dedicò all'attività
letteraria sin da giovane: a Bologna, infatti, già intorno ai vent'anni scrisse
una commedia autobiografica in latino, la Philodoxeos fabula. Compose in latino
il Momus, un originalissimo e avvincente romanzo mitologico, e le
Intercoenales; in volgare, compose un'importante serie di dialoghi (De familia,
Theogenius, Profugiorum ab ærumna libri, Cena familiaris, De iciarchia, dai
titoli rigorosamente in latino) e alcuni scritti amatori, tra cui la Deiphira,
ove raccoglie i precetti utili a fuggire da un amore mal iniziato. Dopo
la morte del padre, avvenuta nel 1421, l'Alberti trascorse alcuni anni di
difficoltà, entrando in forte contrasto con i parenti che non volevano
riconoscere i suoi diritti ereditari né favorire i suoi studi. In questi anni
coltivò soprattutto gli studi scientifici, astronomici e matematici. Sembra si
sia tuttavia concretamente laureato in diritto nel 1428 a Bologna, o forse a
Ferrara, nonostante le difficoltà economiche e di salute. Tra Padova e Bologna
intrecciò amicizie con molti importanti intellettuali, come Paolo Dal Pozzo
Toscanelli, Tommaso Parentuccelli, futuro papa Nicolò V e probabilmente Niccolò
Cusano. Per gli anni 1428-1431 poco si sa, benché debba escludersi che si
sia recato a Firenze dopo il ritiro del bandi contro gli Alberti, nel 1428, e
sia del pari assai poco probabile che al seguito del cardinal Albergati abbia
viaggiato in Francia e nel Nord Europa. Diventò segretario del patriarca
di Grado e, trasferitosi a Roma con questi, nel 1432 fu nominato abbreviatore
apostolico (il cui ruolo consisteva per l'appunto nel redigere i brevi
apostolici). Così entrò nel prestigioso ambiente umanistico della curia di papa
Eugenio IV, che lo nominò (1432) titolare della pieve di San Martino a
Gangalandi a Lastra a Signa, nei pressi di Firenze, beneficio di cui godette fino
alla morte. Vivendo prevalentemente a Roma ma spostandosi per periodi
anche lunghi e per varie incombenze a Ferrara, Bologna, Venezia, Firenze,
Mantova, Rimini e Napoli. Le prime opere letterarie Tra il 1433 e il
1434, scrisse in pochi mesi i primi tre libri de Familia, un dialogo in volgare
completato con un quarto libro nel 1437. Il dialogo è ambientato a Padova, nel
1421; vi partecipano vari componenti della famiglia Alberti, personaggi
realmente esistiti, scontrandosi su due visioni diverse: da un lato c'è la
mentalità moderna e borghese e dall'altro la tradizione, aristocratica e legata
al passato. L'analisi che il libro offre è una visione dei principali aspetti e
istituzioni della vita sociale dell'epoca, quali il matrimonio, la famiglia,
l'educazione, la gestione economica, l'amicizia e in genere i rapporti sociali:
l'Alberti esprime qui un punto di vista "filosofico" pienamente
umanistico, che ricorre in tutte le sue opere di carattere morale e che
consiste nella convinzione che gli uomini siano responsabili della propria
sorte e che la virtù sia insita nell'uomo e debba essere realizzata attraverso
l'operosità, la volontà e la ragione. A Firenze Statua di Leon
Battista Alberti, piazza degli Uffizi a Firenze. Alberti visse prevalentemente
a Firenze e Ferrara, al seguito della curia papale che fra l'altro partecipò al
Concilio, ossia alle sedute ferrarese e fiorentina del concilio ecumenico
(1438-39) che dovevano riappacificare la chiesa latina e le chiese
cristiano-orientali, in particolare quella greca. In questo periodo
l'Alberti assimila parte della cultura fiorentina, cercando (invero con
moderato successo) d'inserirsi nell'ambiente intellettuale e artistico della
città; sono verosimilmente gli anni in cui nascono i suoi interessi artistici,
che si traducono da subito nella duplice redazione (latina e volgare) del De
pictura (1435-36). Nel prologo della versione in volgare, dedica l'opera a
Brunelleschi e menziona anche i grandi innovatori delle arti del tempo:
Donatello, Masaccio (morto già nel 1428) e i Della Robbia. Intorno al
1443, al seguito del pontefice Eugenio IV lasciò Firenze, ma con la città
continuò ad avere intensi rapporti legati anche ai cantieri dei suoi
progetti. De pictura Magnifying glass icon mgx2.svg Il De pictura e scritto verosimilmente
dapprima in latino e tradotto poi in volgare; se la redazione latina, senza
ombra di dubbio la più importante e ricca, sarà dedicata al Gonzaga marchese di
Mantova, per quella volgare l'Alberti redasse una dedica al Brunelleschi che,
trasmessa da un solo codice strettamente legato al laboratorio personale
dell'Alberti, forse non fu mai inviata. Il De pictura rappresenta la prima
trattazione di una disciplina artistica non intesa solo come tecnica manuale,
ma anche come ricerca intellettuale e culturale, e sarebbe difficile
immaginarla fuori dallo straordinario contesto fiorentino e scritta da un
autore diverso dall'Alberti, grande intellettuale umanista e artista egli
stesso, anche se la sua attività nel campo delle arti figurative—attestata
(benché in modi non lusinghieri) già dal Vasari—dovette essere ridotta. Il
trattato è organizzato in tre "libri". Il primo contiene la più
antica trattazione della prospettiva. Nel secondo libro l'Alberti tratta di
“circoscrizione, composizione, e ricezione dei lumi”, cioè dei tre principi che
regolano l'arte pittorica: la circumscriptio consiste nel tracciare il
contorno dei corpi; la compositio è il disegno delle linee che uniscono i
contorni dei corpi e perciò la disposizione narrativa della scena pittorica, la
cui importanza è qui espressa per la prima volta con piena lucidità
intellettuale; la receptio luminum tratta dei colori e della luce. Il terzo
libro è relativo alla figura del pittore di cui si rivendica il ruolo di vero
artista e non, semplicemente, di artigiano. Con questo trattato Alberti
influenzerà non solo il Rinascimento ma tutto quanto si sarebbe detto sulla
pittura sino ai nostri giorni. La questione del volgare Pur scrivendo
numerosi testi in latino, lingua alla quale riconosceva il valore culturale e
le specifiche qualità espressive, l'Alberti fu un fervente sostenitore del
volgare. La duplice redazione in latino e in volgare del De pictura manifesta
il suo interesse per il dibattito allora in corso tra gli umanisti sulla possibilità
di usare il volgare nella trattazione di ogni materia. In un dibattito avvenuto
a Firenze tra gli umanisti della curia, Flavio Biondo aveva affermato la
diretta discendenza del volgare dal latino e l'Alberti, ne dimostra genialmente
la tesi componendo la prima grammatica del volgare, e ne riprende gli argomenti
difendendo l'uso del volgare nella dedicatoria del libro III de Familia a
Francesco d'Altobianco Alberti (1435-39 circa). Da qui deriva la
significativa esperienza del Certame coronario, una gara di poesia sul tema
dell'amicizia, organizzata a Firenze nell'ottobre 1441 dall'Alberti con il più
o meno tacito concorso di Piero de' Medici, una gara che doveva servire
all'affermazione del volgare, soprattutto in poesia, e alla quale va associata
la composizione dei sedici Esametri sull'amicizia da parte dell'AlbertiEsametri
ora pubblicati fra le sue Rime, innovative tanto nello stile quanto nella
metrica, che costituiscono uno dei primissimi tentativi di adattare i metri
greco-latini alla poesia volgare (metrica «barbara»). Nonostante ciò,
l'Alberti continuò a scrivere naturalmente in latino, come fece per gli Apologi
centum, una sorta di breviario della sua filosofia di vita. Chiusosi il
concilio a Firenze, ritornò con la curia papale a Roma. continuando a ricoprire
il ruolo di abbreviatore apostolico per ben 34 anni, fino al 1464, quando il
collegio degli abbreviatori fu soppresso. Durante la permanenza a Roma ebbe
modo di coltivare i propri interessi propriamente architettonici, che lo
indussero a proseguire lo studio delle rovine della Roma classica, come
dimostra la stessa Descriptio urbis Romae, risalente al 1450 circa, in cui
l'Alberti tentò con successo, per la prima volta nella storia, una
ricostruzione della topografia di Roma antica, mediante un sistema di
coordinate polari e radiali che permettono di ricostruire il disegno da lui
tracciato. I suoi interessi archeologici lo portarono anche a tentare il
recupero delle navi romane affondate nel lago di Nemi. Questi interessi
per l'architettura che diventeranno prevalenti negli ultimi due decenni della
sua vita, non impedirono una ricchissima produzione letteraria. Compone una
delle sue opere più interessanti, il Momus, un romanzo satirico in lingua
latina, che tratta in maniera abbastanza amara e disincantata della società
umana e degli stessi esseri umani. Dopo l'elezione di Niccolò V,
l'Alberti, come antico conoscente, entrò nella cerchia ristretta del papa, dal
quale ricevette anche la carica di priore di Borgo San Lorenzo. Tuttavia i
rapporti con il papa sono considerati piuttosto controversi dagli storici, sia
per quel che riguarda gli aspetti politici che per l'adesione o la
collaborazione dell'Alberti al vasto programma di rinnovamento urbano voluto da
Niccolò V. Forse venne impiegato durante il restauro del palazzo papale e
dell'acquedotto romano e della fontana dell'Acqua Vergine, disegnata in maniera
semplice e lineare, creando la base sulla quale, in età Barocca, sarebbe stata
costruita la Fontana di Trevi. Intorno al 1450 Alberti cominciò ad
occuparsi più attivamente di architettura con numerosi progetti da eseguire
fuori Roma, a Firenze, Rimini e Mantova, città in cui si recò varie volte
durante gli ultimi decenni della sua vita. In tal modo dopo la metà del
secolo l'Alberti fu la figura-guida dell'architettura. Questo riconosciuto
primato rende anche difficile distinguere, nella sua opera, l'attività di
progettazione dalle tante consulenze e dall'influenza più o meno diretta che
dovette avere, per esempio, sulle opere promosse a Roma, sotto Niccolò V, come
il restauro di Santa Maria Maggiore e Santo Stefano Rotondo o come la
costruzione di Palazzo Venezia, il rinnovamento della basilica di San Pietro,
del Borgo e del Campidoglio. Potrebbe forse essere stato il consulente che
indica alcune linee-guida o, ma ben più difficilmente, aver avuto un ruolo
anche meno indiretto. Sicuramente il prestigio della sua opera e del suo
pensiero teorico condizionarono direttamente l'opera di progettisti come
Francesco del Borgo e Bernardo Rossellino, influenzando anche Giuliano da
Sangallo. Morì a Roma, all'età di 68 anni. Il De re
aedificatoria Frontespizio Matteo de' Pasti, Medaglia di Leon Battista
Alberti. Magnifying glass icon mgx2.svg
De re aedificatoria. Le sue riflessioni teoriche trovarono espressione
nel De re aedificatoria, un trattato di architettura in latino, scritto
prevalentemente a Roma, cui l'Alberti lavorò fino alla morte e che è rivolto
anche al pubblico colto di educazione umanistica. Il trattato fu concepito sul
modello del De architectura di Vitruvio. L'opera, considerata il trattato
architettonico più significativo della cultura umanistica, è divisa anch'essa
in dieci libri: nei primi tre si parla della scelta del terreno, dei materiali
da utilizzare e delle fondazioni (potrebbero corrispondere alla categoria
vitruviana della firmitas); i libri IV e V si soffermano sui vari tipi di
edifici in relazione alla loro funzione (utilitas); il libro VI tratta la
bellezza architettonica (venustas), intesa come un'armonia esprimibile matematicamente
grazie alla scienza delle proporzioni, con l'aggiunta di una trattazione sulle
macchine per costruire; i libri VII, VIII e IX parlano della costruzione dei
fabbricati, suddividendoli in chiese, edifici pubblici ed edifici privati; il
libro X tratta dell'idraulica. Nel trattato si trova anche uno studio
basato sulle misurazioni dei monumenti antichi per proporre nuovi tipi di
edifici moderni ispirati all'antico, fra i quali le prigioni, che cercò di
rendere più umane, gli ospedali e altri luoghi di pubblica utilità. Il
trattato fu stampato a Firenze nel 1485, con una prefazione del Poliziano a
Lorenzo il Magnifico, e poi a Parigi e a Strasburgo. Venne in seguito tradotto
in varie lingue e diventò ben presto imprescindibile nella cultura
architettonica moderna e contemporanea. Nel De re aedificatoria,
l'Alberti affronta anche il tema delle architetture difensive e intuisce come
le armi da fuoco rivoluzioneranno l'aspetto delle fortificazioni. Per aumentare
l'efficacia difensiva indica che le difese dovrebbero essere "costruite
lungo linee irregolari, come i denti di una sega" anticipando così i
principi della fortificazione alla moderna. L'attività come architetto a
Firenze A Firenze lavorò come architetto soprattutto per Giovanni Rucellai,
ricchissimo mercante e mecenate, intimo amico suo e della sua famiglia. Le
opere fiorentine saranno le sole dell'Alberti a essere compiute prima della sua
morte. Palazzo Rucellai Facciata di palazzo Rucellai. Forse sin dal
1439-1442 gli venne commissionata la costruzione del palazzo della famiglia
Rucellai, da ricavarsi da una serie di case-torri acquistate da Giovanni
Rucellai in via della Vigna Nuova. Il suo intervento si concentrò sulla
facciata, posta su un basamento che imita l'opus reticulatum romano, realizzata
tra il 1450 e il 1460. È formata da tre piani sovrapposti, separati
orizzontalmente da cornici marcapiano e ritmati verticalmente da lesene di
ordine diverso; la sovrapposizione degli ordini è di origine classica come nel
Colosseo o nel Teatro di Marcello, ed è quella teorizzata da Vitruvio: al piano
terreno lesene doriche, ioniche al piano nobile e corinzie al secondo. Esse
inquadrano porzioni di muro bugnato a conci levigati, in cui si aprono finestre
in forma di bifora nel piano nobile e nel secondo piano. Le lesene decrescono
progressivamente verso i piani superiori, in modo da creare nell'osservatore
l'illusione che il palazzo sia più alto di quanto non sia in realtà. Al di
sopra di un forte cornicione aggettante si trova un attico, caratteristicamente
arretrato rispetto al piano della facciata. Il palazzo creò un modello per
tutte le successive dimore signorili del Rinascimento, venendo addirittura
citato pedissequamente da Bernardo Rossellino, suo collaboratore, per il suo
palazzo Piccolomini a Pienza (post 1459). Attribuita all'Alberti è anche
l'antistante Loggia Rucellai, o per lo meno il suo disegno. Loggia e palazzo
andavano così costituendo una sorta di piazzetta celebrante la casata, che
viene riconosciuta come uno dei primi interventi urbanistici
rinascimentali. Facciata di Santa Maria Novella Facciata di Santa
Maria Novella, Firenze. Su commissione del Rucellai, progettò anche il
completamento della facciata della basilica di Santa Maria Novella, rimasta
incompiuta nel 1365 al primo ordine di arcatelle, caratterizzate
dall'alternarsi di fasce di marmo bianco e di marmo verde, secondo la secolare
tradizione fiorentina. I lavori iniziarono intorno al 1457. Si presentava il
problema di integrare, in un disegno generale e classicheggiante, i nuovi
interventi con gli elementi esistenti di epoca precedente: in basso vi erano
gli avelli inquadrati da archi a sesto acuto e i portali laterali, sempre a
sesto acuto, mentre nella parte superiore era già aperto il rosone, seppur
spoglio di ogni decorazione. Alberti inserì al centro della facciata inferiore
un di proporzioni classiche, inquadrato
da semicolonne, in cui inserì incrostazioni in marmo rosso per rompere la
bicromia. Per terminare la fascia inferiore pose una serie di archetti a tutto sesto
a conclusione delle lesene. Poiché la parte superiore della facciata risultava
arretrata rispetto al basamento (un tema molto comune nell'architettura
albertiana, derivata dai monumenti della romanità) inserì una fascia di
separazione a tarsie marmoree che recano una teoria di vele gonfie al vento,
l'insegna personale di Giovanni Rucellai; il livello superiore, scandito da un
secondo ordine di lesene che non hanno corrispondenza in quella inferiore,
sorregge un timpano triangolare. Ai lati, due doppie volute raccordano l'ordine
inferiore, più largo, all'ordine superiore più alto e stretto, conferendo alla
facciata un moto ascendente conforme alle proporzioni; non mascherano come
spesso si è detto erroneamente gli spioventi laterali che risultano più bassi,
come si evince osservando la facciata dal lato posteriore. La composizione con
incrostazioni a tarsia marmorea ispirate al romanico fiorentino, necessaria in
questo caso per armonizzare le nuove parti al già costruito, rimase una
costante nelle opere fiorentine dell'Alberti. Secondo Rudolf Wittkower:
"L'intero edificio sta rispetto alle sue parti principali nel rapporto di
uno a due, vale a dire nella relazione musicale dell'ottava, e questa
proporzione si ripete nel rapporto tra la larghezza del piano superiore e
quella dell'inferiore". La facciata si inscrive infatti in un quadrato
avente per lato la base della facciata stessa. Dividendo in quattro tale
quadrato, si ottengono quattro quadrati minori; la zona inferiore ha una superficie
equivalente a due quadrati, quella superiore a un quadrato. Altri rapporti si
possono trovare nella facciata tanto da realizzare una perfetta proporzione.
Secondo Franco Borsi: "L'esigenza teorica dell'Alberti di mantenere in
tutto l'edificio la medesima proporzione è qui stata osservata ed è appunto la
stretta applicazione di una serie continua di rapporti che denuncia il
carattere non medievale di questa facciata pseudo-protorinascimentale e ne fa
il primo grande esempio di eurythmia classica del Rinascimento".
Altre opere Il tempietto del Santo Sepolcro. Attribuito all'Alberti è il
progetto dell'abside della pieve di San Martino a Gangalandi presso Lastra a
Signa. L'Alberti fu rettore di San Martino dal 1432 fino alla sua morte. La
chiesa, di origine medievale, ha il suo punto focale nell'abside, chiusa in
alto da un arco a tutto sesto con decorazione a motivi di candelabro e con
lesene in pietra serena sorreggenti un architrave che reca un'iscrizione a
lettere capitali dorate, ornata alle due estremità dalle arme degli Alberti.
L'abside è ricordata incepta et quasi perfecta nel testamento di Leon Battista
Alberti, e fu infatti terminata dopo la sua morte, tra il 1472 e il 1478.
Del 1467 è un'altra opera per i Rucellai, il tempietto del Santo Sepolcro nella
chiesa di San Pancrazio a Firenze, costruito secondo un parallelepipedo
spartito da paraste corinzie. La decorazione è a tarsie marmoree, con figure
geometriche in rapporto aureo; le decorazioni geometriche, come per la facciata
di Santa Maria Novella, secondo l'Alberti inducono a meditare sui misteri della
fede. Ferrara Il campanile del duomo di Ferrara. L'Alberti fu a
Ferrara a varie riprese, e sicuramente tra il 1438 e il 1439, stringendo
amicizie alla corte estense. Vi ritorna nel 1441 e forse nel 1443, chiamato a
giudicare la gara per un monumento equestre a Niccolò III d'Este. In tale
occasione forse dette indicazioni per il rinnovo della facciata del Palazzo
Municipale, allora residenza degli Estensi. A lui è stato attribuito da
insigni storici dell'arte, ma esclusivamente su basi stilistiche, anche
l'incompleto campanile del duomo, dai volumi nitidi e dalla bicromia di marmi
rosa e bianchi. Rimini Tempio Malatestiano, Rimini. Nel 1450
l'Alberti venne chiamato a Rimini da Sigismondo Pandolfo Malatesta per
trasformare la chiesa di San Francesco in un tempio in onore e gloria sua e
della sua famiglia. Alla morte del signore (1468) il tempio fu lasciato
incompiuto mancando della parte superiore della facciata, della fiancata
sinistra e della tribuna. Conosciamo il progetto albertiano attraverso una
medaglia incisa da Matteo de' Pasti, l'architetto a cui erano stati affidati
gli ampliamenti interni della chiesa e in generale tutto il cantiere.
Tempio malatestiano sulla medaglia di Matteo de' Pasti. L'Alberti ideò un
involucro marmoreo che lasciasse intatto l'edificio preesistente. L'opera
prevedeva in facciata una tripartizione con archi scanditi da semicolonne
corinzie, mentre nella parte superiore era previsto una specie di frontone con
arco al centro affiancato da paraste e forse due volute curve. Punto focale era
il centrale, con timpano triangolare e
riccamente ornato da lastre marmoree policrome nello stile della Roma
imperiale. Ai lati due archi minori avrebbero dovuto inquadrare i sepolcri di
Sigismondo e della moglie Isotta, ma furono poi tamponati. Le fiancate
invece sono composte da una sequenza di archi su pilastri, ispirati alla
serialità degli acquedotti romani, destid accogliere i sarcofagi dei più alti
dignitari di corte. Fianchi e facciata sono unificati da un alto zoccolo che
isola la costruzione dallo spazio circostante. Ricorre la ghirlanda circolare,
emblema dei Malatesta, qui usata come oculo. Interessante è notare come Alberti
traesse spunto dall'architettura classica, ma affidandosi a spunti locali, come
l'arco di Augusto, il cui modulo è triplicato in facciata. Una particolarità di
questo intervento è che il rivestimento non tiene conto delle
precedenti aperture gotiche: infatti, il passo delle arcate laterali non è
lo stesso delle finestre ogivali, che risultano posizionate in maniera sempre
diversa. Del resto Alberti scrive a Matteo de' Pasti che «queste larghezze et
altezze delle Chappelle mi perturbano». Per l'abside era prevista una
grande rotonda coperta da cupola emisferica simile a quella del Pantheon. Se
completata, la navata avrebbe allora assunto un ruolo di semplice accesso al
maestoso edificio circolare e sarebbe stata molto più evidente la funzione
celebrativa dell'edificio, anche in rapporto allo skyline cittadino.
Mantova Chiesa di San Sebastiano, Mantova. Basilica di Sant'Andrea,
Mantova. Nel 1459 Alberti fu chiamato a Mantova da Ludovico III Gonzaga,
nell'ambito dei progetti di abbellimento cittadino per il Concilio di
Mantova. San Sebastiano Il primo intervento mantovano riguardò la chiesa
di San Sebastiano, cappella privata dei Gonzaga, iniziata nel 1460. L'edificio
fece da fondamento per le riflessioni rinascimentali sugli edifici a croce
greca: è infatti diviso in due piani, uno dei quali interrato, con tre bracci
absidati attorno ad un corpo cubico con volta a crociera; il braccio anteriore
è preceduto da un portico, oggi con cinque aperture. La parte superiore
della facciata, spartita da lesene di ordine gigante, è originale del progetto
albertiano e ricorda un'elaborazione del tempio classico, con architrave
spezzata, timpano e un arco siriaco, a testimonianza dell'estrema libertà con
cui l'architetto disponeva gli elementi. Forse l'ispirazione fu un'opera
tardo-antica, come l'arco di Orange. I due scaloni di collegamento che
permettono l'accesso al portico non fanno parte del progetto originario, ma
furono aggiunte posteriori. Sant'Andrea Il secondo intervento, sempre su
commissione dei Gonzaga, fu la basilica di Sant'Andrea, eretta in sostituzione
di un precedente sacrario in cui si venerava una reliquia del sangue di Cristo.
L'Alberti creò il suo progetto «... più capace più eterno più degno più lieto...»
ispirandosi al modello del tempio etrusco ripreso da Vitruvio e
contrapponendosi al precedente progetto di Antonio Manetti. Innanzitutto mutò
l'orientamento della chiesa allineandola all'asse viario che collegava Palazzo
Ducale al Tè. La chiesa a croce latina, iniziata nel 1472, è a navata
unica coperta a botte con lacunari, con cappelle laterali a base rettangolare
con la funzione di reggere e scaricare le spinte della volta, inquadrate negli
ingressi da un arco a tutto sesto, inquadrato da un lesene architravate. Il
tema è ripreso dall'arco trionfale classico ad un solo fornice come l'arco di
Traiano ad Ancona. La grande volta della navata e quelle del transetto e degli
atri d'ingresso si ispiravano a modelli romani, come la Basilica di
Massenzio. Per caratterizzare l'importante posizione urbana, venne data
particolare importanza alla facciata, dove ritorna il tema dell'arco: l'alta
apertura centrale è affiancata da setti murari, con archetti sovrapposti tra
lesene corinzie sopra i due portali laterali. Il tutto, coronato da un timpano
triangolare a cui si sovrappone, per non lasciare scoperta l'altezza della volta,
un nuovo arco. Questa soluzione, che enfatizza la solennità dell'arco di
trionfo e il suo moto ascensionale, permetteva anche l'illuminazione della
navata. Sotto l'arco venne a formarsi uno spesso atrio, diventato il punto di
filtraggio tra interno ed esterno. La facciata è inscrivibile in un
quadrato e tutte le misure della navata, sia in pianta che in alzato, si
conformano ad un preciso modulo metrico. La tribuna e la cupola (comunque
prevista da Alberti) vennero completate nei secoli successivi, secondo un
disegno estraneo all'Alberti. I caratteri dell'architettura albertiana Le
opere più mature di Alberti evidenziano una forte evoluzione verso un
classicismo consapevole e maturo in cui, dallo studio dei monumenti antichi
romani, l'Alberti ricavò un senso delle masse murarie ben diverso dalla
semplicità dello stile brunelleschiano. I modi originali albertiani precorsero
l'arte del Bramante. I caratteri innovativi di Alberti furono: La colonna deve
sostenere la trabeazione e deve essere usata come ornamento per le fabbriche;
l'arco deve essere costruito sopra i pilastri. Il De statua Il trattato,
scritto in latino, è relativo alla teoria della scultura e risale al1450 circa.
Nel De statua, l'Alberti rielaborò profondamente le concezioni e le teorie
relative alla scultura tenendo conto delle innovazioni artistiche del
Rinascimento, attingendo anche ad una rilettura critica delle fonti classiche e
riconoscendo, tra i primi dignità intellettuale alla scultura, prima di allora
sempre condizionata dal pregiudizio verso un'attività tanto manuale. Nel
trattato che si compone di 19 capitoli, l'Alberti parte, sulla scorta di
Plinio, dalla definizione dell'arte plastica tridimensionale distinguendo la
scultura o per via di porre o per via di levare, dividendola secondo la tecnica
utilizzata: togliere e aggiungere: sculture con materie molli, terra e
cera eseguita dai "modellatori" levare: scultura in pietra, eseguita
dagli "scultori" Tale distinzione fu determinante nella concezione
artistica di molti scultori come Michelangelo e non era mai stata espressa con
tanta chiarezza. Il definitor, lo strumento inventato da Leon
Battista Alberti. Relativamente al metodo da utilizzare per raggiungere il fine
ultimo della scultura che è l'imitazione della natura, l'Alberti
distingue: la dimensio (misura) che definisce le proporzioni generali
dell'oggetto rappresentato mediante l’exempeda, una riga diritta modulare atta
a rilevare le lunghezze e squadre mobili a forma di compassi (normae), con cui
misurare spessori, distanze e diametri. la finitio, definizione individuale dei
particolari e dei movimenti dell'oggetto rappresentato, per la quale Alberti
suggerisce uno strumento da lui ideato: il definitor o finitorium, un disco
circolare cui è fissata un'asta graduata rotante, da cui pende un filo a
piombo. Con esso si può determinare qualsiasi punto sul modello mediante una
combinazione di coordinate polari e assiali, rendendo possibile un
trasferimento meccanico dal modello alla scultura. Alberti sembra anticipare i
temi relativi alla raffigurazione 'scientifica' della figura umana che è uno
dei temi che percorre la cultura figurativa rinascimentale. e addirittura
aspetti dell'industrializzazione e addirittura della digitalizzazione, visto
che il definitor trasformava i punti rilevati sul modello in dati
alfanumerici. L'opera fu tradotta in volgare nel 1568 da Cosimo Bartoli.
Il testo latino originale fu stampato solo alla fine del XIX secolo, mentre
solo recentemente sono state pubblicate traduzioni moderne. I sistemi di definizione
meccanica dei volumi proposti dall'Alberti, appassionarono Leonardo che
approntò, come si può rilevare dai suoi disegni, dei sistemi alternativi,
sviluppati a partire dal trattato albertiano e utilizzò le "Tabulae
dimensionum hominis" del "De statua" per realizzare il
celeberrimo "Uomo vitruviano". Il Crittografo Alberti fu
inoltre un geniale crittografo e inventò un metodo per generare messaggi
criptati con l'aiuto di un apparecchio, il disco cifrante. Sua fu infatti
l'idea di passare da una crittografia con tecnica "monoalfabetica"
(Cifrario di Cesare) ad una con tecnica "polialfabetica", codificata
teoricamente parecchi anni dopo da Blaise de Vigenère. In The Codebreakers. The
Story of Secret Writing, lo storico della crittologia David Kahn attribuisce
all'Alberti il titolo di Father of Western Cryptology (Padre della crittologia
occidentale). Kahn ribadisce questa definizione, sottolineando le ragioni che
la giustificano, nella prefazione all'edizione italiana del testo albertiano:
«Questo volume elegante e sottile riproduce il testo più importante di tutta la
storia della crittologia; un primato che il De cifris di Leon Battista Alberti
ben si merita per i tre temi cruciali che tratta: l'invenzione della
sostituzione polialfabetica, l'uso della crittanalisi, la descrizione di un
codice sopracifrato.» Tra le altre attività di Alberti ci fu anche la
musica, per la quale fu considerato uno dei primi organisti della sua epoca.
Disegnò anche delle mappe e collaborò con il grande cartografo Paolo Toscanelli.
De iciarchia Iciarco e Iciarchia sono due termini usati dall'Alberti nel
dialogo De iciarchia composto nel 1470 circa, pochi anni prima della sua morte
(avvenuta nel 1472) e ambientato nella Firenze medicea di quegli anni. Le due
parole sono di origine greca ("Pogniàngli nome tolto da' Greci, iciarco:
vuol dire supremo omo e primario principe della famiglia sua", libro III),
e sono formate da oîkos o oikía "casa, famiglia" e arkhós "capo
supremo, principe, principio". Il nome stesso di iciarco vuole
esprimere quello che secondo il parere dell'autore è il governante ideale:
colui che sia come un padre di famiglia nei confronti dello Stato. Secondo le
parole dell'Alberti, "il suo compito sarà (...) provedere alla salute,
quiete, e onestamento di tutta la famiglia, fare sì che amando e benificando è
suoi, tutti amino lui, e tutti lo reputino e osservino come padre"
(ivi). Questo ruolo di "padre di famiglia" del governante
ideale era finalizzato, nella sua visione politica, ad una stabilità, in definitiva
"conservatrice", che permetterebbe di governare senza discordie che,
dilaniando lo Stato, nuocerebbero a tutto il corpo sociale ("Inoltre la
prima cura sua sarà che la famiglia sia senza niuna discordia unitissima. Non
esser unita la famiglia circa le cose (...) che giovano, nuoce sopra modo
molto., ivi). Il termine iciarco, nato coll'Alberti e strettamente legato
alla sua visione "paternalistica" del governo dello Stato, non ebbe
comunque alcun seguito e non risulta che sia mai più stato impiegato nel
lessico politico. Opere: “Apologi centum”; “Cena familiaris”; “De amore”; “De equo
animante (Il cavallo vivo); “De Iciarchia”; “De componendis cifris”; “Deiphira”;
“De picture”; “Porcaria coniuratio”; “De re aedificatoria”; “De statua”;
“Descriptio urbis Romae”; “Ecatomphile”; “Elementa picturae”; “Epistola
consolatoria”; “Grammatica della lingua toscana” (meglio nota come
Grammatichetta vaticana); “Intercoenales”; “De familia libri IV”; “Ex ludis
rerum mathematicorum”; “Momus”; “Philodoxeos fabula”; “Profugiorum ab ærumna
libri III”; “Sentenze pitagoriche”; “Sophrona”; “Theogenius Villa” -- Opere
architettoniche Palazzo Rucellai, Firenze, Via della Vigna Nuova Loggia
Rucellai, Firenze, Via della Vigna Nuova Facciata di Santa Maria Novella, Firenze,
Santa Maria Novella Abside di San Martino, 1472-1478, Lastra a Signa, Pieve di
San Martino a Gangalandi Tempietto del Santo Sepolcro, Firenze, Chiesa di San
Pancrazio Tempio Malatestiano (incompiuto), iniziato nel 1450 circa, Rimini,
Tempio Malatestiano Chiesa di San Sebastiano, 1460 circa, Mantova, Chiesa di
San Sebastiano Basilica di Sant'Andrea, 1472-1732, Mantova, Basilica di Sant'Andrea
(Mantova) Palazzo Romei, Vibo Valentia Manoscritti Liber de iure, scriptus
Bononiae anno 1437, XV secolo, Milano, Biblioteca Ambrosiana, Fondo manoscritti,
Trivia senatoria, XV secolo, Milano, Biblioteca Ambrosiana, Fondo manoscritti.
Cecil Grayson, Studi su Leon Battista Alberti, Firenze, Olschki, L.B. Alberti, De pictura, C. Grayson,
Laterza, 1980: versione on line Copia archiviata, su liberliber. Christoph L.
Frommel, Architettura e committenza da Alberti a Bramante, Olschki, 2006, Bernardo Rucellai, De bello italico,
Donatella Coppini, Firenze University Press, De re Aedificatoria In tale occasione manifestò il suo interesse
per la morfologia e l'allevamento dei cavalli con il breve trattato De equo
animante dedicato a Leonello d'Este. De Vecchi-Cerchiari, cit.95.
De Vecchi-Cerchiari, cit.104 Rudolf Wittkower, op. cit. 1993 Rudolf Wittkower,op. cit. 1993 Leon
Battista Alberti, De statua, M. Collareta, 1998
Mario Carpo, L'architettura dell'età della stampa: oralità, scrittura,
libro stampato e riproduzione meccanica dell'immagine nella storia delle teorie
architettoniche, Simon Singh, Codici e Segreti45 David Kahn, The Codebreakers,
Scribner. Il nome deriva dal fatto che il libello, di appena 16 carte, è
conservato in una copia del 1508 in un codice in ottavo della Biblioteca
vaticana. Lo scritto non ha epigrafe, pertanto il titolo è stato assegnato in
seguito: fu riscoperto infatti nel 1850 e dato alle stampe solo nel 1908. viviamolacalabria.blogspot.com,
viviamolacalabria.blogspot.com//09/esempio-tangibile-di-palazzo-nobiliare.html?m=1.
Leon Battista Alberti, De re aedificatoria, Argentorati, excudebat M. Iacobus
Cammerlander Moguntinus, 1541. Leon
Battista Alberti, De re aedificatoria, Florentiae, accuratissime impressum
opera magistri Nicolai Laurentii Alamani. Leon Battista Alberti, Opere volgari.
1, Firenze, Tipografia Galileiana, Leon Battista Alberti, Opere volgari. 2,
Firenze, Tipografia Galileiana, Leon Battista Alberti, Opere volgari. 4,
Firenze, Tipografia Galileiana, 1847. Leon Battista Alberti, Opere volgari. 5,
Firenze, Tipografia Galileiana, Leon Battista Alberti, Opere, Florentiae, J. C.
Sansoni, Leon Battista Alberti, Trattati d'arte, Bari, Laterza, Leon Battista Alberti, Ippolito e Leonora,
Firenze, Bartolomeo de' Libri, prima. Leon Battista Alberti, Ecatonfilea,
Stampata in Venesia, per Bernardino da Cremona, Leon Battista Alberti, Deifira,
Padova, Lorenzo Canozio, Leon Battista Alberti, Teogenio, Milano, Leonard
Pachel, Leon Battista Alberti, Libri della famiglia, Bari, G. Laterza, 1960.
Leon Battista Alberti, Rime e trattati morali, Bari, Laterza, 1966. Albertiana,
Rivista della Société Intérnationale Leon Battista Alberti, Firenze, Olschki, Franco
Borsi, Leon Battista Alberti: Opera completa, Electa, Milano, Giovanni Ponte,
Leon Battista Alberti: Umanista e scrittore, Tilgher, Genova, 1981; Paolo
Marolda, Crisi e conflitto in Leon Battista Alberti, Bonacci, Roma, Roberto
Cardini, Mosaici: Il nemico dell'Alberti, Bulzoni, Roma 1990; Rosario
Contarino, Leon Battista Alberti moralista, presentazione di Francesco Tateo,
S. Sciascia, Caltanissetta 1991; Pierluigi Panza, Leon Battista Alberti:
Filosofia e teoria dell'arte, introduzione di Dino Formaggio, Guerini, Milano
1994; Pierluigi Panza, introduzione a "De Amore" di Leon Battista
Alberti, in Estetica. Le scritture dell’eros, annuario S. Zecchi, Il Mulino,
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Firenze 1998; Stefano Borsi, Momus, o Del principe: Leon Battista Alberti, i
papi, il giubileo, Polistampa, Firenze, Luca Boschetto, Leon Battista Alberti e
Firenze: Biografia, storia, letteratura, Olschki, Firenze; Alberto G. Cassani,
La fatica del costruire: Tempo e materia nel pensiero di Leon Battista Alberti,
Unicopli, Milano 2000; Pierluigi Panza, “Alberti e il mondo naturale”, in Lettere e arti nel Rinascimento, Atti
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Cesati editore, Firenze, Elisabetta Di Stefano, L'altro sapere: Bello, arte,
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Palermo, Rinaldo Rinaldi, Melancholia Christiana. Studi sulle fonti di Leon
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Siekiera, linguistica albertiana,
Firenze, Edizioni Polistampa, 2004 (Edizione Nazionale delle Opere di Leon
Battista Alberti, Serie «Strumenti», 2); FrancescoFiore: La Roma di Leon
Battista Alberti. Umanisti, architetti e artisti alla scoperta dell'antico
nella città del Quattrocento, Skira, Milano, Leon Battista Alberti architetto,
Giorgio Grassi e Luciano Patetta, testi di Giorgio Grassi et alii, Banca CR,
Firenze; Restaurare Leon Battista Alberti: il caso di Palazzo Rucellai,
Simonetta Bracciali, presentazione di Antonio Paolucci, Libreria Editrice
Fiorentina, Firenze, Stefano Borsi, Leon Battista Alberti e Napoli, Polistampa,
Firenze, Gabriele Morolli, Leon Battista Alberti. Firenze e la Toscana,
Maschietto Editore, Firenze, 2006. F. Canali, "Leon Battista Alberti
"Camaleonta" e l'idea del Tempio Malatestiano dalla Storiografia al
Restauro, in Il Tempio della Meraviglia, F. Canali, C. Muscolino, Firenze, F.
Canali, La facciata del Tempio Malatestiano, in Il Tempio della Meraviglia, F.
Canali, C. Muscolino, Firenze, 2007. V. C. Galati, "Ossa" e
"illigamenta" nel De Re aedificatoria. Caratteri costruttivi e
ipotesi strutturali nella lettura della tecnologia antiquaria del cantiere del
Tempio Malatestiano, in Il Tempio della Meraviglia, F. Canali, C. Muscolino,
Firenze, 2007 “Il mito dell’Egitto in Alberti”, in Leon Battista Alberti teorico delle arti e
gli impegni civili del “De re aedificatoria”, Atti dei Convegni internazionali
di studi del Comitato Nazionale per le celebrazioni albertiane, Mantova, Arturo
Calzona, Francesco Paolo Fiore, Alberto Tenenti, Cesare Vasoli, Firenze, Olschki,
Alberti e la cultura del Quattrocento, Atti del Convegno internazionale di
Studi, (Firenze, Palazzo Vecchio, Salone dei Dugento, 16-17-18 dicembre 2004),
R. Cardini e M. Regoliosi, Firenze, Edizioni Polistampa, Brunelleschi, Alberti
e oltre, F. Canali, «Bollettino della Società di Studi Fiorentini», F. Canali, R Tracce albertiane nella Romagna
umanistica tra Rimini e Faenza, in Brunelleschi, Alberti e oltre, F. Canali,
«Bollettino della Società di Studi Fiorentini», 16-17, 2008. V. C. Galati,
Riflessioni sulla Reggia di Castelnuovo a Napoli: morfologie architettoniche e
tecniche costruttive. Un univoco cantiere antiquario tra Donatello e Leon
Battista Alberti?, in Brunelleschi, Alberti e oltre, F. Canali, «Bollettino
della Società di Studi Fiorentini», 1F. Canali, V. C. Galati, Leon Battista
Alberti, gli 'Albertiani' e la Puglia umanistica, in Brunelleschi, Alberti e
oltre, F. Canali, «Bollettino della Società di Studi Fiorentini», G. Morolli,
Alberti: la triiplice luce della pulcritudo, in Brunelleschi, Alberti e oltre,
F. Canali, «Bollettino della Società di Studi Fiorentini», G. Morolli, Pienza e
Alberti, in Brunelleschi, Alberti e oltre, F. Canali, «Bollettino della Società
di Studi Fiorentini», Christoph Luitpold Frommel, Alberti e la porta trionfale
di Castel Nuovo a Napoli, in «Annali di architettura» n° 20, Vicenza leggere
l'articolo; Massimo Bulgarelli, Leon Battista Alberti,Architettura e storia,
Electa, Milano 2008; Caterina Marrone, I segni dell'inganno. Semiotica della
crittografia, Stampa Alternativa &a mp;Graffiti, Viterbo; Pierluigi Panza,
“Animalia: La zoologia nel De Re Aedificatoria", Convegno Facoltà di
Architettura Civile, Milano, in Albertiana, S. Borsi, Leon Battista Alberti e
Napoli, Firenze,. V. Galati, Il Torrione quattrocentesco di Bitonto dalla
committenza di Giovanni Ventimiglia e Marino Curiale; dagli adeguamenti ai
dettami del De Re aedificatoria di Leon Battista Alberti alle proposte di Francesco
di Giorgio Martini in Defensive Architecture of the Mediterranean XV to XVIII
centuries, G. Verdiani,, Firenze,, III. V. Galati, Tipologie di Saloni per le
udienze nel Quattrocento tra Ferrara e Mantova. Oeci, Basiliche, Curie e
"Logge all'antica" tra Vitruvio e Leon Battista Alberti nel
"Salone dei Mesi di Schifanoia a Ferrara e nella "Camera Picta"
di Palazzo Ducale a Mantova, in Per amor di Classicismo, F. Canali «Bollettino
della Società di Studi Fiorentini», S. Borsi, Leon Battista, Firenze,. Roberto
Rossellini gli ha dedicato un film- documentario per la TV nintitolato
"L'età di Cosimo dei Medici" (88'). Architettura rinascimentale Rinascimento
fiorentino Rinascimento riminese Rinascimento mantovano Medaglia di Leon
Battista Alberti.TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Leon Battista Alberti, in
Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Leon Battista
Alberti, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Leon Battista Alberti, in Dizionario
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Alberti, su MacTutor, University of St Andrews, Scotland. Opere di Leon Battista Alberti, su Liber
Liber. Opere di Leon Battista Alberti,
su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Leon Battista Alberti,. su Leon
Battista Alberti, su Les Archives de littérature du Moyen Âge. Leon Battista
Alberti, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. La
aggiornata degli studi albertiani dal 1995 in poi, e le informazioni più
recenti sulla ricerca albertiana, su alberti.wordpress.com. Il sito della
Société Internationale Leon Battista Alberti, su silba-online.eu. Biografia
breve, su imss.fi. Fondazione Centro Studi Leon Battista AlbertiMantova, su
fondazioneleonbattistaalberti. Momus, (testo in latino, Roma 1520), facsimile,
progetto Europeana agent/base/
Identitieslccn. Que' che affermano la lingua latina non
essere stata comune a tutti e' populi latini, ma solo propria di certi dotti
scolastici, come oggi la vediamo in pochi, credo deporranno quello errore
vedendo questo nostro opuscolo, in quale io raccolsi l'uso della lingua nostra in
brevissime annotazioni. Qual cosa simile fecero gl'ingegni grandi e studiosi
presso a' Greci prima e po' presso de e' Latini, e chiamornoqueste simili
ammonizioni, atte a scrivere e favellare senza corruttela, suo nome,
grammatica. Questa arte, quale ella sia in la lingua nostra, leggetemi e
intenderetela. I. Ordine delle lettere. i r t d b v n
u m p q g c e o a x z l s f ç ch gh
concordanze II. Vocali. Ogni parola e dizione toscana finisce
in vocale. Solo alcuni articoli de' nomiin l e alcune preposizioni finiscono in
d, n, r. Le cose in molta parte hanno in lingua toscana que' medesimi
nomi che in latino. Non hanno e' Toscani fra e' nomi altro che masculino
e femminino. E' neutrilatini si fanno masculini. Pigliasi in ogni nome
latino lo ablativo singulare, e questo s'usa in ogni casosingulare, così al
masculino come al femminino. A e' nomi masculini l'ultima vocale si
converte in i, e questo s'usa in tutti e' casi plurali. A e' nomi
femminini l'ultima vocale si converte in e, e questo s'usa in ogni caso plurale
per e' femminini. Alcuni nomi femminini in plurale non fanno in e: come,
la mano fa le mani. E ogni nome femminino, quale in singulare finisca in
e, fa in plurale in i: come la orazione, le orazioni; stagione, stagioni;
confusioni, e simili. E' casi de' nomi si notano co' suoi articoli, dei
quali sono vari e' masculini da e' femminini. Item e' masculini, che
cominciano da consonante, hanno certi articoli non fatti come quando e'
cominciano da vocale. Item e' nomi propri sono vari dagli
appellativi. Masculini che cominciano da consonante hanno articoli simili
a questo: 1. SINGULARE. EL cielo DEL cielo AL cielo EL cielo
O cielo DAL cielo. 2. PLURALE. E' cieli DE' cieli A' cieli E'
cieli O cieli DA' cieli. Masculini, che cominciano da vocale, fanno in
singulare simile a questo: 3. SINGULARE. LO orizzonte DELLO
orizonte ALLO orizonte LO orizonte O orizonte DALLO orizonte.
PLURALE. GLI orizonti DEGLI orizonti AGLI orizonti GLI orizonti O
orizonti DAGLI orizonti. E' nomi masculini che cominciano da s preposta a
una consonante hanno articoli simili a quei che cominciano da vocale, e dicesi:
LO spedo, LO stocco, GLI spedi, e simile. Questi vedesti che sono vari da
quei di sopra nel singulare, el primo articoloe anche el quarto; ma nel plurale
variorono tutti gli articoli. Nomi propri masculini non hanno el primo
articolo, né anche el quarto, e fanno simili a questi: Propri masculini,
che cominciano da consonante, in singulare fanno così: Cesare DI Cesare A
Cesare Cesare O Cesare DA Cesare. Nomi propri, che cominciano da vocale,
nulla variano da' consonanti, eccetto che al terzo vi si aggiugne d, e
dicesi: Agrippa DI Agrippa AD Agrippa, ecc. In plurale non
s'adoperano e' nomi propri, e se pur s'adoperassero, tutti fanno come
appellativi. E' nomi femminini, o propri o appellativi, o in vocale o in
consonante che e' cominciano, tutti fanno simile a questo: rdanze 5.
SINGULARE. LA stella DELLA stella ALLA stella LA stella O stella
DALLA stella. LA aura DELLA aura ALLA aura LA aura O aura DALLA
aura. PLURALE. LE stelle DELLE stelle ALLE stelle LE stelle O
stelle DALLE stelle. LE aure DELLE aure ALLE aure LE aure O aure DALLE
aure. E' nomi delle terre s'usano come propri, e dicesi: Roma superò
Cartagine. E simili a' nomi propri s'usano e' nomi de' numeri: uno, due,
tre, e cento e mille, e simili; e dicesi: tre persone, uno Dio, nove cieli, e
simili. E quei nomi che si referiscono a' numeri non determinati come
ogni, ciascuno, qualunque, niuno, e simili, e come tutti, parecchi, pochi,
molti, e simili, tutti si pronunziano simili a e' nomi propri senza primo e
quartoarticolo. E' nomi che importano seco interrogazione come chi e che
e quale e quanto e simili, quei nomi che si riferiscono a questi interrogatori,
come tale e tanto e cotale e cotanto, si pronunciano simili a e' propri nomi,
pur senza primo e quarto articolo, e dicesi: Io sono tale quale voresti
essere tu; e amai tale che odiava me. Chi s'usa circa alle persone,
e dicesi: Chi scrisse? Che significa quanto presso a e' Latini Qui e
Quid. Significando Quid, s'usa circa alle cose, e dicesi: Che leggi?
Significando Qui, s'usa circa alle persone, e dicesi: Io sono colui che
scrissi. Chi di sua natura serve al masculino, ma aggiunto a questo verbo
sono, sei, è, serve al masculino e al femminino, e dicesi: Chi sarà tua
sposa? Chi fu el maestro? Chi sempre si prepone al verbo. Che si prepone
e pospone. Che, preposto al verbo, significa quanto presso a e' Latini
Quid e Quantum e Quale, come: Che dice? Che leggi? Che uomo ti paio? Che ti
costa? Che, posposto al verbo, significa quanto apresso e' Latini Ut e
Quod, come dicendo: I' voglio che tu mi legga. Scio che tu me amerai. E'
nomi, quando e' dimostrano cosa non certa e diterminata, si pronunziano senza
primo e quarto articolo, come dicendo: Io sono studioso. Invidia lo move.
Tu mi porti amore. Ma quando egli importano dimostrazione certa e diterminata,
allora si pronunzianocoll'articolo come qui: Io sono lo studioso e tu el dotto.
E' nomi simili a questo: primo, secondo, vigesimo, posti dietro a questo verbo
sono, sei, è, non raro si pronunziano senza el primo articolo, e dicesi: Tu
fusti terzo e io secondo; e ancora si dice: Costui fu el quarto, elprimo, el
secondo, ecc. Uno, due, tre, e simili, quando e' significano ordine, vi
si pone l'articolo, e dicesi: Tu fusti el tre, e io l'uno. Il dua è numero
paro, ecc. Fra tutti gli altri nomi appellativi, questo nome Dio s'usa
come proprio, e dicesi: Lodato Dio. Io adoro Dio. Gli articoli hanno
molta convenienza co' pronomi, e ancora e' pronomihanno grande similitudine con
questi nomi relativi qui recitati. Adonquesuggiungeremogli. De' pronomi,
e' primitivi sono questi: io tu esso questo quello costui lui colui. Mutasi
l'ultima vocale in a e fassi il femminino, e dicesi: questa, quella, essa. Solo
io e tu, in una voce, serve al masculino e al femminino. E' plurali di
questi primitivi pronomi sono vari, e anche e' singulari. Declinansi
così: Io e i': di me: a me e mi: me e mi: da me. Noi: di noi: a noi
e ci: noi e ci: da noi. Tu: di te: a te e ti: te e ti: o tu: da te.
Voi: di voi: a voi e vi: voi e vi: o voi: da voi. Esso ed e': di se e si:
se e si: da se; ed Egli. Non troverrai in tutta la lingua toscana casi
mutati in voce altrove che in questi tre pronomi: io, tu, esso. Gli altri
primitivi se declinano così: Questo: di questo: a questo: questo: da
questo. Quello: di quello: a quello: quello: da quello. Muta o in i
e arai el plurale, e dirai: Questi: di questi: a questi: questi: da
questi. E il somigliante fa quelli. E così sarà costui e lui e
colui, simili a quegli in singulare; ma in pluralecostui fa costoro, lui fa
loro, colui fa coloro, di coloro, a coloro, coloro, da coloro. Questo e
quello mutano o in a e fassi el femminino singulare, e dicesi:questa e quella;
e fassi il suo plurale: queste, di quelle, a quelle. Lui, costui, colui,
mutano u in e e fassi el singulare femminino, e dicesi: costei, lei, colei, di
colei, ecc. In plurale hanno quella voce che e' masculini, cioè: loro, coloro,
costoro, di costoro, a costoro, ecc. Vedesti come, simile a' nomi propri,
questi pronomi primitivi non hanno el primo articolo né anche el quarto. A
questa similitudine fanno e' pronomi derivativi, quando e' sono subiunti a e'
propri nomi. Ma quando si giungono agli appellativi, si pronunziano co' suoi
articoli. Derivativi pronomi sono questi, e declinansi così: El
mio, del mio, ecc., e plurale: e' miei, de' miei, ecc. El nostro, del
nostro, ecc. E plurale: e' nostri, de' nostri, ecc. El tuo. Plurale: e'
tuoi. El vostro. Plurale: e' vostri. El suo. E pluraliter: e' suoi,
ecc. Mutasi, come a e' nomi, l'ultima in a, e fassi el singulare
femminino: qual a, converso in e, fassi el plurale, e dicesi: mia e mie;
vostra, vostre; sua e sue. In uso s'adropano questi pronomi non tutti a
un modo. E' derivativi, giunti a questi nomi, padre, madre, fratello,
zio, e simili, si pronunziano senza articolo, e dicesi: mio padre, nostra
madre, e tuo zio, ecc. Mi e me, ti e te, ci e noi, vi e voi, si e sé sono
dativi insieme e accusativi, come di sopra gli vedesti notati. Ma hanno questo
uso che, preposti al verbo, si dice mi, ti, ci, ecc.; come qui: e' mi chiama;
e' ti vuole; que' vi chieggono; io mi sto; e' si crede. Posposti al
verbo, se a quel verbo sarà inanzi altro pronome o nome, si dirà come qui: io
amo te, e voglio voi. Si al verbo non sarà aggiunto inanzi altro nome o
pronome si dirà: -i, come qui: aspettaci, restaci, scrivetemi. Lui e
colui dimostrano persone, come dicendo: lui andò, colei venne. Questo e quello
serve a ogni dimostrazione, e dicesi: Questo essercitopredò quella provincia,
e: Questo Scipione superò quello Annibale. E' ed el, lo e la, le e gli,
quali, giunti a' nomi, sono articoli, quando si giungono a e' verbi, diventano
pronomi e significano quello, quella, quelle, ecc. E dicesi: Io la amai; Tu le
biasimi: Chi gli vuole? Ma di questi, egli ed e' hanno significato
singulare e plurale; e, prepostialla consonante, diremo e', come qui: e' fa
bene; e' sono. E, preposti alla vocale, si giugne e' e gli, e dicesi: egli
andò; egli udivano. E quando segue loro s preposta a una consonante,
ancora diremo: egli spiega; egli stavano. Potrei in questi pronomi essere
prolisso, investigando più cose quali s'osservano, simili a queste: Vi
preposto a' presenti singulari indicativi, d'una sillaba, si scrive in la prima
e terza persona per due v, e simile in la seconda persona presenteimperativa,
come stavvi e vavvi; e ne' verbi, d'una e di più sillabe, la prima singulare
indicativa del futuro, come amerovvi, leggerovvi, darotti, adoperrocci, e
simile. Ma forse di queste cose più particulari diremoaltrove. III.
Seguitano e’ verbi. Non ha la lingua toscana verbi passivi, in
voce; ma, per esprimere elpassivo, compone con questo verbo sono, sei, è, el
participio preteritopassivo tolto da e' Latini, in questo modo: Io sono amato;
Tu sei pregiato; Colei è odiata. E simile, si giugne a tutti e' numeri e tempi
e modi di questo verbo. Adonque lo porremo qui distinto. 1.
INDICATIVO. Sono, sei, è. Plurale: siamo, sete, sono. Ero,
eri, era. Plurale: eravamo e savamo, eravate e savate, erano. Fui,
fusti, fu. Plurale: fumo, fusti, furono. Ero, eri, era stato. Plurale:
eravamo e savamo, eravate e savate, erano stati. Sarò, sarai, sarà. Plurale:
saremo, sarete, saranno. Hanno e' Toscani, in voce, uno preterito quasi
testé, quale, in questo verbo, si dice così: Sono, sei, è stato. Plurale:
siamo, sete, sono stati. E dicesi: Ieri fui ad Ostia; oggi sono stato a
Tibuli. ndere i link alle concordanze IMPERATIVO. Sie tu, sia
lui. Plurale: siamo, siate, siano. Sarai tu, sarà lui. Plurale: saremo,
ecc. OTTATIVO. Dio ch 'io fussi, tu fussi, lui fusse. Plurale:
fussimo, fussi, fussero. Dio ch'io sia, sii, sia stato. Plurale: siamo,
siate, siano stati. Dio ch'io fussi, fussi, fusse stato. Plurale:
fussimo, fussi, fussero stati. Dio ch'io sia, sii, sia. Plurale: siamo,
siate, siano. SUBIENTIVO. Bench'io, tu, lui sia. Plurale:
siamo, siate, siano. Bench'io fussi, tu fussi, lui fusse. Plurale:
fussimo, fussi, fussero. Bench'io sia, sii, sia stato. Plurale: siamo,
siate, siano stati. Bench'io fussi, fussi, fusse stato. Plurale: fussimo,
fussi, fussero stati. Bench'io sarò, sarai, sarà stato. Plurale: saremo,
sarete, saranno stati. E usasi tutto l'indicativo di questo e d'ogni
altro verbo, quasi come subientivo, prepostovi qualche una di queste dizioni:
se, quando, benché, e simili. E dicesi: bench'io fui; se e' sono; quando e'
saranno. INFINITO. Essere, essere stato. GERUNDIO.
Essendo PARTICIPIO. Essente Dirassi adonque, per
dimostrare el passivo: Io sono stato amato; fui pregiato; e sarò lodato; tu sei
reverito. Hanno e' Toscani certo modo subientivo, in voce, non notato da
e' Latini; e parmi da nominarlo asseverativo, come questo: Sarei, saresti, sarebbe.
Plurale: saremo, saresti, sarebbero. E dirassi così: Stu fussi dotto,
saresti pregiato. Se fussero amatori dellapatria, e' sarebbero più
felici. IV. Seguitano e’ verbi attivi. Le coniugazioni
de' verbi attivi in lingua toscana si formano dal gerundio latino, levatone le
ultime tre lettere ndo, e quel che resta si fa terza persona singulare
indicativa e presente. Ecco l'essemplo: amandolevane ndo, resta ama; scrivendo
resta scrive. Sono adonque due coniugazioni: una che finisce in a,
l'altra finisce in e. Alla coniugazione in a, quello a si muta in o, e
fassi la prima personasingulare indicativa e presente; e mutasi in i, e fassi
la seconda; e così si forma tutto il verbo, come vedrai la similitudine qui, in
questo esposto: INDICATIVO. Amo, ami, ama. Plurale: amiamo,
amate, amano. Amavo, amavi, amava. Plurale: amavamo, amavate,
amavano. Amai, amasti, amò. Plurale: amamo, amasti, amarono.
Ho, hai, ha amato. Plurale: abbiamo, avete, hanno amato. Amerò,
amerai, amerà. Plurale: ameremo, amerete, ameranno. In questa lingua ogni
verbo finisce in o la prima indicativa presente, e in questa coniugazione
prima, finisce ancora in o la terza singulare indicativadel preterito. Ma
ècci differenza, ché quella del preterito fa el suo o longo, e quella del presente
lo fa o breve. IMPERATIVO. Ama tu, ami lui. Plurale: amiamo,
amate, amino. Amerai tu, amerà colui. Plurale: ameremo,
ecc. OTTATIVO. Dio ch'io amassi, tu amassi, lui amasse.
Plurale: Dio che noi amassimo, voi amassi, loro amassero. Dio ch'io
abbia, tu abbi, lui abbia amato. Plurale: Dio che noi abbiamo, abbiate, abbino
amato. Dio ch'io avessi, tu avessi, lui avesse amato. Plurale: Dio che
noi avessimo, avessi, avessero amato. Dio ch'io, tu, lui ami. Plurale:
amiamo, amiate, amino. SUBIENTIVO. Bench'io, tu, lui ami.
Plurale: amiamo, amiate, amino. Bench'io, tu amassi, lui amasse.
Plurale: amassimo, amassi, amassero. Bench'io abbia, abbi, abbia amato.
Plurale: abbiamo, abbiate, abbino amato. Bench'io avessi, tu avessi, lui
avesse amato. Plurale: avessimo, avessi, avessero amato. Bench'io arò,
arai, arà amato. Plurale: aremo, arete, aranno amato. ASSERTIVO.
Amerei, ameresti, amerebbe. Plurale: ameremo, ameresti, amerebbero.
INFINITO. Amare, avere amato. GERUNDIO.
Amando. 8. PARTICIPIO. Amante. Vedi come a e'
tempi testé perfetti e al futuro del subientivo mancano sue proprie voci, e per
questo si composero simile a' verbi passivi: el suo participio co' tempi e voci
di questo verbo ho, hai, ha. Qual verbo, benché e' sia della coniugazione
in a, pur non sequita la regola esimilitudine degli altri, però che egli è
verbo d'una sillaba, e così tutti e'monosillabi sono anormali. Né
troverrai in tutta la lingua toscana verbi monosillabi altri che questi sei: Do;
Fo; Ho; Vo; Sto; Tro. Porremogli adonque qui sotto distinti. Ma, per
esser breve, notiamo che e' sono insieme dissimili ne e' preteritiperfetti
indicativi, e ne' singulari degli imperativi, e nel singulare del
futuroottativo, ne' quali e' fanno così: DO: diedi, desti, dette.
Plurale: demo, desti, dettero. FO: feci, facesti, fece. Plurale: facemo,
facesti, fecero. HO: ebbi, avesti, ebbe. Plurale: avemo, avesti,
ebbero. VO: andai, andasti, andò. Plurale: andamo, andasti,
andarono. STO: stetti, stesti, stette. Plurale: stemo, stesti,
stettero. TRO: tretti, traesti, trette. Plurale: traemo, traesti,
trettero. In tutti e' verbi, come fa la seconda persona singulare del
preterito, così fa la seconda sua plurale; come amasti, desti, leggesti.
DO: da tu, dia lui. FO: fa tu, faccia lui. HO: abbi tu, abbia
lui. VO: va tu, vada lui. STO: sta tu, stia lui. TRO: tra tu,
tria lui. DO: Dio ch'io dia, tu dia, lui dia. FO: faccia, facci,
faccia. HO: abbia, abbi, abbia. VO: vada, vadi, vada. STO:
stia, stii, stia. TRO: tragga, tragghi, tragga. V. Seguita la
coniugazione in e. Questa si forma simile alla coniugazione in a.
Mutasi quello e in o, e fassi la prima presente indicativa. Mutasi in i, e
fassi la seconda, come qui: leggente e scrivente, levatone nte, resta legge,
scrive; onde si fa leggo, leggi, leggeva, leggerò, ecc. Solo varia dalla
coniugazione in ain que' luoghi dove variano e' monosillabi. Ma questa
coniugazione in e varia in più modi, benché comune faccia e' preteriti perfetti
indicativiin -ssi, per due s, come: leggo, lessi; scrivo, scrissi. Ma que'
verbi che finiscono in -sco fanno e' preteriti in -ii per due i, come esco,
uscii;ardisco, ardii; anighittisco, anighittii. Ma, per più suavità, nella
linguatoscana non si pronunziano due iunte vocali. Da questi verbi si
eccettuano cresco ed e' suoi compositi, rincresco, accresco, e simili, quali
finiscono, a' preteriti perfetti, in -bbi, come crebbi, rincrebbi. Item,
nasco fa nacqui, e conosco fa conobbi. E que' verbi che finiscono in mo fanno
e' preteriti in -etti, come premo, premetti; e quei che finiscono in do fanno
e' preteriti in -si, per uno s, come ardo, arsi; spargo, sparsi; eccetto vedo
fa vidi; odo, udi'; cado, caddi; godo, godei e godetti. E quegli che finiscono
in ndo fanno preteriti -si, per uno s: prendo, presi; rispondo, risposi;
eccetto vendo fa vendei e vendetti. Sonci di queste regole forse altre
eccezioni, ma per ora basti questo principio di tanta cosa. Chi che sia, a cui
diletterà ornare la patrianostra, aggiugnerà qui quello che ci manchi.
Dicemo de' preteriti, resta a dire degli altri. IMPERATIVO.
Leggi tu, legga colui. OTTATIVO. Futuro singulare: Dio
ch'io scriva, tu scriva, lui scriva. E così fanno tutti. Verbi
impersonali si formano della terza persona del verbo attivo in tutti e' modi e
tempi, giuntovi si, come: amasi, leggevasi, scrivasi. Ma questo si suole
trasporlo innanzi al verbo, giuntovi e', e dicesi: e' si legge; e' si corre; e
massime nell'ottativo e subientivo sempre si prepone, e dicesi: Dio che e'
s'ami; quando e' si leggera', e simile. VI. Seguitano le
preposizioni. Di queste alcune non caggiono in composizione, e sono
queste: oltre, sino, dietro, doppo, presso, verso, 'nanzi, fuori, circa.
Preposizioni che caggiono in composizione e ancora s'adoperano seiunte,
sono di una sillaba o di più. D'una sillaba sono queste: DE: de'
nostri; detrattori. AD: ad altri; admiratori. CON: con certi;
conservatori. PER: per tutti; pertinace. DI: di tanti;
diminuti. IN: in casa; importati. Di, preposto allo infinito, ha
significato quasi come a' Latini ut. E dicono: Io mi sforzo d'essere
amato. Quelle de più sillabe sono queste: SOTTO sottoposto
SOPRA sopraposto e dicesi ENTRO entromesso CONTRO
contraposto Preposizioni quali s'adoperano solo in composizione:
Re, sub, ob, se, am, tras, ab, dis, ex, pre, circum; onde si dice: trasposi e
circumspetto. VII. Seguitano gli avverbi. Per e' tempi, si
dice: oggi, testé, ora, ieri, crai, tardi, omai, già, allora, prima, poi, mai,
sempre, presto, subito. Per e' luoghi, si dice: costì, colà, altrove,
indi, entro, fuori, circa, quinci, costinci, e qui e ci, e ivi e vi. Onde si
dice: Io voglio starci, io ci starò, pro qui; e verrovvi e io vi starò, pro
ivi. Pelle cose, si dice: assai, molto, poco, più, meno. Negando,
si dice: nulla, no, niente, né. Affirmando, si dice: sì, anzi, certo,
alla fe'. Domandando, si dice: perché, onde, quando, come, quanto.
Dubitando: forse. Narrando, si dice: insieme, pari, come, quasi, così,
bene, male, peggio, meglio, ottime, pessime, tale, tanto. Usa la lingua
toscana questi avverbi, in luogo di nomi, giuntovi l'articolo, e dice: el bene,
del bene, ecc.; qual cosa ella ancora fa degli infiniti, e dicono: el leggere,
del leggere. Ma a più nomi, pronomi e infiniti giunti insieme, solo in
principio della loro coniunzione usa preporre non più che uno articolo, e
dicesi: el tuo buono amare mi piace. Item, a similitudine della lingua
gallica, piglia el Toscano e' nomisingulari femminini adiettivi e aggiungevi
-mente, e usagli per avverbi, come saviamente, bellamente, magramente.
VIII. Interiezioni. Sono queste: hen, hei, ha, o, hau, ma,
do. IX. Coniunzioni. Sono queste: mentre, perché, senza, se,
però, benché, certo, adonque, ancora, ma, come, e, né, o, segi (sic). E
congiunge; né disiunge; o divide; senza si lega solo a' nomi e agli infiniti. E
dicesi: senza più scrivere; tu e io studieremo; che né lui né lei siano
indotti; o piaccia o dispiaccia questa mia invenzione. E questo ne ha
vario significato e vario uso. Se si prepone simplice a' nomi, a' verbi, a'
pronomi, significa negazione, come qui: né tu né io meritiamo invidia. E
significa in; ma, aggiuntovi l, serve a' singularimasculini e femminini; e
senza l, serve a' plurali quali comincino da consonante. A tutti gli altri
plurali, masculini e femminini si dice nel-; e quando s sarà preposta alla
consonante, pur si dice: nello spazzo, nelle camere, ne' letti, nello essercito
di Dario, negli orti. E questo ne, se sarà subiunto a nome o al pronome,
significa di qui, di questo, di quello, secondo che l'altre dizioni vi si
adatteranno, come chi dice: Cesare ne va, Pompeio ne viene. E questo ne,
posposto al verbo, sarà o doppo a monosillabi o doppo a quei di più sillabe; e
più, o significa interrogazione o affirmazione o precetto. Adonque, doppo l'indicativo
monosillabo, la interrogazione si scrive, in la prima e terza persona, per due
n, la seconda per uno n, come, interrogando, si dice: vonne io? va' ne tu?
vanne colui? Nello imperativo si scrive la seconda per due n, e dicesi: vanne,
danne. La terza si scrive per uno, e dicesi: diane lui, traggane. E questi
monosillabi, la prima indicativa presente, affirmando, si scrive per due n, e
dicono: fonne, vonne, honne. Se sarà el verbo di più sillabe, la
interrogazione e affirmazione si scrive per uno n in tutti e' tempi, eccetto la
affirmazione in lo futuro, quale si scrive per due n, come dicendo: portera' ne
tu? porteronne. E questo sino qui detto s'intenda per e' singulari, però che a'
plurali siscrive quello ne sempre per uno n, come andiamone. Non mi stendo
negli altri simili usi a questi. Basti quinci intendere e' principi
d'investigare lo avanzo. E' vizi del favellare in ogni lingua sono o
quando s'introducono alle cose nuovi nomi, o quando gli usitati si adoperano
male. Adoperanosimale, discordando persone e tempi, come chi dicesse: tu ieri
andaremoalla mercati. E adoperanosi male usandogli in altro significato alieno,
come chi dice: processione pro possessione. Introduconsi nuovi nomio in tutto
alieni e incogniti o in qualunque parte mutati. Alieni sono in Toscana
più nomi barberi, lasciativi da gente Germana, quale più tempo militò in
Italia, come elm, vulasc, sacoman, bandier, e simili. In qualche parte mutati
saranno quando alle dizionis'aggiungerà o minuirà qualche lettera, come chi
dicesse: paire pro patre, e maire pro matre. E mutati saranno come chi dicesse:
replubicapro republica, e occusfato pro offuscato; e quando si ponesse una
lettera per un'altra, come chi dicesse: aldisco pro ardisco, inimisi pro
inimici. Molto studia la lingua toscana d'essere breve ed espedita, e per
questo scorre non raro in qualche nuova figura, qual sente di vizio. Ma
questivizi in alcune dizioni e prolazioni rendono la lingua più atta, come chi,
diminuendo, dice spirto pro spirito; e massime l'ultima vocale, e dice papi, e
Zanobi pro Zanobio; credon far quel bene. Onde s'usa che a tutti gl'infiniti,
quando loro segue alcuno pronome in i, allora si gettal'ultima vocale e dicesi:
farti, amarvi, starci, ecc. E, mutando lettere, dicono mie pro mio e mia,
chieggo pro chiedo,paio pro paro, inchiuso pro incluso, chiave pro clave. E,
aggiugnendo, dice vuole pro vole, scuola pro scola, cielo pro celo. E, in
tuttotroncando le dizioni, dice vi pro quivi, e similiter, stievi pro stia
ivi. Si questo nostro opuscolo sarà tanto grato a chi mi leggerà, quanto
fu laborioso a me el congettarlo, certo mi diletterà averlo promulgato, tanto
quanto mi dilettava investigare e raccorre queste cose, a mio iudizio, degne e
da pregiarle. Laudo Dio che in la nostra lingua abbiamo omai e' primi
principi: di quello ch'io al tutto mi disfidava potere assequire.
Cittadini miei, pregovi, se presso di voi hanno luogo le mie fatighe, abbiate a
grado questo animo mio, cupido di onorare la patria nostra. E insieme,
piacciavi emendarmi più che biasimarmi, se in parte alcuna ci vedete errore.
Que’ che affermano la lingua latina non essere stata comune a tutti e’
populi latini, ma solo propria di certi dotti scolastici, come oggi la vediamo
in pochi, credo deporranno quello errore vedendo questo nostro opuscolo, in
quale io raccolsi l’uso della lingua nostra in brevissime annotazioni. Qual
cosa simile fecero gl’ingegni grandi e studiosi presso a’ Greci prima e po’
presso de e’ Latini, e chiamorno queste simili ammonizioni, atte a scrivere e
favellare senza corruttela, suo nome, grammatica. Questa arte, quale ella sia
in la lingua nostra, leggetemi e intenderetela. Ordine delle
lettere I r t d b v n u m p q g c e o a x z l s f ç ch
gh Vocali a, ę ẻ i o ô u ę è é ę Coniunctio ể Verbum ẻ Articulus el
ghiro girò al çio el zembo. e volse pôrci a’ porci quèllo chẻ ể pẻlla pelle.
[p. facsimile1] Tavv. 1-2. Roma, Bibl. Vaticana, Cod. Vat. Reginense Lat.
1370, «Della thoscana senza auttore», cc 1r-v (cfr. p. 361) [p. 178] Ogni
parola e dizione toscana finisce in vocale. Solo alcuni articoli de’ nomi in l
e alcune preposizioni finiscono in d, n, r. Le cose in molta parte hanno
in lingua toscana que’ medesimi nomi che in latino. Non hanno e’ Toscani
fra e’ nomi altro che masculino e femminino. E’ neutri latini si fanno
masculini. Pigliasi in ogni nome latino lo ablativo singulare, e questo
s’usa in ogni caso singulare, così al masculino come al femminino. A e’
nomi masculini l’ultima vocale si converte in i, e questo s’usa in tutti e’
casi plurali. A e’ nomi femminini l’ultima vocale si converte in e, e
questo s’usa in ogni caso plurale per e’ femminini. Alcuni nomi femminini
in plurale non fanno in e: come, la mano fa le mani. E ogni nome
femminino, quale in singulare finisca in e, fa in plurale in i: come la orazione,
le orazioni; stagione, stagioni; confusioni, e simili. E’ casi de’ nomi
si notano co’ suoi articoli, dei quali sono vari e’ masculini da e’
femminini. Item e’ masculini, che cominciano da consonante, hanno certi
articoli non fatti come quando e’ cominciano da vocale. Item e’ nomi
propri sono vari dagli appellativi. Masculini che cominciano da
consonante hanno articoli simili a questo: singulare
EL cielo DEL cielo AL cielo EL cielo O cielo DAL cielo Plurale E’ cieli
DE’ cieli A’ cieli E’ cieli O cieli DA’ cieli. Masculini, che cominciano da
vocale, fanno in singulare simile a questo: Singulare LO orizzonte
DELLO orizonte ALLO orizonteLO orizonte O orizonte DALLO orizonte
Plurale GLI orizonti DEGLI orizonti AGLI orizontiGLI orizonti ⟨O orizonti⟩ DAGLI orizonti. E’ nomi
masculini che cominciano da s preposta a una consonante hanno articoli simili a
quei che cominciano da vocale, e dicesi: LO spedo, LO stocco, GLI spedi, e
simile. Questi vedesti che sono vari da quei di sopra nel singulare, el
primo articolo e anche el quarto; ma nel plurale variorono tutti gli
articoli. Nomi propri masculini non hanno el primo articolo, né anche el
quarto, e fanno simili a questi: Propri masculini, che cominciano da
consonante, in singulare fanno così: Cesare DI Cesare A Cesare Cesare O CesareDA Cesare.
Nomi propri, che cominciano da vocale, nulla variano da’ consonanti, eccetto
che al terzo vi si aggiugne d, e dicesi: Agrippa DI Agrippa AD Agrippa,
ecc. In plurale non s’adoperano e’ nomi propri, e se pur s’adoperassero, tutti
fanno come appellativi. E’ nomi femminini, o propri o appellativi, o in
vocale o in consonante che e’ cominciano, tutti fanno simile a questo:
Singulare LA stella DELLA stella ALLA stella LA stellaO stella
DALLA stella. LA aura DELLA aura ALLA aura LA aura O auraDALLA aura. [p.
180] Plurale LE stelle DELLE stelle ALLE stelle LE stelle O
stelleDALLE stelle. LE aure DELLE aure ALLE aure LE aure O aureDALLE aure. E’
nomi delle terre s’usano come propri, e dicesi: Roma superò Cartagine. E
simili a’ nomi propri s’usano e’ nomi de’ numeri: uno, due, tre, e cento e
mille, e simili; e dicesi: tre persone, uno Dio, nove cieli, e simili. E
quei nomi che si referiscono a’ numeri non determinati come ogni, ciascuno,
qualunque, niuno, e simili, e come tutti, parecchi, pochi, molti, e simili,
tutti si pronunziano simili a e’ nomi propri senza primo e quarto
articolo. E’ nomi che importano seco interrogazione come chi e che e
quale e quanto e simili, quei nomi che si riferiscono a questi interrogatori,
come tale e tanto e cotale e cotanto, si pronunciano simili a e’ propri nomi,
pur senza primo e quarto articolo, e dicesi: Io sono tale quale voresti
essere tu; e amai tale che odiava me. Chi s’usa circa alle persone, e
dicesi: Chi scrisse? Che significa quanto presso a e’ Latini Qui e Quid.
Significando Quid, s’usa circa alle cose, e dicesi: Che leggi? Significando
Qui, s’usa circa alle persone, e dicesi: Io sono colui che scrissi. Chi
di sua natura serve al masculino, ma aggiunto a questo verbo sono, sei, è,
serve al masculino e al femminino, e dicesi: Chi sarà tua sposa? Chi fu el
maestro? Chi sempre si prepone al verbo. Che si prepone e pospone.
Che, preposto al verbo, significa quanto presso a e’ Latini Quid e Quantum e
Quale, come: Che dice? Che leggi? Che uomo ti paio? Che ti costa? Che,
posposto al verbo, significa quanto apresso e’ Latini Ut e Quod, come dicendo:
I’ voglio che tu mi legga. Scio che tu me amerai. E’ nomi, quando e’
dimostrano cosa non certa e diterminata, [p. 181]si pronunziano senza primo e
quarto articolo, come dicendo: Io sono studioso. Invidia lo move. Tu mi porti
amore. Ma quando egli importano dimostrazione certa e diterminata, allora si
pronunziano coll’articolo come qui: Io sono lo studioso e tu el dotto. E’
nomi simili a questo: primo, secondo, vigesimo, posti dietro a questo verbo
sono, sei, è, non raro si pronunziano senza el primo articolo, e dicesi: Tu
fusti terzo e io secondo; e ancora si dice: Costui fu el quarto, el primo, el
secondo, ecc. Uno, due, tre, e simili, quando e’ significano ordine, vi
si pone l’articolo, e dicesi: Tu fusti el tre, e io l’uno. Il dua è numero
paro, ecc. Fra tutti gli altri nomi appellativi, questo nome Dio s’usa
come proprio, e dicesi: Lodato Dio. Io adoro Dio. Gli articoli hanno
molta convenienza co’ pronomi, e ancora e’ pronomi hanno grande similitudine
con questi nomi relativi zs qui recitati. Adonque suggiungeremogli. De’
pronomi, e’ primitivi sono questi: io tu esso questo quello costui lui colui. Mutasi
l’ultima vocale in a e fassi il femminino, e dicesi: questa, quella, essa. Solo
io e tu, in una voce, serve al masculino e al femminino. E’ plurali di
questi primitivi pronomi sono vari, e anche e’ singulari. Declinansi
così: Io e i’: di me: a me e mi: me e mi: dame. Noi: di noi: a noi e ci:
noi e ci: da noi. Tu: di te: ⟨a te⟩ e ti:
te e ti: o tu: da te. Voi: di voi: a voi e vi: ⟨voi e vi⟩: o voi: da voi. Esso ed e’:
di se e si: se e si: da se; ed Egli. Non troverrai in tutta la lingua
toscana casi mutati in voce altrove che in questi tre pronomi: io, tu,
esso. Gli altri primitivi se declinano così: Questo: di
questo: a questo: questo: da questo. Quello: di quello: a quello: quello: da
quello. Muta o in i e arai el plurale, e dirai: Questi: di
questi: a questi: questi: da questi. [p. 182] E il somigliante fa
quelli E così sarà costui e lui e colui, simili a quegli in singulare; ma
in plurale costui fa costoro, lui fa loro, colui fa coloro, di coloro, a
coloro, coloro, da coloro. Questo e quello mutano o in a e fassi el
femminino singulare, e dicesi: questa e quella; e fassi il suo plurale: queste,
di quelle, a quelle. Lui, costui, colui, mutano u in e e fassi el
singulare femminino, e dicesi: costei, lei, colei, di colei, ecc. In plurale
hanno quella voce che e’ masculini, cioè: loro, coloro, costoro, di costoro, a
costoro, ecc. Vedesti come, simile a’ nomi propri, questi pronomi
primitivi non hanno el primo articolo né anche el quarto. A questa similitudine
fanno e’ pronomi derivativi, quando e’ sono subiunti a e’ propri nomi. Ma
quando si giungono agli appellativi, si pronunziano co’ suoi articoli.
Derivativi pronomi sono questi, e declinansi così: El mio, del mio, ecc.,
e plurale: e’ miei, de’ miei,ecc. El nostro, del nostro, ecc. E plurale: e’
nostri, de’ nostri, ecc. El tuo. Plurale: e’ tuoi. El vostro. Plurale: e’
vostri. El suo. E pluraliter: e’ suoi, ecc. Mutasi, come a e’ nomi,
l’ultima in a, e fassi el singulare femminino: qual a, converso in e, fassi el
plurale, e dicesi: mia e mie; vostra, vostre; sua e sue. In uso
s’adropano questi pronomi non tutti a un modo. E’ derivativi, giunti a
questi nomi, padre, madre, fratello, zio, e simili, si pronunziano senza
articolo, e dicesi: mio padre, nostra madre, e tuo zio, ecc. Mi e me, ti
e te, ci e noi, vi e voi, si e sé sono dativi insieme e accusativi, come di
sopra gli vedesti notati. Ma hanno questo uso che, preposti al verbo, si dice
mi, ti, ci, ecc.; come qui: e’ mi chiama; e’ ti vuole; que’ vi chieggono; io mi
sto; e’ si crede. Posposti al verbo, se a quel verbo sarà inanzi altro
pronome o nome, si dirà come qui: io amo te, e voglio voi. [p. 183] Si al
verbo non sarà aggiunto inanzi altro nome o pronome, si dirà: -i, come qui:
aspettaci, restaci, scrivetemi. Lui e colui dimostrano persone, come
dicendo: lui andò, colei venne. Questo e quello serve a ogni
dimostrazione, e dicesi: Questo essercito predò quella provincia, e: Questo
Scipione superò quello Annibale. E’ ed el, lo e la, le e gli, quali,
giunti a’ nomi, sono articoli, quando si giungono a e’ verbi, diventano
·pronomi e significano quello, quella, quelle, ecc. E dicesi: Io la amai; Tu le
biasimi; Chi gli vuole? Ma di questi, egli ed e’ hanno significato
singulare e plurale; e, preposti alla consonante, diremo e’, come qui: e’ fa
bene; e’ corsono. E, preposti alla vocale, si giugne e’ e gli, e dicesi: egli
andò; egli udivano. E quando ⟨segue⟩ loro s
preposta a una consonante, ancora diremo: egli spiega; egli stavano.
Potrei in questi pronomi essere prolisso, investigando più cose quali
s’osservano, simili a queste: Vi preposto a’ presenti singulari
indicativi, d’una sillaba, si scrive in la prima e terza persona per due v, e
simile in la seconda persona presente imperativa, come stavvi e vavvi; e ne’
verbi, d’una e di più sillabe, la prima singulare indicativa del futuro, come
amerovvi, leggerovvi, darotti, adoperrocci, e simile. Ma forse di queste cose
più particulari diremo altrove. Sequitano e’ Verbi
Non ha la lingua toscana verbi passivi, in voce; ma, per esprimere el passivo,
compone con questo verbo sono, sei, è, el participio preterito passivo tolto da
e’ Latini, in questo modo: Io sono amato; Tu sei pregiato; Colei è odiata. E
simile, si giugne a tutti e’ numeri e tempi e modi di questo verbo. Adonque lo porremo
qui distinto. [p. 184] Indicativo Sono, sei, è.
Plurale: siamo, sete, sono. Ero, eri, era. Plurale: eravamo e savamo,
eravate e savate, erano. Fui, fusti, fu. Plurale: fumo, fusti,
furono. Ero, eri, era stato. Plurale: eravamo e savamo, eravate e savate,
erano stati. Sarò, sarai, sarà. Plurale: saremo, sarete, saranno.
Hanno e’ Toscani, in voce, uno preterito quasi testé, quale, in questo verbo,
si dice cosi: Sono, sei, è stato. Plurale: siamo, sete, sono stati.
E dicesi: Ieri fui ad Ostia; oggi sono stato a Tibuli.
Imperativo Sie tu, sia lui. Plurale: siamo, siate, siano.
Sarai tu, sarà lui. Plurale: saremo, ecc. Ottativo
Dio ch’io fussi, tu fussi, lui fusse. Plurale: fussimo, fussi, fussero.
Dio ch’io sia, sii, sia stato. Plurale: siamo, siate, siano stati. Dio
ch’io fussi, fusse stato. Plurale: fussimo, fussi, fussero stati.
Dio ch’io sia, sii, sia. Plurale: siamo, siate, siano.
Subientivo Bench’io, tu, lui sia. Plurale: siamo, siate,
siano. Bench’io fussi, tu fussi, lui fusse. Plurale: fussimo, fussi,
fussero. Bench’io sia, sii, sia stato. Plurale: siamo, siate, siano
stati. [p. 185] Bench’io fussi, fussi, fusse stato. Plurale: fussimo,
fussi, fussero stati. Bench’io sarò, sarai, sarà stato. Plurale: saremo,
sarete, saranno stati. E usasi tutto l’indicativo di questo e d’ogni
altro verbo, quasi s come subientivo, prepostovi qualche una di queste dizioni:
se, quando, benché, e simili. E dicesi: bench’io fui; se e’ sono; quando e’
saranno. Infinito Essere, essere stato
Gerundio Essendo Participio Essente
Dirassi adonque, per dimostrare el passivo: Io sono stato amato; fui pregiato;
e sarò lodato; tu sei reverito. Hanno e’ Toscani certo modo subientivo,
in voce, non notato da e’ Latini; e parmi da nominarlo asseverativo, come
questo: Sarei, saresti, sarebbe. Plurale: saremo, saresti, sarebbero. E
dirassi così: Stu fussi dotto, saresti pregiato. Se fussero amatori della
patria, e’ sarebbero più felici. Sequitano e’ verbi attivi
Le coniugazioni de’ verbi attivi in lingua toscana si formano dal
gerundio latino, levatone le ultime tre ·lettere ndo, e quel che resta si fa
terza persona singulare indicativa e presente. Ecco l’essemplo: amando, levane
ndo, resta ama; scrivendo, resta scrive. [p. 186] Sono adonque due
coniugazioni: una che finisce in a, l’altra finisce in e. Alla
coniugazione in a, quello a si muta in o, e fassi la prima persona singulare
indicativa e presente; e mutasi in i, e fassi la seconda; e così si forma tutto
il verbo, come vedrai la similitudine qui, in questo esposto:
Indicativo Amo, ami, ama. Plurale: amiamo, amate, amano. Amavo,
amavi, amava. Plurale: amavamo, amavate, amavano. ⟨Amai, amasti, amò. Plurale:
amamo, amasti, amarono⟩.
Ho, hai, ha amato. Plurale: abbiamo, avete, hanno amato. Amerò, amerai,
amerà. Plurale: ameremo, amerete, ameranno. In questa lingua ogni verbo
finisce in o la prima indicativa presente, e in questa coniugazione prima,
finisce ancora in o la terza singulare indicativa del preterito. Ma ècci
differenza, ché quella del preterito fa el suo o longo, e quella del presente
lo fa o breve. Imperativo Ama tu, ami lui. Plurale: amiamo,
amate, amino. Amerai tu, amerà colui. Plurale: ameremo, ecc.
Ottativo Dio ch’io amassi, tu amassi, lui amasse. Plurale: Dio che noi
amassimo, voi amassi, loro amassero. Dio ch’io abbia, tu abbi, lui abbia
amato. Plurale: Dio che noiu abbiamo, abbiate, abbino amato. Dio ch’io avessi,
tu avessi, lui avesse amato. Plurale: Dio che noi avessimo, avessi, avessero
amato. Dio ch’io, tu, lui ami. Plurale: amiamo, amiate, amino. [p.
187] Subientivo Bench’io, tu, lui ami. Plurale: amiamo,
amiate, amino. Bench’io, tu amassi, lui amasse. Plurale: amassimo,
amassi, ⟨amasse⟩ro. Bench’io abbia,
abbi, abbia amato. Plurale: abbiamo, abbiate, abbino amato. Bench’io
avessi, tu avessi, lui avesse amato. Plurale: avessimo, avessi, avessero
amato. Bench’io arò, arai, arà amato. Plurale: aremo, arete, aranno
amato. Assertivo Amerei, ameresti, amerebbe. Plurale:
ameremo, ameresti, amerebbero. Infinito amare, avere amato.
Gerundio Amando. Indicativo Amante. Vedi come a
e’ tempi testé perfetti e al futuro del subientivo mancano sue proprie voci, e per
questo si composero simile a’ verbi passivi: el suo participio co’ tempi e voci
di questo verbo ho, hai, ha. Qual verbo, benché e’ sia della coniugazione
in a, pur non sequita la regola e similitudine degli altri, però che egli è
verbo d’una sillaba, e così tutti e’ monosillabi sono anormali. [p. 188]
Né troverrai in tutta la lingua toscana verbi monosillabi altri che questi sei:
Do; Fo; Ho; Vo; Sto; Tro. Porremogli adonque qui sotto distinti. Ma, per
esser breve, notiamo che e’ sono insieme dissimili ne e’ preteriti perfetti
indicativi, e ne’ singulari degli imperativi, e nel singulare del futuro
ottativo, ne’ quali e’ fanno così: Do: diedi, desti, dette. Plurale:
demo, desti, dettero. Fo: feci, facesti, fece. Plurale: facemo, facesti,
fecero. Ho: ebbi, avesti, ebbe. Plurale: avemo, avesti, ebbero. Vo:
andai, andasti, andò. Plurale: andamo, andasti, andarono. Sto: stetti,
stesti, stette. Plurale: stemo, stesti, stettero. Tro: tretti, traesti,
trette. Plurale: traemo, traesti, trettero. In tutti e’ verbi, come fa la
seconda persona singulare del preterito, così fa la seconda sua plurale; come
amasti, desti, leggesti. Do: da tu, dia lui. Fo: fa tu, faccia
lui. Ho: abbi tu, abbia lui. Vo: va tu, vada lui. Sto: sta
tu, stia lui. Tro: tra tu, tria lui. Do: Dio ch’io dia, tu
dia, lui dia. Fo: faccia, facci, faccia. Ho: abbia, abbi,
abbia. Vo: vada, vadi, vada. Sto: stia, stii, stia. Tro:
tragga, tragghi, tragga. Sequita la coniugazione in e.
Questa si forma simile alla coniugazione in a. Mutasi quello e in o, e fassi la
prima presente indicativa. Mutasi in i, e fassi la [p. 189]seconda, come qui:
leggente e scrivente, levatone nte, resta legge, scrive; onde si fa leggo,
leggi, leggeva, leggerò, ecc. Solo varia dalla coniugazione in a in que’ luoghi
dove variano e’ monosillabi. Ma questa coniugazione in evaria in più modi,
benché comune faccia e’ preteriti perfetti indicativi in -ssi, per due s, come:
leggo, lessi; scrivo, scrissi. Ma que’ verbi che finiscono in -scofanno e’
preteriti in -ii per due i, come esco, uscii; ardisco, ardii; anighittisco, anighittii.
Ma, per più suavità, nella lingua toscana non si pronunziano due iunte vocali.
Da questi verbi si eccettuano cresco ed e’ suoi compositi, rincresco, accresco,
e simili, quali finiscono, a’ preteriti perfetti, in -bbi, come crebbi,
rincrebbi. Item, nasco fa nacqui, e conosco fa conobbi. E que’ verbi che
finiscono in mo fanno e’ preteriti in -etti, come premo, premetti; e quei che
finiscono in dofanno e’ preteriti in -si, per uno s, come ardo, arsi; spargo,
sparsi; eccetto vedo fa vidi; odo, udi’; cado, caddi; godo, godei e godetti. E
quegli che finiscono in ndo fanno preteriti -si, per uno s: prendo, presi;
rispondo, risposi; eccetto vendo fa vendei e vendetti. Sonci di queste
regole forse altre eccezioni, ma per ora basti questo principio di tanta cosa.
Chi che sia, a cui diletterà ornare la patria nostra, aggiugnerà qui quello che
ci manchi. Dicemo de’ preteriti, resta a dire degli altri.
Imperativo Leggi tu, legga colui. Ottativo Futuro
singulare: Dio ch’io scriva, tu scriva, lui scriva. E così fanno tutti. Verbi
impersonali si formano della terza persona del verbo attivo in tutti e’ modi e
tempi, giuntavi si, come: amasi, leggevasi, scrivasi. Ma questo si suole
trasporlo innanzi al verbo, giuntovi e’, e dicesi: e’ si legge; e’ si corre; e massime
nell’ottativo e [p. 190]subientivo sempre si prepone, e dicesi: Dio che e’
s’ami; quando e’ si leggerà, e simile. sequitano le preposizioni
Di queste alcune non caggiono in composizione, e sono queste: oltre,
sino, dietro, doppo, presso, verso, ’nanzi, fuori, circa. Preposizioni
che caggiono in composizione e ancora s’adoperano seiunte, sono di una sillaba
o di più. D’una sillaba sono queste: De: de’ nostri; detrattori.
Ad: ad altri; admiratori. Con: con certi; conservatori. Per: per tutti; pertinace.
Di: di tanti; diminuti. In: in casa; importati. Di, preposto allo infinito, ha
significato quasi come a’ Latini ut. E dicono: Io mi sforzo d’essere
amato. Quelle de più sillabe sono queste: Sotto sottoposto Sopra sopraposto
e dicesi Entro entromesso
Contro contraposto Preposizioni quali s’adoperano solo in composizione: Re,
sub, ob, se, am, tras, ab, dis, ex, pre, circum; onde si dice: trasposi e
circumspetto. Sequitano gli avverbi Per e’ tempi, si
dice: oggi, testé, ora, ieri, crai, tardi, omai, già, allora, prima, poi, mai,
sempre, presto, subito. [p. 191] Per e’ luoghi, si dice: costì, colà,
altrove, indi, entro, fuori, circa, quinci, costinci, e qui e ci, e ivi e vi.
Onde si dice: Io voglio starci, io ci starò, pro qui; e verrovvi e io vi starò,
pro ivi. Pelle cose, si dice: assai, molto, poco, più, meno.
Negando, si dice: nulla, no, niente, né. Affirmando, si dice: sì, anzi,
certo, alla fe’. Domandando, si dice: perché, onde, quando, come,
quanto. Dubitando: forse. Narrando, si dice: insieme, pari, come,
quasi, così, bene, male, peggio, meglio, ottime, pessime, tale, tanto.
Usa la lingua toscana questi avverbi, in luogo di nomi, giuntavi l’articolo, e
dice: el bene, del bene, ecc.; qual cosa ella ancora fa degli infiniti, e
dicono: el leggere, del leggere. Ma a più nomi, pronomi e infiniti giunti
insieme, solo in principio della loro coniunzione usa preporre non più che uno
articolo, e dicesi: el tuo buono amare mi piace. Item, a similitudine
della lingua gallica, piglia el Toscano e’ nomi singulari femminini adiettivi e
aggiungevi -mente, e usagli per avverbi, come saviamente, bellamente,
magramente. Interiezioni Sono queste: hen, hei, ha, o, hau,
ma, do. Coniunzioni Sono queste: mentre, perché,
senza, se, però, benché, certo, adonque, ancora, ma, come, e, né, o, segi
(sic). E congiunge; né disiunge; o divide; senza si lega solo a’ nomi e
agli infiniti. E dicesi: senza più scrivere; tu e io studieremo; che né lui né
lei siano indotti; o piaccia o dispiaccia questa mia invenzione. E questo
ne ha vario significato e vario uso. Se si prepone simplice a’ nomi, a’ verbi,
a’ pronomi, significa negazione, come [p. 192]qui: né tu né io meritiamo
invidia. E significa in; ma, aggiuntovi t, serve a’ singulari masculini e
femminini; e senza l, serve a’ plurali quali comincino da consonante. A tutti
gli altri plurali, masculini e femminini si dice nel-; e quando s sarà preposta
alla consonante, pur si dice: nello spazzo, nelle camere, ne’ letti, nello
essercito di Dario, negli orti. E questo ne, se sarà subiunto a nome o al
pronome, significa di qui, di questo, di quello, secondo che l’altre dizioni vi
si adatteranno, come chi dice: Cesare ne va, Pompeio ne viene. E questo
ne, posposto al verbo, sarà o doppo a monosillabi o doppo a quei di più sillabe;
e più, o significa interrogazione o affirmazione o precetto. Adonque, doppo
l’indicativo monosillabo, la interrogazione si scrive, in la prima e terza
persona, per due n, la seconda per uno n, come, interrogando, si dice: vonne
io? va’ ne tu? vanne colui? Nello imperativo si scrive la seconda per due n, e
dicesi: vanne, danne. La terza si scrive per uno, e dicesi: diane lui,
traggane. E questi monosillabi, la prima indicativa presente, affirmando, si
scrive per due n, e dicono: fonne, vonne, honne. Se sarà el verbo di più
sillabe, la interrogazione e affirmazione si scrive per uno n in tutti e’
tempi, eccetto la affirmazione in lo futuro, quale si scrive per due n, come
dicendo: portera’ ne tu? porteronne. E questo sino qui detto s’intenda per e’
singulari, però che a’ plurali si scrive quello ne sempre per uno n, come
andiamone. Non mi stendo negli altri simili usi a questi. Basti quinci
intendere e’ principi d’investigare lo avanzo. E’ vizi del favellare in
ogni lingua sono o quando s’introducono alle cose nuovi nomi,o quando gli
usitati si adoperano male. Adoperanosi male, discordando persone e tempi, come
chi dicesse: tu ieri andaremo alla mercati. E adoperanosi male usandogli
in altro significato alieno, come chi dice: processione pro possessione.
Introduconsi nuovi nomi o in tutto alieni e incogniti o in qualunque parte
mutati. Alieni sono in Toscana più nomi barberi, lasciativi da gente
Germana, quale più tempo militò in Italia, come elm, vulasc, [p. 193]sacoman,
bandier, e simili. In qualche parte mutati saranno quando alle dizioni
s’aggiungerà o minuirà qualche lettera, come chi dicesse: paire pro patre, e
maire pro matre. E mutati saranno come chi dicesse: replubica pro republica, e
occusfato pro offuscato; e quando si ponesse una lettera per un’altra, come chi
dicesse: aldisco pro ardisco, inimisi, pro inimici. Molto studia la
lingua toscana d’essere breve ed espedita, e per questo scorre non raro in
qualche nuova figura, qual sente di vizio. Ma questi vizi in alcune dizioni e prolazioni
rendono la lingua più atta, come chi, diminuendo, dice spirto pro spirito; e
massime l’ultima vocale, e dice papi, e Zanobi pro Zanobio; credon far quel
bene. Onde s’usa che a tutti gl’infiniti, quando loro segue alcuno pronome in
i, allora si getta l’ultima vocale e dicesi: farti, amarvi, starei, ecc.
E, mutando lettere, dicono mie pro mio e mia, chieggo pro chiedo, paio pro
paro, inchiuso pro incluso, chiave pro clave. E, aggiugnendo, dice vuolepro
vole, scuola pro scola, cielo pro celo. E, in tutto troncando le dizioni,
dice vi pro quivi, e similiter, stievi pro stia ivi. Si questo questo
nostro opuscolo sarà tanto grato a chi mi leggerà, quanto fu laborioso a me el
congettarlo, certo mi diletterà averlo promulgato, tanto quanto mi dilettava investigare
e raccorre queste cose, a mio iudizio, degne e da pregiarle. Laudo Dio
che in la nostra lingua abbiamo omai e’ primi principi: di quello ch’io al
tutto mi disfidava potere assequire. Cittadini miei, pregavi, se presso
di voi hanno luogo le mie fatighe, abbiate a grado questo animo mio, cupido di
onorare la patria nostra. E insieme, piacciavi emendarmi più che biasimarmi, se
in parte alcuna ci vedete errore. Della Thoscana senza auttore; cc.
55r-94v: Ant. Galateus de Sìtu Iapigiae; cc. 95r-104v: Ant. Turcheti Oratio;
cc. 105r-108v: Iusti Baldini [Oratio]; cc. 109r-113v: una rassegna delle
regioni di Roma antica, attribuita a Paulus Victor. Per la descrizione e la
storia del codice vedi l’ed. del 1964, pp. xi-xviii, cit. qui sotto. [p.
362] Firenze Biblioteca Riccardiana 2. Cod. Moreni 2. Cod. cart.
sec. XV, contenente tre opere dell’Alberti precedute da un foglio di guardia in
pergamena, ora num. I, al cui verso:figura l’abbozzo autografo dell’Ordine
delle Lettere, corrispondente con alcune varianti all’inizio della grammatica
nel cod. Vaticano. Per la descrizione del cod. vedi vol. II, pp. 405 sgg. della
presente edizione e cfr. C. Colombo, L. B. Alberti e la prima grammatica
italiana, in «Studi Linguistici Italiani)), III, 1962, pp. I76-87, e la nostra
ed. cit. qui sotto, pp. vi-viii. edizioni 1. C. Trabalza, Storia
della grammatica italiana, Firenze, 1908, pp. 531-48. 2. L. B. Alberti,
La prima grammatica della lingua volgare, a cura di C. Grayson, Bologna,
Commissione per i Testi di Lingua, 1964. B) LA PRESENTE EDIZIONE Il
testo della presente edizione è in sostanza quello medesimo da noi pubblicato
nel 1964. Ci siamo limitati a correggere alcune sviste ed errori tipografici e
ad introdurre qualche lieve emendamento in seguito alle osservazioni fatte in
recensioni a quella edizione del 1964, tra cui l’attento esame
particolareggiato di Ghino Ghinassi in «Lingua Nostra», XXVI, pp. 31-32. Quanto
scrivemmo allora intorno alla data del cod. Vaticano andrebbe ora qualificato
seguendo il giudizio del compianto Roberto Weiss, cioè che si tratta di copia
fatta più tardi di un manoscritto, ora perduto, copiato nel 15081. Tale
precisazione però non incide sulla costituzione del testo né cambia i criteri
adottati nella presentazione della grammatica quale figura nel cod. Vaticano. A
parte qualche correzione e integrazione, di cui diamo ragione nell’apparato,
abbiamo [p. 363]seguito fedelmente il manoscritto, ritoccando soltanto la
grafia nei casi seguenti: distinguendo u da v, togliendo e aggiungendo h
secondo i casi, livellando in doppia qualche scempia inerte smentita da doppia
corretta (e viceversa). Abbiamo pure rammodernato la punteggiatura irregolare
del codice, e modificato gli accenti salvo nello specchio delle Vocali, dove è
indispensabile rispettare l’originale. Riguardo a questo specchio, perché il
lettore possa apprezzare pienamente le varianti col frammento del cod. Mor. 2,
riproduciamo a p. sg. il facsimile dell’Ordine delle lettere pella lingua
toschana, che dovette rappresentare una prima stesura dell’inizio della
grammatica quale appare nel cod. Vaticano2. La scoperta di questo
frammento autografo, aggiunta alle prove interne, soprattutto di carattere
linguistico, da noi esposte minutamente nella edizione citata, hanno reso
oramai certa l’attribuzione di questa grammatica all’Alberti. Non occorre qui
insistere su un problema già risolto definitivamente; basti rimandare per ogni
ulteriore informazione alla introduzione a quella edizione. Né avremmo altri
elementi da aggiungere alla ipotesi ivi formulata che l’Alberti abbia steso
questa grammatica durante il quinto decennio del sec. XV, o comunque non più
tardi del nov. 1454, data in cui scrivendo a Matteo de’ Pasti (vedi pp. 291
sgg. di questo volume) adoperò lo spirito aspro greco per distinguere è verbo
da earticolo, proprio come nella grammatica. Per l’importanza di questa
innovazione e per la piena illustrazione del testo della grammatica, si veda
l’edizione citata. L’opera è priva di titolo nei codici. Le diamo qui quello di
Grammatica della lingua toscana, fondandoci suglì accenni interni, nel 1°
paragrafo per la «grammatica» e passim per la «lingua toscana». C)
APPARATO CRITICO p. 177. 14. Alla forma particolare del g per significare
il suono gutturale sostituiamo, sull’analogia di ch, gh(cfr. facsimile Cod.
Mor. 2) rg. Cod. giro giro alcio(ma cfr. Cod. Mor. 2). p. 179. 6. Il copista
avrà saltato per sbaglio il vocativo. p. 180. 25. Cod. sono e sei e serve. [p.
364] firenze, Bibl. Riccardiana, Cod. Moreni 2. Foglio grammaticale
autografo di L. B. Alberti (cfr. p. 177-78). [p. 365] p. 181. 15. Cod.
similitudini com 25-26. L'analogia delle altre serie consiglia le integrazioni.
p. 183. 2. Cod. aspettoci, che potrebbe anche correggersi in aspettati (come
propone il Ghinassi) 16. Accogliamo l'integrazione già proposta dal Trabalza,
op. cit., p. 540 19. Cod. quasi s'osservano30. Cod. si giugni. p. 184. 18. Cod.
fussimo fussir fussero stati. p. 183. 3. Cod. saremo, sarete, sareste stati 6.
Cod. questi. p. 186. 9. Cod. amàvamo, con l'accento sulla terzultima, dopo aver
cancel- lato l'accento sulla penultima (sono d'accordo ora col Ghinassi che
sarebbe difficile sostenere che l'accento sulla terzultima risalga senza dubbio
all'originale) 10. Introduco le forme del preterito, sal- tato dal copista (ma
se ne parla subito dopo alle r. 16-17) 28. Cod. Dio ch'io ami tu lui ami (cfr.
187, 3). p. 187. 11. Cod. amerai. p. 188. 2. Nel marg. del cod. il copista ha
scritto So, per indicare l'omissione di questo verbo nella serie di verbi
monosillabi 4. Cod. notamo, che non può valere come perfetto qui, e perciò va
corretto in notiamo 26. Cod. tragga traggi tragga. p. 189 7-8. Cod. anigittisco
anigittii 19. Cod. forsi. p. 190. s. Cod. sine 23. Cod. quale. p. 191. 3. Cod.
verrovi (ma sarebbe contro la regola già stabilita a p. 183) 6. Cod.
affirimando 24. Cod. ne osegi, da cui si deve staccar l’o per quel che si dice
subito appresso, lasciando un segi problematico (forse errore di trascrizione
per e.g. o per etc.?). p. 192 s. Cod. camemere 10. Cod. preposto, ma, come
osserva il Ghinassi, deve essere un errore 17. Cod. lezione incerta tra siane,
diane 36. Cod. Vulase saceman; correggiamo il primo in vulasc per conformità
con la serie di 'nomi barberi' tutti terminanti in consonante, senza però
poterne spiegare il significato; il secondo (p. 193, I) in sacoman anziché
supporre una forma sachemanaltrimenti non attestata. p. 193. 11. La lezione
papi è chiara nel cod. ma difficile a spiegare (si è pensato a pabbio, papeo,
papiro). ↑ Vedi «Italian Studies», XX, 1965, pp. 109-10. ↑ Per la discussione e
illustrazione del foglio autografo del cod. Mor. 2 vedi l’art. cit. sopra di C.
Colombo. InFirenze,tragliuomini di studio,educati cioèaglistudi
umani,sidistinseroaquestopropositogl'ingegniliberida ogni abito di
pedantería,che non s'erano allontantanati con superbo fastidio dalla fonte di
quelle vene, soprattutto gli artisti e gliuomini d'azione.E tra questi,chi
meglio conobbe ilvalore di questo luminoso mezzo che il suo popolo gli offriva,
e insieme intravide il lavoro che la mente e la volontà fanno nella formazione
e nell'uso della parola, fu l'antico grande cittadino nato in esilio,
l'umanista architetto, l'abbreviatore · moralista della famiglia, il
raccoglitore e innovatore della ·F. TORBACA,Rimatori napoletani del secolo X V,in
Discus sioni e ricerche letterarie, Livorno, Vigo,1888,pagg.166 e 135
eseguenti. 217 tradizione formatasi a Santa Maria
Novella?,cioè Leon Bat: tista Alberti. Egli primo, o più preparato e franco di
tutti, si mosse a difesa del « volgare idioma »,che sentiva « degno d'onore »
con « vere ragioni », « in diverse maniere » pro vando 2: e una di queste
maniere fu probabilmente quella di far riconoscere nella lingua che per lui era
paterna, l'ordine grammaticale; che cioè l'uso di quella lingua è ordinato e
legittimo non meno del latino,e che si può raccogliere in « ammonizioni atte a
scrivere e favellare senza corruttela »; che insomma in quest'uso comune e
stabile sono applicate leggi di ragione. Intendo che probabilmente a lui si
devono quei Primi principij della grammatica o della lingua toscana, cioè quel
geniale « saggio... d'una grammatica dell'uso vivo di Firenze 3 » che i Medici
conservarono a noi, e che ora Le prime linee del suo trattato della Famiglia
l'Alberti le tolse dall'opuscolo di Giovanni Dominici a Bartolomea Obizzi negli
Alberti,noto col titolo Regola del governo di cura famigliare. V.lo nell'ediz.
SALVI, Firenze, Garinei, Queste parole sono di Michele del Giogante.V. FR.FLAMINI,
La lirica toscana del Rinasciniento anteriore ai tempi del Magni.
fico,Pisa,Nistri,Cfr.O. Bacci,op.cit.,pag.86.
*L.MORANDI.LorenzoilMagnifico,Leonardoda Vincie la prima grammatica
italiana;Leonardo eiprimi vocabolari:ricerche: Città di
Castello,Lapi,1900,pag.146. Ma cfr.F. SENSI,Ancora di L. Alberti grammatico, in
Rendiconti del R. Ist. lombardo, L'opuscolo è pubblicato in appendice alla
Storia della grammatica italiana di C. TRABALZA,Milano, Hoepli, 1908. Propongo
qui l'opinione che mi par più probabile,anche dopo che il Morandi ha difeso la
sua nell'articolo Per Leonardo da Vinci e per la « Gramatica di Lorenzo de'
Medici », nella Nuova Antologia 1° ottobre 1909. Il titolo,che la copia
vaticana dell'opu. scolo ha,non esemplato dall'originale,e nel foglio di
guardia da altra mano che quella dell’amanuense segnato,DELLA THOSCANA SENZA
AUTTORE,mi pare si possa desumere qual era nella mente di questo autore dal
ringraziamento finale (c.16a):«LaudoDio che in la nostra lingua habbiamo homai
e' primi principij; di 218 1 dimostra in chi l'ha dato
l'antico cittadino italiano e il filo logo moderno. Così Leon Battista dette
primo alla patria sua,fuori della quale era nato, la corona della lingua: e da
lui n'ereditò la difesa ilgiovanetto figlio di Piero dei Medici (cioè del
fautore di lui in quest'opera) e di Lucrezia Tornabuoni: il quale, seguendo il
suo genio nativo,che lo conduceva all'acquisto della grandezza, cercò esser
popolare 1 »; e de'suoi grandi intendimenti,e delle cure che gl'imponeva
ilprincipato nella sua città, voluto e mantenuto ad ogni costo, non credeva nu
trito », « aggiungendosi... prospero successo ed augumento al fiorentino
imperio 2 » si estendesse e diventasse comune ad altre città e province, come
Roma avea fatto della quello ch'io al tutto m i disfidaua potere assequire ».
Ch'egli poi le ammonitioni » di quest' a arte » anche « in la lingua nostra »
chiamasse «suo nome,Grammatica » lo dice espressamente nel proemio; e
quest'esempio ci dà facoltà d'argomentare per a n a logia, che anche l'Alberti
indicando un suo lavoro con le parole De litteris atque coeteris principiis
grammaticae abbia potuto intendere aquesta arte... in la lingua nostra ».Del
resto, una annotazione assaisimileadaltradellaGrammatichetta,traquelle del
Colocci, nel vatic.4817 (c.68a;sotto iltitolo aLingue de variiBarbari »),mi fa
supporre ch'egli conoscesse quell'opuscolo,
perluiprezioso,cheeranellaLibreriadeMedici «senzaauttore»; egli che,in
Roma,quella libreria frequentava, come prova, se non altro,l'indicazione che
sitrova nell'altrosuo ms.,ilvat.3217 (c. 329 b): a Bapta Alberto in libreria de
medici de Rythmis ». A proposito della quale opera,altrove, dice che stima
facesse dell'autore: «Leon Alberto huomo alli tempi nostri di dottrina et
d'ingegno a nullo inferiore ». Questo sia detto col rispetto dovuto
all'autorità di Luigi Morandi, nel comune amore del vero. 1 GINO CAPPONI,
Storia della repubblica fiorentina, Firenze, Barbèra, Cfr.0. BACCI,Op.cit.,pag.69. 2 Commento del
Mco L. DE M. sopra alcuni de'suoi sonetti, nelle sue Opere,Firenze,Molini,1825,vol.IV.
ultima questa, che la lingua « nella quale era nato e 219 220
latina. Allo stesso modo poi il figliuolo suo Giovanni, che venne veramente,
come allora si diceva, a capo delle cose del mondo col nome di Leon X, voleva
tenuta in onore diffusa la lingua latina serbata nella ecclesiastica e allora
restaurata secondo l'esemplare augustèo 1: inter caeteras curas, quas in hac
humanarum rerum curatione divinitus nobis concessa, subimus, non in postremis
hanc quoque habendam ducimus, ut latina lingua nostro Pontificatu dicatur facta
auctior. Così dunque Lorenzo raccolse l'eredità dell'antica lingua fiorentina
da Leon Battista e dagli altri generosi custodi e difensori di essa della
generazione anteriore, e ne fece la lingua dotta della sua corte popolana, uno
strumento di regno. Quanto il suo esempio fosse efficace sui prìncipi con
temporanei, lo dice un cortigiano della generazione a lui se guente,Vincenzo
Colli oda ColledettoilCalmeta,chedisegnò e difese l'ideale della lingua
cortigiana: « La vulgar poesia et arte oratoria, dal Petrarca e Boccaccio in
qua quasi adulte. rata, prima da Laurentio Medice e suoi coetanei, poi m e
diante la emulatione di questa et altre singularissime donne di nostra etade,
su la pristina dignitade essere ritornata se comprehende2».E
questadonnaeraBeatriced’Este,lagio vane sposa di Ludovico il Moro, e le
principali tra le altre erano la sorella maggiore di lei sposa del marchese
Francesco Gonzaga,Isabella,ed Elisabetta Gonzaga sposa di Guidubaldo da
Montefeltro duca d'Urbino. Breve a Franc.De Rosis scritto dal Sadoleto,citato
dal PASTOR, Storia dei Papi dalla fine del M. evo,vol. IV,p. Nella Vita di
Serafino Aquilano in fronte alle Rime di lui, ediz.cit., (Leon
X),trad.Mercati,Roma,Lefebvre. Keywords: della thoscana senza autore id ny
LEONARDO Alberti, no LEONE Alberti. Refs.: Luigi
Speranza, "Grice ed Alberti," per Il Club Anglo-Italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
Grice ed Albertini – la confederazione di Romolo –
filosofia italiana – Luigi Speranza
(Pavia). Filosofo. Grice: “H. L. A. Hart calls Albertini a Proudhonian!” -- Grice:
“I like Albertini; like me, he has dedicated his life to ‘fides,’ or ‘una
federazione di due,’ “a garden of Eden just meant for two” – fiducia, fedes –
what Remo asked from Romolo, but failed!” Filosofo. Insegna a Pavia. Sostene un progetto di unione
federalista per l'Europa alla guida del Movimento Federalista Europeo e della
Unione dei Federalisti Europei. Adiere al Movimento federalista europeo. Di idee
liberali, lascia tuttavia il Partito Liberale dopo la decisione di quest'ultimo
di appoggiare la monarchia nel referendum. Dopo la laurea in filosofia divenne
docente di Storia contemporanea, Dottrina dello Stato, Scienza della Politica e
Filosofia della politica a Pavia. In seguito alla sconfitta sul progetto di
Esercito Europeo, la CED, e alle dimissioni di Spinelli, lo sostitue alla guida
del Movimento Federalista Europeo. A Milano con un gruppo di militanti del Movimento
federalista europeo fonda Il Federalista che si occupa del dibattito sui temi
di fondo del federalismo. Diresse il Mfe
italiano. Presidente dell'Unione dei Federalisti Europei. È poi rimasto come
figura di riferimento e d'indirizzo all'interno del Mfe. A livello teorico, fin
dalle pagine taglienti e polemiche su Lo Stato nazionale, sostene, sulla scia
di Einaudi, che a furia di voler custodire una sterile sovranità, lo stato
italiano e ridotto a "polvere senza sostanza". Da lì l'esigenza di
guardare all'unificazione europea come alla medicina d'urto indispensabile. Maestro
di federalismo, articolo di Arturo Colombo, Corriere della Sera, Archivio storico. Lo Stato nazionale, La politica, Giuffré, Il
federalismo e lo stato federale, Giuffré, Che cos'è il federalismo,
L'integrazione europea, Proudhon, Vallecchi, Tutti gli scritti, Nicoletta
Mosconi, Il Mulino, Movimento Federalista Europeo Unione dei Federalisti
Europei Centro studi sul federalismo:
perspectives on federalism, su on-federalism.eu. Il Federalista: "Mario
Albertini teorico e militante" di Nicoletta Mosconi su thefederalist.eu.
Centro studi sul federalismo: Opere di Mario Albertini, su csfederalismo. youtube:
1985 Mario Albertini commenta la manifestazione federalista di Piazza Duomo, su
youtube.com. V D M Logo MFE.svg Federalismo europeo Flag of Europe.svg. E’
per me un grande onore essere stato invitato a fare una relazione a questo
convegno per ricordare Mario Albertini, un uomo che ha fatto tanto per noi
federalisti, per l’Europa e per l’umanità intera. Questo onore è
particolarmente significativo per me perché egli, come Altiero Spinelli, ha
fatto del pensiero della scuola inglese degli anni Trenta e dei primi anni
Quaranta, insieme a quello dei Padri fondatori americani, la base del suo
pensiero federalista. Albertini spiegò che mentre il pensiero fondato sulla
fonte inglese ha dato una risposta alla domanda “perché creare la Federazione
europea?”, quello fondato sulla fonte americana ha dato una risposta alla
domanda “come crearla?”[1]. Quanto alla domanda “quale forma di federazione?”,
la risposta, per Albertini come per gli inglesi, era contenuta nella
Costituzione degli Stati Uniti d’America. Il problema che oggi voglio
affrontare riguarda il modo in cui il pensiero di Albertini ha sviluppato
queste due tradizioni federaliste. In generale si può dire che egli è stato il
massimo esponente del pensiero hamiltoniano della seconda metà del Novecento,
oltre che il creatore della scuola federalista italiana. Egli è stato non solo
un esponente, ma anche un innovatore, spesso illuminando il pensiero di altre
scuole, in altri casi differenziandosi con contributi originali.
Quale forma di federazione. Per Albertini, come per Spinelli e per la
scuola inglese, la questione centrale era la trasformazione di Stati a
sovranità assoluta in Stati federati in uno Stato federale. Per loro il
federalismo di Althusius o di Proudhon – considerato da Albertini come “una
tecnica… per il decentramento del potere politico”[2] – non era di grande
rilievo. Albertini sosteneva che Proudhon “era rimasto, quanto alla concezione
dello Stato, un anarchico”, benché egli lo abbia definito anche un “grande
presbite” che “ha previsto quale sarebbe stato il limite tragico della
democrazia nazionale qualora non avesse trovato i suoi correttivi nella
democrazia locale e nella democrazia europea”. Albertini affermava inoltre che
il federalismo richiede “la creazione di orbite di governo democratico locale
ad ogni livello di manifestazione concreta delle relazioni umane”[3]. Ma egli
concentrò il suo pensiero sulla creazione di una federazione tra Stati sovrani,
essenziale per garantire la pace fra loro. Mentre gli scrittori della
scuola inglese si erano attenuti ad un’esposizione classica della forma di una
tale federazione, Albertini ne fece la migliore rielaborazione della seconda
metà del Novecento[4]. Sia la scuola inglese, sia Albertini, condividevano la
preferenza per il sistema europeo basato su un esecutivo parlamentare piuttosto
che quello presidenziale americano, pur accettando per il resto gli elementi
principali della Costituzione americana. Albertini riteneva cioè più valido un
“governo responsabile di fronte al Parlamento europeo… come istanza di
controllo democratico dell’attività dell’Unione”[5]. Egli arricchì il
pensiero federalista anche con la sua analisi della relazione tra nazione e
Stato[6]. Secondo lui, lo Stato nazionale, con il suo dispotismo, danneggia la
vita dei cittadini, ponendo restrizioni allo sviluppo economico e provocando la
guerra[7]. I suoi limiti si manifestano anche nella “contraddizione tra
l’affermazione della democrazia nel quadro nazionale e la sua negazione nel
quadro internazionale”, che pregiudica anche l’affermazione del liberalismo e
del socialismo a livello nazionale[8]. Lo Stato nazionale dovrebbe essere
sostituito con uno Stato federale plurinazionale; la Federazione europea
sarebbe “un popolo di nazioni, un popolo federale”, e non “un popolo
nazionale”; il federalismo prevede una struttura di Stati democratici
plurinazionali fino al livello mondiale[9]. Il pensiero della scuola inglese su
questo tema non era diverso, ma l’analisi di Albertini è più
approfondita. Negli anni Trenta, la scuola inglese indicò nel federalismo
la soluzione alproblema della guerra. Dal punto di vista logico, l'obiettivo
finale non può che essere una federazione mondiale, ma essa è realizzabile solo
nel lungo periodo. Parecchi, quindi, sostenevano la proposta di Clarence Streit
per una federazione di quindici democrazie, Stati Uniti inclusi, per impedire
una guerra provocata dall’Asse. Ma l’America isolazionista non era disponibile
e nel 1939 i leader della scuola inglese si indirizzarono verso l’ipotesi di
una federazione delle democrazie europee, in attesa dell’adesione degli Stati
allora fascisti dopo il loro ritorno alla democrazia. Questo fu
naturalmente il punto di partenza per Albertini che, dopo il rifiuto del Regno
Unito di partecipare alla Comunità europea, prefigurò, per cominciare, “una
Federazione europea comprendente almeno i sei paesi che hanno preso la testa
del processo di unificazione”, e poi la sua “estensione graduale a tutta
l’Europa”[10]. Quando il Regno Unito entrò nella Comunità, egli aggiunse che
“bisogna attendere che l’adesione alla Comunità dia i suoi frutti”. Attendiamo
ancora questi frutti – e speriamo bene! Kenneth Wheare indicava “la
somiglianza di istituzioni politiche” fra gli Stati membri come una condizione
della formazione di una federazione[12]. Albertini fu più preciso, affermando
che era necessaria, sia nella federazione che negli Stati membri,
“l’attribuzione della sovranità al popolo nel quadro del regime
rappresentativo, con la possibilità di sdoppiare la rappresentanza mediante la
doppia cittadinanza di ogni elettore”. Questa condizione è divenuta
particolarmente rilevante per quanto riguarda le nuove democrazie candidate
all’adesione all’Unione, e rimane un problema cruciale per la creazione di una
federazione mondiale. Perché la federazione. Nel 1937 Lionel
Robbins pubblicò il libro Economic Planning and International Order,
analizzando le ragioni per le quali il quadro di una federazione internazionale
era essenziale per il buon governo di un’economia internazionale. Nel 1939, in
The Economic Causes of War, egli spiegò perché la causa della guerra non fosse
il capitalismo, bensì la sovranità nazionale, e concluse con un appello
appassionato per una Federazione europea. Albertini ha ricordato che questi
libri furono le più importanti fonti federalistiche per Spinelli, quando era al
confino sull’isola di Ventotene. Per la scuola inglese del dopoguerra,
come per Robbins nel1939, la pace era lo scopo del federalismo. La pace era il
“valore centrale” e “l’obiettivo supremo” del federalismo anche per
Albertini[16], la complessità del cui pensiero era talvolta nascosta dalla
semplicità delle sue formulazioni. Egli ha ricalcato il pensiero di Lord
Lothian definendo la pace non come “il semplice fatto che la guerra non è in
atto”, ma come “l’organizzazione di potere che trasforma i rapporti di forza
fra gli Stati in rapporti giuridici veri e propri”. Albertini riconobbe che
“con la lotta per l’unificazione europea si sono ottenute le prime forme di
politica europea e la fine della rivalità militare fra i vecchi Stati nazionali
dell’Europa occidentale”[18]. Cioè, per quanto riguarda i rapporti reciproci
fra questi ultimi, l’obiettivo della pace era già stato raggiunto, mentre per
alcuni Stati dell’Europa orientale, e soprattutto per il mondo intero, esso
rimaneva l’obiettivo supremo. Per i cittadini dell’attuale Unione, dunque,
altri obiettivi sono diventati più importanti. Albertini ha citato dal
Manifesto di Ventotene l’affermazione che la questione di chi controlla la
pianificazione economica è la “questione centrale” (lo stesso quesito che
Robbins aveva proposto nel 1937), ma ha anche individuato altri valori
essenziali del federalismo contemporaneo: la sicurezza ecologica[20], il
rifiuto dell’egemonia (vedi le preoccupazioni di Carlo Cattaneo e dei Padri
fondatori americani) e la democrazia negli Stati nazionali, che la loro
interdipendenza sta indebolendo sempre più[22]. Mi pare che questi
costituiscano gli elementi per spiegare i valori federalisti ai cittadini
dell’Unione europea di oggi. Per quanto riguarda alcuni Stati dell’Europa
centrale e orientale, invece, e soprattutto per il federalismo mondiale, la
pace rimane l’obiettivo di maggiore rilievo. La Federazione
mondiale. Nel suo libro The Price of Peace, pubblicato nel 1945, William
Beveridge spiegò che la sovranità nazionale è la causa della guerra, e la rinuncia
ad essa in una federazione mondiale il metodo per abolirla[23]. Benché egli
riconoscesse che questo obiettivo era lontano e che nel frattempo solo una
confederazione sarebbe stata realizzabile, questo libro mi fece avvicinare al
federalismo come risposta alla terribile esperienza della guerra. Dopo
Hiroshima e Nagasaki, la federazione mondiale sembrava una necessità urgente a
milioni di persone, di cui circa mezzo milione comprò Anatomy of Peace di Emery
Reves[24]. Nacquero movimenti per la federazione mondiale, soprattutto
nei paesi anglosassoni e in Giappone, leader politici come l’ex-primo ministro
Clement Attlee ne diventarono sostenitori, e si sviluppò una letteratura
mondialista. Ma il clima della Guerra fredda scoraggiò la maggior parte di coloro
che caldeggiavano quell’obiettivo e il pensiero federalistico quasi lo
abbandonò. Albertini fu un’eccezione. Egli era più coerente, più tenace,
più risoluto di altri nel confrontarsi con i fatti del potere e con le sue
conseguenze. Per lui, “il rischio della distruzione del genere umano” legato
alla bomba atomica era “assolutamente inaccettabile”. Ma egli riconobbe, come
Beveridge, che le condizioni per creare la Federazione mondiale non erano
presenti e che la lotta per un’Assemblea costituente, fondamentale per la sua
dottrina per quanto riguarda la Federazione europea, non era ancora praticabile.
La sua strategia per il federalismo mondiale era dunque simile a quella dei
federalisti anglosassoni: “il rafforzamento dell’ONU”, insieme ad altri
“obiettivi intermedi” nel “processo di superamento degli Stati nazionali
esclusivi”, processo che aveva “già raggiunto uno stadio molto avanzato” nella
Comunità europea[26]. Tipica del suo pensiero federalistico era l’enfasi sui
militanti federalisti, sulla necessità “di costruire… un’avanguardia politica
mondiale” per la creazione di una Federazione mondiale. Come creare la
Federazione. Albertini e la scuola inglese erano generalmente d’accordo
sulla forma e sul perché della Federazione. Ma le loro idee erano diverse sul
come crearla. Gli inglesi cercavano di influenzare il loro governo, negli
anni Trenta e Quaranta, perché adottasse una politica federalista per dare
l’avvio ad una federazione, e in seguito per costruire elementi pre-federali
nelle istituzioni e nelle competenze della Comunità. I principi fondamentali di
Albertini erano invece l’Assemblea costituente e il fatto che i federalisti
dovevano rimanere estranei alla lotta per il potere nazionale. Spinelli
ha scritto che nel periodo che va dal 1947 al 1954, egli aveva “lavorato
sull’ipotesi che i principali ministri moderati si sarebbero accinti alla
costruzione federale”[28]: un metodo assai simile a quello dei federalisti
inglesi. Poi, dopo il fallimento, nel 1954, del progetto per una Comunità
politica europea, egli avviò il Congresso del popolo europeo e lanciò la
campagna per dar vita a un’Assemblea costituente attraverso “una protesta
popolare crescente… diretta contro la legittimità stessa degli Stati
nazionali”[29]. Quando diventò evidente a Spinelli che la campagna non aveva il
successo da lui sperato, concepì la proposta che i federalisti acquisissero il
potere in un numero crescente di municipi importanti, come base per una
successiva campagna. Albertini non poteva accettare questa idea, che contraddiceva
tutti i fondamentali principi federalisti, e il Movimento federalista europeo
fu d’accordo con lui. Spinelli, infastidito, scrisse nel suo diario che per
Albertini, “tentare di preparare l’evento (della lotta finale) era sporco
opportunismo, occorreva preparare sé stessi all’evento”[30]. Spinelli era un
politico geniale, capace di concepire e condurre campagne d’azione culminate
nello straordinario successo della sua ultima battaglia, quella per il Progetto
di Trattato per l’Unione europea al Parlamento europeo. Ma egli non restava
all’interno di regole stabilite, e la sua tendenza ad iniziare successivi
“nuovi corsi” e a impostare nuove strategie presentava troppe difficoltà per un
Movimento come il MFE. Albertini era assolutamente convinto che bisogna
rispettare certi principi fondamentali, che egli seguiva con una coerenza e una
tenacia eccezionali. Queste caratteristiche furono cruciali per la sua
posizione nella storia del pensiero federalistico, mettendolo in grado non solo
di sviluppare la propria opera intellettuale, ma anche di fondare la scuola
italiana del federalismo hamiltoniano. Una differenza fra Albertini e gli
inglesi era legata alla sua concezione del pensiero storico, basata sul metodo
weberiano secondo il quale, nelle sue parole, “non ci sono conoscenze storiche
senza quadri teorici di riferimento specifico per ordinare i fatti e
completarne il significato (‘tipi ideali’)”, anche se “l’elaborazione teorica
deve esser condotta solo sino al punto nel quale essa rende possibile la conoscenza
storica e non oltre, perché al di là di questo punto essa si convertirebbe
nella pretesa di sostituire la conoscenza storica… con la conoscenza
teorica”[31]. Alla tradizione empirica inglese non manca la capacità di
sviluppare teorie. L’evoluzione darwiniana e il liberalismo sono testimonianze
di questo. Ma mi pare che nella tradizione weberiana lo sviluppo della teoria
precede il suo adattamento ai fatti, e forse questo approccio fu una causa
delle differenze fra Albertini e gli inglesi. Lo sviluppo della
Comunità europea e del pensiero di Albertini. Benché gli inglesi abbiano
sviluppato la loro democrazia attraverso un processo riformista, senza
un’Assemblea costituente, l’idea di una tale Assemblea era ritenuta accettabile
da molti. Nel 1948, Mackay, un importante federalista membro del Parlamento
inglese, ottenne il sostegno di un terzo dei membri del Parlamento per una
risoluzione che chiedeva un’Assemblea costituente europea[32]. Ma mentre per
gli inglesi un processo riformista, a iniziare dalla CECA, sarebbe stato utile,
il punto di partenza per Albertini, nel 1961, era soltanto “il conferimento del
potere costituente al popolo europeo… o tutto o niente”; bisognava rifiutare
“pseudostazioni intermedie… sino a che non si riusciva ad ottenere tutto il
potere (ossia quello costituente)”; la soluzione della Comunità “ispirata dal
cosiddetto ‘funzionalismo’ (la geniale idea di fare l’Europa a pezzettini…) era
sbagliata” e le Comunità economiche erano “parole vuote”[33]. Ma da buon
weberiano egli era disposto ad adattare la teoria ai fatti, e nel 1965 scrisse
che la CECA aveva stabilito una “unità di fatto… così solida da poter
sorreggere l’inizio di un processo vero e proprio di integrazione economica”,
la quale “fu un fatto capitale per la vita dell’Europa”[34]. E un anno dopo
scrisse che “l’integrazione europea è il processo di superamento della
contraddizione tra la dimensione dei problemi e quella degli Stati nazionali”,
cioè “i fatti dell’integrazione europea” minano i poteri nazionali esclusivi,
“creando nel contempo, con l’unità di fatto, un potere europeo di fatto”, che i
federalisti possono sfruttare politicamente[35]. Nello stesso saggio egli
individuò il trasferimento del controllo dell’esercito, della moneta e di parte
delle entrate dai governi nazionali a un governo europeo come elementi cruciali
del trasferimento della sovranità[36]; e nel 1971, considerando la prospettiva
delle elezioni dirette del Parlamento europeo, egli scrisse che una tale
situazione “può essere considerata pre-costituzionale perché dove si manifesta
l’intervento diretto dei partiti e dei cittadini si manifesta anche la tendenza
alla formazione di un assetto costituzionale”[37]. E’ interessante, perfino
commovente, osservare come, mentre gli inglesi, nella loro situazione diversa,
trascuravano l’idea della Costituente, Albertini stava modificando la sua
teoria alla luce dei fatti, cioè del successo crescente della Comunità europea.
Questo lo ha condotto verso un contributo molto importante al pensiero
federalistico: una sintesi dell’approccio di Spinelli e di quello di
Monnet. Verso una sintesi di spinellismo e monnetismo. Le
sue idee sulla moneta forniscono un altro esempio dello sviluppo del suo
pensiero. Nel 1968 egli scrisse che “non c’è mercato comune senza moneta
comune, e moneta comune senza governo comune, dunque il punto di partenza è il
governo comune”[38]. Ma quattro anni più tardi egli affermò che l’Unione
monetaria avrebbe potuto “spingere le forze politiche su un piano inclinato”
perché, impegnando qualcuno per qualcosa che implica il potere politico, può
accadere che finisca “per trovarsi, suo malgrado, nella necessità di crearlo”.
Sul terreno monetario, sarebbero stati possibili “dei passi avanti di natura
istituzionale, tangibile, europea, ad esempio nella direzione indicata da
Triffin”, cioè un sistema europeo di riserve, che sarebbe stato scambiato dalla
classe politica “per una tappa sulla via della creazione di una moneta
europea”; e si poteva prevedere, dunque, “un punto scivoloso verso una situazione
che si potrebbe chiamare di ‘Costituente strisciante’ “[39]. Albertini
stava “preparando l’evento”, anche se non nel modo approvato da Spinelli, il
cui progetto era allora diverso e che scrisse nel suo diario che Albertini
aveva ridotto il MFE in “sciocchi seguaci di Werner”[40], nel cui Rapporto
erano indicate le tappe verso l’Unione economico-monetaria. Ma la
riconciliazione fra i due non era lontana, grazie alle imminenti elezioni
dirette del Parlamento europeo e al grande Progetto di Trattato per l’Unione
europea elaborato da Spinelli. Albertini, nella sua analisi dell’Unione
monetaria, aveva individuato le elezioni dirette come punto decisivo “perché
riguarda la fonte stessa della formazione della volontà pubblica
democratica”[41]. Le elezioni del Parlamento europeo sarebbero state una delle
chiavi, dunque, insieme alla moneta e all’esercito, per il trasferimento della
sovranità. Nel 1976, il Consiglio europeo decise le elezioni e Spinelli si
imbarcò nel suo quinto e ultimo nuovo corso[42]. Albertini osservò che era
“iniziata la fase politica – per definizione costituente – del processo di
integrazione europea”, e concluse che la Comunità sarebbe stata la base della
Federazione europea, attraverso “singoli atti costituenti che rafforzano il grado
costituente del processo rendendo possibili ulteriori atti costituenti e così
via”, e che “solo con una prima forma di Stato europeo (da istituire con un
atto costituente ad hoc) si può avviare il processo di formazione dello Stato
europeo per così dire definitivo”: cioè bisogna accettare “il paradosso di
‘fare uno Stato per fare lo Stato’”. Egli rese esplicito il ruolo della
Comunità in questo processo, nella “costruzione graduale, e via via pari al
grado di unione raggiunto, di un apparato politico e amministrativo europeo”:
un processo che “si può in teoria considerare finito solo quando lo Stato
iniziale europeo (con sovranità monetaria, ma non in materia di difesa), si sia
trasformato nello Stato europeo definitivo, con tutte le competenze necessarie
per l’azione di un governo federale normale”[43]. Il cammino weberiano di
Albertini conduceva, dunque, verso una sintesi feconda fra lo spinellismo e il
monnetismo attraverso “l’idea di sfruttare le possibilità del funzionalismo per
giungere al costituzionalismo”, perché “l’unificazione europea è un processo di
integrazione… strettamente collegato con un processo di costruzione degli
elementi istituzionali a volta a volta indispensabili…” Egli era pronto per
spiegare in termini teorici l’ultima opera di Spinelli, cioè il Progetto di
Trattato per l’Unione europea del Parlamento europeo. Dal progetto
di Trattato alla Convenzione di Laeken. Albertini riteneva che il progetto
fosse realistico, perché proponeva “il minimo istituzionale indispensabile per
fondare le decisioni europee sul consenso dei cittadini”. Il “pregio maggiore
del progetto” stava nel fatto che “affidava al Parlamento a) il potere
legislativo”, detto oggi codecisione, in modo che “l’attuale Consiglio dei
Ministri… per questo rispetto, funzionerebbe come un Senato federale”, e “b) il
potere che risulta dal controllo parlamentare della Commissione, che
comincerebbe ad assumere la forma di un governo europeo”. Il progetto era
“ragionevole”, perché “solo quando l’Unione avrà dimostrato di saper funzionare
bene, sarà possibile disporre della grande maggioranza necessaria per
attribuire all’Unione la sovranità anche in materia di politica estera e di
difesa”[45]. Esso conteneva, dunque, l’idea accennata prima di “fare uno Stato
per fare lo Stato”. Il genio politico di Spinelli, manifestato nel
progetto di Trattato, non solo ha favorito la riconciliazione fra lui e
Albertini, ma ha anche portato a un esito concreto un elemento molto importante
del pensiero federalistico di Albertini, cioè la relazione fra l’azione
politica e la filosofia di Monnet e di Spinelli. E’ tragico che Spinelli sia
morto credendo che il progetto fosse fallito perché l’Atto unico era un
“topolino morto”. Albertini è invece sopravvissuto finché si sono manifestate
conseguenze veramente significative. In un documento pubblicato sull’Unità
europea del dicembre 1990, egli ha potuto affermare che, “salvo catastrofi”, il
potere di fare la politica monetaria sarebbe stato trasferito al livello
europeo, e che dunque bisognava adeguare il meccanismo decisionale, “facendo
funzionare la Comunità come una federazione nella sfera dove un potere europeo,
in prospettiva, c’è già (quello economico-monetario con le sue implicazioni
internazionali); e come una confederazione nella sfera nella quale un potere di
questo genere non c’è e non ci sarà per un tempo indefinito (difesa)”. Il
“Trattato-costituzione” del Parlamento – prosegue il documento – porterà ad una
“evoluzione naturale delle istituzioni (il Consiglio europeo come presidente
collegiale della Comunità o Unione, il Consiglio dei Ministri come Camera degli
Stati, la Commissione come governo responsabile di fronte al Parlamento
europeo, il Parlamento europeo come istanza di controllo democratico
dell’attività dell’Unione e come detentore, insieme al Consiglio, del potere
legislativo)”. Si può registrare un progresso significativo di questa
“evoluzione naturale” negli anni Novanta. Il voto a maggioranza qualificata è
già applicabile nel Consiglio all’80% degli atti legislativi; il Parlamento ha
un diritto di codecisione per più della metà degli atti legislativi e per il
bilancio; la responsabilità della Commissione di fronte al Parlamento è stata
clamorosamente dimostrata. La Comunità non funziona ancora “come una
federazione nella sfera dove un potere europeo c’è già”, cioè in quella
economica e monetaria; ma la Convenzione di Laeken apre la porta al compimento
del processo. La questione non è più se ci sarà un documento chiamato
costituzione. Questo ora appare accettabile, oltre che per gli altri governi,
anche per quello britannico. La questione cruciale è se le istituzioni saranno
veramente federali, completando l’evoluzione prevista da Albertini, compresa la
codecisione e il voto a maggioranza per tutte le decisioni legislative, insieme
alla piena responsabilità della Commissione come governo di fronte al
Parlamento. La lotta federalista non è divenuta meno ardua, perché i
sostenitori della dottrina intergovernativa includono, a quanto pare, non solo
i governi britannico, danese e svedese, ma anche quello francese, e persino
quello italiano. Bisogna persuadere i cittadini, le classi politiche, e infine
i governi, che una costituzione basata sul principio della cooperazione
intergovernativa sarebbe sia inefficace che antidemocratica. Grazie all’opera
di Spinelli e di Albertini, e ai contributi di tanti altri, il MFE è senz’altro
pronto a far fronte a questa sfida, in particolare per quanto riguarda i
cittadini, la classe politica e soprattutto il governo italiano. Spero di
avere dato qualche indicazione del ricco, ampio, profondo e colto contributo di
Mario Albertini al pensiero federalista della sua epoca. Forse è stata la
scelta soggettiva di un federalista britannico l’aver sottolineato l’importanza
particolare, per la storia di questo pensiero, della sintesi fatta da Albertini
degli approcci dei due geniali federalisti della seconda metà del Novecento:
Jean Monnet e Altiero Spinelli. Oltre che con le sue opere, egli ha dato
un contributo al pensiero federalista come fondatore della scuola moderna
italiana. Al tempo stesso, dopo che Spinelli ha fondato, ispirato e guidato il
MFE con un carisma eccezionale, Albertini ha creato e sostenuto il Movimento
che è stato capace di organizzare la grande manifestazione di Milano, con la
partecipazione di circa mezzo milione di persone, nel giugno del 1984, per
chiedere al Consiglio europeo di sostenere il Progetto di Trattato di Spinelli;
e, cinque anni dopo, di ottenere il consenso dell’88% dei votanti nel
referendum italiano su un mandato costituente per il Parlamento europeo. Come e
perché un solo uomo ha fatto tutte queste cose diverse? Forse l’impressione di
un osservatore esterno potrebbe interessarvi. Albertini nei suoi scritti
ha messo in evidenza sia la ragione, sia la volontà[47]. Egli era orientato da
entrambe e operava sulla base di entrambe, con enfasi sulla ragione per la sua
opera intellettuale, e sulla volontà come Presidente del Movimento; e metteva
entrambe al servizio della sua fede profonda nel federalismo come priorità essenziale
per il benessere e per la sopravvivenza stessa del genere umano. Egli espresse
questo atteggiamento in un modo non molto conosciuto fuori del MFE,
sottolineando che servono “delle persone che fanno della contraddizione tra i
fatti e i valori una questione personale”, in un contesto nel quale “il
distacco tra ciò che è, e ciò che deve essere, è enorme”[48]. Albertini
dedicò la sua vita all’impegno per risolvere questa contraddizione e aveva la
capacità di persuadere altri a fare lo stesso. Egli era un oratore ispirato e,
benché i suoi scritti fossero talvolta complicati, era anche capace di
formulare concetti in modo semplice e appassionato, come quando ha scritto che
“la federazione… ha realizzato istituzioni molto sagge, capaci di trasmettere a
molte generazioni una forte esperienza di diversità nell’unità, di libertà, di
pace”; che “soltanto la politica e solo nel massimo della sua espressione, può
risolvere i problemi delle relazioni internazionali”; e inoltre che serve
l’avanguardia mondiale “per il grande compito mondiale della costruzione della
pace”[49]. La sua capacità di ispirare gli altri era basata sulla sua
fede nel valore di ciascuno, nella fiducia che ogni persona avesse sia la
capacità che la responsabilità di dare il proprio contributo[50]. Le sue idee
sugli apporti di diverse persone e organizzazioni sono state una parte del suo
contributo al pensiero federalista. C’era posto per quelli che accettavano
passivamente il federalismo e per i leader occasionali. Ma la sua predilezione
era per il nucleo duro dei militanti, la cui opera in particolare era basata
sulla percezione della contraddizione tra fatti e valori. Egli trasmise un
messaggio speciale agli intellettuali, ai quali ricordò la necessità dell’
“uscita nel campo aperto degli uomini di cultura per completare la politica
come arte del possibile – la politica in senso stretto – con la politica in
senso largo, cioè l’arte di far diventare possibile ciò che non lo è
ancora”[51]. Per questi – per voi – l’enfasi era sulla volontà come sulla ragione.
Nel maggio del 1956 Spinelli scrisse nel suo diario: “Ho lanciato ad Albertini
l’idea di costituire un ‘ordine federalista europeo’. Che sia questa una buona
idea?”[52]. Spinelli era un grande innovatore, con notevole capacità di
intuizione. Albertini aveva le caratteristiche per realizzare quell’idea:
sincerità, integrità, coraggio, coerenza, devozione. Mi pare che egli abbia
davvero creato una specie di ordine federalista. La sua opera era un
processo continuo di costruzione; e ora voi, i suoi colleghi e amici, avete la
responsabilità di proseguirla senza di lui, considerandolo non come un
monumento di erudizione e di impegno eccezionale ma come una tradizione vivente
che voi dovete continuare a sviluppare. Quanto a me, benché non sia d’accordo
con tutte le sue idee, ho un tale apprezzamento per la sua opera e una tale
convinzione della sua importanza che sto lavorando, con l’aiuto dell’Istituto
Altiero Spinelli, su un’antologia in lingua inglese dei suoi saggi, perché
queste idee siano meglio conosciute dal pubblico dei lettori che leggono, non
l’italiano, ma la lingua che Albertini designò, nel primo numero del
Federalistapubblicato anche in inglese, come la lingua universale necessaria
nella sfera politica[53]. Spero che questa antologia non solo sarà utile per i
federalisti non italiani, ma favorirà anche un giusto riconoscimento del
contributo di Albertini nella storia del pensiero federalista[54]. E’ con
grande piacere, in conclusione, che esprimo la mia ammirazione e gratitudine
per la vita di Mario Albertini, e per la sua devozione esemplare alla nostra
causa suprema del federalismo. Nelle parole incomparabili di Shakespeare: “He
was a man, take him for all in all, (we) shall not look upon his like
again”. * Si tratta dell’intervento al convegno di studi
organizzato l’8 aprile 2002 dalle Università di Milano e di Pavia e dal
Movimento federalista europeo sulla figura di studioso e di militante di Mario
Albertini a cinque anni dalla sua scomparsa. [1] Cfr. Mario Albertini,
L’unificazione europea e il potere costituente (1986), in Nazionalismo e
Federalismo, Bologna, Il Mulino, 1999, pp. 302, 304. (Molti degli scritti di
Albertini sono stati ripubblicati, con l’indicazione delle rispettive fonti, in
due antologie: Nazionalismo e Federalismo e Una rivoluzione pacifica. Dalle
nazioni all’Europa, da cui sono state tratte le citazioni. Si è posta tra
parentesi, dopo il titolo, la data del saggio originale per aiutare i lettori a
valutare il contesto e tracciare cronologicamente lo sviluppo del suo
pensiero). [2] Mario Albertini, Il Risorgimento e l’unità europea (1961),
in Lo Stato nazionale, Bologna, Il Mulino, Mario Albertini, La Federazione
(1963) e Le radici storiche e culturali del federalismo europeo(1973), in
Nazionalismo e Federalismo, cit., pp. 99, 114, 128. [4] Mario Albertini,
La Federazione, ibidem. [5] Mario Albertini, Moneta europea e unione
politica (1990), in Id., Una rivoluzione pacifica. Dalle Nazioni all’Europa,
Bologna, Il Mulino, Mario Albertini, Lo Stato nazionale, Bologna, Il Mulino,
1997, ristampa delle edizioni precedenti del 1960 e del 1980. [Mario
Albertini, La nazione, il feticcio ideologico del nostro tempo in Id.,
Nazionalismo e Federalismo, cAlbertini, Le radici storiche, L’integrazione
europea, elementi per un inquadramento storico (1965), in Id., Nazionalismo e
Federalismo, op. cit., p. 235; Id., Qu’est-ce que le fédéralisme? Recueil des
textes choisis et annotés, Parigi, Société Européenne d’Etudes et
d’Informations, 1963, p. 32. [9] Mario Albertini, Per un uso controllato
della terminologia nazionale e supernazionale (1961), in Id., Nazionalismo e
Federalismo, Mario Albertini, La strategia della lotta per l’Europa (1966), in
Id., Una rivoluzione pacifica, oMario Albertini, Il problema monetario e il problema
politico europeo (1973), in Id., Una rivoluzione pacifica, op. cit., p.
185. [12] Kenneth C. Wheare, Federal Government, Londra, Oxford, in
italiano in Kenneth C. Wheare, Del governo federale, Bologna, Il Mulino, Mario
Albertini, L’unificazione europea e il potere costituente (1986), in Id.,
Nazionalismo e Federalismo, Lionel
Robbins, Economic Planning and International Order, Londra, Macmillan, The
Economic Causes of War, Londra, Jonathan Cape, 1939; alcuni capitoli di ambedue
in italiano in Lionel Robbins, Il federalismo e l’ordine economico
internazionale, Bologna, Il Mulino, 1985. [15] Cfr. Mario Albertini,
L’unificazione europea(1986), op. cit., p. 302. Cfr. anche John Pinder (a cura
di), Altiero Spinelli and the British Federalists: Writings by Beveridge,
Robbins and Spinelli 1937-1943, Londra, Federal Trust, Mario Albertini,
Qu’est-ce que le fédéralisme? Cultura della pace e cultura della guerra (1984),
in Id., Nazionalismo e Federalismo, Mario Albertini, Le radici storiche (1984),
op. cit., p. 114; Lord Lothian, Pacifism is not Enough (1935), ristampato in
John Pinder e Andrea Bosco (a cura di), Pacifism is not Enough: Collected
Lectures and Speeches of Lord Lothian(Philip Kerr), Londra, Lothian Foundation
Press, In italiano: Lord Lothian, Il pacifismo non basta, Bologna, Il Mulino,
1986. [18] Mario Albetini, La pace come obiettivo supremo della lotta
politica (1981), in Id. Nazionalismo e Federalismo, op. cit., p. 185.
[19] Mario Albertini, L’unificazione europea, Albertini, Cultura della pace e cultura
della guerra, Albertini, Le radici storiche, Mario Albertini, La strategia, William
Beveridge, The Price of Peace, Londra, Pilot. Emery Reves, The Anatomy of
Peace, New York, Harper, 1945; in italiano: Anatomia della pace, Bologna, Il
Mulino, 1990. [25] Mario Albertini, La pace come obiettivo supremo. Mario
Albertini, Verso un governo mondiale, in Id., Nazionalismo e Federalismo, Mario
Albertini, Verso un governo mondiale, Spinelli, Come ho tentato di diventare
saggio. La goccia e la roccia, a cura di Edmondo Paolini, Bologna, Il Mulino,
Spinelli, Diario europeo, I, 1948-1969, a cura di Edmondo Paolini, Bologna, Il
Mulino, Mario Albertini, L’unificazione europea e il potere costituente, Cfr.
John Pinder, “Manifesta la verità ai potenti”: i federalisti britannici e
l’establishment, in AA.VV., I movimenti per l’unità europea 1945-1954, a cura
di Sergio Pistone, Milano, Jaca, Mario Albertini, Quattro banalità e una
conclusione sul Vertice europeo in Id., Nazionalismo e federalismo, Mario
Albertini, L’integrazione europea, Mario Albertini, La strategia Mario
Albertini, Il Parlamento europeo. Profilo storico, giuridico e politico (1971),
in Id., Una rivoluzione pacifica, op. cit., p. 216. [38] Mario Albertini,
L’aspetto di potere della programmazione europea (1968), Id., in Nazionalismo e
Federalismo, Mario Albertini, Il problema monetario(1973), Spinelli, Diario
europeo, Mario Albertini, Il problema monetario(1973), op. cit., p. 192.
[42] Altiero Spinelli, La goccia e la roccia, op. cit., p. 18. [43] Mario
Albertini, Elezione europea, governo europeo e Stato europeo (1976), in Id.,
Una rivoluzione pacifica, Mario Albertini, L’Europa sulla soglia dell’unione
(1985), in Id., Nazionalismo e Federalismo, op. cit., pp. 274, 276. [45]
Moneta europea e unione politica. Un documento del Presidente Albertini in
vista del Consiglio europeo di dicembre, in L’Unità europea, Per esempio in
Mario Albertini, Verso un governo mondiale, Albertini, La strategia. Le radici
storiche Mario Albertini, La federazione, L’integrazione europea, Verso un
governo mondiale, Mario Albertini, La strategia, Albertini, Il Parlamento
europeo, Spinelli, Diario europeo, Mario Albertini, un governo mondiale. Non ho
menzionato finora nessuno fra i federalisti italiani viventi, perché non
sarebbe giusto individuare alcuni fra i tanti che hanno fatto cose importanti
per il federalismo contemporaneo. Ma in questo contesto sarebbe del tutto
ingiusto non menzionare il mio debito nei confronti di un federalista della
nuova generazione che ha avanzato la proposta dell’antologia, per cui ha fatto
una selezione di saggi (materiale eccellente anche per la preparazione di
questo mio articolo), cioè Roberto Castaldi, che ha preso questa iniziativa
quando studiava per la sua tesi di master sull’opera di Albertini
all’Università di Reading. Mario Albertini. Albertini. Keywords: la
confederazione di Romolo, federale, italia federale, politica federalista,
filosofia federalista, stato italiano, gli stati uniti d’America sono una
repubblica federale. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Albertini” – The
Swimming-Pool Library.
Grice ed Albino. “Dialettica” – citata da Boezio. Albino
– Luigi Speranza (console). Filosofo italiano Console del
Regno Ostrogoto Contitolare Flavio Eusebio Capo di Stato Teodorico il Grande
Prefetto del pretorio d'Italia del Regno Ostrogoto Durata mandato Capo di Stato
Teodorico il Grande Dati generali Professione Politico Fausto Albino iunior è
un filosofo romano. Il nome Fausto è probabile ma non certo; l'appellativo
«iunior» è attestato in un'iscrizione. Apparteneva alla Gens Caecina ed era
fratello di Flavio AVIENO iunior, console, di Teodoro, console nel e di Flavio Importuno, console. Loro padre
era Cecina Decio Massimo Basilio, console, ed era imparentato con Anicio Probo
Fausto, console. Console in Occidente assieme a Flavio Eusebio in Oriente. Fu
prefetto del pretorio d'Italiaa, costruì una basilica intitolata a san Pietro
al 27º miglio da Roma della via Tiburtina, dove ha delle proprietà, e ottenne
che Simmaco la dedica. Venne onorato del titolo di patricius. Si trovava
a corte a Ravenna; quando il padre morì, assieme al fratello si incaricò del
patronato dei Verdi, una delle fazioni dell'ippodromo di Roma e scelge un
danzatore come pantomimo dei Verdi. Entrò anche nella disputa per la
ricomposizione dello scisma tra Roma e Costantinopoli. Vicino alle posizioni di
papa Ormisda, cercò di far emergere una distinzione tra coloro che avevano
condannato la dottrina calcedonica tramite scritti e quelli che l'avevano fatto
solo oralmente. Nel 522 gli venne mossa l'accusa di aver intrattenuto
rapporti configuranti il tradimento nei confronti di Teodorico il Grande con la
corte dell'Impero romano d'Oriente, avendo inviato delle lettere all'imperatore
Giustino. In difesa d’Albino intervenne Boezio, il quale, però, venne a sua
volta accusato di tradimento e poi messo a morte. Il destino di Albino non è
noto. Ebbe degli scambi epistolari con Ennodio. Se uno dei sedili del
Colosseo riservati ai senatori di cui è rimasta l'incisione[4] è il suo, si
chiamava Cecina Decio Acinazio Albino (Caecina Decius Acinatius Albinus).
Note CIL XI, 4163 ^ Cassiodoro, Variae, I 20.33. ^ Cassiodoro, Variae, III
5–6.. ^ CIL VI, 32165 Bibliografia (?Faustus) Albinus iunior 9, PLRE II,
Cambridge. Paolo Lamma, ALBINO, in Dizionario biografico degli italiani, vol.
2, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, PredecessoreConsole romano Successore
Imperatore Cesare Flavio Anastasio Augusto, Flavio Rufo 493Flavio Turcio Rufio
Aproniano Asterio Iunior, Flavio Presidio con Flavio EusebioPortale Antica
Roma Portale Biografie Categorie: Politici romani del VI
secoloConsoli medievali romaniDeciiPatricii[altre]
Grice ed Albino – Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Cionio
Rufo Albino – Ceionius Rufius Albinus – According to an inscription found in
Rome, Albino, who held high public office, was also a philosopher.
Grice ed Albucio – Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Albucio
Silo (Albucius Silus) was an orator and a pupil of Papirio Fabiano. He appears
to have regularly included philosophical arguments and allusions in the
speeches he made on behalf of clients.
Grice ed Albucio – Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Roma).
FIlosofo italiano. Tito Albucio. Tito Albucio (in latino: Titus Albucius) è un
filosofo italiano.Terminò i suoi studi ad Atene e fu epicureo. Familiarizza
bene con la letteratura greca, anzi, secondo Marco Tullio Cicerone, era ormai
un Greco. A causa della sua passione per la lingua e la filosofia greche, venne
preso in giro dal poeta satirico Gaio Lucilio, i cui versi su di lui sono
giunti a noi grazie a Cicerone. Cicerone stesso lo descrive come un uomo
frivolo. Albucio accusa, senza successo, Quinto Mucio Scevola l'Augure di
malamministrazione (repetundae) della sua provincial. E propretore nella Sardegna,
e grazie ad alcuni insignificanti successi che ottene contro i predoni, celebra
un trionfo nella provincia. Quando
ritorna a Roma, chiese al senato romano di ottenere l'onore di una supplicatio,
ma la sua richiesta venne respinta, e venne accusato di concussione da Gaio
Giulio Cesare Strabone, zio di Giulio Cesare, e condannato all'esilio ad Atene.
Gneo Pompeo Strabone si era offerto come accusatore, ma la sua richiesta venne
respinta, perché era stato questore di Albucio.
In seguito alla sua condanna, si dedicò agli studi filosofici. Scrisse
alcune orazioni, che vennero lette da Cicerone. Note: Vedi articolo inglese ^
Cicerone, Brutus 35. ^ Cicerone, de finibus bonorum et malorum 1, 3 ^ Cicerone,
Brutus 26. Orator 2, 70. ^ Cicerone, de provinciis consularibus 7. in Pisonem
38. Divinatio in Q. Caecilium 19. de officiis 2, 14. ^ Cicerone, Tusculanae
disputationes 5, 37. ^ Cicerone, Brutus 35. Bibliografia (EN) William Smith (a
cura di), Dictionary of Greek and Roman Biography and Mythology, 1870.
Collegamenti esterni Albùcio, Tito, su Treccani.it – Enciclopedie on line,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata V · D · M Epicureismo
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Biografie Portale Filosofia Categorie:
Politici romani del I secolo a.C.Filosofi romaniRetori romaniFilosofi del I
secolo a.C.Morti nel I secolo a.C.Pretori romaniEpicurei[altre] Grice
ed Albucio – Roma – filosofia italiana—Luigi Speranza (Roma). Tito Albucio was
a philosopher of what the Italians call ‘L’Orto,’ The Garden. He pursued a
political career, but was sent into exile after being found guilty of
extortion. Cicerone suggests that Albucio was not a particular good follower of
the Garden, and ‘something of a poser.’
Grice ed Alcia – Roma – filosofia italiana – Lugi
Speranza
(Metaponto). Filosofo italiano. According to Giamblico di Calcide (“Vita di
Pitagora”), Alcia was a Pythagorian.
Grice ed Alcimaco – Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza
(Crotona). Filosofo italiano. According to Giamblico di Calcide (“Vita di
Pitagora”), Alcimaco was a pupil of Pythagoras. He was exiled from Crotona when
the local population rose against the Pythagoreans, and his subsequent fate is
unknown.
Grice ed Alcio – Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza
(Roma). Filosofo italiano. Alcius was one of the two philosophers following
what the Italians call the “Orto” (the Garden) – the other was Philiscus –
expelled from Rome before the infamous embassy.
Grice ed Alcmeone – Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza
(Crotona). Filosofo italiano. According to lamblichus of
Chalcis, Alcmeone was a pupil of Pythagoras. His main interest was in medicine,
and he regarded health as a kind of internal balance. He studied perception and
believed that the eye was connected with the brain, which was itself the centre
of emotion and thought. According to Diogenes Laertius, he also wrote on
physics, arguing that the soul is always in motion and the moon, planets and stars
are eternal (Jonathan Barnes, Early Philosophy, Harmondsworth, Penguin) [W.K.C.
Guthrie, A History Ancient Philosophy vol. 1, Cambridge, Cambridge University
Press; Carl Huffman, 'Alemaeon', The Stanford Encyclopedia of Philosophy
(Summer Edition), Edward N. Zalta (ed.). Alcmeone di Crotone filosofo
italiano antico. Alcmeone di Crotone -- Ἀλκμαίων Crotone -- filosofo italiano.
Alcmeone di Crotone su una medaglia del 1832 Introduzione modifica Quasi tutte
le informazioni superstiti circa lui sono state messe in discussione dagli
studiosi: essi si sono chiesti se fosse un medico o un "fisiologo"
("impegnato ad indagare la natura") presocratico, se fosse un
pitagorico o in relazione con i pitagorici, se il suo atteggiamento scientifico
fosse da qualificare come "empirico", se realmente avesse, primo in
Occidente, praticato la dissezione del corpo umano a fini scientifici, se il
ruolo centrale da lui attribuito - secondo le fonti dossografiche - al cervello
nel coordinare le sensazioni non fosse da ridimensionare. Negli ultimi decenni
la revisione critica delle testimonianze e dei frammenti di Alcmeone ha
determinato di fatto il superamento di tutti quegli "entusiasmi",
certamente prematuri, che vorrebbero il crotoniate "il padre dell'anatomia,
della fisiologia, dell'embriologia, della psicologia, della
medicinastessa".[2] Si è aperta, in tal modo, sul piano
metodologico, la via per una comprensione autenticamente "storica"
della figura di Alcmeone, dimensionata nel tempo ed "in
situazione".[3] Moltissimi frammenti dei testi scomparsi, ma citati
particolarmente da Teofrasto, sono stati raccolti da Codellas (1932) e da
questi è possibile evincere il suo pensiero. Si può pertanto affermare che
Alcmeone è stato il primo filosofo naturalista (Strata). Doty ha ripercorso la
storia per quell'epoca straordinaria di Alcmeone, giungendo a concludere che le
sue scoperte devono essere considerate rivoluzionarie al pari di quelle di
Copernico e di Darwin. Da notare che il grande Aristotele nega i rapporti fra
cervello e fenomeni mentali in quanto toccando il cervello, non si hanno
sensazioni e il cuore è ultimo a morire, localizzando dunque qui le capacità
della mente. Biografia modifica Dalla vita di Alcmeone non sappiamo
molto. Aristotele riferisce che, «quanto all'età», «Alcmeone era giovane quando
Pitagora era vecchio». Tuttavia, il passo non è contenuto in tutti i
manoscritti né concordemente riferito dai commentatori antichi.
Contemporanei e diretti interlocutori di Alcmeone furono, secondo Diogene Laerzio,
Brontino, Leonte e Batillo; personaggi considerati da Giamblico
«pitagorici»[6]. La sua patria viene dalle fonti identificata con Crotone,[9]
città achea e magnogreca, fondata, secondo Dionigi di Alicarnasso (II, 59, 3),
nel terzo anno della XVII Olimpiade. Il padre era, secondo la tradizione
dossografica, Períthos (Diog. Laert. VIII 83; Clem. Alex., Strom. I
78)[10]. Indagine sulla natura e medicina modifica Diogene Laerzio (VIII
83) considera Alcmeone «discepolo di Pitagora»: il suo impegno avrebbe riguardato
«per lo più» la «medicina». Tra i "fisiologi" viene annoverato da
Teofrasto [11]. Secondo il giudizio di Galeno [12], Alcmeone, allo stesso modo
di Melisso di Samo, Parmenide, Empedocle, Gorgia, Prodico e degli autori
antichi in genere, scrisse un'opera Sulla natura. Per Favorino[13] e Clemente
Alessandrino[14] sarebbe stato addirittura il primo a comporre un discorso
intitolato Perì physeos. La sola attestazione che fa diretto riferimento ad
Alcmeone come medicus è quella di Calcidio[15], risalente al IV secolo
d.C. Per il periodo storico in esame (VI-V secolo a.C.), la distinzione
tra fisiologia/filosofia e medicina risultava essere non ancora strutturata:
non solo «la linea di demarcazione fra questi due ambiti doveva essere fluida»,
ma all'interno dell'indagine "perì physeos" confluivano sia lo studio
della natura, che del corpo umano e, più in generale, per gli enti tutti,
apprezzati e osservati nella loro globalità.[16] Il primo frammento
pervenutoci di Alcmeone contrappone l'onniscienza certa e immutabile degli dei
alla scienza mutevole e ipotetica degli uomini che desumono le proprie tesi dai
segni visibili nei corpi esaminati: «Sulle cose invisibili e sulle cose
mortali solo gli dei hanno la certezza, ma agli uomini è dato il congetturare.»
(Fr. 1[17]) «Non congetturare a caso delle cose più grandi.»
(Alcmeone di Crotone[17]) Tuttavia, tale sapere non viene ancora
associato alla filosofia o alla teologia umane. La salute come equilibrio
tra proprietà opposte modifica Il dossografo greco Aezio, attivo tra il I
secolo a.C. e il I secolo d.C., attribuisce ad Alcmeone la teoria medica,
divenuta molto comune fra i Greci, della salute come equilibrio (isonomia) tra
elementi o proprietà (dynameis) opposte[18]: «Alcmeone dice che la
salute dura fintantoché i vari elementi, umido secco, freddo caldo, amaro
dolce, hanno uguali diritti (isonomia), e che le malattie vengono quando uno
prevale sugli altri (monarchia). Il prevalere dell'uno o dell'altro elemento,
dice, è causa di distruzione. […] La salute è l'armonica mescolanza delle
qualità (opposte).» (A. Maddalena in G. Giannantoni, op. cit., p.
241.) Simile dottrina ricorre, altresì, nel trattato ippocratico
Sull'antica medicina (cap. 14) datato dalla critica agli ultimi decenni del V
secolo a.C.: «V'è infatti nell'uomo il salato, l'amaro, il dolce,
l'astringente, l'insipido e mille altre cose dotate di proprietà diversissime
sia per quantità sia per forza. Ed esse mescolate e contemperate l'un l'altra
né sono evidenti né causano dolori all'uomo; quando però una di esse sia
separata e permanga come sostanza a sé stante, allora diviene evidente e causa
dolori all'uomo.» (Opere di Ippocrate, a cura di M. Vegetti, Torino,
Utet, 2000, pag. 176.) Nel riportare la dottrina dei pitagorici, secondo
la quale «le contrarietà erano per essi principi delle cose che sono»,
Aristotele [19], dubita che all'origine vi fosse stato un contributo
determinante da parte di Alcmeone. Questi, ad ogni modo, sosteneva che «duplici
sono per lo più le cose riguardanti l'uomo». A differenza dei pitagorici –
continua Aristotele – egli «non definiva quali fossero le contrarietà, ma
nominava quelle che gli capitavano, bianco nero, dolce amaro, buono cattivo,
grande piccolo». La dissezione di animali modifica Nel suo Commento al
Timeo di Platone, il filosofo Calcidio riferisce che Alcmeone, «esperto di
questioni fisiche», fu «il primo che sezionò animali viventi»: in particolare
la sua attenzione si concentrò a «mostrare come è fatto l'occhio». Secondo la
testimonianza di Teofrasto[21], Alcmeone ebbe modo di identificare determinati
«canali» (poroi) che conducevano le sensazioni dagli organi di senso (orecchie,
naso, lingua, occhi) al cervello, descrizione che si riferisce probabilmente ai
fori dei nervi cranici. Dal punto di vista storico, la critica più
accorta riconosce come «i canali», cui fa riferimento Teofrasto, fossero, per
quel che concerne l'udito e l'olfatto, «grosse strutture, quali i condotti
delle narici e il meato uditivo esterno». Nel caso dell'occhio, tuttavia, le
«osservazioni», effettuate da Alcmeone, «non riguardavano
esclusivamentestrutture esterne o di superficie: molto sarebbe infatti frutto
di una conoscenza delle strutture retrostanti l'occhio». Il medico e fisiologo
crotoniate si può al riguardo desumere che abbia, in forma assai limitata e
circoscritta, praticato su animali «una recisione dell'occhio per mettere allo
scoperto le strutture retrostanti, che si dipartono alla volta del
cervello».[22] Infatti descrive in maniera inequivocabile le vie ottiche (nervi
ottici, chiasma e tratti ottici), come riportato da Calcidio. Solo dopo
Aristotele la dissezione cominciò lentamente ad imporsi, per diventare pratica
assai diffusa e sistematica in età ellenistica.[24] Il ruolo
"egemonico" del cervello: percezione e comprensione modifica Nel complesso
«si può riconoscere che il primo impiego del coltello a vantaggio della ricerca
sulla natura risale ad Alcmeone». Questo «rese possibile la scoperta del
collegamento nervoso tra l'occhio e il cervello e diede avvio a riflessioni
sulla reale sede delle sensazioni in quest'ultimo organo».[26].Di rilievo la
testimonianza di Teofrasto (De sensu. 25 sg.): «Tra quelli che non
credono che la percezione nasca da simiglianza è Alcmeone. Il quale prima di
tutto definisce la differenza tra uomo ed animali: l'uomo, egli dice, si
distingue dagli altri animali perché capisce, mentre gli altri animali
percepiscono ma non capiscono; per lui, infatti, percepire e capire sono due
attività diverse, e non, come credeva Empedocle, una sola e medesima attività-
Poi parla delle singole percezioni. Dice che udiamo con le orecchie perché in
esse è il vuoto: questo, dice, vibra, e cioè emette un suono con la cavità, e
l'aria ripete la vibrazione. Gli odori li percepiamo col naso, conducendo al
cervello l'aria mediante l'inspirazione. Distinguiamo i sapori con la lingua,
perché essa. essendo calda e molle, col calore disfa, e mediante la rarefazione
dovuta alla sua morbidezza accoglie e distribuisce i sapori. Gli occhi vedono
mediante l'umidità che li circonda. L'occhio, dice, contiene fuoco, come è
mostrato dal fatto che manda scintille quando è colpito. Vede dunque mediante
la parte ignea e la parte trasparente, e tanto meglio vede quanto più è puro.
Tutte le percezioni, dice, giungono al cervello e lì s'accordano: ed è appunto
per questo che anche s'ottundono quando il cervello si muove e cambia di posto:
perché in tal modo ostruisce i canali attraverso i quali passano le sensazioni.
Del tatto non dice né come né con che cosa si abbia. Questo dunque disse
Alcmeone.» (A. Maddalena in G. Giannantoni (a cura di), op. cit., pp.
239-240.) L'anima modifica Secondo Aezio, Alcmeone affermò che le anime
sono causa del proprio movimento e di quello del corpo nel quale sono immerse.
Poiché il moto proprio delle anime è continuo e ininterrotto, esse possono
essere assimilate ai corpi celesti divini e da ciò si può derivare la loro
immortalità. Ciò che si muove è vivo e ciò che si muove continuamente è
continuamente vivo e quindi immortale. L'argomento di Alcmeone fu ripreso da
Platone nel Fedro. I limiti della conoscenza umana modifica Diogene Laerzio[28]
conserva l'incipit dell'asserito trattato di Alcmeone “Sulla natura”:
«Alcmeone di Crotone, figlio di Pirito, disse questo a Brontino e a Leonte e a
Batillo: delle cose invisibili e delle cose visibili soltanto gli dèi hanno
conoscenza certa (sapheneian); gli uomini possono soltanto congetturare
(tekmairesthai).» (A. Maddalena in G. Giannantoni (a cura di), op. cit.,
p. 243.) «Il «metodo tipico della conoscenza umana» consiste, per
Alcmeone, nel «tekmairesthai», ovvero nel «procedere appunto per indizi,
congetture, prove»: egli, in tal modo, «non faceva che teorizzare la sua stessa
prassi di medico, abituato a interpretare l'esperienza per ritrovare in essa un
significato, un valore di sintomo, e risalire così all'unità della malattia e
delle sue cause». Sotto questo profilo, con Alcmeone «si apriva una nuova via
verso il sapere, una via che passava pur sempre attraverso
l'osservazione» (M. Vegetti, op. cit., p. 21.) Perilli, Alcmeone di
Crotone tra filosofia e scienza. Per una nuova edizione delle fonti, in
«Quaderni Urbinati di Cultura Classica», N. S., Vol. 69, No. 3 (2001), p. 56. ^
G. E. R. Lloyd, Metodi e problemi della scienza greca, trad. it., Laterza,
Bari-Roma 1993, pp. 281-332. ^ (EN) Carl Huffman, Alcmaeon, in Edward N. Zalta
(a cura di), Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for the Study of
Language and Information (CSLI), Università di Stanford, 2008. ^ Metafisica A
5, 986a 22. ^ Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VIII 83 (A 1, 1) ^ Vita di
Pitagora, 132; 194; 267. ^ L. Perilli, G. E. R. Lloyd, op. cit., p. 288. ^
Arist., Metaph. A 5. 986a; Id., Hist. anim. H 1 581a 12; Id., De gen. anim. G 2
752 b 22; Diog. Laert. VIII 83, etc. ^ Per le testimonianze e i frammenti di
Alcmeone, vd. H. Diels, W. Kranz, (a cura di), I presocratici. Testo greco a
fronte, a cura di Giovanni Reale, Bompiani, Milano, 2006; A. Maddalena in G.
Giannantoni (a cura di), I Presocratici. Testimonianze e frammenti, Bari-Roma
1986, Laterza, vol. I, pp. 238-241. ^ De sensu, 25-26 ^ De elem. sec. Hippocr,
I, 9. ^ fr. 25 F.H.G. III 581 ^ Strom. I 78 ^ In Tim. c. 237 p. 279 ^ A. Krug,
La medicina nel mondo classico, trad. it. Firenze 1990, Giunti, pp. 47 e
ss. Rocco Ronchi, La scrittura della verità: per una genealogia della
teoria, Di fronte e attraverso (n. 409), Lo spoglio dell'occidente (n.3), Jaca
Book, 1996, p. 33, ISBN 9788816404090, ISSN 2239-5911 (WC · ACNP), OCLC Dox.
442) ^ Metaph., A 5 986 a 22. ^ c. 237, p. 279 Wrob. ^ de sensu. Lloyd, Chalcid in Tim p279 Wrob in Maria Timpanaro
Cardini Pitagorici Antichi p149. ^ H. Von Staden, Herophilus. The Art of
Medicine in Early Alexandria, Cambridge University Press, Cambridge 1989, pp.
139 e ss. ^ G. E. R. Lloyd, A. Krug, op. cit., p. 46. ^ Pitagora e i
pitagorici: l’anima. (VIII 83)
Bibliografia modifica P. S. Codellas, Alcmaeon of Croton: his life, work and
fragments, in Proceedings of the Royal Society of Medicine, vol. 25, 1932, pp.
1041–1046. R. W. Doty, Alkmaion’s discovery that brain creates mind: a
revolution in human knowledge comparable to that of Copernicus and of Darwin,
in Neuroscience, n. 147, pp. 561–568. Lorenzo Perilli, Alcmeone di Crotone tra
filosofia e scienza, in Quaderni Urbinati di Cultura Classica, n. 69, 2001, pp.
55-79. Alcmeóne di Crotone, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata ALCMEONE di Crotone, in
Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1929. Modifica su
Wikidata Alcmeone di Crotone, in Dizionario di filosofia, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, (EN)
Alcmaeon, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. (EN) Carl
Huffman, Alcmaeon, in Edward N. Zalta (a cura di), Stanford Encyclopedia of
Philosophy, Center for the Study of Language and Information (CSLI), Università
di Stanford. Portale Biografie Portale Filosofia Portale
Letteratura Portale Magna Grecia Portale Medicina. Eraclito
filosofo greco antico Empedocle filosofo e politico greco antico Scuola
pitagorica antico movimento esoterico e metafisico basato sugli insegnamenti di
Pitagora. Alcmeone.
Grice ed Alderotti –
filosofia italiana – filosofia toscana – filosofia fiorentina Luigi Speranza (Firenze). Filosofo
italiano. Grice: “I like Alderotti; but then his favourite treatise was
Aristotle’s little thing to his son, Niccomaco – which Hardie instilled on me
like a leech!” “Alderotti was what we would call a Florentine-Bologne-oriented
Aristotelian; he thought, with Aristotle, that the heart trumps the head -- Grice: “What I like most about lderotti is his
archiginnasio – no such thing at Oxford! So, as Speranza says in “Colloquenza
all’archiginnasio,” Alderotti knew what he was doing, even if his pupils did
not!”Scienziato e filosofo erudito, scrisse per l'amico e protettore Donati,
uno dei primi testi di medicina in lingua volgare, il Della conservazione della
salute. Il più conosciuto medico del Medioevo, tanto da meritarsi una citazione
nel XII canto del Paradiso di Dante, insegna a Bologna, applicando, durante le
sue lezioni di medicina, un innovativo metodo scolastico. Iniziava la lezione
con una lectio o expositio di un passo tratto da un testo autorevole (di
Ippocrate, Galeno, ecc.). Procede poi per quaestiones con riferimento alle
quattro cause aristoteliche. La causa materiale (la materia della trattazione),
la causa formale (la sua forma espositiva), la causa efficiente (l'autore
dell'opera), lacausa finale (il fine o
lo scopo dell'argomento prescelto). A questo punto il maestro formula una serie
di dubia, cui facevano seguito i momenti euristici della disputatio ed, infine,
della solutio. Alighieri lo cita in modo dispregiativo nel Convivio (I, x 10):
“Temendo che 'l volgare non fosse stato posto per alcuno che l'avesse laido
fatto parere, come fece quelli che transmuta lo latino de l'etica ciò e
Alderotti ipocratista provide. Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Opere. Tra i primi volgarizzatori
toscani è maestro Taddeo, il famoso medico fiorentino, pubblico professore di
medicina nell'Università di Bologna, uno dei personaggi più notevoli del suo
tempo; egli è pure il primo traduttore italico della morale a Nicomaco, che
volgarizzata entra oramai a far parte della cultura generale. Di traduzioni
della Nicoma chea,c'eran ledue greco-latinedell'Ethica uetus edell'Ethi ca
noua,frammentarie,e quella del liber Ethicorum com pletaletterale;ma
ilvolgarizzatorenon poteacertamente servirsi di un testo incompleto o di
traduzioni letterali che avrebbero evidentemente lasciato Aristotele
oscurissimo nel volgare come lo era nell'originale greco e nelle traduzioni
latine. C'erano le traduzioni arabe: quella del commentario di Averroe; ma come
si sarebbe potuto presentare per la primavoltaa'laici, incapacidicomprendereunvastosi
stema filosofico, Aristotele con tutto il bagaglio delle sue dottrine logiche e
metafisiche che servono di base all'Etica? Restava il compendio
alessandrino-arabo, e questo difatti ammesso alla facile diffusione del volgare
divenne il testo morale aristotelico di moda più recente (1). Al principio
della seconda metà del decimoterzo secolo maestro Taddeo ridusse in volgare
toscano ilcompendio ales sandrino-arabo della morale a Nicomaco; poco più tardi
(1)Ho in un lavoro precedente trattato dell'Etica volgare e fran cese; a quel
lavoro modesto richiamo il lettore il quale, trattandosi di una questione già
molto controversa,voglia con sicurezza accogliere le nostre conclusioni;
giacchè ora alle conclusioni sono costretto dalle necessità e dall'economia
dell'argomento. (C. MARCHESI, Il Compendio volgare dell'Etica Aristotelica e le
fonti del VI libro del Tresor in Giorn. Stor.della lett.it.). Brunetto
Latini, nella seconda parte del Tresor accolse il volgare di Taddeo,modificato
secondo il testo originale la tino ch'ei conobbe e a cui portò contributo di
novissime m e ditazioni. Sicché tra i due compendi è una notevole diffe renza:
una differenza che va tutta a favore di ser Bru netto il quale ebbe il
vantaggio di lavorar dopo in un secolo in cui, per quella energia naturale
delle letterature novelle, si progrediva assai rapidamente nel gusto e nella
cultura. La traduzione di Taddeo in gran parte fedele al conte nuto, nella
forma è condotta con una notevole indipendenza rispetto alla frase latina, e
non di rado si vede la sicurezza ch'è nell'intendimento del traduttore e la
buona conoscenza ch'egli ha del linguaggio filosofico: spesso compendia lam a
teria, d'altra parte allarga tante volte la frase o ilconcetto e diluisce nel
volgare il testo latino per bisogno di ripeti zioni e di esempi o di
ampliamenti, servendosi, come fa in principio,di qualche altro rifacimento,e
aggiungendo dichia razioni proprie. Taddeo non è un traduttore letterale che si
preoccupi dalla frase e voglia mantenersi fedele alla pa- ! rola o al tenore
dell'esposizione; egli è solo un interprete occupato del contenuto che pur
vuole spesso acconciare dal lato espositivo nella maniera più rispondente,secondo
lui,a'bisogni della chiarezza e della semplicità. General mente palesa una
certa libertà nel compendiare e nel ren dere il concetto con espressioni
diverse dall'originale,come quando per es.traduce uita scientiae et sapientiae
con uita contemplatiua; delle parti più confuse e difficili a inten dersi fa
una parafrasi invertendo anche l'ordine delle idee e disponendole in maniera
più agevole per la intelligenza finale, seguito in questo naturalmente da
Brunetto. Ecco un esempio: Rerum quedam sunt co gniteapudnosetquedam sunt
cognite apud natu ram.Oportet ergo ut a m a tor scientie ciuilis promtus sit ad
res eximias et sciat opiniones rectas. Opinio nes autem recte sunt ut in arte
ciuili incipiatur a re bus apud nos cognitis,et in consuetudinibus pulcris et
honestis facta sit assuetu do,principium enim estet inceptio a qua res est. Ex
manifesto existente suffi cienter quia res est,non indigeturpropterquid res
est. Indiget autem homo ad promtitudinem habita tionis veritatis rerum bo narum
aut aptitudine bone instrumentalitatis ex qua sciat uerum,aut forma per quam
accipiantur princi piarerumabeofacile.Qui za. uero neutram babuerit h a rum
aptitudinum audiat sermonem Homeri (corr. Hesiodi) poete ubi dicit: quidem
bonus est,hicau tem aptus ut bonus fiat. Qualche volta invece il concetto è più
largamente defi nito per l'aggiunta di qualche breve dichiarazione che serve a
chiarirne il contenuto e a precisarlo di più rispetto alle considerazioni
precedenti; cosi il testo dice che l'uomo ri fugge dai luoghi solitarî o
deserti o ermi,e Taddeo aggiunge: «perchè l'uomo naturalmente ama compagnia »;
altrove è detto che beatitudine è cosa completa che non abbisogna Sono
cose lequali sono manifeste alla natura,e sono cose lequalisonomani feste a noi;
onde in questa scienza si dee cominciare dalle cose lequali sono manifeste a
noi.L'uomoloqua lesideestudiarein questa scienza ed apprendere, si dee ausare
nelle cose buone e giuste e oneste; onde gli conviene avere l'a nima sua
natural mente disposta a quella scienza: m a quello uomo che non hae neuna di
queste cose,è inu tile a questa scien Iliachosesquisont connues å nature et
sont choses qui sont conneues à nos; par quoinosdevonsence ste science commen
cier as choses qui sont conneues à nos,car qui se vuet estudier å savoir ceste
science, il doit user des choses justes,droites et bon nes et honestes,où il li
covient avoir l'ame natu raument ordenée à ceste science: mais cil qui n'a ne
l'un ne l'autre regarde à cequeHomerusdist: Se li premiers est
bons,liautresestap pareilliezàestrebons: mais qui de soi ne set neant, et qui
n'aprent de ce que hom li en seigne,ilestdoutout mescheanz. d'altra cosa;
e Taddeo chiarisce « di fuori da sè,. Altre aggiunte, come quelle di aggettivi,
tendono solo ad accre scere l'efficacia del concetto; d'altra parte
ilvolgarizzatore coordina spesso le frasi sciolte e le considerazioni staccate
dell'originale latino nella continuata semplicità di un solo periodo. Brunetto
riempie le lacune: molte espressioni trascu rate da Taddeo o tralasciate a
dirittura per difficoltà d'in tendimento sono supplite nel Tresor; per es. il
testo fa una triplice divisione delle arti: « quedam habent se habitu dine
generum et quedam habitudine specierum et quedam habitudine
individuorum»:Taddeo omette quest'ultima ca tegoria delle arti,notando solo le
generali e le particolari; Brunetto, traducendo anche con finezza letterale ed
etimo logica,completa «et aucunes sont sanz deuision ». Altrove sono interi
brani del tutto omessi nel volgare che Brunetto restituisce alla esposizione
del compendio aristotelico. Dia mone un esempio. Arsciuilisnon pertinet La
scienza da La science de cité go pueronequeprosecuto- reggerelacittade
ridesideriiatqueuicto- non conviene a fantneàhomequivueille rie,eoquodamboigna-
garzonenèauo mais Taddeo non vide nel compendio alessandrino il legame tra le
due considerazioni,e omise l'ultima;difatti il com pendiatore o il traduttore
latino butta giù una frase fuor di senso che non ha rapporto alcuno con
l'originale; Aristotele dice:«non è acconcio l'uditore giovane perchè
èinesperto delle azioni che riguardano la vita, e i discorsi della nostra
verner ne afiert pas à en 1 risuntrerum seculi, mocheseguitile
cequeanduisontnonsa neque proficit ipsis. Non son ensuirre sa volonté, por tem.
que ilse torne me, enim intenuit ars ista scientiam sed conuersio. nem hominis
ad bonita- suevolontadi,pe- chant des choses dou sie rò che non cle: car ceste
ars ne qui savi nelle cose del ert pas la science de l'o secolo. à bonté.
scienza da queste si tolgono e intorno a queste si aggirano – “οι λόγοι δ'εκ
τούτων και περί τούτων”. Non pero tutte lelacune sono supplite da Brunetto: la
omissione di qualche concetto importante nel volgare e nel francese, è
giustificata dal fatto ch'esso si trova altre volte particolarmente espresso e
dalla facilità di richiamarlo alla mente nei luoghi ov'esso è ripetuto; cosi
avviene per il principio più volte enunciato della eccellenza del bene voluto
per sé, rispetto al bene voluto per altro. Brunetto elimina pure qualche
ridondanza del volgare; cosi « ars directiua ciuitatum, che Taddeo traduce
«l'arte civile la quale insegna reggere la cittade » 1 è resa nel Tresor «
l'art qui enseigne la cité à governer »; altre volte invece la espressione è
più estesa in Brunetto, come quando traduce con «principaus et dame et soverai
n e » il semplice « princeps » riferito all'arte civile, mentre più sicuro
intendimento dell'espressione: dice il testo che la beatitudine, come l'uomo
che dorme, non manifesta al cuna virtù quando l'uomo la possiede in abito e non
in atto, e Brunetto aggiunge « ce est à dire quant il porroit bien faire et il ne
lefait mie »; e poco prima alla definizione della potenza razionale ch'è più
degna quando si è in atto, aggiunge « chè il bene non è bene se non è fatto
(car se il ne le fait, il n'est mie bons)».Talune espressioni proprie del
traduttore francese vanno oltre i bisogni della chiarezza e la necessità dell'intendimento;
laddove il testo latino dice del bene dell'anima ch'è il più degno di tutti,
Brunetto inserendo il concetto della divinità mette di suo la ragione « car ci
est li biens de Dieu », evidentemente per il bisogno di ribadire il principio
che pone in dio il sommo bene e di asservire il trattato aristotelico alle
idea il volgare dice solo « principale e sovrana ». L'aggiunta
comunemente è fatta per maggiore precisione e per un c o n « colui che
sta nel travito »; il francese si riconduce all'esatta interpretazione « li
sages cham pions et fors.” Nello sfrondare le ridondanze del volgare e nel
ridurre la materia alle proporzioni dell'originale latino, Brunetto non sempre
riesce a cogliere l'esatto inten dimento della parola, e riducendo smarrisce
l'idea che vi èracchiusa;ilt. ha «quemadmodum peritiagonistaeatque « robusti
coronantur quidem et accipiunt palmam apud actum agonisetuictorie»;T addeo
traduceaėsomigliantedi quello che sta nel travito a combattere; chè solamente
quelli che combatte et vince, quelli å la corona della vittoria », e fa vera
illustrazione della frase finale «e se alcuno uomo sia più forte di colui che
vince, non à perciò la corona, perch'egli sia più forte, s'egli non combatte,
avvegna che egli abbia la potenzia di vincere >; Brunetto si ferma alla
prima parte « si comme li sages champions et fors qui se
combatetvaintemportelacoronedevictoire trascurando il significato particolare
dell’apud che qui sta per post. Pure nellaintelligenza della parola
latinailtestofran cese è generalmente più fine del volgare (1), nel quale tal
volta si trova sconvolto l'ordine delle frasi e delle idee, (1)Un esempio: t. difficile:
Tadd. impossibile,Brunet.dure chose; t. in omnibus artificibus, T. nelle cose
artificiali, B. choses de mestier et de art. lità contemporanee della
fede. Generalmente Brunetto ha maggiori riguardi per il testo, perciò che
riguarda i concetti semplici e le singole espressioni. Cosi egli corregge la
frase talvolta malamente resa o ingiustamente compendiata e confusa da Taddeo.
Questi si restringe talora a molto s e m plice espressione, impropria, che mal
si adatta al concetto latino,come quando traduce « periti agonistae atque ro
busti > per deviazione dal retto intendimento del latino. Riporto un
brano. Brun.car il estdure chose que Taddeo traduce la seconda parte del
periodo: ut pote. come se fosse esplicazione del concetto già espresso: opera
decora exerceat; Brunetto la riferisce invece al precedente: absque materia.Nel
volgare italicoetalvoltaanche,inma niera alquanto diversa, nel francese
l'espressione latina è modificataquando apparisca troppo cruda.Infinedel compen
dio aristotelico si parla di uomini che non si possono correg gere con parole,
per cui occorre « assiduatio uerberum t a m quam in bestia »; Taddeo traduce
vagamente «pena »; Brunetto è più civile ancora « menaces de torment ». Il
volgarizzatore francese tende spesso,più che il medico fiorentino, a modificare
quelle che a lui sembrano asperità di giudizio o durezze d'espressione.
Così,nello stesso brano, de'delinquenti per natura,di coloro che non possono
cor reggersi con parole nė percastighi, diceilt.«tollendisunt de medio», e Taddeo
letteralmente «sondatorredimezzo »; Brunetto è meno severo «tel home doivent
estre chastié si que il ne demourent avec autres gens ». È un riscontro ca
suale; ma sinotiad ogni modo come l'urbanità dell'espres sione francese e la
temperanza cortese di giudizio pare si accordi coi principî positivi di un
diritto criminale molto recente ! E Brunetto si accorda talvolta con Taddeo nel
m o T. difficile est enim Tadd. perciò che non homini ut opera decora è
possibile all'uomo exerceat absque mate ch'egli faccia belle o riautpotequodha
pereech'egliabbia beatpartemcompeten arte la quale si con tem rerum bone uite
pertinentiumetcopiam eabbondanzad'amici familieetparentumet ediparenti,eprospe
prosperitatemfortune. rità di ventura sanza venga a buona vita, li beni di
fuori. ne... 5 1 l'on face b e lesoevres, seiln'ia gran part des choses
avenables à bono vie et habondance d'avoir etd'amisetdeparenz, et prosperité de
fortu dificare le opinioni del testo, come quando fieri amendue della
loro vita comunale, rinnegano il detto d'Aristotele che l'ottimo governo sia
nel principato, affermando migliore il governo delle comunità. Un'osservazione
finale. Brunetto qualche volta fa dei tagli al testo latino e al volgare,
sopprimendone talune espressioninonperamoredibrevità,ma evidentemente perch'ei
si rifiuta di accoglierne il giudizio. Ciò risulta chiaro dalla costanza con
cui l'espressione è soppressa ogni qualvolta si presenti nell'intendimento
voluto dal l'autore. Una prova: al principio del II° libro (ediz. Gaiter) il
compendio latino e con esso Taddeo fa una duplice divisione della virtù:virtù
intellettuale,come sa pienza scienza e prudenza,e virtù morale come castità lar
ghezza umiltà; e poi lo esempio « quando noi volemo lodare un uomo di virtude
intellettuale diciamo:questo è un savio uomo intendevile e sottile:quando
volemo lodare un altro uomo di virtude morale, diciamo: questo è un casto uomo
umile e largo » Nell'uno e nell'altro caso Brunetto sop prime a dirittura
l'espressione che racchiude il concetto della umiltà. La prima volta dice della
virtù morale,ch'essa è « chastée et largesce »e soggiunge un po'infastiditoe
non curante del testo « et autres choses semblables »; nella se conda parte
dice semplicemente « ce est uns hom chastes et larges ».Ed è curioso e notevole
documento questo d’uno tra ipiù illustri rappresentanti del laicato dotto del
tem po, uomo di parte e d'azione tenace e bellicosa e guelfo ardente,che si
rifiuta cosi chiaramente di accogliere l'umiltà tra le virtù morali,
ribellandosi al giudizio che uomo umile ė uomo virtuoso. C'è qui l'alto sentire
del laico e lo spi (1) « ex parte moralium largum uel castum uel humilem. uel
modestum eum appellamus». Rito sdegnoso elaboria cavalleresca del tempo, chesian
nidava bensi nella fierezza solitaria e nella severa integritå dell'uom casto,
o sorrideva nel magnifico gesto signorile dell'uom largo e cortese, ma non si acconciava
a indossare il saio dell'umile curvato. Quale dei due traduttori abbia
merito maggiore non possiam dire. Taddeo ha il merito dellapriorità;ma egli
compendia troppo, abbrevia, toglie parte di considera zioni e di esempi al
testo latino; Brunetto che lavorò a p presso a lui è più fine e completo, e poi
anche il fran cese si prestava allora assai meglio del volgare italico. Taddeo
molte volte amplia o riduce la materia, Brunetto traduce con maggiore fedeltà
sia nell'evitare le ripetizioni inutili del volgare sia nel colmarne le lacune
rispetto all'ori ginale latino, le cui espressioni segue con attenzione e
riproduce spesso con esattezza. Siamo nel periododeicom pendi e
dell'enciclopedia. Un compendio fatto è fatica ri sparmiata al maestro che deve
dire le «chose universali ». Brunetto, che aveva intelligenza fine, trasse il
compendio italico alla lingua di Francia e l'incluse nell'opera sua e ne colmò
le lacune e ne affinò i contorni e lo ripuli di fronte al testo latino da cui
egli pompeggiandosi dicea di aver tratto la parte morale del Tresor. E non fa
cenno di T a d deo: egli accoglie, corregge, assimila; d'altra parte è tutta
una letteratura e una divulgazione anonima quella che dal
l'ultimomedioevovaaltrecento,eidirittidi proprietà letteraria non sono ancor
sorti. C'è però da osservare che nel ritocco della materia volgare Brunetto non
va oltre qualche singola espressione o frase, trascurata o ridondante. Egli non
si attenta mai a rimaneggiare e ad acconciare la materia nel contenuto
ideale,per ilmodo con cui le idee furono esposte nel volgare o compendiate o
disposte o in terpretate.Questo dunque testimonia onorevolmente che
Taddeo era allora ritenuto autorevole intenditore del trattato ari stotelico
anche da un uomo per cultura famoso come ser Brunetto, sebbene al grande
discepolo di costui non appa risse ugualmente felice dicitore del
volgare.Tuttavia le m o dificazioni introdotte da Taddeo e assai più ancora da
Bru netto non sono tali da farci notare la presenza di nuovi elementi etici o
l'azione modificatrice diretta del tradut tore spinto da una evoluta coscienza
sociale del tempo.Gli scrittori del medio evo accolgono e credono; sono ansiosi
di notizie come sono pieni di fede. Si accetta tutto, il vero e il falso, anzi
più il falso che il vero; a Taddeo che scrive un sonetto sulla pietra
filosofale risponde Brunetto che ragiona sulle virtù delle pietre. È ancora
intatto il morto edificio secolare della fede, che più tardi la critica del
quat trocento ridurrà nei frantumi donde sorgerà la nuova co scienza degli
individui e delle genti. MAGLIABECH.XVI, 7,75;cartac. sec. XV.«Carmina magistri
Tadei de florentia super scientiam lapidis philosophorum ex Alberto Magno edita
feliciter. «Soluete icorpi inaqua a tuti dico voi che in tendete di far sol et
luna delle duo aque poi prendete l'una Qual più vi piace e fate quel chio dico datella
a ber a quel uostro inimico senza manzare i dicho cosa alguna Morto larete e
riuerso in bruna dentro dal cuore del lion Anticho poi su li fate la sua
sepoltura si e in tal modo che tuto si sfacia la polpa e lossa o tuta sua
giuntu ra|La pietra aretee da poi questo si facia de terra aqua et daqua terra
fare così la pietra uuol multiplicare e qual intendera ben sto sonetto sera
signor de quel a chi e suzetto». Il compendio alessandrino-arabo prestó
dunque la ma-: teria etica aristotelica al volgare d'Italia e di Francia; e la
morale a Nicomaco potè cosi divenire libro di attualità adoperato e sfruttato,
nella valutazione dei principi etici e nella decisione delle finalità umane,
dai nuovi scrittori vol gari: tra questi ė Alighieri, a cui Taddeo dié
motivo di presentare in più nobil veste il volgar di Toscana, e
Latini avea ad ora ad ora insegnato « c o m e l ' u o m s'eterna ». IL
COMPENDIO VOLGARE LE FONTI DELLIBRO DEL " TRESOR, Il presente lavoro fa
parte di un altro più esteso e completo sui rifacimenti aristotelici latini e
volgari, il quale spero verrà presto a portare un contributo,non privo
d'interesse,alla storia ell'aristotelismo nella pre-rinascita e a colmare
qualche lacuna la conoscenza del movimento intellettuale che fu prima del
quattrocento:giacchè ne'volgarizzamenti e ne'rifacimenti sta i cultura del
trecento; seguendo il volgarizzarsi e il diffondersi della cultura medievale e
classica, specialmente, noi troveremo i sentiero ascoso che va da Dante teologo
al Petrarca filologo. Ma ora ho fatto opera molto modesta; trattando solo le
spi. ese questioni critiche agitate intorno al compendio volgare ell'Etica, ho
inteso risolvere taluni dubbî,lungamente mante nūti, ed eliminare molti errori.
Il lettore, che attende forse uno studio riassuntivo sulla influenza della
morale aristotelica, comprenderà come questo sia possibile solo alla fine
dell'opera, quando le ricerche già fatte e i risultati ottenuti ci metteranno
in grado di poter volgere uno sguardo sicuro e sereno su quel grande campo dove
la tradizione aristotelica alligno rigogliosa e tenace ramificandosi e
abbarbicandosi per una serie copiosis. sima di rampolli viziosi e
invadenti. DELL'ETICA ARISTOTELICA C. MARCHESI. 1 E 2 C.
MARCHESI Il compendio volgare dell'Elica nicomachea e per la prima volta
impresso a Lione a cura dell'editore Tournes, su di un manoscritto appartenente
a Corbinelli. Manni stimo inutile, per le moltissime mende, la edizione
francese,condotta inoltre su un solo manoscritto,e ristampò il trattato
aristotelico valendosi principalmente di due codici Laurenziani,il 19 e il 23
del plut.XLII (2).L'ultima ediz.del 1844 fu condotta da Fr. Berlan su un
cod.del sec.XIV e in base a un esemplare dell'ediz. lionese emendato e comple
tato da Apostolo Zeno su un ms. Com'è noto,ilcompendio volgare dell'Elica
aristotelica è quello stesso che forma il VI libro del Tresor volgarizzato, se
condo la comune opinione, da Bono Giamboni; pero si trova anche in tutte le
edizioni del Tesoro volgare:Treviso, Gerardo Flandrino (de Lisa), Venezia,Fratelli
da Sabbio, Venezia, Marchio Sessa,1533;Venezia, acura di Luigi Carrer il quale
nel libro VI seguì anche le due edizioni, Lionese e del Manni;Bologna,
1878,ed.da Luigi Gaiter il quale si valse di tutte le stampe
precedenti,de'mss.del Tesoro e di raffronti continui col testo francese. Eppure
di questo compendio manca una stampa che ne ripro duca fedelmente e
criticamente la lezione;giacchè a tutti gli editori dell'Elica,che eseguirono
le loro stampe sulle precedenti o solo col sussidio di qualche ms.,sfuggi
quella rigogliosa co munione di codici, che abbiam potuto noi esaminare, da'
quali (1) L'Etica d'Aristotile ridotta in compendio da ser Brunetto Latini et
altre tradutioni et scritti di quei tempi. Con alcuni dotti Avvertimenti
intornoallalingua, Lione,Giov.deTornes. L'Etica d'Aristotile e la Rettorica di
M. Tullio aggiuntovi il libro de' Costumi di Catone, Firenze, Dall'edizione
lionese trasse la parte riguardante le quattro virtù un tal Luigi Ruozi che la
pubblicò modifican dola nell'ortografia e nella lezione: Trattato delle quattro
virtù cardinali compendiate da serBrunettoLatini sopra
l'Eticad'Aristotile,Verona. Etica d'Aristotile compendiata da ser Brunetto
Latini e due leggende di autore anonimo,Venezia, sarà possibile, con un esame
complessivo, trarre nella sua veste primitiva l'antico volgarizzamento toscano;
d'altra parte gli editori più recenti del Tesoro nel curare la lezione del VI
libro, ritenendolo, com'era naturale,volgarizzamento dal francese, come tutti
gli altri libri, credettero opportuno acconciarne la lezione anche inbase al
testo francese,alterandone laveste originaria e originale. Intorno a questo
antico e primo compendio volgare dell'Etica si è agitata una lunga e spinosa
questione. Esso fin dalle prime stampe porta il nome di Brunotto Latini, e il
fatto stesso poi che si trova inserito nel testo volgare del Tresor, di cui
costi tuisce appunto la materia del VI libro, non ha mai fatto dubitare ai
critici e agli editori ch'esso non si debba considerare come una parte del
Tesoro e quindi,come tutti gli altri libri, volga rizzamento di Bono
Giamboni.Solo il Mabillon,ritenendo che Brunetto stesso avesse volgarizzato il
suo Tresor, credeva che ciò fosse pure avvenuto dell'Etica. Il primo dubbio
intorno al traduttore del compendio francese in toscano fu mosso dal Manni,
indotto da una nota del Salviati il quale « trovò in fronte « a un particolar
testo dell'Etica: Qui comenza l'Elica di Ari. « stolile volgarizzata per
maestro Taddeo medico e philosopho «dignissimo».Ad ogni modo egli si acqueta
volentieri all'au. torità della Crusca che cita il Tesoro « tutto » stampato
per traduzione di Bono Giamboni (2).Altri che vennero dopo nota rono che
qualcuno dei mss. dell'Etica indicava un maestro Taddeo come il volgarizzatore
dell'opera; difatti il Lami ritiene che ilvero traduttore sia Taddeo,e il Mebus,seguito
dal Maffei, sostieneche la versione di Taddeo,fatta probabil mente assai
prima,venisse più tardi inserita nel Tesoro volga. rizzato,in tuttiglialtri
libri, da Bono Giamboni. Lo Chabaille, Museum Italicum, Paris.Novelle
letterarie,Firenze, Storia della lett. ital., 3a ediz., Firenze. VitaAmbrosii
Traversarii, che curò la edizione critica francese del Tresor, dalla perfetta
somiglianza ch'è tra l'Elica e il vi libro del Tesoro, deduce che Brunetto avesse
tradotto Aristotile in italiano prima ancora di voltarlo in francese, e che
quindi il compendio volgare del l'Etica dev'essere a lui attribuito Il Paitoni,
che scrisse sopra tale argomento un lungo articolo, finisce col non sapere da
che parte decidersi Giov.Battista Zannoni ha spinto in vece la questione molto
avanti,servendosi di un passo del Conrito di Dante (Tratt.), dove è fatto cenno
di un volgarizzamento dal latino dell'Etica per opera di Maestro Taddeo,ilcui
volgare Dante chiama «laido».Lo Zannoni ri tiene « che Brunetto voltasse in
francese il volgare di Taddeo « e che il Giamboni a questo desse luogo nella
sua versione «delTesoro»(3).QuestacongetturaèancheaccoltadalPuc cinotti,ch'è
stato il più accanito difensore di Taddeo. Sundby combatte tutte le opinioni
precedenti:quella delloCha. baille e dello Zannoni,opponendo loro le parole
stesse di Bru netto che,nella sua introduzione, assevera di aver tradotto dal
latino in francese,de latin en romans;quella del Mehus, citando il passo di
Dante il quale parla evidentemente di una traduzione dal latino. Egli reputa
diversa da quella che abbiamo la traduzione di Taddeo,dicui sifacenno nel
Convito; afferma recisamente che Brunetto ha tradotto Aristotile dal latino in
francese e che il testo italiano dell'Etica è opera di Bono Giamboni. Gaiter, ch'è
il più recente editore delTesoro, seguendo, come pare, la congettura di Chabaille,
confonde la Lilivresdou Tresor par Brunetto Latini, Paris, Biblioteca degli
autori antichi greci e latini volgarizzati, Venezia, Il Tesoretto e il
Favolello di ser Brunetto Latini, Firenze, Prefazione,pp.XXXV sgg. Storia della
medicina,Firenze, MARCHESI. Della vita e delle opere di Brunetto Latini,
Firenze,1884,pp.139 sgg. La stessa opinione del Sundby aveva esposta prima V.
Nannucci,Manuale, Firenze, Nicomachea con ilLibro de'Vizi e delle Virtù e con
il VI libro del Tesoro, il quale « fu prima compilato e poscia dall'autore
«annestato nella maggior parte del Tesoretto»; e altrove ricorda una nota del
Sorio che attribuiva a Brunetto Latini il volgarizzamento dell'Elica
d'Aristotile; del resto non fa cenno
dellaquestione.IlCecioni,perultimo,trattando delSecretum Secretorum, in una
breve digressione sull'Elica volgare, dopo avere riassunto tutte le
opinioni,assicura che Taddeo deve averne fatto una traduzione, poichè
altrimenti sarebbe inesplicabile il motivo per cui parecchi codici di
rispettabile antichità attribui. scono la traduzione aTaddeo;ma
delrestoaffermachelaque. stione circa il volgarizzamento dell'Etica, che noi
possediamo, rimane indecisa nè si potrà forse in alcun modo risolvere. Cosi
scetticamente si chiude la questione, irresoluta. Dopo l'esame dei codici
dell'Etica volgare e latina e del Tesoro, non è più lecito dubitare di poter
decidere la questione in modo definitivo, e a definirla concorrono parecchi
dati positivi e sicuri; il primo, di capitale importanza: la tradizione
manoscritta. Il compendio volgare della Nicomachea ci ha una ben larga ed
evidente tradizione isolata.Nelle biblioteche di Firenze,ove il latino del
testo aristotelico ebbe per la prima volta veste volgare e popolare conoscenza,
ben ventidue codici ci attestano della larga diffusione che il volgarizzamento
ebbe come opera a sė, indipendente da altre opere più larghe che la
integrassero. A'codici fiorentini si aggiungono altri che ho potuto esaminare:
due Ambrosiani,tre Marciani,uno della Nazionale di Napoli, uno della Comunale
di Nicosia. Pochi altri mss. dell'Etica si trovano sparsi per le biblioteche
d'Italia, ma da ragguagli cortesi che ho potuto avere di essi, è lecito dedurre
come tutti quanti ade riscano per contenuto e per lezione al nucleo centrale e
fonda mentale dei mss.fiorentini. Ediz.cit.del Tesoro,Prefaz.,p.xv.
Propugnatore. Tutti icodici presentano una redazione unica del
volgarizzamento,che è quella stessa della edizione Manni, con la quale ho
fattolacollazione. Le varianti frequenti nella lezione, le inversioni,le
omissioni reciproche, gli scambi, le lacune del testo a stampa sopra tutto, si
debbono, oltre che alla bontà maggiore o minore del modello, a sbagli de'
trascrittori, e non valgono dinanzi alla somiglianza e conformità
dell'assieme.Molte lacune e accorciamenti si possono attribuire soltanto a
sbada taggine de'copisti per le gravi difettosità che ne vengono al senso, e
sono indubbiamente prodotte dalleespressioni consimili cheapocadistanza han
prodotto la facile omissione: giacchè il copista credendo di proseguire saltava
d'un tratto il brano. Accanto alle lacune, che dànno qualche volta luogo a
strane combinazioni d'idee,va notato un buon numero di ampliamenti, di cui
taluni sono ripetizioni di luoghi antecedenti.Qualche volta le parole si
trovano collocate in maniera diversa nel periodo o sostituite con altre e
mutate con lo scopo di abbreviare o modificare il costrutto (2 ); le molte
differenze ortografiche vann ori ferit e al tempo della trascrizione. Fra i codici
che più si accostano al testoastampa vanno notati 6.c.g.h.4.2.m.p.e
specialmente d ed e,iquali hanno pure comuni con il testo Manni molte
particolarità ortografiche.Le maggiori divergenze presentano i codd.7 e 1;in
quest'ultimo è notevole un'aggiunta al libro sesto Nel cod. V la lezione
presenta spiccate differenze, (1) È da osservare come nel secondo libro (cap.IX
del Tesoro) occorrano tre parole greche trascritte con caratteri
latini:19)apeyrocaliaoapeiorocalia(4.y.) edanche apeyrochilia (6) eapherocalia (g):in
pa recchi codici tale parola è mancante perchè manca il brano che la contiene;
29) eutrapeles (x.y.4.m.p.)o eutrapelos(2.6.7.d.e.f.g.h.)ed anche eutrapelo (6)
ed eutrapeleos (8); 3o recoples orechoples(e.g.) ed anche recupes (6) erecopls (2).Inqualchecodice,
come nel cod.1, il copista salta il passo dove avrebbe dovuto introdurre le
parole greche. (2 ) Come si nota anche particolarmente nell'Ambr. C. 2 1, i n f.,
ch'è una trascrizione umanistica della seconda metà del '400, (3) Manni, Gaiter,p.115:«in
questo cambio era grande brigaet specialmente nella seconda metà,dalla
lezione comune,e risente dell'influenza dell'opera francese di Brunetto e
dell'azione diretta modificatrice del trascrittore: l'influenza del francese in
questo codice, come nell'Ambros. c. 2 1 i n f., c i è attestata indubbiamente
dal fatto ch'essi vanno oltre il limite solito dell'Elica e proseguono con le
stesse parole, intorno alla differenza tra la retorica e la scienza di fare le
leggi, le quali chiudono il VI. libro del Tresor; ma possiam dire che per
quanto la lezione di V sia in molti punti alterata,non presenta tuttavia una
redazione diversa dalla comune dei mss.e delle stampe del Manni e del Gaiter,
alla quale ultima specialmente aderisce verso la fine.Dall'esame critico della
lezione risulta una somiglianza intima tra icodd.1 e 7; tenendo poi conto delle
particolarità più comuni, possiamo stabilirediversi gruppi di codici:a) 1.a.y.5.6.7.8.x.r.
9. che ci danno la più autorevole lezione;b) g.C.d.e.f.N.r. 2.s.;c) 4.m.p. Come
s'è detto, il compendio volgare dell'Etica si trova pure inserito nel
volgarizzamento del Tresor, di cui forma la prima metà della seconda parte, o
meglio il VI libro, secondo la indicazione comune.Dei venti codici del Tesoro
da me esaminati, dodici solamente contengono il trattato aristotelico: gli
altri sono mutili. La lezione dell'Etica ne' codici del Tesoro, tranne le
solite Jivergenze omai notate come comuni in questa redazione del l'Etica
volgare,è da collegarsi alla stessa famiglia dei codici isolati e de'testi a
stampa. C'è da notare nel complesso un numero maggioredivarianti, omissioni, aggiunte,
frequentissimi sbagli di trascrizione e qualche breve interpolazione del
copista «pero fue trovata una cosa c'aguagliasse et questa cosa si è il danaio.
« percio che l'opera di colui che fa la chasa si aghuaglia ad opere di colui «
che fae i calzari col danaio; chè per lo danaio puote l'uomo donare et «
prendere le grandi cose e picciole, per cio che 'ldanaio è uno strumento
«perloquale ilgiudicepuotefaregiustizia, pero che el danaio èleggie
«senz'anima. ma il Giudice è leggi ech'à anima et dio glorioso si è leggie «
uniuersale d'ongni cosa », stesso,che sidistingue subito
permancanza di riscontroinaltri codici. Oltrere P, che servirono di base
allastampa fiorentina, uno de'codici più fedeli all'ediz.del Manni è
l'Ambros.G. 75 Sup. e Z,dove pur si trova una grande confusione causata dallo
spostamento di varie parti.Tra icodd.più scorretti dal lato ortografico e P. In
base alle particolarità più comuni icodd.del Tesoro si possonodividere
ne'seguenti gruppi:19)d.v.1. 2°)n. λ.π.φ.3ο)λ.μ.γ.Ρ.Ζ.ε.Ambr. Riassumendo, possiam
dire: la lezione del testo aristotelico volgare appare generalmente,
ne'codd.dell'Etica e del Tesoro, fluttuante,poco sicura.Ma lesolite differenze
nella espressione, nella struttura del periodo, le frequenti omissioni e
aggiunte di parola,gli spostamenti e le lacune,comuni alla maggior parte dei
codici,riguardano più d'ogni cosa la bontà della copia,la correttezza del
modello copiato, la esperienza o la libertà del l'amanuense, ma non
compromettono in alcun modo l'unità del volgarizzamento. La materia dell'Etica
si trova nella maggior parte dei codici ugualmente distribuita.Una grave
inversione presentano 1. d. e.s.; in essi il testo dap.6 Manni [Gaiter 25: compimentoe
forma di uirtu ] va d'un tratto a p. 18 (Gaiter 57: ciascuno huomo che ingiusto
et reo sie] e seguita sino a p.21 (Gait.66: E pero è bestial cosa seguir troppo
la dilettazione del tatto] donde torna indietroap.9 [Gait.34: La potenzia
uae'innanzi all'acto] e prosegue sino a p. 18 [Gait. 57: dee l'uomo essere
punilo];quindi tornadinuovoap.6 (Gait.25:beatitudoècosa ferma et stabile]
seguitando sino alla fine del primo libro [p.8 M., 31 G.: Questièun casto
huomo, humile et largo).È determi nato cosi uno scambio reciproco, nel
principio, de'libri secondo e terzo. 'T 8 G. MARCHESI Un'altra inversione
è nei codd.del Tesoro a.T. X. u.In essi iltesto dell'Etica dalla fine del cap.XXIX
(pp.M.35,G.101: l'uomo si uiene a fine con grande sottilglianza de li suoi in
tendimentine le cose le qualisonbuonema questasottilglianza e cerlezza e sauere
ragion diuina e le dilettationi che l'uomo elegge per gratia d'altro.son
queste ricchezza etc.... Jez.u] corred'untrattoalcap.XXXVIII (pp.M.41,G.121] e prosegue
sino al primo periodo del cap.XXXIX (pp.M. 43,G. 125:per a u e r e lungamente u
i n t i li desideri della carne. Lo magnanimo serue bene.....u]; quindi ritorna
al cap.XXXIV (pp.M. 37, G.110) eva sino al cap.XXXVIII (pp. M.41, G.120:inman.
giare e in bere e in luxuria e tutle dilectationi corporali ne la misura delle
quali l'uomo elegge per se medesimo.et quando ella e rea si detta callidita. ne
le cose ree si come incanta menti.....u]; dopo itre primi periodi del
cap.XXXVIII torna cosi nuovamente al cap.XXIX (pp.M. 35,G. 101). La stessa inversione
nell'ordine della materia h a il m s. V i s i a n i. I codici dell'Etica, in
gran parte,presentano la solita divisione della materia in dodici libri,che non
di rado è limitata alla semplice indicazione numerica,senza alcun accenno
all'argomento svolto (h. 4. ); i n p a r e c c h i c o d i c i (y. c. e. h. 4.
m. r.) l a materia oltre che in libri è divisa in tanti capitoletti; in altri, soltanto
in rubriche le quali sono qualche volta costituite dalle stesse parole del
testo,come in 5 e 6.Altri co. dici mancano di qualunque divisione sia in libri
che in rubriche (p.8.Amb.166). L'Ambr. C.21inf.,delsec.XV,presentala partizione
comune fino al decimo libro;la materia degli ultimi due è divisa in tre
capitoli (c.53':tracta di la beatitudine la quale puo hauere in questo mondo:
Di po la uirtu diciamo di labeatitudine; c.57 "tracta che se l'huomo ha buona
natura la ha da dio: sonno huomini che sonno buoni per pauura; c.57'di Gouernamento
dilacittade:lonobilehuomoetbuono regitore di la citta fa nobili et buoni
cittadini). In d in luogo di libri è detto fioretti, e cosi pure al principio
di v: Fioretti dell'Elicha d Aristotile del primo libro. . Dei codici del
Tesoro, taluni (e,u,n) non danno alcuna in dicazione sul modo con cui la
materia è distribuita;altri (a,a) hanno un elenco delle rubriche posto in
principio alla seconda parte dell'opera, vale a dire il VI libro; in 8 è un
rubricario generale posto in principio del Tesoro; le rubriche di t
fanno! parte del testo,e una divisione in capitoli si trova in r
(De leuile nominale de le tre potenzie del'anima Come lobene si diuide de la
polenzia dell'anima de la uerlude intellectuale di che l'omo desidera tre cose
|de le uerlude che ssono inabito comesitroualauerlude comel'omopuo farebene e
male de le tre isposizioni in operatione de le cose che
conuienefareperforzaetc.). In due codici (Z eAmb.) tutta la materia del VI
libro è divisa in cinque capitoli: 1°) « Incipit «libro d'eticha Aristotile; 2)
Secondo capitolo d'elicha Ari «stotile:sonooperationi lequali homo
fa;39)Terzocapilolo « d'eticha: due sono le specie d'amista; Quarto capitolo de
« eticha: la dilectatione è nata e notricata; 5°) Quinto capitolo « de etica:
Dopo le uirtù diciamo oggimai della beatitudine ».Altri codici presentano la
divisione per libri o per rubriche che si trova nelle stampe. Riferiamo il
titolo originario dei dodici libri dell’Etica, traen dolo da'codici più antichi
ed autorevoli, del sec.XIV: « Prologo « sopra l'etica d'Aristotile Qui si
finisce il prologo di questo « libro d'Aristotile. Qui appresso si comincia il
primo libro e « tracta in questo primo libro della felicitade: le uite nominate
ve famose.IQui comincia ilsecondo libro dell'Etica d'Aristo « tile e comincia a
diterminare delle uirtudi e primieramente « mostra che ongni uirtu che noi
abbiamo è per costumanza « d'opere:Concio siacosa che siano due uirtudi.|Qui
comincia “il terzo libro dell'etica e tratta dell'operazioni le quali sono “volontarie
e che non sono uolontarie: Sono operazioni le quali « l'uomo fae sanza sua
uolontade uqi comincia il quarto libro « dell'etica d'Aristotile ove si
ditermina di quella uertude la « quale è detta uertude della liberalitade:Larghezza
è mezzo in « dare e in riceuere pecunia qui comincia il quinto libro del «
l'etica e determina della giustizia la quale è uerti che dee « essere
nell'operatione delli huomini: Iustizia si è abilo lau « de u o l e qui
comincia il sesto libro dell'Etica e cominc a a d e « terminare delle uertudi
intellettuali per ciò che infino a quie
«ellisiaediterminatodelleuirtudimorali:Due sonolespezie « delle uirtudi
|Qui si comincia il settimo libro dell'etica del « sommo filosofo Aristotile e
ditermina della uertude la quale è detta uertude della contenenza: Li uizii de
costumi molto « reil Qui comincia l'ottavo libro dell'etica d'Aristotile nel
quale «ditermina dell'amistade la quale è cosa necessaria all'uomo: « Amistade
si è una delle uertudi dell'uomo IQui comincia il nono libro dell'etica
d'Aristotile il quale ditermina della pro «prietade dell'amistade: Lo
conueneuole agualliamento si « aguallia le spezie Qui comincia il decimo libro
dell'etica « d'Aristotile nel quale tratta della dilettazione e della
felicitade « per ciò che pare che queste due cose si sieno fine de la dilet. «
tazione et dice qui che la dilectazione si è fine dell'operazione virtuosa:La
diletlazionesiènataenotricata|Quicomincia « l'undecimo libro dell'etica
d'Aristotile nel quale ditermina della beatitudine la quale puote l'uomo auere
in questa uita. Et dice « qui che la beatitudine è cosa perfecta: Dopo le
uirtudi di c i a m o oggi mai | Qui comincia il dodecimo libro dell'Etica. E t
determina come l'uomo il quale à buona natura si l'ae dalla « grazia di dio, et
questi cotali sono disposti ad acquistare uer. « tudi: Sono uomini che sono
buoni per natura ». Del rubricario più comune diamo per saggio quello del primo
libro:«Perqualescienziașireggelacittade delleuiteet « quale è laudabile |di due
modi di bene che è beatitudine «delle potentie naturali dell'anima demeriti delle
operationi adi tre spezie del bene Comes'acquistaetconserualabeati. « tudine
|Onde uiene la beatitudine e di che à bisognio chi « non puote auere la
beatitudine per che /che cose sono aspre « a sofferire |come ae similitudine
l'uomo felice con dio onde « procede felicitade in che comunica l'uomo colle
piante et colle «bestieetincheno dell'animacom'aecontrarimouimenti « della
uertu intellettuale e della morale ».Nel codice Marciano II,141,la materia è diversamente
distribuita in dodici «parti»; la prima non è indicata,poi «della forteça:
Diciamo omai di « ciascuno habito della liberalità: largheça è meço in dare «
del conuersare: dopo questo dobbiamo dire di quelle cose
«dellagiustitia: Justiciasi è habilol audabile dello intellecto « dell'anima: Due
sono le specie delle uirtudi |de tre uitii primi: «Vilii e costumi molto rei dell'amistade:
Amistade e una «delle uirtude dell'uomo e d'iddio |dello aguagliamento della
«amistade: Lo conueneuole ad guagliamento della dilectatione: « La dilectatione
si è nata e nutricala della beatitudine:Quando «noiauemodeterminato
delcorreggimentodeVitii.depaura. « della pena: La scienzia delle uirtudi si a
questa utilitade ». Il compendio volgare del Trattato Aristotelico, come si può
desumere dall'incipit e dall'esplicit di ogni codice,veniva più
comunementeindicatocoltitolodi Elhica d'Aristotile, ed anche: Etica del sommo
phylosofo Aristotile; molto più raramente: Fioretti dell'Elica d'Aristotile.
Occorre anche talvolta la indi cazione latina: Elhica Aristotilis, e più
sovente quella di Liber Ethicorum. Ne' codici del Tesoro il titolo più comune è
pure: l'Etichad'Aristotile,edanche:l'EtichadelgrandesauioAri slotile;in
parecchi si trova l'indicazione latina:Ethica Ari stolilis. Nei codici
dell'Etica manca ogni notizia intorno alle necessità e a'criteri dell'opera.Fa
eccezione ilcod.Marciano II, 134 il quale contiene, solo fra tutti, l'epistola
proemiale del volgarizzatore ad un amico,che a quella fatica del tradurre
avevalo indotto. « Incipit proemium transductoris huius operis « uulgaris.— Più
uolte essendo amicho mio da la tua gintileza « con grande instanzia infestato
l'Eticha Iconomicha et politicha de « Aristotile de lingua latina in parlar
(moderno] et uulgar ti « transducha. La quale richiesta considerando truouo la
mala «sua axeuolezza uincere ogny mia faculta.Et anche hauendo « udito altri
circha a questa opera auere insudato non m'è pa «ruto douerse seguire per
fugire la riprensione de molti.Ma pure la forza de la tua amicizia è tanta che
mi constringie et fami intraprendere quello che mi cognosco impossibile.Onde la
gratia superna inuocho al principio di tale faticha doue « mi mecto seguendo el
uoler tuo iusta mia possa. Et perche el « dire de Aristotile è scropoloso et
stranio molto dal modo del « nostro parlare, pure quanto potro ad esso mi
acostero.Alcuna « uolta le sue proprie parole et alcun altra el senso
dimostraro «suzinto,seruando la uerità del testo.Ma auanty che questo « cominci
alquanto della persona et essere suo toccharo ad cio « che le sue opere
pergrate siano da te riceuute ». Il prologo non ci porge alcuna notizia
storica,e del resto sulla sua auten ticità ci lascia grandemente perplessi. Il
fatto che,tra tanti manoscritti dell'Etica, noi lo troviamo solo in
questo,abbastanza tardivo,della fine del sec.XV,può destare grave sospetto,ma
non sarebbe ad ogni modo motivo sufficiente per indurci a rin negarlo
senz'altro. Ben altri motivi non ci permettono di prestar fede all'autenticità
del proemio Marciano. In esso il volgarizza tore dice di aver udito « altri
circa a questa opera avere in « sudato »; l'espressione è molto ambigua;
giacchè o si riferisce a precedenti volgarizzatori,e ciò non è possibile perchè
Taddeo fu il primo a volgarizzar l'Etica, o a traduttori latini; ma per quanto
sappiam noi in nessuna delle traduzioni latinedella Ni comachea si leggono
accenni alle difficoltà del traduttore; solo Ermanno ilTedesco,nel
prologodellasuaversione delCommen. tario d'Averroè alla Poetica
d'Aristotele,dice della grande dif ficoltà da lui trovata « propter
disconuenientiam modi metrifi «candiingraeco cum modometrificandiinarabo, etpropter
auocabulorumobscuritates»(1);ma ci sembrer ebbe affatto inopportuno scorgere
nel prologo alla Poetica di Ermanno un rapport col prologo all'Etica diTaddeo. Epoinel1200eneltre.
cento è ben difficile trovare la nota individuale,sopratutto nelle traduzioni;
furon più tardi gli umanisti che alteri del merito proprio rivelarono a quattro
venti le difficoltà del lavoro da essi intrapreso e compiuto; del resto tutta
la parte del pro logo, di cui ora parliamo,si connette con la praemunitio tanto
comune agli scrittori del quattrocento, i quali nell'introduzione alle opere
loro ci ricordano spesso la difficoltà dell'argomento e il timore della critica
e la debolezza dell'ingegno e il riguardo Il prologo è pubblicato dal Jourdain
(Recherches critiques sur l'age et l'origine des traductions,latines
d'Aristote, Paris). amorevole per l'amico che la vince sulle giuste
considerazioni e preoccupazioni dell'autore.È questo,ripeto,un motivo comune
agli umanisti,a'quali l'aveva comunicato lo spirito retorico delle composizioni
proemiali latine. Lo stile poi del proemio è assai diverso dal volgare di
Taddeo, ch'è quale potea rampollare schietto di mezzo all'efflorescenza
letteraria dell'ultimo dugento.Lo stile del prologo marciano ri. sente molto
invece di quel volgare farneticante da scuola e da sacrestia che pretendea ingentilirsi
nel '400 signorilmente, usur pando gli addobbi lessicali delle forme latine.C'è
in fine un ultimo argomento decisivo. Nel titolo dell'epistola proemiale è
adoperata la parola transductoris,e nel volgare stesso del pro logo si trova
adoperato il verbo transducere. Ora nel sec. XIII e XIV la espressione latina
traducere non è ancora passata col significato moderno nel latino e nel volgare;
il primo, come pare, ad usare il vocabolo traducere con il significato di
tradurre, fu il Bruni; d'allora soltanto s'introdusse nel latino e quindi
nell'italiano (1). Sicchè possiamo affermare che il prologo Marciano è di avan.
zata fattura quattrocentina.Come sia comparso non sappiamo, nè torna conto
indagare e congetturare sulle cause e sulle ori gini di tutte lescritturecheapparveroingrande
numero,affac cendate e moleste,in quel tempo di continue esercitazioni re
toriche e di finzioni letterarie. Stabilita la unità del volgarizzamento
contenuto ne'codd.del l'Eticaedel Tesoro,passiamooramai allaindicazionedell'autore.
De' ventinove codici dell'Elica, da me esaminati, ventidue sono anonimi;uno,del
sec.XIV (5), attribuisce la traduzione a un maestro Giovanni Min.(2); sei codici
(4.y.&.g.m.p.) danno il nome del volgarizzatore dell'Elica, traslatata in
uulgari a magistro Taddeo. (1) Vedi R. SABBADINI,Del tradurre iclassici antichi
in Italia,in Atene e Roma,an.III,no 19-20,col.202. (2)Explicitethica Aristotilis
translate amgio iohemin. vulgare. deo gratias. Dei codici del Tesoro,tre del
sec.XIV,oltre la solita attri. buzione a Brunetto in principio di tutta
l'opera, alla fine del sesto libro ci danno un'indicazione particolare del
volgarizzatore, la quale è sfuggita a tutti gli studiosi del Tesoro ed è di
molta importanza per la questione agitata intorno all'autore del com pendio
volgare. Ecco dunque le soscrizioni.a:Explicit etica Aristotilis a magistro
Taddeo in uulgare traslala; T: Explicit hetica Aristotilis a magistro Taddeo in
uolgare trasleclata; 1:Explicit Elicha Aristotilis a magistro Tadeo in uulghari
traslatlata. Dalla tradizione manoscritta si può dunque ricavare: 1o) che
ilcompendio volgare della Nicomachea ebbe una larghissima diffusione come testo
particolare, indipendente da altra opera; 2°)ch'esso,quando non correva
anonimo,veniva comunemente attribuito a maestro Taddeo. Ma da'codici del Tesoro
balza fuori un nuovo cumulo d'in dizi gravi e sicuri, che infirmano seriamente
l'unità del vol garizzamento dell'opera di Brunetto,attribuito sempre con
cordemente per intero a Bono Giamboni: 19) Parecchi codici del sec. XIV danno,
come s'è visto, il nome del volgarizzatore del l'Etica: Maestro Taddeo; la
soscrizione finale, perchè non si possa ritenere aggiunta posteriore,è sempre
di mano del copista che ha trascritto il codice per intero.Questà attribuzione
è l'unicachesitroviintuttoilms.,oltreaquellageneralecon cui va riferito il
complesso dell'opera a Brunetto.Ciò è di spe. ciale importanza per noi:
difatti, giacchè il copista solo per l'Etica sente il bisogno di riferire il
nome del traduttore, vuol dire ch'ei sapeva che solo quella parte del Tesoro
rimaneva estranea al volgarizzamento generale dell'opera, e il volgare di
Taddeo vi si trovava come inserito. In qualche codice anepigr. e mutilo,come
a,l'attribuzione a Taddeo è anzi l'unica indica zione di autore che sitrovi in
tutta l'opera.2 ) Di solitoicodici mutili si fermano prima di giungere
all'Elica; d'altra parte pa recchi mss.del Tesoro si arrestano alla fine del
compendio aristotelico. Ciò dimostra che questo costituiva come un punto
di fermata, era un libro introdotto a parte, si che poteva benis simo
arrestare al libro V l'amanuense che fosse sprovvisto del. l'originale, o
determinare una pausa nella trascrizione,alla fine del libroVI. Nel
cod.r,miscellaneo,l'Elica è preceduta dal VII libro del Tesoro: si può notare
dunque il distacco ch'è tra le due parti, non considerate come legate e
dipendenti nella stessa opera. In qualche ms.,come ri,precede una tavola della
materia che giunge sino a tutto il libro V, escludendo la rimanente, dall'Elica
in poi; e ciò dimostra ancora che l'Elica arrestava quasi il corso regolare
dell'opera volgarizzata ed era estraneaalvolgarizzamento del Tesoro. Un
particolare fon damentale: il cod.d ha questa soscrizione dell'amanuense,al
l'Etica: Ecplicit l'Etica Aristotile in questo tanto che io noe trouata; ciò
significa chiaramente che il copista, per trascrivere la parte dell'opera che
comprendeva il compendio aristotelico, era obbligato a ricorrere ad un altro
testo che non era quello unico del Tesoro. Ci resta finalmente da osservare che
mentre tutti i codici del Tesoro differiscono quasi sempre e in m a niera
notevole nella lezione, mostrano invece una concordanza molto maggiore
nell'Etica; vuol dire che si tratta di un testo particolarmente prefisso
a'trascrittori.Ciò dimostra ancora la maggiore divulgazione del testodell'Etica
lacui lezione più re golare, rispetto alla lezione caotica del Tesoro, era
fissata da una più grande diffusione delle copie. Concludiamo questa prima
parte. Dall'esame dei codici e della materia manoscritta ci risulta che
esisteva nel secolo XIV un compendio volgare della Nicomachea, attribuito a
maestro Taddeo, che noi troviamo anche inserito integralmente nel Tresor vol
garizzato, di cui costituisce il VI libro. Ma
nèicodicidelTesoro,nèquellidell'Eticacidicono da Il Sorio da questo particolare,
ch'egli osserva nel cod. Ambr., trasse argomento principale diattaccoallaautenticità
delVIIlibrodel Tesoro.La opinione del Sorio fu combattuta dal Gaiter
(Propugnatore) con argomenti dubbi ed indecisi: l'uno e l'altro eran difatti
fuor di strada. che volgarizzó Taddeo.La questione è importantissima;data
la identità tra l'Elica e il volgare del VI libro del Tresor non resta che una
questione di priorità:0 Brunetto si servi di Taddeo, o Taddeo di Brunetto; vale
a dire,o maestro Taddeo volgarizzo il VI libro del Tresor, il quale ebbe così
tradizione e fortuna isolata da tutto il resto del volgarizzamento, ch'è opera
di Bono; o Brunetto si servi per il suo Compendio francese del volgare di
Taddeo,che fu introdotto però intatto nel Tesoro, in luogo di un
volgarizzamento diretto dal francese. Nel Convito di Dante è unpasso che spinge
molto avanti la questione: Tratt.I,cap.10:«La gelosia dell'amico fa l'uomo «sollecito
a lunga provvedenza: onde pensando che perlo desiderio di intendere queste
Canzoni alcuno inletterato avrebbe «fatto il comento latino trasmutare in
volgare,e temendo che 'l volgare non fosse stato posto per alcuno che l'avesse
laido « fatto parere, come fece quelli che trasmutò il latino del «l'Etica,ciò
fu Taddeo Ippocratista,provvididiponere «lui,fidandomi di me più che d'un
altro».IlSundby,che vuole ad ogni costo ritenere di Bono tutto il
volgarizzamento del Tresor,se ne sbriga assai piacevolmente: « Nel caso adunque
che il passo succitato del Convilo fosse esatto in tutte le sue « parti, la
cosa sarebbe chiarissima: la traduzione di Taddeo dovrebbe essere affatto
diversa di quella di cui noi ci occu « piamo,e questa si dovrebbe attribuire a
Bono Giamboni. E non ci sarebbe niente da dire; resterebbe però fin ora da
spiegare,se non altro,la tradizione manoscritta che,laddove non tace,dà il nome
del volgarizzatore:Taddeo,accordandosi col passo di Dante; e d'altra parte non
sarebbe lecito trascurare quegl'indizi che non danno certamente più come sicura
l'unità delvolgarizzamentodiBono.Nedevefareombra l'appellativo di « laido »
dato da Dante al volgare di Taddeo, giacchè per C. MARCHESI. certo questo
non è il modello migliore di prosa trecentistica, e la opinione del Nannucci
(1),di cui si fa forte il Sundby,può ri tenersi giustificata da un sistema di
ammirazione proprio della fede e dell'entusiasmo delle generazioni passate per
tutti i do cumenti letterarî del nostro trecento. Tutto dunque ci fa credere
che il volgarizzatore sia maestro Taddeo: Esiste una sola Etica volgare in
tutti i codici; 2 )i codici che portano il nome del volgarizzatore
l'attribuiscono a maestro Taddeo; la dichiarazione esplicita di Dante, il quale
ha l'aria di parlarne come dell'unico, comunemente noto, volgarizzamento
ch'esistesse a suo tempo dell'Etica latina. kesta anche esclusa la prima
congettura,che Taddeo volgarizzasse il francese di Brunetto; Dante ce lo dice
esplicitamente: « colui « che trasmutó lo latino dell'Etica ». Del resto, a
prescinder da altriargomenti principali e decisivi, ch'esporremosubito,ilcom:
pendio volgare dell'Etica non può ritenersi come volgarizzamento del VI libro
del Tresor per le frequenti differenze, non solo di forma ma di sostanza, che
presenta rispetto al testo francese: e sono omissioni o aggiunte di pensieri,di
esempi,di considerazioni, ampliamenti o riduzioni di concetti: e tutto questo
non può ammettersi nella traduzione di un'opera,a meno che il traduttore non
abbia voluto rimaneggiare per conto suo l'originale. Dunque Taddeo volgarizzò e
compendio da una delle redazioni latine del testo aristotelico, la quale e nota
allora sotto il nome di Liber Ethicorum, nome ch'è anche particolarmente
proprio di un'altra redazione latina della Nicomachea, letterale e molto oscura,
cui il commento tomistico a v e a spinto allora alla massim a diffusione. Dal
testo tomistico difatti il Sundby fa derivare il compendio francese e volgare
dell'Elica,e pone iraffronti;ve dremo appresso come il critico danese si sia
messo su una falsa (1)Manuale della lett.italiana,vol.I,p.382. IlN. trova anzi
l'Etica «adorna di molta purezza e semplicità di stile». 18 C.
MARCHESI. strada.Ad ogni modo che
Taddeo abbia tradotto direttamente dal Jatino ci è confermato dal confronto tra
l'Etica volgare e il Liber Ethicorum da cui dipende; se avessimo scarsezza di
argomenti o mancanza di prove sicure potremmo anche valerci delle soscri zioni
di taluni codici dell'Etica e del Tesoro che indicano il nostro volgarizzamento
come Elhica Aristotilis e più spesso Liber Ethi corum,facendoci sospettare
lasua provenienza dal testo latino. Di maestro Taddeo i codici (4. y.) ci
dicono soltanto che su « florentino » e Dante aggiunge ch'ei fu medico, « Ippocratista
». Di un Taddeo, d'Alderotto, fiorentino, « fisico massimo », scrisse, con la
solita ingenuità,una breve vita Filippo Villani,il quale ce lo descrive di
parenti oscuri, poverissimo, dedito ai mestieri più vili, e col cerebro
oppilato e tenebroso fino ai trent'anni (2). Passati gli anni trenta « si
consumarono quegli umori grossi; Taddeo divenne un altro uomo e rivelòilsuo
ingegno dedicandosi allo studio delle arti liberali,della filosofia e per
ultimo della medicina,che insegnò pubblicamente a Bo logna. Dice il Villani: «
Fu costui de' primi infra' moderni che adimostrò le segretissime cose dell'arti
nascoste sotto i detti « degli autori, e la spinosa terra e inculta solcando
all'ottimo « futuro seme apparecchiò. Questi, sprezzati alcun tempo i so
pravvegnenti guadagni,cupido di gloria e d'onore,si dette a « commentare gli
autori di medicina. Nella qual cosa fu di tanta «autorità,che quello ch'egli
scrisse è tenuto per ordinarie achiose,lequali furono postene'principali
libridimedicina. E fu in quell'arte di tanta reputazione, quanto nelle civili «
leggi fu Accorso, al quale egli fu contemporaneo. Il Villani ci riferisce
inoltre un aneddoto molto curioso, riportato poi dal (1) Le Vite d'uomini
illustri Fiorentini,colle annotazioni del co.G. M a z zucbelli,Firenze,
Biscioni, in una nota sopra Taddeo, inserita nelle Prose di Dante e del
Boccaccio, Firenze, 1723, vuol dimostrare che Taddeo era di famiglia
cittadinesca,che possedeva effetti stabilieche prese per moglie una de'Ri
goletti, il cui padre aveva il titolo di dominus, che in quei tempi si con
cedevasoltantoa cavalieri.Cfr. notadelMazzuchelli,Op.cit.,p.98. 20
C. MARCHESI Negri (1) e dal Fabricio (2), intorno agli eccessivi compensi che
Taddeo « tenuto come un altro Ippocrate da'Signori d'Italia in « fermi » (3),
esigeva per le sue visite giornaliere; e ci narra che chiamato a Roma dal
pontefice,Onorio IV,richiese cento ducati d'oro al giorno; invece,dopo la
guarigione del pontefice, n'ebbe in compenso diecimila (4).Il Villani non ci dà
alcun cenno cronologico;dice solo che fu seppellito a Bologna d'anni
ottanta.Giovanni Villani (Storie,seguito dal Fa. bricio, dal Poccianti e dal
Cinelli, pone l'anno della morte nel 1303;l'Alidosi sostiene invece che Taddeo
morisse,il Biscioni e il Negri (6), per approssimazione, nella fine del
sec.XIII.Delle opere di Taddeo ci attesta il Mazzu chelli ch'esiste una
raccolta a stampa col titolo « Expositiones «inarduumAphorismorum Hippocratisvolumen.
Indivinum « Prognosticorum Hippocratis librum. In praeclarum regi. a minis
acutorum Hippocratis opus. In subtilissimum Iohan «nitiiIsagogarum
libellumIohan.Bapt.Nicollini Salodiensis a operainluceme missae.Venetis, apud Luc.Antonium
Iuntam. Scrisse anche in ci. Galeni Artem parvam commen taria, Neapoli, Mazzuchelli,
che attribuisce anch'egli a Taddeo la traduzione in volgare dell'Elica
d'Aristotile, aggiunge che nella libreria dei pp.Minori Osservanti in Cesena si
con serva un ms.intitolato Magistri Taddei Glossae in Galenum, eiusdem
Aphorismata.Di maestro Taddeo si conservano in al cuni codici parecchi
trattatelli medicinali e fra questi è par Istoria degli Scrittori Fiorentini, Ferrara,
Biblioth. latina mediae etinfimaeaetatis, Patavii, Notissimo anche un distico
del Verino (de illustr.urbis Florent., lib.I)su Taddeo: «Est quoque Thadaei
celeberrima fama,non alter For « sitan in medica reperitur ditior arte ». A
proposito di questo aneddoto vedi la erudita nota del Mazzuchelli, Cfr. Mazzuchelli,
Biblioteca Angelica (Roma),Thaddaei de florentia ticolarmente diffuso un
libellus de seruanda sanitate o libellu's conseruandae sanitatis, dedicato a
Corso Donati. Fra i m a noscritti che lo comprendono è di speciale importanza
l'Ambrosiano J. 108 sup.,del sec.XIII per una nota posta in principio, di mano
dello stesso copista che trascrisse tutto il codice: « Iste « libellus scriptus
et compositus per probissimum et prudentis « simum uirum dominum magistrum
Taddeum de Flor. doctorem « in arte medicine in ciuitate bononie transmissus
nobili militi « domino Curso donati de florentia », È notevole anche il proemio
del trattato medicinale:« Quoniam passibilis et mutabilis a existit humani
corporis conditio, complexionem et consisten « tiam quam a principio sue
originis homo habuit non seruando, « necessarium extitit artem et scientiam
inuenire,per quam in « sanitate et natura et corpus hominis conseruetur, motus
igitur « precibus et amore cuiusdam mei amici,multa mihi dilectionis
«teneritate coniuncti nec non pro utilitate aliorum hominum, « more uiuentium bestiarum
ad conseruationem sanitatis et uite « in humanis corporibus libellum
medicinalem inuenire disposui « de libris et dictis philosophorum breuiter
compilatum ». Da queste ultime parole risulta ancor meglio l'identità ch'è tra
l'autore del libellus, studioso sfruttatore e compendiatore di m a teria
filosofica e l'autore del nostro compendio volgare dell'Etica. Il trattato di
Taddeo,molto curioso,contiene quei precetti igienici che bisognerebbe osservare
fin dal principio della giornata in torno alle abluzioni del capo,all'igiene
della bocca,dello stomaco, libellus medicinalis; Magistri Thaddaei de florentia
de r e giminesanitatis; Curacrepotorummagni Tadeiabeocom posita. Riccardiana, Magliabechiana,cl.21,cod.62;141.
(2)Membran.a due colonne;contiene:19) Vegetii de re militari libri; Isiderus de
bellis; a c.31a segue la notissima epistola de cura et modo rei familiaris di
Bernardo,al gratioso militi et felici domino Raimundo domino CastriAmbrosii;a
c.32 asegue iltrattatodiTaddeo.Ilcod.consta d icc. 3 5 n. num., l a c. 3 4 * e
3 5 a v u o t e. Questo cod. si trova legato assieme con un altro membr. dello
stesso formato, di cc.19 scritte perdisteso,con tenente i Saturnali di
Macrobio. 22 C. MARCHESI de'cibi,delle bevande, della
digestione,del sonno;sulle condi zioni del corpo umano durante le diverse
stagioni e quindi sulla igiene delle stagioni. Segue a dire della efficacia
terapeutica, molto larga,dialcune pillole,da prendersi avanti o anche dopo
ilcibo,compostedaun«frateRobertodeAlamania»conuna quantità di sostanze vegetali
e aromatiche. La parte trascritta nel cod.Ambros. finisce con la ricetta adatta
«ad faciendum «cristerepropassioneyliaca». Questo Taddeo famosissimo medico del
suotempoedanchepoeta(1), autoredicommentari e di trattati, insegnante l'arte
della medicina nell'Accademia di
Bologna,fualtresìquellochetradussedallatinoinvolgare il compendio dell'Etica
aristotelica. E veniamo al VI libro del Tresor. È noto ed è stato detto da
tutti gli editori e gli studiosi del Tresor, ch'esso risulta da m o l teplici e
varie compilazioni fatte in diverso tempo da Brunetto, su scrittori
specialmente latini; poi riassunte e combinate nel compendio enciclopedico
francese del maestro di Dante. Lo C h a baille anzi afferma che Brunetto avea
preludiato alla compila zione del Tresor con opuscoli separati in prosa e in
verso, fra cui l'Elica d'Aristotile,ch'egli dunque suppone,come parecchi
altri,compendiata e volgarizzata da Brunetto Latini,prima della compilazione
del Tresor (2). Ma su ciò non vale la pena discu tere,giacchè sarebbe
combattere contro imulini a vento. Magliabech. Tadaei magistri de Florentia
Carmina. Op. cit., Introd., p. vi. Riferiamo un passostesso di
Brunetto:Liv.I,cap.I:«Il « (cist livres) est autressi comme une bresche de miel
cueillie « de diverses flors; car cist livres est compilés seulement de «
mervilleus diz des autors qui devant nostre tens ont traitié « de philosophie,
chascuns selonc ce qu'il en savoit partie; car « toute ne la pueent savoir home
terrien, porce que philosophie « est la racine d'où croissent toutes les
sciences que home peut « savoir ». Egli dunque non dice di essersi limitato
a raccogliere e tradurre scritti latini soltanto; e si deve intendere anche di
volgari. Fra questi è il compendio dell'Etica di maestro Taddeo che Brunetto,
valendosi anche di raffronti continui con il testo latino originale,trasporto
nel VI libro del suo Tresor. Allo Zannoni, il quale riteneva che Taddeo avesse
tradotto Aristotile di latino in italiano e che Brunetto poscia voltasse il
testo di Taddeo in francese (1), il Sundby opponeva le parole di Brunetto, che
nel Prologo della seconda parte (il VI libro del Tesoro volgare) dichiara di
tradurre il libro d'Aristotile de latin en romans. Per venire in aiuto di
quanto abbiamo asserito non è necessario ricorrere alla sottile nota del
Paitoni, ilquale sosteneva che il volgare italiano si chiamava anche « latino »;
giacchè essendosi Brunetto servito non solo del volgare di Taddeo, ma
anche,come vedremo,della redazione originale latina,anzi avendo acconciato e
rifatto in molti punti il volgare in base al testo latino, è chiaro come abbia
potuto dire d'aver tratto il suo compendio dal latino,che del resto è anche
l'originale dell'Etica diTaddeo. E poniamo le nostre conclusioni. Il compendio volgare
dell'Etica è la traduzione che maestro Taddeo fece di una delle redazioni
latine del testoaristotelico,laquale ci è rimasta.La traduzione è in gran parte
fedele al contenuto, nella forma è condotta al quanto liberamente: spesso il
traduttore compendia la materia, d'altra parte allarga sempre la frase o il
concetto e diluisce nel volgare il testo latino per bisogno di ripetizioni o di
esempi o di ampliamenti, servendosi, come fa in principio,di qualche altro
rifacimento o aggiungendo delle dichiarazioni proprie.Taddeo non è un
traduttore letterale che si preoccupi della frase e voglia mantenersi fedele
alla parola o al tenore dell'esposizione; egli I codici del Tesoro traducono «
di latino in uolgare », ovvero « di « latino in romanzo » o « di gramaticha in
uolgare ». è solo un interprete occupato del contenuto che pur vuole p a
recchie volte acconciare dal lato espositivo nella maniera più rispondente,
secondo lui, a'bisogni della chiarezza e della s e m plicità.È l'originale una
traduzione latina, di un compendio alessandrino-arabo della Nicomachea, elementarissimo,
semplice e piano, ridotto a una esposizione riassuntiva molto breve, e talvolta
anche efficace, nonostante l'incertezza e la poca fedeltà di talune
espressioni. Molti luoghi fondamentali, anzi diciam pure tutte le parti più
notevoli per gravità e serietà di enunciati, per difficoltà di contenuto
critico, vengono senz'altro omesse interamente, o ri dotte alla loro ultima e
più semplice espressione. Cosi, per dare qualche esempio, nel 1° libro è
saltato il passo importante al principio del cap.3,in cui Aristotile nega la
possibilità diotte. nere una precisione assoluta nei giudizi e pone la
necessità del giudizio per approssimazione; altra omissione considerevole è
quella della prima metà del cap.4,in cui Aristotile passa alla definizione del
supremo de beni, alla critica del concetto di fe licità, e si accinge a
discutere la dottrina platonica del bene assoluto; è tralasciata pure tutta la
confutazione della dottrina platonica delle idee (cap.VI) e l'astrusa
enunciazione fondamen tale dell'Eudaluovía aristotelica considerata come bene
vero ed assoluto che comprende in sè, unificandoli, tutti gli altri beni
necessari all'autarchia della vita; e della seguente trattazione intorno
a'principii (cap. VII) non è alcun cenno nel compendio. Dei brani accolti
tuttavia è vero e proprio ampliamento. Ad ogni modo il testo si prestava
benissimo all'intelligenza comune per l'intendimento più facile e semplice e la
forma più piana che non l'oscurissimo Liber Ethicorum del commento tomistico.
(1)Questo compendio fu conosciuto prima dal Jourdain in un codice della Sorbona;
e più tardi dal Luquet (Hermann l'Allemand, in Revue de l'histoire des
Religions, Paris, in due mss. della Biblioteca Nazionale: il n ° 12954, che
pone la data della versionenel1244,eilno16581 che è forse lo stesso veduto dal Jourdain.
Come compendio poteva anzi dirsi ben riuscito;giacché per ri durre allora in
più brevi proporzioni l'Elica nicomachea, ch'è da per sè una condensazione
poderosa delle norme logiche e de principi esposti nell'Organo, bisognava
appunto sfrondarla di tutti i luoghi più ardui 'a spiegarsi e a comprendersi
senza l'aiuto di richiami e di collegamenti, e semplificarne e chiarirne il
contenuto eliminando la rassegna delle opinioni e la parte critica, sopprimendo
le divisioni minori, togliendo il carico degli argomenti favorevoli o 'contrarî
ad ogni problema e riducendo questo alla sua più semplice ed elementare
espressione.Ilcom pendio arabo latinizzato era dunque il testo etico
aristotelico di moda piùrecente.Essocièrimasto,sottoilnome diLiber Ethico r u m,
i n u n codice Laurenziano, g i à G a d d i a n o (Plut. 8 9 i n f., 4 1 )
membr.in fol.del sec.XIII,a due colonne,di cc.scr.219,miscell. Enon tuttodiunamano;
contiene:una Cronicadianonimo; laHistoria troiana di Darete frigio,premessa
un'epistola:Cor nelius Nepos Sallustio Crispo suo salutem; Graphia aureae
urbisRomaeseuantiquitatesurbisRomae dianonimo;Eu tropii historia romanae
Ciuitatis dilatata a Paullo Diacono: Liber Alexandri regis; un'epistola di
Alessandro ad Aristo tile intorno alle regioni e alle cose notevoli delle Indie;
Liber Sibyllae, di Beda; un'epistola dell'abate Ioachim; un'ora zione di Seneca
a Nerone; i LibrideremilitaridiVegezio;
11)ilLiberEthicorum,d'Aristotile:vadac.131ac.142;la materia è distribuita in
ventidue capitoli indicati dalla iniziale colorata;manca
ognialtradivisione.Com.:Incipitliberprimus Ethicorum. R.;allafine: Incipiamus
ergoetdicamus.Explicit prima pars nichomachie Ar.que se habet per modum theo
rice et restat secunda pars que se habet per modum pratice. Et est expleta eius
translatio ex arabico in latinum. Anno incarnationis uerbi. La soscrizione,
importantissima per la storia di questa reda zione,è di mano dello stesso
copista,scritta con lo stesso in chiostro e coi medesimi caratteri di tutto il
testo aristotelico. Seguono di mano più recente e in carattere minuto alcune
cita zioni dell'andria e dall'Eunuco di Terenzio.La lezione
dell'Etica verso la fine è molto incerta e in taluni punti a dirittura insa
nabile. Dopo il Liber Elhicorum vengono le orazioni catilinarie e iltrattato de
Senectute,l'orazione di Sallustio contro Cicerone, l'invettiva di Cicerone
contro Sallustio, le orazioni pro Marcello, pro Ligario,proDeiotaro,ilibride
Officiis,iParadoxa,epoi la Catilinaria e il Giugurtino di Sallustio; seguono,
di mano del sec.XIV, alcune bolle di papa Bonifacio VIII. La versione
dell'Etica, compiuta nel 1243, si deve con molta probabilità attribuire ad
Ermanno ilTedesco (Hermannus Alemannus),il quale trovandosi in quel tempo nella
Spagna,a Toledo,aveva due anni prima (nel 1241) ridotto in latino il commento
di Averroè alla Nicomachea,e più tardi nel 1256 compi la versione di altri due
testi arabi di Averroè relativi alla poetica e alla retorica d'Aristotile. La
traduzione di Taddeo,che dovette essere di poco,meno di un ventennio,
posteriore, corse ed ebbe fortuna e divulgazione; ce lo attesta il buon numero
di codici, l'uso che ne fece Brunetto, la dichiarazione di Dante che ne parla
come di cosa comune mente nota,egli che molte espressioni del volgare di Taddeo
ricorda nella sua Commedia. Brunetto Latini più tardi si accinse a svolgere
nella parte morale del suo Tresor la dottrina etica di Aristotile. Egli si
servi del volgare di Taddeo,ma prese anche in mano il testo latino: c e l o
dimostrano le aggiunte e le modificazioni introdotte, che corrispondono in
tutto con il Liber Ethicorum; qualche altra volta ridusse il volgare di Taddeo
e quindi con esso anche il latino della redazione araba. Nessuno vorrà certo
ancora dubitare che l'Etica di Taddeo sia tratta dal compendio francese di
Brunetto, rivendicando a questo la priorità; giacche,pur volendo saltare sul
passo di Dante, sulla particolare designazione de'codici,sulla tradizione
isolata dell'Elica volgare,rimane sempre una barriera dinanzi a cui bisogna
fermarsi:la materia de'due Compendî.La dipendenza diretta dell'Elica dal testo
latino ci è fra l'altro attestata dalle numerose espressioni latine trasportate
di peso,quando corrispon dano nel lessico volgare, nel compendio di
Taddeo; mentre Brunetto è costretto tante volte a tradurre dirersamente,m u
tando la dizione, e dall'Elica e dal Liber Ethicorum. D'altra parte poi
nell'Etica molte cose ci sono che mancano nel com pendio franceseeche pur
dipendono dal testo latino.Un'ultima prova: tutti i codici dell'Elica e del
Tesoro si chiudono allo stesso modo, con le stesse parole, e la chiusa non
corrisponde al testo francese. Brunetto va più in là di Taddeo: egli include
nel suo compendio tutta la fine del rifacimento latino. Se si do. vesse
considerar l'Etica come un volgarizzamento del libro VI del Tresor,anzi che
come un compendio indipendente,non si spiegherebbe più quella ostinata lacuna e
quella costante diver genza alla fine. Solo cinque codici dell'Elica, di
trascrizione al quanto tarda, seguono volgarizzando l'opera di Brunetto: i tre
codici Marciani e i coddice Ambros. C 2 1. i n f., i quali rivelano molto
chiaramente l'influenza del testo francese. In essi il brano finale è
volgarizzato in modo del tutto differente; ciò è na turale: giacchè nessun
codice dell'Etica e del Tesoro dava quella parte del testo francese, i
trascrittori, che tennero l'occhio al Tresor, dovettero pensare, ciascuno per
conto proprio, a volgarizzarla.Anzi il Marciano II, 134 contiene tutto quanto
ilcompendio di Taddeo,compreso ilbrano finale rias suntivo,che non si trova
invece negli altri codici dell'Etica o del Tesoro iquali proseguono col testo
francese sino alla fine; e questa nel Marc.II,134 ci appare evidentemente come
una sovrapposizione voluta dal trascrittore. Naturalmente tutti i giudizi e i
sospetti di ampliamenti, di aggiunte, di mutamenti arbitrarî del volgarizzatore,
di sbagli continuati degli amanuensi, agitati dagli editori del Tesoro, ca dono
innanzi all'entità e al valore storico diverso dei due com pendi, volgare e
francese. E data la priorità del volgare, cadono anche meschinamente tutti i
tentativi di emendazione apportati dagli editori alla lezione del VI libro in
base al testo francese. Nel Propugnatore Gaiter, che accude allora
Quale dei due traduttori, in fine,abbia merito maggiore non possiam
dire.Taddeo ha ilmerito della priorità;Brunetto che lavoròappresso a lui è più
fineecompleto,e poi anche ilfran cese si prestava allora molto meglio del
volgare italico.Taddeo qualche volta amplia o riduce la materia, Brunetto si
richiama al testo.Siamo nel periodo de compendi e dell'enciclopedia. U n
compendio fatto è fatica risparmiata al maestro che deve dire le«chose
universali».Brunetto,che aveva intelligenza fine, trasse il compendio italico
alla lingua di Francia e l'incluse n e l l'opera sua e ne colmo le lacune e ne
affino i contorni e lo ripuli di fronte al testo latino,da cui egli
pompeggiandosi dicea di aver tratto la parte morale del Tresor. E non fa cenno
di Taddeo: egliaccoglie,corregge,assimila;d'altraparteètuttauna let teratura e
una divulgazione anonima quella che dall'ultimo m e dievo va al trecento,e i
diritti di proprietà letteraria non sonoancor sorti. E poi maestro Taddeo forse
non appariva degno di menzione speciale al maestro di Dante; echisa, forse, che
in questo non dobbiamo trovare indizio di una lotta accademica, svoltasi di
mezzo al laicato dotto della seconda metà del dugento e nel trecento,negli
Studi pubblici,tra medici inchinevoli alle lettere e letterati avversi a'medici?
C'è però da osservare che nel ritocco della materia volgare,in base al testo
latino, Bru netto non va oltre qualche singola espressione o frase, trascurata
o ridondante. Egli non si attenta mai a rimaneggiare e ad ac conciare la
materia nel contenuto ideale, per il modo con cui le idee furono rese nel
volgare o compendiate o disposte o interpretate riguardo all'originale
latino.Questo dunque testi monia onorevolmente che Taddeo era allora ritenuto
autorevole 28 C. MARCHESI a preparare,con l'aiuto dei mss.e del testo
francese,la sua edizione del l'operadi Brunetto, inunsaggiodicorrezioni alVI
libro,siscagliasempre, con taluni intendimenti spiritosi,contro l'amanuense che
tanto strazio avea fatto del presunto volgare di Bono; e con l'aiuto del testo
francese si affanna a correggere gli sbagli e a colmare le lacune lasciate dai
trascrittori e da Bono stesso. ed esperto intenditore del trattato
aristotelico anche da un uomo per cultura famoso come ser Brunetto, sebbene al
grande di scepolo di costui non apparisse ugualmente felice dicitore del
volgare. Dunque Brunetto si valse del volgare di Taddeo (1), ch'ei ri. dusse e
acconciò in molti punti in conformità al testo latino, come si vedrà
chiaramente dal confronto che faremo. Più tardi gli amanuensi del Tesoro,al
posto del VI libro,introdussero il volgare già ben noto dell'Elica, essendo ben
chiara e conosciuta la dipendenza del compendio francese dall'altro
volgare.Cosi resta anche spiegato il fatto che parecchi codici del Tesoro si
fermano all'Etica: Il compendio di Taddeo rimaneva, rispetto al VI libro del
Tesoro, originale e fondamentale; in un volgariz zamento italico dell'opera di
Brunetto esso dovea necessariamente e naturalmente tenere il posto del francese
che da esso proveniva. Già anche loChabaille noto come la seconda parte del
Tresor, interamente consacrata alla morale, offre «plus d'ensemble « et plus
d'unitė » (2); ed anche noi durante l'esame critico dei codici abbiamo potuto
osservare come appunto il VI libro non presenti quella lezione così fluttuante,
incerta, caotica degli altri libri;ciò è ben chiaro:icopisti avevano un testo
già da lungo tempo fissato. Con questo se abbiamo voluto rilevare la differenza
che l'Etica offre, nell'incertezza minore della lezione, rispetto a'libri volga
rizzati del Tesoro,non intendiamo affermare che la lezione del compendio di
Taddeo siacostante e sicura.La mancanza diuna lezione rigorosamente affine
nella maggior parte dei codici si deve al fatto ch'essi servivano non ad uso
letterario, nel qual caso la lezione avrebbe dovuto essere molto più
rigorosa,ma ad uso morale;per cui itrascrittori,quando non erano affatto (1)
Così lo studio accurato della questione e la inconfutabile testimonianza del
documento son venuti a confermare in parte la fortunata ipotesi dello Zannoni.
(2) Op. cit., p. xv. 30 C. MARCHESI Ho già detto che gli amanuensi
introdussero il compendio di Taddeo nel posto del VI libro del Tresor; ho detto
gli amanuensi e non il volgarizzatore, giacchè non mancarono alcuni (non oso
affermare se Bono od altri) i quali vollero volgarizzare tutta l'opera,compreso
il VI libro; ma il nuovo volgare dell'opera francese,di fronte al comunissimo
compendio originale di Taddeo, rimase eclissato e restò soltanto in pochi
codici quattrocentini, che ho potuto rinvenire.I codici sono due,di valore e di
con tenuto diverso. 1°) Magliabechiano 21. 8. 149 cartac.del sec.X V, in 4o,di
cc.53 scritte ed 8 bianche,anepigrafo.Ilcod.contiene l'Etica tratta
evidentemente dal Tresor, giacchè va oltre il limite del compendio di Taddeo, e
comprende la chiusa del libroVI dell'originalefrancese.A c.46'segue,senzaalcuna
par ticolare indicazione, il trattato sulla « doctrina di parlare ad
Alessandro;infineac.53':ExplicitAristotilisEuthica uul garis Amen. La lezione si
mantiene per una buona metà fedele al testo comune dell'Elica; dal cap.47
(1)sino alla fine presenta una grande ed accentuala differenza e mostra
evidentemente la Secondo la edizione Gaiter. ignoranti,semplificavano
dove e come volevano,buttando giù il periodo anche ridotto, che sembrasse loro
di rendere in ogni modo fedelmente l'idea espressa dall'autore e di significare
lo stesso concetto. Nei codici dell'Etica si trovano molte espressioni qualche
volta incerte, fluttuanti dalla differenza ortografica al periodo ridotto o allargato
o smembrato o dissennato, che ci testimonia da una parte della negligenza o
della caparbietà di trascrittori ignorantelli,in un tempo in cui tutti quanti
tenevano un crogiolo dove manipolare la pasta morale delle dottrine ari.
stoteliche o supposte tali, e dall'altra parte dello stato de' testi donde
copiavano,che,data lagrande diffusionedell'opera,doveano a forza portare le
tracce di cancellazioni,aggiunte,modifica zioni,lasciatevi dai
possessori:filone di muffa questo che ci fa tante volte scivolare il piede
lungo il percorso delle trascrizioni trecentistiche di autori ritenuti
catechisti o morali. L'Etica (ediz.Manni, Li Tresors. Liv. II,
Magliabech. 21. 8. pp.52sgg.).L'uomo part.I, chap.XLI.Li 149. c.33. ch'è buono
si diletta in bons hom se delite en semedesimo abbiendo soimeisme, pensantas
allegrezza delle buone bones choses; autressi operazioni, eseegliè
sedeliteilavecsonami, buono molto allegrasi cuiiltientautressi com conl'amico suo,
lo quale mesoimeismes. Maisli eglitienesiccomeun mauvaishomtozjorsest altrosè; mailreofugge
enpaor, ets'esloignedes dallenobiliebuoneope- bonesoevres;etseilest
razioni,os'eglièmolto moltmalvais, ils'esloi reo si fugge daseme-
gnedesoimeisme;car desimo,peròchequando egli sta solo si è ripreso da
ricordamento delle maleopere, ch'egliha fatto, enonamanèse, faites, et blasmesacon.
nèaltrui, perciòchela science, etporcehetil natura del bene è tutta mortificata
inluinel profondo della sua iniquità; nènon si diletta soiettoz homes; etce
avientporcequelara cine de touz biens est ilnepuetseulsdemorer, sanztristesce, porceque
illi remember desmau vaisesoevresqueila influenza continuata del testo
francese, si che c'è da pensare a una nuova redazione sovrapposta. Riporto un brano
che valga a far notare meglio le differenze e le relazioni dell'Etica di Taddeo
col testo francese e il volgare del cod. Magliabechiano. mortefiéeenlui, eten
son mal ne se puet de. tutto el bene è mortifi. pienamente nel male
ch'eglifa,perciòchela liter plainement, car cata in lui.etnel male natura del male
si'l trae toutmaintenant que il non si può dilettare pie. al contrario dellasuadi-
sedelite, enune chose namente,percioche lettazione,edèdiviso
malfaite,lanaturede quand'eglisidilettadi insemedesimo,eperciò son mal si l'atrait
au èinperpetuafatica ed contraire deceluidelit. quellomalesieltrae angoscia, epieno
d'ama- Etàcequelimauvais al contrario di quella ritudineedisozzuradi
estpartizensoimeisme, dilettatione.percioche perversità. Adunquea
siconvientqueilsoitl'uomoreoèdiversoet L'uomo ch'è buono si diletta in se
medesimo pensando nelle buone cose, et similmente si diletta coll'amico suo, el
quale egli reputa se medesimo. Ma l'uomo ch'è reo sempre sta in paura et fuggie
dall'o pere buone; et s'egli ė molto reo fuggie da se medesimo et non può stare
solo sanza tristizia, impercioch'egli si ricor da delle sue rie opere, ch'egli
à fatte et ripren delo la coscienza sua. Et perciò vuole male a se medesimo et
ad ogni altro huomo.Et questo èperchèlaradicedi uno male, la natura di
quello cotale uomo nes- en continuel travail de in se medesimo è m e
sunopuoteessereamico, penseret plains demolt stierechesiain continua per ciò
che l'amico deve insemedesimo,ecompi. ne se laisse cheoir en a lei. Lo
cominciamento lla possa tornare a bene. doit efforcier chamentodellainiquità
lettazione,laquale l'huo piglia accrescimento gars; mais li fermes mo ba nelle
femmine, per usanza di tempo. liensquitozjorsestavec alqualesiuadinanzi
L'officio del confortare l'amistiéetquipointne unodiletteuolesguarda 32
C. MARCHESI sance sensible; et ce confortamento,ma pare cede loconfortamento
poonsnosveoirpar.i. essereetsomigliarsia puoteesseredettaami-
homequiaimeparamors llui;maelcomincia stade per similitudine, une dame,car tout
avant mento dell'amista è di infino atanto ch'ella passe unsdelitablesre
scunouomosidee guar- niuno huomo può essere chose quià amer face. amico aquello
tale,per dare ch'egli non caggia in questo pelago d'ini- sere et en itele male
niuna cosa la quale sia quità,anzi si dee isfor- zare di venire a finedi
mecineparcuiilpuisse seria et tale infelicità bontà, perlaqualeabbia Certes, et
en itele mi- cioch'egli non ha in se aventuren'aurailjà daamare. Ettalemi. ainz
se felicitade. Adunquecia. queiln'aenluinule maliceetdeiniquitéque
ch'eglinonsilascica mentononèamistà, ave- l'on ne puet raembre,
dereinquestoistraboc gnachè egli si somigli inordinato! Addunque dilettazione e
allegrezza àbienvenir:donques nonhamairimedioche chascuns se gart que il
chascuns que il viegne et della malicia la quale àlafinde bontépar
èsanzarimedio anzisi dell'amistà si è dilettazione sensibileavutadi-
quoiilsepuissedeliter del'uomo sforzare ac nanzi,si come l'amista mento
d'allegrezza colli tel tresbuchement de suoi amici.Lo conforta. Addunque
ciaschuno huomo si de guardare amertume,etyvresde fatichaet pensieroetsia avere
in se cosa da a- laidesceetdeperversité, pieno di molta amari mare.E questo
cotale etqueilsoitdestortpar tudineetèebbrodisoz hae in se tanta miseria,
misere neant ordenée. zura di peruersita, et che non è rimedio niuno Donc nus
ne puet estre sia distorto per miseria ch'egli possa venire a
amisdetelhome,porce en soi meisme et avec cioch'elli uengha alla
d'unafemina,allaquale sonami. Confors n'est finedellabontaper la
v'hadinanzidilettevoli pasamistié,jàsoitce qualeeglisipossadi
guardamenti,eladiletta- que illesembleàestre: lettareinsemedesimo,
zionesièlegamedell'a- mais li commencemens et hauere compimento
mistà,eseguitalainse- d'amistiéestunsdeliz didilettationecolsuo
parabilemente.Ladispo- rasavorez par conois- amico.L'amistà non è sizione dalla
quale pro Gli huomini rei tardo s'accordano nelle oppi nioni: et
sono sanza parte d'amista, et per se desevre, ce est deliz. si pertiene a
colui ch'à insegravezzadicostumi ed esercizio di vertude, unità d'opinione e
con cordia di mettere amore, perciò che le discordie dell'openione sono da
trarre dalla nobile con. gregazione,acciòch'ella rimanga unita di pace e in
concordia di volon tade. Quelle cose che danno altrui vera digni. tade da
reggere,sisono le uirtudi e le loro opere e l'unità dell'oppinione; e questo si
truova negli uomini buoni, concios sia ch'egli sono fermi e costanti in fra
loro, e nelle cose di fuori, perciocch'egli uogliono bene continuamente.Ma rade
volte addiviene che gli uomini si accordino in una oppinione,eper cagione di
compiere gli loro desideri si soste: gnano molta briga e molta angoscia e molta
fatica, ma non per ca. gionedivertude,ehanno moltesottilitadiinseper ingannare
colui,con cui hanno a fare, e perciò sempre sono in rissa e in tenzone. C.
MAECHESI. 3.Cil habiz dont pre mierementnaistlicon fors puet estre apelez
amistié par semblant jusqu'à tant que il croist par longuesce de tens. Et li
ofices dou confort affiert au preudome et au ferme que il soit griez en
moralité de sa vie et es proesces et es costumes et toutes ver tuz, et plains
de science et de bone opinion et de concorde, desirrous d'a. mor; por ce
devroient estre ostées toutes des cordes et malvais pen. sers d'entre les
nobles compaignies des homes, si que il puissent vivre en pais et en concorde
de propre volonté,cele chose qui plus aide à maintenir et governer les dignitez
des vertus et ses oevres.Et la con corde des opinions et es bons
homes,porcequ'il sont parmenant dedans soi et es choses dehors; car toutes foiz
jugent et vuelent bien. mentoellegamechenon si parte e sempre con lei et la
dilettazione (sic). L'abito dal quale pro ciede confortamento si può dire
amista per si. militudine infino a tanto ch'elli crescie per lungo temporale.
L'ufficio del confortatore s'appartie ne a buono huomo et al fermo, el quale è
graue di costumi et exercitato nelle uirtu,et essere pie toso di scienza et
auere accontamento d'oppinio. ni, et concordia intro ducta d'amore (sic),per.
ciò che le discordie delle oppinioni sono per disfa re le diuisioni dell'opere
le quali sono nella nobile congregazione in con cordia di uolontà.Quella cosa
la quale aiuta reg. giereladignitàelavirtu et l'opere delle uirtu.et
concordiadelleoppinioni si truoua negli huomini buoni et costanti intra se et
nel desiderio delle cose di fuori, percio che perano bene et uogliono
Limauvaishomepo bene. s'acordent à lor opinion; car il n'ont en amistie
nulepart, et poracom plir lor desirriers suef questi cotali sempre ado
frentilmaint espoines chagionedicompierele et mainttra va ilconmie le loro
conchupiscienzie poramistié; etsontes eglisostengonomolte mauvaishommesmain-
faticheetmoltitraua tes mauvaises soutil- gli:. per chagione d'a
lancesporengigniercels mista, et molti scaltri quiàel sont à faire, et mentietmoltesottilita.
porcesontil touzjors Et sonohuominireiper enpaineeten angoisse. chagione
d'ingannare L'altro codice, che ci presenta una redazione affatto nuova e
dipendente in tutto direttamente dal testo francese, è il Maglia bechiano
II.II.47 (vecch.segn.VIII.1376),cartac.delsec.XV, a due colonne,di cc.scr.160;
con le didascalie in rosso e rozzo disegno a colore nella prima iniziale e
ne'margini della prima pagina.Contiene il Tesoro;precede un indice della
materia:a c.5*:QuestolibrosichiamailTesoroilqualeèchauatoper lo maestro Burneto
Latino di firenze di piu libri di filosofia che sono strati per li tempi; a
c.59a: Qui comincia l'eticha di Aristotille; finisce l'Etica a c.76*: Qui
finisce illibro dell'eticha d'Aristotille. La soscrizione finale a carta 160 4:
Qui finisce il libro del Tesoro che fece il maestro bruneto Latino di firenze.
dio ne sia lodato.La lezione offertaci dal ms.Mgl.è infelicis sima e costellata
di sbagli, di contorcimenti e travisamenti di parola che pare non si possano
attribuire tutti quanti al copista: il volgarizzatore in molti punti dà a
vedere di essere poco felice conoscitore del volgare come poco esatto
intenditore del francese.Molte espressioni francesi o sono adattate malamente
all'idioma italico o lasciate intatte a dirittura e trasportate di peso nel
volgarizzamento. Ma ciò vedrà il lettore nel con fronto che poniamo tra il
testo del Liber Elhicorum e l'Elica di coloro ch'anno a fare con loro.per
cio sempre sono in brigha et in a n goscia. Taddeo (1) col compendio francese
di Brunetto e il volgare del VI libro del Tresor; confronto da cui balza fuori
un docu mento largo e complesso,vivo e certo della tradizione morale
aristotelica, nel tempo in cui visse e conobbe e compose Dante A lighieri. (1)
Dell'Etica di Taddeo do la lezionecritica,quale risulta da'codici più autorevoli
dell'Etica e del Tesoro,diversa quindi da quella offertaci dalle stampe che si
son succedute fin ora. Liber Ethicorum. L'Etica
d'Aristotile. Omnis ars et omnis incessus et Ogni arte e ogni dottrina e ogni
omnis sollicitudo uel propositumet operazioneeognielezionepareado
quelibetactionumetomniselectio mandare alcun bene. Adunquebene ad bonum aliquod
tendere uidetur. dissero li filosofi, che lo bene si è Optime ergo diffinierunt
bonum di. quello lo quale disiderano tutte le centesquodipsumestquodintenditur
cose. Secondo diverse arti sono diversi ex modis omnibus. Suntautemin- fini; che
sono tali finichesonoope tentaperartes multas diuersa. Que- razionie sono tali finiche
non sono da menimsuntactioipsametet que- operazioni, ma seguitansi alle opera
damsuntipsumactum. Cumquesint zioni. Conciosiachosache siano molte artes ac
ipsarum actiones multe, arti e molte operazioni, ciascuna hae
eruntintentaperipsas multa.Ac losuofine.Verbigrazia: la medicina
tamenactuminipsis existit melius sihaeunsuofine, cioèfaresanitade, actione. Estigitur
intentum per me- el'arte della cavalleria laqualein dicinam sanitaset per artem
regiti- segnacombattere, sihaunsuofine uamuelredactiuam exercituumuic- per lo quale
ella è trovata, cioèvit toriaetpernauium structiuam naui-
toria,elascienzadifarelenavi, si gatio et perdomus rectiuam diuitie; hae un altro
fine cio èna vicare; ela etista sunt acta honorabilia. Que- scienza che insegna
reggere la casa damaute martium habentse habi- suae la famiglia sua ha e un altro
tudinegenerumet quedam habitu- fine, cioèricchezza.Sonoalquante dine specierumet
quedam habitudine artile quali sonogeneralie sono indiuiduorum. Ideoque quedam
ipsa. Al quante le quali sono specialie con rum sunt sub aliis, ut sub militari
factura frenorum et cetere artium instrumentorum militarium, et sub tengonsi
sottoquelle.Verbigrazia: la scienzadellacavalleria siègenerale, sotto la quale
si contengono altre arte exercitu alicetereomnesbellice scienzeparticolari, siccomeèlascienza
siuelitigatorie. Et simpliciter hono- di fare lifrenieleselleelespadee
rabilissima omnium atrium est con- tuttel'altre, le quali insegnano fare
stitutiuaet instructiua ceterarum. cose, le quali sono mistieriabatta Et quemadmodum
quibusque rebus glia; equesteartiuniversalisonopiù
anaturaproductisestperfectioquam degneepiùonorevilidiquelle,im.
persenaturaintendit,etintellegibi. Perciocchè le particolari sonfatteper
libusest perfectio quamintendit per l'universali. Esiccome nelle cose In tutto
il principio del compendio di Taddeo, e quindi anche del testo francese, si
sente l'influenza diretta dell'altra redazione del Liber Ethicorum, che servì
di base al commento d’Aquino. Ecco il latino di quest'altra redazione: « Omnis
ars et omnis doctrina, similiter « autem et actus et electio, bonum quoddam
appetere uidentur. Ideo bene enunciauerunt bonum, beržalglio per suo
adirizamento,tutto Tutte arti e tutte opere e tutte in. Tous ars et
toutes doctrines et tramesse sono per chiedere alcuno
touteseuvresettouztriemenz sont bene.Dunquedissebeneilfilosafo porquerre aucun bien,
donquesdis- chequeglichetuttelecosedeside trentbienli philosophequeceque rano è
ilbene. Secondo le diuerse touteschosesdesirrentestlebien. arti sono le fini diverse.
Chetalifini Selon cdiversars, lesfinssont di. sonoopere, talisonoch'esconodel
verses; cartelesfinssonteneuvres, l'opere.Eperciochemoltesonol'arti et teles sont
celes quel'onensuitpar el'opereciascuna à suo fine.Che medicina ae una fine
cioè a fare lesarsetlesoevres, chascune a sa santade. Ela fine dela batalgli asi
fin; carmedicinea une fin,ceest ènetoria, el'artedifarenauià àfairesanté; etbatailleasafin,
unaltrofine,cioènauichare. Ela les oevres; et porce que maintes sont
porquoielefutrovée, ceest victoire; scienza cheinsengnaagouernarea et les ars
de faire neis ont une autre l'uomo sua magione e sua familglia fin, ceestnagier;
etlasciencequi àun'altrafinecio è ricchezza. Et sono enseigneàhomeà governersa maison
alcune arti che sono gienerali e al et samaisnieauneautrefin,ceest
cunechesonospezialli, cioèpersua richesce. Etsontaucunesarsquisont diuisione, eperòsonol'unasottol'al
generaus, etaucunesquisontespe- trasi come la scienza di chaualleria ciaus, c'est
particuleres, etaucunes ch'ègienerale,edisottoaquella sontsarzdevision; etporcesont
sono più altre scienze partichullari, lesunessouzlesautres; sicomme cioè la scienza
di fare frenieselle est la science de chevalerie, quiest espadeetuttel'altre cosecheinse
generaus,etdesozlisontautres gnanoafarecosecheabattalglia sciencesparticuleres,
ceestlascience bisongnano. de faire frains et seles et espées, et E l'arti
universalli sono più dengne toutesautresarsquienseignentà
epiùonoreuolichel'altre, percio fairechosesquiàbataillebesoignent. Chelle particullarisono
trouatteper Et cistartuniversalesontplusdigne leuniversali. E così tutte le chose
queliautre, porcequelesparticu. che sono fatte per natura è unadi leressont
trovees par les universales. retana cosa per a che la natura in
Ettoutaussicommeenchosesqui tendefinalmente. Altre si tutte le cose sont faites
par nature est une dar- chesonofatteperartièunafinale
reinechoseàquoilanatureentent cosaachesonoordinatetuttelecose
finelment,autressieschosesquisont diquellaarte. Esicomecoluiche faites par art
est une finel chose à Li Tresors. Magliabech.quoi sont ordenées trestoutes les
trae di sua arte a uno sengnio à uno « quod omnia appetunt. Differentia
uero quaedam uidetur finiam. Hi quidem enim sunt opera «tiones; hiueropraeterhasopera
quaedam. Quorum autemsuntfinesquidampraeteroperationes, « in his meliora
existunt operationibus opera. Multis autem operationibus entibus et artibus et
doctrinis,multi sunt et fines.Medicinalis quidem enim sanitas,nanifactiue uero
nauigatio, •yconomicae uero diuitiae.Quaecumque autem sunt talium sub una
quadam uirtute,quemad «modum sub equestrifrenifactiuaetquaecumque
aliaeequestriuminstrumentorumsunt:haec « autem et omnis bellica operatio sub
militari; secundum eundem itaque modum aliae sub alteris. • In omnibus itaque
architectonicarum fines omnibus sunt desiderabiliores his quae sunt sub ipsis.
« Horum enim gratia et illa prosequuntur. (1) Quest'esempio, che manca nella
nostra redazione latina, è tratto dal Liber Ethicorum del commentotomistico: Igituretaduitamcognitioeiusmagnum
habetincrementum,etquemad modum sagittatores signum habentes seintellectus,eodem
modorebusef. fattepernaturaèunoultimointen fectisabarteestperfectioquam per
seintenditartificiumhumanum.Hac finalmente,cosìnellecosefatteper
autemperfectioestbonumadquod arteèunointendimentofinale,al intenditur, et est
optimum eorum que queruntur propter ipsum et di quelle arti; siccome l'uomo che
ipsiuscausa.Scientiaigituristiusest saettahalosegnopersuodirizza
scientiadiuinamaximiexistensiuua. mento,coşiciascunaartehae menti in
uitaetconuersatione hu. unsuofinaleintendimento, loquale mana. Habentesigiturintentionem
dirizzalesueoperazioni.Adunqua acpropositumdignum ualdeestut
l'artecivile,laqualeinsegnareggere inueniamusinquisitioneremqueest lacittade, éprincipaleesovranadi
perfectiouoluntatis.Arsigiturdi. tuttealtrearti,perciocchèsottolei
rectiuaciuitatumprincepsestartium, sicontegnonomoltealtrearti,lequali
eoquodsubhaccontinenturresho. sonoonorevili,siccomelascienzadi
norabilesualideconsistentie;utpote farel'osteedireggerelafamiglia,
arsexercitualisetarsfamiliedo- elarettoricaèanchenobile,percio mus dispensatiua
ac rethorica,et ch'ellasiordinaedisponetuttel'altre
eoquodipsautitarartibusactiuisomni- chesicontegnonosottolei,elosuo
busetcomponitetordinatlegesearum compimentoàilfinedituttel'altre.
atqueiuditia(sic)etdistinguitinter Adunquelobeneloqualesiseguita laudabilesetillaudabiles.Huius
itaque artisperfectioacpropositumadpro- l'uomo,percioch'ellalocostringe
priatpropositaomniumartiumreliqua- di fare bene e costringelo di non
rum.Bonumigiturusitatumsecundum fare male.La recta dottrina sièche suum modum
est bonum humanum; l'uomo si proceda in essa,secondo
ipsumnamqueeffectiuumestcetero- chelasuanaturapuotesostenere. rum bonorum
omnium artium et Verbigrazia:l'uomocheinsegnageo
saluatartificesnequidaganthorridum metriasideeprocedereperargo dimento lo quale
la natura intende quale sono ordinate tutte l'operazioni
diquestascienza,sièlobene del chosesdecelart.Etaussicomme
altresiciascunaarteaeunafinale cilquitraitdesonarcauseignala
cosache'ndirizaquellaopera.Qui celui bersail por son adrescement, parla del
gouernamento della citta tout autressi a chascune ars CCXVII.Dunque l'arte che
insen finelchosequiadrescesesoevres. gnialacittagouernareèprincipale Donques
l'art qui enseigne la cité àgovernerestprincipausetdame
etsoverainedetoutesars,porceque desouzlisontcontenuesmaintesho- norablesars,sicomme
rectoriqueet lasciencedefaireostetdegoverner e donna di tutte l'arti,
peròchedisottoaleisonotuttii maestrionoreuoliecontiensisotto
luituttemolteonorabillearti,sicome retoriccha e la scienza di fare oste
edigouernaresuamasnada.E an samaisnie;etencoreestelenoble,
coraènobileperoch'ellamettein porcequeelemetenordreetadresce
toutesarsquisouzlisont,etlisiens compliemensetsafinssiestfinet
compliementdesautres.Donquesest ele li biens de l'ome, porce que ele
constraintdebienfaireetelecons- traint de non mal faire.
Lidroizenseignemenzsiestque onailleselonccequesanaturele
ordineeadirizzaartichesonosotto lui,eilsuocompimentodisuafine
sièfineecompimentodel'altre. Dunqueilbene(che)diquestascienza uiene si è bene
dell'uomo pero che 'l constringniedinonfarelomale. E il diritto insegniamento
ch'ell'à inleisecondosuanaturalepuote soferire.Cioèadirechecoluiche
puetsofrir;ceestàdirequecilqui insengnagouernaredeeandareper
enseignegeometriedoitalerparar- suoiargomentichesonoapellatidi
gumensquisontapelésdemonstra- mostrazioni.Erittorichadeeandare
cions,etenrectoriquedoitalerpar perargomentieperragioneuedere
argumenzetparraisonvoiresembla- senbiabille,eciòauienepercioche
ble.Etceavientporcequechaschuns ciascunoartieregiudicabeneedicela
artiensjugebienetditlaveritéde ueritàdiciòcheapartienealsuome
cequiapartientàsonmestier,eten stiere,ecosiinciòèilsuosennosottile. ce est ses
sens soutis. une e sovrana La scienza di città governare non
Lasciencedecitégovernerne sifamichaafanciullonedahuomo afiertpasàenfantneàhomequi
chesegualesueuolontadi,percio vueilleensuirresavolenté,porceque che amendue
sono non sacenti delle anduisontnonsachantdeschosesdou
cossedelseculo,chequestaartenon siecle;carcestearsnequiertpasla
chiedelasienzadell'uomo,mach'egli sciencedel'ome,maisqueilsetorne
sitorniabontà.Esapiatechein àbonté.Etsachiésqueenfesestde.
fateèinduemaniere,chel'uomo ij.manieres;carlihompuetbien
puotebeneessereuechioditenpo estrevielsdeaageetenfesdemors;
euechioperhonestavita. autillaudabile.Et saluatioquidem mentifortiliqualisichiamanodimo.
uniuslaudabilisexistit,quantomagis strazioni,elorettoricodeeprocedere
gentiumacciuitatum.Rectadoctri. nellasuascienzaperargomentie
natioestinquirereinunoquoquege- ragioniverisimili;equestosièpercio
nerumiuxtamensuramquamsustinet checiascunoarteficegiudichibene
naturailliusgeneris;etutexigitur etdicalaveritadediquellocheap.
quidemamathematicodemonstratio partieneallasuaarte.Lascienzada et a rethore
sufficientia persuasiua. reggere la cittade non conviene a Unusquisque enim
artificumrecto garzonenèauomocheseguitilesue iuditio iudicat de eo quod est
infra h a cose buone e giuste e oneste; onde Rerumquedamsuntcogniteapud
gliconvieneaverel'animasuanatu nos,etquedamsuntcogniteapud
ralmentedispostaaquellascienza: naturam.Oportetergoutamator maquellouomochenonhaeneuna
scientieciuilispromtussitadres diquestecose,èinutileaquesta
eximiasetsciatopinionesrectas.Opi- scienza Questo ci prova chiaramente che
Brunetto non ebbe tra mani altro testo latino fuor del compendio
alessandrino-arabo; giacché le altre traduzioni greco-latine della Nicomachea
gli avrebberodatolagiustaindicazionedel poeta:Esiodo.Maforsepertuttoilriferimento,che
son volontadi,peroche non > bitum suae scientiae,et in hoc est nellecosedel
secolo.E notache gar perspicaxipsiusscientia.ludicans
zonesidiceinduemodi,quantoal autemdeomnisapiensestomnipe-
tempoequantoallicostumi,che ritiaimbutus.Arsciuilisnonpertinet
puòtaloral'uomoesserevecchiodi pueronequeprosecutoridesideriiatque tempo e
garzone di costumi, e tal uictorie,eoquodamboignarisunt
fiatagarzoneditempoevecchiodi rerumseculi,nequeproficitipsis.Non
costumi.Adunqueacoluisiconviene enimintenditarsistascientiamsed
lascienzadireggerelacittade,lo conuersionemhominisadbonitatem;
qualenonègarzonedicostumie nequediffertpueretateautinmo- chenonseguitalesuevolontadi,se
ribuspueris,nonenimaduenitquidem nonquandosiconvieneequantosi
defectusexpartetemporissedpropter conviene ed ove si conviene. usum uite in
moribus puerilis;pueri ergodissolutietdesideriorumprose-
cutoresnonproficiuntpenitusexarte ciuili. Qui autem utitur desiderio secundum
quodoportetetquando Sono cose le quali sono manifeste
allanatura,esonocoselequalisono manifeste a noi; onde in questa scienza si dee
cominciare dalle cose, oportet,etquantumoportetetubi oportet,hicplurimumproficitex
scientia artis ciuilis. loqualedeestudiareinquestascienza,
edapprendere,sideeausarenelle lequalisonomanifesteanoi.L'uomo savi
et puet estre enfes par aage et viel Dunque la sienzia di città ghouer
parbonevie.Donqueslasciencede nare è a fare huomo che non sia governer citez
n'afiert à home qui fanciulo de cuore molle e che non
estenfesensesfaizetquiensuie sesvolentės,selorsnonquantille covient faire et
tant comme il co- vient,et là où il se covient,et si comme est covenable.
seguasuauolontadi,senoquelliche siconuengonoetantocom'ellesi debono e la dove
si conuiene e si come conueneuole. E sono chose che sono chonueneuoli a natura
e cose chesonoconueneuolliannui;che Iliachosesquisontconnuesà
natureetsontchosesquisontcon- chisivuolestudiareasaperequesta neuesànos;porquoinosdevonsen
scienza,eglideeussarecosegiustee cestesciencecommencieraschoses
buoneeoneste,ond'egligliconuiene quisontconneuesànos,carquise
auerel'arminaturallementeaquesta vuetestudieràsavoircestescience,
scienza,macoluichenonanèl'uno ildoituserdeschosesjustes,droites
nèl'altroriguardiaciòchedee.Se etbonnesethonestes,oùillicovient
'lprimoèbuonoel'altroèapere avoirl'ame naturaument ordenée à gliato ad essere
buono.Ma chi da cestescience;maiscilquin'ane ssenonsanienteenonaprendedi
l'onnel'autreregardeàcequeHo- ciòchel'uomogl’insenguia,egliè
merusdist:Selipremiersestbons, deltuttomecciante.- Quidicedelle
liautresestappareilliezàestrebons; treuieCCXVIII. Dacontaresono
maisquidesoinesetneant,etqui.ij.uie.L'unaèuiadichonchupi.
n'aprentdecequehomlienseigne, senziaediconuotizia.L'altraèuita
ilestdoutoutmescheanz(1).IV.Les cittadina,cioèdisennoediproeza
viesnoméesquisontàcontersont ed'onore.Laterzaécontenpratiua..ij.L'uneestviedeconcupiscenceet
E più ujuono secondo la uita delle decovoitise;l'autresiestvieciteine,
bestie,ch'èapellatauitadichonchu ceestdesensetdeproesceetd'onor;
pisenzia,peròch'egliseghonolaloro la tierce est contemplative: et li uolontade
e loro diletto. E chatuna plusorviventselonclaviedesbestes,
diqueste.ij.uiteàsuapropriafine quiestapeléeviedeconcupiscence,
diuersedal'altre,tuttoaltresìcome porcequeilensuientlorvolentezet
[lasienzadiconbatteredi]medi lordeliz.Etchascunedeces.ij.vies cina à sua
finediuersa dalla scienza asaproprefin,diversedesautres,
delconbattere,chèquellabadaafare toutautressicomme medicineasa
santà,equellaadauereuetoria.Qui findiversedelasciencedecombatre;
diuisadelbeneCCXVIIII.Ubene carelebéeàfairesanté,etcele
ėinduemaniere,che'unamaniera autreàvictoire.V.Libiensesten
èch'èdisideratapersemedesimo[e ij.manieres;carunemanieredebien
l'altra)eun'altramanieradibeneè niones autem rectae sunt ut in
arte Le vite nominate e famose sono ciuiliincipiaturarebusapudnos
tre;l'unasièvitadiconcupiscenza, cognitis,etinconsuetudinibuspul-
l'altrasièvitacittadina,cioèvita crisethonestisfactasitassuetudo
diprodezzaed'onore;laterzasiè principium enim est et inceptio a vita
contemplativa: e s o n o molti quaresest.Exmanifestoexistente
uominichevivonosecondolavita sufficienterquiaresest,nonindigetur
dellebestie,laqualesichiamavita propterquidresest.Indigetautem
diconcupiscentia,perciòchesegui. homoadpromtitudinemhabitationis
tanotuttelelorovolontadi;ecia leritatisrerumbonarumautaptitudine
scunadiquestevitesihasuofine boneinstrumentalitatisexquasciat
propriodiversodaglialtri,sicome uerum,autformaperquamaccipian-
l'artedellamedicinahadiversofine turprincipiarerumabeofacile.Qui
dallascienzadicombattere,chè'l veroneutramhabueritharumaptitu-
finedellamedicinasièdifaresani. dinumaudiatsermonemHomeripoete
tade,e'lfinedellascienzadifare ubidicit:Illequidem bonusest,hic
battagliesièvittoria.Benesièse autem aptus ut bonus fiat. Vite condo due modi,
chè è uno bene lo famosetressunt.Uitaconcupiscen- qualeuomovuoleperse,eunaltro
tieetuoluptatis,uitaprobitatiset beneloqualel'uomovuoleperaltro. honoris,uitascientieetsapientie;
Benepersesìcomelabeatitudine, pluresuerohominumseruisuntuo-
beneperaltruisonodettiglionori luptatis uitam bestiarum eligentes
elevertudi,perciòcheuomovuole inexecutionedelectationum.Sunt
questecoseperaverebeatitudine. autem termini harum uitarum distan. Naturalcosa
èall'uomoch'eglisia tesetbonaipsarumbonadiuersificata.
cittadino,etconversicongliuomini Sicutergobonum quodestinarte
artefici,econtralanaturadell'uomo exercitualiestaliudabonoquodest
sièd'abitaresoloneldeserto,elà inartemedicinali,sicabinuicemalia
ovenonsianogente,peròchel'uomo sunt bona trium uitarum. Et bonum naturalmente
ama compagnia. quidem medicine est sanitas,bonum Beatitudo si è cosa
compiuta,la exercitualisestuictoria.Estautem qualenonabbisognaneunacosadi
bonumsecundumduosmodos:bonum fuoridase,perlaqualelavitadel per se et bonum
propter aliud; et l'uomosièlaudabileegloriosa.Adun.
quesitumquidemproptersemelius quelabeatitudinesièlomaggior
estquesitopropteraliud.Nosuero beneelapiùsovranacosaelapiù manca
nelcompendiodiTaddeo,BranettosivalseanchedelLiberminorum moralium:«.aduertat «
intentionem poetae dicentis: Optimus est hominum qui a semet ipso intelligit
quod expedit.Qui « autem ab altero hoc intelligit, est in uia directionis. Qui
uero nec a semet ipso intelligit nec « ab altero recipit, hic uir est inutilis
», est qui est desirrez por lui meisme, et une autre maniere de bien est
qui est desirrez por autrui. Biens par lui est beatitude,qui est nostre fin,à
quoi nos entendons;bien par autrui sont les honors et les vertuz; car ce desire
li hom por avoir beatitude. Naturale cosa è a l'uomo ch'egli sia cittadino e
ch'egli conuersi in tra le gienti, cioè intra gli uomini e intra gli artefici.
E contra natura sarebe abitare in diserto oue non à persona,però che l'uomo naturale.
mente si diletta in conpangnia. Bea tittudine è cosa conpiuta, si che non à
niuno bisongnio d'altra cosa fuori di lui, per chui la uita degli uomini ė
pregiabile e groliosa:dunque è beatitudine il magiore bene di tutti, e la più
sourana cosa e la trasmil gliore di tutti i beni che sieno. Qui diuisa di
treposanzie CCXX. Tutte le opere dell'uomo o sono malvagie o [buone.om.]. Colui
che lle fa buone l'opere,egli è degno d'auere il compimento della uertu
di L'anima dell'uomoae.ij.posanze. L'una è uegiettative,e questa è co
mune ad alberi ed a piante, ch'egli anno annima uigettatiua,altresìco m'àno gli
uomini; la seconda è apel latta sensitiua; la terza è apellata r a
zionabile,l'èperquestoche l'uomoè ragioneuole e diuisato da tutte le cose, per
ciò che niuna altra cosa ae anima razionale se no l'uomo;e questa possanza è
alcuna uolta in natura e al cunauoltainpodere.Ma beatittudine è quand'ella è in
opera e non miga quand'ella è in podere solamente; chè s ' e g l i n o 'l f a,
e g l i n o n è m i c h a b u o n o. Naturel chose est à l'ome que il soit
citeiens,etque ilconverseentre les homes et entre les artiens; car contre
nature seroit de habiter en desers où il n'a nule gent,porce que li hom
naturelmentsedeliteen com paignie. Beatitude est chose complie,si que ele n'a
nul besoing d'autre chose fors de li,par quoie la vie des homes est puissanz et
glorieuse: donques est beatitude li graindres biens de touz et la plus
soveraine chose et la très mieudre de touz biens qui soient. V I. L ' ame del'
o m e a j i j. p u i s s a n c e s. L'une est vegetative, et ce est c o m mun
asarbresetasplantes,caril ont ame vegetative aussi come li home
ont;lasecondeestapeléesen sitive, et est c o m m u n e à toutes bestes, car
eles ont ames sensitives; la tierce est apelée rationable,et por ceste est li
hom divers de toutes choses,porce que nule autre chose n'a ame ratio.
nableselihom non.Etcestepuis sance rationable est aucune foiz en oevre et
aucune foiz en pooir; mais beatitude est quant ele est en oevre, et non pas
quant ele est en pooir seulement; car se il ne le fait, il n'est mie bons. ch'è
disiderata per altrui. Bene per lui è beatitudine, ch'è nostra fine a che noi
intendiamo.Bene per altrui sono gli onori e le uertu: chè questo si disidera
per auere beatitudine. Toutes les oevres des homes ou Ogni
operazione che l'uomo fae o ellaèbuonaoellaèrea;equello uomo lo quale fa buona
la sua ope. razione, si è degno d'avere la perfezione della virtude di quella
opera zione.Verbigrazia: lo buono cetera tore,quando egli cetera bene,si è degnacosach'egliabbiailcompimento
di quella arte,e lo rio tutto il con. trario. Adunque se la vita dell'uomo è
secondo l'operazione della ragione, allora si è laudabile la sua vita,
quand'egli la mena secondo la sua propria vertude; ma quando molte vertudi si
raunano insieme nell'animo dell'uomo, allora si è la vita dell'uo mo molto
ottima e molto onorata,e molto degna,sicchè non puote essere più;perciò che una
virtude non puote beatitudinem ultimam propter se uo lumus,cum
sitfinisnosteretintentum à nobis; honores autem et uirtutes propter
beatitudinem, eo quod per ipsas pertingimus ad illam. Homo naturaliter ciuilis
est et con uiuithominibusetsocietatesexercet comel'uomo; lasecondapotenziasi
cumartificibusdecenter,nequeap chiamaanimasensibilenellaquale
petitsolitudinemnequedesertum participal'uomocontuttelebestie, neque heremum.
perciòchetuttelebestiehannoanima Beatitudo es tres completa, nullius
sensibile;laterzasichiamapotenza indigens, perquamuitahominislau. razionale, perlaqualel'uomosiè
dabilisexistit. Beatitudoigiturexce diversodatuttel'altrecose,perciò
lentissimum est eligibilium et opti. che neuna altra cosa hae anima ra
mumbonorum,cumsitperfectiore zionale, sicomel'uomo.E questa
rumoperabilium.Sicutigiturestin potenziarazionalesiètalorainatto
qualibetartiumbonumquodillaars etalorasièinpotenzia;ondela
intendit,etsicutestcuilibetmem. beatitudinedell'uomosièquandoella
brorumcorporisactuspropriusin vieneinatto,enonquandoellaèin
quoeialiudnoncomunicat,sicest homini actus proprius in quo aliud ei non
comunicat. Homini autem se cundum animam uegetabilem C O municant terrae
nascentia,et secun dum animam sensibilem comunicant ei animalia; actus uero ei
proprius, inquo nullum aliud ipsi comunicat, est actus secundum rationem et di
scretionem. Ratio uero duplex est: potenzia: ratio uidelicet actualis et ratio
poten tialis;dignior autem ad intentionem rationis et magis cognita est ratio
actualis,ut pote actus hominis di. scernentis et agentis. Et omnis actio quam
agit actor aut est bona aut est mala. Actor autem bene agens in omni arte
meretur intentionem uir tutis, ut bene citharizans citharedus bonus; citharizans
autem male malus. ottima che l'uomo possa avere. L'a nima dell'uomo si ha tre
potenzie; l'una si chiama potenzia vegetabile, nella quale comunica l'uomo
cogli arbori e colle piante,perciò che tutte le piante hanno anima
vegetabile,si bonesoumauvaisessont.Etcilqui
quell'opera.Chècoluichebeneopera fait lesbonesoevres,ilestdignes
èdegnod'auereilcompimentodisuo d'avoirlecomplimentdelavertude
mestiere,equeglichemalfanno,il celeoevre;carcilquibiencitoleest contrario. Dunqueselauitadell'uomo
dignesd'avoirlecomplimentdeson èsecondol'operadiragione,alora mestier, etciquimallefait,lecon-
è da pregiare quand'eglila mena traire;doncselaviedel'omeest
secondolapropriauertu. Maquando seloncl'oevrederaison,lorsestele
mantieneuertusonogliuominisaui, prisablequantillamaineseloncla
esauioebisongniabile,enorevolee propre vertu; mais quant maintes
moltodengniosichepiùnonpotrebe vertuzsontenl'ome,savieestbesoi. essere; percidcheunasolauertunon
gnableethonoréeetmultdigne,si puotefarel'uomodeltuttobeatone
queplusneparroitestre,porceque perfetto.Chèunasolarondineche
uneseulevertunepuetfairel'ome uengnianèunosologiornotemperato
detoutebeatitudeneparfait;carune nondonaciertanainsengniadelprimo
solearondelequivieigneneunsseus tenpo.Eperciòinunopocodiuita
jorsatemprésnedonentcertaineen- d'uomoeinunopocoditenpoch'egli
seignedouprintens;etporceenpo facciabuoneopere, nonpossiamoperò
devied'ome,neenpodetensque direch'eglisiabeato. CCXXI. Qui
ilfacebonesoevres,nepoonnosdire diuisa di tre maniere di bene. Il
queilsoitbeates.VII. Libiensest beneèdiuisatointremaniere,che
devisezen.iij.manieres,carliuns l'unoèilbenedell'anima,el'altro
estbiensdel'ame,etliautresest delcorpo. Mailbenedell'animaèil
doucors,etlitiersdehorslecors; piùdengniochenullodeglialtri,
maislibiensdel'ameestplusdignes peròcheglièilbenedidio,esua
quenusdesautres,carceestlibiens formanonèchonosutaseperl'opere de Dieu, etsaformen'espasconneue
separlesoevresvertueusesnon.Et sanzfaillebeatitudeestenquerre
lesvertuzetenelsuser,maisquant beatitudeestenhabitetaupooir
del'ome,etnonensesfaiz,ceest àdirequantilporroitbienfaireet ilnelefaitmie, lorsestvertuous
aussicommecilquisedort,carses oevres ne ses vertuz ne se mostrent pas. Maisl'omquiestbeatescovient
aussicommeparnecessitéqueilface uertudiose non.E sanza fallo beati
tudineèinchiedereleuertuefarle. Maquando beatitudineènell'abitoe
inpoteredell'uomononèsenone fatti:questoèadire,quandoeglipuote
benefareeno'lfaaloraèegliuer tudiosoaltresìcomecoluichedorme;
chèsueopereesueuertunonsimo strano. Ma l'uomoch'èinbeatitudine conuiene altresì
come per necissetà ch'eglifacciailbeneinoperaesi comeilsauiochampioneeforteche
lebiensenoevre.Etsicommeli sichonbatteuuoleportarelacorona
Actusigiturhominisunaestuitarum l'uomo fare beato,nè perfetto,sic famosarum
trium prenominatarum, una rondine quando appare
uitascilicetrationisetscientieet sola, eunosolodietemperatonon sapientie. Etomnisquidemresbona
dànnocertadimostranzachesiave. existitetdecorapropteruirtutemsibi propriam.
Vita ergo hominis actus estanimeintellectiueperuirtutem
sibipropriam;sedcumuirtutesani- memultesint,eritperoptimam et honoratissimam in
fine et dignis- simaminfineperfectionisetcomple- menti. Unanempehyrundononpro-
nosticaturuernequediesunicatem- peratiaeris,sicnecuitapaucaet
lobenedell'animasièpiùdegno tempusmodicumsignumcertumsunt
benedineuno,elaformadiquesto beatitudinis. bene si non si conosce se non nell'o
Bonum tripliciter diuiditur; est perazioni, le quali sono con vertudi. bonum
anime et bonum corporis et nutalaprimavera;ondeperciò nè.
inpicciolavitadell'uomo,nè in pic ciolotempochel'uomofacciabuone operazioni, nonpotemodicereche
l'uomosiabeato. Lo bene sidivide in tre parti, chè l'unosièbenedell'anima,l'altrosi
èbenedelcorpo,el'altrosièbene difuoredalcorpo. Diquestitrebeni, come
bonum extra corpus. Bonum ergo delle vertudi e nell'uso loro; ma
quoddignissimebonumdiciturest quandolabeatitudineènell'uomoin bonum anime, neque
apparet forma abito, e non in atto,allora si è vir istiusboni, nisiinactibusquisunt
tuosacomel'uomochedorme,lacui auirtute. Et beatitude quidemest
operazioneevirtudenonsimani. inacquisitioneuirtutumetinusu festa; mal'uomobuonodinecessità
earumsimul.Cumquefueritbeatitudo è bisogno che l'aoperisecondol'atto, in homine
tamquam in possessioneet et è somigliante di quello che sta habituet non actu, tuncesttamquam
neltravitoa combattere; chè sola uirtuosus dorniiens cu non apparet mente
quelli che combatte et vince, actionequeuirtus. Beatusautemactu quellià la coronadellavittoria;
e necessarioexercet beatitudinem. Et se alcuno uomosiapiùfortedicolui,
quemadmodumperitiagonisteatque chevince, nonàperciòla corona,
robusticoronanturquidemetacci. perch'eglisiapiùforte,s'eglinon
piuntpalmamapudactumagoniset combatte, avvegnach'egliabbiala uictorie, sicuirtuosielectiboniac
potenziadivincere;ecosìlogui. beati laudantur et premia uirtutum derdone della
virtude non ha l'uomo suscipiunt dum apparent operationes se non in fino a tanto
ch'egliadopera ipsorum secundumueritatem;etisto. lavirtudeattualmente; equestosiè
rumuitaestin se ipsa delectabilis. perciòcheloloroguiderdoneela Unusquisque enim
hominum delecta- lorobeatitudineèladilettazione,che La beatitudine si è
nell'acquistare della uettoria, tutto altresì l'uomo buono e beato ae il
guiderdono e la loda della sua uertu ch'egli fae et mostra ueracemente per
queste opere, perciò che il guiderdono delle sue opere e della beatittudine è
ildiletto ch'egli n'atantoe com'egli opera la uertu; chè ciascuno si dileta in
cid ch'egli ama; il giusto si dileta in giustizie e l'asagia e gli piacciono, e
'l uertudioso nelle uertu. Et tutte l'opere che sono per uertu sono belle e
dilettabille in se medesime. Beatitudeestlachoseau monde Beatitudine èl acosa al
mondo che quiesttrèsdelitable,maislabeati tudequiestenterreabesoingdes
biensdedehors;carilestdurechose quel'onfacebelesoevres,seiln'ia grant part des
choses avenables à bonevieethabondanced'avoiret d'amisetdeporenz,etprosperitéde
fortune, et por ce la sapience abe. soigned'aucunechosequifaceco
perciòlasapienzaàbisongniod'al noistre sa valor et ses honors.Se cuna cosa che
faccia conossere suo aucuns done as homes dou monde, ualore e suo onore.Se
alcuno dona disglorious et soverainsfaiz,l'en ahuomodelmondodonogroliosoe
doitbiencroirequecildonssoitbea. souranofattol'uomodebenecredere
titude,porcecequeestlamieudre chequellodonosiabeatitudine,perciò
chosequiestrepuisseaumonde;car ch'eglièlamigliorecosachepossa eleestmulthonorablechose,etest
esserealmondo;ch'ell'èmoltoono. licompliemensetlaformedevertu;
rabilecosa[essere]edèilcompimento neiln'estpasditdouchevalnes
elaformadellauertu;nèeglinonè desautresbestes,nedesenfans,que
michadettodelcaualloedel'altrebe ilsoient beates,porce qu'il ne font oevres de vertu.
Beatitude est chose ferme et estable, tozjors en une fermeté, si que ele ne
stie,nè degli fanciulli che sieno beati, perciò ch'egli non fanno opere di
uertu. Beatitudo è cosa ferma et stabille. Arrestiamo qui la trascrizione del
cod. Magliabech., sembrando ci la parte trascritta suciente ad attestare la
propria dipendenza dal testo francese. milglioreepiugioiosaetradiletta
bille:mallabeatitudinedeeessere interraebenidifuori.Chègliè dura cosa che
l'uomo faccia belle opere e ch'egli abbia parte di cose
aueneuolliahuonauitaedabondanza d'auereedabondanzad'amiciedi parenti e
prosperita di fortuna, e F sages champions et fors qui se combat et vaint
emporte la corone de victoire, toutautressilihom bonsetbeatesa le guerredon et
la loange de la vertu que il fait et mostre veraiement par ses oevres, porce
que li guerredons de la beatitude est li deliz que l'om atentcomme
iluevrelavertu,car chascuns se delite en ce que il aime:
lijustessedeliteenjustise,etlisages en sapience,etlivertueusenvertu; et toute
oevre qui est par vertu est bele et delitable en soi meisme. virtude, si è
bella e diletteuile in se Beatitudo autem omnium rerum est medesima. Beatitudo
si è cosa ot optimaiocundissimaatque delectabi- tima, giocundissimae dilettabilissima.
lissima. Beatitudo tamen quest hic La beatitudine, la quale è interra, si
bonisexterioribusindiget; difficile abbisognadeglibenidifuori,perciò est enim
homini ut opera decora che non è possibile all'uomo ch'egli
exerceatabsquemateriautpotequod facciabelleopereech'egliabbia
habeatpartemcompetentemrerum artelaqualesiconvengaabuona boneuitepertinentiumet
copiam vita, e abbondanza d'amicie dipa familie et parentum et prosperita-
renti,eprosperitàdiventura,sanza temfortune.Ethacquidemdecausa libenidifuori; eperquestacagione
indigetarssapientiearteregnandi, nonabbisognaalcunacosachefaccia ut apparere
faciat honorificentiam manifestare il suo onore e lo suo va suiatqueualorem. Etsialiquarerum
lore. Sealcundonoèfattodidome donata est hominibus a deo excelsa nedio glorioso
e eccelso agli uomini etgloriosa, dignumestutbeatitudo delmondo, degnacosaè da credere
siuefelicitasdonumsitdiuinum se- chequellodonosiabeatitudine,im
cundumquodipsaestoptimaomnium perciòch'ellasièlapiùottimacosa rerum humanarum;
est igitur de onorevole molto e compimento e rebus prehonorabilibus,cum sit
com. turineoquodestamatumapud eglihanno, infinoatantoch'egliado ipsum;
delectetur ergo iustus in perano la virtude; chè il giusto si
justitiaetuirtuosusinuirtuteet dilettanellaiustiziae'lsavionella
sapiensinsapientia.Etactionesfientes sapienza, elovirtuosonellavirtude;
peruirtuteminseipsissuntdelecta. eognioperazione,laqualesifaper biles uenuste
ac decore. forma di virtude. E neuna genera plementum uirtutis siue forma et
zione d'animali puote avere beatitu fructusipsius— Non diciturautem
dine,senonl'uomo,eneunogarzone deequo neque de alio aliquo anima- nonhae beatitudine,
perciòcheneuno liumhuiusmodi,nequedepueris,quod animalenèneunogarzonenonado
sintbeati,eoquodnequehuiusmodi perasecondovertude. animalia neque pueri agant
opera Beatitudo si è cosa ferma e stabile uirtutis.Etbeatitudoestresfirma
sempresecondounadisposizione, nella stabilissecundumdispositionemunam,
qualenoncadevarietadenèpermu inquamnoncaditalteratioetpermu- tazione alcuna,e
non v'ha talora tatio,etnoncomitanturipsameuen: beneetaloramale,matuttaviabene,
tusuarii,etnuncbonitasnuncmalitia. equestosièperciòchelabonitade
Etenimbonitasetmaliciaestin opere elareitadesi ènella operazione
hominis;etcolumpnabeatitudinis dell'uomo.Lacolonnadellabeatitu
estoperasecundumuirtutem;co- dinesièl'operazione,chel'uomofae 1 se
remue pas,et si n'est mie une foiz bien et autre mal, mais toutes foiz
bien,porce que li muemenz de bonté ou de malice n'est pas se es oevres des
homes non. Li pilers de beatitude est lesoevres que l'onfait selonc vertu,et la
colone dou con traire est les oevres que l'on fait selonc vice; et la vertus
ferme et estable est en l'ame de l'ome.Li hom vertueus ne se contorbe ne ne
s'es maie por nule temporal chose qui li avieigne; car il n'auroit jà beatitude
se il s'esmaioit,car dolor et paor abatent l'oevre de vertu et la joie de
beatitude. Felicités est une chose qui vient par vertu de l'ame, non pas dou
cors..... Aucunes choses sont mult griez à sostenir;mais quant l'on les a bien
sostenues,lors apert et se mostre la hautesce de son corage; et sont au tres
choses qui ne sont griez à sos tenir, ne li hom qui les sueffre ne mostre pas
que en lui soit force.Et jà soit ce que mort et maladies de filz soient griez à
sostenir, ne doivent pas remuer l'ome de sa felicité; car bienetfelicité,ethome
felixetDex glorious et benois sont tant digne chose et tant honorable que nulz
pris ne nule loenge ne lor sofit pas; et nos devons reverer et magnifier et
glorifier Dieu sor toutes choses et si devons croire que en lui sont tuit bien
et toutes felicitez.,porce que il est commencemenz et achoisons de touz biens.
secondo virtude,e la colonna del con trario suo si è l'operazione, la quale
l'uomo faesecondolovizio;equesta operazione si erma e stante nel. l'anima
dell'uomo,et l'uomo virtuoso non si muove,e non si turba per cosa contraria
temporale che gli possa a v venire, perciò che già non arebbe beatitudine,
s'egli si conturbasse, perciò che la tristizia e la paura si toglie altrui
l'allegrezza della beati. tudine. Sono cose le quali sono molto forti a
sostenere; ma quando l'uomo l'à sostenute pazientemente, si dimostra la
grandezza del suo cuore; e sono altre cose le quali sono lievi a sostenere,e
perché l'uomo le so. stegna non si mostra grande fortezza in lui,siccome morte
di figliuoli e loro malitia.Queste cose,avegnache ellesiano forti,non permutano
l'uomo di sua felicitade.La felicitade e l'uomo bene avventurato e domenedio
bene detto e glorioso sono tanto degna cosa e tanto da onorare che le loro lodi
non si possono dicere,e spezial mente si conviene a noi di reverire e
magnificare messere domenedio sopra tutte cose, e dee l'uomo pen sare di lui,
che nel suo pensare ha l'uomo tutto bene, e tutta felicitade, perciò ch'egli è
cominciamento e ca gione di tutto bene. lumpna uero contrarii
beatitudinis est opera secundum contrarium uirtutis; et optima operationum
secundum uir tutem est stabilissima earum in ani ma;et uita beatorum continua
est semperperactioneshonorabilesbonas; et uirtuosus perfectus absque ex
tollentia speculatur in rebus virtuali bus et substinet irruentia mala et
tollerat ea tollerantia decenti et non turbatur cor neque formidat ex ma. gnis
calamitatibus ex temporis malitia occurrentibus; nisi enim eas decenter sustinuerit
conturbabitur eius felicitas et inducentur super ipsum meror et tristitiaque
impedient secundum uir tutes operationes. Quedam autem actionum malitie
difficiles sunt ad sufferendum: sed quando acciderint homini et eas
sustinuerit,demonstrant eius magnanimitatem.Alie uero que. dam
facilepossuntsufferrietheecum inciderint homini et eas sustinuerit, non
demonstrant eius magnanimita tem; et mortuis ex bonitate actionum filiorum et
ex malitia ipsarum con tigit [modicum aliquid tante, in. quam,quantitatis].transmittetfelices
a sua felicitate ad infelicitatem; neque infelices a sua infelicitate ad felici
tatem.Bonum etfelicitasatque felices et deus benedictus et excelsus digniora
sunt et honoratiora quam ut lau dentur. Immo conuenit quidem uene rari deum et
ipsum singulariter m a gnificare et eius intuitu felicitatem
etfelicesetbonum,cum sintresdi. uine, et gratia quorum omnia alia aguntur;et
creditur de eo quod est Felicitade si è un atto il quale procede da perfetta
virtude dell'anima et non del corpo. Principium bonorum etipsorum causa,
quod sit res diuina. Felicitas est quidem actus anime procedens a uirtute
perfecta,non cor poris sed anime. Prima di passare al raffronto della
parte finale nelle diverse redazioni, non sarà inopportuno riprodurre ancora un
brano, del principio del secondo libro, che valga a confermare le diffe renze e
le relazioni da noi stabilite tra i due compendi, volgare e francese, e il
testo latino. Liber Ethicorum. Litresor,Liv.II,P.I, Virtus ergo duplex est,
chap.IX.-Porceapert uidelicetintellectualiset ilque.ij.manieressont
moralis;intellectualis, devertuz: l'uneestde utsapientiaetprudentia
l'entendementdel'home, etsimilia.Laudantese- ceestsapience,science nim hominem
ex parte Et uirtutum quidem tuel,nos disons:ce est uirium intellectualium
eum appellamus. intellectualium genera prisierdevertu intellec uns sages hom
etsoutis; par enseignement,et liumestperbonam et porcelicovientexpe honestam
conuersatio- rience et lonc tens. La nem;nequesuntinno- vertudemoraliténaist
bispernaturam.Res et croistparbonuset enimnaturalesnonegre. honeste;car ele
n'est diuntur a natura sua pas en nos par nature; perassuetudinem,utpe-
àcequechosenaturele tra,quaesempertendit ne puetestremuéede et sens; l'autre
est de sapientem eum dicimus autscientemaut(secun- choses semblables. Et
dumaliquidhuiusmodi); cepuetchascunsveoir sed ex parte moralium clerement; car
quant largumuelcastumuel un home humilem uel modestum mais quant nos le volons
tioetincrementumfit prisierdemoralité,nos inhomineperdoctrinam etdisciplinam;ideoque
chastesetlarges.X.La in eius acquisitione ex- vertu de l'entendement
perimentoindigetettem- estengendréeetescreue pore longo. Generatio autem
uirtutum mora en l'ome par doctrine et moralité,ce est chastée et largesce, et
autres disons:ceestunshom nos volons L'Etica.– Due sono le virtudi; l'una si è
dettaintellettuale,sicco me lasapienza e scienza e prudenza; l'altra si chiama
morale,sicome castitade e larghezza ed umiltade; onde quando noi volemo lodare alcuno
uomo divertudeintellet. tuale,diciamo: questi è un saviouomo,intende vile e
sottile; e quando noi volemo lodare un altro uomo di virtude morale, cioè de
costumi, si diciamo:questi è un uomo umile e largo.- Concio siacosachesiano due
vertudi,una intel lettuale e l'altra morale, la intellettuale si si in genera e
cresce per dottrina e insegnamento,e la virtude morale si si in. genera e
cresce per b u o na usanza;e questa ver tude morale non è in noi per
natura,percioc cbè natural cosa non si puote mutare della sua disposizione per contra
riausanza.Verbigrazia: ad centrum naturaliter, lanaturadellapietrasi
etignisadcircumferen èl'andareingiuso,onde tia, numquam assue non la potrebbe
l'uomo receptionem, et perfi questevirtudinonsono tiunturinnobisexbona in noi
per natura,la po. (1) Taddeo amplio e chiarì meccanicamente l'esempio della
pietra e del faoco, valendosi del latino del Liber Ethicorum del commento
tomistico: «..... puta lapis natura deorsum latus non
autiqueassuescitsursumferri, nequesideciesmilliesassuescat
quis,eumsursumiaciens»;e sopratutto del Liber minorum moralium: « Lapis enim
qui naturaliter deorsam descendit quamvis « quis probiciat ipsum sursum uicibus
innumerabilibus, quarum non comprehenditur multitudo, «uolens per hoc assue facere
ipsum mouerisursum, numquam habebitpossibilitateminhoc.Et « similiter ignis non
est possibile at recipiat per assuetudinem diuersum motionis suae ». nos par
usage; por quoijediqueces vertuz ne sont pas dou tout en nos sanz nature ne dou
tout selonc nature; mais li commencemenz et la racine de recoivre ces vertuz
sont en nos par nature,et le lor c o m pliment est en nos par usage. Et
touteschoses tanto gittare in suso, situm; neque aliarum
ch'ellaimprendessead rerumullaassuescetop. Andareinalto ;elana-
positumnaturesue(1). turadelfuocosièd'an. Attamen cognationem
dareinsuso,ondeno'l aliquamhabetconsue. potrebbe l'uomo tanto tudo cum natura
et co trarreingiuso, ch'egli gnationemaliquamcum imparassedivenirein
intellectu.Nonsuntita que in nobis uirtutes niunacosanaturalepuo- morales
naturaliter,ne tenaturalmente farelo quepreternaturam; sed contrario della sua
na- nati sumus ad earum giuso;eduniversalmente tura. Mà avvenga che scunt
huiusmodi oppo consuetudine. Item omne puissanced'aprendrela
tenziadiriceverleèin quodinnobisestnatura. estennousparnature,
noipernatura,elocom- literpreextititinnobis etlicomplemenzesten
pimentoèinnoiper potentialiter,deindeap usanza.Ondequestever.
paretactualiter.Ethoc tudinonsonoinnoi al manifestumestinsen
postuttopernatura;ma sibus. Sensus enim in laradicee'lcomincia.
nobisnonfiunteoquod mentodiriceverequeste uideamusuelaudiamus multociens,sed e
con trariofitinnobis.Ha bemus enim eos prius naturaliteretpostmo. vertudi si è
in noi per natura,e'lcompimento elaperfezionediqueste virtudisièinnoiper
usanza. Ognicosala dumexercitamurineis. sonordreparusage con traire.Raison
comment: la nature de la pierre est d'aler tozjors aval, ne nus ne la porrait
tant giteramont que ele seust sus aler; et la nature doufeuestd'aleramont, ne
nus ne leporroit tant avaler que il seust en aval metre la flamme. Et
generalment nul na tural chose ne puet par usage aprendre à faire lecontraire
de sa nature. Et jà soit ce que ceste vertuz ne soit en nous par nature, certes
la diusinterextremadicta, Etporunemeismechose et d'oïr, et
par celui quellapotenziaodee ethocmodoestinom- pooirvoitetoit,etnus vede, enonvedel'uomo
nibus artificibus.Nam nevoitdevantqueilen prima eode, ch'egliab- hedificatores
sumus ex ait le pooir. Donques bialapotenziadelve- usuhedificandietcytha. savonsnosquelipooir
dereedell'udire. Dunque rediexusucytharizandi; est devant le faire.Mais vedemo
già che la po- ex bene quidem facere es choses de moralité
tenziavadinanziall'atto. hocbonisumusinbiis, estli contraires;car E nelle cose
morali è ex male autem mali. l'uevre et li faiz est de. tutto locontrario, chè
vant le pooir. Raison l'operazioneel'attova eadem fituirtusetcor-
comment:aucunshom dinanzi alla potenzia. rumpitur.....autem a la vertu de
justise, Verbigrazia: l'uomosi similiter sanitates. Et cor mentneleseustlimais.
rumpunturexpaucitate tresseiln'eneustovré fatteprimacase, edal-
etmultitudine,uttimi- autrefoiz. Autressi se trimenti non potrebbe ditas et
procacitas. Ti- vent aucun bien citoler peravereeglimoltevolte averequellaarte,
seegli midusenimfugitomnia, Exeisdemergoetper porce que il a devant hae la
virtude che si actiones laudabiles cor- fait maintes cevres de
chiamagiustiziapera- rumpunturproptersu- jostise; etunsautresa vereegli fattoinnanzi
perfluitatemautdiminu- lavertudechastée, porce molteoperazionidigiu.
tionem,utexercitia su- que il a devant fait stizia, edhael'uomola per fluaaut diminutaet
maintesoevresdecha virtudechesichiama
nutrimentisusceptiosu-stée.Toutautressiest castita deperavereope-
perfluaautdiminutafor- des choses de mestier rate dinanzi molte ope- m a m
sanitatis corrum- et de art.On scet faire razionidicastitade;e
punt,equalitasautem maisons,porcequeon cosiadivienedellecose
ipsorumsanitatemfacit enamaintesfaitespre artificiali, chè l'uomo et auget et
conseruat.Et mierement; car autre hal'artedifarelecase uirtutes morales porce
que il en sont non l'avessemoltevolte procax autem omnia in- molt usé. Et li
hom est adoperata dinanzi;esi. uadit. Fortitudo autem bons por bien faire,et
migliantemente l'arte qualeèinnoiperna- Virtutesautemacqui- quisontennosparna
tura, sièprimaepoi rimusexfrequentatione turesontpremierement
sivieneinatto,siccome actuumhabitusinducen- enpooiretpuisen fait, avviene de
sensi del- tes. Iusti etenim sumus aussi comme li sens de l'uomo,chèprimaha
exusuactuumiustitie, l'ome;cartoutavanta l'uomo la potenzia dive. et casti similiter,
scilicet li hom pooir de veoir dere e d'udire, e per ex usu actuum castitatis,
del ceterare ha l'uomo inhisesthabitusme- mauvaispormal faire. et
inest fortitudo ei qui scit fugere a fugiendis et inuadere inuadenda,
ethichabitusacquiritur Per una medesima exconsuetudineuilipen
cosasigeneranoinnoi di (sic) terribilia.Sicca levirtudi,esicorrom
ponosequellacosasifa indiversimodi;eadi viene della virtude si
comedellasanitade,che una medesima cosa in diversi modi fatta fa ella sanitade
e corrompela. Verbigrazia: la fatica s'ella è temperata si in. genera sanitade
nel corpo dell'uomo,e s'ella è più che non si con. viene o meno che non si
conviene,si corrompe lasanitade;esìadiviene della virtude che si cor rompe per
poco e per troppo, e conservase per tenere lo mezzo.Verbi. grazia: paura e ardi
mento corrompono la prodezzadell'uomo;per cio che l'uomo che ha paura si fugge
per tutte le cose, e l'uomo ch'è arditoassalisceognicosa e credelasi menare
fine; e nè l'uno nè l'al. tro non èprodezza;ma la prodezza si è tenere lo mezzo
intra l'ardi mentoelapaura;edee stitatishabitusacqui. ritur ex consuetudine
retrahendiseauolupta tibus,etsimiliterseha betinceterishabitibus laudabilibus.
per avere molte volte ceterato; e l'uomo è buono per far bene,e lo rio per far
male. naissent en nos et se cor rumpent les vertus,se cele chose est menée en
diverses manieres;tout autressi c o m m e la santé; car travailleratempree.
ment engendre santé au corsdel'ome;maistra vailler o plus ou mains que mestiers
n'est,cor ront la santé; mais meenneté la garde et acroist: autressi est de
vertu, car ele corront et gaste par po et par trop,et si se conserve et
maintient par la meenneté.Raison com ment: Paors et harde corrumpent la p r o e
s c e d e l ' o m e; c a r li hom qui a paor s'enfuit por toutes choses, ne
n'ose nule emprendre; et li hardis emprent à faire toutes choses,et les cuide
mener å fin. Et sachiez que l'une ne l'autre n'est pas proesce: mais proesce
est aler entre hardement et paor. Et doit li hom foïr les choses qui sont à
foïr, et envaïr les choses qui sont à envaïr. Et cist habiz est aquis par usage
de desprisier les terri bles choses,et habiz de chastée est aquis par u a
mens l'altre virtudi,siccome tu hai inteso della pro dezza; chè tutte le
virtù s'acquistanoesisalvano per tenere lo mezzo. Col raffronto del devez
entendre de toutes vertuz. brano finale mettiamo termine a questo prospetto
comparativo, che porta un contributo,non privo d'in teresse, alla conoscenza
della fortuna aristotelica, ed è d'impor tanza fondamentale per la storia dei
compendî neolatini del l'Elica nicomachea. che sono da fuggire. E sage de
retenir soi contre l'uomo fuggire le cose cosideiintendereintutte ses
covoitises. Autressi Liber Ethicorum. Educatio puerorum secundum
no- Dee essere lo notricamento delli bilem legem necessaria est ad indu-
garzoni secondo la nobile legge, e cendumeispermodumcastitatiset
ausarliadoperazionidivirtù, ein non per modum continentie. Inde- questo dee essere
per modo di castità, lectabilisenimest apud plures homi. enon per modo di continenzia,
per. numususuirtutumpermodumcon- ciocchèl'usodellacontinenzianonè
tinentie.Nequeabstrahendaesteis dilettevolea molti uomini,enonsi manus statim
post pueritiam, sed dee ritrarre la mano di gastigare continuanda est eis usque
ad con il fanciullo via via dopo la fan sistentiam et robur virilitatis. In
ciullezza; anzi dee durare in fino al rectificando quosdam sufficitredar-
tempo, chel'uomo è compiuto.Sono gutioetcastigatiosermocinalis,in
uominichesipossono correggere aliisautem quibusdam uixsufficitas. per parole e
sono altri che non siduatio uerberum tam quam in bestia. si possono correggere
per parole, Neutrouerohorummodorumrecti- anziv'èmistieripena. Esonoaltri
ficabiles tollendi sunt de medio. No- che non si correggono in niuno di
bilisetstrenuusrectorciuitatisciues questiduemodi, equesticotali
nobilesefficit, etbonioperatoresha- sono datorredimezzo. Lonobilee'l
benteslegemetoperalegisexer- buonoreggitoredellacittafanobili
centesaduersantureisquicontraria cittadiniebuoni, li quali servan ola agunt, etsibonaagant.
Inpluribus leggeefannol'operachecomanda ciuitatibus iam abiit regimen uite la
legge e sono avversari a coloro hominum ideoque dissolute uiuunt che non
osservano gli comandamenti et propriassectantur uoluptates.Et
dellalegge,avegnach'ellifacciano regimen quidem conuenientius est bene. In molte
citta di èitoviailreg. communis prouisio moderata,cuius gimento della vita dellihuomini,però
usum obseruare possible est et non che si vivono dissolutamente ese
summedificile: etquodcupitquili. guitanolelorovolontadi. Lopiùcon
betseruariinseetamicisetfiliiset venevolereggimentoche porresi familia. Etprecipueydoneusadtalis
puotenellacittà,sièquellocheè regiminisconstitutionemestillequi
temperatoprovedimento, intalmodo sciuerit quod dictum est in hoc libro. che si puoteosservareenonètroppo
Scietenimcanonesuniuersalesad grave; equelloloqualedesidera
particulariadistrahere. Communis l'uomo che si osservi insèenelli I codd.
8. v.11:...ce questicotalisono rei perchè sonopartitiintuttodalmezo,et «
debbono essery odiati si come sono li lupi et cacciati d'ongne buono luogo. Lo
nobile etc. ). L'Etica d'Aristotile. Li Tresors, Liv. II, P.I, chap. XLIV.
Magliabech. Et li norrissemens des enfans doit I nodrimenti da fanciulli
debbono estrenoblesentelmanierequeil esserenobili, sichesiabeneapreso
soientaprisàfaireetàuserlesbones afareedausodibuoneopereper oevresparchastée non
mieparcon- chastitaenomicapercontinuanza. tinance, carcontinancen'estmiecon-
Checontinuanzanonemichaconue venablechoseasgens;etl'onne neuollecosaagienti; el'uomo
non doitpasostercestusagenecest deemichaleuare questausanzane
chastiementmaintenantqueilont questochastighamentoimmantenente enfance passée,
mais maintenir la ch'egliàla fanciullezasua, maman
jusquesàtantquelidroizaagessoit tenerla insinoa tanto che il diritto acompliz. Iliahomesquipueent
estre governé par chastiement de paroles, etautresiaquinepueent
mieestrechastiéparparoles,mais par menaces de torment; et autre home sontquel'onnepuet
chastier ne parl'unne parl'autre; ettelhome doiventestrechastiésiqueilnede-
mourentavecautresgens. XLV.Li chacciatisich'eglinodimorinocon
noblesgouverneresdelacitéfaitles l'altrigienti. Quidicedelgouerna
citeiensnoblesetlesfaitbienoyrer mentodellacitta CCLXVIII.Ino.
etgarderlaloietcontresterasautres biligouernamentidellacittadefanno
quinelagardent,jàsoitcequeil icittadininobilieglifabene operare lefacentbien, Maintescitez
sontoù eguardarelalegieecontradirea ligouvernementdelaviedel'ome quegliche
nollaguardano,concio sontdestruit, etviventdissoluement,
siacosach'eglifaccianobene.Molte car chascuns va après sa volenté. città sono
oue il gouernatore della Liplusnoblesgovernemensquisoit ụitadell'uomoè distrutaeuiuono
enlaviedel'ome, età moinsde disolutamente, chè chattuno
poineetdetravail,estcilquel'on apressosuauolonta. Ilpiùconuene
consiredemaintenirsoietsamaisnie uolle comandamento egouernamento etsesamis,etcilpuetconvenable-
chesianellauitadell'uomoeapena mentmaintenirgensquiaurala dipeneeditraualglioè quellache
science de ce livre; porce que il l'uomo considera di mantenere se e
saurajoindrelesenseignemensuni. suamasnadaesuoiamici; equeuli
verselsaveclesparticulers; carci- puoteconueneuollementemantenere
teiennecommuneest diversedela gientecheàconsecolascienzadi
particulere,aussicommeentozmes- questolibro; peròch'eglisapragiun
agiosiacompiuto. Esonohuomini chepossonoesseregouernatipergha. stigamentodiparole,ealtrisonoche
nopossonoesseregastigatiperpa role,maperminacieditormenti; e
altrisonochel'uomononpuotees seregastigati nè per l'unonè per
l'altro;etallihuominidebbonoessere uae 1 Taddeo riduce molto
sensibilmente il testo latino e ne sopprime a dirittura la fine: forse egli
ritenne compiuto a quel punto trattato aristotelico della morale e credette
opportuno esclu. dere le parole seguenti; forse a lui melico e maestro fece
ombra quell'accenno, in fine, all'arte della medicina. Probabilmente Taddeo rappresentava
più da vicino il metodo pratico, e il libellus de servanda sanitate pnò darcene
fede: s'è cosi, egli non poteva piacevolmente accogliere l'affer mazione
aristotelica. namqueciuilitasdiffertaparticulari
suoifigliuolienegliamicisuoi.E quemadmoduminmedicinaetceteris
lobuonoponitoredellaleggesiè potentiisoperatiuis;inhacintentione quegliloqualesaleregoleuniversali,
nonmodicaestdifferentia.Inomnibus lequalisonodeterminate in questo ergo huius
necessaria cognitio uni. libro,et salle coniungere alle cose uersalium simul et
particularium. particulari le quali vegnono altrui
Experientiaenimsolanonestsuffi- ciensinhiis,nequescientiauniuer-
saliuminipsissecuraestetcerta absque experimento. Multi ergo m e dicorum sola
freti experientia in se ipsis,quidem intendunt,bene uidentur operari et in
aliis non proficiunt quicquam,eo quod naturam ignorant. Considerandum est
itaque qualiter et per que erit quis peritus legis-lator. Erit autem hoc per
noticiam rerum ciuilium,que subiectum sunt huius potentie. Quemadmodum se habet
in ceteris artibus consimilibus huic, posse experientie in inuentione legis non
estmodicum.Quidam putauerunt quod hac ars et rethorica sint unum et idem: in
uno etiam putauerunt intralemani,peròcheabeneordi. esse uiliorem hanc rethorica:
et leue quid reputarunt scientiam condendi le. ges.Non estautem sic;electionam
que in arte qualibet actus nobilis est, et quidem per duo est,siue per scien
tiam et experientiam: et per scien. tiam quidem est actus illius inuentio et
per experientiam est ipsius directio et certificatio. Et universaliter con
nareleleggisièmistieriragionee sperienza. di uiuere coronpono
ibuoni usi di tiers;carenchascunechoseconvient gniere lo'nsigniamento uniuersale
il conoistrelesparticuleresetlesuni. cholparticullare;chèciertauitadi
verseleschoses, porcequeseuleespe. comuneèdiuersadallaparticullare, rience n'estmiesoffisansence;
et savoir les universels choses n'est pas altresicomeintuttimestieri, chèin
ciascuna cosa conuiene conoscere li seurechosesanzl'esperience; ainsi
commenosveonsmaintmirequi par particullariequesteuniuersalicose, peroche solla
speranza non èmica soficiente in cio; e sapere l'uniuersali cosenon è mica
sicuracosasanza seule experience sevent maint bien
faireenlormestieretenseignierne les porroientasautres, porcequeil
n'ontsciencedesuniversels. Donques l'esperienze; sìcomenoiueggiamo molti mediciche
per sola speranza seracilparfaizmaistresdelaloi neseguemoltobenefareinsuome.
quiseitlesparticulerschosespar stiere, einsengniareno'lpotrebono experience et
qui seit les choses agli altri, però ch'elgli non áno universels. scienza de
l'uniuersali cose. Dunque Home furent qui cuidierent que sara quegli perfetto
maestro della rectoriqueetla sciencedemaistrie legie chefaele particullari cose
deloifussentunemeismechose,et persperienzae che sa le coseuni
penserentquecestesciencefustle- uersali. giere; maislaveritén'estpasainsi,
Huomini furonochecredottonoche porce que li maistres de la loi doit lla
retoriccha e la scienza di m o estresemblablesàsesciteiens, et
strarelegiefossonounacosa, epen doitsavoircestart,etquilesaura
saronochequestascienzafossele liseraprofitable, etautrementnon; giere; ma
llaueritanonècosi,però etseilcommencastà faireloisanz
cheimastridellalegiedebbonoes cestescience, ilneporroitdoitrement sere similgliantialoro
cittadinie conoistrenejugierlabontédesana- ture, deacomplirladefautedesa
science, mais porcequenoscuidons consirertouteshumaineschosespar
legiesanzaquestascienzaeglinon guise de philosophie, simetronstout potrebedirittamentegiudicharenė
avant lesdizdesancienssages; et conosere dibontàdisuanaturane
encepenseronsquelesdes ordenées conpieladifaltadisuascienza. Ma manieres de vivre
corrumpentles perochenoiabbiamo d'andarecon bons us des citez, etliconvenable
siderandotutteumanecose perguisa les redrescent,etquiestl'achoison
diphilosophia,simetonotut'auanti demaleviededanzlacitéetdela
idettideliantichisauieciòpen bone,etparquoilaloiestsemblable
seremonoicheledisordinatemaniere as costumes. debonosaperequestaarte:chilese
guirrasaràprofitabileealtrimenti non.Es'eglicominciasonoafare ditio
legum similatur potentiis ciui libus, nec potest esse conditor legum qui non
habuit scientiam istius artis. Qui uero habuit eam proficiet per experientiam
et qui non, non. Et cum inceperintimponere legem absque habitu scientiali,non
recte discernent. Neque bene iudicabit,nisibonitaset excellentia multa nature
suppleat de. fectum scientie. At quantumcumque natura bene disposita sit,est
tamen promtior et expeditior est in uere iudi. cando,cum secum habuerit
certudinem artificialem.Quoniam itaque proponi mus speculari in rebus humanis
modo philosophico, substinemus primitus dictaantiquoruminhoc;deindeconsi
derabimus modos uiuendi,qui extant; qui ipsorum corruptiui sintconsortii
ciuilis in ciuitatibus quibusdam et rectificatiui in quibusdam, et qui
corruptiui in omnibus et qui rectifi. catiui in omnibus, et que est causa bonae
uite quarundam ciuitatum et que causa quarundam habentium se e contrario, et
quarum leges con suetudinibus similantur. Incipiamus ergo et dicamus.
cittadini,e le conueneuoli la dirizzano, e chi è chagione di malla uita dentro
alla città e della buona, e perché la legie è sembiante a costumi. Da questo
prospetto risulta chiaro quanto abbiamo prima af fermato,ed insieme con la
questione dell'Etica volgare è risoluta quella non meno importante del
volgarizzamento del VI libro del Tresor e delle fonti di esso,che il Sundby con
molto buona volontà ma con poca fortuna rintracciava nel latino dell'altro
Liber Ethicorum, del commento tomistico, e nelle chiose di S. Tommaso (1). È
naturale che il critico danese ha qualche volta gridato all'impossibilità di
trovare il passo corrispondente nell'originale(2),ch'egli rinveniva del resto
molto malconcio e scompigliato nel francese di Brunetto. Nè il Sundby fu il
primo a esser tratto in inganno circa le fonti del VI libro del Tresor.Già il
Mehus parla di un'Etica latina di cui si valse Brunetto, compilata per incarico
dell'im peratore Federico Inell'Università di Napoli,e di una traduzione
dalgrecoinlatinodelLibermagnorum Ethicorum,fattasotto gli auspici di Manfredi
da maestro Bartolomeo di Messina (3). Il Mehus è senza dubbio fuor di strada;
giacchè quest'ultima opera rimane estranea alla tradizione dell'Elica nostra,
nè di quella prima imperiale versione d'Aristotile pare che non sia lecito
dubitare. De'rifacimenti latini dell'Etica aristotelica dirò compiutamente in
un prossimo lavoro; giacchè non è più possibile star paghi alle vecchie
notizie,e d'altra parte le buone ricerche del Jourdain non sono affatto
compiute e i risultati da lui ottenuti non sono più in buona parte
sostenibili(1). Della Nicomachea si conoscono cinque redazioni latine nel 1300;
delle quali tre derivano direttamente dal greco: l'Ethica uetus (2) che
comprende solo il secondo e il terzo libro,l'Ethica noua (3)che contiene il
primo libro, e il Liber Elhicorum che abbraccia tutti i libri e al posto dei
primi tre inserisce con frequenti ritocchi e modificazioni il testo dell'Ethica
noua e dell'Ethicauetus. IlLiberEthicorum,che fu commentato da Tommaso
d'Aquino,ebbe larghissima diffusione,come pare anche dal numero e dalla
importanza de'mss. che lo contengono (4), insieme col commento tomistico servi
di testo fondamentale per l'instituto filosofico etico del tempo. Per il
tramite arabo ci son pervenuti due rifacimenti latini della Nicomachea,d'indole
ben diversa:il Liber Ethicorum, volgarizzato da Taddeo,che servi di fonte al VI
libro del Tresor, eilLiberMinorum MoraliumoliberNickomachiae(5),tradotto
dall'arabo in latino per opera di Ermanno il Tedesco (Herman nus Alemannus)nel
1240. È questa la parafrasi dell'Etica fatta da Averroè; il rifacitore non
volle solo tradurre l'opera m a intese altresi chiarirla e
spiegarla,accrescendone e sviluppandone idati dimostrativi che nel testo sono
ridotti a'risultati de'processi lo gici.Aristotile parve un po'contratto;l'arabo
ne distese imuscoli Fin ora ho potuto esaminare ventidue mss.,di cui quattro
del sec.XIII (Laurenzian.89,sup.44;XIII Sin.1;79,13;XIII
Sin.6),diciassettedelse colo XIV (Ambrosian. F. 141 sup.; A. 204 inf.,di mano
di Giovanni Boc caccio; Laurenz. XII Sin.7;XII Sin.9;Nazion.Napoli,VIII G.
11;G. 25; G.27:Riccard. III;Marciana (mss.lat.) cl.VI,39, 41,43,44,122;Uni
vers.Padova 679,788; Antoniana XX,456; Capit. Padova G. 54; e uno del sec.XV:Ambros.R.
50. sup.). (5 ) Laurenz. 7 9, 1 8; 8 9, sup. 4 9. Trova si pure impresso in
tutte le edizioni di Aristotele con ilcommentario di Averroès (Venezia,Andrea
d'Asolo,1483; Giunta, 1550, 1560, 1562, 1574). Laurenz. X I I I, Sin. 1 2;
V I I I, Dext. 6. (3) Ashburnham.e ne arrotondo icontorni, stemperandone la
fibra. Aristotile, ada giatosi nella mollezza araba un po' adiposa, si presento
all'in telligenza un po'incerta, bambina alquanto e stentata,delle nuove genti
latine che con più agevolezza poterono,cosi in veste più larga,contemplarlo e
comprenderlo; e l'opera aristotelica, accresciuta di quel po' di cemento della
parafrasi araba che riempiva gl'interstizî apparenti della sua costruzione
ideale,poté intendersi e premere sulle coscienze senza l'aiuto di un com
mentario apposito che dissolvendone l'unità finale ne facesse a p parire gli
elementi semplici di formazione. Cod.Ashburnhamiano955[=
1]membr.sec.XIV,conlaprimapagina miniata.Tit.: L'Etica del sommo phylosofo
Aristotile; la soscrizione finale si legge difficilmente; pare: Explicit liber
Ethicorum Aristotelis phylo. sophj in uulgari idioma scriptus: di cc. scr. 48,
le cui ultime presentano molte abrasioni. Cod.Magliabechiano 12.8.57
[52]membr.sec.XIV;titolieiniziali color.,di cc.scr.26. Com. Prolago sopra
l'etichadel sommo phylosofo Aristotile; in fine: Explicit liber ethicorum
Aristotilis. deo gratias. In fondo è ilnome del trascrittore «Sander me
scrissit». Cod.MagliabechianoA.2.3.2[= 3]membr.sec.XIV;titolieiniziali in
rosso,di cc.scr.22. Com.: Prolago sopra l'etica d'Aristotile; in fine: Qui
finisce il libro dell'Etica del sommo filosafoAristotile il quale tratta delle
uertudi che ssi conuegnono auere a cchostumi ed a buona vita delli huomini. In
fondo « Giouanni di Lapo Arnolfi lo fece scriuere. Compiesi di < scriuere
martedi di XXII di Giugno Anno MCCCXXXIX »; più sotto è indicato
iltrascrittore«Sanderme scrissit»:è lostessodelcod.precedente. 5 C.
MARCHESI. Cod.Magliabechiano2.4.274[=
4)membr.sec.XIVexc.dicc.scr.44, miscell., contiene il Trattato sulle avversità
della fortuna (c.1-16'). L'Etica com.: Incipit Ethica Aristotilis translata in
uulgari a magistro Taddeo
florentino;infine:ExplicitethicaAristotilistraslatatapermaestro Taddeo. deo
grazias. A c.1a « Qui cominciano le robriche di tutto il libro dell'eticha «
d'Aristotile traslatata per lo maestro Taddeo ». Cod.Marciano (mss.ital.)II,3
[= M]membr.sec.XIV,225 X 164,di cc.46 non numerate;anepigr.Precede il trattato
«de la doctrina di tacere «etdi parlare»diAlbertano da
Brescia;finisceac.11a:Quifiniscee libro de la doctrina di tacere et di parlare
el quale fece messere Alber tano giudice da brescia nell'anno domini Millesimo
CCXL V del mese di dicembre Deogratias Amen.Dopo un foglio vuoto,ac.13a seguono
alcune « Sententie Tulij et Senece et aliqua dicta Aristotilis », che vanno
sino a c.18a.L'Eticii,anepigrafa,vadac.18'ac.46t;iltestoèmolto guasto e
scorretto,senza alcuna divisione in libri; in fine: Finitus est liber deo gratiasAmen.
Cod.Palatino634[=5] membr.sec.XIV;rubricheeinizialicolorate: di cc. scr.27, più
una bianca. Tit.: Incomincia l'eticha d'Aristotile in uol. gare; in fine:
Explicit ethica Aristotilis translata a mgio iohe min. deo gratias.
Cod.Riccardiano 1538 [= 6;vecch.segn.S.III.47]membr.sec.XIV inc.,miscell.,con
belle iniziali colorate e rabescate e numerose vignette intercalate nel
testo,di cc. scr.231. Tit.: Incipit etthica Aristotalis. Segue a l l ' E t i c
a il t r a t t a t o delle quattro Virtù, il Segreto de Segreti e da l t r e
scrittur e sacre e profane;il cod.,come sivede dalla soscrizione
finale,appartenne a un Bertus de Blanchis che ne fu forse anche il
trascrittore. Cod.Riccardiano 1651 [= 7;vecch.segn.N. IV.27]membr.sec.XIV,
coninizialicolorateerabescate, dicc.scr.50.Tit.:Prolagosopra l'ethica
d'Aristotile;infine:explicitliberEthicorum Aristotelis.Contieneinoltre: Egidio
Romano, la esposizione della Canzone di Guido Cavalcanti.
Cod.Laurenziano89Sup.110[= a]membr.sec.XV,dicc.42.Nella 66 C. MARCHESI Cod.
Riccardiano m e m b r. s e c. X I V, m i s c e l l.; presenta t r a c c e di
quattro mani diverse;la più antica riempi ifogli dell'Etica (da c.5a a c. 3 0
). C o m.: Qui comincia l'etica d'Aristotile. Cod. Ambrosiano C.21.inf.[39] membr.del
sec.XV, dicc.58,con la prima pagina fregiata e miniata, con lo stemma del
possessore e il ri tratto del filosofo; le iniziali di ogni libro colorate e
fregiate. Com.: La Prefatione di 'l primo libro di l'Ethica de Aristotele ad
Nicomacho suo figliuolo; nessuna soscrizione finale. prima pagina è
lo stemma del possessore con la indicazione « Jacopo di « piero benciuenni
ciptadino florentino spetiale a pie'del Ponte Vecchio 1488 ». Tit.:Prolago
sopral'eticadelsommo phylosofo Aristotile;infondoporta la data della trascrizione:
1451. Cod. Laurenziano 76. 70 [= r] cartac. sec. X V, di cc. 118. Precede a p.
1 « Insegnamento delle uirtudi e mortificamento de'uitii secondo Aristo « tile
e detti e autorità notabili di Santi et di molti saui et filosafi et poeti »
cioè,ilVIIlibrodel Tesoro. L'Eticacominciaac.78:Quicomincial'etica
d'Aristotile; in fine: Explicit l'etica d'Aristotile.
Cod.Magliabechiano2.4.106[= m]cartac.sec.XV,dicc.77,miscell.;
contienevolgarizzamentidioperesacre.L'Etica(c.54-72t)com.:Qui co mincia
un'opera facta per lo grande sapiente Aristotile detta l'Eticha; in fine:
Finita l'eticha d'Aristotile translatata per maestro Taddeo.deo
gracias.Sottoèl'indicazionedell'anno Scrittadigennaio1459».
Cod.Magliabechiano2.2.72[= p]cartac.sec.XV,miscell.:contiene ladottrinadelparlare(estrattadallaP.I,cap.13del
Tesoro), il Segreto de Segreti,ilvolgarizz.daVegezioFlavio,un
librodelleAringherieetc. Si trova unito a questo un codicetto dello stesso
formato, di cc. 18, conte nente una piccola storia o diario della città di Firenze
dal 1300 al 1379. L’Etica va da c. 5 4 a c. 3 6 ', a n epigr. In fine: Compiuta
è l'Etica d'Aristotile translatata in uolgare da maestro Taddeo.
Cod.Magliabechiano21.9.90(= r]cartac.sec.XV exc.miscell.Con tiene una parte del
trattato del Governo della famiglia di L. B. Alberti e dell'Etica solo il libro
ottavo e nono; vede bene che il trascrittore ha volutoestrarrelaparte riguardantel'Amicizia;ambedue
ilibrisondivisi in XXII capitoletti. A c. 6 1 è l a soscrizione del copista Strozzi
», eladata:20maggio1482. Codice Marciano(mss.ital.)I,134(= N)membr.sec.XV,205X
138, cc.64 non numerate,con le iniziali dei libri miniate e dorate. Com.:
Incipit proemium transductoris huiusoperisuulgaris; iltestocom.ac.21:Libri
Ethicorum siue Moralium Aristotelis qui sunt X in multa capitula diuisi, quia generaliterdemoribussehabet.
Nam inprimo librodeterminat de felicitate morali et eius partibus. Segue a c.
47 un semplicissimo ristretto volgare degli Economici,indue libri:Incipiunt
libri Ichonomicorum Ari. stotilis duo diuisi in aliqua capitula pertinentis ad
gubernationem familie. Nam in primo libro determinat de partibus Iconomiceetde coniugatione
mulieris et uiri, quae dicitur nuptialis,de coniugatione parentum ad filios
quae dicitur paterna,et dominorum ad seruos quae dicitur dispotica. « La
scientia di regiere la casa ha nome Iconomicha et è differente da
la scientia di reggiere la cipta la quale ha nome polliticha. Non
solamente « perchè una cio e la Iconomica considera el regimento de la casa et
la « politica el regimento de la cipta,ma etiandio perché in reggiere la casa
«nondieesseresenonuno.».A c.61asegueun Extractum Aristotelis de libro Secreta
Secretorum de arte cognoscendi qualitates hominum ad Alexandrum regem. In
ultimo è questa soscrizione: « Ex Venetiis primo «IdusIulij MCCCCLXXIII finis».
Codice Marciano (mss.ital.)II,141 (= V]cartac.sec.XV inc.,272X200, di cc.48 non
numerate,con la iniziale miniata e il titolo rubricato: Hetica d'Aristotile;
finisce a c.38 ': Qui finisce il libro detto Ethyca d'Aristotile. Composto per
lo nobile phylosapho Aristotile greco Atheniense scritto e compiuto. Nellestinche
di firençe nel malleuato di sotto. Seguono due carte bianche, e a c. 41 il
libro di sentenze, che si legge pure nel Marciano II, 3. Cod.Mediceo-Palatino43
[= y] membr.sec.XV,di cc.scr.54,più
quattrovuote:ititolideilibriedeicapitolicolorati;scrittomolto nitida mente.Per
incuriadichirilegòne'due primi quaderni è un'inversione cui pone riparo la
opportuna numerazione delle pagine.C o m.: Incipit Ethyca Ari.
stotilistranslatainuulgariamagistro Taddeoflorentino;infine:Explicit Ethica
Aristotilis traslatata per magistro Taddeo.Deo gratias Amen. Cod.Palatino501 [=
X]cartac.sec.XV,dicc.44,miscell.;contiene il libro di
ammaestramenti,sentenze,il libro di Catone,il trattato delle quattro virtù, e
altri volgarizzamenti di carattere morale. L'Etica (c. 1-224) com.: Questa si è
l'etica d'Aristotile; in fine: Explicit etica Aristotilis translata a magistro
Taddeo. Cod.Palatino510[= d]cartac.sec.XV inc.,dicc.111,miscell.;con. tiene
volgarizzamenti da Boezio,Cicerone etc. L'Etica (c.82--1066)com.: Qui
chominciano i fioretti dell'etica d'Aristotile; in fine: Finiti i fioretti
dell'etica deo gratias. Cod. Palatino [
= f] cart a c. s e c. X V, d i c c. 4 5: iniziali colorate e fregiate. Inc. Qui
chomincia il proemio sopra l'ettichia di Aristotile Pren. cipe di filosafi; in
fine: Finito e libro chiamato l'eticha d'Aristotile a di X X V d'ottobre mille
quatrociento quarantacinque per le mani di filippo Adimari da firenze a uso e
stanza di se e di suoi amici deo gratias. Cod.Riccardiano1084 [= c]cartac.sec.XV,dicc.49;inizialieru
briche colorate. Inc. Comincia il prolago del libro della hetica d'Aristotile;
in fine « deo gratias amen ». Cod.Riccardiano1357[=
e]cartac.sec.XV,dicc.248,miscell.;con tiene scritture sacre.L'Etica va da c.49a
a c.702. Com.: Prolagho sopra l'eticha del somo filosafo Aristotile; in
fine: Finiscie l'eticha del sommo filosafo Aristotile deo grazias.
Cod.Riccardiano 2323 [= g] sec.XV,di cc.51; rubriche e iniziali grandi
colorate.Precede la Introduzione al dittare di «maestro Giouanni « bonandree da
Bologna », con questa ottava al principio « Di Bologna natio
«questoautore|nellacittastudiandodou'ènato conallegrezzaemaestral «amore di giouani
scolar questo trattato brieuementecomposeilcui ti «nore conciedeachi l'aurabeni
studiato sopra quelche la epistola a di. manda et sofficientemente in lei si
spanda ». L'Etica è compresa da c.20 ac.51;infine: Explicit Eth. Ar.traslatataamagistro
Taddeoinuulgare. Scribere qui nescit nullum putat esse laborem.
Cod.Riccardiano1610[= h]cartac. sec.XV, dicc.26, miscell.;contiene il trattato
delle quattro virtù.Com.: Incipit liber Ethicorum Aristotilis; infine:ExplicitliberEthicorum
Aristotilis.Ilcopistafu«lulianusAndree a de Empoli > che lo scrisse « per sè
e per i suoi consanguinei ». Cod.Riccardiano1585[=
v]cartac.sec.XV,dicc.69:inizialierubriche colorate,con frequenti macchie
d'acqua nel margine.Contiene il Segreto de
Segreti(1"-44a)el'Etica(441-68a);com.:Fiorettidell'etichad'Aristotile del
primo libro; in finc: Qui finiscie el libro dodecimo ed ultimo delle
tichacompostoperlonobilefilosofoetsommo Aristotile.Amen. Cod. Ambrosiano J. 166
inf. Cartac., trascriz. rec. Il codice consta di più parti cucite insieme.
L'ultimo quaderno contiene l’Etica, il Segreto,e il volgarizzamento
dell'orazione pro Marcello. La trascrizione è fatta con molta probabilità su di
un codice antico, fedelmente. L'Etica è anepigrafa; in fine: Explicit Eth.
Ar.Manca ogni divisione della materia. Cod.Erbitense [Biblioteca Comunale di
Nicosia].Cartac.,trascriz.rec. Contiene il volgarizzam. toscano del de Amicitia
e il compendio dell'Etica, che manca del primo libro. Cod.Napolitano Nasion.XII.E.35
[= s]:Copia recente d'un ms. quattrocentino posseduto dalla biblioteca di casa
Bentivoglio. Contiene il trattato della fisimomia (sic), ch'è aggiunto in fine
come tredicesimo libro dell'Etica.Inc.: Dell'Eticha del sommo filosofo
AristotilelibriXIII;in fine: Qui son finiti i dodici libri dell'eticha del
sommo Aristotile. I CODICI DEL TESORO Cod.Ambrosiano G.75 Sup.(=
Amb.)membr.sec.XIV,aduecolonne, con rubriche fregiate e colorate; di cc. scr. 121.
L'Etica va da c.56a « In « cipit libro d'eticha Aristotile » a c.73a « Expicit
libro d'eticha Aristotile. « Incipit libro costumantie. L'ultimo capitolo con cui
si chiude il codice è: Come ilsignoredeestarearendereragione. Finisce(c.121a)«eprenderai
« commiato dal consellio e dal comune de la citta e te ne anderai a gloria dea
honore. Finiscelo libro di maestro Brunecto Latini da Fiorenza».
Cod.Ashburnhamiano 540 (= a)cartac.sec.XIV;anepigr.e mutilo, dicc. 138. L'Etica
finisceac.73t: Explicitelica Aristotilisa Magistro Taddeo in uulgare traslata.
Il resto del Tesoro si arresta a cc.88 (lib.VII, cap.27]; a c.90 è un capitolo
in terza rima di Dante: lo scrissi già d'amor pii uolte in rime,con una notizia
sull'occasione ch'ebbe il poeta di scriver quella poesia;a c.94 è una legienda
chome tre monaci andarono nel paradiso di lutiano. il qual e in terra...
Seguono altri scritti,tra cui un framm. del Fiore di filosofi. Cod.Gaddiano 83
(= €)cartac.sec.XIV,acef.e mut.; ilprimo foglio è aggiunto di mano diJacopo
Gaddi,dicc.147,sciupatodall'acqua.Ilcodice si chiude con l'Etica,ed ha questa
soscrizione: Finito el libro fatto e chon pulato per Maestro Brunetto Latino.
Il cod.come si vede da un'indicazione sulla guardia,apparteneva a'figliuoli di
« Giouanni di ser Andrea di Michele « Benci lanaiolo cittadino fiorentino ».
Cod.Laurenziano42.23(= )membr.sec.XIV,contitoliinrossoe le iniziali colorate, e
il ritratto del maestro, in principio, dipinto nell'atto che insegna; di cc.
142. Il testo è diviso in tre parti: dopo la prima è un indice della materia
precedente; un altro indice di tutta la rimanente m a teria trovasi alla fine
del codice. L'Etica va da c. 59! « Cominciamento del « segondo libro del Tesoro
lo quale e appella l'eticha che compuose Ari « slotile » a c.774 « Explicit
hetica Aristotilis a magistro Taddeo in uol. «gare
traslectata».Infinedelcod.:«Explicitlibroloqualefuecomposto per lo maestro
Brunetto Latino di fiorenza et poi traslectato di fran ciescho in latino (Bondi
pisano mi scrisse dio lo benedisse. Testario sopra nome, dio lo caui di gienoua
di prigione. et a llui et a li autri che ui sono e da dio abiano
benizione.Amen amen). La soscrizione è di mano dello stesso copista.
Cod.Laurenziano 90 Inf.46 (= d)cartac.sec.XIV exc.,aduecolonne; titoli in rosso
e iniziali colorate; di cc. 211. L'Etica va da c. 74+ (Qui co. mincia l'ectica
d'Aristotile et est la segonda parte del Tesoro) a c. 100a (Explicit l'etica
Aristotile in questo tanto che io noe trouata).In fine del codice: Qui fenisce
lo sourano libro-Explicit lo libro del Tresoro. Cod. Magliabechiano 2. 8. 36
(vecch. segn. 25. 258] secc. XIII-XIV: acefalo e mutilo di cc.91. Comincia al
lib.II, P. I,cap.19 efinisceal lib.III,P.II,cap.21. L'Etica finisceac.19a,senza
alcuna soscrizione. Tra il compimento della prima parte e il principio della
seconda (cc.44-75)sono della stessa mano alcune tavole planetarie e
astrologiche, tavole ad lunam et ad Pascham inveniandas etc. Proven.Strozzi.
Cod.Palatino585(= ^)cartac.sec.XIVexc.,dicc.214;miscell.Con tiene,oltre il
Tesoro,ilLibro di amaestramenti di costumi,le cinque chiari della
sapienza,iltrattatodelle quattro Virtù morali,lo libro di Chato. L'Etica va da
c.87+ [Qui chominciano le robriche del secondo libro
delTesoro,cioèd'etichad'Aristotile- epoi:Quisichomincialosecondo libro del
Tesoro e primamente dell'ecitta d'Aristotile) a c.115a [Explicit Etica
Aristotilis a Magistro Tadeo in vulgari traslatta ta deo grazias. Finisce il
Tesoro a c.175a.Al recto dell'ultima carta,dimano di poco po. steriore, si
legge « Questo libro è di Giuliano di Giouanni Quaratesi: chi llo « achatta,
piaccagli renderlo per l'amore di dio, e dalle lucerne e da' fan
«ciullilorighuardi».Com.iltestodel Tesoro: «Questo è lo librochessi «chiama
Texoro loqualeèchauato dalla bibbiaede'libridifilosofi a che ssono stati per li
tempi ». Cod.Riccardiano 2221 (= 2)membr.sec.XIV,di cc.127; iniziali co
lorateefregiate.L'Eticavadac.58'«Incipit libbro elichaAristotile» a
c.75'«Expicit libbrod'etichaAristotile».A c.1224:Qui finiscielo libro di mastro
bruneto Latini da fiorensa. Si nota una grande confusione nella distribuzione
della materia dell'Etica,prodotta dallo spostamento di varie parti.
Cod.Laurenziano 42. 19 (= P) membr.sec.XIV, a due colonne,con molte
miniature e iniziali colorate; di cc.93. L`Etica va da c.40a « Qui « comincia la
seconda parte del Tesoro di Burnetto Latino el quale libro e si chiama la
ethica d'Aristotile » a c. 51a « Qui finisce l'Eticha d'Ari a stotile ». = u.
membr. Cod.Casanatense1911(= )cart.sec.XV,dicc.130;anepigr.mutilo. L'Etica va
da c.33*(Qui chomincia il nobile libro che fecie il sauio Ari.
stotilefilosafocioèl'Eticasua)ac.45 (fincieillibrodel'etica). Inun'av.
vertenza apposta al codice stesso è notata la mancanza della parteche ri guarda
la Politica (lib.IX); vi si trova la teologia,divisa in due parti; com.: Voiuoresti
ch'ioviconfortassi l'animeuostremaio dubito fare ilchontrario.;(in questo
trattato si parla di dio,angeli,sacramenti, del l'anima).Nel fl.r.membr.della
guardia è un indice della materia che giunge sino alla natura del delfino (V
libro). Cod.Magliabechiano2.2.82(= n)cartac.sec.XV,dicc.111,mutilo; siarresta
al principio dell'Elica (cap.1): sièinutileinquestascienza. Inc.: Qui comincia
lo libro il quale fece ser Benedecto (sic) Latini di firense e parla della
nascienza di tutte le chose e ae nome il Tesoro. L'Etica ha questo tit.: Qui
comincia il sechondo libro del Tesoro facto per ser Brunetto latini di firenze
il quale parla dell'ethica di Aristotile. Si trovano in questo codice altri
volgarizzamenti da Seneca, Boezio, G e ronimo etc. Cod.Magliabechiano2.2.48(=
v)cartac.sec.XV,dicc.153,mutilo; e x p l. « Q u i d i c i e della Branchacio e
d i c h oncrusione ». I n c.: I n c o m i n c i a il Tesoro di ser Brunetto
Latini da Firenze conpilato in francescho. L'Etica va da c.60a [Qui parlla il
maestro della beatitudine.coe.parlla Aristotile sopra l'eticha] a c.81* [Qui
finisce il secondo libro di questo trattato di ser Brunetto Latini oue
brieuemente a trattato della beatitudine e delle uirttu sopra l’etica d’Arisstotile.
Al mar g. i n f. della prima pagina si legge il nome di un possessore: Concini.
I CODICI MUTILI DEL TESORO. Cod.Leopold.Gaddiano IV (= 0) membr.sec.XIV,a due
colonne,con la iniziale dorata e dentro essa l'effigie dell'autore; di cc.40.
Inc.: Qui in. chomincia el Tesoro di ser burnetto Latino di firenze. E parla
del na. scimento e de la natura di tutte le cose. Si arresta alle parole « allora
«uegnonolichacciatoriefanno»,cioè al penultimocapitolodellaprima parte (de
unicorno).Sul foglio di custodia in fine si legge il nome del possessore «
Liber mei Angeli Zenobii de gaddis de florentia ». Cod.Leopold. Gaddiano 26 (=
T)cartac.sec.XIV,a due colonne,di cc.88. Inc.: Questo libro si chiama il Tesoro
maggiore il quale fece maestro brunetto Latini di firenze, e tratta della bibia
e di filosofia e delle uecchie istorie ad amaestramento di choloro che
leggierano.Contiene tutta la prima parte e il prologo della seconda (c. 85): «
E poi uerra il prolagho apresso a questo dicha de l'eticha del grande sauio
Aristotole ». Cod.Laurenziano 42. 22 (= E)cartac.sec.XIV,di cc.165;titoli in
rosso e iniziali colorate, con l'effigie dell'autore in principio; mutilo.
Inc.: In nomine Domini Amen. Qui comincia lo libro del Thesoro maggiore, lo
quale libro fece maestro brunetto Latino di fiorenza. Questo primo libro
fauella del nascimento di tutte le cose di filosophia et di sue parti. Prologue
de la natura di tutte cose. Si arresta alla prima parte: « per « ragunare la
secunda parte di questo thesoro che dia essere da pietre pre «tiosecioecharbonchi
perlle diamanti».La lezione di questocodice in moltissimi punti si allontana da
quella comune delle stampe e dei codici, non solo per diversità di
espressioni,ma anche per copia e qualità di notizie. Cod.Laurenziano 42. 20 (=
B)membr.sec.XIV,a due colonne,col ri. tratto dell'autore in principio; titoli
in rosso e iniziali colorate, di cc. 112. Inc. « Questo libro e chiamato il
tesoro magiore il quale fece ser burnetto. « Latini di firenze il quale tratta
de la bibbia et di filosofia et del cho « minciamento del mondo e de
l'antichita de le uecchie istorie et de le a nature di tutte chose insomma ad
amaestramento e dottrina di molti. «Ed erechato di francescho in uolgare
apertamente».Comprende la prima parte e il prologo della seconda: Qui parla
alquanto d'eticha d'A ristotile.A c.112a è un elenco de're di Francia.
Cod.Laurensinno 42. 21 (= p) cartac.sec.XV,di cc.70. Inc.: Qui comincia il
libro del Tesoro il qual fe ser brunetto da fiorença e parla del nascimento di
tutte le cose.Contiene fino a tutto il libro V. Molte varianti.
Cod.Magliabech.VIII.1375 (= U)membr.sec.XIV.Anepigr.,acef., matilo, dicc.32,aduecolonne,con
le iniziali colorate.Proven.Strozzi. Comincia alla fine del cap. 9 ediz..
Romagn., Bologna)ne «elliuengnano. Etperciononaeinloropuntodifermeçça
ketuttecose ve tutte creature si muouono e si mutano in alimento percio dico
ken « questi tre tempi cioe li passati e li presenti e quelli ke sono a uenire
non a sono niente se del pensiero noe a chuelli souiene de le cose passate e in
« guarda la presente ed atente quelle ke deono uenire » etc.... sino a c. 41
(p. 94, ed. cit.) « e la reina non uolse aconsentire al matrimonio anzi la «
uolea donare ». Da questo punto ch'è evidentemente interrotto, per man. canza
di nesso con la pagina seguente,la distribuzione e l'entità della m a teria
sembra in gran parte diversa dalla comune del Tesoro. Riferiamo talune rubriche:
a c. 5a il cod. seguita « dira qui apresso Lamet frate di Comelore
Manfredi prega il p p c h e li concedess e il ren gno etc. etc. ». Seguita
quindi a dire di Manfredi e della battaglia di Benevento e di Carlo d'Angiò e
di Gianni da Procida e de'Vespri,lungamente.Vengono appresso altre narrazioni «
Come si lamenta il conte Giordano Cod.Palatino 483 (= Q)cartac.sec.XV,dicc.65.
Inc.:Quichomincia lo libro il quale fecie ser Benedetto Latini di firenze e
parlla della n a scienza di tutte le chose e a'l nome il Tesoro. Comprende la
prima parte e il prologo della seconda. Ne resta esclusa dunque l'Etica e il
resto del Tesoro. Insieme con questo codice si trova legato un altro, di mano
diversa, contenente iframmenti del Buouo d'Antona,in ga rima.
Cod.Riccardiano2196(= w)membr.sec.XV,aduecolonne,dicc.67. Si ferma al punto ove
parla del « modo di trovare l'acqua e delle cisterne » (lib. I I I?). È da
notare che ci troviamo di fronte a una lezione ben diversa dalla più comune.
CONCETTO MARCHESI. «Giosepoe figliuolodiJacobetc.... Come sicominciai
agioaltempo «diSaulediJerusalem– Loquintoagiosicominciaquandoigiudei
«eranoinpregione Danielf.gesseediSaul ·delgloriosoreSalomone «profetta de elias
deloredugidiTebas– dieliseusprofete. de « isaie profette de germie profette
etc. etc. ». A c. 9 abbiamo un cata logo di pontefici: segue la storia della
chiesa di Roma e di Costantino. Poi « Come franceschi perdero lo 'perio di lo
re imperadore di Roma « primo taliano di beringhieri come perdeo la sengnoria e
uenne amao «dotto di Sasogna Reame della mangna Arigho della mangna
«Comeloredifranciafusconfitto Comelo'peradorepreseliparlati «difrancia Come la chiesauacantidibuonipastoritradivalo'peradore
« tinuamente la natura lauora in tutte cose – »; seguono figure astrono
miche,della luna,del mappamondo. Finisce a c.32. « Dell'altra citta di uerso
nasce lo fiume di rodano e uassene dall'altra parte uerso borghon « Francia
diuide in « gnia e per proenza molto correndo e anzi che lli sia a mare si
«duepartiellamaggioreparteentrainmare presoadArlil'altrobraccio.». Qui si
arresta il codice. Come con KLII,p.1 74. THADDÆUS
FLORENTINUS. qua fortuna. Sunt quivelint ex humili prorsus loco, & infima
populi fæce.(6) Sed contra aliisvidetur editus exAiderotta gente,non patricia
illa & primaria;duplex enim fuit;sed altera,minus quidem nobili,fedhonefta
& liberali. (c) Alderottum certe patrem habuit, (d) & ex gente
Alderotta di ctus est a Scriptoribus. Fuere Thaddæi fratres Simon &
Bonaguida, homines obfcuri, quorum vix nomen ad nos pervenit. (e) Ac Thaddæum
quoque ip sum narrant non minimam ætatis partem non folum inglorie, sed
ignominiose etiam transegisse. Adeo enim ftupidum a natura fuiffe tradunt,ut
totis triginta annis n e c literas didicerit, nec honetto ulli artificio aprus
fit visus. Itaque v i ctitasse ajunt sordido & illiberali quæftu, occupatum
præ foribus sacelli S. Mi. chaelis in Horto vendendis minutis candelis, quas
ibi religionis causa accendi mos erat. Sed exactis triginta ætatis annis, quafi
ex veteri somno experre ctum, & dissipata cerebri caligine, incredibili
ardore excitatum ad literas, quarum discendarum ftudio Bononiam, adhuc rudem,
& vix in Grammatica eruditum convolasse ajunt. Sed hæc, quæ de Thaddæo
memoriæ tradidit Philip pus Villanius, quamquam & Florentinus, & non
indiligens scriptor, & ad m o d u m antiquus, aliquis in dubium revocat,
quod fabulis fimilia videan. tur; (f) qua de re integrum erit unicuique
judicium. IÌ. C u m igitur Bononiam venisset, ut optimarum artium ftudiis
animum excoleret, in quo omnes consentiunt, Philosophiæ totum, ac Medicinæ le
de dit. Incidit Thaddæi adventus ad fcholas noftras in illud tempus, cum M e d
i ca facultas, quæ antea ufu fere & exercitatione peritorum tota
continebatur, a Philosophis tractata, nova luce donari cæperat; fi tamen vetus
illa Arabum Philosophia, quæ tunc scholas invaserat,n o n ubique tenebras &
caliginem offundere poterat. Sed ita persuasum erat hominibus, atque hæc
potislima Thaddæi laus fuit, quod primus ex noftris Medicinam cum Philofophia
arctissi m o fædere conjunxisse visus sit. (g) Tentaverant id quidem ante
Thaddæum alii, (h) & erantin Academia noitra ante illum Phyficæ, five,ut
dicere ama bant,Phyficalis ientiædoctores,& professores, quifacem Thaddæo ipfiprætu.
lerant; nec dubito, quin eorum aliquem in scholis noftris audierit. Sed ille
unus plus operæ contulit inftaurandis Medicina ftudiis ad ejus fæculi guftum, q
u a m fuperiores omnes. Extant adhuc ampla ejus commentaria in libros vete rum
Magiftrorum artis Medicæ, partim typis edita, partim manu exarata in
locupletiorum bibliothecarum pluteis, quæ primum inter docendum in scholis
nusprotulitexlibroHH.p.338.Excerpt.Scriptur. (c) Annotaz. del Dot. Ant. M.
Biscioni al Conventus S Crucis Flor. Vid. Ci.Mazuccbel,in Conv. di Dante. In
Firenze 1723. p. 68. XVI. "Haddæus Florentiæ natus eft paulo post
initium sæculi XIII.,(a) incertum THE, Nnn 2 (a) Obiit anno MCCXCV., ut infra
dice- teringum & c. Presentibus Mag. Salveto de tur.Cum igitur,Philippo
genarius decesserit, natum oportet Villavio auctore, octo annoMCCXV. Com.Bonon.
Ferraria & M a g. Santo de Cesena. Ex Mem. ab (b ) Pbilip. Villan, in lib.
de laut.Florent. in Append. N. XII. (e)Ex tabulisanni MCCLI.,quas Biscio.Ci.
Mazuccbel. loc.cit. Jul.Mag.Thaddeus professor artis Medicine (g)
Vid.Jo.Antr.Vunjted defair.viror. fil. qnd.d n.Alderotti de Florentia fecit
Joan. illuftr. p. 312. & c. n e m dn. Anglonis fuum procuratorem ad re
Petri Hispani, cipiendam pacem & remifsionem a Loteren.
Ro.Pontifexrenunciatus,di&tusifJeannesXXI., go qui dicitur Rigutius & a
Bonino fuo fi commentaria babemus in librum Ifaac Medici,quae lio & ab
omnibus & fingulis aliis de consan- Jubtilitatibus dialecticis abundant.
Ilm in hipo guinitate ipsorum... de omni injuria, & pucratem w Arijtotelem
scripufe dicitur; nec du offenfione que dicebatur eise facta per M a g. bito,
quin bæc fcripta aliquanto ante Tbs.ddæi Thaddeum vel B.naguidam fuum fratrem
commentaria prolierint. Sed quantum bæc illis vel per aliquem de
contanguinitate ipforum præjliterint, doctorum hominum judiciun postea vel q u
æ diceretur eise facts p e r predictos L o vlendit. Tbadilæo Allerotto,
ab eo tradita, m o x ab auditoribus excepta, incredibilem ei famam
concilia runt. Id autem in eo potissimum mirabantur homines, quod ita Medicinam
tractaret, ut ejus facultatis canones & præcepta ad severioris Philofophiæ
ratio nes exigeret; quod nemo ante illum magno fuccefsu perfecerat. III. In
hunc m o d u m recepta eft in scholis noftris vetus illa Medicina Philosophica,
fi ita appellare licet, quæ brevi tempore omnes Europæ Acade. mias pervafit,
& innumeros Scriptores tulit. Hinc agmen interpretum in Hip pocratem, &
Galenum, atque Avicennæ in primis, aliosque veterum Medico rum libros, Thaddæo
duce; cui non satis ad laudem fuit interpretem dici,sed plufquum interpres a
quibufdam dici amavit, (a) & ut alter Hippocrates apud Italos habitus eft. (b)
Ejus autem gloffæ, præcipuis Medicinæ libris adjectæ, in scholis communi
suffragio receptæ sunt, & pro ordinariis, ut dicere folebant, longo tempore
habitæ eodem loco fuerunt apud Medicinx Itudiofos, atque Ac curtianæ gloffæ
legum libris appofitæ apud Juris Civilis professores. Magister etiam Medicorum
jure di&us eft, (c) ob excellentium Medicorum copiam, qui ex ejus fchola
prodierunt. Tanta denique ejus nominis fama, & inre Medica celebritas fuit,
ut perinde esset in usu popularis fermonis Thaddæum fequi, (d) ac Medicinam
profiteri. IV. Docere cæpit Thaddæus circiter annum M C C L X., aut non multo
fe rius; eodemque tempore scribendo vacabat, neque operam fuam curandis V.Cum
igituræquefelixincurandisægrotis,acdoctusinscholareputa retur, non folum in
civitate noftra Medicinam fecit, sed paflim vocabatur ad curandos magnates,
& viros principes per alias Italiæ civitates. Hinc aliquis de illo
magnifice potius, quam verescriptum reliquit, non confuevisse illum aliis, quam
principibus, & nobiliflimisviris curandis operam præftare. Sed il lud tamen
indubium eft, non fivisse aliò fe abduci ad curandum quemquam, nifi pacta
ingenti mercede, quæ non tam efiet pro loci diftantia, aut difficul tate
curationis, q u a m pro fui dignitate, & facultatibus eorum, ad quos CU
randos vocaretur. Neque far erat de mercede pacisci: nam fibi quoque cau. t u m
volebat de itu & reditu, accepta ingentis pecuniæ sponsione pro fecurita:
te itineris·Dignæ sunt, quæ legantur, tabulæ an. scriptæ,cum Thaddæus Mutinam
iturus esset ad curandum Gerardum Rangonum. In iisRan goni procuratores T h a d
d æ o promittunt, fe facturos, ut liberum iter & expedi ium ad eam
civitatem habeat, fufcipientes in se omne periculum, & impen sam: quod si
pactis minime ftetiffent, promiserunt, fe eidem reftituturoster mille libras
bononinorum, quas depofiti loco a Thaddæo ipfo accepisse fate bantur. Similes
tabulas habemus anno MCCLXXXVIII.cum Mutinam rurfus ment. in Parad. Dantis C.
XII., dou a vellutela. 1189 1 468 MEDICINE ! (a) Ita appellati:r
aBenvenuto ImolenfiCum evo. apud Ercard. Corp. Histor. med. ævi col 1 1 lo
ibid. Sed qui plusquam Commentator a Pbi. qui revera opus fuum tum inscripsit,
is fuit Turrisanus Tbaddæi au ditor;de quo alibifermo erit. plufquam Commen M a
per amor della verace manna (6) Hic homo, cum penes Italos, ut al. fundature,
Paradisi C. XII, t e r Hipo c r a s h a b e r e t u r. P b i l i p. Villan. d e
L a u d. (e ) T b a l i l æ u s a d c a l c e m Commentar. ix A Florentiæ,five
de Cl. Florentin. (d) Non per lomondo, percuimo's'afo In picciol tempo gran
dortorli feo. Dant.Aligber. de S.Dominico Ord.Prædicator. tis defiderari
patiebatur. Docendi tamen, & scribendi laborem intermifit an
no,utopinor,MCCLXXIV.cum civilebellum,aLambertacciis,&Jere.
miensibusexcitatum, civitatemnoftram miserandum in modum conculit.(e)Sed ipfe
quoque fatetur,se aliquando a scribendo ceffasse ob quæstum, quem curan dis
ægrotis faciebat. (f) Atque hinc apparet, quæ fides habenda fit Philippo
Villanio, cum scribit, Thaddæum, fpreto lucro, fe totum interpretandis vete.
rum Magiftrorum libris dedille. (8 ) Fallitur etiam Villanius, cum scribit,
Thaddæum ftipendio publice conftituto Bononiæ docuiffe; nondum enim, eo vivente,Medicin
æ profefforibus ftipendia attributa fuerant. lippo Villanio, aliisque
Scriptoribus dictus et, fanna Diretro all'Ostiense et a Taldea (c!Eo anno
Mag.Thaddæus Medicorum magitter moritur. Ricobald. Compilat.Cbronolog.
pborismos Hippocrat. (f) bulm. (g ) Pbilip. Villan. loc. cit. ægro
evocaretur ad curandum Guidonem Guidonum. Utrasque in Appendice dabi mus.(a)
Sed quis credat, in his contractibus bona fide actum? Ego fraude caruisse non
arbitror. Facit, ut ita credam, infignis Odofredi locus, ad fraudes pertinens
Advocatorum sui temporis; qui cum immodicasmercedes præterjus falque pro suis
advocationibus & patrociniis extorquere vellent a clientibus eos adigebant
ad ftipendium, quali deberent ex causa mutui.(b) Eodem artificio usum arbitror
Thaddæum, quem ne obulum quidem verisimile eft_deposuisse apud Rangoni, &
Guidoni procuratores. Sed ego tamen existimo,Thaddæum, probum hominem &
pium, non ita immitem fuiffe, ut tam ingentes pecu-, nias exigeret ab iis, quos
curandos aggrederetur. Potius crediderim, hanc cau tionem voluiffe, ne jutta
mercede fraudaretur, & damna fibi æquo jure præfta rentur, quæ quacumque ex
causa pertulisset. V I. Vocatus aliquando ad curandum R o manum Pontificem,
negasse dici tur se iturum, nisi centum aurei nummi in dies fingulos
penderentur. Quod cum immodicum videretur iis, quibus negotium datum erat, ut
cum Thaddæo transigerent, neque ea de re conveniret; concessit tamen Pontifex,
grandem quantumvis pecuniam vitæ & incolumitati fuæ pofthabendam ratus. M o
x au. tem, cum arnice Thaddæum argueret, quod tam magno operam suam locaret,
ille admirationem fimulans; ego vero, inquit, multo magis obftupesco, cum
ceteri fere viri nobiles, & minores Principes quinquaginta & amplius
aureos nummos mihi in dies conferre soleant, tibi, qui maximus es Chriftianorum
Principum,grave visum esse,quod centum petierim.Sed Pontifex,ubi Thad dæi
ftudio optime convaluit, decem millia aureorum eidem rependi juffit, non tam ut
tantum virum pro dignitate fua, & ejus meritis remuneraretur, quam ut o m n
e m ab se averteret avaritiæ suspicionem. VII.Itanarrat PhilippusVillanius, (c)
qui tamen Pontificis nomen filet• Sed hunc fuisse Honorium IV. alii Scriptores
tradunt, & in primis Joannes Tortellius in libro de Medicina & Medicis
ad Simonem Romanum.(d) Sunt etiam qui hæc tribuant Petro Apono illuftri Medico,
de quo alio loco dice mus. Sedcredibilenon videtur,tum quiapotiormihiet
auctoritasPhilippi Villanii, & Joannis Tortellii, quam aliorum multo
recentiorum, qui hæc de Petro Apono scripserunt;tum quia Honorii IV.ætate
Petrus Aponus nondum ad tantam f a m a m pervenire potuerat, ut ad curandum
Pontificem accerseretur. Sunt qui immaniter augent pecuniam, q u a m Pontifex
recuperata valetudine Thaddæo numerari jusserit; nec desunt qui non minus, quam
ducenta millia aureorum accepisse dicant. Sed nimis multa mihi etiam videntur
pro iis t e m poribus vel ea decem millia, quæ Villanius omnium modeftiffimus
narrat. VIII. Thaddæus certe Medicinam faciens ad ingentes divitias
pervenit;nec facile est reperire plures ejus facultatis professores, qui
majores fint consecuti. Ejus autem commodis, & utilitatibus consuluit etiam
non uno modo Populus Bononiensis. Ei nimirum, & ejus hæredibus concessa eft
immunitas a vectiga libus, & remissio ab omni munere publico. Additum eft,
ut libere a quovis intra fines Agri Bononienfis prædia, & fundos emere
posset, quos vellet; m o d o ne ab exulibus & profcriptis. Itaque eum
voluerunt gaudere omnibus civium commodis,neque iis oneribus obnoxium effe,quæ
cives reipublicæ causa sustine re debebant. Ejus quoque discipulis eadem.
privilegia, & immunitates populi beneficio concessæ sunt,quibus gaudebant
ScholaresJuris Civilis & Canonici. Id autem, nominatim pro auditoribus M a
g. Thaddæi ftatutum, aliorum Medicina profefforum auditoribus communicatum est.
(e) Ita honor additus est Scholæ ad Simonem Romanum Medicum præftantif (b)
Dicit advocatus, fi promittis mihi fimum. Ex Cot. Vatican. aput Apostol. Zenun
milleaureosnominefalarii,nonteneris.Sed inDissert.Volpian.To.I.p.151.
faciasmihiunum inftrumentum,inquo con (e)Ex Stat. Pop. Bon.tineatur, quod tu
teneris mihi dare mille ex vel potius in quibus eji Rubri. causamutui. Odofred.inl.
Sifubfpecie.C.de cadeprivilegio Mag.Thaddeiductoris Fixi Polulando. (c) Pbilip,
Villan, loc. cit. ce & diicipulorum ejus. Vid.,dow
(d)Jo.TortelliusdeMedicina& MedicisMedi. Medicæ,quæ Thaddæi
potissimum opera magis aucta, & nobilitata,parigradu deinceps fuit cum
scholis Legum, & Canonum. X. Nescio quid molettiæ illi etiam intulisse
credo Clarellum quendam,ut opinor, Medicum, five quod ejus doctrinam impugnaret,
five quod medendi rationem carperet. Queritur de illo in Commentariis ad
Joannicii Ifago gen,(d) X I. Habere consuevit in familia sua Thaddæus Medicos
aliquot, quibus adjutoribus uteretur five in scholæ muneribus, five in
ægrotantium cura. Eo rum aliqua mentio eft in ejus teftamento, quod in
Appendice damus. Dome ftica quoque negotia, ne quid esset, quo a suis ftudiis
interpellaretur, per pro curatoresaliquando agere consuevit. Anno certe
MCCXCII. procuratorem suum conftituit Octavantem Florentinum, (g) affinitati
fibi conjunctum,eum, qui Jus Pontificium exeunte fæculo XIII. in scholis
noftris docuit;de quo fuo loco diximus. (c)Vit.Append.Pertinethocadannum
tisnominedñeAdelefuefilieipfiMag.Thad dum numero, quo luci altitudő indicatur.
dieXV.MajiMag. tia. bus dicitur Regalettus Bunaguide de Floren.Quamdiu vixit
priinum dignitatis locum tenuit interMedicinæ profef fores; ac multum ei quoque
tribuerunt professores aliarum disciplinarum. (a) Sed gravis offenfionis causa
ei aliquando fuit cum Bartholomæo Varignana,qui ex ejus schola, ut verisinile
eit,prodierat, & magiftro adhuc vivente ma gnopere celebraricceperat.
Receperat ille in Medicina erudiendos quofdam, qui ad Thaddæi fcholam ante
accesserant. Id ei magno crimini datum eft a Tnaddæo; ac fortasse erat contra
leges scholafticas,vel Academiæ noftræ mo rem. Neque vero aliter to'li
diffidium potuit,& sarciri injuria,qua affectum fe credebat Thaddæus, quam
ubi Varignana promisisset omnem pænam pora'em, & fpiritualem ultro
subiturum, q u a m in e u m ftatuissent Vicarius Ar. chidiaconi Bononienfis,
& aliquot doctores ex Collegio Magiftrorum, (b) arbi tri ad tam rem
delecti. (c) quæ cum scriberet, nondum, ut arbitror, id auctoritatis consecutus
erat, ut hujusmodi obtrectatoris importunitatem fortasse Thaddæus natura
suspiciofus, & ad inanes metus comparatus; quod,ni fallor, oftendunt etiam
tot capta de securitate itinerum, & ftipendiorum fuo r u m caurelæ, &
iterata fæpius testamenta, de quibus diximus. Id porro ex ejus corporis habitu,
& temperamento quid fuisse, pro certo habeo. Ipfe enim de se fatetur, fe
somnambulum fuil. fe, (e) & interdum ex alio loco dormientem fine fenfu
cecidiile. (f) ipfe (a) Vide tabulassocietatisinterMag.Gen Thaddeus doctor
Fixice fecitsuum procurato tilemdeCingulo,LouMagGuilielmumdeDeza
reminomnibusfuiscaufis&negotiisdn. ra fcriptas in Append. deo matrimonio
unite trescentas libras Pifa. (d) Finitus eft tractatus de febribus do norum in
forenis de duodecim.Pretereado m i n o Clarello, qui facit nos evigilare, &
tran firepermentemnoftramquidquidmalipo. brasejusdemmonete.ErMen.Con.Bonon.
test. Tbad. ir Isag. Joannic. c. 32. Fortale ad Otavantem, qui putea canonum
pro f e f. eundem pertinent, quæ babetad finem cap.36. Hoc eft, inquit, quod
dicit tallidicus, qui fa. tereaque Adelæ fratrem, intelligimus extabulis cit
omnia mala trautire per mentem noftram.scriptis inMem.Com.Bon.,
(e)Dequartoficprocedo:videtur,quod inquibuslegitur: Dn.OctavantedñiGuidalo homo
poflitdormiendo fentire, nam dorinien do movetur, ficut patet in furgentibus de
no. čte,quorumegofuiunus.Ibid. in. c.10. p.362. Guidalottipater jam indeabannoMCCLXVI.
(f) Ibid.Sed locus fortasse mendojus in pe Bunoniæ degebat, ex Mem. Com.Bonon.,inqui
a se avertere poffet. Sed erat accidere debebat, in quo insolens ali navit
eidem propter nuzias quinquaginta li. for fuit, Guirlalutti Florentini filium
fuiffe,propo cti de Florentia scolaris Bonon... emit dige. ftum... pretio
lib.L. bon. Regalettusautem tem XII. Thaddæus fere sexagenarius uxorem duxit
Ade lam Guidalotti Regaletti filiam,(h) Octavantis, quem ante nominavimus,fo
rorem, (i) ex eaque filiam suscepit Minam, quæ adhuc innupta erat, cum (b)
Magiftrorum collegium jure tunc dice O &avantem deFlorentiasuumcognatum.Ex
Mem, Com. Bonon. batur,nonautemMelicorum;quianonsolumMe (h) XV.Jan.Mag. dicinæ,fed
alia,um quoque artium liberalium pro fesjures complectebatur, ut ex ipfis hujus
controver Thaddeus artis Fixice professor fil. and. Alde rotti de Florentia
fuit confeffus habuiife a dño fæ actisapparet,quæinAppendiceexbibentur.
Guidalottoqnd.dňi Regalettide Florentiado. XIII, Teftamentum fæpius,
nec uno in loco Thaddaus fecit. Et quoniam perpetuo domicilium Bononiæ habuit,
cum aliò diverteret ad curandos magna tes, itinerum pericula reputans,
propterea teftamentum sæpius fecisse videtur. Sed omnium poftremum Bononiæ
condidit, quo cete ra omnia revocavit facta Bononiæ, (b) Florentiæ, Ferrariæ, R
o m æ, Mediola ni, Venetiis, & alibi. Pro anima fua, & ad pias causas
x. mille libras bonon. legavit: quæ immanis summa erat pro ætate illa, &
privati hominis facultati bus. Ex his bis mille quingentas libras impendi
voluit emendis prædiis pro pauperibus verecundis, quorum administrationem esse
voluit penes Fratres de Pocnitentia. Viger ad hanc diem ut cum maxime pium hoc
inftitutum,a pru dentissimis civibus adminiftratum in civitate noftra, quo
consulitur egettati h o neftorum civium, quibus oitiatim mendicare victum vel
natalium, vel ætatis, sexusve conditio fine pudore non finit. (c) Fratribus
Minoribus, penes quos sepeliri voluit, ubicumque ejus obitus contigisset, multa
legavit. Atque illud viri prudentiam m a x i m e demonftrat, quod præftari
voluit in perpetuum ali menta uni ex Fratribus ejus Ordinis qui Parisiis
Theologiæ studeret, fupra numerum eorum, qui ibidem facris ftudiis destinati
esse solerent. Jisdem Fra. tribus Minoribus Conventum erigi voluit, in quo
tresdecim Fratres ali possent. Viginti ex fuis scholaribus magis egentes ex
albo panno vestiri in die obitus sui mandavit, itemque familiares suos omnes
masculos, qui secum eo tempore futuri essent. Statuit etiam impensam funeris
fibi apud Fratres Minores cele brandi,& certam insuper summam, pro die
feptimo obitus sui, trigesimo, cen tefimo, & anniversario, erogandam in
Fratrum refectionem, ut iis diebus pro anima fua preces ad Deum funderent; qui
mos ab antiquissimis temporibus ad eam ætatem pervenerat. (a)Exliteris NicolaiIV.
In Codicediplom. quisibisuppetiasferrent,ubieffetopus,tumin docendo, tum in
medendo. (b) Etiam Bononiæ anno M C C L X X. for (e) Hanc Biscionius in
adnotat. ad Convi. talle, antequan iter aliquod susciperet, teflamen vium
Dantis Adolam vocat., sed in testamento tum fecerat, quod indicatum vidinius in
Memor. Autograpbo en Adela. mff. Biblioth. publ. Bonon. C o m. Bonon. ejus anni.
(f) Quia Fratribus Minoribus quidquam pof (c) Jam inde ab anno M C C L V I.
Uher- fidere non licebat, voluit ut medietas predicte tus facerdos Sanctæ
Catharinæ de Saragotia contingentis ipfi Opizo perveniat ad Dominas legaverat
X. corbes frumenti pauperibus vere cundis, ut ex ejus tejlamerto apud Fraires
Mi- cujus dicte Domine nores: ex quo apparet ejus pii inflituti anti pendere
pro necessitatibus Fratrum Minorum quitas. infirmorum fenum & forenfium.
Vide teftam. (d) Hos duos Medicos in schola fua, uti Thaddæi in Append.
credibile efl, eruditos, in sua familia babebat, & Sorores S. Clare
civitatis Florentie fructus & Sorores teneantur ex 1 mo N ipse
extremum obiit diem. Sed ante illud tempus filium genuerat ex illegiti mo
complexu.Hic patrisnomen geflit,& vulgo Thaddæolusdicebatur,cum que
Nicolaus IV.anno MCCXC.jure legitimorum nataliumdonavit.(a) XIV.De bibliotheca
sua in hunc modum ftatuit.Avicenna opera,quatuor voluminibus contenta, &
Galeni item, quæ totidem voluminibus comprehensa erant,Fratribus Minoribus ea
conditione legavit,ne ullo umquam tempore alie nari, diftrahive possent, aut e
Conventu ipfo exportari. Fratribus B. Marize Servis legavit Metaphysicam
Avicenna, Ethicam Aristotelis, & Sextum de N a turalibus Avicenna in majori
volumine. Magiftro Nicolao Faventino Glossas fuas omnes, quas scripserat in
veterum Medicorum libros, & Almanforem suum, & Magiftro Johanni
Affifinati (d) Serapionem suum,& Sextum de N a turalibus Avicennæ in minori
volumine, fi quidem uterque in familia sua esset tempore obitus sui. Adelæ (e)
uxori fuæ,præter aliquam pecuniæ summam, cu biculi sui supellectilem omnem
legavit,& veftes,& gemmas,exceptis dumta. xat valis aureis, &
argenteis, & usumfructum domus Florentiæ in via S. Cru cis,&
fundosinagroFlorentino.HæredesauteminftituitMinamfiliamsuam Thaddæolum filium
naturalem, & Opizum Bonaguidæ fratris sui filium; quibus, fi abfque filiis
masculis legitimis decessissent, Fratres Minores, (f) & pauperes verecundos
fubftituit. Nupfit hæc Thaddæi filia Dorgo Pulcio Florentino sum X
V. Obiit Thaddæus cum annos octoginta vixisset.(f) Fuit autem ejus mors
repentina, ut narrat Benvenutus Imolenlis, Dantis inter pres. Tumulatus eft
apud Fratres Minores, quos vivus magnopere dilexerat, & apud quos ægrotus
etiam aliquando sub extremum vitæfuæ tempus jacue
rat.(g)Sedejusfepulchrimagnifice extructi,& elegantis,quod eratprope januam
Ecclefiæ, propter recentiora ædificia ibidem excitata, nulla jam vefti. (d)
Manni degli antichi Sigilli To. XII. (b) Nicolaus V.annoMCDLIV.mandavit, pag. 117.
utHofpitaleS.AntoniiPatavini,quodFratresTer (e)AnnoMCCXCV.dieXX.Marzii Thad tii
Ordinis, five de Penitentia,ex bonis bæredita dæus erat in vivis, ut ex charta
societatis in riis Mag.Tbudlæi Bononiæ erexerant,indomum ter Mag.Gentilem
Cingulanum, g Mag. Gui. pro Sanétimonialibus Franciscanis, ex Monasterio
lielmum Dexarensem, quam in Append. danus.
FerrarienfiCorporisCbriflitra.lucendis,convertere. Af eodem annoaddiem XVII.Juliiinvivisef
tur.Sed r jijtentibusFratribus,res ita compofita eft de defiderat, ut ex bis
tabulis, quas indicavit infequentiannoperBifurionem Bononiæ Legatum,
CI.Montius:An.MCCXCV,dieXVII.Jul. ut iratres Ecclefiam S. Antonii, cu
aljacentes D. Ugolinus de Montezanico Dn. Novellonus ætes cum molicocenfuad
bufpitalitatemexercen Megloris de Florentia Dn. Amadeus Poete
damretinerent;fedbonareliqua,quæadeosex Dn.Frater Raynucciusqund. Deotaiuti com
bereditate Mag.7budlæi pervenerant, novo Par milfarii & executores
testamenti egregii vi tbenoni pro Sanctimonialibus Corporis Christi con ri&
discreti Mag. Thaddei and.Alderotti Aruendo attribuerentur:pero qui fuit de
Florentia artis Filice profetforis featumest,CatharinaVigria, quamnuncinSan. Fuerunt
confeffihabuiffeadñoBartholomeo clarum Virginum album relatam veneramur,
cum 472 MEDICINE mo genere nato.(a)Thaddæolus autem fivequod cælibem
vitam duxerit,five quod filios non genuerit, aut pofteritatis memoria apud nos
diu fuperftites non habuerit, certe nulla ejus superfuit. Sed opulenta M a g.
Thaddæi hæreditas non ita humanis cafibus subjecta fuit, ut nobiles ejus
reliquis non exiftant. Sanctillimum enim ad hanc diem civitatis noitræ
Monasterium Corporis Chrifti, & Collegium Puellarum S. Crucis ex bonis
hæreditariis M a g.Thaddæi initium legata insuper alia, q u æ legi poffunt in
tefta quali acceperunt. (b ) Mittimus mento ipso, quod in Appendice exhibemus.
(c) Unum addimus, quod maxi me memorandum videtur,aureosnempe florenos xv.in
annos fingulos legatos Zco Scansalti Pisado, quamdiu futurus effer in
Januensium carceribus, ex qui bus ubi eum liberari contigiffet, cc. libras
bonon. eidem perfolvi a suis hæredia bus mandavit. Nota est ex eorum tima
Pilanorum cum Januensibus rum vires miserandum in modum temporum scriptoribus
infelix pugna mari anno MCCLXXXIV. pugnata,qua Pisano XVIII. pax convenit. Tunc
bello capri, qui supererant, redditi funt, effæti prope enecti. Diligentissimus
Mannius jam, & tam longi carceris incommodis proftratæ funt. Magna corum
cædes fuit, abductus præfertim ex nobilioribus. N e atque ingens numerus in
captivitatem que ullis conditionibus adduci potuere victores, ut captivos
redderent. Ita enim confilium fuit sobolem invifæ primariis civibus detentis,
ne procreandis liberis dare operam poffent, fuccide. civitatis impedire, totque
fortissimis viris, ac re nervos civitatis, usque in illud tempus potentissimæ.
Itaque non ante annos Sigillum Universitatis Carceratorum Januæ detentorum
illustrat. Ex eorum numero erat Zeus Scanfalti, amicus, ut opinor, Thaddæi; qui
quam pronus effet ad ferendam miseris opem, cum ex hoc, tum ex fingulis fere
teftamenti sui capitibus liquet.Dn.Mina quondam Mag.Thaddei Corporis Cbrisi, W
Puellarum S. Crucis, quæ AlderottiuxorDorgiquondamDorgidePula
vidit,lowindicavitCi.Montius. cis.Ex tabulisan.MCCCI.inarcbiv.publ.Flo vent.
Inilicavit Cl. Biscion. loc. cit. (c ) Vide Append. gia > pauci supererant,
Ecclefiam S. Antonii, d adja centes æles, bonaque omnia ad eum locum perti deus
confeffus eft quod ipse emit quandam pe. tiam terre... Actum in loco Fratr.
Minor, ! Blanchi Cofe for. auri cccc, depofitos ab ipfo aliquot aliis
Monialibus ex Ferrariensi Monaste. Mag.Thaddeo & c.Ex Mem.Com.Bonon. rio in
nouum buc noftrum commigrantibus. Anno autem MDXCII. Fratres sertii Ordinis,qui
Pbilippus Villan. loc. cit. An. MCCXCIII.die... Mag.Thad
nentia,erigendoPuellarumpericlitantium domici in camara Ministri ubi
Mag.Thaddeus ja lio libere tradiderunt, quod in via S. M a m æ a cebat infirmus
prefentibus M a g. Bertolaccio, mæniffimo civitatis locu, non longe a
Monasterio Fratris Venture M a g Nicolao de Faventia
CorporisCbrijli,conjtructumest,a S.Crucisti. &c.ExMem.Com.Bonon. tulo
infignitum. H æ c ex monumentis Monialium gia supersunt. Minime
igitur audiendus eft Joannes Villanius, qui Thaddæi ob i t u m prot r a h i t a,
aut fi q u i s est alius, qui in aliud tempus referat. Paulo poft ejus mortem
dillidium ortum est inter Fratres Ter tii Ordinis, five de Pænitentia, &
Priorem fratrum Prædicatorum, ac G u a r dianum Fratrum Minorum in eligendis
pauperibus ad præfcriptum teftamenti ip fius M a g. Thaddæi. Sed litem o m n e
m fuftulit Dinus Mugellanus, clarus legum interpres, qui per illud tempus
Bononiæ docebat, cui utraque pars arbitrium dederat. X V. Possem hic plura
Scriptorum teftimonia de Thaddæo admodum ho norifica afferre; possem &
Scriptores multos emendare, multos supplere,qui de illo vel minus diligenter,
vel minus vere scripserunt; in quo numero sunt præsertim scriptores noftri
Alidofius, & Ghirardaccius. Sed hæc curabunt, qui magis otio abundant. Nunc
ejus scripta recensenda funt, quæ & multa fue. runt, & magno in pretio
habita. TH4DD=1SCRIPTA. Expositio in arduum Ipocratis volumen. Galenus
Aphorismos Hippocratis illuftri commentario exornavit. Thaddæus &
Hippocratis Aphorismos, & Galeni commentarium diligenter exposuit.Cum autem
in septem libros, fivepar ticulas Hippocratis volumen Aphorismorum diftributum
fit, Thaddæus fcrip. to tradidit expofitionem suam in sex priora capita, eamque
absolvit. Decimadie Septemb., utadejuscalcem adnotatum efttam in editis
exemplaribus, quam in manu exarato, quod vidi in bibliotheca, Collegii
Hispanorum Bononiæ. Eft autem hoc Thaddæi opus valde proli xum, cuiscribendo
non uno tempore insudavit. Sic enim ad ejus finem ait: I n his particulis
explanandis diversa fuerunt tempora. N a m cum efjorn in nono anno mei
regiminis (qui publice docebant regere tur) incepi gloffare Aphorismos a
principio. Et infpatiofex menfium glossa. v i primam, fecundam, tertiam, a
quartam particulas, a quintam usque ad illum Aphorismum: Mulieri menstrua fine
colore. Tunc autem fupersedi, convertens me ad glosas, quas fuper Tegni feceram,
completiores edendas; quas perfeci usque ad illud capitulum caufarum: A d
inventionem vero salu brium. Ibidem vero deftiti impeditus a guerra civitatis
Bononiæ, au lucrati va operatione distractus. Poft vero placuit mihi refumere,
ut complerem glof fas Aphorismorum, addendo ad eas, quas primo feceram. Et feci
additiones Super primam, Be fecundam, no quartam particulam. In tertia vero
particu la solum glossas veteres divis: Item in quinta particula super
veteribies glosis quas feceram primo nullam additionem feci. Incepi autem de
nova glosam in illo Aphorismo: Mulieri menftrua fine colore, ut dictum est.
Quod hic habetde Bononiensium bello,pertinerevideturad Lambertacciorum, &
Jeremienfium turbas, civitas noftra pæne d e solata eft. Cum autem nono anno
poftquam docere cæperat, ad inter pretandum Hippocratis Aphorismos le
contulerit, in eoque opere tempus aliquod impendere debuerit, & rursum eo
dimiffo, librum Tegni interpre tandum susceperit, & in eo verfatus fit,
quoad Bononiæ in otio quietus esse potuit; subductis rationibus apparet, non
multo poft annum M C C L X. debuisse illum publice docendi in scholis noftris
munus suscipere, imo ditavit hortulanum fuum. Vixit autem renze, noftro
cittadino, il quale fu s o m m o Fisiciano sopra tutti quelli de' Cristiani.
Je. scholas diceban 4. ооо annis Fuit Thaddæus medicus famosus, apud
Murat. Antiq. med. ævi To. I. col. 1262. conterraneus auctoris, Dantis qui le In
questo tempo morì in Bologna git& scripsitBononiæ& vocatuseitplus.
M.TaddeodettodaBologna,ma eradiFi. quam commentator.Et factus est ditiflimus,
& mortuus est morte repen Villan, ad an. MCCCIII. tina, & fepultus eft
Bononiæ ante portam (c) Extar Dini confilium,five fententia in Minorum in
pulchra & marmorea sepultu- arcbivo Fratr. Prædicat. Bonon. ra. Benvenut.
Imol. comment, in Purgat. Dantis Ad Ad septimam particulam
Aphorismorum quod attinet, Thaddæus perpetua in eam commentaria non reliquit,
sed monuit auditores suos, fi quis voluif fet ex ore docentis excerpere, quæ in
nenda in schola protulisset, fe deinde emendaturum, & utin ordinem re
digerentur curaturum. Sic enim inquit: immediate Icribere intendo. Sed fi quis
de meis auditoribus notare voluerit eas corrigam, o in petias redigi faciam.
Hæc autem verba fcripfi, ut si alicubi minus completa expositio reperiatur, non
adfcribatur ignorantiæ, fed potius novitati, a pigritiæ scriptoris. Sed Thaddæi
commentaria in septi m a m partem Aphorismorum nufpiam apparent, & ejus
loco circumferri solebat expofitio Alberti Zancarii, de q u o alio loco dicemus.
Expositio in divinum Hipocratis Pronosticorum volumen, A d cujus finem ita ada
notatum eft in editis exemplaribus. Explicit liber tertius yra ultimus Pro.
nofticorum Hipocratis fecundum antiquam translationem a Thaddæo Florentina
explanatus. Sed revera Thaddäus ipfe non unam translationem præ mani bus habuit,
fed faltem duas. Ad extrema vero capita, seu textus libri tertii nihil
adnotavit Thaddæus, aut certe nihil adnotatum reperio in edis tis exemplaribus;
manu enim scripta explorare non licuit. Thaddæi Florentini in præclarum regiminis
acutorum morborum Hipocratis volu men expositio. Hanc Thaddæus in proæmio
fatetur se maxime procudisse ut rem gratam faceret Bartholomæo Veronenfi, q u e
m fibi dilectiffimum vocat, & pollentis ingenii; aitque,non minimo fibi
adjumento fuisse ad id operis perficiendum. Non attigit Thaddæus, nisi tres
priores libros hujus operis, ratus fortasse, quartum non effe legitimum
Hippocratis færum,quod aliis visum erat, ut fatetur Galenus ipfe initio
commentariorum in hunc quartum librum de regimine acutorum. Suam porro
diligentiam oftendit Thaddæus in his commentariis exarandis, appellans ad
verfionem Græcam, ubi in ea, quæ ex Arabica facta erat, vitium suspicabatur.
(b) Atque hinc apparet, duplicem ejus libri interpretationem per illud tempus
in doctorum manibus verfatam fuisse, quarum altera ex Græca, altera ex Ara.
bica lingua ducta erat. In fubtiliffimum figogarum Johannicii libellum
expositio. E a m fic concludit Thad dæus: Scio tamen, quod de his obscure dixi,
Jed fellus f u m a deficit charta: misera excusatio, & vix fapienti homine
digna. Q u æ hactenus recensuimus Thaddæi opera in unum volumen redacta
Venetiis edita sunt per Lucam Antonium Junctam anno MDXXVII.curante Joan ne
Baptista Nicolino Sallodienfi, qui in epiftola nuncupatoria ad Aliobel. lum
Averoldum Polenfium Antiftitem, & Romani Pontificis Legatum ad Venetos,
impense Thaddæum laudat, illumque dicit, nonnisi ad lapsam Extat hic Thaddæi
liber in Codice Vaticano, (c) ejufque hæc eft æcono. mia. Initio agit de
corpore sano, ejusque, ut ita dicam, essentia, & va. riis sanitatis
gradibus; tum pergit in hunc m o d u m: Nota quod dicit Johan nicius, quod fi
unaquæque res naturalis propriam naturam jervaverit, facit fanitatem, fi vero
ipfam dimiferit, facit ægritudinem, vel neutralitatem, fta tum fcilicet, quo
necfanum eft, necægrum.Sequiturinhuncmodum usque ad finem libri: Nota quod
dicit Galenus; nota quod dicit Hipocras, Avicenna.Nota quod venæ non dicuntur
oriri ab epate quod oriantur ex ea dem materia v c. Nota differentiam
arteriarum ad venarum, originem nervorum W c. Nota quod partes totius capitis
funt quatuor B c. Inter has notationes, in quibus totus hic liber decurrit,
aliquas quæftiones interferit, (a) Ad text. X. lib. I. ita inquit: Alia quod
patet per translationem Græcam. Liba translatio non ponit hic nifi duos colores
& c. III. text. X. ea Aphorismorum particula expo Super feptima vero
particula nihil principum fanitatem recuperandam vocari consuevisse.
Auctoritates are definitiones fuper libro Tegni, quamplures utiles dubitationes.
uti (b) Unde dicendum quod litera Arabica, (c) Cod. Vatic. 1. 4445. ex qua
fumitur illa auctoritas, elt corrupta, 1 uti est illa: Quæritur hic
an dari poffit membrum, quod nec recipitur, nec tribuit. Nunquam editus eft hic
Thaddæi liber, quem ne ipse quidem au ctor satis elimatum cenfuit. Itaque
rurlus Artem parvam Galeni, sive li brum Tegni interpretandum suscepit. Habemus
hoc Thaddæi opus typis editum Neapoli cum hoc titulo: Commentaria in artem
parvam Galeni. NeapoliannoMDXXII.Horum initiofatetur,fepræmaturamaliamexpo
fitionem Artis parvæ edidisse,hisverbis: Atveroquoniamfuper eundem librum
expofitionem facere necessitas compulit præmaturam, in qua non ut expedit
Galeni instituta patefeci". Ideo e c. Magiftri Thaddæi conflia. In Codice
Vaticano (a) consilia Medica Thaddæi sunt centum quinquaginta sex.Minore
numero,imo perpauca,lirecte memi ni, funt in codice bibliothecæ Cæsenaris
Fratrum Minorum. Primum in utroque codice est de debilitate visus. Ultimum in
codice Vaticano eft de virtute Aquæ vitis. Docet in eo modum præparandi
alembicum cu. preum. Incipit: A d faciendam Aquam vitem, quæ alio nomine
dicitur aqua ardens. Eft unum ex his consiliis de minctu urinæ cum fanguine.
Incipit: Conqueftus est dn. Bartoločtus comes. Eft is Bartholottus comes Ripæ
Insulæ Suzariæ & Bardinæ, de quo plura diximus, ubi de Rolandino Passagerio
a r tis Notariæ doctore agebamus. Eft aliud Thaddæi confilium ad midtum f a n
guinis pro Duce Venetiarum. Aliud item de impedimento loquelæ propter mollitiem
linguæ. Incipit: C u r a comitis Bertholdi. In librum Galeni de crisi. Eft in
codice Vaticano. (b) Magiftri Thaddæi de Florentia quæftio de augmento. Eft in
codice Vatica Thaddæum artis Medicinæ in civitate Bononiæ doctorem. Eft in
codice bi. bliothecæ Eftenfis, tefte Muratorio. (d) Idem Italice extat,
scriptus in m o d u m epistolæ cuidam ex Neriis Florentinis. Incipit:
Imperciocchè la con dizione del corpo umano. (e) Extat etiam latine typis
editus Bononiæ anno MCDLXXVII.cum libelló Mag.Benedicti de Nurlia ejusdem
argumenti. N u m autem Italice scriptus fit libellus ifte ab auctore suo, an
latine, mihi non conftat. Italica tamen lingua, quæ tum nitefcere, & a
Scriptoribus nobilitari cceperat, delectatum constat Thaddæum, qui Ariftotelis
Ethicam in eam linguam vertit; quamquam hunc ejus laborem haud magnopere
laudandum exiftimarit Dantes in Convivio, ubi ait, velle se suum illum librum
Italica, five, ut ipfe inquit, vulgari lingua donare, ne ab alio quopiam
interprete vitietur, ut Ethicæ Ariftotelis contigit, quam Thad dæus Italicam
fecit.(f) Eum purgare nititur Biscionius,vitio vertens non tam Thaddæo, qui
Italicam ex Latina non bonam, quam veteri interpre ti,qui nihilo meliorem ex
Græca Latinam fecerat Ariftotelis Ethicam.(8) Sed vix quisquam probabit hanc
Biscionii defensionem. Id unum enim r e prehendit inThaddæo Dantes Aligherius,
quod Italicam interpretationem ejus libri non bonam dederit. Nihil autem
impedit, quominus librum aliquem, licet mendofiffimum, & maxime corruptum,
optime, quod ad nitorem verborum attinet, interpretari, & in aliam linguam
elegantissime quispiam convertere possit. Habuerat Thaddæus Aristotelis Ethicam
ex Thesauro Brunetti Latini, ut observat Laurentius Mehus, qui de his abun de
disserit in prolegomenis ad epiftolas Ambrofii Camaldulenfis, nuper Flo rentiæ
editas. (h ) no. (c) Libellus fanitatis conservandæ factus pay adinventus
per probiffimum v i r u m M a g. (f)E temendo,cheilvolgarenonfosse dato posto
per alcuno, che l'avelse laido fat. (g ) Ibidem: (h) Tv.I.pag. 156. 157.
Epift.Ambrof.Cam. to parere, come fece quegli, che tramutò il Ooo 2 (a) Cod.
Vatic. 2418. Expe latino dell'Etica, ciò fu Taddeo Ipocratita (c) Ibid. 4454.
provvidi di ponere lui, fidandomi di me più (d)
Murat.To.IX.Rer.Ital.Script.p.583. che d'un'altro.Convito di Dante.In Firenze
(e) Vid.Biscion.Annot.alConvitodi Dan (b) Ibid. 4451. te.loc.cit. 1723. p.68.
1 Experimenta Mag. Thaddæi probata ab ipfo. Hunc titulum habet
collectio ex. perimentorum Medicinalium Thaddæi in codice Vaticano. (a)
Incipit: Omnes herbee a radices quæ debent prius coqui, abluantur mundentur
Poit brevem præfationem, fire inftructionem, defcribere incipit p r i m u m
Syrupos varii generis. Receptio Syrupi majoris fecundum M. T. Syrupus Jor.
danus M. T. ad correctiones epatis aut fplenis @ c. Deinde describit electua
ria, inter quæ hæc confectio locum habet: Confectio qua utuntur magna tes in
curia Romana, vagy maxime convenit in æftate fanguinem mundificans, colera
fuaviter educitur. R. pulpæ Caffic fi. 16. 2. Tamarindorum 3. pe.
nidii.zuc.violati añş.x.Syrupi violati, Ġ.Mirrhæ s3 conficianturfive
dissolvantur cum tali fucco. X. Prunorum.ios feminum ordei mundi. lic quir. añ
i 2 cum ifta aqua decoquatur usque ad spissitudinem mellis. Dein pergit ad vina
medicata. In his ett Aqua vitis ad calculum M. B. ideft, M a. giftri
Bartholomæi de Varignana, ut opinor, medici celeberrimi, cujus infra mentionem
faciemus. Tum de oleis agitur, ibidemque describitur Tragea M. T. & Tragea
M. B., ideft, Magiftri Thaddæi, & Magiftri Bar. tholomæi. Pulveres fubinde
varii, & pilulæ, & unguenta describuntur, tum remedia quædam ad
peculiares morbos. N e c desunt fuperftitiofa quædam, & vanissima. Tale eft
illud: Ut homo poffit ire super ignem fine læfio. ne. Dicas ifta verba. ter in
nomine individuæ Trinitatis.Abyfon. Dalma. tiu, vel Magata, v e a s nudus.
Emplaftra quædam poft hæc describuntur: fed in hujus libri extremis partibus
vix ordo ullus apparet, ut conjicere liceat, aliena manu aliquid genuinis
Thaddæi experimentis additum; quo ex genere esse arbitror superftitiola illa,
quæ dixi. De Interioribus libri VI.a mag.Thaddæo correcti. Ita in codice
Vaticano.(b ) Thaddæus de Bononia de aquis, oleis, a vinis medicatis. Extat
inter codices mo locorecensuitejusCommentariainIpocratem,moxCommentariain
Avicennam; n a m neque in alia Hippocratis opera fcripfit Thaddæus, quam quæ
indicavimus, quæque vel iple Biscionius feorfim poftea enumerat; nec ulla in
Avicennam Commentaria scripsisse comperio.Addit tamen idem Biscionius
descriptionem pulveris mirabilis Mag.Thaddæi, quam re perit ad calcem libri M a
g. Aldobrandini. E g o alterius pulveris descriptio n e m in hunc m o d u m
reperi ad calcem Almansoris, ideft, libri Rasis in codice Vaticano. Recepta
quam mag.Taddeusreliquitpauperibus in te ftamento: R. Cinamomi eleli s Macis.
Croci aš 3 ij. Sene s fiat pul vis poftea R u s Tartari albi fubtilissime pulverizati,
a misce fimul. Dosis ejus eft; 3 ij cum brodio poteftconfici cum zuccaro ut
melius conserve tur. E u m d e m pulverem defcriptum vidi in codice bibliothecæ
Cælepatis Fratrum Minorum inter confilia Medica Mag. Thaddæi ad libri marginem
in hunc modum: Pulvis folutivusTaddei. R. Cinamomi:5. Macis.Cra ci añ 7. 3. 1.
Sene ad pondus predictorum. Fiat pulvis, cui potes addere de zuccaro albo vel
rubeo B eft delectabilior. DON 476 MEDICINE Thomæ Bodleii. (c) Auxit
immaniter Biscionius paucis verbis catalogum operum Thaddæi, dum pri (c) To. I.
mill. Angliæ. Cod. 2359. (d) Cod. Vatic.4425. Aderotti. Alderotti.
Keywords: le quattro cause. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Alderotti” – The
Swimming-Pool Library.
Grice ed Alessandro – Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza
(Roma). Filosofo italiano. Alessandro was a member of the Lizio, the friend and
teacher of Marco Licinio Crasso. According to Plutarco, Alessandro lived a very
modest life and showed a great indifference towards material possessions,
behaving more like a member of the Porch than the Lizio.
Grice ed Alessandro – Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza
(Roma). Alessandro was a philosopher of the Orto or Garden, and friend of
Plutarco. He may have been the same person as Tito Flavio Alessandro, a sophist
and father of another sophist, Tito Flavio Phoenix.
Grice ed Alessandro – Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza. Appio Alessandro was public official honoured as a
philosopher.
Grice ed Alessandro – Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza
(Roma). Tiberio Claudio Alessandro. All that is known of Alexander is a
funerary inscription found in Rome identifying him as a philosopher belonging
to The Porch.
Grice ed Alessandro – Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza
(Roma). Tiberio Giulio Alessandro. He is discussed by Filone, in connection th
problems concerning providence and the nature of animals. He pursued a career n
public and military life.
Grice ed Alessandro – Roma – filosofia italiana –
Luig Speranza
(Roma). Alessandro di Egea was a member of the Lizio and tutor to Nero for a
time. He wrote a commentary on the Categories of Aristotle.
Grice ed Alessandro – Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza
(Roma). Alessandro Polyhistor was taken as a slave to Rome, but later freed (or
escaped). He goes on to teach philosophy there.
Grice ed Alfieri –
LVCREZIO – filosofia italiana – Luigi Speranza (Parma). Filosofo. Grice:
“I like Alfieri; the enzo is vital – Vittorio alfieri has statues at Torino! V.
Enzo Alfieri dedicated his life to prove that Democritus was more of a poet
than a philosopher. ‘Indeed, I will go as far as to argue that he ain’t no
philosopher!’ Unfortunately, Abbagnano ignored him, and Lucrezio stayed in the
canon! Then Alfieri tried to study the idea of the ‘in-divisibile,’ the ‘atom’
and the ‘clinamen,’ and how Lucrezio was a good poet but a bad philosopher!”
-- Filosofo. - allievo diCroce. Nato a
Parma, visse la maggior parte della sua vita a Milano ove si laureò in
filosofia e insegnò storia della filosofia alla Bocconi, per poi continuarne
l'insegnamento presso l'Pavia. Allievo
di Piero Martinetti e di Benedetto Croce, di cui condivideva l'ideologia
liberale e il pensiero filosofico, ma anche gentiliano non ortodosso secondo la
definizione di Ugo Spirito, fu un oppositore del regime fascist che lo arrestò
una prima volta nell'aprile del 1928 quando a Milano scoppiò una bomba
all'ingresso della Fiera che fece sospettare che si trattasse di un fallito
attentato al Re. Alfieri fu incarcerato a San Vittore assieme a Ugo La Malfa,
Umberto Segre e Mario Vinciguerra. Fu liberato senza processo tre mesi dopo per
l'interessamento di Benedetto Croce che tramite Marinetti aveva fatto
intervenire Mussolini. Il secondo
arresto, per la scoperta di lettere ritenute compromettenti dalla censura
fascista, avvenne nel 1936. Alfieri fu scarcerato dopo quindici giorni per
l'intervento diretto di Gentile ma dovette lasciare entro due giorni
l'insegnamento a Modena e trasferirsi a Milano dove riuscì a sopravvivere
grazie all'aiuto di amici e di parenti che lo ospitarono. A Milano ottenne il primo incarico
universitario presso la facoltà di Lingue della Bocconi dove rimase per 13 anni
fino al suo trasferimento a Pavia per la docenza di storia della filosofia. Suoi amici, «maestri e testimoni di libertà»,
come lui stesso li definì, oltre a Croce, furono Giuseppe Prezzolini, Giuseppe
Lombardo Radice, Francesco Flora, Pilo Albertelli, il giovane professore ucciso
alle Fosse Ardeatine e, tra i più vicini e affezionati, Giovanni
Spadolini. Fortemente critico nei confronti
del movimento sessantottino e impegnato attivamente per le riforme della
scuola, Alfieri è stato il fondatore del "Movimento per la libertà e la
riforma dell'università italiana" e del "Comitato nazionale per la
difesa della scuola", e presidente dell'"Associazione amici
dell'Gerusalemme". Negli anni
1937-1938 collaborò alla rivista L'Italia che scrive che ancora in quel periodo
riusciva a mantenere una certa autonomia nei confronti del fascismo.
Monarchico, iscritto al Partito Liberale Italiano; nel dopoguerra si avvicinò
agli ambienti della destra, aderendo al Sindacato Libero Scrittori Italiani e
collaborando con la casa editrice di Giovanni Volpe e con la rivista Intervento
di Fausto Gianfranceschi. Negli anni '70 fu collaboratore culturale per la
filosofia de Il Giornale diretto da Indro Montanelli. Tra le sue opere di filosofia vanno annoverati
saggi sulla filosofia greca-romana antica, “La tristezza di Pindaro”;
“Lucrezio”; “Gli atomisti” e opere di estetica, L'estetica dall'Illuminismo al
Romanticismo. Ad Alfieri, oltre ad un suo epistolario con Croce, si devono due
libri di memorie autobiografiche (“Maestri e testimoni di libertà” e “Nel nobile
castello”) dove sono originalmente ritratti personaggi della vita culturale e
politica italiana da Croce a Scotti, da Jacini a Casati, a Flora. Antonio
Troiano, I 90 anni dell'ultimo allievo di Benedetto Croce, in Corriere della
Sera, 10 maggio 199648. Massimo Ferrari,
Piero Martinetti e Antonio Banfi, in Il Contributo italiano alla storia del
PensieroFilosofiaTreccani,. Alessandra
Tarquini, Gli sviluppi della scuola di Gentile: da Armando Carlini a Ugo
Spirito, in Croce e GentileTreccani,.
Andrea Mariuzzo, La Scuola Normale di Pisa negli anni Trenta, in Croce e
Gentile Treccani,. Marcello Veneziani,
68 pensieri sul '68: un trentennio di sessantottite visto da destra, Firenze,
Loggia de' Lanzi, 199846. Michele
d'Elia, Monarchici e partito, su Italia Reale.
Benedetto Croce, Vittorio Enzo Alfieri, Lettere, Milazzo, Edizioni Spes, Aldo Garosci, Nel
nobile castello, in Tempo presente, Forum in occasione del novantesimo
compleanno di Vittorio Enzo Alfieri, in Rendiconti, parte generale e atti
ufficiali, Maria Luisa Cicalese,
Vittorio Enzo Alfieri maestro di studi e di vita, in Nuova Antologia, Vittorio
Enzo Alfieri: maestro e testimone di libertà: atti del Convegno, Cremona, 22
novembre 1997, Cremona, Circolo Culturale Benedetto Croce, 1998. Margherita
ardi Parente, Vittorio Enzo Alfieri e il nobile castello, in Belfagor. Già
Vittorio Enzo Alfieri, nell’introduzione al breve primo scritto bembiano
incluso in una strenna dell’editore Sellerio, aveva colto una possibile
connessione ai dialoghi platonici più ‘letterari’, dove a proposito del piacere
ecfrastico del giovane scrittore per il podere di S. Maria del Non scriveva:
«Bembo si compiace a descrivere il luogo a lui caro, il fresco riparo dalla
calura estiva, il fiumicello, i pioppi piantati dal padre, il quale si stupisce
che nella piana verso le pendici dell’Etna vi siano platani, che gli fanno
forse risovvenire i platani d’Ilisso»321.L’intuizione diviene più 320 «Del
resto l’opera stessa prima del Bembo, il De Aetna, aveva richiamato a quei
molteplici interessi – spesso da e su testi greci – che avevano ispirato le
Castigationes Plinianae. E la stessa felice ambientazione del dialogo già di
per sé dilata i confini dell’oggetto esegetico e rilancia tutte le più vitali
istanze di plenitudo culturale, di renovatio che il Barbaro stesso (e il
Poliziano per suo conto) aveva indicato tra gli scopi della propria lezione
(Mazzacurati). Sono una plenitudo e una renovatio che si muovono anche da
quell’indirizzo filosofico e umanistico insieme che era stato così
caratteristicamente veneziano, dal Barbaro a Giorgio Valla: nella ripresa di un
tutto autentico Aristotele che Aldo aveva consacrato con la sua monumentale
edizione delle opere aristoteliche (1495-1498) ispirata alla lezione di Ermolao
e dedicata a Alberto Pio. Proprio sulla base della retorica e della poetica
aristoteliche, ripresentate come esemplari dopo secoli e secoli sulla laguna,
poteva svilupparsi anche la filologia più nuova del Bembo, tutta fondata sul
concetto di creazione artistica, non come furor o inventio platoniche, ma come
imitatio naturae e su una considerazione critica nuova della lingua», Branca,
La sapienza civile, c Bembo Pietro. De Aetna: il testo di Pietro Bembo tradotto
e presentato da Vittorio Enzo Alfieri, note di M. Carapezza e L. Sciascia
(Palermo: Sellerio) concreta se posta a confronto con un altro testimone
contemporaneo di Bembo, Gregorio Giglio Giraldi. Questi infatti nella sua
lettera introduttiva a Renata di Francia alla Historia Poetarum tam Graecorum
quam Latinorum, su uno sfondo tutto boccacciano -- l’occasione della peste e la
conseguente riunione di una piccola brigada (il puer Pico della Mirandola e B.
Piso) --, così si esprimeva nel presentare la cornice diegetica del trattato:
L'Alfieri, critico verso la cecità dell'eruditismo dei vecchi filologi che si
affannavano a congetturare e spostare, sminuzzare e riattaccare i luoghi del
poema lucreziano, sintetizza ancora: “Il canto del sonno e dei sogni si
riattacca a quei canti precedenti, ai canti delle illusioni, e apre la via ai
versi contro la più terribile delle illusioni: contro l'amore. Ecco come viene
il sonno: una parte dell'anima è dispersa fuori, una parte si è raccolta nel
profondo della sua sede, e le membra si sciolgono, e manca il senso, perché il
senso è opera dell'anima; ma il senso non manca interamente, perché, se no, non
si potrebbe riaccendere mai più e sarebbe la morte. La causa del sonno è la
continua perdita di atomi da parte del corpo, perdita che avviene specialmente
per le incessanti percosse degli atomi aerei; e questi versi sono bellissimi,
nella narrazione dell'inavvertito conflitto, eppoi (vv. 950-953 ) nella
rappresentazione della sonnolenza, con versi rotti e con un verso finale di
grande dolcezza: ' poplitesque cubanti / saepe tamen summittuntur virisque
resolvunt, ' ' e quel che dorme si sente scioglier le ginocchia e venir meno
tutte le forze'. E il sonno segue al cibo e alla stanchezza, perché allora è
avvenuto un tanto più grave turbamento di atomi in noi. Qui passiamo alle
illusioni. Ognuno si sogna quello che è la sua occupazione del giorno: gli
avvocati sognano di trattar cause, il generale di guidare eserciti alla guerra,
il marinaio di lottare coi venti, Lucrezio d'essere sveglio a scrivere il 'De
rerum natura'. Ed ecco quelli che si sognano i pubblici spettacoli, dopo
essersene storditi per tanti giorni; i cavalli, che sognano le corse; i cani,
che sognano la caccia e fiutano in aria ve si agitano; gli uccelli si sognano
di sfuggire ai falchi. Così gli uomini: sanguinosi e paurosi sogni di re, sogni
terrificanti di uomini che si credono alle prese con pantere e leoni, e gente
che parla dormendo e svela tutti i propri segreti, e gente che immagina di
morire o di precipitare da alti monti, e gente che ha sete e si sogna di essere
presso un fiume e di bere infinitamente”. E' come se all'interno
di un'argomentazione piana, di un'espressione variata, di un vocabolo già abusato,
di un ritmo additivo irrompessero sistematicamente una rivendicazione
terminologica, un elemento imprevisto, un segnale indecifrabile,
un'interruzione del ritmo, un vestigio ad investigare. Non cessano infatti di
stupire, per vistosità e normatività, un'accelerazione espressiva e un
turbamento linguistico, i quali tuttavia, anziché disperdersi in una sorta di
dadaismo originario o di impazzire nel gioco retorico, concorrono al prima e al
poi della dimostrazione, alla proporzione del dettato, alla simmetria e
regolarità del verso. Essi stessi riducibili a struttura, più simile ora ad un
reticolo cristallino, ora ad una tavola aritmetica, ora ad un ordinamento
geometrico. Questa compresenza dell'uno e del molteplice, del medesimo e del
diverso, del codificato e del nuovo -- responsabilità morale di annunciare un
nuovo mondo. Linguistica, che porta alla preoccupazione dell'iso-morfismo, al
voler far combaciare vocabolo e oggetto segnato ↔ segnante ordine linguistico ↔
ordine cosmico. La eversibilità e convertibilità di ordine fisiologico o
naturale, e di ordine “filologico” -- verbale. Anzi, la fisiologia irrelata e
caotica sembra comporsi e prendere forma in un divenire “caosmico” proprio
grazie alla filologia, la quale *ordina* sintammaticamente il molteplice -- il
complesso nel semplice, nel semplicissimo (atomon, indivisum), domina il caos,
resiste alla morte ed all'amore, e, anziché immaginare o assecondare
l'esistente, lo ferma e se ne appropria. A ut noscas referre earum primordia
rerum cum quibus et quali positura contineantur et quos inter se dent motus
accipiantque, quin etiam refert nostris in versibus ipsis cum quibus et quali
sint ordine quaeque locata. Namque eadem caelum mare terras flumina solem
SIGNIFICANT, eadem fruges arbusta animantis. Si non omnia sunt, at multo maxima
pars est consimilis. Verum positura discrepitant res. Sic ipsis in rebus item
iam materiai intervalla vias conexus pondera plagas concursus motus ordo
positura figurae cum permutantur, mutari res quoque debent. Atque eadem magni
refert primordia saepe cum quibus et quali positura contineantur et quos inter
se dent motus accipiantque. Namque eadem caelum mare terras flumina solem
constituunt, eadem fruges arbusta animantis, verum aliis alioque modo commixta
moventur. quin etiam passim nostris in versibus ipsis multa elementa vides
multis communia verbis, cum tamen inter se versus ac verba necessest confiteare
et re et sonitu distare sonanti. tantum elementa queunt permutato ordine solo;
at rerum quae sunt primordia, plura adhibere possunt unde queant variae res
quaeque creari. Analogia tra formazione di "verba" et versus e
formazione res, espressa dagli eadem e dal parallelismo tra
"significant" e constituunt resa esplicita nella spiegazione della
paronomasia ignis/lignum iamne videas eadem paulo inter se mutata creare gnis
et lignum? Quo pacto verba quoque ipsa inter se paulo mutatis sunt
elementis, cum ligna atque ignis DISTINCTA VOCE NOTEMUS. Costituenti minimi
semantica (parola, sillaba, articolazione, prima articolazione, seconda
articolazione, terza articolazione) ↔ natura (radice -- atomo - molecula).
Reversibilità dei co-efficienti dei costituenti minimi, positura, motus, ordo,
che già nella metafisica aristotelica -- dell'aristotele perduto -- erano
indicati come le sole e tutte differenze che possono presentare tra loro le
lettere. Circolarità tra realtà fisica e linguistica con successione
intrecciata delle argomentazioni nei due passi elemento -- ELEMENTUM (gr.
stoicheion) è costituente originario sia di alfabeto che natura, secondo
Democrito e Leucippo, fonte Metafisica, Aristotele. Lo stoicismo, nella sua
lotta contro l'epicureismo, sostiene la legge finalistica del Logos come vera
unica legge che indirizza la scrittura delle opere e la formazione delle cose.
Platone sostene l'esperienza letteraria come micro-cosmo produttori del reale.
Concurcus motus ordo positura figurae. Sono documentati come 'produttori' del
'reale' (res, rerum) in Leucippo, Democrito (dalla Metafisica) ed Epicuro e
sono gli esatti sinonimi latini dei termini greci (individuum, atomon;
elementum, stoicheion, simple, simplice, simplicissimum. Il verso è
straordinario, dal punto di vista ritmico, tutto spondaico, e semantico,
essendo costituito da soli sostantivi elencati a-sindeticamente, e culminante
dal punto di vista fonico su ordo, quasi palindromo, appena bi-sillabo. Un
verso icastico, che riprende i termini già esposti ma in ordine sparso e vi
associa figurae, termine con una doppia valenza (ma monosemia) materiale e
linguistica. Numerose testimonianze nei testi grammaticali latini fanno
emergere la perfetta corrispondenza della terminologia atomistica e
linguistica, in quanto tutti i term9ni "concurcus",
"motus", "ordo" et "positura" sono specificamente
grammaticali. motus concursus gramm: fenomeni fonetici: sinalefe (contrazione
in un'unica sillaba di due vocali, solitamente dittonghi), sineresi
(contrazione in un'unica sillaba della vocale terminante di una parola e di
quella iniziale della successiva), iato (incontro di vocali forti successive).
Il “distaccamento”, l'”accostamento”, il “mutamento” degli atomi convertono la
natura delle cose nello stesso modo in cui l'”omissione”, l'”aggiunta”, il
“mutamento” delle lettere convertono l'identità delle parole. Il modello
grammaticale sembra in ogni caso essere preminente e fungere da paragonante per
scoprire e chiarificare i meccanismi del mondo atomico, “ex apertis in
obscura”, per rendere più semplice il passaggio dall'esperienza sensibile della
littera scritta all'invisibilità degli infinitesimi atomi, elementa. Gramm:
flessione (verbo) music: ritmo retor: figura retorica ut potius multis
communia corpora rebus multa putes esse, ut verbis elementa videmus.
L'assimilazione tra verba et res fornisce una giustificazione e funzione della
poesia, nonché annulla il divario tra poesia e filosofia, aprendo la strada
della ben più successiva divulgazione scientifica. E' convinzione epicurea
quella dell'iso-morfismo tra parole e cose, e tale risulta nella costituzione
del poema intero, costruito come un cosmo vero e proprio. La valorizzazione di
ogni singola parola, la sua attenta scelta si riflette in un innalzamento a
materia poetabile delle realtà anche più umili, come “minerali, piante, fiumi,
cielo, mare, terra, fiere, uomini”. Si crea così una democrazia linguistica
ante litteram, lontana dal buonismo religioso, spesso degradato in ipocrisia, o
dagli esperimenti novecenteschi degl'atomismo logico di Russell, che demolendo
la sintassi o creando l'enumerazione caotica volevano demolire la società borghese
e capitalistica e criticare la massificazione elevando ogni singola parola, pur
immersa nella sua massa uniformemente bianca e nera che è il testo. Vittorio Enzo Alfieri.
Alfieri. Keywords: Lucrezio, l’implicatura di Lucrezio, la folla di Lucrezio,
Croce, filosofia romana. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Alfieri” – The
Swimming-Pool Library.
Grice ed Alfonso –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Santa Severina). Filosofo
italiano. Grice: “I like Alfonso – no, he ain’t a Spaniard; the surname was pretty
popular in Southern Italy after the roaming of the Spaniards! And it’s
ultimately barbaric, that is, Goth!” “Typically, for a philosopher, a
professional one, I mean, he started with logic for teenagers (il ginnasio ed
il liceo), but with a twist – he called his lectures (his ancestor may testify)
‘logica reale,’ or colloquenza reale – and he tried to criticse “il Vera,” who
had written “Il problema dell’assoluto.” “Like me, he has an interest in S is P
and S is not P (questo uomo no est sensibile). His first utterance is actually,
NOT ‘the fat cat sat on the mat, and as he sat on the mat, he saw a rat” – but
the rather naïf ‘il sole e luminoso.’ He gives two other examples, which are
easy to detect, since he does not use quotes but ITALICS!: “questo corpo est
rotondo” and “questa pianta fiorisce.” His idea, like mine, or Peacocke’s,, or
Speranza, is that that is pretty much enough to deal with the most serious
problems in philosophy: the judicatum, and its component Concetto 1 e Concetto
2 – “Questa pianta fiorisce’” -- Un temperamento di spirito positivo e di
evoluzionismo idealistico, che attesta l’origine del suo metodo e la serietà
dei suoi studi, ma che dimostra pure quanto egli si sia discostato
dall’indirizzo del Vera e dello Spaventa per accostarsi a quella che fu
chiamata la sinistra hegeliana» (Luigi Ferri). Filosofo. Autore di 67
pubblicazioni scientifiche e di numerosi articoli su riviste letterarie e
quotidiani, alcuni dei quali sulla Calabria e sui personaggi delle tragedie di
William Shakespeare, che gli fecero guadagnare l’attenzione internazionale per
l’approccio singolare alle opere del grande drammaturgo inglese. Nato
a Santa Severina il 17 agosto 1853 da una famiglia di proprietari terrieri,
molto giovane si dedicò all'approfondimento delle Sacre Scritture, grazie ai
due fratelli del padre, don Michele e don Francesco d'Alfonso, entrambi
canonici del Capitolo metropolitano della Cattedrale; questi studi, parte dei
quali furono pubblicati con il titolo “Le donne dei Vangeli” (Firenze,
Successori Le Monnier), manifestano un approccio *positivista* sull'analisi del
testo biblico. Terminati gli studi nel suo paese natale si trasferì a
Catanzaro, dove fu allievo del letterato e patriota rocchitano Vincenzo
Gallo-Arcuri. Frequenta poi il Liceo Ginnasio "Pasquale Galluppi",
conseguendo la licenza ginnasiale. Ottenne in seguito la licenza liceale con
lode al Liceo classico del Convitto nazionale "Vittorio Emanuele II"
di Napoli, che gli fece valere, su concessione del Ministero della Pubblica
Istruzione, la possibilità di iscriversi contemporaneamente alle facoltà di
Medicina e di Lettere e Filosofia presso la Regia Napoli. Alla facoltà di
Filosofia, dove, allievo di Sanctis, Vera e Spaventa, ottenne vari riconoscimenti.
Conseguì entrambe le lauree in Medicina e Chirurgia e Filosofia, a soli tre
mesi di distanza l'una dall'altra. I Lincei gli assegono il Premio Reale per le
Scienze filosofiche e morali, consistente in 4.000 lire, per lo studio dal
titolo “Kant. I suoi antecessori e i suoi successori”. Su espressa volontà del
padre fece ritorno a Santa Severina, dove esercita la professione di medico
condotto. Ma la passione per la filosofia e l'insegnamento prevalse e partecipò
ai concorsi a cattedra per i licei, iniziando a insegnare Filosofia in Sicilia
(Caltanissetta, Messina e Catania). Da questa esperienza di insegnamento
cominciarono ad evidenziarsi sempre di più le sue qualità didattiche, tant'è
che il ministro della Pubblica Istruzione Paolo Boselli lo convocò a Roma per
affidargli la cattedra di Filosofia nei licei della Capitale: prima al Liceo
Ginnasio "Umberto I" (dove insegnò dal 1889 al 1909) e poi
al Liceo "Ennio Quirino Visconti". Nello stesso periodo cominciò
a collaborare con le più importanti riviste letterarie, tra cui il Nuovo
Convito, la Rivista d’Italia, la Rivista moderna politica e letteraria, la
Rivista italiana di filosofia, la Nuova Antologia, L’Educazione, la Rivista
italiana di Sociologia, la Rivista di filosofia e scienze affini e con diversi
quotidiani, tra cui L'Osservatore Romano. Nel 1890 fu chiamato dal
ministro della Pubblica Istruzione Paolo Boselli ad insegnare Pedagogia e
Filosofia all'Istituto Superiore Femminile di Magistero, dove, in seguito a
concorso, divenne Professore dal 1903 al 1923. Ebbe come colleghi Luigi
Pirandello, Maria Montessori e Luigi Capuana. Durante i trantaquattro anni di
insegnamento al Magistero, fu relatore di oltre trecento tesi. Per il
Dizionario illustrato di Pedagogia, curato da Luigi Credaro e Antonio
Martinazzoli, redasse la voce Istituti Superiori femminili di Magistero. Dal
1896 fu anche libero docente di Filosofia teoretica alla Regia Roma, dove
insegnò ininterrottamente fino al 1933, anno della sua morte.
All'insegnamento affiancò sempre una prolifica attività di scrittore,
pubblicando complessivamente sessantatré opere, recensite in Italia e
all'estero, che spaziano dai temi dell'educazione e della morale all'economia
politica, dagli studi sull'ambiente e sulle foreste all'analisi criminologica
dei personaggi shakespeariani. Il suo Sommario delle lezioni di pedagogia
generale (Loescher) fu giudicato dalla Reale Accademia dei Lincei «frutto
d'amorosa meditazione e di mente abituata alla ricerca e alla costruzione
filosofica, che esce dai confini degli ordinari trattati di pedagogia per
elevarsi ad una sintesi mentale superiore». Tenne la prolusione
all'Universal Congress of Races di Londra, che fu poi pubblicata col titolo “Speculative
psichology and the unity of races” (E. Loescher & Co), e fu membro del VI
Congrès international du progrès religieux a Parigi. Fu consulente medico della
Real Casa d'Italia durante il regno di Umberto I e del Palazzo Apostolico
Vaticano sotto il pontificato di Benedetto XV. Mai volle aderire ad
alcuna corrente filosofica e politica, e fu fortemente avversato dal ministro
della Pubblica Istruzione Gentile,che decise di mandarlo anzitempo in pensione
con un provvedimento ad personam. Si tratta del Regio Decreto all'interno della
Riforma Gentile, che anticipa, per i soli professori del Magistero, il
collocamento a riposo al compimento del settantesimo anno anziché al
settantacinquesimo, come per gli altri docenti universitari. Il suo posto fu
immediatamente occupato da Radice, amico di Gentile. Anche Croce intervenne
nella vicenda in favore di d'Alfonso, chiedendo a Gentile una deroga a tale
decreto, ottenendo però risposta negativa. La salma fu portata sulla
carrozza della Real Casa e seppellita nel Cimitero monumentale del
Verano. Il paese natale, Santa Severina, gli ha intitolato una via del
centro storico e la Scuola elementare. Opere: “Le donne dei Vangeli,
Firenze, Successori Le Monnier); “Sonno e sogni” (Milano-Roma, E. Trevisini); “Principii
di logica reale” (Roma, G. B., Paravia & C.); “Il re Lear” (Roma, Società editrice
Dante, Alighieri); “La dottrina dei temperamenti” (Roma, Società editrice
Dante, Alighieri); “Lezioni elementari di psicologia normale” (Torino, Fratelli
Bocca editori); “Pregiudizi sull'eredità
psicologica (genio,delinquenza, follia)” (Roma, Società editrice Dante
Alighieri); “I limiti dell'esperimento in psicologia” (Roma, Casa editrice E.
Loescher); “Sommario delle lezioni di filosofia generale (la filosofia come
economia)” (Roma, Casa editrice E. Loescher); “Lo spiritismo secondo Shakespeare,
E. Loescher & C.); “Sommario delle lezioni di Psicologia criminale. Critica
delle dottrine criminali positiviste, Roma, Casa editrice E. Loescher); “Il
Cattolicismo e la filosofia, Roma, Casa editrice E. Loescher); “Otello
delinquente, Casa libraria editrice E. Loescher e C. Sommario delle lezioni di
pedagogia generale (L'educazione come economia)” (Roma, Casa editrice E.
Loescher); “Note psicologiche, estetiche e criminali ai drammi di G.
Shakespeare (Macbeth, Amleto, Re Lear, Otello)” (Milano, Società Editrice
Libraria); “Principii economici dell’etica”; “Naturalismo economico”; “Principi
naturali di Economia Politica” (Roma, Athenaeum); “Gli alberi e la Calabria
dall'antichità a noi” (Roma, Angelo Signorelli editore); “La disoccupazione:
cause e rimedi” (Torino, Fratelli Bocca editori. Nicolò d'AlfonsoIl del Sud
Furio Pesci, Pedagogia capitolina. L'insegnamento della pedagogia nel
Magistero di Roma, Parma, Ricerche pedagogiche, 1994 Francesco d'Alfonso, Nicolò d'Alfonso.
Ritratto di un intellettuale indipendente, Bisignano, Apollo edizioni,, cit Attilio
Gallo-Cristiani, In memoria del filosofo Nicolò d'Alfonso, Roma, A. Signorelli
editore, 1934 La vicenda del
pensionamento di Nicolò d'Alfonso è ricostruita e ampiamente documentata in
Nicolò d'Alfonso. Ritratto di un intellettuale indipendente, cit., cap. V Francesco d'Alfonso, L'onesto solitario. Vita
e opere del filosofo Nicolò d'Alfonso, Reggio Calabria, Città del Sole
edizioni, Francesco d'Alfonso, Nicolò
d'Alfonso. Ritratto di un intellettuale indipendente, Bisignano, Apollo
Edizioni, Francesco d'Alfonso, Amleto e
Ofelia. La critica shakespeariana negli scritti di Nicolò d'Alfonso, Reggio
Calabria, Città del Sole edizioni, Furio
Pesci, Pedagogia capitolina. L'insegnamento della pedagogia nel Magistero di
Roma Parma, Ricerche pedagogiche,
Attilio Gallo Cristiani, In memoria del filosofo Nicolò d'Alfonso, Roma, A.
Signorelli editore, 1994 Mariantonella, Giovanni Marchesini e la «Rivista di
filosofia e scienze affini», Franco Angeli
Daniele Macris, Nicolò d'Alfonso: uno studio introduttivo, in Quaderni
Siberenensi, Catanzaro, Ursini, Francesco De Luca, Santa Severina. L'antica
Siberene, Pubblisfera edizioni, Antonio Testa, La critica letteraria calabrese
nel novecento, L. Pellegrini editore, 1968 Silvio Bernardo, Santa Severina dai
tempi più remoti ai nostri giorni, Istituto editoriale del Mezzogiorno,
1960 Santa Severina Università La
Sapienza di Roma Accademia dei Lincei Liceo classico Pilo Albertelli. Il
prof. Nicolò D'Alfonso presenta: 1) Note psicologiche, estetiche e criminali ai
grammi di Shakspeare Macbeth, Amleto, Re Lear, Otello - U n a nuova fase
dell'economia politica, (st.);3) Speculative psychology and the unity of races.
Il cattolicismo e l'insegnamento della storia del cristianesimo nell'Università
di Roma, (st.);5) - La filosofia della storia nel nostro tempo -; Morgagni e la
biologia moderna »;7) «In Calabria». Il prof. D'Alfonso, come già risulta
dall'elenco dei lavori presentati, s'è occu pato di argomenti disparatissimi,
senza che però, a giudizio unanime della Commis sione, egli sia riuscito a
trattarne alcuno con metodo scientifico. Per la più parte sono articoli
occasionali e informativi, discorsi, prelezioni, ma invano si cercherebbe
un'indagine compiuta con intento scientifico. Le nole psicologiche sui drammi
dello Shakspeare, che del resto sono una ristampa di articoli pubblicati già
parecchi anni addietro, per molti rispetti sono pregevoli, contenendo
osservazioni giuste, e in ogni modo attestano l'amoroso studio che l'A. ha
fatto dei drammi dello Shakspeare; ma, a giudizio unanime della Commissione,
non sono titolo sufficiente per l'assegno del premio a cui il D'Alfonso aspira.E'un
insegnante che ha una lunga eonorata carriera,e moltissime pubblicazioni. Ma
queste che pu r contengono molti pregi, riguardano la psicologia, lalogica e la
pedagogia Lastessaoperaches'intitola:«Saggiodifilosofiamo. rale »,è un saggio
di psicologia applicata alla critica dell'antropologia criminale.«Il Sommario
delle lezioni di filosofia generale (la filosofia come economia) in cui espone
i concetti cardinali del suo pensiero, non tratta propriamente problemi
morali,al cui studio non arreca contributo notevole l'opuscolo « Principi
economici dell'Etica ». Formulati in questo modo i giudizi riassuntivi intorno
ai quattordici candidati, e vagliati comparativamente ititoli di ciascuno, e
tenuto conto infine dell'esito della prova orale, la Commissione procedette
alla votazione definitiva, secondo le norme. La terna risultò così concepita in
ordine alfabetico: Calò Giovanni con tre voti favorevoli e due contrari;
Ferrari Giuseppe Michele, con tre voti favorevoli e due contrari; Orestano
Francesco, a voti unanimi. Due voti riportò ilcandidato Zini. Essendosi quindi
proceduto alla graduazione dei tre candidati designati per la terna, in ordine
di merito, si ebbe il seguente risultato: 1°Orestano Francesco con voti quattro
contro uno; 20 Ferrari Giuseppe Michele con voti tre contro due; 3°Calò
Giovanni con voti tre contro due. Ilcandidato Calò ebbe un voto come primo
nellaterna. La Commissione pertanto propone a V. E. di nominare il dott.
Francesco Ore. stano professore straordinario di filosofia morale presso
l'Università di Palermo. Roma,Il Consiglio Superiore di Pubblica Istruzione,
esaminati gli atti del concorso,li riconobbe regolari e nell'adunanza dell'11
maggio 1907 deliberò di restituirli al Ministero senza vazioni. La
Commissione Osser. -- quando un maggior numero di uomini si strinsero in
rapporti fradi loro e furono animati dal *fine comune* (mutual goal) di *aiutarsi*
(reciprocal helpfulness) nel superare le
difficoltà per la vita, onde sivideilgrande vantaggio del lavoro collettivo,
questo fatto ebbe una grande importanza per quegli uomini e pei primordi
dell'umanità in genere.Fu allora necessaria la dimora fissa in un luogo, ciò
che dovea LA STORIA DEL LINGUAGGIO. diminuire loro idisagi e
le incertezze del domani.Si preferi di dimorare presso le rive dei fiumi, dei
laghi e del mare,che offrivano certi vantaggi. Risoluto il problema
dell'esistenza nell'oggi, fu reso possibile il tentativo di produrre pel
domani, allora si principio ad allevare il bestiume ed a coltivare la terra,
prendendo insegnamento, come potevano, dalla natura. Allora fu reso maggiore il
bisogno di *esprimersi* (express ourselves) e d'*intendersi* (comprehend
ourselves) in un più largo ambito e nacque nell'uomo il desiderio di ben
provvedere al suo avvenire, à quello della tribů o della piccola società ed a
ricordare la vita passata per trarne insegnamento per l'avvenire. Fu reso
ancora necessario il tradurre in segui materiali, e perció più memorabili, I rumori
e le voci di *espressione*: prima origine della scrittura e della lettura.
Ma,anche in questocaso,quando nonsitrattavadi do vereriprodurre
l'immaginesensibiledelle cose,ma di u sare segni più o meno facili ad eseguire
e da connettere alle parole, ciascuno dovette significare da principio in modo
affattoarbitrarioedinintelligibile aglialtrile pro prie rappresentazioni; e solo
posteriormente per mezzo di accordi alcuni *segni* (segnante/segnato) furono
ricunosciuti da parecchi siccome *esprimenti* alcune date *rappresentazioni*.
Si *stabilirono* (Grice – established procedure) cosi tanti segni (segnante,
segnato) per quante erano le parole in uso. Però un cosiffatto costituirsi
della società primitiva non avvenne per un aggruppamento solo, in un solo sito,
di uomini e di famiglie. Dato invece il continuo dirimersi e disgregarsi degli
uomini preistorici, bisogna ammettere che sia dovuto avvenire, isolatamente, in
vari punti della superficie della terra; e per ciascuna piccola società
dovettero stabilirsi speciali segni di scrittura e di lettura. Questi
movimenti d’emigrazione e d'immigrazione, di conquiste, raggiunte con la
violenza o con lacalma e l'astuzia, furono più frequenti nei primordi della
storia; poichè in quei tempi non tutti i bisogni individuali e sociali
dell'uomo potevano essere sollecitamente soddisfatti, quantunque fosse stato
prepotente in lui il desiderio di soddisfarli. E poichè ogni gruppo sociale migrante,
come avea un complesso di parole, cosi poteva avere un complesso di *segni* a
quelle corrispondenti, avvenendo lo stesso per la società che subiva
l'immigrazione o il dominio, con la mescolanza degli uomini dovette ancora
avvenire una mescolanza di differenti linguaggi. In questo caso il gruppo
sociale più potente dovea esercitare il suo dominio sul popolo nuovo arrivato o
sul debole. Era necessario perciò che gl'imponesse anche la propria lingua, altrimenti
non sarebbe stata possibile la comunicazione degli animi, prima condizione al vivere.
Queste società col vivere a lungo in un sito andarono incontro ad alcuni disagi
per lo sfruttamento del terreno non ancora coltivato secondo le leggi naturali
o per la distruzione degli animali boschivi o infine perchè il loro sviluppo
sociale dovea far loro avvertire nuovi bisogni o per dar nuove esplicazioni
alle loro energie. Nacque perciò in loro o in parecchi di essi il bisogno di
avvicinarsi ad altre società, sia per offrire a queste i prodotti particolari
del loro suolo e della loro industria e rice verne altri; sia per offrire loro
le proprie energie organiche dalle quali volevano trarre un profitto. L'avvicinamento
e poi la reciproca compenetrazione degl’animi avvenne per via pacifica o per laviolenza
e la forza, onde la società sopravvegnente sottomise a sè
l'indigena. sociale. Ma si deve anche ammettere che il popolo vinto o il
nuovo abbia in parte contribuito a modificare la lingua dell'altro, non
potendosi ammettere che esso si fosse potuto così facilmente e presto privare
della sua lingua abituale e l'altro non ne avesse subita alcuna modificazione.
Cosi,come la parola (del greco parabola), anche altri segni dovettero subire
molteplici metamorfosi in ragione del vario congregarsi e disgregarsi degli
uomini, in ra gione dei vari influssi che quelle società esercitarono fra di
loro. E quando in mezzo alla vita indeterminata delle società primitive sorse
un popolo energico e forte che acquisto di sè una coscienza superiore a quella
degli altri popoli che si sforzò di soggiogare e di dominare ed impose loro i
suoi costumi, le sue credenze, fu quello il primo popolo veramente storico e
allora la lingua di esso fu imposta ai vinti ed ammesso riconosciuto da questi.
Ma un popolo che sappia esercitare il suo dominioè destinato a vivere e a
perpetuarsi. È necessario allora che esso diventi qualche cosa di organico, che
abbia un ordinamento interno, che abbia leggi ed istituzioni. Un popolo cosi
costituito è costretto a conservare ed a coltivare la propria lingua, dando un
valore determinato alle proprie parole; perchè solo cosi è possibile il governo
che deve implicare la stabilità delle leggi e della istituzioni alle quali deve
perció connettersi una lingua determinate e fissa, altrimenti quel popolo
ricadrebbe, come, malgradociò, tende sempre a ricadere, allo stato primitivo di
disgregamento. In un popolo che vive e dura la lingua deve non solo fissarsi ma le parole di
cui consta debbono moltiplicarsi. E ciò non può non ammettersi se si considera
che una società che vive non può non compiere,per mezzo degli individui che la
costituiscono, un'attività psicologica scrutativa e conoscitiva sulla natura
circostante. Questa che da principio apparisce come qualche cosa di molto
semplice, come un tutto a sè, in ragione che più si esercita l'attività umana
sopra di essa,apparisce distinta in una molteplicità di gradi o di oggetti i
quali alla loro volta da prima appariscono indeterminati nelle molte proprietà
di cui risultano e, progressivamente, appariscono sempre più determinati. Tale è
stato il movimento della conoscenza dai primordi della storia sino ai nostri
tempi e non si è peranco arrestato. Di nessun oggetto si può dire che esso sia
stato cosi studiato ed analizzato in tutte le sue note,in tutti i suoi
rapporti, che un ulteriore studio nulla di nuovo potrebbe darci. Quantunque
questo processo di scrutazione e di conoscenza si sia eseguito sopra ogni cosa,
pure non tutti i popoli hanno all'istesso modo fatte le loro conquiste in ogni
ramo della realtà. Giacchè alcuni hanno scrutato un ramo ed hanno lasciato intatto
un altro di essa e, conseguentemente, la lingua si è più arricchita in quella
regione della natura che non in un'altra. Inoltre è avvenuto nella storia che,
come gli uomini hanno fatto un progresso nel campo della conoscenza, si sono
ingegnati di servirsi delle loro cognizioni per modificare la natura esteriore
a loro profitto, producendo una molteplicità di beni e sovrapponendo cosi
all'opera della natura una nuova creazione che è quella dell'arte. Tutte
le istituzioni sociali sono creazioni dello spirito, Cosi quando un popolo
emerge nell'arte della guerra e delle conquiste, come il popolo romano, deve
anche creare una nomenclatura in cose militari e guerresche. Giacchè, anche in
questo caso, ogni nuova veduta, ogni nuova invenzione, per quanto possa
sembrare poco apprezzabile, pure deve essere contrassegnata dalla sua parola.
Tale lingua non poteva riscontrarsi nei popoli che, nel movimento storico,
precedettero quelli. Ed allora la nuova lingua potrà inprosieguo divenire patrimonio
di nuovi popoli; perchè le conquiste di una nazione nel campo della conoscenza
e dell'attività pratica tendono a divenire patrimonio ed eredità delle altre
nazioni, Una nazione che emerga nel mondo pel suo dominio sul mare, ciò che non
può avvenire senza la costruzione di vascelli di meravigliosa complicazione,
come il popolo ligure, deve creare una nomenclatura marinaresca, sia per le varie
parti e di vari apparecchi di cui consta un vascello, come per la loro funzione
e per gli uomini che vi si addicono, nomenclatura che *prima della formazione
di quei vascelli non avea ragion d'essere* e che ora deve essere accettata
dalle altre nazioni che vogliono costruire nelle quali se la natura
interviene, essa non vi è come puramente tale, ma rianimata da un nuovo soffio.
La storia ci fa vedere che ogni società civile ha prodotto qualche cosa di
particolare in un ramo delle istituzioni sociali; o nelle leggi o nell'industria,
nel commercio, nell'arte militare, nelle belle arti, nella religione, nella
scienza. Corrispondentemente a questo progresso nell'attività intellettuale e
pratica, nuove forme particolari debbono sorgere che contribuiscono ad
accrescere la somma delle parole di un popolo. -- navi di quei tipi o forme,
onde quelle parole genovese o ligure debbono in massima parte essere accettate
come tali dalle altre nazioni. Anche una nuova e grande religione, come il
culto di Marte, il dio della guerra dai romani, dovette formarsi una nuova
lingua relativamente alle antiche religioni, quantunque alcune parole di queste
siano state conservate nella nuova religione, all'istesso modo che qualche cosa
del contenuto delle prime religioni si perpetua nel contenuto delle altre. E,
poichè la religione, sopra tutto la religione istituta dal primo principe,
Ottaviano, compe netra ed informa tutti gli aspetti della vita individuale e
sociale, esercita la sua azione modificatrice nella lingua di tutte le
istituzioni sociali. Nel culto romano di Marte troviamo parole che hanno un
contenuto differente da quello che avevano nei popoli precedenti o che non
ancora hanno accettato il Cristianesimo, quantunque le stesse parole possano
prima essere state usate.E, poichè il Cristianesimo è stato il punto di partenza
di un grande e lungo svolgimento artistico, teologico e filosofico, informato
ai suoi principii, si è dovuto ancora produrre una lingua atta a rendere in tutti
i loro elementi le nuove e grandi concezioni. Cosi l'attività pratica sociale e
le istituzioni contribuiscono a fare arricchire la lingua latina dei romani. Ma
infondo a questo progresso linguistico sociale dobbiamo trovare come principale
fattore l'attività individuale di un Cicerone, di un Lucrezio, di un Varrone,
di un Romolo! Come avviene delle nazioni che non fanno un passo innanzi nel
progresso dell'umanità se non per l'opera dei grandi uomini che esse nondimeno
hanno creato eeducato, avvieneanche pel progredire della lingua dialettale – o
soziale – altre l’idioletto. Giacchè gl'individui in quanto vedono aspetti
nuovi della natura o della vita s o Però da principio essi hanno ricevuto
dalla società in seno alla quale sono nati e cresciuti un linguaggio che era
patrimonio comune a molti; essi l'hanno solamente arricchito in quel ramo di
attività nella quale hanno espli cato la loro energia e,se questa riguarda
immediatamente la vita del popolo,potranno le nuove parole divenir popolari, altrimenti
rimarranno sempre chiuse nella cerchia dei pensatori e degli studiosi. Così la
lingua filosofica di Cicerone non è popolare o ordinario o volgare come non è
popolare o ordinaria o volgare la filosofia, mentre il linguaggio della
religione e dell'arte potrà più fa cilmente scendere sino al popolo e divenire
suo patrimonio; perchè esse al popolo sopra tutto s'indirizzano ed in esso
debbono trovare alimento. -- Pertanto se la lingua dell'arte, della filosofia, della
storia differiscono in qualche modo fra di loro, differisce anche la lingua di
un cultore di quella data branca di attività umana da quello di un altro.Così
il idoletto o idioma di Platone differisce da quello di Aristotele e di Hegel.
La lingua, l’idioletto, o l’idioma di Omero differisce da quello di Aligheri,
di Shakespeare e di Goethe. La lingua, l’idioletto o l’idioma di Tucidide e di
Erodoto differisce da quello di Livio, di Tacito, di Machiavelli. E ciò perchè
ciascuno scrittore impiega nella realtà che studia e perciò nella lingua che
trova e contribuisce a creare, quella sua attività particolare che ciale contribuiscono a formare la lingua ed
imprimono parole nuove a nuovi fatti reali che si sono scoperti od escogitati.
Ippocrate, che fu il fondatore della scienza medica nell'antichità, fu anche il
creatore della lingua medica che si conserva in fondo alla compless lingua
medica moderna. Cesare dette nuove determinazioni ed una più grande precisione
alla lingua militare. lo spinge ad usare nuove parole o a dare un nuovo
contenuto o segnato a vecchie parole o it nobilitarle o a degradarle. In questo
modo la lingua di un popolo che, come ogni conquista dell'uomo e dell'umanità, tende
a sminuire e a perdersi, è sostenuto dalla vita nazionale ed è migliorato dal
progresso che essa fa in ogni ramo dell'atti vità umana. Il suo progresso va di
pari passo col progresso dell'umanità, all'istesso
modo che il decadere di questa trae seco il decadere della lingua. Una nazione
mantiene integralmente la sua lingua quando una sola vita ed un solo pensiero
circolano in essa quando vi è, cioè, unità nazionale, onde tutti i cittadini
hanno la stessa educazione, la stessa coltura, le stesse aspirazioni, volgono
la loro attività allo stesso fine collettivo, partecipano intimamente agli
avvenimenti nazionali, sono animati dello stesso spirito religioso, artistico.
Quando lo spirito nazionale si affievolisce o cade, tendendo allora la lingua a
degradarsi, la scuola apparisce come una sostituzione alla vita sociale, la quale
può creare il culto della lingua nazionale, facendo interpretare e gustare i
capilavori letterari, storici e politici che quella data nazione possiede. In
questo caso la scuola può creare un movimento per un nuovo risorgimento
nazionale e per mezzo di essa può la lingua durare e vivere anche quando le
istituzioni che la formarono e la sostennero son decadute. Ma se in quei casi la
scuola manca, tutto va in rovina. Nella scuola va incluso anche il culto
per l'arte, quando questa non rappresenti il puntosalientedella vita nazionale,
come avvenne in Grecia la quale dovette la popolarità di quella meravigliosa
lingua primieramente al culto per Omero I cui canti, artistici e
religiosi insieme, venivano imparati a memoria e ripetuti e cantati da tutto il
popolo. La religione ha anche essa una grande potenza a mantenere in vita una
lingua, quando ogni altra istituzione sia perita in una nazione; perchè essa,
tendendo a difondere un complesso organico di principii e di massime a tutto un
popolo, in modo che tutti gl'individui vengano illuminati e spinti all'azione
da essa (e già la religione esercita la sua azione in tutti i fatti della vita,
onde la lingua religiosa penetra in ogni cosa), deve tenere perciò vivo il
culto per la lingua nazionale. Quando queste condizioni mancano la lingua
sidiscioglie,soprat tutto se quella nazione continua ad essere ilcentro d'im
migrazionedialtripopoli,come avvennedell' Impero Ro mano dopo la sua caduta,in
cui, con la invasione dei barbari, quando la scuola mancava, nuovi linguaggi e
nuovi costumi penetrarono che dovettero affrettare la disorganizzazione di quella
lingua in tanti linguaggi particolari a varie provincie e luoghi, varianti fra
di loro secondo che varie erano le nuove condizioni di ciascuno. Alcuni di
questi particolari dialetti più tardi divennero
ancheessinuovelingue,quandoapparvero ipoeti,gli
oratori,glistorici,ilegislatori,ireligiosi, i quali, per adattarsi al popolo al
qualedoveano volgerel'operaloro, dovetterobeneconoscereilnuovolinguaggio
ed,usan dolo, gli accrescevano prestigio e destavano il culto per esso. In
questo modo una grande lingua si discioglie e gli altri linguaggi che vengon
fuori da quella dissoluzione possono di nuovo nobilitarsi e divenire
storici. La lingua tedesca non sarebbe divenuta una nobile e bella lingua
se Lutero,col movimento religioso che egli. Risulta da quel che si è detto che
non è stato un solo il popolo storico, ma vari,quantunque però si debba a m
mettere che questi si sieno manifestati in una regione piuttosto che in
un'altra del mondo e che vi sieno stati p o poli storici di cui non sono
rimaste vestigia;perchè la parte che essi hanno rappresentato per la storia
dell'u manità in genere non è stata di grande importanza, onde non sono
divenuti centro di attrazione di altri popoli e non hanno avuto perciò
l'energia di sottometterne e di dominarne altri. All'istesso modo che ogni
popolo ha una storia parti colare e comparisce e sparisce dal teatro del mondo
e ad un popolo si succedono altri popoli ed ognuno ha la ere dità degli altri
ed ha insieme aspirazioni, tendenze ed uno spirito proprio,si foggia ancora in
modo particolare la propria lingua. E come il suono o la voce è l'espres sione
dello stato interiore psichico indeterminato dell'a fondo ed inizio, in
cui dovea avere gran parte la cultura del popolo, non avesse destato un culto
per essa.I grandi poeti tedeschi, gli storici, i filosofi, gli
scienziati,animati dallo spirito della riforma,contribuirono poi a rendere
importante nel mondo e nella storia quella lingua. L'a vere la Grecia
conservata, dopo la sua caduta, la sua antica lingua la quale, tenuto conto dei
mutamenti necessari che in essa son dovuti avvenire pel progresso del pensiero
umano, si è continuata nella lingua greca moderna, si deve all'essere essa, dopo
la sua caduta, stata quasi tagliata fuori dal grande movimento del mondo, il
cui centro divenne ROMA, e al non essere più essa stata fatta segno alle
invasioni e alle immigrazioni di altri popoli. Quando, dopo la rovina
dell'impero romano,il pen animale
o dell'uomo, anche la lingua, nel complesso si stematico delle sue parole, è
l'indice dello stato intellet tuale di un popolo,della sua storia,del grado
dellasua eticità,della sua energia,delle sue aspirazioni economi che, artistiche,
sociali, religiose, scientifiche. Sicchè, conosciuta la lingua di un popolo, ci
è dato conoscere la sua vita naturale e spirituale; perchè nulla è nella vita
naturale e spirituale degli uomini che non sia in qualche modo nel suo
linguaggio. Diciamo in qualche modo,per «chè la lingua non è l'espressione
perfetta della vita e del movimento della psiche. Le parole di cui il
linguaggio consta sono sempre vi 'brazioni tradizionali,empiriche o
convenzionali per espri mere alcune rappresentazioni o azioni o energie delle
cose;'sono perciò involucri naturali ed estrinseci in cui si avvolge la
coscienza e la mente per esprimere la realtà delle cose e degli avvenimenti; la
cui ricchezza di par tivolari, d'intrecci e di energie è profonda ed
inesauribile. Sono perciò una pallida immagine della realtà e della
mente,quantunque siano però qualche cosa di superiore e di più perfetto
relativamente al linguaggio indetermi
nato.Equandovièdissdiotrarealtàelingua,dimodo.che quella apparisce alla mente
nel suo progresso di complicazione,mentre la lingua si pietrifica, questa
diviene un impaccio alla espressione dellamente che di continuo si muove e si
svolge; ed è solo rompendo questo in volucro sensibile e dandogli un valore più
nuovo e più altochesi possonointendereemanifestarelepiùascose pieghedel
pensieroedella mente;giacchè per inten dere il pensiero non vi vuole che il
pensiero. Ad ogni modo la mente nella sua progressiva forma-. zione si
sforza di creare il suo linguaggio; perchè il linguaggio serve pel pensiero;e
foggia nuove parole o nuove combinazioni di parole o dà un nuovo significato
alle vecchie parole. E perció la storia ci fa vedere che quelle nazioni che
sono state ricche di pensiero,co inella sfera di attività pubblica e
sociale,come nella s'era artistica, religiosa, scientifica, hanno avuto una
lingua an corariccadiparole,dilocuzioni,diflessioniper espri mere i più
fuggevoli moti della realtà e dello spirito; ed in quella nazione in cui la
vita del pensiero è stata poverit o nascente si è ancora avuta una lingua
povera. di parole e di uso. Ciascuno di questi gradi dell'evoluzione del
linguaggio è l'espressione dello stato psichico e cerebrale di quei dati
popoli, stato in parte ereditato in parte acquisito; dello stato degli organi
vocali e dell'ambiente cosi na turale come etico che gli uomini si sono creato
ed in cui sono vissuti.Queste tre seriedi fattori hanno la parte principale
nella storiadel linguaggioe,secondo il grado. -- del loro accordo dello sviluppo
di esso, costitu'scono la lingua peculiare di un dato popolo. -- siero cristiano che porto seco una nuova
civiltà,più pro fonda e più complessa della romana, a poco a poco si sostituiva
alle vecchie istituzioni, LA LINGUA DEL LAZIO non potè essere più adatta ad
esprimere il nuovo pensiero, sopra tutto dopo le invasioni barbariche; e se fu
colti vata dalla Chiesa e dai dotti,questi per entrare in re lazione col popolo
e partecipare perciò alla vita.nazio nale, dovettero usare il vulgare. Qualche
cosa di analogo avviene nella storia dell'in è psicologicamente
molto simile agli animali, emette an.che esso dei suoni indeterminati. Ma in
ragione che ac. quistano maggior sviluppo i sistemi del suo organismo e gli
organi vocali e le sensazioni acquistano maggior pre cisione funzionale, il
bambino si assimila gli elementi delle voci o delle parole che ode intorno a
sè,assimila zione che è resa facile da predisponenti condizioni ere ditarie, le
riferisce alle cose con cui è in rapporto, le fissa nella memoria, si sforza di
pronunciarle,riuscendovi male da principio;ma dopo unalunga esercitazione,ar
riva a pronunziare bene ed a mano a mano non solo al cuni monosillabi, ma anche
parole più o meno semplici. Nella storia del fanciullo si ha insomma come
riepilogo quello che è avvenuto nella lunga storia dell'umanità; cosi il
bambino da poco nato non ha altro modo per esprimere isuoi stati interni che
ilgrido,ilpianto,che sono poco più che un moto riflesso, una forte sensazione
che si estrinseca per le vie del respiro. - dividuo. Come il grido
indefinibile che l'animale emette •è l'espressione dello stato indeterminato
dei sentimenti che lo agitano e dello stato informe delle rappresenta
zionichelomuovono,come dellapovertàdeicentridelsuo:sistema nervoso, cosi il
bambino che nei suoi primi anni 53 Abbiamo usato promiscuamente la parola
linguaggio e lingua; m a è bene dichiarare che la lingua implica m a g giori
determinazioni che non il linguaggio che è qualche cosa di più generale ed
inderminato relativamente ad essa. La linguaè un linguaggio
divenutoclassicoostorico,con nesso cioè ad una vita nazionale, per cui ogni
parola ha una storia e le cui origini si possono seguire anche in altri
linguaggi che sono presupposti della lingua che si Dopo che le
parole son divenute storiche, sono state cioè connesse ad un segno materiale,possono
continuare, sopra tutto in tempi in cui le lingue si formano, ad a vere una
storia circa alla loro struttura. Ed anzi tutto pare non si debba ammettere che,
quando LA LINGUA PREISTORICA abbia principiato a divenire STORICA, si fossero
tra dotte in segni materiali tutte le parole parlate. Invece si deve aminettere
che queste dovettero essere moltissime neila
lorogradazionedipronunziadaindividuoad iudiv'duo, da tribà a tribù, per la
ragione detta precedentemente. E quando si volle tradurre in segni una parola
la quale aveva immense gradazion,essi furono appunto quasi una. somma di una
molteplicitii di parole parlate le quali se: poterono fissarsi in segni non
poterono però definitivamente fissarsi in un tipo di vibrazione fonica ad esse
corrispon denti,quantunque pero questo fosse stato il fine dell'in venzione dei
segni materiali e della scrittur a e questo. fosse anch e il fine
dell'inseegnamento della lettura. Da ció segue che le parole parlate furono
moltissime relativamente alle impresse. Stabilitasi la forma della parola
parlata e della i m pressa non si tenne più alcuna ricordanza della deriva-.
zione primitiva di essa nè si pensó più a modellare le: parole sulle forme
delle vibrazioni naturali. Dovette per - studia. Si può dire ‘lingua’
della natura, ‘lingua’ degli animali, ‘lingua’ dei bambini, ma non lingua senza
quotazioni. L'uomo che per morbi perde la facoltà di parlare che prima posse
deva in modo perfetto, non *parla* più la lingua, *ha* però una lingua. La
condotta dell'uomo si può chiamare una ‘lingua’ in quanto manifesta per mezzo
di una. serie di atti tutto un concetto interiore della vita.] ció
necessariamente ammettersi che i primi popoli storici dovetterò averə ciascuno
una nomenclatura e corrispondenti forme d'impressione e di scrittura e,nel loro
con tinuo movimento di espansione e di concentrazione, tutto dovette mutare fino
a che un popolo non raggiunse la sua stabilità. Ma anche allora la stabilità
della lingua non fu definitiva. Abbiamo detto che la parola è qualcosa di molto
più complesso del semplice suono o della semplice voce o esclamazione o della
semplice imitazione di suoni o rumori naturali, quantunque derivi da essi -- è
già un suono o più suoni e rumori connessi che complessivamente e sprimono una rappresentazione
formata od un'azione od un concetto.Vi sono perciò parole di pure voci o suoni,
altre di puri rumori ed altre infine risultanti degli uni e degli altri. Studiando
l'acquisizione della loquela nel l'individuo vedremo come egli dall'attività
più semplice passa alla più complessa, cosa che,come avviene ora nel
l'individuo, si veritica anche nella storia dell'umanità in genere.Dovettero
perciò iprimi uomini da principio pronunziareparolerisultantidipurevociodipuri
ru mori; anche allora, o più tardi poterono pronunziarsi monosillabi,che sono
l'unità di un rumore edi una voce. Il mono-sillabo è perció la parola più
conforme alla possibiliti tisiologica e psicologica di esecuzione fonica dei
popoli primitivi e rappresenta la vibrazione primitiva della cosa,trasformata
dall'attività fisiologica e psicolo gica degli uomini.Le lingue dei primi
popolifurono per cid monosillabiche.Ed a questo proposito possiamo noi indagare
se le lingue primitive fossero più o meno ric che di parole delle lingue
moderne o in generale delle lingue più complesse. E bisogna dire di si se si
pensa che, quantunquepei primi popoli storici il mondo esteriore fosse qualche
cosa di molto semplice, pure, nel ri produrre gli oggetti essi teneano conto
solo della vibra zione la quale era varia d'intensità nelle cose ed era ancora
più variamente ripetuta od imitata dagli uomini di una popolazione e dalle
varie popolazioni. Onde varie parole doveano primitivamente indicare la stessa
cosa. Anche perché, potendo una stessa cosa dare vibrazioni differenti, essa
veniva indicata con quella tale vibrazione della quale più s'interessava il
soggetto. Cosi il cavallo poteva essere indicato pel suo nitrire, per lo
scalpitare, pel m ovimento della criniera, pel rumore che fa nei masticare il
cibo, per la velocità nella corsa, ecc. cosa assumeva. In tal caso la parola
monozillabica primitiva si dice -- Per questa ragione le parole dovettero
molto più delle cose esse represe in considerazione. Ma in tempi più progrediti
abbiamo una lingua più complessa, in cui cioè le parola o la maggior parte di
esse sono risultanti di più sillabe; e in questo caso le parole monosillabiche
non spariscono. E questa le lingue poli-sillabiche o la agglutinante o
l’articolata. Perchè in esse la sillaba si collegano o si articolano con la
sillaba. La parola poli-sillabica potè divenir tale o perchè mono-sillabi di
una lingua si vide che corrispondevano alla stessa cosa, di modo che,
pronunziandole insieme due o più esigenze venivano conciliate. O perchè una
sola sillaba assume una voce nuova secondo che la nuovi movimenti; perchè le
cose assumono ancora nuove energie se l'attività scrutatrice del soggetto si
esercita.su di esse. radice la quale non cessa di essere parola,
perchè esprime una rappresentazione, per quanto indeterminata, ma è considerata
come una parola elementare la quale è come il ceppo comune ed originario di
altre parole. Essa, entrando in rapporto con altre parole più o meno semplici o
pure assumendo varie flessioni, si complica in modo da esprimere una
rappresentazione più complessa o un concetto. Se la lingua mono-sillabica,
esprimendo rappresentazioni indeterminate, e la LINGUA PRIMITIVA, la lingua
agglutinante o articolata segnano un *progresso* relativamente alle precedenti.
Perchè in essa, una parola poli-sillabe e un complesso di al meno due parole mono-sillabe
e perció si parlano da quei popoli nei quali è più sviluppata l'attivitàr appresentativa,
onde un solo mono-sillabo non sempre è sufficiente ad esprimere una rappresentazione
molto complessa. La lingua del Lazio, la maggior parte delle cui parole hanno
flessioni, in cui la “radice” e il “tema” assumono varie forme e una lingua
flettente. E quella che han raggiunto il maggior sviluppo possibile e puo costituire
l'espressione di una tela organica di concetti e di un pensiero dalle più
ricche gradazioni e di sfumature appena apprezzabili. In tale lingua, il nome sostantivo
o aggetivo ed il verbo assumono flessioni (declinazione e congiugazione) e
mediante tali forme si esprimono i vari rapporti delle cose e l'avvenimento
dell'azione nei vari gradi di tempo e di condizione in rapporto con l'avvenimento
di altre azioni. Una lingua flettente e perció *posteriore* anche alla lingua agglutinante,
quantunque non bisogna credere che, quando esse appariscano, le parolea gglutinanti
e monosiilabiche non esistano più. Esse sono le ultime apparse nella
storia - Con lo sviluppo della lingua del Lazio va di pari passo lo sviluppo
del mondo logico. Giacchè sono due aspettidiuna stessa cosa.. Il pensiero e la
sua manifestazione sensibile. Non si può ben comprendere l'importanza della
lingua del Lazio senza vedere l'importanza dell'energia logica che è inclusa in
esso, la quale sottratta, l'attività della loquela rimarrebbe un fenomeno
puramente fisico e *fisiologico* ma non umano, o pure sa rebbe l'espressione di
uno stato interno indeterminato. delle lingue, e sono state parlate e
scritte da popoli ricchi di pensiero e di azione. Se dunque le lingue ultime
dei popoli civili, che noi crediamo le più perfette, perchè ricche di flessioni
(onde tra queste bisogna comprendere la latina o lingua del popolo del Lazio)
ha avuto una così lunga e avventurosa istoria ed alla loro formazione hanno, piùo
meno immediatamente, con corso tanti e cosi disparati elementi e lingue di
minore perfezione e lingue anche complesse e ciascuna lingua, per quanto
immediata sia, risulta di elementi molteplicissiini ed accidentalissimi (per
quanto vi sia qualche cosa di costante),comparisce chiaro quanto debba essese
difficile, fare una compiuta anatomia della lingua del Lazio ed assegnare a
ciascuno elenento di essa, a ciascuna parola di cui essa risulta, il suo vero
valore e la sua vera istoria. Bello stesso; Sonno e sogni. E. Trevisini, Milano-Roma
scolastico. E. Trevisini,Milano-Roma. Ilparlare, il leggere e lo scrivere nei bambini,
saggio di 00 1 Saggi di pedagogia:(ilproblema dell'educazionemorale. Le donne
dei Vangeli. Successori Le Monnier, Firenze. La rappresentazione psicologica è
l'immagine che l'oggetto della percezione lascia di sè nel campo co sciente
quando è sottratto all'azione stimolante che esso può esercitare sugli organi
dei serisi del soggetto. Questa rappresentazione è tanto più indeterminata ed
imprecisa per quanto più l'oggetto che l'à prodotta risulta di un numero grande
di qualità e di note,per quanto più breve è stato il tempo che essa ha agito da
stimolo sul soggetto, per quanto meno sviluppata è l'attività percettiva
cosciente del soggetto e per quanto meno questa si è esercitata su di esso. Non
vi è oggetto del mondo esterioreilquale,dopo l'osservazione volgare e
dopo lo studio scientifico, non risulti di una molteplicità di note e di
qualità ed in cui queste qualità non abbiano un determinato grado d'intensità;
ma queste note non appariscono determi nate e distinte fra di loro innanzi al
soggetto quando l'oggetto
gli si presenta d'innanzi per laprima volta o quando per la prima volta l'anima
principia ad es sere attività cosciente;allora l'oggetto apparisce come un
tutto indistinto,anzi apparisce come una nota sola. Cosi appariscono il mondo
esteriore e gli oggetti di esso al bambino nel primo sbocciare della sua
coscienza e cosi devono essere apparsi all'uopo primitivo che non ha avuto una
potente attività scrutatrice; ed in questa stessa posizione è l'uomo moderno
dirimpetto a quelle cose più o meno complicate che gli si parano d'innanzi per
la prima volta e che non ha avuto il tempo di scrutare. In ragione che
l'attività cosciente si esercita sempre più intensamente sul mondo este riore
gli oggetti a mano a mano appariscono come distinti gli uni dagli altri ed in
ciascuno oggetto la nota uniforme e primitiva che lo designava si pre senta
progressivamente moltiplicata in più note dif ferenti. a mano ad
affievolirsi, a divenire sempre più imprecise, a perdere una parte delle note
che le costituiscono e lentanente a sparire quando non vengano rianimate,
mediante nuove percezioni degli stessi oggetti che le han prodotte, nella
coscienza; 10 Se l'attività del soggetto si esercitasse sulla rap presentazione
dell'oggetto già percepito piuttosto che sull'oggetto ripetutamente percepito,
non vi sarebbe progresso nella scrutazione dell'oggetto, anzi vi sa rebbe
regresso;perchè èlegge psicologica infallibile che le rappresentazioni degli
oggetti già percepiti tendono a mano mentre la ripetuta azione del
soggetto sull'oggetto fa sempre scoprire di questo nuovi aspetti e nuove re
lazioni;ed a questa condizione la rappresentazione dell'oggetto sempre più si
arricchisce e si compie e risponde più precisamente all'oggetto reale. Si può
fare a meno dal percepire più oltre l'og getto e considerare solo la
rappresentazione in sè stessa quando esso è stato cosi studiato ed analizzato e
scrutato che un ulteriore studio non aggiungerebbe nulla di nuovo allarappresentazione
diesso,laquale però, perchè si mantenga integra, deve spesso ripro. dursi nel
campo della coscienza.E ciò può sopra tutto avvenire quando l'oggetto che si
studia risulta di poche qualità e determinazioni; ma quando l'oggetto è
ricchissimo di struttura, di organi e di funzioni, quando presenta un vasto e
ricco sistema di fatti e di fenomeni, riesce quasi impossibile rappresentarlo
compintamente, senza che alcuni aspetti di esso non sfuggano alla coscienza o
non spariscano da essa.In questo caso il soggetto, per quanti sforzi faccia ad
apprendere e conservare la rappresentazione compiuta · dell'oggetto,non può
fare a meno dal tornare a per cepire spesse volte l'oggetto del suo studio per
sem pre meglio comprenderlo e conservarlo. Sicché,parlando qui della
rappresentazione psico logica, non s'intende dire che quella rappresentazione
la quale rimane nel soggetto dopo la ripetuta azione di esso sull'oggetto: ciò
che è la rappresentazione dell'oggetto percepitu. Ed è questa la condizione
pilt importante perchè la rappresentazione psicologica possa divenire
obbietto della logica, quantunque non sia primitivamente tale. La
rappresentazione della sensazione pura o lo stimolo della sensazione non può
mai divenire obbietto della logica; perchè la sensa zione non consta che di
certi stati dell'anima, che sa distinguere e che anzi attribuisce a sė stessa,
senza riferirli allo stimolo: e ciò per quegli animali che per tutta la loro
vita rimangono nella cerchia della sensazione pura.Ma nell'animale e nel l'uomo
che rimane solo temporaneamente nella cerchia della pura sensazione dove
stimolo ed animo si con fondono e che oltrepassa questa cerchia per divenire
percezione e coscienza che è dualità tra l'anima che ora diviene soggetto e lo
stimolo che diviene oggetto, ciò che prima ha determinato la sensazione (lo
stimolo) può divenire oggettodellapercezioneedellacoscienza e poi della logica;
anzi non vi è oggetto della logica che non sia oggetto della coscienza. Onde
segue che la materia prima del mondo logico è fornita dall'oggetto della
percezione che è l'oggetto della coscienza, senza del quale non potrebbe darsi
attività logica di sorta; perchè l'attività logica del soggetto si deve
esercitare sempre sopra un oggetto, come il soggetto non diviene attività
logica senza la sua relazione coll'oggetto. Il soggetto cosi diviene at tività
logica, non nasce tale e la sua attività dere esercitarsi o sull'oggetto
naturale esteriore o sulla rappresentazione interiore di esso, essa non
12 In una zona logica cosi ampia non va compreso solamente l'uomo
superiore con la sua potente ener gia logica, nè solamente l'uomo medio con la
sua or pura Però il passaggio nel
soggetto dalla pura sensa zione alla logica non è rappresentato da una linea
cosi precisa che si possa dire: Di là dalla linea vi è tutto il mondo delle
sensazioni, di qua vi è tutto il mondo logico compiutamente formato; giacchè,
come avviene in ogni sfera che passa in un'altra sfera, quella che passa non è
completamente esclusa come tale da quella in cui passa. E non bisogna credere
che, superato una volta il confine, questo sia supe rato per sempre; perchè la
vita della o dellerappresentazionidisensazionipuòtornarecome puramente tale
anche quando una volta si sia pene trati nel campo logico.Inoltre è difficile per
lo stu dioso tracciare questa linea in cui l'anima cessa di essere meramente
sensitiva e fa il primo ingresso nel campo logico. Come ogni grado
dell'esistenza,la logica occupa una determinata zona, chiusa fra due
determinati limiti, di cui l'uno rappresenta il minimo della logicità,tanto
chedilàdaquestolimitenonvièattivitàlogicane obbietto logico e l'altro
rappresenta l'entità logica nel suo più alto grado.Dal primo all'ultimo limite
il mondo logico compie un processo che implica una progressiva perfezione,per
cui, partendo dal fatto puramente sensitivo, si allontana sempre più da esso
per divenire entità logica compiuta. sensazione dinaria
potenzialità logica; ma ancora l'uomo volgare, il fanciullo, gli animali
superiori ed alcune specie degli animali inferiori che arrivano a
percepire.Però se, come avviene in ogni sfera dell'esistenza che ha una serie
di gradazioni, la sfera logica presenta un sistema cosi ricco di gradazioni le
quali passano l'una nell'altra in modo appena apprezzabile, tanto che è quasi
difficile distinguerle, pure si può dire che tutte queste gradazioni vanno
comprese in tre grandi sot tozone le quali possono chiamarsi la logica
meccanica o estrinseca, la logica chimica o intima e la logica organica. La
prima zona,rappresentandoleformelogichepiù elementari, se può stare di per sè
come pura logica meccanica, si ritrova però anche nelle due zone sus seguenti;
e cosi la sfera chimica si ritrova ancora nella sfera organica che è la più
compiuta. In generale si può dire che l'oggetto della perce zione ovvero la
rappresentazione di esso principia a mostrare il primo movimento logico
allorché cessa di apparire innanzi al soggetto come risultante di una sola
qualità naturale,ma apparisce come distinto in due o più qualità connesse in
qualsiasi modo fra di loro ed allora si ha la forma primitiva della rappre
sentazionelogica.Una qualitàsolaedincomunicabile ad altre qualità e zon
trasformabile non fornisce al cuna materia logica.E se un fatto
naturale,secondo che è più scrutato dal soggetto, comparisce sempre più ricco
di qualità e si vede la ragione intima per cui le varie qualità convengono
all'oggetto,è chiaro che esso diventa progressivamente obbietto di una entità
logica superiore. Ma può avvenire ancora che,dopo uno studio più profondo e
comprensivo fatto sull'oggetto,questo ap paia innanzi al soggetto come
intimamente connesso ad altri fatti esteriori ad esso, tanto che senza di
questi non potrebbe essere quello che è. E,se vi sono oggetti le cui note ed i
cui rapporti sono immobili e fissi, ve ne sono altri in cui le qualità che li
costi tuiscono ed i loro molteplici rapporti con enti fuori di essi si
trasformano e cangiano. È chiaro allora che l'entità logica dell'oggetto si
accresce e si complica. Può avvenire ancora che l'oggetto che ora è studiato
comparisca come l'ultimo risultato di una storia spe ciale propria o di una
storia di altri enti simili o dis simili da esso; onde l'importanza delle note
attuali che lo costituiscono si accresce e mostra cosi una n a tura assai più
elevata.La rappresentazionelogicaha cosi una considerevole latitudine; perchè
principia quando il soggetto vede almeno due note nell'oggetto e si conserva
ancora quando si è scoperto in esso un numero grandissimo di qualità. Si è
detto e ripetuto che è il linguaggio che segna nell'uomo ilprimo apparire delle
attivitàlogiche.Ma non si considera che la parola linguaggio, avendo un largo
contenuto esignificandoqualsiasimanifestazione dei fatti interni psichici,siano
sensitivi che rappresenta tivi ed emotivi,ha una larga applicazione cosi nel
campo animale come nel campo umano;onde non si vede con determinazione la
necessità del coesistere solamente nell'uomo del linguaggio e della funzione
logica,si deve però ammettere che la lingua che è un linguaggio formato e
divenuto classico (onde vi è differenza tra linguaelinguaggio),quandoèbeneusata
dal sog getto uomo,può far vedere in questo le più grandi energie
logiche,all'istesso modo che una lingua im perfetta o poveramente usata può
manifestare nell'uomo rudimentali qualità logiche. Però non si può concedere
che deva necessariamente intervenire la lingua per potersi trovare nella sfera
logica e perpoterecompierefunzionilogiche.Individui nati muti o sordo-muti
possono compiere con grande coerenza logica i loro atti, all'istesso modo che
la lo quela non sempre rivela una perfetta energia logica, come avviene per
disordini nervosi e mentali o per ritardato sviluppo di tutte le attività
psichiche. Al l'incontro ciò che è indispensabile perchè il soggetto compia le
più elementari funzioni logiche è l'oggetto della percezione e la
rappresentazione molteplice del l'immagine di esso, come è manifestato dagli
atti e dalla condotta che gli animali e l'uomo non ancora parlante hanno verso
quegli oggetti sui quali si eser cita la loro attività e dal giovarsi che
l'animale fa dialcunequalitàdeglioggetti.E larappresentazione molteplice
dell'immagine degli oggetti è anzitutto necessaria ancora per l'uomo logico che
parla,la r a p presentazione e l'esecuzione della parola udita, par 16
lata e scritta non essendo che un'altra specie di r a p presentazioni
specialideglistessioggetti sopraggiunta alla prima;per cui illavoro psicologico
elogicodel l'uomo è assai più complicato di quello dell'animale, anche perchè,
per la sua grande energia psichica, l'uomo moltiplica le rappresentazioni
relativamente semplici che delle cose hanno gli animali,onde il lin guaggio
diventa nell'uomo assai più intricato e com plesso. Segue da ciò che il
linguaggio umano è una nuova aggiunta che si fa alla rappresentazione pri
mitiva dell'immagine delle cose; ma rimane sempre questa l'obbietto delle
attività logiche cosi animali come umane. Questo è ancora dimostrato dalla
patologia del lin guaggio umano;poichè è statoconstatatoche,quando l'uomo perde
la memoria della immagine percepita delle cose e conserva la ricordanza della
parola udita, parlata o scritta,che ad essa corrispondono, la sua lingua è
divenuta un caos; perchè, essendo perduto il nesso tra la cosa e la sua parola
udita e parlata, l'attività logica non si può esercitare sulle parole, perché
non si può esercitare sulle cose, come allora è manifestato dalla sconnessione
e dalla incoerenza del linguaggio. Del giudizio e dei suoi elementi.
Quando il soggetto distingue per la prima volta un dualismo nell'oggetto, cioè
da una parte quello che, prima di questo atto psichico,costituiva tutto l'og
getto, indistinto nelle sue qualità, e dall'altra quello che scorge ora in esso
mediante l'atto di distinzione e vede che questo è connesso con quello in modo
che senza di esso non sarebbe,si fa quel che si dice un giudizio. Sicché per
avere un giudizio occorrono due fatti distinti fra di loro ed un atto
psicologico che li connetta.Però bisogna considerarequestitreelementi di cui
consta il giudizio come dati tutti e tre insieme nello stesso atto. Dei due
fatti che possono dirsi anche termini,perchè significati con parole, il primo,
quello che prima del l'atto psicologico faceva una sola cosa con la qualità che
ora si distingue da esso e che meglio osservato e scrutato può mostrare altre
qualità inerenti a sé,onde può divenire obbietto di altri giudizii,si chiama
sog getto;la nota che gli si attribuisce sidice aggettivo od
attributo; l'atto psicologico col quale gli si attri buisce è il verbo. Bisogna
bene intendersi sul significato della parola soggetto che si usa nel giadizio.
In generale soggetto significa ente attivo, ente operoso. Si chiama soggetto
l'anima cosciente e distinguente sè dall'oggetto e nel l'istesso tempo l'anima
che esercita la sua attività sul mondo esteriore che considera come suo
oggetto. E poichè dall'animale inferiore all'uomoedall'uomoemi nente per
pensiero e per azione questa attività cono scitiva ed operativa sempre più si
afferma e cresce, è cosi che la parola soggetto,quantunque possa ap plicarsi indistintamente
alla serie degli enti animali, pure compete in sommo grado all'uomo ed all'uomo
che abbia la più grande energia nel campo del pen siero e dell'azione. Intesa
cosi la soggettività, scendendo dall'animale alla pianta, sembra non essere più
il caso di dovere applicare la parola soggetto;ma,poichè la pianta è un
organismo dutato di attività la quale consiste nel compiere una serie di
funzioni interiori per le quali è continuamente messa in rapporto coll'ambiente
este riore ad esso (aria,luce,terreno)e manifesta, quan tunque in modo assai
più imperfetto di quel che si compia nell'animale, per mezzo di una serie di
feno meni esteriori, i suoi fatti interiori ed il suo orga nismo compie una
storia, pure si può concedere il nome di soggetto alla pianta la quale cosi
manifesta anche essa una certa energia. 19 Ma igrammatici ed
ilogici hanno anche dato il nome di soggetto non solo ad ogni opera dell'uomo,
che può considerarsi come un tutto armonico in sé, avente un determinato
fine,ma ad ognipartediessa, ad ogni ente della natura inferiore ed inorganica o
adunframmentodiessa,adogni minerale,adogni fatto ineccanico o chimico e financo
hanno consi derato come soggetto le qualità e gli attributi stessi delle
cose.Però l'uso che in questo caso i gram matici hanno fatto della parola
soggetto può essere giustificato,considerando che ciascuno degli enti in
feriori agli enti organici e psichici è sempre un com plesso, anche quando sia
semplice parte, di qnalità o proprietà concentrate e connesse insieme; onde, rigo
rosamente parlando, non si può negare ad essi una certa energia senza la quale
le proprietà non potreb bero esistere in essi; possiamo chiamare questa
energia, meccanica, fisica o chimica; ma è sempre una energia E non si può non
concedere che le qualità stesse che si considerano come attributi delle cose
possano essere considerate ancora esse come soggetti,quando si riconosce che
ciascuna qualità,essendo inerente a molti soggetti i quali hanno altre
proprietà differenti, contribuisce in modo differente all'energia di ciascuno
di essi. Cosi quando si parla della gravità che è una proprietà dei corpi, si
vede che essa si manifesta di versamente secondo che si tratta di an corpo
gassoso o di una pietra o di un liquido o di un pendolo o del sistema planetario.
Quando ilsoggettodelgiudizioèconsiderato o stu diato dal soggetto psichico
allora può anche chiamarsi oggetto; perchè, quantunque attivo in sè, è sempre
qualche cosa di passivo relativamente al soggetto psi chicoilqualeesercitalasua
azionescrutatricesudiesso. Il secondo termine del giudizio, cioè quella
qualità o quella determinazione che, quantunque insita nel soggetto o estranea
ma conveniente ad esso,per mezzo dell'atto psicologico gli si riconosce come
connessa, è stata chiamata dai logici attributo o predicato.Rap presentando il
soggetto un gruppo di proprietà dif ferenti, suscettivo di ulteriori giudizii,e
l'attributo una sola qualità o determinazione,è chiaro che questo può essere
applicabile a più soggetti, non essendo ciascun soggetto costituito di
attributi assolutamente speciali a sé; ma in mezzo ai tanti attributi comuni a
molti soggetti ha solo qualcuno che conviene esclu sivamente a lui. Dei molti
attributi che costituiscono un soggetto una parte sono sensibili o percettibili
per mezzo degli organi dei sensi. Ogni oggetto del mondo esteriore è fornito di
peso,ha una grandezza variabile, una re sistenza, è situato ad una certa
distanza dallo spet tatore, ha una forma fissa o cangiante,un colore,una
composizione mineialogica, chimica o organica, può presentare una struttura
determinata, uno stato ter mico, può vibrare in modo differente nella intimità
clelle sue molecole, può esercitare un'azione più o meno irritante o elettrica
o offensiva sull'organismo del soggetto,può dare speciali odori,può
essere gn. stato per mezzo della lingua. Ma vi sono altri attri buti i quali
non sono percepiti per mezzo degli or gani dei sensi ma vengono compresi
mediante un atto della mente, quantunque le attività percettive possano
contribuire o avere contribuito alla comprensione di queste nuove specie di
attributi. Sono tutte quelle qualità che riguardano la provenienza od il fine
del soggetto,isuoirapporticon altrioggetti,lasuaazione favorevole o nociva su
di essi o viceversa. Inoltre il soggetto acquista attributi non semplicemente
sensi bili quando desta in noi stati interiori piacevoli o do
lorosi,ricordanze,speranze etimori,ma qualche cosa di più che sensibile, poichè
in quel caso viene scossa l'intimità della nostra vita interiore. 22
Quantunque a primo aspetto sembri che ogni at tributo sia una qualità semplice
e non suddivisibile in altre qualità,benchè una qualità possa averevari gradi
d'intensità, ciò che non la fa considerare come qualche cosa di fisso, pure può
una qualità essere il risultato di un sistema di altre condizioni o attributi.
Quando diciamo che l'animale è sensibile,la nota della sensibilità pare che sia
una qualità sola; ma, se si pensa che per essere sensibile l'animale deve im
plicare una serie di organi e di funzioni e di condi zioni esteriori
all'organismo, si è costretti ad ammet tere che quest'attributo è come la
risultante di fatti molto complessi, non è dunque un attributo semplice. Se
diciamo che Giulio ė ragionevole quest'attributo è Il soggetto e
l'attributo non potrebbero costituire il giudizio senza l'atto psicologico col
quale l'uno ė connesso con l'altro; senza questo atto i due termini non
avrebbero fra di loro altro legame fuori quello accidentale della coesistenza e
della successione, che è un legame psicologico, non logico. Rigorosamente
parlando,è quest'atto che costituisce ilverogiudizio; però senza i ter.nini
esso non potrebbe essere, non sarebbe che una mera possibilità. Questo atto che
è espresso dal verbo è quella scrutazione che l'anima attiva fa tra i due
termini, per la quale si riconosce che l'uno è connesso
indissolubilmente,intimamente e necessariamente con l'altro.Questo nesso intimo
che lega i due termini è un fatto obbiettivo delle cose, non è una pura
produzione dell'atóività psicologica, però non si pno pervenire ad esso senza
l'attività picologica. È questa un'alta attività a cui l'anima umana per
viene;perché per mezzo di essa può internarsi nella natura dell'obbietto,
vederne il movimento, compren derlo ed assimilarselo. Sicché non si arriva al
fatto logico senza l'attività psicologica e senza di questa l'energia logica
rimarrebbe nella inconsapevolezza delle cose naturali, rimarrebbe per sempre
muta ed inco municabile ad alcuno, Per questo vgni atto giudica di una
natura cosi complessa che deve presupporre un ricco sistema di condizioni
perchè possa darsi. L'attributo ragionevole perciò non implica un fatto cosi
semplice come l'attributo pesante. tivo non è un atto meramente
psicologico,ma è anche obbiettivo, il suo contenuto cioè corrisponde al conte
nuto delle cose;ed in quest'atto si uniscono e com penetrano l'energia psichica
e l'energia delle cose. Con l'atto giudicativo, subbiettivo insieme ed ob
biettivo, si entra nel vero campo logico e si può dire che è sul giudizio che
poggia tutto l'organismo logico e che è il giudizio, considerato nel suo
sistematico svolgimento,che costituisce la parte più importante della logica e
che il primo prodursi della più rudi mentale attività giudicativa dell'uomo o
dell'animale segna ilprimo apparire del mondo logico. In generale si può dire
che sempre che ilsozgetto principia a giudicare l'oggetto della percezione o
la 24- Però'seil giudizio come necessaria convenienza dell'attributo al
soggetto è la forma più perfetta alla quale il soggetto pensante non arriva se non
dopo una lunga educazione,vi sono molte forme di giudizio inferiori ad essa,
che possono considerarsi come tanti tentativi che l'anima fa per penetrare
nell'intimità delle cose ed impadronirsene. Ciò conferma il fatto che non vi è
un limite netto tra la psicologia e la logica e che se vi è una parte della
psicologia quella inferiore, in cui non vi è nulla di logico,e che se vi è
un'altra parte della psicologia, quella ultima e più raffinata, in cui ogni
energia o la più parte delle energie sono logiche, vi è una larga zona
psicologica in cui si manifestano le prime tendenze logiche ed in cui il lavoro
logico è eseguito allo stato bruto. rappresentazione di esso,allora
questa cessadiessere rappresentazione psicologica e diviene rappresenta zione
logica; e non vi è alcuna rappresentazione logica la quale non sia insieme,
implicitamente od esplicitamente, giudizio. E, se l'infimo gra lo della
rappresentazione logica deve implicare un solo giudizio almeno nella sua forma
primitiva e bruta,un'alta rap presentazione logica si ha quando essa implica un
gran numero di giudizii. Delle tre parti in cui si può considerare divisa la
logica (la meccanica, la chimica e l'organica), la rappresentazione logica cosi
intesa esaurisce le due prime parti. Se l'anima non può principiare ad eseguire
funzioni logiche dall'infimo al massimo grado se non quando è divenuta
percettiva,perchè allora solamente distingue fra di loro i fatti del mondo
esteriore e distingue al cune proprietà di ciascun fatto,giacchè senza la mol
teplicità dell'obbietto non può eseguirsi funzione lo gica di sorta, nondimeno
non in tutto quello che per cepisce od in tutto quello che si rappresenta nella
coscienza interiore vi è energia logica o, quando vi è, non vi è all'istesso
grado in tutto. L'anima vivente o va incontro ad una varietà di fatti e
steriorioquestilesipresentano a caso ovvero a s siste ad un inovimento di
rappresentazioni o fa l'una cosa e l'altra insieme ed intercorrentemente.
Questi fatti si succedono o coesistono fra di loro e sono per cepiti dal
soggetto nella loro successione o nella loro coesistenza. Ogni fatto deve
perciò connettersi ad un altro fatto; e questa connessione può essere di
due specie,o casuale estrinseca,ovvero intima,vera,con veniente. Bisogna però
distinguere la casualità e la estrin- sechezza,tra ifatti psichici,che rimane
sempre tale pel soggetto, per quanto questo possa elevarsi alla più alta
attività psichica,dalla casualità e dalla estrin sechezza che apparisce tale al
soggetto solo tempo raneamente nel primo periodo della sua storia,quando non
ancora è giunto al grado di potere compiere un lavoro psicologico cosi intenso
da sapere vedere una connessione intima tra due fatti; onde questa gli si
presenta estrinseca senza esser davvero tale e, con un ulteriore sviluppo
dell'attività soggettiva,sparisce la estrinsechezza e comparisce la intimità.
no Non si può non ammettere però che questa estrin sechezza vera è in certo
modo relativa al grado di sviluppo dell'attività del soggetto psichico;perchè,a
vendo ciascun soggetto nel mondo es'errore un campo Nel caso della
estrinsechezza vera, per quanto in oggetto si succeda ad altri od apparisca al
soggetto in concomitanza con altri oggetti, anche con un ac curato studio, non
si saprà mai trovare una ragione del succedersi di un avvenimento ad un altro o
della coesistenza di un fatto con un altro, di una qualità con un oggetto;giacchè
ciascuno oggetto apparisce come assolutamente indipendente dirimpetto
all'altro, perchè non lo modifica in alcun modo nė ne ė dificato.
speciale nel quale si esercita la sua attività, onde é messo
frequentemeate in rapporto di coscienza solo con un determinato aggruppamento
di oggetti, egli può vedere meno di estrinsechezza tra questi oggetti che non
tra quelli estranei alla sua azione.In ragione che il soggetto allarga sempre
più il suo campo og gettivo e lo scruta con maggiore intensità l'estrinse
chezza si allontana sempre.E quando l'obbietto del l'attività soggettiva è
tutto l'universo allora il filo sofo,guardando le cose dal più alto punto di
vista che è quello dell'unità,non vede più estrinsechezza di sorta tra le
cose;perchè ogni cosa vi apparisce come organo di un vasto sistema ed è
necessariamente connessa a tutti i gradi di esso. La
intimità,laveritàelaconvenienzatradueog getti (e perciò tra due
rappresentazioni) o tra un og getto ed una sua proprietà si ha allora quando
l'uno non può essere in alcun modo indipendente dall'altro per cui sempre che è
dato l'uno è dato l'altro o, se prima è dato l'uno, dopo verrà necessariamente
dato l'altro. Ora questa intimità ha vari gradi che possiamo riepilogare in tre
zone logiche principali,presentando ciascuna zona immense gradazioni. La
prima zona, quella più elementare in cui si de signano le prime linee del mondo
logico, di là dalla quale vi è il puro mondo degli oggetti delle percezioni e
delle loro rappresentazioni scomposte e sconnesse, ha questo di particolare che
in essa alcuni oggetti o rappresentazioni sono, è vero, legate, da nessi
intimi, ma questa intimità è al suo minimo grado,rasenta quasi la
estrinsechezza;perchè della loro intimità non si vede altro che il semplice
succedersi costantemente diuna rappresentazioneadun'altraodilsemplicecoe
sistere di una rappresentazione con un'altra.E questa conquista il soggetto può
avere fatto non solo per pro pria esperienza ma anche per tradizione o per quel
che si è detto consenso degli uomini. Qui non si vede alcuna ragione della
convenienza delle due rappre sentazioni,alla qualeilsoggettorimaneperfettamente
estraneo; e tutta l'attività del soggetto si esaurisce nel vedere questo puro
costante coesistere e succe dersi delle cose e perciò il giudizio che esso compie
è semplicemente meccanico, non fa che constatare quanto avviene nel mondo
naturale. Così l'attività del soggetto qui è meccanica e delle cose non afferra
che il semplice meccanismo,l'energia più elementare della natura, il muoversi
delle cose per la loro pura gravità o per la loro forza od il muoversi per
forze estranee ad esse ma che agiscono su di esse. In questa zona logica va
compresa anche quella elementare attività giudicatrice mediante la quale si
scopre o constata qualche proprietà o qualità che in teressa gli organi
sensibili e percettivi del soggetto, come il sole è luminoso; è un'attività
giudicativa molto elementare.A questa zona logica possono per venire gli
animali superiori e quegli animali inferiori i quali si elevano alla
percezione, quantunque gli a nimal¡ non possono esprimere con
paroletaligiudizii, poichè bastano certi atti o movimenti che
l'animale esegue adimostrarecheessohacompiutoungiudizio. Ma questa attività
meccanica logica non solamente rappresenta la prima epoca dell'energia logica
umana e l'energia dialcuni animali,ma anche quando l'uomo è atto ad elevarsi ad
una attività logica superiore compie ordinariamente giudizii logici meccanici.
È questa la posizione dell'uomo incolto. Di tutti gli a v venimenti naturali ed
umani ai quali egli assiste non può vedere altra intimità che quella meccanica
ed estrinseca; alla ragione intima dei fatti egli non perviene. La seconda zona
che si dice chimica e che sta più in alto alla precedente ed alla quale non si
perviene se non per mezzo della precedente rappresenta quel campo della logica
in cui il soggetto può compiere un più complesso lavoro di penetrazione tra gli
og getti, onde quei nessi intimi che prima vedeva in modo quasi estrinseco sono
visti davvero nella loro intimità. La parola chimica sembra bene
adoperata;perchè cor risponde a quello stato della energia della materia in cui
gli elementi relativamente semplici si compe netrano ed uniscono insieme per
formare un corpo di una più elevata natura ed in cui corpi di complessa natura
si scindono nei loro elementi sem plici;ondelachimicadelcampo logico
corrisponde a quel grado delle attività psicologiche per le quali il soggetto
afferra la convenienza vera di un oggetto. e delle sue proprietà e vede le
intime ragioni per le 29 nuovo La zona chimica logica si
evolve cosi dalla mec canica non solo, ma questa coesiste nella chimica;
perchè, anche quando vediamo il rapporto chimico di
duerappresentazioni,vièsempreillato meccanico, l'incontro cioè di due oggetti o
di un oggetto ed una qualità,quantunque questo meccanismo sia assorbito e
trasformato dal chimismo. Avviene nel campo lo gico quel che avviene nel campo
naturale in cui il chimismo implica ilmeccanismo,quantunque non sia
semplicemente tale,essendoilmeccanismotrasformato ed elevato ad un più alto
grado di esistenza nel chi mismo il quale senza di esso non potrebbe darsi.
Però non bisogna credere che, quando l'uomo è ar rivato alla zona chimica della
logica tutti i suoi atti logici siano giudizii chimici;perchè questi,implicando
una grande difficoltàacompiersi,nonpossonofarsida ciascun uomo che in un campo
speciale che ha scelto come materia del suo studio e delle sue ricerche; il
resto della sua attività logica è rappresentato sempre dal meccanismo e questo
può intercorrere nel chimi smo logico od alternarsi ad esso. quali il
soggetto non può fare a meno di quellapro prietà e questa deve sempre
necessariamente andare congiuntaalsoggettoinquellecondizioni.É questo, si può
dire, il campo della conoscenza vera e della scienza dove il soggetto compie le
più elevate forme di giudizio,risultato di una lunga scrutazione psico logica
nei rapporti delle cose. Il giudizio nella sua for.na più elevata,
implicando quell'atto del soggetto cosciente mediante il quale si riconosce che
ad un oggetto del mondo naturale o ad un ente spirituale che qui diviene
soggetto logico con viene intimamente e necessariamente un dato at tributo,
esprime un rapporto tra i due termini che nelle stesse condizioni,deve essere
tale costantemente, sempre vero, oggi e sempre, qui ed ovunque. Per questa
ragione il giudizio non va soggetto a m u t a zioni per tempo e perciò si
esprime sempre com'è,in tempo presente.Ogni dubbio,'ogni incertezza circa alla
concordanza perfetta dell'attributo col soggetto nondarebbeilverogiudizio;seperòilsoggetto
ri conosce l'incertezza nel suo atto giudicativo e cerca di uscirne per addurre
la verità, sforzandosi di eser. citare tutto il suo potere percettivo nella
scrutazione dei termini e nel loro rapporto, allora l'incertezza è
unbene,perchèciconducealverogiudizio.Per la stessa ragione, quando in un
giudizio interviene il de - Considerazioni sul giudizio.
siderio o la speranza od iltimore,non siavrà ilvero giudizio. - I
logici classici si sono molto occupati della nega zione nei giudizii e li hanno
perciò distinti in affer mativi o positivi e negativi: affermativi sono stati
detti quei giudizii in cui si riconosce che l'attributo conviene al soggetto,
negativi quelli in cui questa convenienza non si ha.Ma evidentemente ilogicinon
hanno ammesso che è sull'oggetto della percezione o della sua rappresentazione
che primitivamente deve volgere ogni giudizio e che bisogna guardarsi bene dal
giudicare prima di avere studiato e scrutato bene l'oggetto.Se questo
sifacesse,sivedrebbelainutilità e la vacuità di una gran parte di qnesti
giudizii ne gativi,come è dimostrato anche dal fatto che alcuni giudizii
negativi possono tradursi in positivi.Quando si ammette che un dato corpo non è
solido, implici tamente si ammette che è liquido o gassoso.Per que sta ragione
i veri giudizii devono essere tutti positivi; perchè, rigorosamente parlando,
lo scienziato deve conoscere quello che una cosa è non già quello che non è.
Quando si tratta che il soggetto può avere uno di due attributi che sono fra di
loro contrari e che se gli convieneuno di essi gli sconviene neces sariamente
l'altro, si dice che allora si possono for mulare due giudizii,l'uno negativo e
l'altro positivo. Ma è facile osservare che, fatto il giudizio positivo, è
perfettamente inutile formulare il negativo ilquale con parole diverse,per
mezzo della negazione,ripete la positività del primo giudizio. Vi sono
però dei casi in cui pare che il giudizio negativo dovrebbe aver luogo. Cosi
noi sappiamo che una data pianta deve fiorire; se la guardiamo in un'e poca in
cui il fiore non è apparso,dobbiamo dire che la pianta non è fiorita; ma
d'altra parte è in es.a la possibilità di dovere fiorire; poichè in tutti i
fatti che implicano uno svolgimento od una storia non tutte le qualità che
devono costituirli possono essere date belle e compiute dal bel principio;
perchè ciò escluderebbe la storia; a ciò pensando, la pura nega. tività di
questo giudizio è spuntato. Che se poi guar diamo la pianta non fiorita come ci
si presenta per cettivamente, allora non si ha alcuna ragione a par lare di
negazione. Sappiamo inoltre che la sensibilità deve essere un attributo necessario
all'uomo; ma permalattiedelsi stema nervoso questa funzione può perdersi, onde
il direalloraquest'uomonon sensibile,potrebbepa iere un giudizio negativo
incontestabile; ma si tra scura di considerare che quani'o l'uomo è divenuto
insensibile non è pixi l'uomo compiuto, ma l'uomo che è nel declivio della
dissoluzione e della morte e che, dicendo che non è sensibile, si riconosce che
la sua Molti, parlando e scrivendo, anche di cose scienti fiche, fanno
grande uso di questi giudizii negativi; ma è questa una consuetudine di linguaggio
chequalche volta fa anche vedere la poca sicurezza e la povertà delle nostre
cognizioni; perchè il difficilc non sta nel dire quel che una cosa non è,ma
qnelcheèdavvero. attribuzione sarebbe la sensibilità e che questa
si è perduta solo per condizioni morbose. Nondimeno se il giudizio negativo è
possibile esso può solo avere laragionediessereinquesticasididissoluzione edi
sfacelo degli organismi e delleistituzioni,quantunque anche allora,stando alla
semplice percezione, si po trebbe semplicemente giudicare quel che l'oggetto
pre senta di positivo; m a allora il soggetto che pensa non può fare a meno dal
paragonare la primitiva gran dezza o la perfezione tipica di una data cosa con
la dissoluzione e la rovina presente, onde quel che è ora è la negazione di
quel che era prima. Può avvenire lo stesso quando si tratta di paragonare
varioggetti fra di loro. Il giudizio nella sua forma classica è rappresentato
dal soggetto, dal presente del verbo essere e dall'at tributo. M a il soggetto
per tenere avvinto a sè l'at tributo deve esercitare una certa energia che
indica il vero nesso tra il soggetto ed il suo attributo; ora il giudizio formulato
in quel modo non fa vedere tutta questa attività del soggetto,ne fa vedere,si
può dire, la minima parte. All'incontro sono i verbi attributivi i quali
possono risolversi nel verbo essere e nell'at tributo, che manifestano la vera
energia, la vera at tualità del soggetto, che costituisce il giudizio nella sua
realtà vivente; perchè fanno vedere il soggetto che si manifesta nel suo
attributo e fanno vedere l'at tributo vivificato dal soggetto.Per questa
ragione il giudizio espresso nella sua forma classica trova più ragione di
essere applicato nelle sfere inferiori mec. caniche della natura,quelle che
manifestano una energia più povera, relativamente alla energia animale ed umana
erelativamente all'altaenergiadella vita dello spirito. Qui tutte le attività,
tutte le funzioni che si esercitano e che si esprimono con verbo sono gin dizii
viventi. Se diciamo questo corpo é rotondo l'a' tributo, quantunque inerente al
soggetto, pure è con siderato come qualche cosa d'indifferente ad esso.Qui si
tratta del giudizio nella sua primitiva forma. Ma se diciamo questa pianta
fiorisce facciamo un giudizio della seconda forma, perchè qui vediamo il
soggetto che crea il suo attributo e vive in esso Ammesso il concetto del giudizio
qui dato, risulta evidente che ogni giudizio implica una sintesi ed una analisi
insieme e nello stesso atto. L'analisi vi dà la dualità dei termini, siano
nello stesso soggetto che tra due oggetti; e l'analisi è un morrento necessario
al giudizio; poichè senza il dualismo giudizio non v i sarebbe; m a d'altra
parte cesserebbe l'atto stesso del e per esso. Più elevata e spirituale è
la natura del soggetto e più è ricco di attività speciali e più verbi glisipos
sono attribuire e più giudizii compie, svolgendosi e vivendo.Più ilsoggetto
appartiene alle sfere della materia bruta e meno verbi gli si possono
attribuire più le sue qualità possono essere espresse con la forma classica del
giudizio; ma ciò non toglie che anche giudizii di questa fatta possano eseguirsi
sopra alcuni soggetti di elevata natura. giudizio se questo non
fosse insieme sintetico; cés sando la sintesi cesserebbe anche l'analisi e
viceversa. Non vi sono perciò giudiziipuramente analiticinè pu ramente
sintetici;per conseguenzailsoggettovivente compie continuamente un'analisi ed
una sintesi delle sue qualità e lo scomparire dell'una o dell'altra ap porta la
morte di esso. Quando diciamo giudizio diciamo ancora ragione, pensiero. Però
come il giudizio consiste più nell'atto psicologico,corrispondente al nesso
intimo che vi è tra due rappresentazioni, che nella distinzione dei ter miui,
quantunque i termini siano necessari al giudizio e senza di essi giudizio non
vi sarebbe,lo stesso deve dirsi del pensiero e della ragione. Se non che queste
due parole, considerate come semplice giudizio,dicono molto meno di quel che
dicono quando sono adoperate nel senso assoluto del loro contenuto. Quando
diciamo il pensiero,la ragione si vuole intendere il sistema di tutti i nessi
possibili di tutte le rappresentazioni delle cose della natura e dello spirito
insieme, sog gettivamente ed oggettivamente considerate. Quando poi sono
applicate come semplice giudizio equivalgono ad un pensiero,una ragione. Per
alcuni logici la parola proposizione esprime la stessa cosa chela parola
giudizio eperòsiadoperano promiscuamente queste due parole. Ma se vi sono verbi
attributivi che possono ridursi a giudizio,ve ne sono però altri i quali non vi
si possono ridurre, perchè non corrispondono pienamente a quel che siè detto dovere
essere un giudizio. Quando conosciamo Si comprende però che gli
avvenimenti storici pos sono essere guardati dal punto di vista estrinseco e
quasi accidentale come fanno gli storici che riprodu cono i fatti semplicemente
nel modo come sono suc cessi;ma questistessifattipossono ancheesserestudiati
scientificamente e filosoficamente, considerati cioè in quel che essi hanno di
intimo,di necessario e di co stante; allora, entrando quei fatti nel dominio
della scienza,possono divenire obbietto di giudizii, le proprietà e le
speciali energie dei fatti naturali o psichiciosociali,ecc.allora possiamo
faregiudizii; perchè si hanno avvenimenti e fatti che sono sempre gli stessi
nelle stesse condizioni e si manifestano co stantemente ad un modo; ma se narriamo
le gesta di Annibale o di Alessandro, ciascun verbo che siamo costretti ad
operare non può essere il verbo di un giudizio;perchè esprime un avvenimento
singolo che non è stato prodotto che da quel tale individuo in quelle sue
particolari condizioni ed in quelle condi zioni di tempo,di luogo,in quello
stato speciale di un popolo,avvenimento che non può più riprodursi e perciò il
giudizio non si ha quando si deve espri mere uii fenomeno che non può ripetersi
frequente mente,che è avvenuto una volta e non piùequando non si vede alcuna
necessità del suo ritorno. In questo caso,più
cheillinguaggioscientificoelogico,abbiamo illinguaggio storico,ed allora,più
che ilgiudiziosi ha la proposizione:cosi è spiccata la differenza tra il
giudizio e la proposizione:questo esprime gli avve nimenti storici, quello i
nessi logici. Il soggetto che giudica é determinato dall'atto stesso del
giudizio alla vitapratica.Ogni essere vivente,dal l'animale infimo all'uomo, si
sforza, come è noto, una condotta assai elevata, presupponendo ciascun suo atto
una molteplicità di giudizii;onde si vede l'intimo rapporto che passa tra una
grande intellettualità e la vita pratica. ancora 38 sottomettere ai suoi
bisogni la natura esteriore, ed ogni atto,ogni movimento che l'animale esegue,cer
cando di fuggire il malessere e di addurre a sè il benessere,presuppone una
distinzione negli oggetti concuièinrapporto.La formicachevaincercadel frumento,
riconoscendo in questo la proprietà di n u trire,non solo compie un
lavorogiudcativo ma anche un atto col quale manifesta tale lavoro psichico.In
tutti i pericoli che gli animali schivano come in tutti i movimenti che fanno
per prepararsi il nido o per andare in cerca del cibo e per
conservarsi,sipossono riconoscere gli atti che presuppongono ilgiudizio,per
quanto questo possa essere classificato tra i giudizii meccanici. I psicologi
in questo caso parlano d'istinto; ina è sempre l'istinto nel giudizio. In
questo senso gli atti degli animali equivalgono ad un linguaggio che esprime
alcuni nessi logici,quantunque sia il lin guaggioin
unaformabrutaemonca.Intuttigliatti che gli uomini fanno per raggiungere i loro
fini e la loro felicità si può riconoscere la conseguenza di un giudizio.E si
comprende come l'uomo eminente che ha una perfetta conoscenza delle cose possa
avere di Il soggetto può compiere sull'oggetto un numero grande di
giudizii secondo che pixi educato e svilup pato è ilsuo potere di scrutazione e
secondo che più complicata è la natura dell'oggetto. Cosi, vivendo e studiando,
la rappresentazione psicologica primitiva che il soggetto ha delle cose si
arricchisce di attributi e di qualità ovvero sirisolvein attributiiquali erano
primitivamente confusi in quel che dicevamo oggetto e che costituivano tutto
l'oggetto.Nondimeno durante e dopo questo processo di scrutazione l'oggetto
rimane sempre come qualche cosa in cui alcune qualità sono distinte ed altre
indistinte, potendo le qualità indi stinte ricomparire subito distinte secondo
che l'attività giudicatrice si rivolge su di esse ed allora le distinte ritornano
indistinte. Si verifica anche qui un'applicazione speciale di quella legge
psicologica secondo la quale in una data unità di tempo il soggetto non può
compiere che un lavoro limitato e,come non può scrutare che succes. per
la prima volta sipresentino allo studio del soggetto; in questi casi è la legge
generale che pre domina. Dopo che si è compiuto sopra un oggetto un n u mero
considerevole di giudizii non si deve credere che allora l'oggetto sia
conosciuto pienamente.Più chela conoscenza del soggetto, si ha allora la
conoscenza di un mucchio di note coesistenti;perchè,se il giu dizio è un'alta
funzione psicologica e lozica, non è però la più alta la quale si ha invece
quando tutte le note di cui l'oggetto risulta appariscono in esso come organizzate,
cioè si ha un organismo di giu 40 sivamente un dato numero di oggetti e
di rappresen tazioni,per la stessa ragione non può compiere in una unità di
tempo e nello stesso atto psichico che un numero limitato di giudizii,
quantunque succes sivamente possano essere compiuti sopra un oggetto
tuttiigiudiziidicuipuò esseresuscettivo.Perònon si può sconoscere che le
abitudini della mente possono arrivare ad un'altezza cosi meravigliosa:da
conside rare come compiuti una serie di giudizii che non si haavutoiltempodicompierepacatamenteodicom
pierli in un breve atto: è il meccanismo che penetra nelle più elevate regioni
psichiche ed in cui si sem plifica, per mezzo della ripetizione, il processo
giu dicativo primario che è più lungo e difficile. Ma in questi casi si deve
trattare di compiere sempre giu dizii già compiuti altre volte o negli stessi
oggetti od in oggetti differenti già percepiti, non in oggetti che
dizii. In generale con la parola conoscenza si vuol dire non solo
l'apprensione e la ritenzione delle pro prietà dell'oggetto e degli oggetti in
connessione fra diloro,ma ancorailoronessiconlealtreproprietà dello stesso
oggetto e con le proprietà delle altre cose, a differenza del pensare e
delragionareincuisitiene pii conto dei nessi delle cose. Quando l'oggetto è un
mucchio di proprietà, queste aderiscono a quel centro comune che primitivamente
costituiva tutto l'oggetto indistinto in sè stesso;e,se si ha qui il grande
vantaggio che ciascuna nota e per mezzo dell'atto giudicativo connessa
all'oggetto, non si vede la ragione del coesistere di tutte queste qualità
nell'oggetto e non sivede alcuna ragione del l'incontro delle note fra di
loro.La parola mescolanin che usano i naturalisti quando vogliono indicare il
coesistereel'essere diparecchi corpi incontattol'uno dell'altro senza perdere
la loro natura corrisponde a questa sfera dell'obbietto logico in cui si
possono c o m piere molti giudizii sullo stesso obbietto, ma senza che l'uno
eserciti una preponderanza sull'altro,senza che l'uno abbia un valore superiore
all'altro,e perciò ciascun giudizio ha un valore per sè; e considerati tutti
fra di loro costituiscono una mescolanza. Quandoilsoggettocominciaa
scorgerenellarap presentazione la proprietà più appariscente,quella sopra tutto
per la quale l'oggetto ha costantemente un valore speciale ed un uso,ed intorno
a questa nota costantemente si aggruppano, con nessi pi'i o meno 3. -
+1 intimi, altre note si principia a scorgere nell'oggettu i primi
rudimenti del sistema il quale può darsi non solamente tra le note dello stesso
oggetto, ma anche tra più oggetti, secondo il campo su cui si esercita
l'attività soggettiva. Intendere logicamente il sistema significa fissarlo nel
suo minimum primitivo ed in una forma più com plicata e seguirlo a mano a mano
sinoallaforma piiz completa in cui cessa di essere puro sistema e di venta
sistema funzionante, sistema di sistemi ed ganismo vivo. un si OL 42
L'intendimento del sistema è stata una delle pii grandi conquiste che ha fatto
il pensiero filosofico in generale ed il pensiero logico in particolare. Questa
parola che primitivamente ha significato la molte plicità scomposta delle cose
è stata ulteriormente usata ad indicare la molteplicità ordinata di esse. È la
filosofia di Hegel che ha compreso il sis'ema nella sua forma più alta e come
non era mai stato fatto prima. Considerando Hegel l'universo come stema, si è
molto addentrato nella comprensione delle cose. E, come il sistema occupa una
gran parte cosi nel mondo della natura come in quello dello spirito, perchè
interviene in ogni grado di essi e senza il si stema nessuna cosa potrebbe
intendersi, cosi costi tuisce anche una sfera del mondo logico, tanto che senza
di esso non potrebbe intendersi il concetto che rappresenta in sommo grado
l'energia logica. Il sistema nella sua forma primitiva trova il suo
In questa forma primitiva il sistema apparisee, anche al soggetto
superiore, nel regno minerale ed inorganico od anche in tutto ciò che l'uomo,
serven dosi di materiali bruti ed amorfi, foggia pei suoi bi sogni; poichè qui
si hanno sempre forme inferiori di sistema.Qui le qualità connesse al sistema
sono co stanti finchè dura l'oggetto; non hanno una energia superiore a quella
meccanica, fisica o del chimismo inferiore od inorganico. Il sistema solare
presenta una forma più perfetta di sistema;perchè esso presenta una
molteplicità,un centro ed una periferia e gli uni di cui risulta sono di visi
fra di loro e dal centro per mezzo di grandi tratti di spazio e sono uniti al
centro del sistema riscontro nel regno minerale; il sistema della seconda
forma trova il suo riscontro nel regno della vita; ma anche qui si
riproduce,quantunque trasformato, il sistema della prima maniera. La forma più
rudi mentale di sistema si ha quando ilsoggetto aggruppa intimamente intorno
alla nota più importante dell'og getto altre note secondarie od intorno ad un
oggetto principale altri oggetti di secondaria importanza fra i quali passino
rapporti più o meno estrinseci. È questo il sistema quale apparisce alla
soggettività volgare la quale non sa considerare l'oggetto diver samente anche
quando ha dinanzi a sè un sistema nella sua più alta forma quale può apparire
allo scien ziato. per legge di gravitazione. Per quanto si osservi qui in
la alto grado di sistema, perchè ciascuno degli elementi non è
autonomo,ma connesso al centro,pure serva tra le parti di cui il sistema
risulta una grande estrinsechezza. Per trovare una più elevata forma di sistema
dob biamo entrare nel regno della vita e nei tessuti che co stituiscono
l'organismo animale o vegetale;ma anche qui il sistema si presenta in una
grande e meravi gliosa graduazione; perchè se in questa sfera gli ele menti che
devono intervenire non sono, si os non sono, come nelle
formeprecedenti,esseriinorganici,ma entidotatidi vita e di una più o meno
grande energia interiore e non sono divisi fra di loro per mezzo di distanzepiù
o meno grandi,ma sono in qualche modo in contatto fradiloro,ilcentroperò che
deve implicare ilsi stema non è sempre determinato, anzi non vi è nei sistemi
dei tessuti vegetali o nei tessuti di un'impor tanza inferiore degli
animali,comeperesempio iltes sutograssosoedilconnettivale.Per questa ragione ė
più perfetto quel sistema in cui gli elementi istolo gici che sono dotati di
vita sono non solamente con nessi od in contatto fra di loroma anche unitiinuna
comunione funzionale e che vi sia un centro ove con vergano le attività degli
elementi e che l'energia fun zionale dal centro s'irradii anche verso la
periferia. E, come vi è una sola funzione, quantunque assai multiforme, che
circola pel centro e per le parti che, per contrapporle al centro, possiamo
chiamare peri feria, vi deve anche essere la stessa identità di co
stituzione chimica tra gli elementi istologici di cui risulta il sistema.
I biologi distinguono il sistena dall'apparecchio il qnale consiste in un
complesso di organi di varia strut tura,ordinatiinmodo fradiloroda
compiere'una: funzione di complessa natura.Cosisidice apparecchio respiratorio,
uditivo, visivo, ecc. Inteso l'apparecchio in questo senso, ha una importanza
logica intermedia tra l'organo ed il sisteina, superiore a quello, infe riore a
questo. Ma un siste.na della vita non ha che una funzione speciale e non
autonoma; perchè è connesso agli altri sisteini e non può compiere questa
funzione senza l'in tervento e l'aiuto di altri sistemi. È qui che l'auto nomia
del sistema principia a venir meno; perchè cia. scun sistema non fa che
compiere una funzione spe ciale in un sisteina che co.nprende tutti i sistemi
della vita, ciò che s'indica col no.ne di organismo. Anche dicendo sistema di
sistemi si dice sempre meno di quel che dice la parola organismu, la quale
include una grande intimità e reciprocità funzionale tra i singoli sistemi e
tra gli elementi istologici di cui risulta il sistema. Da questo punto di
vistasesideve riconoscere che il sistema circolatorio sanguigno sia un grande
si stema si deve però ammettere che non vi è nell'orga nismo un sistema più
compiuto del nervoso, sia per la elevatezza della funzione che per la
meravigliosa struttura e per la ricchezza e bellezza delle forme che esso
presenta. Nel sistema una parte può venire sottratta senza
cheilrestodies30vadainrovina;maun organo qualunque dell'organismo non può
essere tolto senza che l'organismo non perda una nota fondamentale della vita,
la quale induce una diminuzione generale della perfezione organica e funzionale
e se l'organo ha una importanza grande nell'organismo adduce la caduta o la
morte di esso. La parola fisiologismo adoperata nel senso moderno (non nel
senso antico e greco secondo il quale signi fica semplice attività naturale)
contrassegna la nota più saliente dell'organismo che è la vita animale.Però il
fisiologismo non è una sfera naturale autonoma ed indipendente dalle altre zone
inferiori naturali;in esso -46 Sipuò dire che solamente in questo
secolo,pei grandi progressi che si sono fatti negli studi sulla vita in senso
largo, si è potuta comprendere la grande importanza dell'organismo. Quando si
dice che l'uni verso èun organismosivuole indicare un fattodiuna natura assai
più complessa ed elevata che quando si dice che esso è un sistema. Quegli
elementi che nel sistema diciamo parti nell'organismo diventano organi
iqualisono,èvero,parti,manonconnessialresto più o meno estrinsecamente, come
avviene nel sistema ordinario; e sono elementi attivi e funzionanti pel resto
dell'organismo tanto che contribuiscono grandemente a tutta l'energia
dell'organismo e viceversa, questo dà ad essi un alto significato che, fuori
dell'organismo, non avrebbero. Ilchimismo,quantunquerappresenti una
seriedi fatti inferiori a ciò che costituisceilfisiologismo,pure costituisce
parte integrante di questo, cosi nel senso scientifico come nelsenso
logico,tanto che senzachi mismo non potrebbe darsi fisiologismo; poichè non vi
è funzione fisiologica la quale non implichi una serie di complicazioni e
riduzioni chimiche. E, poichè non vi è fatto chimico che non implichi nello
stesso tempo fatti meccanici e fisici; il fisismo èparte integrale del
chimismo,cosi scientificamente come logicamente,e per conseguenza anche
dell'organismo. Ed il fisismo si trova nel fisiologismo non solo come assorbito
dal chimismo, ma anche come indipendente da questo. Cosi nell'organismo, oltre
ai fatti chimici si trovano fatti anche puramente fisici, quantunque questi si
tro vino in complicazione coi fatti chimici e fisiologici; ma però il soggetto
può fissarlied isolarli dagli aitri fatti e considerarli come puramente fisici.
Avviene cosi nell'organismo logico quel che avviene nella natura in generale in
cui le zone inferiori sono ciascuna autonoma e per sè e nell'istesso tempo in
al troeper altro.La meccanica e la fisica rappresentano invece sono
implicate il chimismo ed il meccanismo ofisismo (adoperando anche questa parola
nel senso moderno non nel senso antico secondo il quale vorrebb e indicare
semplicemente il fatto naturale. Si sa che la fisica moderna studia solamente
alcuni fatti della n a tura, come la gravità, il calorico, la dinamica, l'elet
tricità,la luce,la vibrazione dei corpi,ecc.). alcuni gradi della
natura dove si manifestano in tutto il loro potere.Ed anche la chimica è una
zona per sé della natura,ma frattanto in questa devono ne cessariamente
intervenire le sfere precedenti, mecca nica e fisica, altrimenti non potrebbe
sussistere come chimica.E similmente i fatti più complessi della na tura quali
sono la vita vegetale ed animale non po trebbero sussistere senza le due zone
precedenti; giac chè non vi è fenomeno vegetale ed animale senza che
v'intervengano fatti fisici e chimici. Ifisiologi,inquestiultimitempi,avendo
riscon trato fatti meccanici nell'organismo ed una certa so miglianza
dell'organismo al meccanismo, si sono stu diati a tracciare le differenze che
passano tra l'orga nismo ed il meccanismo ed hanno conchiuso che l'organismo
non è un meccanismo. Per quanto giuste sieno state le osservazioni fatte, pure
avrebbero rag. giunta una più vera conoscenza dell'organismo se avessero detto
che esso implica ilmeccanismo, quan tunque il meccanismo che si trova
nell'organismo non sia come quello che si trova nei congegni meccanici, ma
trasformatoecomplicatodaifattidellavita;ondeé sempre una sfera
dell'organismo. 18 Nel campo psicologico si raggiunge la sfera della
perfezione quando l'anima èdivenuta organismo degli stati suoi, di sè stessa e dell'oggetto,
ciò che è la mente; e non si raggiunge questo punto senza essere passati pel
meccanismo psichico prima e pel chimismo poi;enondimeno queste due
formediattivitàpsichica esistono sempre nella mente come due sfere
subordi nateefondamentali per essa,tanto che quando l'or ganismo mentale
comincia a decadere, permanentemente o temporaneamente, ricomparisce il
chimismo prima e poi gradatamente il meccanismo come forme autonome
psichiche,e,quandoperunaincompiuta educazione psicologica,l'uomo non raggiunge
la mente, si arre sta al chimismo. Il meccanismo psichico pure contras segna la
vita animale e l'ultimo stadio di decadimento della mente già compiuta. La
parola organismo trova più propriamentelasua applicazione, che non la parola
sistema, quando si vuole significare in modo saliente quel che sia la fa
miglia,lasocietàoloStato.La molteplicitàdegliin dividui funzionanti di cui una
società risulta,l'essere questi individui animati da un fine comune che è lo
spiritonazionaleecheècomeilcentrodelle individua lità,la varietà di classi,di
funzioni, di aspirazioni, di attività in cui si possono scorgere tanti fini
secon dari o aspetti speciali e necessari del fine comune,onde non tutti
gl'individui partecipano all'istesso modo al raggiungimento di questo fine, ilpermanere
dello spi rito nazionale mentre gl'individui che vivono in esso e per esso
muoiono erinascono, fa diuno stato un or ganismo assai più complesso e di
un'assai più elevata natura che non l'organismo animale. E più lo stato ė
organico in questo senso e più è perfetto. Si può dire anzi che,dal primo
costituirsi dello stato sino allo stato come può essere ai giorni nostri, si
nota una tendenza a raggiungere la forma perfetta della orga nicità.
Quando si parla di organismo, sia che si tratti del l'organismo vegetale od
animale, che dell'organismo eticosihad'innanziunaltro fattopiù complessochene
rende più difficile la conoscenza ed è che l'organismo non può essere
conosciuto in sè stesso se non è messo in relazione con tutto ciò che lo
circonda. La pianta non può essere conosciuta se non si conoscono le sue
relazioni con l'aria,col terreno,col calorico, ecc.La vita animale non sipuò
conoscere pienamente se non si vedono irapporti che la legano al cibo che
rappre senta il mondo esteriore, all'atmosfera, al clima, al luogo.Sisa che
l'animaleassorbisce qualche cosadal mondo esteriore e lo rende ad esso per
altri modi e per altre vie.Anche gli organismi etici non possono sussistere
senza un ambiente non solo naturale, ma anche etico. Uno stato non può esistere
senza il suo territorio,senza un determinatoclima,senzaiprodotti delsuolo,come
non pno aver una vita spirituale propria senza assimilarsi il pensiero degli
altri stati, senza essere in rapporto con essi e senza esercitare un'azione
sugli altri stati. Il soggetto, passando dall'oggetto in cui questo è una
mescolanza a quello in cui è un sistema ed a quello in cui è un organismo,
compie un lavoro giu dicativo chimico progressivamente intenso.Conseguen
temente larappresentazione dell'oggetto sidetermina sempre più e diventa anche
essa sistematica ed or Perchè si
abbia il concetto logico le note di cui il concetto risulta devono essere
comprese tutte nel loro organismo, di ognuna di esse deve vedersi la neces sità
e l'importanza; poichè se di qualche nota non si sa vedere la necessità,cioè se
non si vede diessa la connessionealtuttoedallepartioaglialtri or gani od alle
altre parti dell'oggetto,mediante un giu dizio intimo od una serie di giudizii,
non si ha più ilconcettologico;siha alloralarappresentazione logica. Sicchè la
rappresentazione logica si ha non solamente quando delle proprietà che
costituiscono l'oggetto una o parecchie sono viste nella loro con nessione
intima con esso e le altre sono viste acci dentalmente, ma anche se l'oggetto è
compreso,nella maggioranza delle sue note, nel suo sistema e nel suo organismo
e solamente una nota di esso non è vista nel sistema o nell'organismo, non si
può dire che si abbia allora la conoscenza compiuta dell'og getto;sihasempre
una conoscenza inferiore cheè ganica non solo in sè stessa, ma anche in
connes sione con altre rappresentazioni; cosi anche a m a n o à mano la
rappresentazione bruta e puramente psico logica diventa rappresentazione
logica. Ma quando l'oggetto o la rappresentazione di esso è un sistema od un
organismo, allora siamo innanzi ad una nuova zona logica che è il concetto che
vuol dire conoscenza sistematica ed organica delle cose.Cosi si può fare una
distinzione precisa tra la rappresentazione logica ed il concetto logico.
Poichè la conoscenza sistematica ed organica del l'oggetto è l'ultima a
raggiungersi dal soggetto,s'in tende che prima di averlo pienamente raggiunto,
un certo numero di note ha dovuto essere considerato come inesplicato od
accidentale e non è stato espli cato se non dopo un ulteriore studio del
soggetto. La perfetta conoscenza di un oggetto o di un fatto può non essere
stata raggiunta dall'individuo che pensa;ma può possedersi dagli scienziati o
conser varsi negli annali della scienza; può ancora non es sere stata raggiunta
dagli scienziati. In tutti e due questi casi si è nella sfera della
rappresentazione lo gica,non del concetto. Finora i logici non han fatto
distinzione tra r'ap presentazione e concetto ed han contrassegnato l'una e
l'altro insieme con la parola idea. Si sa che la pa rola idea è stata
largamente usata dai filosofi greci, dai filosoa del Medio-Evo e del
Rinascimento e dai filosofi moderni e contemporanei. Quantunque dallo studio
delle opere di Platone e di Aristotele appari sca che questi due grandi
filosofi abbiano bene di stinto quel che ora si dice conoscenza rappresenta
tiva dalla conoscenza perfetta delle cose,la opinione dalla verità,pure
essi,usando la parola idea, pare 32 la rappresentazione logica. In questo
caso una o pa recchie note sono considerate come inesplicabili ed accidentali,
mentre le altre sono considerate come ne cessarie ed esplicate (la nota
esplicata è la nota con nessa all'oggetto mediante l'atto giudicativo).
che non abbiano tenuto conto di questa distinzione e l'abbiano invece
adoperata per indicare indistinta mente l'una cosa e l'altra: ciò che,
trattandosi di un fatto di tanta gravità per la scienza, non può non ingenerare
confusione ed equivoci nella mente del lettore. Gli stessi equivoci hanno
sostenuto, adoperando la parola idea ifilo:ofidelMedio-Evo,delRinascimento, i
filosofi moderni e contemporanei.Non si deve però noverare tra questi l'Hegel
il quale frequen:emente nei suoi libri accenna alla differenza che deve pas
sare tra la rappresentazione e la nozione od il col cetto.E se è vero che anche
egli fa moltissimo uso della parola idea, l'adopera però per indicare il si
stema od i vari gradi del sistema dell'universo; ed in questo caso è chiaro che
la parola idea deve corri spondere al concetto. Ma,anche posteriormente all'Hegel,ilogici,
ado perando la parola idea, non han creduto necessario dichiarare se essa deve
corrispondere alla rappresen tazione od al concetto; però nel fatto l'hanno
adope rata per indicare l'una cosa e l'altra indistintamente come si vede dai
trattati di logica che circolano per le scuole di tutte le nazioni. E vi sono
anche alcuni logici che adoperano promiscuamente le parole idea e concetto;ma
non si può dire che la parola concetto che essi usano corrisponda a quel che si
è detto do vere essere il concetto, anzi, stando a certe divisioni che essi ne
fanno, si deve conchiudere che per co: 53 cetto essi
intendono la rappresentazione. Cosi essi, tra le altre divisioni dei concetti,
ne fanno una in concetti chiari ed oscuri,distinti e confusi,completi ed
incompleti; ma un concetto che sia oscuro o con fuso od incompleto deve essere
una rappresentazione non un concetto. Per l'uso equivoco che della parola idea
si è fatto per tanti secoli e perchè può ancora ingenerare con fusione nella
mente, sembra necessario il non doverla più adoperare,tanto più che le parole
rappresentazione e concetto,che sono anche esse due parole classiche,
corrispondono benissimo a distinguere due gradi dif ferenti di quello che i
logici hanno indicato con la parola idea. La parola concetto ha nella
lingua latina ed ita liana un significato assai profondo e complesso;poiché
esprime l'ultimo e più compiuto risultato di un pro cesso,diuna
seriediavvenimentiiqualihannoavuto il loro punto di partenza in un fatto che è
il loro presuppostonecessarioelaloropossibilità.E questi avvenimenti devono
essere legati fra di loro con legame tale di successione che ciascuno di essi
non può rappresentare che un dato grado del processo, non può prodursi cioè
prima che si sieno dati altri gradiod avvenimenti più o meno elementari che
esso pre suppone e da esso devono prodursi altri gradi più c o m plessi i quali
menano al pieno risultato del processo. Cosi si vede che la parola concetto
include w a storia e che questo processo concettuale si riscontra non solo
nella natura, nel suo insieme, ma anche in ogni grado di essa con questo
diparticolare che più ci eleviamo nelle sfere alte della natura, quali sono la
sfera della vita e dell'umanità,più questo processo. Del Concetto lin
si esegue compiutamente e, relativamente, in breve tratto di tempo ed
ogni proprietà di ciascuno entedi queste importanti zone della natura compie
insieme con le altre proprietà una storia. Quel processo che avviene nella vita
dell'animale e della pianta risponde bene a quel che è un concetto. Si sa che
la pianta ha il suo punto di partenza nel germe che può considerarsi come il
grado infimo di essa,di là dal quale non vi è nulla della pianta. Partendo dal
germe la pianta attraversa una serie di gradi,lo sviluppo delle foglie e la trasformazione
di esse nel fusto, nei rami, nei fiori e nel frutto che racchiude il seme, ciò
che segna il grado ed il limite ultimo dell'esistenza della pianta; onde essa
parte dal germe e ritorna al germe. Si può dire che nel germe sono implicati
tutti i gradi della pianta e che il grado che segue alla trasformazione del
germe lo include come un presupposto necessario e cosi pos siamo dire del grado
successivo relativamente ad es:a. È stato dimostrato che il fiore è una
trasformazione della foglia ed il frutto è una trasformazione del fiore e
perciò anche della foglia e che anche il seme sia una foglia trasformata; onde
nel frutto sitrova come un grado ad un presupposto necessario il fiore e perciò
anche la foglia, all'istesso modo che nel fiore sitrovalapossibilitàdelfrutto.Ora
lastoria com piuta della pianta si ha quando essa attraversa tutti questi gradi
e si considera uno di essi come quello a cui mirano i gradi precedenti, cioè il
frutto ed allora 56 possiamo dire di avere il vero concetto
della pianta. Cosi quando diciamo concetto diciamo anche sviluppo. Da ciò si
vede che il processo del concetto che è il concetto stesso delle cose non deve
essere inteso come una progressione aritmetica.Da un grado non sipassa
all'altro mediante una aggiunzione di qualche cosa a -- Ma gli
avvenimenti di cui risulta il concetto non solo devono essere legati fradi loro
pel nesso di suc cessione ma anche pel nesso di coesistenza; giacchè, quando il
concetto è dato,esso rappresenta un com plesso di avvenimenti o di proprietà le
quali ha con quistato e conservato nel suo processo,di cui ciascuna è
necessaria, benchè non necessaria all'istesso modo
chelealtre,perl'attualitàdelconcetto;enon po trebbe mancare senza che il
concetto venisse sconvolto o degradato. Però bisogna bene intendere questo
conservare che il concetto fa delle proprietà che acquista, nell'at traversare
tutti i gradi necessari prima di attuarsi pienamente; giacchè le proprietà di
un grado non sono conservate come precisamente tali nel grado seguente, ma sono
conservate ed insieme trasformate e complicate. Cosi nel fiore non abbiamo la
somma delle qualità della foglia insieme con quelle del fiore; ma
lequalitàdellafogliasisonotrasformateinquelle del fiore, di modo che vi si
conservano ma non come puramente tali,son divenute cioè proprietà nuove.E
questa trasformazione avviene in tutti i gradi che il concetto
attraversa. qualchecosaltro il quale, dopo l'aggiunta,rimanga come
puramente tale insieme con la cosa aggiunta, di modo che l'ultimo grado possa
essere considerato comelasommadeigradiprecedentiedincuiigradi precedenti si
conservino come puramente tali. In vero iprimi filosofi hanno compreso il mondo
come una progressione quantitativa;peressilaveritàdelle cose non era che un
risultato di una moltiplicazione o di una sottrazione dell'istesso principio
naturale; e l'esplicazione dell'universo dal punto di vista m a t e matico e
quantitativo è stato quasi sempre tenuto di mira dai pensatori e dagli
scienziati.Anche aitempi nostri in cui le scienze particolari possono dare
larghi contributi per arrivare ad una concezione organica delle cose e
dell'universo, è sempre il punto di vista quantitativo che esercita le più
grandi attrattive su gli scienziati, anche quando si tratti di argomenti i più
complessi ed ipiù remoti dalla quantità pura,come la vita sociale o nazionale o
la vita organica; si sa che anche ai giorni nostri ilcervello,come organo
supremo dellavitaorganicaementale dell'uomo,sicrede non po tersi altrimenti
intendere che considerandolo dal puuto divistaquantitativo.Ma
ènotochePlatoneedAristo teleavevanointravistochelamatematicaedilnumero sono
insufficienti per la comprensione piena delle cose e che l'HegeleilVera, apiùriprese,hanno
molto insi stito nel far vedere l'importanza limitata della mate matica nel
sistema dell'Universo e nel far vedere che il sistema delle cose non può essere
compreso che dal punto di vista qualitativo e specifico il quale
però presuppone come un elemento subordinato la mate matica, ciò che è ben
diverso. a numero, quantità a quantità, mentre la chimica va
dall'identico al non identico, che è il vero processo delle cose. Il processo
chimico non esclude il processo matematico;perchè non può esservi processo
chimico senza il processo matematico; si sa che la chimica procede aggiungendo
atomi ad atomi, molecole a molecole,ciò che èprocesso quan titativo e, mentre
nella sfera della quantità, aggiun gendo quantità a quantità, questa è
semplicemente aggiunta o sovrapposta a quella la quale,dopo questa nuova
aggiunzione, nulla acquista enulla perde della sua natura qualitativa
primitiva;aggiungendo all'in contro chimicamente atomi o molecole specifiche ad
atomi ed a molecole specifiche, viene come risultato un corpo avente proprietà
nuove, tutte diverse dalle proprietà che avevano gli elementi di cui si compone
il nuovo corpo. Si sa che l'idrogeno e l'ossigeno di cui sicompone chimicamente
l'acqua hanno proprietà diverse dalle proprietà che ha l'acqua. E ciò si può
dire di tutti i corpi composti relativamente ai corpi semplicidicuirisultano.È
questoillatoimportante e meraviglioso del processo chimico. Noi crediamo che il
principio chimico,la cui impor tanza era sfuggita agli antichi e si è vista
solo ai tempi moderni,possa, più del principio matematico, esprimere bene il
vero svolgimento delle cose;giacchè la matematica procede dall'identico
all'identico, ag giungendo numero a numero, Sembra ora assodato
dalla scienza chimica che l'im mensa varietà dei corpi composti inorganici ed
orga nici sipossano tutti scomporre in quei pochi e deter minati corpi semplici
ora conosciuti.Ebbene,in qual modo con cosi pochi corpi semplici si possono
otte nere corpi innumerevoli con proprietà differentissime gli uni dagli
altri?Semplicemente mutando ledispo sizionichimicheomolecolari;odaggiungendo
sem plicemente una molecola di un nuovo corpo a molecole costituenti prima un
altro corpo o moltiplicando una molecola specifica di un corpo composto di
determi natemolecoleosottraendonealcuneadalcune.È questo processo che ci dà
corpi di natura tanto differenti e diversi. 60 Ma se la chimica occupa un
largo campo nellana tura,dallamateriaprimaallamateriacheraggiunge la più alta
forma complicativa, alla sostanza nervosa,dap pertutto nella natura essendovi
più o meno lente e conti nue complicazioni osemplificazionichimiche,ilprincipio
però chimico,quello secondo il quale di due o più cose od elementi che si
uniscono si forma un nuovo grado ilqualeha proprietànuoveedifferentidaquelli
dai quali risulta,rimane non solamente nella natura ma anche nella storia delle
cose naturali ed in quelle dello spirito. L'animale non s'intende aggiungendo
alle note che costituiscono la pianta, la sensibilità ed
ilmovimento;eseèveroche alcune qualità della pianta si trovano nell'animale,
queste hanno assunto ụną naturą tutta nuova nell'animale, tanto che,rigo
rosamente parlando, ciò che costituisce la vita della pianta non si
rinviene punto come tale nell'animale; perchè quelle note che costituiscono la
pianta sono nell'animale elevate ad una nuova zona e vivificate e complicate e
moltiplicate da una nuova vita.La nu trizione dell'animale è tutta differente dalla
nutri zione della pianta, all'istesso modo che la struttura organica della
pianta differisce dalla struttura animale. Ciò
portanecessariamenteunadifferenzanotevolenella storia della pianta ed in quella
dell'animale; sicchè tutto è nuovo nell'animale relativamente alla pianta e si
ha nell'animale una nuova e complessa serie di proprietà tutte differentidalle
proprietàvegetali.Cosi una proprietà che si aggiunga modifica tutte le altre
proprietà, come fa la sottrazione di una data proprietà o funzione nell'animale.
Nella storia organica e psicologica del regno ani male troviamo dominare lo
stesso principio; giacche, se vi è una vasta scala di specie animali,in
ciascuna specie la modificazione di una data proprietà organica e
psichica,relativamente ad altre specie,adduce con sė una corrispondente
trasformazione di tutte le altre proprietà organiche,funzionali e
psichiche.Cosi laforma esteriore degli animali non è indifferente al loro grado
di energia funzionale e di energia psichica; la sensi bilità è varia secondo le
varie forme organiche,,se condo le varie forme di sistema nervoso; i movimenti
sono vari secondo che è varia la sensibilità ed è vario il sistema scheletrico
ed il sistema muscolare. Una Inoltre l'individuo come tale ha
attribuzioni che non -varietà organica dunque non si ha senza avere unà
varietà di tutte le altre proprietà e funzioni dell'ani male; cosi di ogni
proprietà animale. Si sa inoltre che alla vita di uno stato devono con
correretantecondizioni,tantifattori; ma c'inganniamo se crediamo che ciascuna
condizione non eserciti se condo il suo grado alcuna azione determinante su
tutte le altre condizioni e perciò su tutta la vita nazionale. L a ricchezza
non è nè il solo fine né il solo fattore di una nazione;ma uno statoricco può
avere un gran mezzo per creare condizioni necessarie ad elevare lo spirito di
una nazione in tutti i suoi aspetti, a far felice la fa miglia e gl'individui;
e d'altra parte uno spirito n a zionale elevato trova molte vie aperte
all'acquisto della ricchezza.I grandi individui contribuiscono a far grande una
nazione e d'altra parte sono le grandi nazioni che fanno le grandi
individualità. Un'alta vita reli giosa non può intendersi e compiersi che nelle
grandi nazioni e d'altra parte lo spirito religioso dà un ele vato contenuto
all'arte,allaletteratura,spingegliuo mini alle investigazioni scientifiche e
filosofiche, può dare indirizzi nuovi alla vita politica, commerciale,
economica dei popoli, può dare un'impronta speciale a quel che
sidicespiritonazionale.Ciascunfattoredella vita sociale dunque, mentre è
modificato dagli altri fattori, dal loro grado di energia o di decadimento,
contribuisce a modificare,svolgendosi,quale che sia il suo grado, gli altri
fattori. 63 ha come faciente parte della famiglia in cui acquista
nuove e più alte qualità,onde,senza il sacrifizio e senza l'abnegazione
dell'individuo,lafamiglianon può vivere una vita rigogliosa. Cosi le
attribuzioni della famiglia sono differenti da quelle dello stato, quan tunque
senza la famiglia lo stato non potrebbe essere, essendo questo costituito di
una moltitudine di fa miglie e perciò d'individui, i quali nello stato acqui
stano nuove e più alte qualità; onde nello stato le famiglie e gl'individui non
sono come sono fuori dello stato, Il principio chimico domina cosi la vita
della n a tura e dello spirito,non ilprincipio matematico, quan tunque la
chimica implichi e presupponga lamatema tica senza la quale né il chimismo, nè
la natura, nè lo spirito stesso potrebbero essere.Onde,sepuò dirsi che il
chimismo è lo schema dell'organismo delle cose, la matematica può dare lo
schema quantitativo del chimismo e per conseguenzadellecose;ma perquesto è più
lontana che non la chimica dalla realtà che non può intendere e che è sopra
tutto qualitativa; ed è la chimica che fa intendere il concetto e che costi
tuisce la seconda zona logica e che è parte integrante della vita del concetto
più che la quantità la quale può corrispondere alla prima zona logica.
S'intende che qui si parla del chimismo logico, non della chi mica come sfera
della natura, la quale ha anche essa il suo concetto, come qui si parla della
matematica come principio logico;non della matematica come sfera
speciale del pensiero e delle cose; poichè come tale ha anche essa il suo
concetto. Sicché non si nega che la matematica possa dare un certo schema della
realtà e che perciò non sia una certa logica; si afferma solamente che essa ci
dà uno schema assai povero della realtà, che non ce la fa intendere. In vero la
logica classica non è stata che la logica matematica e se vi sono oggi dei
logici i quali, coltivando la logica intesa matematicamente, credono di
coltivare una nuova logica,essi s'ingannano, quantunque però diano nuovi
svolgimenti alla vec chialogicalaquale,se nonpuòesserelalogicadella vita e dello
spirito,può essere però la logica delle sfere inferiori della natura,della
meccanica, in tutti i suoi gradi, e della fisica intesa come grado della natura
in generale. Si sa che tutti i fatti meccanici e fisici possono ridursi a
formole matematiche, quan tunque allora non saranno la meccanica e la fisica
che ci guadagneranno, le quali sono sfere molto più con crete e ricche che le
matematiche pure; onde,ridotti i fenomeni meccanici e fisici a schemi
matematici, essi perdono la loro concretezza, perchè sono semplificati (le cose
non potendo essere intesa che dal punto di vista semplificativo
ecomplicativoinsieme;onde,s'in tende la meccanica e la fisica non solamente
quando sono intese matematicamente, ma quando sono intese matematicamente ed
insieme meccanicamente e fisica mente; in quel caso guadagna però la matematica
la quale estende i suoi confini). I fatti però meccanici e fisici
dell'organismo non sono cosi facilmente riducibili a schemi matematici; non
avendosi allora il meccanismo ed il fisismo puro od inferiore, ma ilmeccanismo
ed ilfisismo come gradi dell'organismo,onde quei fatti sono allora determi nati
da cause chimiche ed insieme fisiologiche e per ciò sono di una provenienza
oscurissima e complica tissima; perchè il fatto meccanico o fisico può essere
effetto di moltissime e svariate condizioni organiche e sono nello stesso tempo
effetto e causa di altri fe nomeniorganici.Cosisipuòdiredei fenomeni psi chici
e sociali; onde, per quanti sforzi la matematica faccia per entrare in questo
regno, essa non potrà impadronirsene mai, potrà però calcolare matematica mente
i fenomeni estrinseci di essi.Ciò conferma sem pre più il principio che non può
essere la matema tica lo schema della realtà; ma è il chimismo. Aristotele, il
primo grande logico dell'antichità e quasi il fondatore della logica, le cui
dottrine per 22 secoli hanno doininato e dominano ancora nelle scuole, perché
non si possedeva ai suoi tempi una conoscenza profonda della natura e dello
spirito come si possiede ora, non poteva darci che la logica quantitativa che
si può considerare come il grado primitivo e più ele È lo studio profondo
dei fenomeni biologici come in gran parte è stato compiuto ai nostri tempi, che
può farci vedere la grande importanza del processo logico chimico per
raggiungere il vero concetto delle cose;e ciò non era possibile prima dei
nostri tempi. mentare della logica. L'Hegel poi può dirsi il fonda
tore della nuova logica più per avere fatto vedere l'insufficienza della logica
classica ad intendere la realtà anzichè per averci dato compiuta la nuova lo
gica;e ciò perchè anche ai suoi tempi gli studi na turali e biologici non
avevano raggiunto quell'alto grado cheraggiunseroposteriormente.Nondimeno l'ap
parire della logica di Hegel segna nella storia un'e poca grandiosa;poichè,per
mezzo di essa sono state poste le basi e si sono fatti i primi passi della lo.
gica reale come può aversi e svolgersi ai nostri tempi. Inteso il concetto come
l'ultimo risultato del pro cesso storico e chimico delle cose non ha più quel
l'importanza che ha nella logica classica il capitolo della comprensione e
della estensione dei concetti, in cui il concetto è inteso solo
quantitativamente. Bisogna distinguere il concetto che sta per co.n piersi dal
concetto compiuto; quello può essere chia mato concezione o concepimento che
indica appunto l'atto del compiersi del concetto. Ora nell'atto che il concetto
si forma attraversa vari gradi di cui cia scuno, se è considerato come
arrestato nel suo c a m mino,può essereconsiderato come unconcettopersė; e si
considera come grado di un altro concetto se as sume qualità e forme nuove di
esistenza tanto che puòcorrispondere adun concettopiù compiutodiesso; ed in
questo caso esso fa parte della concezione o del concepimento del nuovo
concetto; e ciò può dirsi di ogni concetto. Considerando da questo punto
di vista l'universo, si scorge facilmente che ogni sfera,ogni grado di esso è
insieme concepimento e concetto, cioè è assorbito e complicato chimicamente in
un concetto più alto e nello stesso tempo può essere considerato come un con
cetto in sè. Questo duplice fatto forma dell'universo un vasto sistema e
nell'istesso tempo un grandioso organismo;perchè ciascun concetto è in sè e per
sè ed insieme in altro e per altro. conce -67 Questo principio si osserva
con evidenza in tutte le zone delle mondo della natura. I minerali ed i feno
meni fisici sono insieme in sè e per sè in una deter minata zona della natura
(concetti);ma essi sono per la chimica relativamente alla quale sono
pimento.Cosi la chimica rappresenta anche una de terminata zona del mondo
naturale;ma, mentre è in sè, e perciò è un concetto,è anche concezione;perchè
la chimica è per la vita della pianta e dell'animale e
perciò,mediatamente,anche ilminerale èperlavita. Nel regno della vita questo
processo diconcepimento continua; perchè,quando è data la forma infima della
vita vegetale, si passa da forme vegetali semplici a forme gradatamente e
successivamente più complesse sino all'ultima forma vegetale che potrà dirsi la
più compiuta.In questo processo quei gradi che inatura listi dicono specie
rappresentano appunto la conce zione della pianta;per cui ciascuna specie
èinsieme concetto e grado del concetto superiore.Lo stesso può dirsi
dellapiantarelativamenteall'animaleedelmondo della vita animale in
generale. Quando siconsideral'uomonell'ordinedellanatura sembra
cheinluisiabbial'ultimorisultatodellastoria e del processo naturale; ma d'altra
parte l'uomo non è per sè solamente; perchè egli è quel che è per la famiglia e
per lo spirito nazionale che egli contribuisce a formare ed in cui vive e si
muove,all'istesso modo che lo spirito nazionale è per Dio che è il puro per
fetto spirito in cui perciò si ha il vero concetto ed a cui tutta la concezione
dell'universo aspira; perchè Dio non è più per altro ma per sè ovvero ė inaltro
per sè; e tutta la vita ed il movimento della natura e dello spirito terreno
non sono che un processo di ele vazione a lui e fuori di lui non sarebbero e
non po trebbero esplicarsi. Cosi vi è un solo concetto e l'universo è una serie
di concepimenti che sono relativamente concetti.E questi concetti costituiscono
un processo di compli cazione che è chiuso tra due limiti estremi, il massimo
ed il minimo. Il limite minimo si ha nell'elemento primo della naturaeperciò
del pensiero,diqna dal quale vi è il sistema e l'organismo dei concetti, di là
dal quale vi è il nulla della natura e del pen siero. Come tale questo limite
minimo dei concetti può essere concepimento od elemento del concetto che segue
ma non concetto.Il limite massimo ècostituito dal concetto assoluto, di là dal
quale vi ha del pari il nulla e di quà dal quale vi è tutto ilsistema e l'or
ganismo dei concetti. Ciò posto i concetti sono nella natura e nello spi
Le cose sono cosi in se stesse,obbiettivamente, con cezione e concetti;
ed il soggetto, volendo conoscerle, deve seguire lo sviluppo di ciascuna di
esse, dal suo primo ed infimo grado sino alla sua più compiuta realtà;deve
seguire il processo del formarsi e del trasformarsi delle proprietà costituenti
l'oggetto che siconcepiscesinoalsuoultimostato,come avviene degli enti morti o
sino al massimo grado della sua energia, come avviene degli esseri viventi o
degli or ganismi etici.Quandoilsoggettoavràcompiutoquesto lavoro psicologico
insieme elogico di concezione in modo che questo processo corrisponda
alprocesso obbiettivo rito,eperciònelpensiero,dispostiinmodo seriale;
onde ciascun concetto che è tra i limiti ha un prima ed un dopo ed è concetto
del concepimento 'precedente e concepimento del concetto seguente.Non sipuò
dire però che il concetto che precede sia compreso come tale e nel senso della
logica classica e con tutti i concetti precedenti dal concetto seguente; poichè
il chimismo che domina il processo dei concetti non a m mette
lacomprensionenelsensoclassico,cheè conside ratain senso puramente
quantitativo. Del pari non si può dire che ciascun concetto si estenda in altri
concetti; perchè esso è chimicamente assorbito e trasformato dal concetto che
segue immediatamente e non si può tro vare come semplicemente tale in altri
concetti'; onde la estensione secondo la logica dei secoli non risponde al vero;
perchè in questa i concetti sono estrinseci gliuniagli
altri,percuinonvièorganismodiconcetti. della cosa, egli allora avrà raggiunto
il concetto di essa: ciò che può dirsi cosi dei singoli concetti o di un si
stema di concetti che del concetto assoluto. L’economia nella vita
dell’animale e dell’uomo. L’attività economica è una nota propria e
fondamentale della vita animale ed umana. Essa è rappresentata prima dalla
fisiologia, cioè dalle funzioni dell’organismo. Ogni funzione or- ganica,
studiata analiticamente, dimostra una dualità, cioè due termini:
l’organismo vivente che rappresenta l’unità degli or- gani funzionanti; e
il mondo a lui esteriore con cui è in con- tinuo rapporto (alimento,
ossigeno dell’aria, acqua, calore, luce, ecc.). L’ uno dei due termini
scisso dall’ altro annullerebbe in- sieme con la vita l’attività
economica; e l’organismo dovrebbe disfarsi. La vita,
sostenuta da organi di elevata struttura e costi- tuzione chimica,
implica l’ unità degli elementi istologici, dei tessuti, dei sistemi e
degli organi che la rappresentano. Ma la funzione di ciascun organo e
sistema, mentre ha un fine che si esercita o dentro l’organismo, in aiuto
ad altre funzioni, o fuori dell’organismo, contro il mondo esteriore per
dominarlo e farlo servire ai suoi bisogni, deve implicare una continua
perdita materiale degli organi funzionanti, che si riduce contempora-
neamente in una degradazione chimica di sostanze componenti i tessuti e
gli organi, dallo stato di elevata natura a quello di più elementare
costituzione molecolare. Nello stesso tempo deve associarsi ad uno
sviluppo di forze fisiche (forza meccanica, vibrazioni molecolari,
calorico, elettricità). In tal modo i due termini debbono entrare
in un rapporto molto intimo e continuo fra di loro; giacché il termine
esterno naturale, rappresentato dall’alimento, dall’ossigeno dell’aria,
dal- l’acqua, deve diventare interno. Infatti l’alimento da
sostanza esterna e morta, quantunque di elevata costituzione
chimica. I giacché è stata vivente, come la carne, le uova, il
latte, le erbe, frutta e semi di varie piante, modificati esternamente e
poi in- geriti dall’animale e dall’uomo, vengono ancora modificati,
ri- dotti in sostanze relativamente semplici. Passate poi nel
circolo sanguigno vengono ancora modificate dalla presenza dell’
ossi- geno che i globuli rossi del sangue hanno fissato per nutrire
i tessuti in contatto dei quali sono messi e dai quali si compie
l’assimilazione. In tal modo il cibo raggiunge la sua massima
elevcizione; da termine esterno e morto diventa interno e vivo. Ma qui
comincia la scissura interiore, onde il termine interno diventa per mezzo
della funzione anche esso morto in alcuni suoi elementi e le sostanze che
lo costituiscono, decadute e sem- plificate, vengono così restituite al
mondo esterno, per mezzo dei reni, della cute, del polmone e ancora
modificate dalle glan- dolo di speciale segrezione; all’ istesso modo che
l’energia che costituiva il termine interiore si risolve in forze
meccaniche e fisiche le quali si spengono entro l’organismo stesso e nel
mondo esteriore, anche per mezzo del lavoro. Il termine
interiore che da prima è un organismo vivente di elevata struttura,
perchè è e sussiste, si può chiamare bene, secondo lo scrittore del
j)rimo capitolo della Genesi, per cui è bene tutto ciò che è creato
da Dio; ed il termine esteriore, perchè anche esso è e sussiste, si
deve anche esso chiamare bene; ma, poiché deve essere degradato
come tale, e trasfor- % maio e ridotto nei suoi
elementi; diviene male. E male il deca- dere, lo scomporsi, il menomarsi
degli enti. Ma, poiché dai suoi elementi di nuovo si ricompone, si
organizza ed alimenta la vita, diviene di nuovo bene; ma bene interno,
come il bene in- terno si trasforma in male interno airorganismo da
prima, poi in male esterno; perchè nei suoi elementi primi si trasforma
in male esterno, cioè in elementi inorganici senza una finalità su-
periore. Ma di nuovo può divenire bene esterno, perchè per mezzo di essi
si possono ricostituire i beni esterni più elevati (piante, animali,
ecc.). Il bene cosi si trasforma in male e questo in bene. L'antico detto
corruptio unius gene ratio alterius espri- me un principio che domina il
regno della vita vegetale ed animale, giacché anche la pianta si trova in
una posizione dua- listica tra sè e il mondo a lei esteriore (il terreno,
Tarla, la luce) ed è perciò in lotta con esso che tende a
conquistare, come questo è in lotta con la pianta. L'animale è in
una lotta più intensa col suo termine esteriore, la natura, come
questa % è in lotta contro Tanimale. E questo lo schema
più semplice della vita vegetale ed animale. Distinta cosi T
attività economica in due termini e fatta Tanalisi di questi, apparisce
più chiaro il concetto generico di economia. Quantunque questa parola sia
stata adoperata la prima volta in Grecia ed intesa come legge,
amministrazione della casa, implica anche il concetto di soddisfazione,
di godimento, che gli animali e noi abbiamo di qualche cosa che
dalTesterno penetri nel nostro organismo. Coinvolge anche il concetto
d'in- tegramento, conservazione, elevazione di qualche cosa di ma-
teriale per mezzo del lavoro delTuomo o per opera della na- tura stessa,
ma che rimane sempre nel mondo esterno alTuomo e di cui questi può
cercare di godere. Importa notare la differenza tra Teconomia della vita
ani- male e quella delTuomo, che implica insieme con la vita orga-
nica 0 animale, qualche cosa di superiore o mentale. Benché una grande
differenza vi sia anche nel regno stesso delTani- malità, nelle sue varie
specie, dalTaniraale infimo a quello della più complessa organizzazione,
giacché dalla prima alla seconda specie il processo della vita si va
sempre più complicando e specificando, alT istesso modo che si complica
ed aumenta di volume Torganisrao nei suoi tessuti e nei suoi organi; onde
si ha un'organizzazione più vasta e complessa, pure in quest'ara-
pia graduazione di animali lo schema dell* economia della vita è identico
in tutti; benché varia sia la quantità dell' alimento ingerito ed
assimilato e poi consumato e ridotto ad elementi semplici, come
corrispondentemente varia sia la somma delle forze fisiche
esplicate. L'animale infatti, a qualunque genere o specie
appartenga, non vive che monotonamente, sempre nel presente, benché
va- ria sia la sua attività esplicata per vivere, secondo la natura
della specie a cui appartiene, e vario sia l'ambiente naturale e
climatico in cui vive. Esso non ha cura che per conservarsi e per fuggire
i pericoli che lo minacciano; cerca la tana, il cibo, e l’acqua per
dissetarsi; alleva con molta cura i suoi nati e provvede per il loro
alimento; li protegge contro le insidie degli altri animali sino a che
essi non possano vivere da sè. Non provvede pel suo avvenire e, durante
la vita, non è suscettivo, a causa delle limitate sue condizioni
psicologiche, a migliorare la sua posizione economica, come è avvenuto
pel suo passato in cui si è riprodotto sempre identicamente lo stesso
tipo e la forma del suo organismo. Dall’animale all’ uomo si
fa un passo gigantesco; giacché questi, a causa della superiorità della
struttura del suo organi- smo e della sua intelligenza, si volge a
studiare continuamente sè e il mondo esteriore. Avendo il suo organismo
molteplici bi- sogni, egli si sforza di soddisfarli per mezzo delle
sostanze che trova nel mondo esterno; e, a differenza dell’animale,
prevede i suoi bisogni avvenire e provvede come può affinchè nulla
abbia a mancargli pel futuro. E, se tende da prima a sfruttare la natura,
come fa l’ animale, di poi, apprendendo da essa stessa i suoi metodi, si
sforza di produrre ciò di cui ha bisogno per vivere (piante ed animali
speciali). Si apn; cosi all’ uomo il campo della produzione dei
beni naturali di cui ha bisogno, e % che può ottenere
per mezzo deir ingegno e del lavoro. E una lotta che egli deve sostenere
contro la natura, che ha avuto principio col suo primo apparire sulla
terra, che è andata sem- pre crescendo ed intensificandosi lungo il
processo della storia e con lo sviluppo della civiltà; e che non avrà mai
fine, finché dura la vita umana. La materia economica non può perciò
essere intesa fuori della sua storia, anzi essa fa una sola cosa con la
storia del- r umanità; giacché questa ha la sua base nell' economia
e senza di questa non potrebbe essere; all' istesso modo che nes-
sun aspetto 0 grado del mondo naturale ed umano sfugge alla storia e
fuori di questa non potrebbe comprendersi. La scienza economica dunque
deve trattarsi storicamente. È questo un ten- tativo che può farsi solo
oggi, in tempo di un grande sviluppo dell'esperienza e della rifiessione
umana, in cui il pensatore acqui- sta coscienza di sé, dei propri bisogni
fisiologici e mentali e del mondo esterno naturale, in ciò che può
soddisfare i detti bisogni. Questa materia cosi deve essere studiata nei
suoi due ter- mini, il soggetto e l'oggetto, economici, ciascuno
nella sua storia e nel suo rapporto con l'altro, senza del quale nessuno
dei due termini potrebbe sussistere sotto l'aspetto economico; e
questo rapporto é tutto tra i due termini, per lo quale questi si
uni- scono e dividono continuamente. È la storia deU’umanità e
della natura insieme nel loro aspetto drammatico. Nel
trattare i principii naturali di economia bisogna trarre insegnamento
prima dello studio della storia deH'umanità. Ma nella storia fatta dagli
storici più valorosi e rinomati l'aspetto economico non è messo gran
fatto in evidenza; come se per loro » * non avesse avuto che un'
importanza trascurabile; non veniva perciò compreso e considerato
nella sua obbiettività e non si sognava che un giorno i posteri sarebbero
stati curiosi di cono- scere, nei suoi particolari, il metodo e la
materia dell' attività economica dei popoli di cui si narrava la storia.
Si credeva che il cibo e gli altri beni di cui l'umanità ha bisogno
sarebbero stati sempre abbondanti e perciò non meritava che gli
uomini se ne preoccupassero. Del resto anche gli storici più recenti
si sono cosi condotti verso l’aspetto economico della popola- zione. Pure
in ogni scrittore non possiamo non trovare qualche accenno alla vita economica
delle nazioni di cui si narra la storia 0, se non alla economia normale,
aireconomia patologica, come la carestia, la pestilenza, i risultati
della guerra, le emigrazioni e le immigrazioni, i perturbamenti della
natura fatti per opera della mano deiruomo, che, facendo vedere la
deviazione del processo economico normale e naturale nella storia, fanno
meglio vedere le necessità di questo. Avviene così nel campo economico
quel che avviene nel regno della vita, per cui le malattie che sono
la deviazione funzionale degli organi dal processo tipico normale
della vita, che apportano anche una corrispondente alterazione chimica,
istologica ed anatomica degli organi, hanno dato non pochi contributi
alla conoscenza delle funzioni normali della vita. Vi sono poi le
grandi crisi economiche nazionali o univer- sali, come quella che ora si
attraversa sull’ incarimento del costo della vita, un fenomeno nuovo e
gigantesco che non ha avuto l’eguale nella storia, la cui origine oscura
ci obbliga a riflettere e a meditare per risolvere Tenigma. Vi sono
inoltre gli errori della storia che il popolo stesso compie per suo
prò- prio istinto o che compiono gli uomini di governo, errori di
cui è piena la storia e che, con le loro conseguenze patologiche,
fanno meglio comprendere il processo logico e progressivo della storia
come avrebbe dovuto essere. Cosi è stato disastroso per la vita dei
popoli il non avere compreso la natura propria della moneta che si è
voluta sempre di metallo prezioso, per cui alla scarsezza di questa si
debbono alcune rivoluzioni ed un arresto nello sviluppo del lavoro e
della produzione dei beni e r arricchirsi di alcune nazioni che ne hanno
molta a danno di altre che ne hanno poca. Ma il presente stato economico
del mondo in cui l’ industrialismo ha raggiunto un grado di vitalità
• esuberante da per tutto ed attira l’energia e V operosità
del maggior numero degli uomini i quali affluiscono nelle industrie
e nelle città disertando i campi e i villaggi, ci spinge a stu- diare il
presente fenomeno e, mettendolo in relazione col pas- sato economico, ci
apre la via ad intendere la storia econo- mica deir umanità. Ma la
storia economica che fa una sola cosa con la storia * politica,
artistica ed intellettuale delle nazioni, nell’ aggregarsi o disgregarsi
continuo di queste, è certo un grande e cospicuo periodo del processo
logico della storia del mondo ed è anche quello più memorabile: quello
cioè che, per essere stato esperi- mentato primitivamente da alcuni
uomini, riconosciuto e pro- vato da altri, aggruppati da prima in piccole
tribù o società, e poi esteso, ad altri, è trasmesso a mano a mano ai
posteri col contatto degli uomini, attraverso il loro nascere, crescere
e morire. E l’attività economica che è stata sempre viva nella sto-
ria, quantunque abbia operato in modo inconscio agli uomini, negli ultimi
due secoli ha raggiunto uno sviluppo considerevole insieme con lo
sviluppo industriale e con l’estendersi del commercio nel mondo. Questa da
prima si è sviluppata istintiva- mente ed impulsivamente per mezzo dell'
ingegno dell’ uomo che ha saputo trovare ed aprire le vie; poi è venuta
la scienza dell' economia industriale e commerciale, che ha riconosciuto
i fatti compiuti e ne ha formulato e cercato di spiegare le leggi.
Sicché non è stata la scienza economica che ha destato l’atti- vità
economica, bensì questa ha dato origine a quella. Si può
rintracciare dunque, attraverso la storia intellettuale, politica e
pratica dell’umanità, una storia economica. Ma la sto- ria politica
rappresenta il processo degli avvenimenti umani di cui si conserva
memoria; si è perciò innanzi ad un’epoca molto avanzata dalla storia,
quella in cui l’uomo ha cominciato ad acquistare consapevolezza della sua
superiorità sulla natura e della possibilità del suo dominio sugli uomini
inferiori per in- gegno ed attività pratica. Ma la storia memorabile e
memorata presuppone la preistoria, che è di là dalla memoria degli
uo- mini e che nondimeno ha dovuto preesistere alla storia. Come
nessun aspetto della civiltà e delle istituzioni umane sfugge alla
preistoria, quale il linguaggio, la politica, l’arte, la religione, ecc.,
così avviene dell’economia e della scienza economica. E la sto- ria
d’altra parte si connette alla preistoria di cui è continua- zione e
complicazione, onde si può dire che nella preistoria si trovano i
principii economici più semplici ed elementari che nella storia
progressivamente si sono andati complicando; ma che sono sempre vivi ed
attivi nella storia ulteriore: ed appariscono nella loro semplicità nelle
grandi crisi di economia so- ciale, quando si sente il bisogno di tornare
alla vita naturale e primitiva. Non bisogna però ammettere una barriera
tra la preistoria e la storia. Ciò che fu il principio è la base
odierna deir edificio economico. Quantunque la preistoria
pura e primitiva sfugga alla no- stra osservazione, pure, come è avvenuto
pel linguaggio, stru- mento fondamentale deirintelligenza e deirattività
pratica umana e del progresso scientifico, si può rintracciarla prendendo
le mosse daireconomia naturale che può avere rappresentato essa
sola neirepoca preistorica tutta T umanità, che di poi divenne storica,
economia che anche oggi deve essere considerata come il sostegno
deireconomia storica, industriale odierna, e senza la quale questa è
destinata a fallire. In questo senso, guidati dalla logica della realtà
delle cose e dalla psicologia speculativa, si può rintracciare il processo
preistorico dell’ economia. Il punto di partenza è qui Teconomia
fisiologica, comune da prima al- Tanimale e airuomo, giacché ambidue sono
soggetti economici che hanno la natura come termine a loro opposto. Ma,
mentre, come si è detto, la soggettività animale ha un arresto nel
suo sviluppo, la soggettività umana all’ incontro prosegue senza
li- miti, cercando di conoscere la natura ed adattarla alla soddistazione
dei suoi bisogni, che con la sua intelligenza sa scoprire in sé, nel suo
organismo e nella sua mente, nuove lacune da colmare. A differenza però
deiranimale in cui Torganismo si svi- luppa rapidamente, onde breve è per
esso il periodo in cui ha bisogno delle cure dei genitori, perchè ben
presto può fare uso delle sue forze e rendersi indipendente, onde vive
guidato dai suoi istinti, l'uomo all’ incontro ha bisogno di un certo
numero di anni per potere da sé provvedersi del cibo e colmare
tutti i suoi bisogni. Ben presto morrebbe se, appena nato, non
avesse le cure materne, ed anche se venisse abbandonato a sé stesso
neH'infanzia e neiradolescenza. Molte altre cure poi richiede, ed anche
un certo numero d’anni, se egli vuole educarsi, eser- citare un facile
mestiere od una difficile professione; e volesse elevarsi nella sfera
dell’ alta cultura, dell’arte o della scienza. In questo lungo periodo
della sua vita il giovanetto è allevato e educato dalla famiglia, o dalle
istituzioni di beneficenza, dal- r insegnamento pubblico e dalla
religione. In tutto questo periodo dell’infanzia e della
fanciullezza il dualismo è rappresentato dal fanciullo, ente passivo
nella sua attività, e dalle istituzioni familiari e sociali, che sono il
termine veramente attivo, il quale, servendosi di elementi c vie
naturali, eleva e conduce il bambino all’attività pratica, affinchè
possa col tempo provvedere ai suoi bisogni. Il giovanetto,
diventato adulto, deve da sè solo risolvere il problema dell’esistenza,
per quanto possa essere agevolato dalle istituzioni; allora egli si
trova d’innanzi alla natura alla quale domanda i mezzi di vita 0 di
conservazione. Questi sono rappresentati dal ricovero e dall’alimento che
è fornito dagli animali e dai frutti e semi di piante; e vegetali di una
elevata costituzione chimica. Qui co- mincia la lotta tra 1’ uomo e la
natura. Questa è da prima prov- vida madre per lui, onde gli concede
facilmente ciò di cui ha bisogno, ma non senza che egli taccia qualche
sforzo, qualche fatica, andando in cerca deU’alimento, sottomettendosi
anche a gravi pericoli e spesso rimanendo vittima delle intemperie
o degli animali che egli ha cercato di abbattere e conquistare.
E questa la condizione dell’ uomo primitivo che non ha a- vuto dal
passato insegnamenti e tradizioni; per cui l’esperienza e l’osservazione
debbono cominciare da lui che è fornito di un organismo che si presta ad
una grande varietà di lavori; e di intelligenza che gli è guida all’
attività pratica, allo studio ed alla conoscenza della natura della quale
cosi può meglio servirsi; e conserva memoria delle sue conquiste, passate e
pre- senti. Ma la natura, dà all’ uomo i mezzi di vita, purché li
cer- chi, non glieli assicura per sempre. Comincia cosi l’attività
per la ricerca del cibo e comincia ancora un’epoca di disgregamento per
la ricerca dei luoghi dove la natura fosso più ferace di ve- g'etabili e
di animali, atti a far vivere l’uomo. In quest’ epoca, certamente non
breve, si ha un grande disgregamento del ge- nere umano, in tutta la
superficie della terra, per quei luoghi dove la vita fosse possibile;
giacché in quest’epoca in cui il la- voro collettivo non era ancora
principiato, l’uomo voleva essere solo con la sua famiglia a conquistare
e a godersi la preda. D altra parte 1’ uomo in lotta con la natura primitiva,
che si slanciava ad imprese difficili ed audaci, in tempi in cui
l’aria sulla superficie della terra era buona ed in cui
ralimentazione era prevalentemente carnea, dovea dare al suo organismo
uno sviluppo ed una resistenza ammirevole, che lo rendeva atto a
trionfare dei più grandi ostacoli che nel suo cammino potesse incontrare.
Grande era anche la potenza generativa, per cui gli uomini si
moltiplicavano facilmente. Quel genere di vita tutto naturale dava
un’educazione anche naturale all’ uomo, che gli dava la massima
resistenza all’ impresa e lo rendeva refrattario agli stimoli morbosi
sino alla vecchiezza, se fosse riuscito a su- perare il periodo della
fanciullezza, flrano i tempi di Ercole. In tutto questo lungo periodo egli
cerca, con l’ ingegno che la vita nomade e mal sicura dell’ avvenire
rendono più acuto, a modificare minerali e legna per costruire strumenti
che rendes- sero più facile il conseguimento del fine di vivere; a
rendere alcuni animali adatti ad essere guidati, a viaggiare, a
portare masserizie ed a ottenere la prole di essi, anche per
potersene alimentare. Finché si é in questo stato di vita
nomade ed incerta in cui non si può essere sicuri della vita avvenire ed
in cui gli uomini tendono continuamente a dividersi, le conquiste
iiella conoscenza dei metodi per servirsi della natura vanno
perdute e non é necessario il linguaggio che é possibile quando é
data una certa associazione di uomini i quali, a intendersi
scambie- volmente, conservino la tradizione delle precedenti attività
li- mane che agevolano la vita. Tutto questo lungo periodo della
vita umana sulla terra, di una larga estensione sulla medesima, può
essere indicato col nome di 'preistoria dell’ umanità. La quale bisogna
intendere non come ristretta in un solo angolo della superfìcie della
terra, ma come diffusa da per tutto, e dove la vita dell’ uomo fosse
possibile, e rappresenta la fami- glia da per tutto disgregata in
famiglie, di cui ciascuna aspirerà più tardi ad entrare nella storia e da
nomade diventare fìssa. In tutta questa lunga epoca i due termini
dell’attività eco- nomica sono r uomo e la natura; 1’ uomo il quale é
uscito da quello stato di felicità del periodo della sua fanciullezza in
cui vive a spese della sua famiglia o della carità altrui; ma
l’uomo che deve fare uno sforzo per andare in cerca dei mezzi di
sus- sistenza; deve cioè andare incontro ad una perdita di forza
muscolare e psichica, che, aggiunta alla perdita che apporta la vita
in sé stessa, apporta una perdita maggiore o un male interiore
maggiore. La natura, dando da viv^ere all’uomo, ha una perdita in sé 0
una degradazione, quantunque parziale e limitata; ma questa perdita
apporta all’uomo un bene interiore. La mancanza di sicurezza dell’alimento
pel domani in que- sto periodo della preistoria in cui non ancora si
erano conosciuti i metodi e non si possedevano i mezzi per ottenere gli
animali di cui avrebbero potuto servirsi e nutrirsi e né anco si sapevano
conservare le carni degli animali di cui si era andati in caccia, é la
nota preminente di questo cosi largo periodo dell’umanità. La storia della
civiltà ha per fondamento la storia dell alimentazione. Il passaggio
dalla preistoria alla storia, dalla vita naturate allo stato di civiltà,
si ebbe quando si potè provedere ad un alimento che potesse conservarsi per
qualche anno, assicurando così il prolungarsi della vita umana ed il
fissarsi di alcune popolazioni in dati siti della superficie della terra
do- ve la produzione di date sostanze alimentari potesse
avvenire. Scambio e stimoli economici Si eiiira cosi in un
altra c più elevata sfera deH’attività economica che è quella dello
scambio (e questo avviene cosi nella zona industriale propriamente detta
che in quella naturale ed agricola). Si cominciano così a formare dei
piccoli mercati in cui r uomo vende e compra. Jla s’ intende che, prima
che nella storia si stabilissero dei veri mercati, queste
operazioni di scambio avvenivano egualmente, quantunque in modo più
vago, appetiii ai)parve la libertà e l’ elezione nel lavoro dell’uomo.
Nella sfera dello scambio si ha una maggiore facoltà di acquisto ed
un risparmio di tempo e di forza (ciò che è propria- mente r attività
economica); perchè il soggetto economico vende ciò che ha prodotto
facilmente e bene per acquistare ciò che da sè stesso non avrebbe i)otuto
produrre che male e con molta per- dita di tempo. E ciò in generale;
perchè l’ ingegno umano po- ti ebbe in ciò darci una smentita, non
essendo molto rari quegli uomini che hanno saputo tanto bene educare il
loro ingegno e 1.1 loio attività pratica da diventare valenti produttori
di una varietà di beni e in modo perfetto. E questo avviene cosi
per la produzione dei beni inferiori e materiali che dei beni supe-
riori ed artistici. Importa notare che lo scambio può avvenire tra
questi e quelli, come con le attività intellettuali dell’uomo. Cosi il
lette- rato, r uomo istruito e dotto, l’ insegnante, il medico, l’
inge- gniere, l’ avvocato, scambiano il loro sapere, la loro dottrina
e l’arte, con beni materiali. Anche nella sfera dello scambio, l’acquisto
implica una perdita, quantunque la perdita sia ridotta al minimo; perchè
quello che il produttore perde gli è costato relativamente poco lavoro,
mentre quello che acquista è per lui un guadagno, perchè ha un prodotto
che si suppone buono, che egli non avrebbe potuto eseguire, anche
perdendo molto tempo. Per mezzo del lavoro artistico dunque la
produzione dei beni si specializza, mentre questi si possono moltiplicare
senza limiti, perchè ognuno può trovare nell’uomo una sorgente di
bisogni da colmare e nuove comodità che si desiderano, nuovi beni che
riescono a quel fine. E poiché in tutti gli uomini si ha r istesso metodo
e perciò gli stessi bisogni che si tende a sod- disfare, i nuovi beni
prodotti sono ambiti da tutti. Ma qui deve intervenire l’opera
dell’istruzione che sveglia e fa riconoscere aU’uomo i propri bisogni e
fa sviluppare in lui il desiderio di soddisfarli.
Moltiplicandosi i beni che l’uomo ambisce, egli può acqui- starli
tutti col suo prodotto particolare che alla sua volta viene ambito dai
produttori dello merci altrui, con le quali egli scam- bia la sua. Il
principio economico qui non solo si conserva, ma si eleva ad una più alta
potenza di acquisto. Ma più tardi 1 ’ uomo ha avuto un istrumento
d’acquisto non solo nel suo ingegno e nelle sue forze muscolari, ma anche
nella macchina che egli, aiutato dalla conoscenza delle leggi
mecca- niche ha prodotto ed applica ancora alla produzione di una
grande varietà di beni. E necessario qui promettere che la macchina
come inven- zione umana è stata preceduta dalla macchina che è
insieme nell’organismo animale ed umano. L’ organismo infatti è
insieme meccanismo; e se come organismo è qualche cosa di più
elevato del meccanismo che implica, come meccanismo non cessa di
essere macchina; macchina organica si, ma sempre macchina. Lo schema della
macchina si ha infatti in tutti gli organi e i sistemi più importanti
deH’organismo; nel cuore col sistema va- saio annesso; neU’apparecchio
digestivo con le sue glandolo, co- me in ciascuna glandola;
nell’apparecchio respiratorio; nei reni e nella vescica; nel sistema
osseo-muscolare-nervoso. L’occhio è una macchina, come l’orecchio. Anche
nel cervello si trovano gli elementi più complicati della macchina;
all’istesso modo che le funzioni di tali organi sono insieme funzione e
meccanismo. È proprio della macchina costruita dall’ ingegno umano il
venir "•uw'mo'' • ‘‘‘ Hìacchina die è or- moNe
oigan.smo, anche essa per mez^o di questo.nuove l.i macchina
esteriore, sia immediatamente che mediatamente per mezzo delle forze
fisiche. ^uiawmente, L’apparire della macchina è stato accolto con
grande entu- ..asmo da tutto il mondo, perchè ha portato una fraudo
rivo uz.one nel campo della produzione, poiché l’A accresciuta
co.isi- erc^olmcnte; ma ha anche contribuito ad una maggiore spe-
CK hzzaz.one d. produzione. E poiché la macchina è stata appli- c a anche
al trasporto dei beni in tutto il mondo, per mare e PCI terra, ha anche
contribuito ad accrescere in modo come non era possibile prima, il
commercio mondiale. Sicché ol! e solamente possibile a pochi uomini
godere di una grande J-h nomi I che sono nel mondo. Si ha cioè il
grandioso feno- meno de la umversalizzazione del godimento dei beni. È
questo nsuUato di una lunga storia nell'attivirà degli scambi che
pimcipiata in modo limitato, tra individuo e individuo, per una’
lunpo tra vari aggruppamenti umani, tra varie popolazioni e
mi/ioiii, e tra tutte le parti del mondo. È questa veramente la
pffffcernza.''"’ « dell’industrialismo S’intende che se
prima lo scambio comincia cedendo merce per merce, e in certe condizioni
questo può sempre avvenire lo scambio e.1 commercio che rendono
accessibili le merci da |.cr t„„o, h„„ dovuti avvenire con la moneta che
é,m mé.t tei mine, inventato da. governi, tra due merci o più merci; per
cui «1 lavora, cioè si danno le proprie forze, il proprio ingegno e
a propria produzione, per guadagnare danaro e si ambisce que- sto
per provvedersi di tutti i beni di cui si ha bisogno. Segue ancora che,
in ragione che la produzione, gli scambi e il cL- moneta ìr^nmiido;
È qui necessario far notare che, se la parola stimolo inter- lene a ogni
passo nella trattazione dei fenomeni fisiologici e pa ologici, come nei
fenomeni psicologici, intendendo la psicoogia in tutta la sua ampiezza, in
tutte le sue forme e in tutti i suoi gradi, apparisce chiara la necessità
dell’ intervento frequente di questa stessa parola anche nello studio dei
fenomeni econo- mici, giacché anche questi hanno un fondamento
fisiologico e psicologico, senza il quale non potrebbero essere. Così
nella pro- duzione si ha uno stimolo interiore a produrre, il bisogno
inte- riore organico e psicologico, immediato o prossimo, che deve
sparire, facendo col lavoro esistente il bene che si desidera: l’im-
magine interiore cioè deve tradursi in atto col lavoro produttivo e che
diventa anche stimolo esteriore, la materia esteriore otte- nuta col
lavoro, per mezzo della coltura (sostanze vegetali) o con rallevamento
del bestiame (sostanze organiche). Queste debbono alimentare e far vivere
1’ uomo, trasformando la materia morta e bruta che deve dargli alcune
comodità o godimenti dell’ animo. Si ]Hiò dire che sono gli stimoli
e gli stati interiori a spin- gere 1 uomo all attivila; e più questi sono
numerosi ed elevati più muovono l’individuo al raggiungimento dei suoi
materiali od alti filli che egli vorrebbe vedere tradotti nel mondo
reale. Ma alla sua volta gli stimoli interiori sono il riflesso di
stimoli este- riori, di oggetti già percepiti o immaginati. È questo ciò
che si esprime con la parola ambizione umana la quale, se è la nota
preminente dei grandi uomini è anche una nota importante degli uomini
mediocri e d’ infimo ordine, giacché ogni uomo, secondo il grado della
sua costituzione mentale e della conoscenza del mondo esteriore, naturale
ed umano, vorrebbe far suoi tutti i beni che conosce, sia di basso che di
elevato ordine. Il cibo è uno stimolo per l’alimentazione e la fame è uno
stimolo per provve- dersi del cibo. Cosi il gusto letterario e le
conoscenze scientifiche possono essere uno stimolo interiore per
ajiprofondirsi nel campo dell’arte e delle.scienze. Non solo
sono stimoli i due termini economici, oggetto e soggetto, 1 uno per 1
altro: nia è anche stimolo il mezzo termine fra le due merci o tra il
soggetto e l’oggetto, cioè la moneta. L come è nota della natura umana
l’insaziabilità dei beni mate- riali e spirituali, quando questi siano
conosciuti; ciò che è dif- ficile, come 1 illimitatezza nell’acquisto,
cosi avv^iene per la mo- neta. Di questa anche 1 uomo non è mai sazio di
possederne; perchè riconosce in essa una possibilità ed uno stimolo
per acquistare altri beni. Ed il possesso è di vari gradi. Vi è il
pos- sesso limitato della moneta, per quanto questa possa essere
grande, e di essa 1 uomo si contenta e che vuole o conservare o
spen- deie, 0 di questa egli si serve come stimolo per la
produzione di nuove ricchezze. Proprio quando la vita
economica, industriale, commerciale, è molto complessa ed estesa, e tutto
il mondo umano sembra un grande mercato come è ora, per cui grandi sono i
bisogni c le richieste dei beni da per tutto; e l’ambizione umana si
estende ed intensifica ovunque, allora la ricchezza può essere
adoperata come strumento (stimolo) per acquistare nuove ricchezze.
Cosi viene stimolata la sete deH’uorno per l’acquisto indefinito
della ricchezza; perchè vi è richiesta di tutti i beni che egli
conosce e di cui vuole godere, come da per tutto viene apprezzato e
richiesto il lavoro dell’uomo..Si comprende in tal modo come piu
sovrabbonda il danaro in una società, più gli uomini.sono spinti all
attività pratica e cresce la loro ambizione per guada- gnare e godere.
Uomini che hanno quest’aspirazione e non hanno danaro, ma riconoscono di
avere ingegno, forza muscolare e tempo per arricchirsi, ricorrono al
prestito del danaro. Ma cosi si entra in una categoria economica più
elevati, quale è appunto il presfito, il cui polo opposto è il capitale.
Il semplice possesso della ricchezza, sia questa rappresentata dalla
moneta o da altre specie di beni immobili e mobili o da prodotti
industriali od artistici, se è come semplice servizio personale o della
famiglia, non merita il nome di capitale. Si richiede invece che essa
si.a data in prestito. ll capitale-prestito cosi rappresenta un più alto
grado dello scambio; e, come in questo, ciascuno dei due termini o
soggetti economici acquista e perde, cosi avviene nel
capitale-prestito; ma anche qui la categoria di acquisto e perdita implica
una più elevata economicità. Cosi colui che prende in prestito acquista
la ricchezza ma la perdita e rimandata aH’avvenire; si ha cioè il
bene presente; ma la perdita che dovrà aversi nell’ avvenire consisterà
non solo nella restituzione del capitale, ma anche nell’ interesse
convenuto. Frattanto l’uso provvido ed economico del capitale avrà dovuto
fargli acquistare nuove ricchezze. An- che nuove ricchezze acquista il
capitalista, cedendo tempora- neamente la sua ricchezza ad altri; ma va
incontro anche ad una perdita temporanea della sua ricchezza durante il
periodo della sua cessione; perchè non se ne può servire. Col
capitale e col prestito l’attività economica da una sfera limitata e
quasi individuale, quale è quella dello scambio, da prima in una
ristretta cerchia, s’ingigantisce ed estende da pri- ma in ciascuna
nazione e più tardi gradatamente in tutto il mondo; con la fondazione o
moltiplicazione delle banche che dànno una grande diffusione al capitale
e al credito, stimolando l’attività economica produttiva e portando la
diffusione delle merci da per tutto. E ciò con l’aiuto della macchina che
ha moltiplicato e specializzato la produzione dei beni industriali
e li fa penetrare, come vi fa penetrare anche i beni naturali, in
tutto il mondo umano. Ma per quest’attività si richiede l’ ingegno; all’
istesso modo che 1’ esercizio di essa fa sviluppare Tingegno. La
produzione dunque della ricchezza capitalizzata e capitalizzante, per cui si
tende sempre a ridurre al minimo la perdita, nello stesso tempo che
si tende a jiortare al massimo l’acquisto, deve essere sempre l’obbietto
dell’attività del soggetto economico. Me questa che già fece esistente il
capitale si affie- volisce, l’oggetto per mancanza di governo e di
direzione tende ad arrestarsi nel suo processo e, per le mutate
condizioni este- riori, tende a deviare, a perdere la sua potenzialità di
acqui- stare ed a venire cosi scemato come semplice ricchezza.
Sicché, se dalla produzione diretta primitiva alla produzione
capitalistica si ha una progressione per cui pare che la ricchezza si
produca da sé, indipendentemente dal soggetto, pure l’attività di questo
deve intervenire, cercando di farla progredire ed ac- crescere. Deve
prevedere il cammino che si può e si deve fare e provvedere alla conservazione
della ricchezza ed alla sua dif- lusione proficua; ciò che è il lavoro di
critica e di speculazione che il soggetto deve tare. Ad ogni modo questo
lavoro, se im- plica una piccola perdita di tempo e di forza organica e
psichica, pure riduce con l’esercizio al minimo questa perdita; onde
si può dire che se il lavoro di produzione che da prima è grande,
secondo la quantità e la specificità d’impiego del capitale, esso è di
poi menomato e perciò agevolato; anzi deve al meccani- smo, guidato dall’
intelligenza, il suo grande sviluppo. All’incontro nella produzione
naturale il soggetto deve so- stenere una lotta intensa contro il
suo oggetto, la natura indomita e ribelle, che può essere vinta temporaneamente
ma non definitivamente; giacché essa offre sempre nuove difficoltà
al soggetto produttore, anzi si può dire che dai primi tempi della
\ ita umana sulla terra, queste difficoltà si sono andate sempre
accentuando. E ciò perchè, se la natura da prima, dopo uscita dal suo
stato selvaggio, dava facilmente all’ uomo i suoi pro- dotti, col
progresso del tempo gliene ha dato sempre meno, an- che essendosi
moltiplicato l’ ingegno e il lavoro dell’ uomo volto contro di essa. E
ciò mentre gli uomini si moltiplicavano ed ac- crescevano con la loro
associazione i loro sforzi per la produ- zione agricola.
Sembra che d’ oggi innanzi il lavoro dell’ uomo contro la natura
per obbligarla a produrre ciò di cui ha bisogno diverrà sempre più
intenso ed i mezzi più necessari alla vita diverran- no sempre più
difficili a conquistare. In altri termini la lotta tra l’uomo e la natura
diverrà sempre più intensa; perchè la fina- lità di questa è in
opposizione alla finalità di quello; ed una conciliazione solamente è possibile
alla condizione che ciascuno dei due termini conceda all’ altro qualche
cosa di sé, senza annul- larsi, anzi sostenendosi l’ uno con l’altro.
Questo fa vedere che r uomo deve essere limitato nelle sue pretese verso
la natura e che, se questa deve dare qualche parte di sé all’ uomo,
non può e non deve dare tutta sé stessa se non a costo di annullarsi;
perchè allora anche la natura, dominata dall’ uomo ed alla quale questi
domanda i mozzi di vita, dovrà venir meno alle sue pro- messe, producendo
in lui le più grandi delusioni. Frattanto, mentre i prodotti dell’
industria si moltiplicano indefinitamente e progressivamente da per
tutto, in quantità e qualità, richiedendo questa un esiguo lavoro
muscolare e meno tempo, ciò che incoraggia l’ irregimentazione dei
lavoratori, tanto più perchè questi vi hanno la promessa di una vita
agiata e comoda, quasi sempre in città, senza sospettare che un
giorno avessero a scarseggiare gli alimenti necessari alla vita, i
lavo- ratori delta terra, all’ incontro debbono sostenere una lotta
lunga faticosa ed intensa per procacciarsi di che vivere. Del valore
e delle sue forme inferiori Le attività economiche, come quelle
fisiologiche, sono cosi connesse ecl intralciate fra di loro che
l'esposizione logica e siste- matica ne riesce oltremodo difficile, Non
si può trattare un a- spetto, una categoria economica se in essa non
intervengano, sottintese o manifeste, altre categorie. Sicché da prima si
può avere una conoscenza parziale o sconnessa di alcune funzioni; e
solamente dopo che si è raggiunta la piena conoscenza di tutte, si può
principiare a vederle ordinatamente. È que.sta la ragione della difficoltà
nello spiegarsi i fenomeni economici. E l’ordine consiste
neH’universalizzazione dei vari principii e nel 1’ unificazione di
que.sti in tutte le loro gradazioni, in tutti i loro movimenti, nei loro
reciproci rapporti, tanto da apparire come lo svolgimento di un principio
solo. Sotto quest’aspetto molto importante è il principio del valore in
economia politica, cosi in quella naturale come in quella industriale; e
in tutte le isti- tuzioni umane nelle quali questo concetto interviene.
Ma solo una esposizione storica e sistematica, in che consiste la vera
tratta- zione logica della dottrina, può farcela intendere in tutti i
suoi gradi ed aspetti. Negli ultimi tempi si è parlato di valore in
materia di arte di scienza, di filosofia, di religione; ma poiché in tali
rami di attività umana, cosi come sono stati trattati, la dottrina del
va- lore non é dedotta da un principio più universale che comprenda
e questi e tutti gli altri rami del mondo naturale ed umano, quella
trattazione riesce incomprensibile e vana. E, benché si possa dire che la
filosofia e la religione implichino la più alta sfera del valore, pure,
se esse v^engono considerate come per sé, senza alcuna comunicazione col
resto del mondo, non come il risultato di uno svolgimento e di una
storia, il concetto del valore che da esse si può trarre non deve essere
soddisfacente. E se il valore è una categoria universale che interviene
in tutti i gradi deiressere, nel mondo metafisico, come nel fisico e
nello spirituale, in ciascun grado ha un aspetto particolare, ha
qualche cosa d'identico e di differente con la stessa categoria di
valore degli altri gradi del mondo reale. Far distinguere perciò le
dif- ferenze dall’ identità del valore in ciascun grado della realtà
è il dovere di colui che tratta questa materia. Da prima potrebbe
sembrare che la teoria del valore si identificasse con quella del bene;
ed in vero vi è molta identità fra le due categorie. Però del bene i
filosofi e i moralisti hanno dato più un concetto comprensivo che
analitico e storico; ed alcuni Tànno identificato con Dio stesso, il
sommo bene. Essi hanno anche fatto notare la varietà dei beni che sono
nel mondo e l'ànno anche sistematizzati; hanno messo il bene e
tutti i gradi di esso in correlazione col male e con tutti i mali
pos- sibili. Ma la dottrina del valore include quella del bene e
del male insieme, però le compie, mettendole in una posizione dua-
listica ed unitaria insieme, quasi drammatica; scinde cioè la ma- teria
in due termini in lotta fra di loro, rorganismo e il mondo esterno che ha
valore per quello, può cioè tornargli a bene; vede una dualità tra
l'anima, la mente e il mondo esterno. E se nella prima zona l’organismo
vivente deve accettare e subire il mondo esterno quale è, pure reagendo
contro di esso; nella se- conda zona r anima e la mente possono
modificare per sè il mondo esterno, elevandolo; o produrre addirittura
qualità nuove neiroggetto. E questo l’aspetto nuovo ed originale della
dottrina del va- lore, il cui regno in verità é quello della vita
organica, vegetale ed animale, le zone cioè superiori della natura; ed
anche quello deH’aniraa umana, nelle sue attività inferiori e nelle
superiori, intellettive, pratiche ed anche creative, che sono i gradi
più eminenti del mondo umano. L’attività umana perciò diventa essa
stessa una forma altissima di bene, il bene attivo, limitrofo a Dio
stesso: non il bene immobile che può anche menomare se stesso e il suo
termine opposto che presuppone e per cui è; può pro- durre cioè il male,
dal quale può, è vero, di nuovo nascere il bene che rientra nella sua
ricostituzione storica e progressiva. Ma, se r organismo e la mente
rappresentano il regno e la vitalità del valore, essi non esauriscono
tutta la natura; vi è in questa qualche cosa che essi presuppongono,
senza di che non potrebbero essere e muoversi; e che si può dire il
loro presupposto. E se si va a fondo nello studio della natura
questo che noi chiamiamo presupposto si risolve in una serie di
pre- supposti, una serie di gradi di cui ciascuno è presupposto e
presuppone altri. E questa è pure un’ ampia zona del valore che si può
dire puramente naturale, la quale, studiata, apparisce come l’unità e la
sistematizzazione di altre sottozone. Si ha cosi la zona fisica la quale
comprende e quella della materia e quella delle forze. Sembra a prima
vista che questa sia come chiusa in sè ed isolata dal regno della vita e
perciò fuori il mondo del valore. Forme superiori del valore
Il processo ascensivo e discensivo, chimico, minerale, il quale,
non bisogna dimenticarlo, è sempre un processo di elevazione e di
menomazione insieme del valore, diventa più intenso in quella sfera più
elevata della chimica che è 1’ organica in cui entra in composizione il
carbonio. Pure quest’ attività è relativa- mente qualche cosa di semplice
se si studia in sostanze singole che sono fuori dell’ organismo vegetale
ed animale o estratte da questi. Ma se si.studia entro di questi, l’
intensità trasforma- trice del movimento chimico e di valore organico
diventa stra- ordinariamente complessa, quantunque questa complessità
sia minore nella pianta e maggiore nell’ animale. In quella è con-
siderato il lavorio complicati vo mentre è vivente; e con la morto si ha
il lavorio analitico. Nella vita interna dell’animale albi contro
intensissimo è il lavorio di scomposizione, come è quello di composizione
e di reintegramento, in tutti gli atti della vita, sia considerata in
ciascuna cellula e in ciascuna fibra che in ciascun organo o sistema e
nell’ unità funzionale di questi. Qui il concetto del valore, cosi in
ciascuno elemento della vita, come in ciascun organo e tessuto e nell’
insieme dell’organismo vivente, diviene di tanta molteplicità,
complessità e varietà, che la mente umana non può seguirlo in tutti i
suoi elementi e in tutti i suoi intimi processi. Vi è una più
alta regione della natura, rappresentata dalla vita animale e vegetale
nel loro insieme, come si svolge nel mare dove vivono insieme piante ed
animali in lotta fra loro; e sulla superficie della terra che è
rappresentata dal bosco nel cui mezzo gli animali vivono e prosperano,
come è avvenuto nelle epoche primitive della natura vegetale ed animale.
Qui ciascun animale, ciascuna pianta, è un elemento della vita na-
tumle, animale e vegetale, nel suo insieme e nella sua univer- salità,
nella quale si può riscontrare, in proporzioni ancora vaste ed
universali, il processo di elevazione e di riduzione, che si ha in ciascuno
organismo vivente, onde piante e generazioni di piante muoiono ed altre
nascono, come animali e generazioni di ammali muoiono ed altri nascono;
ed alcuni servono di cibo (hanno un valore) per altri: la corruzione
degli uni è la venerazione degli altri. Ma per la vita vegetale ed animale
hanno un valore ancora il clima, le condizioni atmosferiche, le
condi- zioni del suolo ed anche le condizioni storiche di questo;
giac- che la vita vegetale ed animale nella loro lunga storia, come
elidono a modificare lo stato del terreno, contribuiscono ancora a
modificare la vita vegetale ed animale, onde animali si nu- trono m modo
più 0 meno rigoglioso di piante e di altri ani- mali; e la dissoluzione
delle piante e degli animali rende più energica la vitalità delle
piante. hin qui vi ò un processo puramente inconscio di
movimenti naturali e di elementi, di cui gli uni hanno valore per gli
altri, -la, benché l’animale distingua ciò che può avere un valore
Ku- lui (positivo 0 negativo), come l’alimento, l’acqua, la tana, .1 c
ura pei figli, la ricerca del clima a lui propizio, la fuga dai leiicoli,
alcune di queste cose sono un prodotto puramente na- urale, che l’animale
trova d’ innanzi a sé; solo alcuni animali ivendo il potere limitato di
costruirsi il nido e la tana altre i Olio tenomeni istintivi. Apparso
l’uomo con l’intelligenza di cui è dotato, che egli < sercita e sul
mondo circostante e su sé stes.so, il suo organismo I sua anima, e tutto
ciò che ha fiuto suo, nel mondo esterno Ultra la natura e gli elementi
che la costituiscono, acquistano I 11 pili alto valore. Studiando sé
stesso, egli non può non av- ' crtire e scoprire i bisogni, le lacune che
si generano conti- 1 uamento nel suo organismo e nel campo della sua
mente; e con la sua intelligenza prevede i bisogni avvenire. Nello
stesso t ‘inpo, essendo messo in rapporto col mondo esterno, egli
studia questo negli elementi, nelle qualità e proprietà, che lo
costitui- s-ono, nei suoi movimenti; cerca di adattarlo a sé; e non
solo d colmare i suoi bi.sogni per mezzo di qualche cosa, di
qualche elemento di esso; ma anche
di elevare il proprio benessere, di assicurarlo per sè ed i suoi per l’
avvenire. Tutto questo processo è avvenuto dal principio della storia dell’
uomo sulla terra e si è andato progressivamente affermando,
intensificando e svolgen- do, sino a noi. E non solo non si è arrestato;
ma con lo studio progressivo della natura, nella sua materia e nelle sue
forze, .sembra voglia assumere proporzioni più vaste anche nel
nostro tempo in cui non si lascia nulla di tentare e di studiare
per applicarlo al miglioramento ed al progresso umano. Questo lavoro
l’uomo ha compiuto empiricamente ed incon- sapevolmente dai primi tempi;
e più tardi in modo più o meno scientifico, organico e progressivo. Cosi
deve essere inteso il progresso che l’ umanità ha fatto nel campo del
sapere. A questo progresso nel regno della conoscenza si è andato sempre
asso- ciando un progresso nell’ attività pratica la quale è
divenuta anche materia di studio per l’ uomo; questi due ordini di
attività essendo 1’ uno indivisibile dal’ altro e l’uno stimolando 1
altro nel suo sviluppo. A questo processo coiioscitivm e pratico, che
implica un lavoro distintivo delle cose si è associato un progresso nel
linguaggio. Ad ogni atto distintivo o cosa distinta applicandosi una nuovni
parola, ciò ha contribuito al lavoro di associazione e di conservazione
delle conoscenze e delle atti- vità umane. Sarebbe un lavoro
importante ma lungo seguire questo fenomeno nella storia, per cui si è riconosciuto
un valore ad un dato minerale, ad una data pianta o animale, che hanno
con- tribuito alla soddisfazione di un bisogno organico o al
mantelli mento della vita o a dare certe comodità. Si è riconosciuto
nelle parti di alcune piante e nelle sostanze animali un valore
nutri- tivo e conservativo. E il primo valore che l’uomo ha cercato
nelle cose è stato quello che ha potuto contribuire a mantenerlo in vita,
come ha tatto 1 animale. Sono state cioè le cose neces- sarie che egli ha
cercato. Fatto sicuro del vivere, egli ha cercato a ben vivere; quindi la
ricerca e l’uso delle cose utili. Ma, accanto a questa attività, si è
sviluppata quella inventiva, per cui egli, aiutato sia dal suo ingegno
che dalle scoperte scientifiche, ha cercato di costruire istrumenti,
congegni, apparecchi e più tardi, macchine, che contribuissero a
modificare le inatGrie che dovessero essergli utili. Sicché da una parte ha
impiegato le sue attività intellettive a scoprire, nei regni delia
natura, ele- menti, sostanze, energie, che potessero giovargli,
dall’altra ha cercato di trovare i mezzi per servirsene. Queste
attività dal loro più primitivo inizio nella storia sino a noi,
attraverso i millenni, si sono andate svolgendo ed esten- dendo con
l’estendersi delle comunicazioni e delle associazioni umane. Sarebbe una
ricerca importante seguire nella storia il processo per cui 1’ uomo,
singolo da prima, ha trovato un’utilità in un dato animale, in una pianta
o in un minerale. Si può rin- tracciare questo cammino nelle letterature
antiche, medioevali e moderne di tutte le nazioni; giacché in varie
epoche si vedono nominati speciali metalli, piante ed animali, ai (]uali
o alle parti dei quali 1 uomo ha attribuito un valore e di cui si é
servito. Così l’uomo mano a mano ha aggiunto al valore delle cose,
latente ed inconscio, un nuovo valore. E, se da prima questo era
qualche cosa di limitato, più tardi al primitivo valore si sono
aggiunti nuovi valori, nuovi usi della cosa; nuovi congegni si sono
in- ventati, nuovi metodi si sono adoperati per poter estrarre la
cosa, modificarla, farla servire ai vari usi della vita; metterla in
commercio affinché tutti gli uomini ne godano. Tanti metalli e metalloidi
che dalle epoche primitive della natura erano se- polti nelle viscere
della terra, aventi una semplice potenzialità di valore chimico, vengono disseiipelliti
dall’ uomo ed ai quali la civiltà moderna dà alte attribuzioni
economiche, come l’oro, 1 argento, il ferro, il rame, il solfo, il
carbonio, ecc. Hi sa che se presentemente ipiesta sola unica sostanza, il
carbonio, veni.sse a mancare, tutto il ritmo della vita contemporanea
verrebbe arrestato; giacché é un istrumento di moltiplicissime
attività tisiche, meccaniche, chimiche e perciò, si può dire, rende
possi- bile la vita economica del nostro tempo. Ma questi bisogni
acciescono 1 attività umana la quale si volge a rintracciare le •sostanze
di cui ha bisogno, da per tutto, cosi sulla superficie ionie nelle
vi.scere della terra. Anche le forze fìsiche le quali prima erano in
balla della natura, come le forze meccaniche, il calorico, la
elettricità,.sono state non solo conquistate e domi- nate dall’uomo ma
ancora dirette e specializzate per la produzione di certi dati movimenti,
beni o comodità della vita. La forza meccanica e l’elettricità hanno dato
un impulso straordinario alla civiltà odierna. Più tardi 1’ uomo crea e
dà certe attribuzioni di valore alle cose, come fa con la moneta, tanto
necessaria al mondo economico. Inoltre il v^alore acquista un nuovo e
più alto contenuto ed un significato nuovo nel mondo psicologico ed
artistico, come nella sfera religiosa. Ma in queste ultime e così alte
sfere dell’attività umana tale dottrina merita una trat- tazione a parte. Nicolò Raffaele Angelo
D’Alfonso. N. R. D’Alfonso. Nicolò d'Alfonso. Keywords:
principii economici dell’etica, valore superiore, valore inferiore, economia,
principio di economia di sforzo razionale – scambio, exchange – worth,
assiologia, valore economico, l’economia di Platone, l’economia di Aristotele,
linceo, dissertazione su Kant ai lincei – naturalismo economico – no
positivista – critica a la psicologia criminologica positivista, Amleto, lo
spettro di Amleto, Macbeth. Linguaggio e mente, il sole luminoso, l’oggetto
rotondo, la pianta fiorisce – logica reale – psicologia del linguaggio, la
storia del linguaggio, storia e prestoria. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed
Alfonso” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza
Grice ed Algarotti – filosofia italiana – Luigi Speranza (Venezia). Filosofo italiano. Grice:
“You’ve got to love ‘il conte Algarotti’; he is the typical Italian philosopher
of language, relishing on ‘la bella lingua,’ by which they do not mean the
Roman! “La Latina, in bocca di un popolo di soldati, e concise e ardimentosa.’”
Grice: “Algarotti thinks that the Florentines have enriched it – ‘Imagine
Aligheri in Latin!” – Grice: “All that should be lost on
Oxonians, but it ain’t!” – Consider ‘conciseness.’ One of my conversational
maxims is indeed, ‘be concise, i. e. or viz., avoid unnecessary prolixity
[sic].” – So, if the Roman tongue was the tongue of soldiers, and a soldier
needs to be concise in communicating with another soldier – The justification
of the maxim is in the practice of ‘soldiering.’ With ‘ardimentosa’ we have
moer of a problem!” – Grice: “In any case, Algarotti’s excellent point is that
each conversational maxim has its root in the practice of the corresponding
conversants!” -- Grice: “Nobody can fail to be
enchanted by the drawing by Richardson of Algarotti!” -- essential Italian
philosopher. Grice: “I don’t have a monicker, but Algarotti had two: il cigno
di Padova and il Socrate veneziano. Filosofo. Spirito illuminista,
erudito dotato di conoscenze che spaziavano dal newtonianismo all'architettura,
alla musica, era amico delle personalità più grandi dell'epoca: Voltaire,
Jean-Baptiste Boyer d'Argens, Pierre Louis Moreau de Maupertuis, Julien Offray de
La Mettrie. Tra i suoi corrispondenti vi erano Lord Chesterfield, Thomas Gray,
George Lyttelton, Thomas Hollis, Metastasio, Benedetto XIV, Heinrich von Brühl,
Federico II di Prussia. Saggi, 1963 (testo completo) Nacque da una
famiglia di commercianti. Dopo un primo periodo di studio a Roma continua gli
studi a Bologna, dove affronta le diverse discipline scientifiche nella loro
vastità. Si trasfere a Firenze per completare la propria preparazione
letteraria. Inizia a viaggiare, raggiungendo Parigi. Presentare il
proprio newtonianismo, opera di divulgazione scientifica brillante. L'opera fu
prima apprezzata, e poi denigrata da Voltaire, che dal lavoro del suo caro cigno
di Padova — come era solito appellarlo — trasse alcuni temi dei suoi Elementi
della filosofia di Newton. Voltaire e Algarotti si erano conosciuti
personalmente a Cirey nello stesso periodo in cui l'italiano preparava il
saggio. Dopo il periodo trascorso in Francia, Algarotti si reca in Inghilterra,
per soggiornare per qualche tempo a Londra, dove fu accolto nella Societa
Reale. Tornato in Italia si dedica alla pubblicazione del Newtonianesimo. Dopo
un breve ritorno a Londra, andò a visitare alcune zone della Russia (fermandosi
in particolare a San Pietroburgo) e della Prussia. Quando il re Federico
si recò a Königsberg a incoronarsi, Algarotti si trova in mezzo gli applausi e
il giubilo di quella potente e valorosa nazione misto e confuso coi principi
della famiglia reale, e stette nel palco col re, spargendo al popolo sottoposto
le monete con l'immagine di Federico. Fu in tale congiuntura che questi conferì
a lui, quanto al fratello Bonomo e ai discendenti della famiglia Algarotti, il
titolo di “conte”, meno vano quando è premio del sapere, e lo fece suo
ciambellano e cavaliere dell'ordine del merito, mentr'era alla corte di Dresda
col titolo di consigliere intimo di guerra. Dal momento che conosce Federico né
l'amicizia, né la stima del re, né la gratitudine, la devozione e il sincero
affetto del cortigiano vennero meno, né soffersero mai alcuna alterazione. L’amicizia
fra Algarotti ed il re e estesa anche alla sfera più intima. Il re lo volle non
solo a compagno degli studi e dei viaggi, ma altresì dei suoi più segreti
piaceri, essendoché della corte di Potsdam, ora fa un peripato, ed ora la
converte in un tempio di Gnido, il che significa: in un tempio di Venere. Utilizza
la propria influenza anche a favore degli oppositori filosofici a Venezia, Bologna,
e Pisa. Altre opere: “Viaggi di Russia”; “Il Congresso di Citera” -- un romanzo
dedicato ai costumi galanti e amorosi rivisitati secondo quanto osservato nei
diversi luoci in cui soggiorna. Altre opere: edizione con indice analitico –
reproduzione anastatica -- Poesie -- Epistole in versi -- Annotazioni alle
epistole -- Rime giusta l'ediz. di Bologna -- Elegia ad Francisci Marive
Zanotti Carmina -- Dialoghi sopra l'ottica Neutoniana -- Breve storia della
Fisica ed esposizione dell' ipotesi del Cartesio sopra la natura della luce e
de' colori. I principi generali dell'ottica -- La struttura dell'occhio e la
maniera onde si vede; e si confutano le ipotesi del Cartesio e del Malebranchio
intorno alla natura della luce e de colori -- Esposizione del sistema d'ottica
neutoniano. Il principio universale dell'attrazione -- Applicazione di questo
principio all'ottica -- Si confutano alcune ipotesi intorno la natura de
colori, e si riconferma il sistema del Neutono -- Opuscoli spettanti al
neutonianismo. Caritea, ovvero dialogo in cui spiega come da noi si veggano
dritti gli oggetti che nell'occhio si dipingono capovolti e come solo si vegga
*un* oggetto, non ostante che negli occhi se ne dipingano *due* immagini --
Dissertatio de colorum immutabilitate eorum que diversa refrangibilitate --
Memoire sur la recherche entreprise par m. Du fay, s'il n'y a effectivement
dans la lumie re que trois couleurs primitives -- Sur les sept couleurs
primitives, pour servir de réponse à ce que m. Dufay a dit à ce sujet dans la
feuille du Pour et contre -- Le belle arti. L'Architettura. La Pittura. L'Accademia
di Francia ch'è in Roma. L'opera in musica. Enea in Troja. Ifigenia in en
Aulide: opera -- Sopra la necessità di scrivere nella propria lingua -- La
lingua francese -- La Rima -- La durata de' regni de' re di Roma -- L'impero
degl'incas -- Perchè i grandi ingegni a certi tempi sorgono tutti ad un trat o
e fioriscono insieme -- se le qualità varie de' popoli originate sieno dall'
influsso del clima, ovveramente dalle virtù della legislazione -- Il
gentilesimo. Il Commercio -- Cartesio -- Orazio -- La scienza militare del
segretario fiorentino. Discorso militare -- La ricchezza della lingua italiana
ne' termini militari -- Se sia miglior partito schierarsi con l'ordinanza piena
oppure con intervalli -- La colonna del cav. Folfrd -- Gli studj fatti da
Andrea Palladio nelle cose militari -- L'impresa disegnata da Giulio Cesare
contro a' Parti -- L'ordine di battaglia di Koulicano contro ad Asraffo capo
degli Aguani. L'ordine di battaglia di Koulicano a Leilam contro Topal Osmano.
Gl'esercizi militari de' prussiani in tempo di pace -- Carlo XII re di Svezia --
La presa di Bergenopzoom. La potenza militare in Asia delle compagnie
mercantili di Europa -- L'ammiraglio Anson -- La scienza militare di Virgilio
-- La guerra insorta l'anno MDCCLV tra l'Inghilterra e la Francia -- Il
principio della guerra fatta al re di Prussia dall' Austria, dalla Francia,
dalla Russia, etc. -- Gl'effetti della giornata di Lobositz -- La condotta
militare e politica del ministro Pitt -- Il poema dell'arte daila guerra -- Il
fatto d'armi di Maxen -- La pace conchiusa l'anno MDCCLXII tra l'Inghilterra e
la Francia -- La giornata di Zamara -- Viaggi di Russia -- Storia metallica
della Russia -- Lettere a milord Hervey sopra la Russia -- Lettere al marchese
Scipione Maffei sullo stesso argomento -- Congresso di Citera -- Giudicio di
Amore sopra il Congresso di Citera -- Vita di Stefano Benedetto Pallavicini --
Sinopsi di una introduzione alla Nereidologia -- Lettera sopra il prospetto o
Sinopsi della Nereidologia. 387 Risposta dell' Autore -- Gl'effetti
dell'invasione dei goti e de'vandali in Italia -- Le Accademie -- Michelagnolo
Buonarroti -- Gl'italiani -- Il passaggio al sud per il norte -- L'industria.
Gl'inglesi -- Bernini -- Metastasio -- Gl'abusi introdottisi nelle scienze e
nelle arti -- Le donne celebri nella letteratura -- La difficoltà delle
traduzioni -- Il commercio -- Fontenelle -- La forza della consuetudine --
L'utilità dell' Affrica per il commercio -- Il secolo del seicento -- Ovidio --
Cicerone -- Plutarco -- I romani -- L'etimologie -- I principi dotti --
L'eleganza nello scrivere del Vasari e del Palladio -- Galilei -- La maniera
onde si venre a popolar l'America -- Dante Alighieri -- La lingua
francese -- Voltaire -- Euclide -- Le misure itinerarie degli antichi -- La
questione della preferenza tra gli antichi e i moderni -- Il secolo presente --
Omero -- Lettere di Polianzio ad Ermogene intorno alla traduzione dell'Eneide
del Caro -- La Pittura -- Descrizione dei quadri acquistati per la Galleria di
Dresda -- La prospettiva degli antichi -- Pitture ed altre curiosità di Parma
-- Pitture di Mauro Tesi -- Pitture di Cento -- Pitture di Bologna -- Pitture
di varie città di Romagna -- L'Architettura -- Un'antica pianta di Venezia,
prete so intaglio di Alberto Durero -- L'uso dello appajar le colonne --
L'origine delle basi delle colonne -- Descrizione dei disegni di Palladio ed
altri per la facciata di s. Petronio di Bologna -- Delle antichità ed altri
edifizj di Rimini -- Delle cose più osservabili di Pisa -- Progetto per ridurre
a compimento il R. Museo di Dresda -- Argomenti di quadri dati a dipingere a'
più celebri Pittori moderni per la R. Galleria di Dresda -- Lettere
scientifiche -- Lettere erudite -- Il Cesare tragedia di Voltaire -- EUSTACHIO
MANFREDI -- Saggio tritico sulle facoltà della mente umana dello Swift --
L'opera de natura lucis del Vossio -- Omero -- I poemi del Tasso -- Milton --
La traduzione di Omero fatta dal Salvi -- Il poema le Api del Rucellai --
Iscrizioni ed epitaffj rimarcabili -- Sandersono -- Iscrizioni per la chiesa
cattolica di Berlino -- Le traduzioni delle sue opere -- Il moto dell'apogeo
della luna -- Le comparazioni -- Gli Scrittori italiani del cinquecento --
L'ANTI- LUCREZIO del card. di Polignac -- Gl'abitanti del Paraguai -- Alcuni
plagiati de' francesi -- Le cose che i irancesi hanno imparato dagl'italiani --
L'invenzione degli specchj ustorj di Buffon -- L'Edipo di Sofocle -- L'ULISSE
del Lazzarini -- L'elettricità -- Il CATONE dell' Addison -- Elogio di Giovanni
Emo -- I fosfori -- La doppia rifrazione de' prismi di cristallo di rocca. --
La diffrazione della luce. 355 rocca -- Le Poesie di Gio: Pietro Zanotti --
Pope -- Lo stile di Dante -- L'opinioni del Rizzetti intorno la luce -- La
stranezza di alcuni paralelli -- Il poema di Milton -- Il libro De orli et
progressu morum del p. Stellini -- Elogio del Caldani -- Gl'influssi della luna
-- L'abuso della filosofia nella poesia -- Il Poema del Trissino -- La maniera
di seminare insegnata da Alessandro del Borro -- L'operetta Il Congresso di
Citera -- Pregi degli scrittori toscani -- Le due tragedie di Mason r Elfrida
ed il Carattaco -- L'odi di Tommaso Gray -- La necessità di arricchire di voci
toscane il dizionario della Crusca -- La deformità di Guglielmo Hay. Il gnomone
di Firenze rettificato dal p. Ximenes -- Storia de' Dialoghi dell' Autore sopra
la luce e i colori -- L'origine dell'Accademia della Crusca -- Carteggio con
Mauro ('Maurino') Tesi -- Lettere ad Eustachio Zanotti -- Lettere all'ab.
Antonio Conti -- Carteggio con il p. d. Paolo Frisi. Lettere. Di Eustachio
Manfredi al co. Algarotti -- Di Giampietro Zanotti al co. Algarotti -- Di
Francesco Maria Zanotti al co: Algarotti -- Del co: Algarotti a Giampietro
Zanotti -- Del co: Algarotti a Francesco Maria Zanotti -- OPERE INEDITE.
Lettere. Di Francesco Maria Zanotti al co: Algarotti -- Di Eustachio Zanotti al
co: Algarotti -- Della marchesa Elisabetta Ercolani Ratta -- Del co: Algarotti
a Francesco Maria Zanotti -- Dell' ab. Metastasio al co: Algarotti -- Dell' ab.
Frugoni -- Di Alessandro Fabri -- Di Flaminio Scarselli -- Di Benedetto XIV.
Sommo Pontefice. -- Del co: Agostino Paradisi -- Del co: Giammaria Mazzuchelli
-- Di mons. Michelangelo Giacomelli. 361 Del co: Algarotti a Flaminio Scarselli
-- Del co: Algarotti a Benedetto XIV -- Del co: Algarotti al co: Giammaria
Mazzuchelli. Dell ab. Clemente Sibiliato al co: Algarot -- Dell'ab. Saverio
Bettinelli -- Del consigliere don Giuseppe Pecis -- Di Gio: Beccari -- Del
marchese Scipione Maffei -- Del co: Aurelio Bernieri -- Del co: Paolo Brazolo.
277, 279 Di Lodovico Bianconi.. 282, 296, 308 Del padre Paolo Paciaudi. 285 Del
marchese Gio: Poleni. 288 Di Antonio Cocchi. 291 Del doge Marco Foscarini. 293
Dell' ab. Giammaria Ortes. 315 Del marchese Girolamo Grimaldi. 317 Dell' 300,
Dell' ab. Metastasio. Del padre Jacopo Belgrado. 335 Di Giovanni Bianchi. 338
Di Tommaso Temanza. 342, 345, 348 Del padre Antonio Golini. 350 Dell'ab.
Gaspero Patriarchi. Di Giuseppe Bartoli. 369 Del co: Girolamo dal Pozzo. 373
Del marchese Bernardo Tanucci. 383 Dell'ab. Spallanzani. Di Jacopo Martorelli.
439 Del canonico Andrea Lazzarini. 443 Del co: Algarotti all'ab. Sibiliato. 3
Del co: Algarotti all'ab. Bettinelli -- Del co: Algärotti al consigliere Pecis
--Del co: Algarotti al co: Aurelio Bernieri. -- Di Federico II. Re di Prussia
al co: Algarotti -- Del Principe Guglielmo di Prussia -- Del Principe
Ferdinando di Prussia -- Del Principe Enrico di Prussia -- Del Principe
Ferdinando di Brünswic -- Del cardinale di Bernis -- Del sig. du Tillot. Del
co: Algarotti a Federigo II -- Del co: Algarotti al Principe Guglielmo -- Del
co: Algarotti al Principe Ferdinando -- Dello stesso al Principe Enrico --
Dello stesso al Principe Ferdinando di Brünswic -- Dello stesso al cardinale di
Bernis -- Della marchesa di Châtelet. pag. 3 a 61 Di Voltaire -- Di Maupertuis
-- Di Formey -- Di madama Du Boccage -- Del.co: Algarotti a Voltaire -- Del co:
Algarotti a Formey -- Dello stesso a madama Du Boccage -- Di mad. Du Boccage al
co: Algarotți -- Del co. Algarotti alla stessa -- Del triumvirato di
CRÀSSO, POMPEO E CESARE. Fu sepolto nel camposanto di Pisa in un
monumento di stile archeologizzante, tradotto in marmo di Carrara. L'epitaffio
è quello che per lui dettò il re di Prussia: “Algarotto Ovidii aemulo” -- Neutoni discipulo, Federicus rex".
Algarotti medesimo si era preparato il disegno del sepolcro e l'epitafio, non
già per orgoglio, ma spinto dal sacro amore del bello che anche in faccia alla
morte non poteva intiepidirsi nel suo petto. Aperto al progresso e alla conoscenza
razionale, esperto del bello (si prodiga come fautore di Palladio), fu rispetto
alla filosofia un grande assertore delle teorie di Newton, sul conto del quale
scrisse uno dei suoi più noti saggi, Il newtonianesimo. Viene considerato una
sorta di Socrate veneziano e per comprendere la sua statura di insigne filosofo
con un'infinita sete di sapere e divulgare è sufficiente porsi davanti al suo
innumerevole campo di interessi. Al di là del suo ruolo di spicco
nell'illuminismo filosofico, fu anche un diplomatico e un procacciatore d'arte.
In particolare viaggia cercando antichita romani per conto di Augusto III di Sassonia.
È noto che fu a comprare a Venezia il capolavoro di Liotard, il pastello de La
cioccolataia, che poi divenne una delle perle a Dresda. Di bell'aspetto, dotato
di un aristocratico naso aquilino (esiste al Rijksmuseum uno suo ritratto a
pastello, sempre di Liotard, nel Saggio sopra Orazio non perde occasione di far
notare come questi fosse ambi-destro, e tanto lodava i vantaggi di questa
disposizione, che c'è chi suppone che egli la condividesse. Ebbe a filosofare
praticamente su tutto, affrontandocon l'acuta attenzione dello scienziato presso
ché ogni aspetto dello scibile umano. Basti ricordare i saggi “Sopra la
pittura”; “Sopra l'architettura”; “Sopra l'opera in musica”; “Sopra il
commercio”; “Poesie”. Il demone ben temperato. tra scienza e letteratura,
Italia ed Europa, Sinestesie, Note Umberto Renda e Piero Operti, Dizionario
storico della letteratura italiana, Torino, Paravia, 195226. Ugo Baldini, BRESSANI, Gregorio, in
Dizionario biografico degli italiani,
14, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. TreccaniEnciclopedie on
line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Francesco Algarotti, in Enciclopedia Italiana, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Francesco Algarotti, su Enciclopedia Britannica,
Encyclopædia Britannica, Inc. Francesco
Algarotti, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Francesco Algarotti, su Find a Grave.
Opere di Francesco Algarotti, su Liber Liber. Opere di Francesco Algarotti / Francesco
Algarotti (altra versione), su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di
Francesco Algarotti,. Spartiti o libretti di Francesco Algarotti, su
International Music Score Library Project, Project Petrucci LLC. Progetto per ridurre a compimento il Regio
Museo di Dresda su horti-hesperidum.com. Sito Algarotti dell'Treviri, su
algarotti.uni-trier.de. La casa di Francesco Algarotti è aperta da
settembre come alloggio turistico.
Algarotti e Palladio, su cisapalladio.org. Il newtonianismo per le dame, su
google.com. Opere del conte Algarotti, su google.com. Corrispondenza con
Federico II di Prussia (testo francese e tedesco) V D M Illuministi italiani --
LGBT
LGBT Letteratura Letteratura
Teatro Teatro Categorie: Scrittori
italiani del XVIII secoloSaggisti italiani del XVIII secoloCollezionisti d'arte
italiani Venezia PisaTeorici del restauroIlluministiScrittori trattanti
tematiche LGBTMembri della Royal SocietyViaggiatori italianiMercanti d'arte
italiani. Il conte Algarotti adunque per
più ragioni, secondo che egli dice, entra in pensiero, che della metà a un di
presso s'avesse ad accorciar la durata de’ regni de’ re di Roma. Alcune di
queste possono considerarsi come certi sguardi, che getta ad un traito sopra
tutto il corso degli anni, che. E per trattare ordinatamente la quistione
reputo necessario l'accennare prima ditutto il cammino, che ho avvisato dover
battere per giungere al vero. Breve lavoro sarebbe pertanto i l rispondere alle
opposizioni della prima maniera, che fa contro le epoche dagli antichi fissate alla
storia de' re, in ispecie a quelle, che sono in principio del suo saggio, le
quali sono tratte, direi cosi, dalla sola natura del soggetto. P r ciocchè
alcune ch'egli aggiugne in fine del suo saggio, quantunque risguardino in genere
tutto il tempo della durata de' sette regni, contuttociò tratte sono dagli
avvenimenti narrati dagli storici, e sono come un fidicono passati. Sotto
cotesti Re. Altre, e queste sono in maggior copia, risguardano più
particolarmente ciascun regno, e s'in gegna con tutto questo di dimostrare, com
e i fatti, che dagli storici, e principalmente da Livio ci furono tramandati, facciano
guerra alle epoche assegnate da esso altri scrittori di quelle storie; le quali
ragioni io non istimo Livio medesimo, e dagli essere di tal peso, che s'abbia
-perciò ad infringere l'autorità degli storici, ed abbre viare della metà circa
la durata de'mentovati Regni. un risultato delle osservazioni sue sopra
ciascun regno. Ma riesce poi più lunga faccenda il togliere quelle
contraddizioni, e ripugnanze, che dice ritrovarsi tra i fat tiregistrarinegli annali
degli storici, e le epoche da elli
assegnate. Ben è vero, che per questo rispetto chi volesse restringersi unicamente
a mettere la cosa in dubbio, quella stessa facilità, con cui prese per guida
que’.foli Storici, che gli andavano a grado, e fece scelta di que ' foli luoghi
di questi, che gli erano favorevoli, potrebbe appigliarsi ad altro Scrittore,
oppure ammertendo gli stesii sceglier da quelli que'luoghi (che al certo non
gli mancherebbono), i quali favorissero l'antico cronologico sistema. Ma questo
sarebbe porre folianto, c o m e disli, in dubbio la cosa; anzi il far vedere,
che non mancano testimonianze in favore sia dell'una, che dell'altra opinione,
riuscireb be di non poca confusione, e darebbe a credere a' poco avveduti, che
la quistione definir non sipossa. Onde io credo, che far si debba un passo più
oltre, vale a dire non appagarsi di ridur la cosa a tal segno soltanto,che
vengano ad indebolirfi le ra gioni addotte dal Conte Algarotti contro l'antico
Cronologico Sistema, per m o d o che non che per l'altra, o pure
anche che venga non fiavi per una parte ragion più forte, a rendersi più
probabile l'antico Sistema, m a di più innalzarlo al grado delle cose più fi
cure, che affermar si possano di quella pri ma età di Roma:ilche per recare
adef fetto si dovrebbono esaminare le qualità, ed il particolarcaratteredi
ciascuno degli Sto rici, che scrissero gli avvenimenti di que' secoli, e
confrontandone i luoghi, far ragio ne dal tempo, in cui vissero, dal fine,per
cui presero a dettare le loro Storie, in s o m m a adoperarsi per conciliarli
fra di loro, ed accertarsi per mezzo di una sana Critica della verità de'fatti,
onde chiaramente siscopra, se questi, ove sieno ben accertati, sieno poi tali,
che all'epoche ripugnino. Ora adunque seguendo lo stesso ordine te nuto
dall'Autore nelSaggio suo, allorchè mi sarò ingegnato di rispondere a quelle g
e n e rali opposizioni, ch'egli fa, e dopo che avrò delineato non dirò già un
ritratto, m a un lieve abbozzo de'tre principali Scrittoridelle Storie di Roma
sottoi Re, mi farò distin tamente ad esaminare quelle irragionevolez ze; ed
anche ripugnanze, com'ei le chiama, per cui stimò doversi abbreviar ciascun R e
gno, e per conseguente di molto, cioèdella i b metà metà
forse, doversi scemar la durata di tutti fette iRegni. Si risponde ad alcune
obbiezioni, che fa il Conte Algarotti coniro l'antico dero no, CAPO
Cronologico Sistema. P e r farci a considerar quelle ragioni, che adduce prima
di tutto l'Autor nostro nel suo Saggio, e che tutta la quistione abbraccia fa
d' ilpremettere, uopo, e che gli mette troppo bene a conto, ed è che i fatti
fieno staticonservati illesi dalla semplice tradizione, che tro egli chiama
vaga, senza ajuto degli A n nali,i quali perirono nelle fiamme, cui die 1
noftri ultimi tempi alcuni Letterati Francesi dell'antica avanti Pirro
osservato Storia molti luoghi avendo Roma farono doverne dubitar della certezza
nel qual dubbio se fosse per avventura 'egli en trato, non opporre che, essendo
il tutto dubbioso egualmente egli un partito Ora è da avvertire prender che a
questi di sottilmente, p e n più ragionevolmente potrebbe i fatti dagli Storici
narrati all'epo di mezzo per al dero in preda i Galli la Città di Roma, e
le epoche sieno state interamente distrutte da quell'incendio, nè per quelte
sole tradi zioni veruna valendo, abbiano dovuto gli Storici posteriori
immaginarsele a senno loro. Il qual partito, soggiugne il noitro Autore, ben
volentieri presero essi, trovando modo di appagar con questo quel natural
deside rio,che,nonmeno diciascuna famiglia, ha ciascun popolo di spingere, come
e'fece ro, tant'oltre quanto poterono nella oscuri rità de'tempi la propria
origine. E quello che è più lidà a credere,che a ciò fare giustificati fossero
dalla opinione, la quale ei dice ch'essi aveano, che tante generazio ni
corressero quanti Re; onde circa tre R e gni largamente in ogni secolo si
avessero a porre, essendo ogni generazione di trentatrè anni: laddove egli
pensa, che più brevi di molto sieno di Regni, non giungendo questi l'uno
fagguagliato coll'altro se non ai di. ciotto o vent'anni, secondo che scrisse
il Neurone (a), la qual legge, segue egli a dire, si vede confermata in quella
unga fe rie d'Imperadori, che da Yao infino a ' di b2 (a) “The Chronology of the
ancient kingdoms of Rome, amended by Newton. Veggansi le due tavole
Cronologiche in fine. nostri tennero il vasto Impero della China, D a
tutto questo si raccoglie fupporsi dall'Au tor noftro, che quella vaga
tradizione, la quale conservò gli avvenimenti, comechè facili a ricevere
alterazioni, a cagion delle molte circostanze, che fogliono a c c o m p a
gnarli, anzi che conservò, c o m e di alcuni dovrem notare le epoche precise,
in cui non abbia potuto conservare le altre epoche più notabili, vale a dire la
durata di ciascun Regno, e per conseguen te la somma dello spazio di tempo,che
ab bracciarono tutti isette Regni insieme,quan tunque cosa non meno importante
di m o l tiffimi fatti, che pur furono da cotesta sua tradizion conservari, e
non capace di pren dere come ifatti diverso alpetto passando per le bocche
degli uomini. Non troppo ra gionevole pertanto mi sembra la sua preten. fione,
e per asserire, che gli Storicidique' primi tempi di R o m a non fossero
informati di queste epoche, farebbe mestieri produrre qualche testimonianza, o
almeno congettura, da cui si potesse chiaramente inferire che di quelle
veramente informati non fossero, la qual cosa non facendo egli, io ftimo, che
non maggior ragion fiavi per credere a' fatti, che alle epoche. Cie seguiti
sono 1 Ciò posto o è l'antica Storia di Roma del pari tutta dubbiofa, e d
in questo caso inutili sono le osservazioni sue, o è del pari certa tanto a'
farti, ed rispetto alle epoche allora non hassi a dire,che le, quanto i che
sieno state supposte ci. Senzachè se gli Storici si fossero i m m a ginato a
piacer loro le durate de'Regni se condo la legge delle generazioni, com'egli
pensa, non si sarebbono tolto la briga di far registro di quanti anni
precisamente sia stato ilRegno diciascun Re, edavrebbonodato qualche cenno d'
aver seguita una tal legge; fe pur non vogliam credere, non che seguit sero una
regola da essi giudicata sicura,ma che avessero concepito di tessere un dolce
inganno a'contemporanei loro, il che, senza che se ne adducano le prove,
conceder non si dee a giudizio mio per modo nessuno. epo da'pofteriori Stori- *
il malizioso disegno 1 Quantunque però sia abbastanza Ito, che, quand'anche
tutta l'antica Storia di Roma fi fosse, non solo ugualmente per semplice
tradizione conservata instrutti della Cronologia, che de'fatti por si debbano
gli Storici mentovati; nulla dimeno, fia per salvar dalle fiamme questa
Cronologia, d a cui divorata,ma anche più manife la presume ľ sup Aus b
due (6)Quae incommentariisPontificumaliisquepublicisprive. tisque erant
monumentis incenfa urbe pleraeque interiere. T.Liy.Dec. I.Lib.VI.inprinc.
()Plut.inNuma inprinc. non che vorrà negare. Autor noftro, sia perchè
resti maggiormen te confermata la certezza dell'antica Storia di R o m a (la
quale a vero dire già ha a v u to troppo più valorosi difensori di quello ch'io
m i sia ) stimo pregio dell'opera il *mostrare, che non fu poi, qual per alcuni
si dipinge,si funesto l'incendio de'Galli per gli annali di Roma. E per
cominciar da Livio, della testimo nianza di cui si fiancheggia in prima il no
ftro Autore, oltrechè mostreremo fra breve, che a lui non poco premeva di fare
passar per dubbiosi gli antichi avvenimenti seguiti avanti l'incendio de'Galli,
se si considera no attentamente le parole di lui (b), que ste non vengono a dir
altro, se buona parte de'monumenti perì in quelle. fiamme,ilche nè io, nè
alcuno, penso, Plutarco poi non dice altro (c), se non che, secondo quello, che
avea osservato un certo Clodio,supposte erano alcune m e m o rie appartenenti a
Numa, essendo le vere mancate nella presa di R o m a. Se da questi
ро ALGAROTTI. CAPO II. 23 due luoghi di Livio, e di Plutarco si possa
inferire, che abbiano gli Archivj di R o m a fofferto un generale incendio, lo
lascio al giudicio de'giusti estimatori delle cose. Se R o m a fosse itata
inaspettatamente presa di asfalto, non riuscirebbe forse difficile ilcon
cepirlo;ma ad ognuno è noto,che iRo mani, dopo l'infaufta giornata di Allia, in
cui furono da’Barbari sconficci, vedendo di ·non potere per modo nessuno
difendere la Città dal vittorioso esercito de'Galli,ebbero ancora tale spazio
di tempo (d) (tre giorni diconoDiodoroSiculo (e),ePlutarco)da po ter fornire di
munizioni il Campidoglio,m e t tervi alla difesa il miglior nerbo della solda
tesca, i più valorosi Senatori, e la più vi gorosa gioventù, ove ancora per
teftimo nianza del medesimo Diodoro posero in fal v o quant' oro, argento,
vesti preziose, e cose rare, che s'avessero (f): ebbero t e m b4 Diodor. Sicul,
loc, cif, non le Vertali di ricoverarsi a Cere, non r é itando nella
Città fe non que'venerandi v e c chị, che vollero rimanervi. Ora adunque (1) T.
Liv. Dec. 1. Lib. V. cap. 21. 22. ) Diodor. Sicul. Bibliot. Stor. Lib.XIV.n.
115. p.729. tom. I. ed. Amft. 1746. Plut. in Camillo. > ed
incerta, ma poco o nulla men pregevole delle Storie medesime, di cui a b biamo
fatto parola sopra, e per mezzo di cui, secondo quello che abbiamo osservato,
riesce non avranno o i guerrieri rinchiusi nella roca o quelli, che
lisottrassero colla fuga. all' eccidio della Città, falvati dalle f i a m m e
quegli antichi Annali? I n verità bisognereb be far forza a noi medesimi per
idearci Romani accesi com'erano dell'amor Patria, e solleciti di ogni cosa, che
potesse fervire alla gloria di quella, così (8) V o f f i u s d e H i f t. L a
t. L i b. I. C a p. I. T o m. I V. O p a i della ca, ranti delle proprie poco
Storie.M a supponiamo cu che,che questi an fossero periti; il f a m o so Vossio
Annali (g) osserva tacciar non per questo tica Storia dubbia credibile l'an
avessero di Roma, essendo pur anche i loro Annali, che le circon fi dovrebbe
vicine Città, con tuto ad un bisogno loro; ed in secondo alle luogo non
essereda cre dere, che coloro fra'Romani, i q u a l i li l e g g e vano,
custodiyano duto la memoria, scriveano del tutto: ed ci riduciamo a quella
tradizione vaga,, non però,che di falsa, o cui i Romani abbiano mancanze
supplire, avessero in tal caso po per ed, Amst. 1699 (4)Cic.de
Orat.Lib.II.,de Legib.Lib.I. Nulla enim lex neque pax, neque bellum, nequè res
ficnotata: Corn. Nep. in Attico n. 18. (1)
SenexHistoriasfcribereinstituit,quarumsuntlibrisep. M a che serve
affaticarsi di provare con congetture una cosa, di cui abbiamo cost chiare, e
sicure testimonianze? N o n giunse ro gli Annali Maslimi.a'rempi di Cicerone, e
non ne reca egli giudizio (h) in più luoghi. delle opere sue? Onde Fabio
Pirrore, Lu cio Pilon Frugi, Valerio Anziate Scrittori che furono tra lemani dị
Dionigi,ediLi vio, avranno prese le memorie per dettare le Storie loro, se non
da'monumenti, che avanti l'incendio esistessero? Pomponio A t tico intrinseco
amico di Cicerone, che se condo Cornelio Nipote (i) non tralasciò in certo suo
libro di porre sotto l'epoca pre cisa cosa alcuna riguardevole del popolo R o m
a n o, C a t o n e, il p r i m o l i b r o d e l l e S t o r i e d i cui
comprendevaifattide'Re diRoma come riferisce lo stesso Cornelio (k), onde avran
tratto i materiali per quest' opere loro? Varrone il più dotro de'Romani, uomo
al tiesce non solo ugualmente, m a più
credi bile eziandio la Cronologia de'fatti. certo ili luftris estpopuli Romani,
quae non in eo,fuo tempore com,primus continet res gestasRegum populi Romani
Corn. Nep. in Cat. n. 3. certo di non facile contentatura,su che avrà
fondato l'opinion sua contraria a quella di Catone circa al tempo della
fondazion di R o m a, se non sopra monumenti,che a'suoi tempi ancora
esistessero, in cui fosse accura tamente descritta quella prima età? E, v a
gliami per ultimo l'autorità di quel diligen te investigatore delle
antichitàRomane Dio. nigi d'Alicarnasso, quante tenebre egli non dilegua coi
Commentarj de’Censori, e con altre memorie, le quali pajono anteriori alla
famosa irruzione de'Galli, o almeno sopra quelle compilate? E non è forse da
crede. re, che a quel Dionigi, il quale dovendo per mezzo di un suo computo
fissar la giu Ata epoca della fondazione di R o m a, fi Itu dia di portare
tanti monumenti, per venire in cognizione del numero d'anni, che cor sero dalla
deposizion di Tarquinio insino all' incendiodiRoma (1),echecircaalladu, rata
de'Regni non muove la minima que stione, anzi concordando con Livio, gli af
segna il medesimo numero di anni;a quel Dionigi,cui è data la lode di
esattissimo nel fissar le epoche, come più sotto vedremo,
(9)Dionyf.Halic:Antiq.Rom.Lib.I. p. 60. ex ed, non Graeco-Lat. Friderici
Sylburgii Lipfiae 1691, امی juC h e poi per vantare antichità abbiano gli
Storici allungata la Cronologia, è noto a d ognuno esserregola dell'Arte
Critica, doverfi presumere, che alcuno abbia ingan, nato sulla fola luogo bio,
non ܕ nato in suo pro l'ingannare, m a doversi a d d'aver
egli.veramente ciò fatto; ed oltre a questo non può cade dur prove manifeste
sopra Dionigi., come quello, ch'essendo straniero re per modo nessuno un talsospetto
non era tentato dall'amor della patria a m e n tire per adularla, e che fece un
particolare ftudio di chiarire l'antica Storia di Roma. che sarebbetor non
mancassero i suoi fondamenti per accer tartaldurata,come cosa fuord'ognidub
congettura, Non istimo ora del resto dover parlare della diversità, che l'Autor
nostro dice c o r Tere tra le generazioni, e le successioni de' Regni;giacchè è
manifesto non aver gli Storici seguito una tal regola, e quand'an. che seguita
l'avessero potendosi far veder di leggieri, che se per alcuni motivi da lui e
dal Neutone addotti sembra, che iRegni debbano riuscir più brevi, che le, per
altri rispetti potrebbe più lunghi restassero tazioni. Tanto più che dovrò
accennare in generazio succedere, che i Regni, che le gene ni luogo più
opportuno quelle regole ch'io stimo doverli osservare, nel fiffar queste g e
nerazioni, potendosi queste sotto diversi a f petti riguardar da ' Cronologi.
(mn)Description de l'Empire de la Chine par le P.Dus Halde. Tom.I. Faites de la
Monarchie Chinoise per dare a divedere, che quella rego Mi basterà per
ora notare, ch' in quella lunga serie degli Imperadori della Cina s'in •
contrano n o n una volta sola, m a diverse fiare sette Regni di seguito, i
quali se non giungono, si avvicinano però assai allo spa zio di tempo, che
tolti insieme durarono i Regni de'Re diRoma:per comprovarla qual cosa giova il
recarne alcuni esempj, che m'è venuto fatto di ritrovare ne'fatti di quella
Monarchia descritti dall'accurato P. Du-Halde (m).Nellaprima.DinastíadaTi
Pou-Kiang insino a Kiè corsero dugento e dodici anni. Nella seconda da
Tching-Tang infino a Tai-Vou passarono dugento e quat tro anni; e nella terza
Dinastía dugento 'e venticinque da Tchao -Vang insino a Li-Vang. Facilmente non
saranno questi foli i casi, in cui,non uscendo dalla serie degli Imperadori
della Cina, fecte Regni di seguito abbiano abbracciato più di due secoli; tanto
però basta la, 2.9 gi la, la quale pure è vera, trattandosi di l u n
ghissimo spazio di tempo, riesce falsa nelle itesse Tavole Cronologiche degli
Imperadori Cinesi, quando si reftringa a fette soli R e gni. Ed ecco come si
vengono a sciogliere tutte quelle diffico'tà inosse dall'Avior no stro per
diminuir la credenza, che prestar fi dee agli Storici, e rendere improbabile in
genere la lunghezza di questi Regni. O r a fa di mestieri farsi a considerare
quelle ragioni, ch'ei deduce dalla ripugnanza dei fatti, di cui fecero gli
antichi Scrittori re gistro,alleepoche,per venireadaccorciar
ciascunRegno:Seiodicesli,che concor dando a un dipresso tutti gli Storici nelle
epoche principali, e circa la durata de'Re-. gni, e discordando ne'fatti,
ilconsenso loro nello afferir la durata dee meritar. troppo maggior fede, e
pertanto doversi come lup-, posti rigettar quegli avvenimenti, e quelle epoche
particolari di alcun fatto, che taluno fra essilasciò ne'suoilibri descritte,
che ripugnano a quello, la di cui certezza è chiaramente,e concordemente da
essi affe rita; se jo ciò dicefli, mi servirei di una ragione più atta a far
forza, che a persua dere. Perciocchè resterebbe sempre una c o tal nebbia, ed
oscurità nella mente de'Lega gitori, non vedendo eglino quali oltre
a que ito fieno i motivi, per cui come falsi s'ab biano'a rigettar questi fatti,
che falli certa mente avrebbono a d essere, quando ad una verità fi opponeffero.
Laonde è convenien te o farne vedere per altre ragioni la fal fità, o mostrarne
la non ripugnanza, quan do, come di alcuni veri dovrò fare meno avvedutamente
ripugnanti, sieno stati dall'Au tor nokro creduti.Per condurre a fine le quali
cose, siccome è d'uopo far uso delle regole, che prescrive l'Arte Critica,
stimo pregio dell'opera il premetter quella, la quale più d'ogni altra ttimali
necessaria, ed è il chiarir bene a quale Scrittore s'ab bia per CAPO (n) Si
unus aut alius (Hiftoricus) adverfus plures teftifi: Centur, Historicorum
conferendae dotes, fecundum cas je dicandum. Genuenfis in Arte Logico-Crit. Lib.IV,
Cap. II. §. 19. can. 2. 30 COSI. l'antica Storia Latina, i di cui av.
venimenti cadono nella nostra quiltione, a ri correre, ed in caso di disparere,
a quale fi debba prestar maggior fede (n). CAPO Trattasi della
credenza, che prestar fi dee a Tito Livio, Dionigi d'Alicarnaso Plutarco, per
rispetto ai fatti, che R a gli Scrittori, in cui troviamo descritti i principi
di quella Nazione, al di cui co fpecto dovea tremar l'Universo, primeggia no
Tito Livio, Plutarco per le vite, che stese de'due primi Re, eDionigidiAlicar
naffo. Penso adunque esser buona cosa l'in.vestigare prima di tutto il vero
carattere di ciascuno di questi, per rispetto al m a g g i o re o minor caso,
che far si vuole della au torità di taluno di effi per riguardo a tal
altro,ne’racconti,che pressodiloro sitrovano. per (a) Come Livio scrive, che
non erra, Dante Inf. cant. che non Fra ALGAROTTI, *31 cądono nella
presente quistione. Se farò poi in questa disamiņa precedere Tito Livio agli
altri due, si è, perchè di lui fi pregia più che d'ogni altro l'Autor nostro, e
glid à ad una voce col creatore della nostraLingua,non meno chedellano Itra
Poesia la lode di Scrittore 2 erra (a), la qual lode se vera se giusta sia 2
28. V. 124 III. (5) Livius etiam, & Curtius artem declamatoriam
affe&taffe videntur.Nimiam ftyli.curam in Hiftorico fufpettam ho beo,Genuens.
in Arce Logico-Crit. Lib.IV. Cap. 2o $.18. per rispetto a quel tratto
della Storia Latina', che cade sotto la controversia noftra, verrà brevemente
esaminando. pol L'andar dietro alle quistioni, e dubbie tà, che s'incontrano
nella Storia de primi tempi di Roma, il diradar lenebbie,incui si avvolgeva
quell'oscuro secolo, era cofa, che ripugnava all'indole di Livio, il qual
certamente più compiacevafi nel dipingere con quel luo vivo, e maestoso itile i
bei giorni di R o m a, che in ricercarne sottilmen te le origini traendo alla
luce gli avveni menti, che succeduti erano in quelle rimote età. Pare veramente
ch'egli dovesse te mer forte non i suoi lettorifi disgustassero, se egli si
fosse messo in un tale intricato sen tiero, sentiero, che male egli avrebbe p o
tuto spargere di tutti i fiori della sua E l o quenza; la quale fua Eloquenza
però, per dirlo alla sfuggita, rende sospetta a tal C r i tico la veritàde'fatti
da lui narrati (b). Principale intendimento era adunque di lui lo stendere la
Storia più luminosa di R o ma, vale a dire allor quando falira a gran
possanza, ed a grande onore questa R e p u b blica cominciò a stender le
ali Pontificum libros annosa volumina Storia in fine, la quale troppo più
che l'antica era confacente algeniodi Livio, ed alcomun desiderio dei Romani
de'suoi tempi, per cui preso avea a dettarla.Che se Tacito parago nando le
Storie de'tempi suoi a quelle di que sto secolo, di cui favelliamo, dice, che m
i nute,e poco memorevoli farebbono sembrate le per cose, 1Uni verso. Quando,
domati finalmente i feroci popoli dell'Italia, qual rinchiuso fuoco, che
rovescia ogni ostacolo più forte, avventò le fiamme in grembo all'emula
Cartagine, ed a Corinto, e loggiogata parte coll'armi, par te coll' accortezza
la Grecia tutta, e corsa l' Asia trionfando, essendo, per servirmi delle parole
di Tacito, l'antica, e natural ansietà ne'mortali della potenza cresciuta e
scoppia ta colla grandezza dell'Impero (c), sidivise in quelle fazioni, che
tanti e si gran casi somministrarono alla Storia. Storia di gran di imprese, di
gran personaggi, e di gran di avvenimenti ripiena; Storia non troppo lontana
dal secolo, in cui egli vivea, e per cui non avea a rivoltare Tacit. Hist. Cte nimia obfcuras, velut, quae
magno ex intervallo'lo ci vix cernuntur; tum quod, & rarae por cadem tempo
ra literae fuere,u n a custodia fidelis memoria rerum g e ftarum; & quod
etiam fiquaein commentariis Pontificum, aliisque publicis, privatisque erant
monumentis incenja urbe pleraeque interiere. Clariora deinceps certioraque ab
secun 'da origine velut ab ftirpibus laetius feraciusque renatas urbis, gefta
domi militiaeque exponentur, 1 34 mo cose, ch'egli avea a raccontare, e
che non erano da eguagliarsi le Storie sue agli A n nali antichi diR o m a (d),
poichè gli Scrit tori di quelle narravano guerre grosse, Città sforzate, R e
prefi, e sconfitti, e dentro di scordie di Consoli con Tribuni, leggi a'fru
menti, zuffe della plebe co'grandi,larghilli mi campi, scarso all'incontro e
stretto effe re il suo: che ne avrà dovuto pensar Livio paragonandole a quelle
di que'rimoti, ed oscuri secoli? Se non tralasciò pertanto del tutto di far
menzione de'principj de'R o m a ni, non altra ragione, penso io, averlo a ciò
moffo, fe non per non incorrer la tac cia d'aver composta una Storia mancante,
e per potersi in certo modo fpianar la ftra da a descrivere le susseguenti
famose impre se di quel popolo d'Eroi. Ed in fatti dalle sue stesse parole fi
rac coglie (e) non aver egli troppo dibuon ani (d)Tacit.Annal.Lib.IV.Cap. 32.
n.1. &.. cum vetufla m o lavorato a ftendere quel tratto delle sue
Storie. Cofe le chiama oscure per troppa antichità, e che, per così dire, a
cagione della grande distanza appena più sivedeano. Parla di quelli avvenimenti
in modo che fi scorge, che poco o nessun conto ne fa cea, tanto più dicendo,
ch'esporrà più l u minose, ed accertate gelta della quafi da più fertili, e
rigogliole radici rinata Città dopo l'incendio de'Galli. Poco, ei dice,
scriveasi avanti l'irruzione de' Galli, e se al cune memorie eranvi negli
Annali de'P o n tefici, ed in altri pubblici, e privati m o n u menti,buona
parte di queste peri nelle fiam me. La qualcosa, posto che veramente molte
memorie ancora esistessero a'suoi gior ni di que'tempi, come ben feppe
rinvenirle Dionigi, dà non lieve motivo d i dubitare non il dire, che molti di
questi monumenti periti fossero in quell'incendio sia un mendi cato pretesto di
lui per ispacciarsi in poche parole di quelle antichità. Per raccogliere il
tutto in breve non p a re, che in questo tratto di Storia almeno Livio sia quel
Livio, che non erra, e che a più buona ragione, che non quel verso diDante,
adattar fe gli.patrebbe ilgiudicio di с2 di Quintiliano (f),
ove dice,che quella dol ce facondia di Livio non sarà mai per a p pagare colui,
che non la venuftà del dire, m a la verità cerca nella Storia. Perlaqual cosa a
giudicio non solo del P.Rapino(g), m a di quasi tutti i più valenti Critici, e
per l'accuratezza, e per lo discernimento, e per la verità delle cose
narrateanteporre fidee a Livio Dionigi d'Alicarnaffo. Questo Storico è appunto
il nostro caso. Perito egli era della lingua, e de'costumi de'Latini,fra cui
fece lunga dimora.Con temporaneo di Livio, Critico eccellente p r e se a
trattar quella parte della Storia Latina, ch'era più oscura per la lontananza
de'tem consultò tutti gli antichi Romani Scrit tori diligentemente; e siccome
si scorge, se condo quello, che abbiam notato, che l'in tenzion di Livio era di
trattar principalmen te la Storia di R o m a dopo l'incendio de' Galli, così il
fine di Dionigi era d'inftrui re i suoi lettori nelle antichità soltanto di
quella Nazione, per le quali sue doti ftimò pi? il Neque illa Livii lattea ubertas fatis
docebit eum, qui non speciem expofitionis, fed fidem quaerit. Quiptil.Lib. X.
Cap. I. (8) Rapin. Réflex. sur l'Hift. n. 28. Sto. il Bodino (h) di
doverlo in questa parte pre ferire a tutti gli altri Storici Greci e Latini. E
se per avventura non è, come osservò il Rollin (i), nella lingua lua si
eloquente, e si colto come Livio nella Latina, in quanto all'accuratezza, e
diligenza il vince sicura mente d'affai.Che poi più cose, e più ac intorno
antichità presso di lui, che presso Livio fi curatamente descritte
ritrovino,èancheilparerediquel Varro ne dell'Ollanda Gerardo Vossio (k), ilqual
coll' autori tà di Eusebio, e dello Scaligero, l'ultimo fuo sentimento egli
fiancheggia de quali lo commenda appunto per quella dote, di cui noi
abbisogniamo, voglio dire per essere stato egli più d'ogni altro dili gente nel
fissar le epoche. M a a che serve andar raccogliendo le testimonianze de'Cri
tici? Niuno v'ha fra' letterari, che ignori quanto Dionigi sia benemerito delle
R o m a ne antichità, e che non sappia esser egli alla C3 alle Romane (h) Dionyfius Halicarnasseus antiquitates
Romanorum ab ipfius urbis origine tanta diligentia confcripfit, ut Graecos
omnes, ac Latinos fuperaffe videatur. John B o d i n. M e t h. a d f a c i l. H
i f t. c o g n. C a p. I V. (i) Rollin Histoire Anciene tom.XII.
(A)VoffiusdeHift.GraecisLib. II.Cap.V.,&ibi Euseb. in prep. Evang., &
Scaligerin animad.Euseb., il qual dice: Curatius co niemo tempora obfervavit,
E'ben vero esservi taluno fra'moderni,il quale non fa gran calo
dell'autorità di lui per riguardo a ciò, che scrive intorno alle origini
de'popoli d'Italia, avendo a parer suo Dionigi,per gloria della propria nazio
ne, dato luogo troppo leggermente alle con getture, per derivar dalla Grecia i
primi abitatori dell'Italia (l). Lascio ad altri il giudicare le giusta fia, o
no quest'accusa; m a, quanrunque fosse ben fondata, non so avrebbe per questo a
dubitare delle cose n a r rate da lui, le quali cadono nella nostra qui ftione:
perciocchè in quella parte dell'Ope ra sua, di cui servir ci dobbiamo, n o n
trattasi più delle prime origini de' popoli Italici, m a delle origini soltanto
primi tempi di Roma; onde non può più aver luogo quel sospetto, ch'egli abbia v
o luto adulare la nazion sua, non essendovi piùlagloriadiquellainteressata in
modo nessuno. Questo Storico pertanto, quantun que venga una volta fola in
campo nel Saga Storia Latina de primi tempi quello, che è alla Storia
d'Italia de'secoli di mezzo l'eru dito, e diligente.Muratori. e dei gio (1)
Guarnacci Origini Italiche Lib. I. Cap. I. De 4 Veniamo ora
finalmente a Plutarco.M o l to discordanti sono i giudici, che di lui re cato
hanno i Critici:perciocchè, se a molti Letterati di grido siattribuisce per una
par te quel detto, che se in uno universale in cendio di tutti i libri un solo
scampar se ne potesse dalle fiamme, si vorrebbono falvare le vite di Plutarco;
non manca per altra parte chi ne rechi troppo più vantaggioso giudicio, e fra
gli altri un celebre Lettera to Inglese il Signor Midleton (n) giunse a chiamar
l'Opera di lui un abbozzo piuttosto, che il compimento di un gran disegno. A
chi fu (m) Saggio sopra la durata de'Regni de'Re di Roma p. 142-3. del tomo
III.delle Op. del Conte Alga rotti ediz. di Livorno 1764 Nella edizione fatta
di questo Saggio in Firenze nel 1746. non è mai citato Dionigi, anzi nella
lettera al Signor Zanotti dice P Autore: che non avea voluto leggere altri
scrittori, cheparlafferode'Re diRomafuorchèLivio,ePlutarco. (a) Conyers
Midleton prefaz, álla Vita di Cicerone, per gio del nostro Autore (m ),
sarà però quello, che più d'ogni altro ci additerà la strada, che li vuol
battere per giungere al vero nella presente materia, c o m e quello, il quale
più giustamente di Livio merita il nome di P a dre di Romana Storia. ! altro
pon mente alle belle qualità, per cui fu lodato, ed a'diferti, perliquali
C4 D e l resto per giungere a farci una chia ra idea del merito di
questo Autore fa d' uopo prendere d'alquanto più alto i princi p j.Quantunque
pertanto pregio essenziale della Storia sia la verità de'fatti, si voglio no
con tutto ciò offervare e la scelta che fa l'Autore di questi, e le rifleffioni,
e l'ordi ne, con cui dispone ogni cosa, e la dici tura, di cui si serve, del
che tutto nell'al tra nostra Opera abbiamo copiosamente ra. gionato. O r a per
parlar soltanto delle riflel fioni, queste son quelle, che danno a vede re il
giudicio dell'Autore intorno alle cose narrate, giudicio,che resta più o meno
de gno di stima a misura, che viene ad esser fondato sopra valide ragioni, e
che non esce di quella scienza, a cui ènoto aver con Jode dato opera lo Storico.
Le considera 1 fu ripreso, riuscirà agevole il comporre i lorodispareri.
Vero è, che ilSignorMidle ton ne recò più svantaggioso giudizio di al cun altro,
perchè forle non ritrovò in lui, come bramato egli avrebbe, abbastanza en
comiato l'Eroe, a gloria di cui egli consa crò una sua assai lunga, ed
elaborata o p e ra, nella quale però sembra ad alcuni, che ne tefla egli
piuttosto il Panegirico, che la Storia. zioni, zioni di un Polibio,
o di un Cesare sopra l'arte della guerra, o di un Tacito sul Inoltre
dalla scelta, che fa de'fatti, fi (6) Arte Poetica del Signor Francefco Maria
Zanotti verno de'popoli intanto degne sono di c o m tore le manifeste, in
quanto hanno essi fama di ef mendazione fere stati di quelle facoltà ottimi
conoscitori M a fupponiamo, che sitralascino. dallo Scrita riflessioni,non
èforsevero, è per così dir forzato lo Sto che narrando rico a dar segni della
approvazione fapprovazion,odi sua? Cosi pensa quel dotto, e Scrittore, uno
de'primi lumi d' leggiadro Italia, cui il Conte fto fuo Saggio (o). Ora que
ognun Algarotti indirizzo ciò posto professò principalmente sa, che Plutarco
fcienza de'costumi; questa cui le altre tutte qual più direttamente s'hanno a
riferire, come raggi d'un meno cerchio al centro, esercita l'impero suo so pra
le azioni tutte degli uomini, ond'è m a nifesto, che anche supposto, che
Plutarco alcuna osservazione do reca giudicio dell'azione non aggiugnesse
fcrivendo, e giudicio, di cui non piccol caso facoltà,narran ', che va de
uscito dalla penna di un F i far fi dee,come losofo de'più rinomati
dell'antichità. go la poi, a, qual viene Rag.IV.pag.261,Bologna 1768. qual
dà maggiormente a conosce re il bellicofo genio di quell'Alessandro del
Settentrione Carlo XII.,loggiugne (p), che tal cosa lasciato non avrebbe
d'inserire nella vita di lui un Plutarco. remmo 6)Opere del Conte Algar. tom.IV.Discordimilitari
Disc,IX,pag.230. e nel formare il carattere de'perso naggi, di cui stende la
vita. Egli non sia p paga delle azioni pubbliche, e ftrepitose, nè si ferma
intorno alla sola corteccia, m a seguendo, per dir così, i suoi Eroi in ogni lu
go, e non temendo di abbassarsi col de. scrivere certe minute particolarità,
entra ne? più fecreti ripostigli dell'animo loro, e pre fentà al lectore ad un
tempo medesimo un fedel ritratto e di esli, e della umana na. tura. E questa
singolar dote di Plutarco fu giàdal nostroAutore osservata; poichènar rando in
un suo discorso un tal fatto parti colare, il qual dà viene in cognizione della
perizia di lui nello scoprire le più nascoste proprietà del cuore umano, e nel
formare Questo è il favorevole aspetto, fotto cui riguardar fi possono le vite
da lui scritte,e gli encomj,di cui gli furono cortefi iCrie tici,vengono a
ridurlia questo.Ma sevo leffimo poi in materie dubbie, ed oscure ri poläre
interamente sulla fede di lui, corre altri. remmo non piccolo pericolo
d'ingannarsi. Plutarco, con ben raro esempio, congiun geva un ingegno
straordinario ad una credu lità somma (difetto, da cui i rari ingegni fogliono
per altro andar esenti, cadendo più sovente nell' eccesso contrario ). Forse
ritene va in questo parte degli influfli del Cielo di Beozia. Occupato
da'negozji, ch' ebbe a trattare, e dall'impiego di dare lezioni di Filosofia,
poco tempo gli rimaneva per ac certarsi della verirà delle cose, che s'accin
geva adescrivere.Sifa,ed eglistessolo con feffa, che ignorava la lingua Latina,
nè o b bligato era dalla necessitàa d iftudiarla, ava vegnachè dimorasse in R o
m a, servendo la lingua Greca a que' tempi presso i Latini di lingua,come
fuoldirsidiCorte,cioè par lata dalla più leggiadra, e brillante parte
delpopoloRomano,edi linguadotta.La (ciopensare di quanti sbaglj una tale igno
ranza possa essere itato cagione. Che della fola autorità di lui pertanto non
si debba far molco caso, è il sentimento del dotto Bodino (9), del Rualdo, del
Dacier, e di (1)Joh.Bodin.Method.Hist.Cap.IV..Interdum etiam in Romanorum
antiquitatelabitur.Ruald.animad.inPlut. Dacier nelle note alla fua traduzion
francese delle Vite di Plutarco. Vero Vero è, che l'erudito
Giureconsulto Ei neccio (r) per salvar dalle accuse de'Critici un luogo di
Plutarco, ove narra questo Sto rico aver N u m a concesso certi privilegj alle
Vestali, i quali si sa indubitatamente non essere stati ad effe concessi senon
dopo que sto R e, avvisofli di fare una mutazione nel teito di lui,di modo che
seavantidiceva: aver conceduro grandi onori alle vergini V e Itali, veniffe a
dire: loro concedettero (i R o mani ei sottointende ) molti onori, e fog giugne,
che per sì fatta maniera salvar li possono molti luoghi di questo Storico.cen
Turati dagli eruditi. M a lasciando stare, che molti non saran no quelli,che
con una talcurafanarfipof fano; non so, perchè con tanta facilitànon. essendo
il luogo di Plutarco un frammento di qualche antico Giureconsulto, il qual a b
bia necessariamente cogli altri a concordare, si avventuri da lui questa
emendazione, fen za addurne altra ragione, fe non che ilfal varsi con questa
l'autoritàdi Plutarco.Am mesfa una tal Critica si fanno scomparire con poca
fatica tutti gli sbaglj de'libri, che ci restano dell'antichità. (5)Heineccius
ad legem Papiam Poppaeam Lib.I.Cap, II, p. 27.Amít, apud
Wetftenios, Sia adunque per la ignoranza della lingua Latina, lia molto
più per lo genio credulo, e poco critico, anzi qualora trattasi di Sto rie
lontane da tempi fuoi portato al m e r a viglioso Plutarco, non è guida ficura
per chi vuol penetrare nelle più rimote istoriche n o tizie. Quella Storia
favolosa, che dic' egli rinvenirli (S ). nelle origini delle nazioni prende, e
li ftende troppo negli scritti di lui sopra i diritti della vera Storia maggior
mente sgombra dalle finzioni presso altri Scrit tori. M a per riguardo a quella
parte della Storia di Roma, i di cui avvenimenti ca d o n o nella nostra
quistione, potea troppo qui cilmente schivar gli errori. N o n avea egli
nella sua stessa lingua le accurate fatiche d i Dionigi di Alicarnasso
Scrittore, che ben d o vea esfergli noto, e noto veramente gli era, facendone
egli menzione? Perchè adunque n o n fi restrinse a lui solo, tralasciando
quelle fue popolari, e favolose tradizioni? Niuno dubiterà pertanto, che in
questa parte della R o m a n a Storia pofpor si debba Plutarco a Dionigi. E ben
riuscirà singolar cosa, fe recherò in mezzo l'autorità dello stesso Algarotti,
il quale, fuori di questa fa (S ) Plut, in Theseo in princ.
quistione non lasciò di rendere il dovuto omaggio a Dionigi, e di
mostrare il poco caso, che far fi dee della sola autorità di Plutarcone'fattide'Romani,efefarò
ve dere aver egli in cofamolto più recente negato credenza a quel Plutarco, a
cui tan to s'affida per rispetto ad avvenimenti ri motissimi dalla età di lui.
Bafta per chiarirfi di quanto ho detto dar un'occhiata a ciò, che scrisse
l'Autor nostro intorno all'impre fa di Cesare contro a'Parti (t). Questo è
quanto ho io stimato dover pre mettere circa la fede, che prestar fidee agli
Storici, innanzi di farmi ad esaminare. la verità, o falsità de'fatti, e la
ripugnan ża o non ripugnanza di questi alle epoche il che mi studierò quanto
più brevemente per me sipossa di recare ad effetto. Alicarnasco, Polibio......
danno una più esatta contez fa delleragioni dei costumi Romani che non fanno i
Romani medefimi..... M a quei Greci sapeano a fondo la lingna Latina, buona
parte della vita erano viffura co'Romani ec.
Alg.Op.tom.IV.Disc.Milit.Disc.V. soprala impresadisegnata da Giulio Cesare
contro a'Partipo 178-9. La verità si è, che ognuno si può effere ac corto
quanto nelle cose dei Romani fia poco efatro Plu tarcoec.,epag.180.
Egliècerto,chedellecoseRo mane le migliori informazionisi può dire che le dob
biamo a' Greci. Ed è naturale che cosìfia. A forestieri ogni cosa giugne nuovo
ec, D i qui èche Dionigi D i s cIsecnedndeenndo ora coll'Autor
-noftro al para ricolare, ci si fa innanzi il Regno del bel licoso Fondatore
della R o m a n a grandezza, e sarà secondo quello, ch'io Atimo Indole
guerriera, dic'egli, danno ad una voce tuttigli Storici al Fondatore di quella
Impero, che dovea coll'armi fare la con. quista del M o n d o. Questa indole
bellicosa piùnonfipuò celebrareinRomolo,quando fi mostrasseaver
eglipassatolamaggior par te del suo Regno in grembo alla pace:ora le prime
guerre di lui contro i Sabini, che ridomandavano le donne loro, e contro al
quni altri popoli per gelosia d'Impero, furo no tutte breviffime, e
dellapenultima guer ra contro a'Camerj ce ne dà l' tarco (a), che non cade più
in là dell'anno sedicesimo dalla fondazione di R o m a. N e dopo questa si ha
notizia di alira guerra, falvo CAPO Regno di Romolo.? cagio ne di non
piccola maraviglia il farsi a c o n siderar la prima venir ad abbreviare la
durata. ragione,ch'egliadduce per epoca Plu. @ Plut.inRomulo, IV.
salvo di quellaco'Vejemi, i quali doman davano, che fosse loro restituita
Fidene, c o me Cittàdilorragione,dicuiRomolos' era impadronito, avanti che egli
s'impadro niffe di Camerio. E questa guerra non si ha da porre più tardi, che
sotto l'anno d i ciassettesimo dalla fondazione di R o m a 0 là in quel torno
non essendo verisimile che una nazione potente com'erano iVejenti tardasse gran
t e m p o a cercare di riavere il suo. Senzachè ognun ben fa, che le guer re
tra que popoli erano subitanee, tra loro la vendetta non tardava molto a
seguitar l'offesa. Posto adunque, ei soggiu gre, che l'ultima guerra fatta da
Romolo cadeffe nell'anno diciassettesimo del suo R e gno, se non vogliamo, che
i Romani fie no stati più lungo tempo in pace che in guerra fotto il reggimento
dilui,nonsivuo le farlo regnar trentotto anni, m a della m e tà circa il Regno
di lui accorciar fi dee 'Questa è la prima ragione, che adduce l'Autor noftro
per abbreviar la durata del Regno di Romolo, a proposito di cui,,co m e già
disli, strana riuscir dee a chi pon mente quella epoca, su cui fonda egli ilsuo
argomento, ed è ľ epoca della e che tro i Camerj somministrata guerra con
da Plutarco. Il Conte d Conte Algarotti, che la durata del Regno ·
di Romolo attestata da tutti gli Storici vuol distruggere, adopera per mandarla
in rovi na un'epoca di un fatto particolare,dicui niuno fa menzione, fuorchè il
solo Plutarco Storico a tutti iCritici, ed a lui medesimo sospecto. E d in
fatti di questa guerra contro i Camerj Livio non ne parla punto nè p o co,
prova forse della trascuratezza di lui nel tessere l'antica Storia. Dionigi (b)
poi, il quale nel collocarla frale guerre co'Fide nati, e co'Vejenti da
Plutarco non discor da,non dice però, che questa precisamen te seguita sia
l'anno sedicesimo d i R o m a. V e d e pertanto ognuno,ch'io potrei, rifiu
tando la testimonianza di Plutarco, togliere ogni fondamento a questa
ripugnanza, m a conveniente mi pare di mostrarmi cortese ful bel principio
delle osservazioni mie. Concediamo adunque, che nell'anno fe dicesimo di Romolo
succeduta appunto sia questa guerra coi Camerj:.con qual ragio ne si prova, che
tantosto abbiano impugna te le armi i Vejenti? Forse perchè avendo i Vejenti
mosso contro i Romani per riaver Fi... 49 (6) Dionyf. Halic. Lib. II. pag.
117. Dice Plutarco, che i popoli circonvicini vedendo (c) riuscir
bene tutte le guerre a Romolo,da invidia,e da timore agitati, ftimarono non
essere la sua crescente gran dezza da guardar con occhio indifferente, e
doversi opprimere una potenza, era ne' suoi principi formidabile Laon de i
Vejenti,i qualitenevano un ampio paese, ed erano de'più potenti fra' Tosca ni,
mosfero contro Romolo, chiedendo la restituzion di Fidene che dicevano essere
di giurisdizion loro; il che, foggiugne P l u tarco, non solamente ingiusto,m a
ridicolo era, poichè domandavano come ad efli sper tante una Città, che non
avean difeso, quan che già do Fidene come Citrà di lor ragione soggioga
ta da Romolo innanzi a Camerio, non è da credere, che un popolo potente come
quello abbia tardato molto a farsi rendere il fuo, essendo le guerre a
que'tempi fubitanee,nè tardando molto la vendetta a seguitar l'of fela? Ora io
intendo dimostrare,anchecollo stesso Plutarco, effer piuttosto da credere, che
alla guerra co' Camerj seguita fia las guerra co'Vejenti dopo qualche notabile
spa zio di tempo. () Plut. in Romulo. do da Romolo era stata
assalita, e lasciati in quel tempo gli uomini in balia de'nemi ci,aspettavano
allora a pretenderne lemura. Livio poi dice, che presero le armi i V e jenti
(d), non perchè fossero possessori di Fidene loro tolta da Romolo, ma perchè i
Fidenati erano anche Toscani, e quel che è più, perchè temevano non le armi de'
Romani avessero ad esser fatali alle vicine nazioni; e Dionigi in fine (e) dice,
che il pretesto della guerra fu la strage de' Fide nati. Ora adunque, poichè
siamo certi,che per gelosíad'Impero, e non per altro im pugnarono le armi i
Vejenti, li dee piutto Ito credere effere questa gưerra fucceduta qualche tempo
notabile dopo quella coi Ca. meri; perciocchè stava ad osservare questo popolo,
le poteva assicurarsi della sua forte Tenza arrischiar nulla, e se riusciva a
qual che altra nazione di abbattere i Romani: veggendo poi, che s'erano
felicemente sbri gati da quelle, e che anzi salivano ogni sanguinitate (nam
Fidenates quoque Etrufci fuerunt ), & quodipfapropinquitasloci,fiRomana
armaomnibusin. d 2 gior (d)T.
Liv.Lib.I.Dec. I. Cap.VI.n.15. Belli Pidenatis contagione irritaii Vejentium
animi, & con festafinitimis effent,fimulabat. (e) Dionyf. Halic. Lib. II.
pag. 117. Oltr' a ciò, avvegnachè
seguita fosse., come si dà a credere l'Autor noftro,questa guerra circa
all'anno diciassettesimo dalla fondazione di R o m a, chi ci assicura, che
altre non ce ne sieno state, le quali,come di non gran conseguenza,n o n sieno
state dagli Storici giudicate degne di entrare negli A11 nali loro? Pretende
pure egli stesso, che non fisia tenuto accurato registro de'fatti, anzi
confervari fi fieno per mezzo di una cotal vaga, ed incerta tradizione? Veda
adunque non se gli possano ritorcere le sue stesse ar mi, e ch'egli medesimo
ammetter debba p o ter offer fucceduti cali da cotefta fua vaga tradizione non
conservati. giorno a maggior buona cosa il non lasciarli fortificar nella
grandezza stimò esfer pa ce. Se ruppe adunque per propria sua ial vezza la
guerra, è probabile, che ciò non abbia fatto se non dopo un qualche conside
rabil tratto di tempo, nel quale abbia ve duto, che nessuno s'arrischiava di
sfidar R o molo a battaglia. Queste osservazioni,a me pare,bastar po trebbono
per dimostrare, cheleirragionevo lezze ręcate in mezzo dal nostro Autore non
sono di tal peso, che vagliano ad in fringere la Cronologia, e sminuir la
durata del del Regno di Romolo: nulladimeno stimo pregio dell'opera,
acciocchè maggiormen te appaja la verità, fare una luppolizione, Orsù adunque
abbiasi per non detto tutto ciò, di cui abbiamo ragionato sin ora.Dianli per
invincibili le ragioni del nostro Autore. Concedafi la presa di Camerio esser
seguita; com'ei pretende,l'anno sedicesimo di Ro m a, l'anno seguente la guerra
co'Vejenti, e dopo questopace profonda; che ne segui rà per ciò? Si opporrà
questo per avventu ra a quell + ' indole bellicosa, che gli Scrittori
danno ad una voce al Fondatore del R o m a no Imperio? Non potrà un Principe
dopo essere felicemente riuscito in molte pericolo se imprese, dopo essersi
procacciato stima, e venerazione presso le vicine nazioni colla fua bravura,
goder de'frutti delle sue vit torie, e riposando all'ombra allori 9. col
mantenere il guerriero valore vivo, e rigoglioso ne'suoi soggetti, fare in
modo,che la fama diprode,ed invittoac quistatası, ed il sapersi esser egli a
guerega giare sempre apparecchiato, gli proccurino una pace non
inquieta,turbata, e vergogno fa,ma ferma,ftabile,sicura,pienadiglo ria, e di
virtù. Troppo sarebber funesti all? uman genere gli Eroi, e troppo infelice vi
de'conquistati ta d 3 (f)Op.del Conte
Algar.tom.VIII.Epistoleinverfa ep.16. sopra ilCommerciopag.147, (8)Dionyf.
Halic,Lib.II.p.82. se per guerra fosse valente, ce ne assicura D i o nigi
(g), ove con quanti modi studiato fi di sia ta avrebbono eglino stessi a menare,
acquistarsi tal n o m e, viver dovessero o g n o ratra le stragi, e tra 'l
sangue. E non eb be lo stesso Autor nostro a lodare l'amor delle bell'arti, la
profonda Scienza Politica, e le altre civili virtù di quel bellicoso Prin cipe,
il quale tanto, vivo, il processe, ed in tanto illustre modo, morto,rese
celebre la memoria di lui? E non fu la verità ster fa, che animò la sua tromba,
quando ce. lebrò quel paese (f). Dove un Eroe audace, e saggio Nestore, e
Achille in un fa fede al Mondo, Che l'Italo valor non è ancor morto. Troppo
fiera fu adunque l'idea, ch'egli fi formò in questo suo Saggio di un Principe
guerriero,potendo esseremoltobene,eche Romolo abbia la maggior parte del suo R
e gno passato in pace, e che ciò non ostan te a sminuir non si venga la gloria
milita re, dicui gode presso gli Storici. E chenell'artinonmenodipace,che
4 fia di ordinare lo stato va divisando. N e meno di un Romolo vi
avrebbe voluto,per assodare, ed unire con faldi nodi una sì mal ferma società,
e per ispirare la dovuta f o m missione, una sola foggia di vivere, di pen fare
in certo modo, l'amordella patriaido. lo de'Romani., e fonte di tutte levirtù
loro, in uomini di varie nazioni, di non ottimi costumi,per
l'armi,eperlevittorieferoci. N è quelle parole, che Plutarco mette in bocca di
N u m a (h), quando per sottrarsi dallo accettare il Regno offertogli insiste,
di cendo, chedi un uomo di spiritiardenti,e insulfiordell'età,che non diunRe,ma
di un condottier di esercito avean di biso gno i Romani per fronteggiar
que'potenti nemici, che Romolo avea lasciato loro sulle braccia; quelle parole,
dico, non sono da tanto, c o m e si c r e dell’Autor nostro, c h e, a n che
concedendo non esservi ftata dopo l' anno diciassettesimo del Regno di Romolo
guerra alcuna, perciò ritrar debbasi la m o r te di lui al diciottesimo, o
ventesimo anno del suo Regno. Temeva Numa, che i po poli circonvicini, i quali
non s'attentavano di moleftar i Romani, poichè ben sapevane qual d4 (5) Plut. in N u m a, Storici,
che finsero aver que'personaggi, i quali a favel lare introducono, ragionato
secondo le cir costanze, e giusta l'indole loro. Dalle m a l sime, che nel
corso del suo Regno dimostrò Numa, dalla non curanza di luiper gli ono ri
ricavo Plutarco questa parlata da lui fat ta, rifiutandoil Regno offertogli
da'Romani. A proposito del qual nulla trovarsi appreffo Livio, altra prova.
forse della sua trascuratezza, e che Dionigi (1) rifiuto è d a notare 2 qual
prode Principe li reggeffe, non pren dessero animo dal genere di vita
tranquillo, e filosofico, che noto era ad ognuno essere da lui professato, e
non volessero lasciarsi sfuggir di mano una occafione sì favorevo le di
abbattere un popolo, il quale già d a to avea tanti non dubbj fegni di voler
fot tomettere le confinanti nazioni, ed in q u e to modo è da intendere, che
Romolo la sciato avesse potenti nemici sulle braccia a' Romani. Senzachè, per
non ripeter quello, che già disfi, e di nuovo mi converrà dire intorno al poco
credito, che far sidee della autorità di Plutarco, certa cosa è, che quelle
parole, le quali presso di lui si leggono c o me diNuma,s'hanno
ariguardarealpari delle altre concioni,sia di Livio, chedilui, quai lavori
della mente degli Storici 1 firestringeadire,che avendoperbuo no spazio
di tempo ricusato ilRegno, s'in duffe poi ad incaricarsene a persuasione de'
fuoi, è inutil cofa riuscirebbe cercar in Lo stesso Plutarco poi è quello,che
fom miniitra il fondamento ad un'altra ragione, con cui ftudiasi il noitro
Autore di abbre viare il Regno di Romolo. Ammette.egli adunque, che nel
cinquantesimoquarto anno dellasua età giunto siaa morte Romolo, ma conceder poi
non vuole,che difolidi ciassette anni abbia cominciato a regnare, la qual cosa
è forza dire, quando foftener si voglia, che di anni trentotto stata sia la
durata del Regno di lui. Le ragioni, che egli adduce per mostrare non poter R o
m o lo esser cosìper tempo falitolulTrono,non fono altre, se non che ciò ammesso,non
po. terli quelle tante cose, che questo Principe facea secondo Plutarco (k) con
sì tenera età conciliare; ed essere maggiormente impro babile, che si giovane
abbia fondato u n a Città, fiasi fatio Capo di un popolo, ed pone
Plutarco. 1 abbia sto Storico quelle parole, che in bocca gli (1) Dionyf.
Halic. Lib. II. pag. 121. (1) Plut. in Romulo. que (1) Op.delConte
Alg.tom.IV.Disc,milit.Disc.V.sopra cit.p. 180. Per via della conversazione,
dic'egli (Plu tarco)convieneinstruirsidelleparticolarità,chesonosfug gite agli
Storici abbia guidato difficilissime imprese, c o m e a tutti è noto. M a
io non so ritrovare in primo luogo ripugnanza veruna tra la età, e la condot ta
di Romolo innanzi a'principi del suo R e ' gno,principalmente se vogliamo
attenersi a ciò che di lui narrano Livio, e Dionigi, e non ricorrere a Plutarco
quale pren dendo le notizie dalla bocca di que'R o m a ni,con cui conversava,
come stesso'noftro che dalla venerazione, in cui quelli tenevano dell' Imperio
leggiadro Autore (1), ben è da credere, ogni cosa, che appartenesse al
Fondatore loro,sia Scrittor erudita, ed elegante (m ), diceva, che la grandezza
sero i Romani cia, e dell'Alia dopo le conquiste, avea (parfo voluttà non ebbe,
e di gloria fu que'pri lume di chiarezza de’ m i loro antenari posteri, qual
rozzo, e barbaro popolo sem il, i quali senza la fama avverti lo.Un, che in
fatto di stato ingannato Francese pari, a cui giun della G r e per così dire un
Non so s e i moderni noftri Critici ileClerc, é i Muratorigli avessero menato
buono tal fuo Criterio. (m) S. Euremont Ouvres mélées, pre (n)
Montesq.Consid. surlescausesde lagrand,desRom. a segnes venando peragrare
falous: hinc robore corporis bus animisque fumo jam, non feras tantum
fubfiftere, fed in latrones praeda onuftos impetum facere, pastorie busque
rapta dividere, & c u m his crescente in dies grege juvenum ferias, ac
jocos celebrare, pre 1 farebbono stati riguardati dalle colte n a zioni.
Io non voglio per niun modo adot tare il parere di lui, anzi penfo, che lo
stesso Signor Montesquieu, il quale osservò c o n occhio si filosofico tutto il
corso della Romana Storia, abbia avvilito di non Chap.I. (0 ) D i o n y f. H a
l i c. L i b. I. p a g. 7 2. 8 ful bel principio della sua Opera (n) l'ori gine
di quella Città Regina; m a credo Tuttavia di potere a buona ragione sospetta
fondato sopra popolari tradizioni, e proveniente dalla b o c re del racconto di
Plutarco ca di coloro,che qual Nume Romolo ado ravano, quando nè Dionigi, e nè
pur Li vio danno di ciò il minimo cenno. Ed in fatti Dionigi (6) ci fa sapere
soltanto, che i due giovani Principi furono condotti Città de'Gabj, perchè loro
s'insegnassero leLettere,laMusica,ed ilmaneggiarle armi alla foggia Greca
insino a tanto che pervenissero alla pubertà, e tutti que'p r e gi, i quali
attribuisce loro Livio (p), T. Liv.Dec. I.Lib.I.Cap.3.1.4. Quum primum adolevit
aetas nec inftabulis, nec ad peco troppo alla disconvengono punto
alla giovanile età, a n zi più diquella,ched'ogni altracomecor porali esercizj
fon convenienti. M a su via concedasi per vero ciò, che dice Plutarco, sarebbe
poi da farne le maraviglie, che un giovane d'ottimo ingegno fornito cominci a
dar segni di quella prudenza, che ha da tilucere un giorno in lui.Educato
Romolo, come fu, non v'ha inverisimiglianza nessu na,cheinlui,avvegnachè
giovanetto,sfa villasse un raggio di qualche cosa maggior del comune M a dirà
egli, per quanto, e dalla natura di belle doti fornito,e dalla educazione in
strutto suppor si yoglia Romolo, che abbia edificato una nuova Città, che si
sia fatto Capo d'un popolo, che abbia guidato diffi cilissime imprese, sempre
con si tenera età mal potrafficoncordare. Non sipuò nega re, che di troppo
maggior forza, che non e cominciassero a svilupparsi que'semi di
generosità, che dalla sua prin cipesca origine avea tratto? Oltre di che quan
te volte il corso dello ingegno è più velo ce di quello degli anni? U n a
illustre prova ben ce ne diede lo stesso noftro Conte Al garotri, il quale
nella sua prima età in m o l te, e varie facoltà dimostrò l'acume, e la
perfpicacia dell'ingegno suo. la la precedente sia questa ragione:
vediamo con tutto ciò il modo, con cui Romolo di venne Re, e non parrà più
forse tanto dif ficile il concepire, che si giovane sia giun to a tanta
grandezza; e prina d'ogni cosa prendiamo le più sicure notizie di quello, che è
succeduto dalla nascita di Romolo in Gino al tempo, in cui fu innalzato
alTrono. A tutti que'racconti della infanzia diR o molo io ltimo doversi
preferire quello di F a bio antico Storico seguito da molti, come dice Dionigi,
ed acui più propende egli medesimo (9), come quello, che favole chia m a le
narrazioni degli altri Scrittori. Egli adunque rigettando quella poetica
finzione della Lupa, nega insino, che fieno stati ef posti i due gemelli; che
anzi afferma aver Numitore per destro modo sottoposti altri fanciulli, i quali
furono da Amulio spieta tamente trucidati. Quindi essere stati i due Principi
da Faustulo educati, ed inviati, perché ricevessero una insticuzione, secondo
che richiedeva la origine loro,alla Città de' G a b j; il qual Fauftulo, per
dirlo alla sfuga gita, quaprunque pastore de'Regj armenti, è da credere fosse
poco meno di un uomo (9) Dionyf. Halic. Lib, I. pag. 70-12 di
di stato de'nostri dì, attesa lasemplicitàde* costumi di que'tempi.
Ritornati poi dalla Città de'Gabi, legue a dir Fabio presso Dionigi, di
consenso dello stesso Numitore, i due giovani Principi fi azzuffarono co'p a
stori d i lui, e gli sforzarono di ritirarsi in un co'loro armenti dà certi
pascoli tuttoc chè comuni. Questo aver fatto Numitore per poterli accufare, e
trovar m o d o di far entrare senza dar sopetto tutti que' pastori nella Città.
Ordita una tal trama, esser v e nuto Numitore dal fratello Amulio a lagnarsi, e
chiedere a lui, che gli dovesse consegna Te que'due Fratelli col Padre loro, i
quali l'aveano sì villanamente oltraggiato, e d a n neggiato nelle cose sue, se
pure seguito era ciò senza colpa di esso Amulio.Amulio per dare a divedere, che
avuto non ne avea al cuna parte, manda tosto per esli, dando,che nella
Città venir dovessero non il solo Faustulo co'suoi supporti figliuoli, m a
tutti coloro eziandio, i quali erano di tale delitto accagionati. E con tal
mezzo essen dosi, oltre a 'rei, grandissima moltitudine nella Città introdotta,
Numitore, dopo aver a' giovani l'origine loro, i loro cali, e le offele da
Amulio ricevute, averli scoperto animati alla vendetta, ed averli persuasi a
esli, coman non non lasciarsi sfuggir di mano sì favorevole occasione di
eftirpar quel Tiranno come fe cero. Questo è quanto si raccoglie da Fabio
presso Dionigi; narrazione, lia per la quali tà del testimonio, sia per la
veritimiglianza, da antiporsi sicuramente a quella di Plutar co (r), che porta
in se stessa scolpito ilca rattere della finzione, e che al primo aspet to si
dà a conoscere per lavoro della fanta sía de'Romani de'suoi tempi, da cui attin
geva questo Storico le sue notizie, i ogni cosa nel loro Fondatore finsero
straordi naria, e maravigliosa. N o n fu adunque solo Romolo in quella impresa,
anzi fu a quella stimolato dall'Avo, e fu diretto da quello il suo valore,
perchè produr potesse non solo discordie, e sangue, ma utilità, e fi curezza.
quali con Non voglio poi ora parlare diquellaopi nione accennata da
Dionigi (1 ), e se non -abbracciata, n e m m e n o riprovata da lui, che R o m
a stata sia anteriore a Romolo; onde egli non Fondatore diquellaCittà,ma Capo
soltanto d'una colonia chiamar 'si debba; (1) Plut, in Romulo. (8) Dionys.
Halic. Lib. I. pag.60... concedo, che ne sia stato ilFondatore,ma è
da sapersi, che, ha l'idea di edificare una Città, lia i mezzi per condurla a
fine, fu rono opera di Numitore, e non diRomolo. Dionigi (1) di questo ci
assicura, dicendoci, che due fini il mossero a ciò fare; primie ramente per
dare un ricetto degno di loro a'due giovani Principi, in secondo luogo per
isgravare la troppo grande popolazione della Città di Alba, allontanando
principal. mente coloro, che avean seguito le parti di Amulio, ond'egli poteffe
regnare libero di ogni sospetto. La qual cosa è, avvegnachè oscuramente
accennata da Livio (u): per ciocchè dicendo questo contro l'autorità però e di
Fabio, e di Dionigi, i quali per ianti rispetti degni sono di maggior fede, che
il disegno di fabbricare una nuova Città fu pure Numitore, opera della
mente dei due Fratelli,m a n i felto indizio, che troppo non erasi studiato di
diradar le tenebredi que'primi secoli, soggiugne, ch'eravi allora una gran
molti tudine diAlbani,e di altri,con cui pote vano popolarla. Nè mancó Lores
quoque accefferant, come. (1) Dionyf. Hasic. Lib. I.pag. 72. (u) T. Liv.Dec.
I.Lib.I.Cap.III.n.6. Supererat multitudo Albanorum,Latinorumque, ad id p e
r come attesta Dionigi, di somministrar loro e danari,ed armi,ed
ognialtra cosa,che abbisognasse per edificareuna Città (x).Ed a quella parte di
popolo, che seco condot ta avea Romolo, fra cui eranvi non po chi de'
principali di Alba, iecondo il parer dell'Avo, ragionò sul cominciare della edi
ficazione (y ). Dal tutto il fin.qui detto pertanto ftati e (3) Dionyf.
Halic. Lib. I pag. 72. (y) Dionys. Halic.Lib. II.pag.78. ) Dionyf, Halic. Lib.
II, pag. 119. ramente ne risalta non esserpunto cosa in verisimile, che di soli
diciassette anni, o di diciotto abbia potuto Romolo farquello,che pur fece, se
lipon mente, che in quelle sue prime imprese ebbe sempre a'fianchi l' A v o, ed
ogni cota secondo il consiglio di lui esegui;fu egli l'Achille d'ogni impre
fa,Numitore ilChirone. Tanto ho stimato dovermi stendere su que ho particolare,
perchè non è Plutarco il solo, che ciò scriva; ma lo stesso Dionigi chiaramente
attesta aver Romolo incomincia to il fuo Regno di foli diciotto anni (z). Vero
è, che se si dovessero togliere dagli anni, che corsero avanti N u m a
cinquanta giorni, i quali vogliono molti Autori essere 1 chia.
stari aggiunti da questo R e, oltre ad undi ci giorni, che pur mancavano
all'anno fe condo la riforma, ch'egli ne fece, tre anni fi vorrebbono togliere
dalla età di Romolo, quando ascese al Trono, nè vi farebbe per venuto di
diciassette, o diciotto anni, di quattordici, o quindici. Anche ciò con cesso
nel modo, che divenne Re, non sa rebbe gran meraviglia, che divenuto lo foffe
in età si tenera, non avendo forse altro egli fatto, senon imprestare ilsuonome
alieim presedell'Avo:ma dipiùsivuolnotare che quegli Autori, da cui raccogliesi
esser giunto al Solio R o m o l o di soli diciassette, • diciott'anni, non sono
di parere, che tanti giorni mancassero all'anno avanti Numa. za r Dionigi,
il qual dice (aa) essere il Fon dator di R o m a morto di cinquantacinque anni
dopo averne regnato trentafette, e che aggiugne sulla testimonianza di tutti
gli a n tichi Scrittori, i quali parlarono di lui, che molto giovane fu
innalzato al Solio vale a dire di soli diciott' anni, di questa rifor ma
dell'anno fatta da Numa, per quanto io ne abbia osservato, non ne dà alcun cen
no, silenzio, che congiunto colla accuratez (aa) Dionyf. Halic. loc. cit,
2 (bb) Plut. in Roinulo. (cc) Plut. in N u m a. (dd)T. Liv.Dec.
I.Lib.I.Cap.19. (ee) Macrob.Salurnal. Lib.I. Cap.XIII.Numa......quin quaginta
dies addidit, ut in trecentos quinquaginta qua. suor dies za di lui mi mette in
dubbio della verità della cosa.Plutarco poi, che dice esseregli morto di
cinquantaquattro anni (bb), onde abbia dovuto incominciare ilsuo Regno di
diciassette, parla di questa riforma (cc), m a vuole, che Numa altro non abbia
fatto,le non aggiugnere gli undici giorni, che m a n cavano all'anno, e
togliere l'irregolarità de' mesi, che erano in uso, essendovene tale, che non
giungeva a venti giorni, e tale, che giungeva a trentacinque e più. Che al tro
egli non abbiafatto,cheregolareimesi, ed aggiungervi alcuni pochi giorni, è
quello pure, c h e intorno a questo raccogliere fi possa da Livio (dd). So, che
molti Scrittori, come Macrobio (ee), 'Ovidio, Censorino, ed altri furono di
contrario parere. Si dee però distinguere tra quelli, che asserirono, che
l'anno avanti Numa era di soli dieci mesi, e quelli,che dissero precisamente di
quanti giorni fosse composto, perchè potrebbe essere, trattan e2 dosi....annus
extenderetur,Ovid.Falt.Lib.I. dosi di Scrittori molto lontani
da'tempi di Numa, che da quelli, i quali lasciarono scritto essere stato l '
anno avanti N u m a di soli dieci mesi, abbiano altri, come forse
Macrobio,argomentato, che l'anno foffe di foli trecento e quattro giorni, la
qual c o n getturą ognun può vedere, quanto sarebbe · fallace, potendo esser
benissimo, che fi fa. cessero avanti N u m a dei mesi più lunghi a l fai del
convenevole, e si venisse a compor re con foli dieci mesi l'anno di trecento
cinquantaquattro giorni, non di foli trecento e quattro. Del resto il.Signor
Dacier (ff) afferma, che alla opinione, che di soli trecento e quattro giorni
fosse composto l'anno avanti N u m a prevalse quella, che giugnesse ai trecento
cinquantaquattro per l'autorità principalmen te di Fenestella, e di Licinio
Macro. Cre do pertanto, che ciò basti per togliere quello 'o m b r a
d'inverisimiglianza, c h ' altri ritrovar potesse tra l'età di Romclo, e
l'elier egli giunto ad ottener la Corona, dovendosi, le condo la più comune
opinione, togliere fol tanto pochi mesi, che risultano dagli undici giorni, i
quali mancavano all'anno avanti (f) Dacier nelle note alla vita di Nuina di
Plutarco, Numa, e3
CAPO (88) Così dice il Signor Dacier nelle mentovate sue annotazioni doversi
leggere Plutarco, e non trecento e s e s s a n t a, come molto bene lo dà a di vedereil
contetto, Numa, e non tre anni dalla età di diciotto. Senzachè a me baita,
come già disfi, che da quegli Autori, da cui fi rica-. va questa età di Romolo
quando fali sul Trono, non fi può l'obbiezione dedurre in modo alcuno, anzi il
primo glıtoglieilfon damento, non parlando di questa riforma. lui di dell' anno,
te, il secondo la confuta espressamen dicendo, che l'anno avantiNuma giun geva
ai trecento cinquantaquattro giorni (gg ). O n d e mi pare a sufficienza
dimostrato, che tuttique'fatti,iqualirecatisono inmez z o dall'Autor nostro c o
m e ripugnanti alla d u rata del Regno del primo Re diRoma,ot timamente con
questa possono conciliarsi, e vengono a perdere.ogni lor forza, e a di.
leguarsi cutte le contrarie ragioni. (a)L'Ami desHommes
Tom.III.Chap.V.DesPro cui V. Fondare Regno di Numa. CAPO Ondare un Regno,
e dargli le leggi sono due operazioni cosi fra loro diverse dice un valente
Politico (a), che richiedono per lo più due distinti Principi per eseguirle.
Nascono ordinariamente gl'Imperj nella fe. rocia de'popoli tra la discordia,e
learmi: laddove la Legislazione (intendo io di quella, che veramente meriti un
tal nome ), è uno de'piùpreziosifruttidellapace.Ed èben conveniente, che ciò,
che rende per quan to si può gli uomini felici, tra quello for ger mal poffa,
che ne fa l'infelicità m a g giore. Ed in effetto le leggi di Romolo,. di cui
abbiam sopra fatto parola, riguarda vano soltanto lo stato corrente degli
affari, erano leggi, che abbisognavano, p e r così dire, allagiornata. Numa si
che fu poi quello, che concepì una vasta pianta di L e gislazione, un general
Sistema, il quale m i rar dovea alla eternità; Sistema, che sotto di se
comprendeva eziandio la Religione,di hibitions. M a l'Autor noftro,
quafichè ridur non si possa a credere, che senza alcuno indirizzo ira popoli
feroci, e pressochè barbari, g i u n gere Per fia potuto Numa a tanto
senno da cui egli secondo l'uso de' Legislatori,iquali furono a' tempi degli
Dei bugiardi, utilmen te fi servi per fiancheggiarne quelle leggi, quegli
instituti, que'coitumi, e quelle opi nioni, che a parer fuo doveano maggiormen
te contribuire alla felicità della Nazione: per se, mette in campo quella
tradizione, che correva per bocca de'Romani insin da'tem pi di Augusto, secondo
cui dicevasi essere Itato ilRe Numa uditor di Pitagora:onde le belle doti, le
quali rilussero in lui, frutto fieno stato degli ammaestramenti di quel F i
losofo, la qual tradizione torna molto in a v vantaggio del suo Sistema.
Perciocchè, dic' egli, posto che N u m a sia stato discepolo di Pitagora,
siccome sappiamo da Cicerone, Livio, e da altri Scrittori esser giunto q u e
Ito Filosofo in Italia in età molto lontana dal tempo, in cui comunemente fi
pone. N u m a, dee questo far accorciare almeno la durata de'cinque susseguenti
Regni, perchè il Filosofo possa essere contemporaneo del Re Legislatore. еА 3
da Per rispetto al qual suo ragionamento dei che se egli si fosse
soltanto servito di quella tradi zione, secondo cui dicevasi N u m a essere
Itato uditor di Pitagora, da questo n o n avrebbe potuto inferirne cosa alcuna
in fa vore del suo Sistema, potendosi una tal v o ce concordar molto bene
coll'antica C r o n o logia, cioè dicendo, che Pitagora venne in Italia in
que'tempi, in cui secondo questa, fi crede regnasse N u m a; facendo ascendere
in una parolaPitagora a'tempi di lui.Ma siccome egli desiderava farlo
discendere a’ tempi pofteriori, non bastavagli questa s e m plice tradizione,
bisognava, che d'altronde in cui coreito raccoglier potesse il tempo, Filosofo
venne in Italia: preselo da Cicero ne, e da Livio, ma non s'avvide, che vo.
lendo servirsi della autoritàloro,erapoi for za rinunciare a quella tradizione
base avea posto alla obbiezion sua. Percioc chè vero è bensì, ch'essi dicono
esser giun to questo Filosofo molto più tardi in Italia di quel tempo, in cui
secondo l'antica C r o nologia regnava N u m a, m a in tanto l'asse riscono in
quanto l'uno lo fa contemporaneo di Servio, di Tarquinio il Superbo, o,del
Console Bruto l'altro. Volendo pertanto at gno è di particolar considerazione. che
per 9 te 266., ed ivi Giamblico, e Diodoro. () Diogen. Laert.
inPythagora Lib.VIII.Clem.Alex, + il qual venne Pitagora in Italia,
poichè ne lia l'epoca, come bene osservò incerta il dotto P. Gerdil (b), non
però Scritto gran fatto fra loro i più accreditati far ri, i quali di tal sua
venuta dovertero fessagesimaleconda te concordano quale asserisce piade
'feffagefima Clemente Alessandri. Diodoro menzione piade sesfagefimaprima sotto
la facilmen no, che lo mette conda, e finalmente fotto la pone forto, Giamblico
l’Olim, le quali epoche (c), il aver egli fiorito fotro l'Olim con Diogene
Laerzio con variano la fessagesimale con Eusebio dice esfer egli morto nel
quarto anno della fettantesima Olimpiade Diogene mentovato - ottanta o
novant'anni. Livio poi, Cicero- in cui quantunque del (d) in età di, e per
attestato Laerzio ne, renerli ad effi, non v'era ragione per a b bracciare
soltanto il tempo, e n o n di qual R e fu contemporaneo questo Filosofo le non
il tornar questo in avvantaggio del suo Sistema. lo pon parlerò qui del tempo,
(1) Introduz. allo Studio della Relig. Lib. III. $. 2. p. Strom.Lib.1. (4)
Diogen. Laert.loc.cit. ed altri Scrittori in tanto ci danno 19
epoca inquanto,come ho accennato,cidi con di qual Re fu Pitagora contemporaneo
le quali epoche però da loro fissate non ef cono dagli anni, che secondo la
Cronolo gia comunemente ricevuta, corsero dal fine del Regno diServio,
insinoalprincipiodel Consolato; del che niente è da maravigliarsi, poichè
essendo probabile aver dimorato in Italia questo Filosofo un notabile spazio di
tempo, tale Scrittore avrà tolto l'epoca, di cui fece registro, dall'anno della
sua v e nuta,tal altro da un fatto accaduto essendo lui in Italia, tal altro
dalla sua partenza, o dal tempo di mezzo della sua dimora, onde possono aver
detto tutti ilvero,quando fiasi fermato in Italia non più di venticinque a n ni,
che tanti ne corsero appunto dalla m o r te di Servio infino al principio del
Consolaro. Tutto questo adunque io lafcierò da par te.Concedo, che ammettendo
per vera quella popolar voce, essa dovesse piuttosto far discender N u m a
a'tempi di Pitagora, che far ascender Pitagora a'tempi di N u m a. M a quello,
a cui principalmente badar fi dee, è, che questa tradizione medesima non è
fondata sopra alcuna autorevole testimo nianza, che la renda credibile. Vero
è,che ne 2 al.
verità nelsuo gover alcuni
rammentati da Livio, da Dionigi, e da Plutarco (e) furono di parere, che da Pitagora,
il quale in quella parte d'Italia, che M a g n a Grecia nomavası, gittò ifonda
menti della sua filosofica serta, N u m a ricevu to avesse quelle maflime di
Religione, e di Politica, che pose in opera no. M a è da considerarsi negar
Livio ciò apertamente, p.120. non essendo secondo luivenu to Pitagora in
Italia,se non sotto ilRegno di. Servio Tullio, e dopo alcune ragioni, con cui
studiasi di mostrar l'insusistenza della opinione di costoro, soggiugne, che di
sua natura inclinato fosse alla virtù cotesto Re, nè bisogno avesse di
straniera instituzione bastandogli la dura, e severa disciplina degli antichi
Sabini, de' quali non v'avea una vol ta più incorrotta nazione (f ). E questa
se (e)T.Liv.Dec.I. Lib.I.Cap.7.8. 18. Dionyf. lic.Lib.II. Plut.in Numa. (f)
T.Liv.loc.cit.Auétoremdoctrinaeejus,quianonexa taralius,falfo Samium Pythagoram
edunt: quem Servio Tullio regnante Romaecentumampliuspoftannos inul tima
Italiae ora.juvenum emulantium ftudia coetus habuiffe conftat..fuopte igitur
ingenio, temperatum animum virtutibusfuisfeopinor magis, instru&tumquenon
tam peregrinis artibus, quam disciplina teirica, ac tristi veterum Sabinorum,
quo genere nullum quondam incorru. prius fuis. verità origine ebbe
per avventura da una Colonia di Spartani venuta in Italia a't e m pi di Licurgo,
come appare dalle memorie antiche nazionali portate da Dionigi, e di cui anche
ne dà un cenno Plutarco (8 ), la qual Colonia è da credere che trasfufo avesse
ne'Sabini buona parte de'costumi de' Lacedemoni. Cicerone poi in più luoghi
delle opere sue afferma fuor di alcun dubbio esser giunto questo Filosofo in
Italia sot to ilRegno di Tarquinio ilSuperbo,eche in Italiapur era a
que’tempi,in cuiBruto diedelalibertà a'Romani(h).SottoilCon solato di Bruto lo
mette pure Solino, ed Aulo Gellio in fine dice effer venuto questo Filosofo in
Italia sotto il R e g n o dello stesso Tarquinio Superbo. Dirà forse taluno,
che l'alterigia de'R o (8) Dionyf. Halic. Lib. II. pag. 113. Plut. in N u m a
in piternum Hanc opinionem discipulus ejus Pythagoras maxime confirmavit,quicum
·Superbo regnanteinItalian veniffet tenait magnam illam Graeciam ec. Cic. Tusc.
Brutuspatriam liberavit:ld.ibid.Lib.IV.Aulus Ge lius Noet. Attic.Lib.XVII.Cap.21.PofteaPytagoras
Samius in Italiam venit Tarquinii filio regnum obtinente, cui cognomento
Superbus fuit, mani princ. (h) Ferecides Syrus primum dixit animos
hominum ellefema Quaeft. Lib. I. Pythagoras, qui fuit in Italia temporibus
iisdem, quibus L. mani fu cagione del non darsi credenza a questa
tradizione dai dori, quafichè ellite messero non venir con questo a scemare la
gloria di que'primi secoli,, riconoscendo da un Greco l'Institutore della
Religione, ed il più favio de'Re loro. Quantunque questa non paja ragion
bastante per negare ciò, che gli Scrittori Romani ci dicono: poichè ammessa
questa regola, rifiutar fi potrebbe come supporto tutto ciò, che uno Storico
narra di avvantaggioso per la nazion sua, v e diam tuttavia ciò, che ne dissero
iGreci. E' da credere; che questi sisarebbono recato ad, onore l'aver dato a
Romani il Maestro di N u m a: che per Greco passò presso Dionigi e Plutarco
Picagora, che che ne sia della opinione di alcuni moderni, i quali nè G r e
co.il. vogliono, e nè,pure di quelle Greche Colonie fondate negli ultimi
confini d'Italia. pal Ora ciò non
oftantePlutarco(i)nonscio glie la quistione, e reca foltanto in mezzo le varie
opinioni, che a'suoi di correvano, fra le quali degna è di considerazione
quella di coloro, che asserivano essere venuto in Italia un certo Pitagora
Spartano, il quale avea nella Olimpiade sedicesima riportata la (i) Plus,in
Numar bre (k) Dacier nelle annotazioni alla sua traduzione francese
delle vite di Plutarco; alla vita di Nuina. palma ne'giuochi Olimpici,
fotto Numa terzo anno appunto del Regno di lui il Il Signor Dacier (k) fi ride
di una tale opinione, fembrando a questo Critico ripu gnanza da non potersi
comportare, che u n personaggio atto a dare instruzioni ad un R e, e ad un
Re,qual fuNuma,abbiagareggia to in Olimpia per ootttenere il premio del
corso.Ma a me pare con buona avendo Spartani questi additato parecchj al Re
ftrato fondamento uli degli sommini Legislatore alla favola., abbia ed pace di
'un tanto uomo, che le usanze moderne lo abbiano ingannato nel giudicar delle
antiche. A tutti è noto, che Socrate il più rinoma to Filosofo della Grecia non
isdegnava di suonar la cetra, e che anzi non lasciò di esercitarsi nella lotta;
ed oltre a ciò non era poi mestieri, che fosse un gran scien ziato costui per
instruire N u m a delle leggi degli Spartani. Si sa, che quel popolo nella
rigidezza de' costumi, e privazione di prel so che tutte le cose, le quali
rendono dol ce la vita, godeva per altro dell'avvantag gio d'aver leggi, che
per la semplicità, e con brevità loro, e per la cura del
governo nel farle apprendere a'fanciulli erano note a tutti coloro, che doveano
obbedirvi. N o n farei pertanto lontano dall'ammettere que fta opinione,se
altro non vi fosse in con trario, fuorchè questa ripugnanza ritrovata dal
Signor Dacier; m a rinunciar vi fi dee per troppo più forte motivo, ed è la te
stimonianza di Dionigi, il qual dice non ri levarsi da alcuna memorabile
Istoria, che stato vi sia in Italia altro Pitagora anterio re al famoso
Filosofo (l). Del resto,cheilcelebreFilosofodi que sto nome nonsia stato
a'tempi di Numa, con molte, ed incontrastabili ragioni Atelio Dionigisiprova
(m), e di più ac cenna ciò, c h e diede occasione a questa v o ce sparsası nel
volgo, e sono la venuta di Pitagora in Italia, la sapienza di N u m a fuori
dell'usato della nazion sua, a cui sipuò ag. giugnere la conformità della
dottrina, ed il ritrovarsi presso alcuni antichi Scrittori, da cui non dissente
Dionigi (n), che N u m a fu chiamato al R e g n o il terzo anno della fedi
cesima Olimpiade, il qual anno designarono dallo (1) Dionyf. Halic. Lib. II.
pag. 121. (12)Idem loc.cit. (n) Idein Lib.II.pag. 120. con dire,
che fu quello appunto, in cui quel certo Pitagora Spartano avea riportato il
premio de'giuochi Olimpici.E le pure è fondata quella taccia data a Dionigi di
derivare da'Greci assai più di quello, che ragion voglia delle cosede'Romani,Greco
d a lui efsendo Pitagora stimato, ben è da credere, che nel secolo, in cui
eglivivea, fossero i dotii,uomini sicuri della falsità di questa popolar
tradizione. Chiaro è a d u n q u e abbastanza, che nessun caso si volea fare di
questa, quando da'più dotti fra' R o mani, e fra' Greci fu non solo rigettata,
m 3 confutata eziandio, e quando fondato sopra l'unanime consenso loro già
esitato, non avea l'erudito Stanlejo di chiamarla fas vola folenne (0) Quello,
di cui abbiamo infino ad ora raa gionato,non risguardailRegno diNuma, m a
tendeva ad accorciare i cinque seguenti Regni,ed inquestoluogo se*o'èdovuto
trattare, perchè da cosa appartenente a lui ricavata era
l'obbiezione.Facciamoci ora a considerare quelle ragioni, per cui accorciar
debbasi il Regno diN u m a medesimo. Pare adunque primieramente all'Autor
nostro, che non () Stanlejus in Hift.Philosoph.part.VIII.Cap,X. Io non fo
rispondere altro a queste ragio ni,se non lasciare al giudicio di chiha fior di
senno,sesianon solo maraviglioso, eri pugnante, m a soltanto fuori
dell'ordinario corso delle cose, che, quando un uomo fia stato di singolare
ingegno dalla natura for nito, e quand'esso abbia posto cura in col tivarlo,
giunga in età di quarant'anni ad acquistarsi il grido di favio: tanto più che
sappiamo aver N u m a avuto l'arte di conci liarsi venerazione presso gente
rozza, e per conseguente superstiziosa, collo sfuggire il con non potesse
esser fornito nella fresca età,ei dice, di quarant'anni questo R e di tanta
fcienza, e di cosi alto lenno 2 che già ri suonaffe la sua fama non folo
pressoi suoi nazionali, m a ancora presso gli stranieri, e che il suo nome già
dovesse far tacere in un subito ogni particolar riguardo, e le ani mosità delle
parti, che per lo spazio di un anno intero contefo aveano fra loro dello
Imperio. Che tale fosse la riputazione, che si avea della sua scienza, nelle
cose divine, ed umane, che quantunque i Padri vedes sero la grandezza, che
tornava togliendo il Re dalla nazion loro,nondime n o niuno ebbe ardire di
preporre ad un tal uomo. alcuno a'Sabini, 7 f consorzio degli
uomini, dimorando ne'sagri boschi, col disprezzar le pompe, M a questo non è il
tutto, segue a dire il nostro Autore. Tazio, che reggeva R o m a insieme con
Romolo, preso al grido della fapienza di N u m a, gli ditde Tazia unica sua
figliuola in moglie; ed ancorchè dalla Storia non abbiasi in qual tempo ciò
preci samente avveniffe, si p u ò affermare senza tema di errore, questo essere
avvenuto nei primi anni del Regno di Romolo dacchè Tazio morì prima della
guerra co'Fidenati, e co'Camerį, cioè prima dell'anno sedice
6)Tacit.Annal.Lib.III.Cap.26. Nobis Romulus ut e le 1 gran dezze, e
lasciar che corresse la voce dei suoi pretesi congressi colla Ninfa Egeria.La
fama della sua giustizia non era tale da afa sicurar i Romani, che non
sarebbono stati molestati da 'Sabini, quantunque essi avesse ro tolto il Re
della nazion loro? Doveano finalmente concordare una volta i Padri, e stanchi
forse i Romani, e mal foddisfatti, come quelli, che dato ne aveano non dubbj
segni,del governo diRomolo,ilqualpen deva al tirannico (p), fi contentarono di
eleggere a R e loro un Filosofo. fimo, libitum imperitaverat. fimo,
o diciassettesimo del Regno di R o m o lo; e Plutarco (9) inoltre atteita, che
T a zia era morta, quando N u m a fu chiamato al Regno, e che era vissutacon
effo luilo spazio di ben tredici anni. Quindi ei rac coglie, che gran tempo
innanzi fioriva la fama della fapienza di Numa, e dice,che, volendosi ritenere
il compuro di Plutarco, sarebbe di necessità asserire contro ogni ve.
risimiglianza, che all'età di soli venticinque anni la fama della fapienza di N
u m a fosse già tanta da indur Tazio Re ad allogare una fua unica figliuola con
lui u o m o priva Ed ecco altre opposizioni,a cuidàsem pre il fondamento il
folo Plutarco. E che fede fi dee prestar m a i a questo Scrittore, to, f2
е onde conchiude non potersi fare a m e
no di non dare un sessant'anni almeno a Numa, quando ad una voce fu eletto Re
di Roma, e ne deduce, che se vogliamo, che, come s'ha dagli Storici, sia
vissuto in fino all'età di ottantatré anni, avendo vent' anni più tardi, che
non è la comune cre denza, incominciato a regnare, è neceffario, che di
altrettanti fi venga ad accorciare il suo Regno. (1) Plut. i n Numa.
avanti lui? Per formarci una chiara idea della falsità del ragionamento
del nostro A u tore, connettiamo alcune delle epoche di Plutarco, che è il suo
Achille per questi due primi Regni col suo Sistema Cronologico. Tredici e più
anni avanti alla morte di Romolo ei raccoglie da questo Storicoesser seguite le
nozze di Numa con Tazia. Que sto Storico medesimo dice esser nato N u m a nello
stesso tempo che Romolo innalzava le mura dell'alta sua Roma (n): ma vuole il nostro
Autore, che di foli diciannove anni circa stato sia il Regno di Romolo, dunque
ne seguirebbe a ritenere tutte queste e p o che di Plutarco,e congiungerle col
suo S i stema, che nel fefto, o fettimo anno della età e per rispetto
almatrimonio di Numa con Tazia, e per rispetto all'esatto numero di anni, che
vissero insieme, minute particola rità, le quali sfuggono agli stessi contempo
sanei? D'onde ebbe egli si particolarinoti zie,che aver non potè non già
ilsoloLi vio,ma nè pure l'accuratoDionigi,ilqua le tanta maggior diligenza usò
nello stende re le sue Storie, che di maggior criterio è fornito, e che visse
notabile spazio di tem po () Plut. in Numa. 1 età fua N u m a
avesse menato moglie, ridi colo affurdo, ed inverisimiglianza troppo maggiore
al certo, che non sia quellad' averla menata nell' anno vigesimoquinto. So che
rigetterà egli quest'epoca, poichè chia ramente scorgesi doversi secondo il suo
Si Itema porre f 3 la nascita di N u m a quarant'anni innanzi alla
fondazione di Roma; ma è da riflettere,che se di quelle, direi così, m i nute
epoche, di cui favella Plutarco, non ne danno gli altri Scrittori un minimo cen
no,nel mettere la nascita diNuma alprin cipio del Regno di Romolo, o là in quel
torno, concordano tutti; poichè tanto asse risce Dione (s ), lo stesso si
raccoglie a un dipresso da Livio, ed infine l'accurato D i o nigi dice,che
Numa,quando giunsealSo lio, era vicino al quarantesimo anno, onde non
essendovi, come a luo luogo opportu no abbiam mostrato ragione alcuna di ab
breviare il Regno di Romolo, fi vuol pure secondo lui mettere circa a'prinċipj
di R o m a la nascita di N u m a. Perlaqualcosa stra no dee riuscire, che
l'Autor noftro rifiuti (1) Dion. Cocej. in fragm. Peiresc. pag. 8. ex ed.Rei.
quella mari Hamburg. 1750. T.Liv.Dec. I.Lib.I.Cap.8.n.21, Dionys, Halic, Lib,
II. pag. 129. quella epoca di Plutarco, la quale è atte Iata
dagraviffimi Scrittori,ed ammetta quel le, nello asserir le quali trovasi solo
questo Stórico. E' adunque forza rigettare le epo che di Plutarco, e queste sue
minute noti zie,non solo perchè incerte,ma perchèfe fi colgono tutte insieme
mal congiungerli possono col Sistema del nostro Autore. Per rispetto poi a
quelle parole di questo R e presso Plutarco, con cui rifiuta il R e gno, le
quali pajono a lui disdicevoli i n bocca M a concediamo, che queste
particolarità accertate fieno, e n o n ripugnino col Sitte m a di lui le epoche
stesse di Plutarco, che grande assurdo ne seguirebbe poi? Che T a zio avrebbe
data lasua figliuola in isposa a Numa, mentre questi era di soli venti cinque
anni;a Numa de'principali fra' Sa bini; a N u m a, che già erasi acquistato per
avventura riputazion d i fapiente; a N u m a infine, che quantunque giovane,
ben si può far ragione dal gran renno, che poscia di mostrò, che di venticinque
anni uguagliasse molti uomini, i quali già fossero avanti nell' età. Qui mi
pare in una parola, che la grandezza moderna abbia offuscato l'intellet to del
nostro Autore nel recar giudizio dell' antica semplicità. E' ben
vero però, che fa d'uopo fer marsi ancora alquanto intorno ad una sua
considerazione, la quale entrambi gli abbrac cia,ma spero,chemi
verràfattodidimo, bocca di un uomo di soli quarant'anni,già ne abbiamo
sopra ragionato(1).Basteràag giugnere, che quantunque proferite le avel le
questo Re Filosofo in taleesà,male non gli sarebbono state in bocca. Forse
tuttigli uomini hanno da potersi vantare di militar bravura?E quando
vantatosenefosse,non era egli noto, che mai vissuto non avea fra l'armi?
Concedası, che questa dote fosse necessaria ad un Principe in quelle circostan
ed egli appunto mostrò di stimarla tale e per questo accettar non volea
l'offertagli Corona. Non hanno pertanto da parer disdi cevoli, e vergognose in
bocca di un Filo sofo di quarant'anni, mentre N u m a di tutt' altro pregiavasi,
che di stare in full armi, ed avea preso b e n diverso cammino per giungere
alla gloria. Laonde mi pare, che già li fia fatto chiaramente vedere, che per
quello, che spetta a'due primi Regni, non avea l'Autor noftro per accorciarli.
alcun bastantemotivo Itrare ze, f A (+) Cap ly. strare non aver questa maggior forza delle
altre sue obbiezioni. Pare adunque all'Au tor noftro improbabile, D 88
Tullo Ostilioriaccendere petti de'Romani (nervati che abbia la bellica virtù
ne® di sessantacinque anni dice risultare l'antica Crono logia da quarantatré
anni del Regno di N u m a, da un anno d'interregno, e da ven tuno pacifici già
da unapace anni, iquali sessantacinque di Romolo. secondo potuto samente potuto
Tullo Ostilio delta re dopo sì gran tempo Romani, e guidarli come ei fece si
animo alla vittoria: fi ponga però soltan to mente alla pace, da cui uscivano i
R o mani,e biano interrotto l'ardor guerriero n e ' per qual guerra una e
chiaramente fi verrà a comprendere, come ciò fia poflibile. tal pace ab
Lasciando ora da parte, se quegli ultimi anni di Romolo sieno stati cosi
pacifici c o me si dà a credere il nostro Autore, o fe almeno, come abbiamo
sopra mostrato, non abbia quel bellicolo Principe mantenuti vivi gli spiriti
marziali ne'suoi Soggetti; venia mo a vedere, fe ammettendo questasilun ga
pace,ne risulti tale inverisimiglianza, per cui abbiasene a negar la
possibilità. Tutta la ripugnanza consiste nel concepi come abbia те, 2 La
La pace de'Romani non era nata dall' ozio,èdaltimore,ma eraunapace,che
ben lungi dal paventar de'nemici era in istato di farsi temer da quelli:onde
non d o vea pure sembrare improbabile al nostro A u tore, che le circonvicine
nazioni gelose della grandezza di R o m a non ne abbiano turba ta la tranquillità.
E che senno sarebbe stato il loro di romper guerra con un popolo pol sente, e
valoroso, che vivea in pace bensi, m a in una pace lontana dalle morbidezze,
dura, rigida,anzi feroce, che non le of fendeva in cosa alcuna, che dava
speranza in fine di voler depor l'armi, confervar l' acquistato, nè più curarsi
di estendere i c o n fini? Aggiungafi inoltre di quai belle doti a b bia il
saggio N u m a fornito i suoi soggetti pendente il suo pacifico Regno. Numa
acconciò il popolo a Religione, e Divinità, per servirmi delle parole di
Tacito,(u) fu, vale a dire, datore di quel freno, e {pro ne sì necessario,
promosse, favorì, e ftudioffi in ogni modo di farfiorirel’Agricoltura,co me
hassi non già dal solo Plutarco, ma da Dionigi eziandio (v). Ora ciò posto non
iscriffe Plut, in N u m a, Dionyf, Halic. Lib.II, pag. 133
(w)Tacit.Annal.Lib.III.Cap. 26.n.3: lo Che (a) Alg. Op. tom. III.
Saggio sopra il Gentilefiro go lo stesso noftro Algarotti (x ), seguendo
il parere del Segretario Fiorentino, che, se dove sono le armi, e non
Religione, con dif ficoltà fi può quella introdurre, dove è R e ligione,
facilmente si possono introdurre le armi? E in quanto allo avere un popolo di
agricoltorinon avrà egliavuto probabilmen te sotto gli occhi una riflessione
veramente aurea diPlutarco,laqualequestopiùFilo. fofo, che Storico inserisce
nella vita di N u m a, ed è, che, se in villa si perde quella temerità, e
malnata voglia, che ci spinge a rapire le sostanze altrui, fi conserva però
ottimamente tutto il necessario coraggio per difender le proprie? Che più? Non
diceegli stesso, che quel Principe, che ha uomini può farne presto de'soldati
(y ), che un zappatore, un contadino li avvezza agevole mente a marciare, a
patir caldo e gelo, alle fatiche, ed agli ordini della milizia? Ecco in qual
maniera da que'robusti contadini, della Religion loro veneratori, amanti della
patria abbia Tullo Ofilio potuto ben tosto crarre un poderoso esercito.
pag.273: (y ) A l g. O p. c o m. V. V i a g g i di R u s i a p a g. 5 8 - 9;
ra, avere C h e se altri poi si volgerà a considerare, per qual guerra
abbia questo R e rotti gli ozj dellapatria, e spintii Romani all'ar mi, come
s'esprime Virgilio, vedrà,che ca de rovinata del tutto la ripugnanza i m m a
ginata dal nostro Autore. Nella prima guer che ebbero i Romani dopo ilRegno di
N u m a, non trattossi di uscire dal proprio paese,e andarad invaderecon armata
ma no l'altrui, trattosli di difendere i propri confini dagli Albani', che per
gelosía d'ima pero vollero la guerra con esli, e le per avventura non
si-sarebbono questi accinti di buon animo ad una straniera espedizione, è da
credere, che non avendo ne'campi perduto il necessario coraggio per difende re
il suo, con tanto maggior ardore moffi G fieno a rintuzzare la forza degli
ingiusti aggressori. Che tali poi fieno stati gli Alba ni, avvegnachè Livio (7)
secondo l'usanza fua distintamente non ne favelli, non ce ne lasciano dubitare
e Diodoro Siculo, e lo Atesso tante volte lodato Dionigi (aa). Per ciocchè il
primo dice, che finfero gli Alba ni di aver motiyo di lagnarside'Romani per
(z)T.Liv.Dec. I.Lib.I.Cap.9.n.22. (a a ) D i o d. S i c u l. e x c e r p. L e g
a t. t o m. I. p. 6 1 8. Dionys Halic.Lib.II.p.137. iR o m a ni
sia per gara di primato, sia a cagione di questo stesso maltalento, che contro
esli gli Albani dimostravano, non mancassero di corrisponder loro in
malevolenza, e già in questo modo fparli fossero que'semi di odio, i quali
scoppiarono poi in guerra manifesta. Nè tralasciarfidee,cheilnuovoReTullo
Ostilio già erasi colle sue belle qualità cat tivato l'affetto de'Romani, e col
distribui re a'bisognosi cittadini certe terre, le quali aveano appartenuto
a'due primi Re, come scrive Dionigi (bb), avea già dato ad effi avere un
pretesto di muovere contro esli, c o m e quelli, che portavano invidia alla p o
•tenza loro; e Dionigi attesta, che Cluilio Dittator di Alba volle la guerra
co’Roma ni, e permise a'suoi di dare il sacco impu nemente alle terre
loro.Aggiungafi, che gli Albani, come sopra abbiam cacciato una parte del
popolo loro, la qua le a persuasion di Numitore, che per rego la dibuon governo
volea purgarne laCittà lua,era ita con Romolo probabile, che vedessero di mal
occhio cre sciuta a tanta grandezza una Città formata de’rifiuti loro, e che
d'altra parte riferito, avean a Roma, onde è mo 1 (bb) Diony. Halic. Lib. III.
pag.137 1 motivo di sperare di dover condurre una vita felice sotto
il governo di lui. In abbiano CAPO VI. Regni di Tullo Ostilio, Anco Marzio,
Ccoci ora giunti al Regno di quel Tullo Oftilio, che meritò di nuovo corona per
la sua perizia militare, e guidò alla vittoria (a). pure il nostro Autore, che
d'alcun poco s'ac (a) Virg. Lib. VI. Aeneid, potuto cor Patria si cara, e
che già per le civili, e militari virtù di Romolo, e per lo senno di Numa
salita era ingrande stima,ed ono re presso le vicine nazioni. difendere una
Eccoci e Tarquinio Prisco. que Ita maniera resta verisimile, che i Romani
robusti, e valorofi com'erano dilornatura, offesi da un popolo ad essi odioso,
governa ti, e retti da un favio, e prode Principe, che amavano, Agmina J a m
desueta triumphis QuestoRegno adunquenon meno diquello del suo fucceffore Anco
Marzio defidera Vero è, che si potrebbe in primo luogo fospettare e
dell'età si avanzata di Anco e della stessa asserzione, che questo R e alla
morte sua non avesse un figliuolo, il quale giunto fosse alla pubertà.
Perciocchè il n o Itro Autore da un'epoca del suo Plutarco raccoglie, che
giunto già foffe Anco all' anno sessantesimoprimo dell' età sua, quan do venne
a morte, prestando intera fede a questo Storico, allorchè dice, che Anco ni
pote di N u m a per parte di una figliuola alla morte dell'Avo già era nel
quintoanno dell' età fua (b); minuta particolarità, di cui egli folo
c'instruisce, non facendone motto non solo Livio, m a nè pure Dionigi,
entrambi corcino, avvegnachè non possano chiamarfi di lunga durata, non
giungendo ilprimo se non a trentadue anni, ed il secondo a ven tiquattro,
secondo la Cronología comunemente ricevuta; e la ragione, che lo spinge ad
abbreviarli, non è altra, se non l'improba bilità, che, secondo lui, risulta
dal doversi ! fupporre nell'antico Sistema, che il R e A n co Marzio fia morto
nella età di anni fel fantuno senza aver figliuoli, i quali già p e r venuti
fossero alla pubertà. (6) Plut. in Numa in fine. i fe dati questi
per ne nyf. Halic. Lib. 1. p. 136. (d) 'T. Liv. Dec. I. Lib. I. Cap. 14. n. 35.
Jam filii i quali fi restringono a dire,
che questo R e nipote era per via di una figliuola del Re Numa (c).Nè
certaèpurequell'altraal serzione del nostro Autore, che alla morte di Anco non
fosse ancora alcun suo figliuo lo giunto alla pubertà: perciocchè, te L i v i o
descrivendo non troppo accuratamente quel primo secolo di R o m a secondo
l'ufan za fua,diceallasfuggita,cheifigliuolidi Anco erano vicini alla pubertà
(d), Dioni gi, il quale con occhio più diligente scorse que'tempi, attefta, che
uno de'sopraccen nati figliuoli era già pervenuto alla pubertà, e l'altro
ancora fanciullo (e). Dubbiosi sono pertanto,per nondirfalsi,ifondamentidella
difficoltà. Vediamo ora, veri fia almeno questa convincente". Perdo nimi
il Conte Algarotti; ma io debbo con fessare, che quando lessi questa parte del
suo Saggio,non potei fare a meno di non com piangere m é c o stesso la
deplorabil sorte della umana ragione, non potendosi coloro, che © T.Liv.Dec.ILib.I.Cap.13.n.32.NumaePom
pilii Regis Nepos filia ortus Ancus Martius erat.Dio prope puberem aetatem
erant. (e) Dionys, Halic.Lib.III.pag.184. ne fanno la gloria, qual
certamente egli era liberare da'pregiudizi pienamente. Grave presunzioneinvero
controallagiustiziadella causa si è l'esser forzato un u o m o del suo senno a
ricorrere a tali ragioni per sostenerla. La grande impressione, che avea fatto
in lui il Sistema Cronologico del Neutone, 1' opinione, che aveva della
dottrina di q u e fto Filosofo fecero sì, che lasciò sfuggir dalla penna certe
ragioni, le quali eglim e desimo, le altri gliele avesse opposte, non avrebbe
né m e n o degnate di risposta se è da credere, che tutti gli uomini facciano,
e d Anco medesimo abbia fatto quello,che pru dentemente far fi dovrebbe. Se
finalmente anche concesso, che ne'giovani suoi anni abbia Lascio pertanto al giudizio de'giusti matori
delle cose, se l'esser morto il Re Anco Marzio in età di anni sessantuno fen za
aver figliuoli,iqualitrapassasseroiquac tordici ami, sia tale
inverisimiglianza, che ci sforzi a negar fede a'più gravi Scrittori delle cose
Romane di que'tempi, e lascio per conseguente pure al giudicio loro, fe,
fupposto, cheil partito prudente fosse di tor moglie, essendo egliancor giovane
perpo terlasciare, come l'Autor nostro s'esprime, dopo le figliuoli attial
governo, esti abbia tolto moglie, sia cosa inverisimile, che se non tardi
abbia avuti figliuoli,o pu re morti fieno avanti lui i primi,non rima nendovi
che gli ultimi. Tutte queste cose, come dicea,io le lascio al giudicio de'let
tori, e mi reftringerò soltanto a dimostrare, che la speranza, la quale
prudentemente a y rebbe potuto nodrire, che i suoi figliuoli poteffero
succedergli nel Regno, non era tale da spingerlo a tor moglie affai per tempo,
la qualcosa per recare ad effetto mi con verrà indagare attentamente quelle
leggi, o per dir meglio costumanze,secondo cuicrea vanli i R e di R o m a;
tanto più che, oltre all' effere materia per se importante, non ci riuscirà
forse inutile l'averla trattata nel de. corso di queste osservazioni. Chi
dunque prende a considerare la con ftituzione del governo di Roma a que tem
pi,hadapormente innanziditutto,che le cose non erano ordinate, come sono negli
Statide'giorninoftri,ma chesenonrego lavansi gli affari del tutto all'
avventura, elea forza, e l'accortezza aveano per l'ordina rio'non poca
parte nelle deliberazioni.Dif ficile pertanto sarebbe trovare le leggi fone
damentali, secondo cui fissata fosse la suc cessione al Trono, ovvero il modo
della la g A due capi ridur si può la base della constituzione di
qualunque Stato: al m o d o, con cui si eleggono, od intendonsi eletti quel
Principe, o que' Magistrati, che hanno da reggerlo, ed alla autorità, che
questi hanno sopra i loro soggerti. Della autorità, che i Re di Roma avessero
soprailorosog getti, non appartenendo punto alla presente quistione, io non
farò parola. Chi deside raffe per avventura d'esserne informato, p o trà
ricorrere al Grozio, ed al Cellario (1) ed a que'luoghi degli antichi Scrittori
da essi accennati. Mi volgerò bensì a mostra che H. Grotius de Jure Belli &
Pacis Lib. I. Cap.III. Chriftoph.
Ceilar.Breviar.Antiq.Roman.Cap.II.feff.1.
1 elezione: tuttavia connettendo alcuni luoghi degli Scrittori, e
facendovi sopra alcune ri flessioni, verremo in chiaro, per quanto comportar lo
possa un si rimoto secolo, di quelle consuetudini, le quali, secondo c h e io
stimo, tenevano luogo presso i Romani di leggi fondamentali. per quanto
raccoglier si poffa dalle scarse notizie di quella età il Regno di R o m a
piuttosto elettivo, che altro chiamar li dee. re, 1 E 03.120. n.5 S. 2.
ma E prima di tutto, le dalla qualitàde'Re, i quali fuccedettero l'uno
all'altro, si può ricavare alcuno indizio, certa cosa è, che in que'sette Regni
mai figliuolo non succe dette al padre, che anzi tutti furono di di verle
famiglie. N o n parlo di Tarquinio il Superbo, il quale non per giusta strada,
m a colla forza, e per mezzo delle scelleratezze giunse al Trono, a cui mai
sarebbe in al tro modo pervenuto.Veda adunque l'Au tor noftro, se dalla
elezione di Anco, che nipote era per via di una figliuola di N u che non subito
dopo il Regno dell' Avo,ma dopo quello diServioTullioasce se al Trono, inferir
se ne possa, che piut tosto pendesse ad essere successivo il Regno di Roma. Che
se Tarquinio Prisco allonta nò da Roma i figliuoli di Anco nella ele zione del
nuovo Re, la qual precauzione egli s'avvisa dimostrar, che vantassero que sti
giovani diritto al T r o n o,si vuol notare, che tutto facea per li figliuoli
di Anco,per muovere i Romani a conceder loro il R e g n o, e tutto era
contrario a Tarquinio. Erano i primi discendenti da N u m a figli uoli di Anco
Principe, che congiunto avea le più belle qualità de'suoi antecessori, o n de è
detto da Livio uguale a qualunque de' pal. g 2 Pa (8)T.Liv. Dec.
I. Lib.I.Cap.13. n.32. Medium erat in Anco ingenium,& Numae, & Romuli
memor. Id. ibid. Cap. 14. n. 35. Cuilibet fuperiorum Regum belli ) Dionyf.
Halic. Lib. III, pag. 184. 1 Too
passati R e nella gloria delle arti sia di Sequitur jactantior Ancus
Nunc quoque jam nimium gaudens popu laribus auris. Uno di questi poi secondo
Dionigi (1) già era alla pubertà pervenuto.Laddove Tar quinio oltre ad essere
straniero essendo stato dal morto Anco fuo fingolar benefattore d e ftinato per
tutore a'suoi figliuoli, la qual cosa fece per avventura, lusingandosi, che
avrebbe egli tentato ogni modo di aprir loro la strada al Trono,nè per
gratitudine questo dovendofi fupporre ignoto a' R o m a ni, certa cosa è, che
eravi ragion di teme re per lui di non poter ottenere il suo in tento, quantunque
il Regno fosse elettivo, se i figliuoli di Anco avessero potuto chia marlo,
esponendo a' Romani i meriti del paces che di guerra (g), e quello, che è più
grandemente amato dal popolo,secondo che disse Virgilio in que'suoi versi, ove
più da Storico, che da Poeta favella (h). pacisque,& artibus, &
gloriapar. (h) Virgil.Aeneid.Lib.VI. Padre loro, la di cui memoria
era ad effi si cara. Sapea benissimo l'astuto, ed a m bizioso Tarquinio, qual
impressione far p o tea nel popolo l'aspetto de' giovani Princi pi, ed il
rinfacciargli, che avrebbono fatto la sua ingratitudine. T e m è pertanto la
pre senza loro giustamente, e trovò m o d o di allontanarli da’ Comizj. Dal fin
quì detto chiaramente risulta, che non ostante i pregj, che vantavano i
figliuoli di Anco, essendo stati esclusi dal Trono, a cui quantunque per molti
motivi gliene dovesse esser chiusa la strada (k), fu innalzato Tarquinio, ben
lungi dall'inferire da questo allontanamento, che nella elezio. ne del R e i
voti stessero ordinariamente per la ftirpe Reale, 'avendo un tale allontana
mento bastato ad escluderli, se ne dovea a più buona ragione dedurre, che i
Romani niun riguardo avessero al sangue Regio nella elezione del R e loro. min
(k),Alienum quod exaétum: alienioremquod ortum Corin tho:faftidiendum quod
mercatore genitum: erubefcendum quodetiam exule Demararo narum patre, Valer.
Mas xim, Lib.III,Cap.IV. M a veniamo ora con testimonianze degli Storici
a dimostrar maggiormente il diritto de'Romani nell'elezione de'Re loro,eco..
g3 ininciando da Livio:(1) Servio Tullio, dice questo Storico, avvegnachè
foffe coll'uso al possesso del Regno, tuttavia perchè sa peva, che il giovane
Tarquinio andava dif ieminando esso regnare senza ordine espres so del Popolo,
conciliatosi il buon voler della plebe col distribuir certe terre tolte a’
nemici, fi arrischio di porre in deliberazio ne a'Romani, fe volevano, ed
ordinavano, che regnasse o no, e con tanto general c o n senso, con quanto per
lo innanzi alcun al tro giammai Re fu dichiarato. Ove è da notare,che Tarquinio
il Superbo per farsi strada al Trono non vanta già i suoi diritti come
figliuolo di Re, nè taccia Servio di usurpatore, perchè coll'occasione di a m m
i nistrar la tutela di lui era giunto al Princi pato, m a dice, che fenza
espressa elezione del popolo Servio Tullio governava il R e gno: e Servio per
dileguar que'rumori,non risponde già non essere un tal consenso n e cessario, m
a, assicuratosi prima dell'affetto quam jam ufu haud dubie Regnum poffederat;
tamen quia interdum jactari voces 1 102 (1)T. Liv.Dec.
I.Lib.I.Cap.18.n.46.Serviusquam del a juvene Tarquinioaudiebat fe injusu populi
regnare, conciliata prius voluntate plebis, agro capto ex hoftibus viritim
diviso, aufus eft ferre ad populum, vellent juberentne fe regnare: santoque
consena fui, quanto haud quisquam alius ante, Rex eft declarcius; #
Questo è quanto dice Livio lo Storico, di cui l'Autor nostro maggiormente si
pre gia; m a per dare a vedere con alcun altro Scrittore la verità medesima, a
chi della a u torità del solo Livio non si volesse appaga consideriamo c o m e
parla lo ítesso S e r vio presso Dionigi per difendersi dalle accu fe di
Tarquinio: mentre io era disposto (ei dice adunque a Tarquinio ) a rinunciare
il Regno (m) iRomani mi trattennero, sulqual Regno essi hanno diritto, e non
voi altri, o Tarquinj; quindi prosegue: siccome al vostro A v o (cioè a
Tarquinio Prisco ) fu dato il Regno, quantunque estero, ed alie nisfimo dalla
cognazione diAnco, sprezzati i figliuoli di Anco non fanciulli e nipoti, m a
nel fiore dell'età loro, nello stesso m o d o a m e f u concesso, p e r c h è
il Popolo Romano non un erede del Padre metre algo verno della Repubblica, m a
un personaggio veramente degno del Principato. Tutto questo vien confermato
dalla con g4 'del popolo, pone in deliberazione a ' R o m a ni, le
volevano, che seguitasse a reggerli, cose tutte, che l'autorità del popolo
nella elezione de'Re appieno dimostrano. dotta 1 re, (in)
Dionyf.Halic.Lib.IV.pag.237. 1 dotta di Tarquinio Prisco verso i
figliuoli di Anco; chi si vorrebbe dare a credere, che un uomo cosi accorto
avesse commesso tale inconsideratezza di lasciar dimorare in R o m a questi
Principi, e non proccurare di al lontanarli per destro m o d o d a quella Città
se avesse loro usurpato il R e g n o? Bisogna credere, ch'ei s'avvisasse dinon
esser reo d'ingiustizia veruna contro d'essi, non altro avendo fatto, se non
usare una destrezza per ottener dal Popolo una cosa, di cui questo poteva
liberamente disporre. Vero è, che sia Anco Marzio, fia Tare. quinio Prisco,
destinando per tutori de'pro pri figliuoli personaggi, i quali doveano ef sere
per ogni ragione ad elli tenuti grande mente, si lusingarono, che questi
proccurasse roa'lorofigliuoli quelRegno, cheime desimi procacciarono per fe,
servendosi p e r l'appunto del credito acquistatofi penden te il governo
de'benefattori loro. M a que sta cura medesima, ed il non aver sortito
l'effetto desiderato da que’ due R e, dimo-. ftra vie più il poco riguardo,
ch'avea il Popolo Romano al sangue Reale nelle ele, zioni de’nuovi Principi.
Del resto, se da quel general ritratto de? costumi de'Romani di que'tempi, che
racs Troppo parrà a taluno, che dilungato mi fia in questa materia, la
quale in vero non avrei trattato così ampiamente, se non mi fosli dato a
credere, che anche prescinden (7) Montes Esprit des Loix Liv.XI.Chap. 12,
cogliesi dalla Storia, si può trarre qualche congettura, essendo propria di
popoli rozzi peranco e semibarbari una costituzione in forme di governo, non è
da credere, che la successione al Trono di padre in figliuo lo stabilita fosse
tra esli, essendo questa frut to di secoli più colti, e per recar finalmen. te
la testimonianza di qualche moderno Scrit tore ', che questa verità abbia
riconoíciuto, basterà per tutte quella del Montesquieu (n), il quale asserisce
chiaramente e fuori di v e r u n d u b b i o, c h e il R e g n o d i R o m a e
r a e l e t tivo. Veda adunque l'assennato lettore, se la speranza di lasciar
figliuoli atti al R e g n o allamorte fua era tanta da muover Anco a tor moglie
assai per tempo, e se anche c o n cedendo tutte le conseguenze, che da que Ro
matrimonio cosi per tempo contratto ne deduce il nostro Autore, le quali altri
forse non avrebbe alcun ribrezzo a negare il fon damento, che a queste ei pose,
siastabile, e fermo fufficientemente. do
do dalla nostra quistione, non sarebbe per avventura riuscito discaro il
veder posto in pieno lume untal punto. Tempo è ora, che veniamo al Regno di
Tarquinio Prisco. Se de'Regni di Tullo Ostilio, ed Anco Marzio toccò per così
dire soltanto alla sfug gita il nostro Autore, di troppo più forti r a gioni fi
crede afforzato per accorciar la d u rata di quest'ultimo. E qui debbo di n u o
vo avvertire, che l'essersi egli appagato degli scarsi racconti di Livio, e il
non aver rivolto l'occhio a quel lume, che mena di ritto per l'oscuro calle di
que' primi tempi di Roma, voglio dire a Dionigi, è stato cagione dell'aver egli
ritrovate ripugnanze, che non vi sono. Strana a lui pare, per istringere le sue
ragioni in breve,la disfimu lazione de' figliuoli di Anco, che per tren totto
anni aspettarono luogo e t e m p o vendetta, e vendetta ei dice eseguita c o n
tro un usurpatore del R e g n o in pregiudizio loro, avvegnachè fosse itato
instituito tor di essi dal Padre medesimo. E d'altra parte a lui pare, che
troppo grande disdet ta sia stata la loro, che di tanta dissimula zione dopo
aver indugiato intino alla età di cinquant'anni ad operar quel fatto, non ne
abbiano colto frutto alcuno alla tu. tuttociò essendo cona rimasi esclusi dal
Trono. per altro grido di accurato nel r a c cogliere i fatti
descritti dagli Antichi (p), e il di cui difetto non è la brevità, cioè,
ch'essendo stato ucciso il famoso Augure Accio Nevio colui, di cui si racconta
il prodigio vero o supporto della cote tagliata col rasojo, i figliuoli di A n
c o attribuirono questa uccisione a Tarquinio, fia perchè, essendo il R e
entrato in pensiero di far m u tazioni nelle leggi, temeva non gli dovesse
di M a se avesse egli consultato
Dionigi, avrebbe veduto, che vero è bensì aver in terposto i figliuoli di Anco
trent'otto anni tra la ingiuria, e la vendetta in questo fen fo, che potessero
recate ad effetto le loro crame, ma vero poinon è, che in questo frattempo
questa medesima scelleratezza altre volte macchinato non avessero,laqual cosa
non sivenne a sapere,se non dopochè eb bero eseguita quella tragedia:
Chiaramente in farti asferisce Dionigi, ove narra la m o r te di Tarquinio (o),
che coteíti figliuoli di Anco più volte aveano tentato di togliergli la vita,
che anzi aggiugne questa partico larità, omeffa da uno Storico moderno, il
quale ha (1) Dionyf. Halic. Lib. IV. p. 204-5; (0) Rollin Hift. Rom. di
nuovo efier contrario questo Augure,coa m e altre volte trovato lo avea, sia
perchè egli non fece le necessarie ricerche per stato a 1 conoscere, e
punirne gli uccisori. Riconci liolli Servio Tullio con Tarquinio, m a a v e n
dolo ritrovato facile al perdono, dopo tre anni il messero a morte nel modo,
che de scrive Livio. Dirà taluno non esser da cre dere, che abbia Tarquinio sì
facilmente p e r donato un tale attentato a'figliuoli di Anco; m a forse vero
era ciò, di cui l'accagiona vano, e se ne avesse mostrato risentimento, avrebbe
dato peso all' accusa. Del rimanen te è da credere, che note non fossero a
Tarquinio le antecedenti macchinazioni, p e r chè dicendo Dionigi unicamente a
proposi to di quest' ultima, che lo ritrovarono fa cile al perdono, dimostra,
che le altre giun te non erano a cognizione di lui; onde cagion di quella
accusa, ben avesse egli m o tivo di tenerli per malcontenti, m a n o n a segno
di volergli toglier la vita. ri che allora pre Anzi di più è da notare
cipitarono l'impresaifigliuolidiAnco,quan do sividero chiusa lastrada
dipoteredopo la morte del vecchio R e, esponendo i m e riti del Padre loro,
procacciarsi il Regno; voglio dire quando giunto Servio inalto
stato presso a Tarquinio, ed instituito tutor re
de'figliuolidilui,vedevano,chequesti amato, e ten Tutto questo succeduto non
sarebbe, se fosse stato, come pensa l'Autor noftro, Tar quinio un usurpatore,
poichè non avrebbo no dovuto tentare tante obblique strade, usar tanta
diffimulazione, ed è da credere, che più facilmente, e più presto sarebbono
forse venuti a capo de'loro disegni. M a già so pra abbiam messo in chiaro,
ch'elettivo ef Tendo ilRegno di Roma ingrato bensi, e sconoscente ad Anco fuo
benefattore non usurpatore chiamar fi può Tarquinio Prisco. Strano pertanto non
dee riuscire che abbiano frapposto i figliuoli di Anco trentore'anni non già
tra l' ingiuria, e la e riverito da'Romani poteva con tro esli servirsi
del credito rante ilRegnodi Tarquinio.Fecero per tanto pensiero di arrischiare
il tutto iare, le poteva loro venir fatto con una d i {perata impresa di far
levare il popolo a r u more,presso cui(prestando fededileggie ri l'uomo a
quello, che spera ) stimato a v ranno, potere ancor molto la memoria del di
quel Trono, a cui avvisavano di non poter giugnere in Padre, e così
impadronirsi altro modo. acquistatofi du ma de deliberazione, che
fecero di vendicarsi,m a tra l'ingiuria, ed il vedere la vendetta loro eseguita
non sarebbe questo il solo esempio, che delle contraddizioni c'instruisca dello
spirito umano. Non avete, dice pure egli stesso (1)
Alg.Op.tom.IV.Disc,milit.Disc.XIX.Soprala Giornata di Maxen. Non fa ora
quasi più mestieri di farmi a dimostrare, che per non aver esli colto al cun
frutto dalla loro lunga dissimulazione, non sidee,come fa l'Autornoftro,negare,
che di trentotto anni stato non zio di tempo, il qual corse dalla morte di A n
c o a quella di Tarquinio Prisco. E chi non sa, che moltissime volte non
riescono ad uomini avvedutissimi i loro disegni? Dice pure lo stesso Conte
Algarotti, che l'efito il quale importa il tutto innanzi agli occhi del volgo,
è nulla innanzi a quelli del fa vio? (9) E d ancorchè fuppor fi volesse, che i
figliuoli di Anco, i quali aveano per si lungo tempo con tanta cautela l'affare,
non avessero poi usate condotto le dovute della c o n giura, non farebbe questo,
per servirmi di avvertenze nell'ultimo scoppiar nuovo delle parole di lui in
altra sua o p e sia lo spa tan ra tante volte veduto la medesima nazione,
il medesimo uomo prudentissimoragionevolisii m o in una cosa, imprudente, ed
irragione vole in un'altra, benchè in ammendue gli dovessero pur esser di
regola le stesse m a l fime, gli itefli principi (r)? Del rimanente chi la, se
non si farebbo no gli uccisori impadroniti del Trono, quan do Servio Tullio, e
Tanaquilla non foliero stati così avveduti, come e'furono? A tutti è noto, che
Tanaquilla fece correr voce, che Tarquinio ancor vivea, affinchè niente si
tentaffe di nuovo, e Servio avesse c a m ро di premunirsi. Onde possiam
conchiude re,chenèpureinquestoRegno diTar quinio vi è ripugnanza tale tra i
farti, e le epoche, che ci sforzi ad abbreviarlo. Regni di Servio Tullio, e di
Tarquinio E il non aver consultato Dionigi traffe più volte l'Autor noftro in
errore, secondo () Alg.Op.tom.I.Dialoghi sopra l'OtticaNeuron, C A Pp Oo
quello, SE Superbo. VII. Dialog.IV.pag.140. Per venire adunque
prima di tutto alle ragioni, per cui giudica l'Autor nostro d o versi
abbreviare il R e g n o di Servio Tullio: fu Servio, ei dice, ucciso da Lucio
Tarqui n i o, d i p o i cognominato il Superb o, c h e v o leva ricuperare il R
e g n o paterno toltogli d a effo Tullio, uomo intruso, e dischiattaser vile,e
fu ucciso dopo un indugio di qua rantaquattro anni, il che, segue eglia dire,
vie maggiormente pare inverifimile a chi fa considerazione, che questo
Tarquinio era già u o m o da menar moglie, allorchè Servia Tullio divenne Re,
ch'egliera dispiritiol tre quello, che abbiam sopra dimostrato, onde
ritrovò irragionevolezze, ed inverisimiglian ze tali, che stimò doversi di sì
lungo trat to di tempo abbreviar la durata de'Regni de'RediRoma,ilnon aver
rivolto lo sguardo a questo Storico assurdi gli fece rinvenire in questi due
ulti mi Regni. Perciocchè in vero gliere le difficoltà mosse de'cinque primi
Regni contro la durata non avrebbe molte volte fairo mestieri d i mente a
Dionigi; m a più difficile riuscireb b e il rispondervi per rispetto ultimi,se
nonsifacefleusodellaautorità di lui. troppo maggiori ricorrere necessaria. a
questi due, per iscio 1 che abbrancato Servio nel mezzo della
persona lo si portò di peso fuor della C u ria,e gittollo giù perli gradini;ora
sea quarantaquattro anni del R e g n o di Servio si aggiungono venti circa, ch'
eidovea ave re alla morte di Tarquinio Prisco,verrà ad esser vecchio di
sessantaquattro anni, allor chè dimostrò tanta gagliardía. Questi sono i
motivi, per cuistima l’Au tor nostro esser più inverisimile aver Servio regnato
quarantaquattro anni, che Tarqui nioPrisco trentotto.Già abbiamosopradi
mostrato non esser punto contraria a'fatti la durata del Regno di Tarquinio,
ora verre mo a far vedere effer non meno verisimile la durata del Regno di
Servio, che quella non tremodo ardenti, ed ambiziosissimo,.e v e niva
tuttodi stimolato ad occupare ilRegno da Tullia sua moglie femmina trista fopra
ogni credere, e malvagia. Dal che ne c o n chiude esser m e n o probabile, che
Servio Tullio abbia potuto regnare quarantaquattro anni, che Tarquinio Prisco
trentotto. Oltre di questo ei riflette, che Lucio Tarquinio, il quale vivente
Servio Tullio è sempre q u a lificato giovane, fosse tuttavia giovane, e
robusto alla fine del Regno di quello, la qual cosa egli arguisce da ciò, che
fi leg ge, h a ) T. Liv. Dec. I.
Lib. I. Cap. 17. n. 42. O T. Liv. Dec.I.Lib.I.Cap.16.n.41.Tuumeft..... non sia
del suo antecessore. Desidererei per tanto prima di tutto lapere, onde abbia r
a c colto l'Autor noftro quella particolarità,c h e al principio del Regno di
Servio già fosse Lucio Tarquinio in età da menar moglie. Di questo non m i
venne fatto di ritrovarne parola presso gli Storici, e non mi posso persuadere,
che perchè Livio (a) descriven do le azioni di Servio pone prima di tut to aver
egli date in ispose due sue figliuo le a Lucio, ed Arunte, per questo abbia l'
Autor nostro stimato di poter mettere q u e sti due matrimoni al principio del
Regno di Servio: perciocchè in questo caso ognun vedrebbe sopra quanto fallace
congettura egli avrebbe avventuraro questo fatto. M a quando pure da Livio ciò
ricavar fi potesse, vorrei di più, ch'altri mi sciogliel se questo nodo, cioè
se a tale età già per venuto era Tarquinio Superbo alla morte di Tarquinio
Prisco, c o m e riuscir poffa proba bile, che Tanaquilla con quelle si
eloquenti parole eforti presso Livio Servio Tullio (6) a Servi fi vir es Regnum,
non eorum, qui alienis mani. bus peffimum facinus fecere: erige'te Deosque
duces re. quere, qui clarum hoc fore caput divino quondam circum 1
Desidererei pure, ch'altri insegnar mi sa pesse ilmodo dicomporre insieme
l'aver Tanaquilla un figliuolo giunto alla luccenna ta età, ed il proccurar,
ch'ella fa il R e gno a Servio piuttosto, che a Tarquinio suo figliuolo. E d
ecco che senza rivolgere al tro Storico, che il folo Livio, dando vento anni
circa a Tarquinio Superbo al princi pio del Regno di Servio, ne risultano in
verisimiglianze grandissime, per toglier le quali altro far non si potrebbe,
che suppor re fanciullo Tarquinio Superbo alla morte di Tarquinio Prisco; il
qual partito essendo h2 115 - a prendere le redini del Regno ancor manti
del sangue di Tarquinio Prisco, e a vendicar la morte dell'uccilo fuo marito, A
m e sembra, che ad una tal vendetta ad ogni m o d o piuttosto ella proprio
figliuolo, se questi già pervenuto era al ventesimo anno dell'erà sua, ed è ben
da credere, che u n giovane Principe nel fior de'suoi anni facesse troppo più m
e morabil vendetta della uccisione del Padre di quello, che fosse per fare
Servio Tullio. fufo igni portenderunt: nunc te illa coeleftisexcitesflama
ma:nuncexpergifcerevere:& nosperegriniregnavimus: qui fis non unde natus
fis, reputa: Si iua, re subita 2 confilia torpent, at tu mea confiliafequere.
animar dovesse il fu quello, Posto ora adunque, che ancor
fanciullo fosse TarquinioSuperbo alprincipio delRe. gno di Servio Tullio, ne
segue, che da lui allevato, non avendo vedute. le grandezze del R e g n o
dell'Avo, del quale lapea. aver Servio vendicata la morte collo allontanarne
dal Trono gli uccisori, e per ultimo stret to seco lui in vincolo di parentado,
e spe rando di succedere ad un uomo già oltre negli anni per commettere la
scelleratezza che commise, dovettero concorrere questi due impulsi, vale a
dired' avere a lato una malvagia, ed ambiziosa femmina, e d'ef fer fuori di
speranza di poter succedere a Servio Tullio, avendo questi, come ce ne affi
e quello, che toglie tutte le ripugnanze, d altra parte non
raccogliendosi dagli Stori ci, di qual' età precisamente ei fosse alla morte di
Tarquinio Prisco, sarebbe quello, che prendere li dovrebbe.M a non abbia m o
bisogno di congetture, poiché, che T a r quinio Superbo fosse per anco
fanciullo, non figliuolo, ma nipote di Tarquinio Pri sco, chiaramente viene
attestato d a D i o n i gi (c); il che dovremo di nuovo notar più fotto. (c) D
i o n y f. H a l i c. L i b. I V. p a g. 2 1 1. 2 1 3. re frapposto
qualche indugio, affinchè m a • nifeftamente n o n risaltassero agli occhi i d
e suno 5 che ci dicono gli Storici (e), per potere stringere quel
scellerato matrimonio, fra l'una delle quali, e l'altra avranno p u assicurano
Livio, e Dionigi (d), fatto pen fiero di rinunciare il Regno, e dare la lic
bertà a Romani. M a è da avvertire, che forse qualche notabil tempo trascorse
oltre il ventefimo anno del Regno di Servio,in-· nanzi che si congiungessero
con quelle infa m i nozze Lucio Tarquinio, e Tullia: per. ciocchè, fupponendo,
che avanti al vente fimo anno del Regno suo non abbia Servio date le sue
figliuole in ispose a' Tarquinj, ad ognuno è noto, che Tullia moglie era di
Arunte, e non di Lucio, e Lucio a m m o gliato era coll'altra figliuola di
Servio, o n de ebbero a passare per tutte quelle scelle ratezze, litti loro.
Credo poi veramente, che dopo ch' ebbero coronate le commesse iniquità colle
nozze, non si debbano per modo nef h3 (d) T. Liv. Dec. I. Lib. I.Cap. 18. n.48.
Idipfum tani mite tam moderatum imperium deponere eum inani. mo habuisse quidam
Auctores funt, ni fcelus intestinum li. berandae patriae confilia agitanti
interveniffet. Dionyfi Halic. Lib. IV. pag. 243. (c)T. Liv.Dec.
1.Lib.I.Cap.18.n.46 Dionyf.Halic.Lib.IV.pag.232,234, che la ragione,
per cui finalmente val sero preffo Tarquinio le persuasioni della sua rea
moglie, fu l'aver questi inteso c h e Servio volea dar la libertà a'Romani,
alla qual risoluzione forse fu egli spinto princi. palmente dalle malvagità
della figliuola, e di Tarquinio. Vedeva egli benislimo che Tarquinio da lui
giudicato indegno del T r o no,appunto perchè tristo,giàdovea forse essersi
formato una fazione di ribaldi pari suoi, e che dopo la morte di lui o avreb be
forzato i Romani ad eleggerlo a Re lo ro, o pure quando avessero avuto tanto co
raggio di eleggerne un altro, prevedeva, che avrebbe tentato ogni mezzo, ed
anche accesa una civil guerra per giungere al T r o no. E d'altra parte
Tarquinio Superbo, se con questa risoluzione di Servio non sifosse veduta
tagliata ogni strada, non avrebbe avventurata la sua fortuna e la sua vita G T.Liv.Dec.I.Lib.I.Cap.18.n.46.Initiumcura
suno passar sotto silenzio i continui stimoli di una donna, quale si era Tullia,
onde a buona ragione abbia detto Livio (F), che il principio di sconvolgere
ogni cosa da una donna ebbe origine: m a contuttociò io sti me mo, bandi omnia
a foemina orium ift Tolti ora diciannove o venti anni dalla età,
che aver dovea Tarquinio ilSuperbo, onde venga ad essere di soli quarantaquat
sro o quarantacinque anni, e non di sessan taquattro,quandogittògiùper
ligradini della Curja Servio Tullio, non parrà più in nessun m o d o
inverisimile tanta gagliardía. Senzachè io lascio al giudicio degli assen nati,
se, anche concedendo, che di sessan taquattro anni abbia Tarquinio fatta una
tal prova, menandosi allora una vita più dura, e per conseguente più robusta,
ed essendo Tarquinio riscaldato dalla collera, sia poi cosa da farne tanto le
meraviglie.Onde mi pare di potere a buona ragion conchiudere, h4 1 1 1 V
medesima come fece, ma servito fifareb be della fama dell'Avo suo dopo la morte
di Servio, che già era oramai pieno di anni per farsi elegger Re da'Romani,
cosa, la qual potea giustamente sperare potergli riu sčir più agevole, che d
'intraprendere, com ' egli fece, di usurpare il Regno vivente lui medesimo. Ben
vedea, che se tentato avel 1 se inutilmente questo passo di trucidare il suo
Suocero, ed impossessarsi coll'armi del Solio, non gli rimaneva più speranza
alcu na. Non arrischiò adunque iltutto, senon quando si vide in procinto di
tutto perdere. 1 119 chę ) <che siccome non v'ha motivo di accorcia. re i
precedenti Regni, così nè pure ve ne ha alcuno per accorciar quello di Servio
Tullio. Siamo finalmente pervenuti al Regno dello steffo Tarquinio Superbo
ultimo R e di R o ma. La principal ragione, che adduceľ Autor noitro per
abbreviare ilRegno di lui, e che abbraccia anche i Regni di Tarqui nio Prisco,
e di Servio Tullio, è questa. A c cadde,ei dice, che verso la fine del Regno di
Tarquinio Superbo, Sefto Tarquinio, e Tarquinio Collatino essendo a c a m p o
ad A r dea, vennero a contesa chi di loro avesse moglie più onefta; d'onde poi
nacque, c o m e ognun fa, il Consolato, e la libertà di R o m a. Ora questo
Tarquinio Collatino a quel tempo secondo le parole di Livio (8) era giovane, e
secondo lo stesso Autore era figliuolo di Egerio, a cui Tarquinio Prisco suo
Zio commise la guardia di Collazia Città novellamente acquistara (h) nella
guerra S a (8) Regiiquidem juvenes interdum orium conviviis comeslaf.
fionibusve inter fe terrebant; forte potantibus his apud (fratris hic filius
erat ) Collasiae in praefidio relictus bina, Sextum Tarquinium incidit de
uxoribus mentio & c. T. Liv. Dec. I. Lib.I. Cap. 22. n. 57. (1) T. Liv.
Dec. I. Lib. I. Cap. 15. n.38. Egerius } 1 3 1 1 bina, e ciò fu verso il principio del Regno
di Tarquinio Prisco, il quale viene a c a d e re fe non prima l' anno
centocinquanta se condo il computo comune della edificazione di R o m a.
Convien dire, ei soggiugne, che Egerio a quel tempo avesse almeno i suoi
quarant'anni, fe vogliamo crederlo atto a Costenere un carico di tanta gelosía,
come è quello di castodire una Città, di nuovo a c quisto, e se vogliamo, che
fosse nato, c o m e si h a d a L i v i o, p r i m a c h e Tarquinio Prisco
veniffe a Roma.Ma come può fta re, ei conchiude, che un uomo di quarant' anni
l'anno di R o m a centocinquanta avesse un figliuolo'ancor giovane l'anno
dugento quarantaquattro? Cioè quasi un secolo dopo, come non fi voglia dire,
ch'egli avesse fi gliuoli passati i novant'anni, il che merita va aver luogo
secondo lui tra le meraviglie della Storiadi Plinio,non traifattidiquella di
Livio. Pensa adunque l'Autor noftro, che s e vogliamo ritenere questa
discendenza de'Tarquinj, fa mestieri prendere ilpartito di accorciare i Regni
di Tarquinio Prisco, di Servio Tullio, e di Tarquinio Superbo, che occupano il
tempo, che è di mezzo tra il figliuolo, ed il Padre. Molte cose io potrei qui
porre sotto l. + (i)Collariae inpraefidio reli&us.T.
Liv.loc.fupra cita opera ucchio del lettore per isciogliere questa dif
ficoltà, come farebbe il dire, che non sifa precisamente il tempo, in cui sia
stata con quistata Collazia; che Livio Storico non trop po'accurato può esserfi
ingannato nel dire, che già nato era Egerio prima che Tarqui nio Prisco venisse
a R o m a, che la custodia d'una Città non era carica a que'tempi, per
esercitar la quale dovesse u n guerriero effer giunto all'età di quarant'anni:
tanto più trattandosi di un Zio, che una tal c u ftodia commette ad un Nipote:
perciocchè non essendo in quell'età le cose così rego late,come
a'dinostri,piùosservavasinegli uomini, i quali davano al mestier delle armi,la
bravura,elagagliardia,doti, di cui potea egli molto b e n e esser fornito alla età
di venti o venticinque anni che n o n il s e n n o, c h e a ' n o f t r i t e m
p i i n u n G o vernatore fi richiede, per fuppor ilqual sen no ci vorrebbe per
avventura più avanzata età. Potrei dire di più, che se vogliamo Itare alle
parole di Livio,da queste nonfi può dedurre, che la custodia della Città sia
Itata a lui principalmente come Capo c o m mesla (i), ma solamente che fu
lasciato di pre presidio inquella
Città dal Re fuo Zio.Por ter essere finalmente, che questo Collatino giovane
più non fosse, attesochè, per non far parola della poca esattezza di Livio,
questo Storico non dice precisamente, che giovanefosseCollatino,ma cheiRegjgio
vani passavano il tempo in conviti, mentre erano occupati in quella piuttosto
lunga,che viva guerra, 1 gliuolo sotto le quali parole di Regi giovani può egli
aver foltanto intesi i figli uoli del R e, e non Collatino, quantunque della
stessa famiglia, tanto più che dicendo egli dopo,che stando essibevendo
pressoSe sto Tarquinio, ove pur Collatino cenava, cadde ildiscorso sopra le
moglj (k), a me pare, che quelle parole ove pur Collatino cenava, dimoltrino,
che sotto quelle ante riori di Regj giovani non altri abbia volu to intendere
Livio fuor che ifigliuoli di Tarą quinio. M a comunque fiafi di ciò, s'abbia
per nulla il fin quì detto, concedasi essere impossibile, che Egerio abbia
potuto avere un figliuolo giovane al fine del Regno di Tarquinio Superbo.
Sappiasi adunque, che Dionigi (1) crede Collatino nipote,e non fie (k) Forte
potansibus his apud Sextum Tarquinium ubi Collatinus coenabat. T. Liv. loc.
cit. (1) Dionys, Halic. Lib. IV. pag. 261, L'ultima ragione, con cui
l'Autor nostro ftudiali di abbreviare il R e g n o di Tarquinio Superbo, e che
abbraccia anche quello del fuo predecessore Servio Tullio, ei la ricava da
questo. Tarquinio quando pervenne al Principato, avea secondo lui
sessantaquattro anni, a'quali chi aggiugne i venticinque che si dice aver egli
regnato, troverà, che era questi in età di Ottantanove anni, a l lorchè fu
cacciato dal Regno, la qual par ticolarità posto che vera,n o n sarebbe stata
passata dagli Storici sotto silenzio. C h e più, segue egli a dire, leggeli,
che il medesimo Tarquinio parecchj anni dopo che fu c a c ciato di Roma,
combatté a cavallo al L a go Regillo contra ilDictatorePostumio (m), ciò, che
verrebbe a cadere l'anno centefi m o circa della età fua, onde ei correrebbe la
giostra c o n un secolo sulle spalle,affurdo, prosegue egli, non punto
diffimile da quello avvertito da Luciano (n), che quella Elena, gliuolo
di "Egerio, ed in questa maniera con un colposolositagliailnodo. 1 i Per
cui l'Europa armolli,e guerra feo, E l alto imperio antico a terra sparse,
(m)T. Liv.Dec. I.Lib.II.Cap.11.11.19. (1) Lucian, in Somnio seu Gallo, quando
desto quelle si celebri fiamme i n petto a Paride già fosse coetanea di Ecuba.
suo. Lalcio io qui,d'avvertire, che a Tarqui nio Superbo si vogliono
torre que'vent'anni, iquali,come già sopra abbiam mostrato, gli dà di troppo
l'Autor noftro, onde per dirlo alla sfuggita, non avea egli da mara vigliarsi,
che gli Storici abbiano taciuta quella particolarità, che quando Tarquinio fu
cacciato di R o m a, già era pervenuto alla età di oitantanove anni. Quello poi,
che tronca ogni quistione per rispetto alla giornata del L a g o Regillo si è,
che Dionigi (o), ch'egli pure reca in mezzo a questo proposito, e non gli
presta fede, riprende quegli Storici, i quali narrano tal fatto, e dice doversi
credere suo figliuolo, e non lui medesimo esser quello, che fu,ferito com.
battendo contro ilDittatore Poftumio. O v? è da notare che anche facendo il
caso, che con sole congetture si dovesse scioglie re questo nodo, essendovi due
mezzi noti al nostro Autore per togliere l'inverisimi glianza,, cioè o di
abbreviare i due.Regni di Servio Tullio, e di Tarquinio Superbo, o pure di dire
non essere stato lui,m a il (0 ) D i o n y f. H a l i c. L i b. V I. p a g. 3 4
9. Si dà risposta a varie opposizioni. Chiaro Hiaro ora resta
abbastanza, che le in. verifimiglianze raccolte dal Conte Algarotti, s'altri le
viene minutamente osservando,non fuo figliuolo quello, che ritrovossi
alla giord nata del Lago Regillo, il nostro Autorem prende piuttosto il primo,
cioè quello, che favorisce l'opinion sua, quantunque a m m e t ter non si possa
per modo nessuno, quando si sa, che Dionigi, il quale avea con tan ta cura
studiati gli antichi Storici Latini, e che se non altro fu tanti secoli più
antico del Conte Algarotti, Dionigi in s o m m a così diligente nel fiffar le
epoche, stima più prudente partito prendere il secondo. La scio ora pertanto
decidere da chi diritto ragiona, se tali fieno i motivi addotti dallo Autor
noftro, che si debba pure accorciare il Regno di Tarquinio Superbo,o se piut
tosto,come ioavviso,non resistanoalla autorità degli antichi Storici, e debbano
c a dere a terra come damento, del tutto privi di fon fon folamente non
sono valevoli a mandare in rovina la Cronologia comunemente ricevuta, m a nè
pure hanno forza per ispargervi fo: pra alcuna ombra di dubbietà,nè efferne
cessario ricorrere a quel suo ripiego di a b breviare pressochè della metà la
durata de' sette Regni per conciliare la giovanile erà di Romolo colle grandi
cose, ch'egli ope To, e l'età di N u m a colla sua esalcazione al Trono. Nè
secondo quello, che abbia m o osservato, l' u o m o indugia troppo cogli
ftimoli della vendetta, e dell'ambizione a fianco anzi lungo spazio di tempo
non ba fta ad estinguerli; nè quella gagliardía,che trovar non si può nella
vecchia età, avvien che vi si trovi, onde senza negar credenza, com 'egli
pretende, a' più gravi Storici dell' antichità in cosa, in cui tutti convengono,
quale si èla duratade'fette Regni,torna ogni avvenimento (per servirmi delle
stesse fue parole in contrario senso ) nell' ordine naturale delle cose.
nolo. 1 Del resto si dee avvertire, e di fatticre do, che ognuno avrà avvertito
quanto d e boli, e leggiere fieno le inverisimiglianze ed assurdi,dicuiservisli
ilnostro.Autore per distruggere la durata de'mentovati R e gni, e venire a
confermare il Sistema Cronologico del suo Filosofo. Q u a n d o altri nes gar
vuole la verità di un fatto attestato da gravi Storici per folo glianze, o
contraddizioni, queste devono ef ler tali, che ammesse per vere il fatto al
trimenti fufliftere non pofsa: perciocchè è legge dellaPoesia,non della
Storia,ilnarra re soltanto cose verifimili.La.Storiaècon tenta di narrar cose
vere; e quante cose, a v vegnachè vere inverisimili ci pajono per una minuta
circostanza o smarrita, o di cui non pensarono gli Scrittori di far menzione,per
un costume, per una legge, per una fog. gia particolare di vivere, di cui come
di cose a'contemporanei loro notiffime, n o n istimarono dover far parola? In s
o m m a molte volte assomigliar potrebbefi la Storia ad una macchina, la qual
produca maravigliosi ef fetti, e i di cui ordigni sieno ignoti. Tali dicono
essere i nostri orologi per rispetto a’ Cinesi,e noinondirado,inispecieinquan.
to allaStoria,laqual'èo da’tempi,oda? paesi nostri lontana, fiamo nel caso loro.
Ecco adunque,che leguate n o n fi fossero le inverisimiglianze i m maginate
dall'Autor noftro, sono queste si deboli, che come saette vibrate contro una
motivo d'inverisimi quantunque eziandio di falda armatura, ben lungi di recare
alcuna offesa, offesa, cadono effe medesime infrante a terra, chę E
appunto per iscogliereil nodo, ch'egli benissimo vedea, ch'alori gli avrebbe
potu to mettere innanzi agli occhi, vale a dire per qual ragione egli opponesse
alcuni fatti, in cui discordano gli Storici alla durata di tutti i sette Regni
tolti insieme, ed alla d u rata di ciascheduno in particolare, in cui sono a un
di presso di un medesimo pare re, ei dice, che la memoria de'fattidovet te con
più sicurezza essere conservata dalla tradizione, che non fu da quante volte,
mentre quelli avvennero tornato un Pianeta al medesimo sito del Cie lo; la qual
risposta io non so, se basterà per appagare chi considera alquanto adden tro
nellecose; perciocchè a me pare noti zia non meno importante,e degna di esse re
dalla tradizione, e dagli Scrittori a' p o steri trasmessa il numero degli anni,
che occupòilTrono un Principe,diquello,che fieno molti fatti, a cui presta
l'Autor n o ftro intera credenza. N e aveano i Romani bisogno di troppo fortili
astronomiche culazioni, come pare, ch'egli accennar v o glia,per sapere di
grosso, quando terminal le,eprincipiassel'anno.Ed unaprova, che questa
tradizione del numero degli anni, i essa trasmessa sia {pe ' epoca
di molti de principali fatti, non si sia notato però l'anno preciso, in cui
segui ciascun fatto. O v e è da riflettere che lo stesso noftro Autore dicendo
non ef fere da credere, che gli Storici sapessero quanti anni sieno trascorsi,
mentre andava no fuccedendo i fatti, è forza,che ammet guerra di Romolo
con lo veramente credo poi, che quantunque tenuto fi sia registro non solo del
numero degli anni, che durarono i Regni de'Re di Roma, ma ancora del Regno di
ciascun. R e, e dell ta, che abbia regnato ciascun Re, e per con seguente della
somma di tutti isetteRegni, inratta conservata fi fia, si può dedurre da quella
ammirabile concordia degli Storici nella Cronología, concordia, la qual non si
vede certamente ne'fatti. che non sapesser nè pure l'anno preci fo, in cui
questi avvenimenti seguirono. Ora con questa sua sola concessione viene a ro
vinare buona parte delle ragioni, ch'egli apporta per abbreviare ciascun R e g
n o. E d in fatti quante volte non fi serve egli di epoche di avvenimenti
minuti, e per lo più; registrati soltanto da un Plutarco, per ritro var
ripugnanze nell'antico Cronologico Siste ma, come sarebbe,per recarne alcuno
esem pio, l'epoca della tro e del diverse guerre; tempo Approssimandosi
l’Autor nostro al fine del suo Saggio, reca altra prova contro l'anti co
Cronologico Sistema,e ben sivede,che avendola riserbata in ultimo, ei crede,
che dia questa l'estremo colpo, e il nodo del tutto recida. Questa prova, ei
dice, è c a vata dalle generazioni di uomini, le quali tro i Camerj, che è in
Plutarco, l'epoca del matrimonio di Tazia con N u m a, che trovali presso lo
Iteffo Storico, come anche il precito numero d'anni, che vissero insie m e, il
q u a l p u r e è r i c a v a t o d a l l o e s a t t o r e giftro, che il
medesimo Plutarco ne tenne, per non parlare de cinque anni nè più nė meno,che
avea Anco allamortediNuma e degli anni, in cui seguirono precisamente della
nascita di Egerio, ch'egli raccoglie da Livio. Le quali epoche tutte oltre
all'essere tratte la maggior parte da Plutarco o da Livio, credulo il primo,
Itraniero, e lontanissimo da'tempi,poco accurato l'altro,non dovea no per
nessun modo addursi da lui, come quello, che pretendea non aver la tradizio ne
potuto tramandareepoche di troppom a g gior rilievo, che queste non fieno, e c
h e sono da tutti i più gravi Storici ammesse per vere. fono i2
sono indicate dagli Autori nella Storia dei R e diRoma,le
qualigenerazionidice,che con vincono di falsa la loro Cronología quanto alle
durate de'Regni. Nella vita di R o m o lo,ei segueadunque, liha,cheOttilioAvo
lo di Tullo Ottilio mori nella guerra contro a'Sabini, la qual fu ne'primi anni
di R o ma,iRegni pertanto,eiconchiude,diRo molo, di Numa, e di Tullo Oftilio
non si stendono più là, che il tempo razioni.Da Numa ad Anco Marzio,ei se gué,
ci è una generazione sola, perchè l' uno era Avolo dell'altro; dal che seguita,
che la generazione tra Numa, ed Anco coincidendo col tempo di Tullo Oftilio, ci
fia l'età di un uomo qualche anno più o meno da Tullo al fine del Regno di
Anco. Onde dal principio del Regno di Romolo allafinediquellodiAncocorrono
datre generazioni. Lucio Tarquinio Prisco, p r o legue egli, uno de'Lucumoni
dell'Etruria, viene a Roma uomo maturo sotto ilRegno di Anco, de cui figliuoli
fu instituito tuto re: e però l'età di Tarquinio convenendo con quella di Anco,
non resta che una. e fola generazione tra il Regno di Anco il Regno di Tarquinio
Superbo figliuolo del Prisco. Talchè, ei conchiude, dal principio di due
gene del del Regno di Romolo alla fine di quello di Tarquinio
Superbo fi contano quattro sole generazioni in circa, e non più. Ora som mando
insieme gli anni di quattro genera zioni, che corrono durante ifetteRe diRo. m
a fi hanno cento trentadue anni; poiché una generazione di uomini trentatré
anni. E fommando insieme gli anni di ciascun Re, secondo il computo di Livio,
fi hanno d u gento quarantaquattro anni; e vi ha più di un secolo di differenza
tra due risultati, che pur avrebbono ad essere uguali.D'altra par te facendo,
che tocchi a ciascun R e l'uno ragguagliato coll'altro diciannove anni di R e
gno, come vuole il Neutone, fi ha cento trentatré anni, e tra questi due
risultatinon corre differenza niuna. di comune sentimento vengono dati a
9 fSin quì il nostro Autore. Io per rispon dere a questo lungo ragionamento
prima di tutto voglio concedere, che quattro fole g e nerazioni fieno corse da
Romolo insino a Tarquinio Superbo: perciocchè ciò si riduce finalmente a dire,
che durante i Regni dei serte Re, quattro uomini in tutto ilR o m a no popolo
ebbero prole un dopo l'altro di sessanta e un anno. Ora farebbe poi forse
questa impossibilità tale fisica, per cui non i3 fi dovesse più
prestar fede agli Storici delle antiche memorie de'Romani? Ma,suppo sto (quello
però, che in nessun modo con cedere fi può ) che questa fosse inverisimi
glianza tale, per cui sipotesse negar cre denza alla Storia, s'è forse l' Autor
nostro bene assicurato, che, non uscendo da quelle persone, di cui egli fece
scelta per fissare le generazioni, quattro soltanto corse ne fie no pendente il
Regno dei sette Re? Dio nigi (a) attesta pure, che Tarquinio S u perbo fu
nipote, e non figliuolo di Tarqui nio Prisco?Questo accuratissimo Storico d o
po aver fatto parola di molti assurdi, che ne seguirebbono, fe figliuolo, e non
nipote ei fosse di Tarquinio Prisco, fi afforza colla autorevole testimonianza
di Pison Frugi, il qual solo tra gli Storici affermò questa cosa. Nè
mancadiaccennarequello,cheperav ventura fu cagion dello sbaglio: poichè dice,
che dall'essergli nipote per natura, e figli uolo per adozione fieno stati
forse gli altri Storici ingannati. Nè giovaildire,comefal'Autornoftro, che la
contrarią opinione cioè, che figliuo lo fosse questo Re, e non nipote di
Tar qui (2)Dionys,Halic.Lib.IV.pag.211,213,
13 S parte (6) Hic, L. Tarquinius
Prisci Tarquinii Regisfiliusneposre fuerit parum liquet:pluribus tamen
auctoribusfiliumcreg diderim.T. Liv,Dec. I.Lib.I.Cap.18.n.46. 9 In quanto
a Collatino poi, quà di nuovo addotto dall'Autor nostro p e r confermare il 2
fuo di numerare in quegli arcaismi come le autorità, contentofli e non si fece
a pesarle il diligente sciando da Dionigi. In secondo luogo, la perder tempo ľ
autorità di Dionigi, la quale, com ' è palese, è molto più da segui re, che non
sia quella di Livio, ben diver sa è la maniera di spiegarsi dei due Scrit cori
intorno a questo affare,l'uno ne tocca alla sfuggitą, l'altro vi si ferma,
ragiona reca latestimonianza di uno de'più antichi Storici, e sappiglia a
quella opinione, la quale sia per lo credito, che ha all'Auto re fia per,
quinio Prifco fu opinione dei più, ed opi pione abbracciata da Livio medesimo;
d o vendosi in primo luogo riflettere alla m a n i e ta, con cui Livio
s'esprime, vale a dire, che questo punto era assai all'oscuro, che egli
peraltro seguendo i più credevalo figliuo lo (6); il che dimostra aver egli
benissimo veduta la difficoltà, m a che non volendo, come sopra abbiam notato
lo contesto di tutta la Storia, gli pare più sicura. is suo Sistema,
già sopra abbiamo osservato raccogliersi dallo stesso Dionigi (c), che n i pote
era, e non figliuolo di Egerio. Ciò posto ne viene, che senza uscire da quelle
persone, di cui egli osservò le generazioni, non quattro, m a cinque numerar se
ne debe bono d a Romolo inlino a Tarquinio Super bo: onde se aver non si dovea
per assurdo tale da negar fede alla Storia l' essersi ritro vare quattro
persone in tutto il popolo R o m a n o le generazioni, di cui fossero di fef
santa e un anno, tanto meno dovrà parer ripugnante, che cinque susseguite ne
sieno, ciascheduna delle quali uguagliatamente non oltrepassi i quarantanove
anni. (.)Dionyf.Halic.Lib.IV.pag.2619 que 3 M a dirà il nostro Autore,
che ad una generazione comunemente si danno soli tren tatré anni, laonde n o n
si può essere così largo, e concederne a ciascheduna di q u e Ite quarantanove.
Qui mi convien prendere d'alquanto più alto i principi, e si verrà a conoscere,
che quelle generazioni, a cui comunemente fi danno trentatré anni, o secondo
altri tren tacinque,non sono della specie di quelle osa servate dal nostro
Autore. Vediamo adun q u e quali fieno quelle, a cui diedero tal nu: mero
di anni i Cronologi, e verremo in chiaro, fe tali fieno le osservate da lui.La
Cronologia, come tutte le altre facoltà,dee seguir la natura, come maestro fa
ildiscen te, per dirlo alla Dantesca, e pure è che collo.Specularvi sopra molte
fiate,in luo go diavvicinarsiaquellaaltrilafugge,e gli ultimi passi sono quelli
c h e riconducono a lei nella vero, L e generazioni pertanto, che
fiffarono i Cronologi circa a trentatré anni, sono quelle, che generalmente si
osservano in un lungo spazio di tempo nella maggior parte famiglie di una
nazione;laonde, fe fiof servano in una sola, o poche famiglie, a n che per
lungo tempo questa osservazione, non è più fattasecondo la regola, che general
mentela maggior parte abbraccia:percioc chè, se nella maggior parte delle
famiglie sono uguagliatamente le generazioni di tren tatré anni,potrebbe
succeder benissimo, che fi ritrovasse una famiglia, od anche diver se, in cui
queste foffero o più lunghe, più brevi. Se poi non si osservassero in un lungo
spazio di tempo, riuscirà ancor più agevole il ritrovarne. M a le generazioni,
di cui servifli il nostro Autore, nè corsero delle - nella maggior
parte delle famiglie, nè in lungo tempo, anzi nè pure in unasola fa miglia,
essendo composte di diverse perso ne d i varie famiglie. Certamente se si fa un
Cronologo ad osservare per tal modo le generazioni, ben tosto fisserà la regola
ge nerale di queste a settanta e più anni, per chè in un notabil tratto di
paese popolato iopenso,chenon passisecolo,senzachèfi veda uno, o forse più
uomini, che di tale età hanno prole. Lo sbaglio in somma del Conte Algarotti
consiste nello aver presa la regola d a quello che suole generalmente avvenire,
gli esempj da ciò, che in pochi succede,ed aver pensato, che que'casipar
ticolari sotto la general regola cadessero, o n de la Cronologia degli Storici
delle cose de? Romani sottoi R e s'opponesse a quella legge, che osservaro
aveano nella natura i più periti Cronologi. Nel che quanto sia a n dato lungi
dal vero credo d'aver fatto ba ftantemente palese. Due ragioni reca ancora
finalmente l'Au tore in difesa del Sistema del Neutone,cui è necessario
rispondere innanzi di por fine a quelte nostre osservazioni. La prima fiè, che
tal Sistema discolpa Virgilio esattissimo Poeta, ci dice, da quello anacronismo
i m putatogli volgarmente per conto
de'tempi, in cui vissero Didone, ed Enea. La secon da, perchè giustifica quella
comune tradi zione tenuta in R o m a, che N u m a foffe fta to uditor di
Pitagora. Ora per rispondere alla prima, questa. ammetter fi dovrebbe senza
dubbio veruno qualora fosse stato Virgilio tenuto a soddi sfare alle leggi
della verità storica;ma non fa mestieri ricordare, che da tali leggi sciolti
sono i Poeti.Raro è quel vero, che non abbia bisogno del finto per aggradire ai
più, e se non inftillano virtù, col dilet tare mancano i Poeti al principal
fine dell' arte loro; tanto più, che fecondo quello che pensa il dotto P.
dellaRue (d),non per ignoranza delle antiche Storie, m a per dar ragione
de'famosi odj, i quali si lungo tempo fra' Cartaginesi, e la Nazion suam
durarono, e per introdurre quel patetico, che tanto piacque, come ce ne
assicura Ovidio (e), a'suoi contemporanei, e tanto è degno di piacere ad ogni
età,e ad ogni popolo, non ebbe difficoltà di commettere (4) Ruaeus in
not.ad.Arg.Lib.IV.Aeneid. quell' Ovid. Trift. Lib. II. Eleg. I. v. 535.
Nec legitur pars ulla magis de corpore toto. Quam non
legitimofoederejunétus4mor, quell'anacronismo. S'aggiunga, che que
ito anacronismo non era tale che facil mente potesse venire scoperto dalla
comune de'Leggitori, da'quali soltanto balta, che non vengano scoperti gli
errori storici dei Poeti: perciocchè correa fama fecondo A p piano (f), che
Cartagine fosse stata fonda ta alcuni anni avanti all'eccidio di Troja da una
colonia di Fenici, presso i quali poi ricoverossi dopo lungo tempo Didone, del
che non lascia Virgilio didarne qualche cen nei? Appian. apud Ruaeum cit.
loc. no, > onde trattandosi di tempi assai lontani dalla età di Virgilio,
questo rumore basta va per render tale la finzione, che non fof se la verità ad
un tratto conosciuta,e vinta a terra cader dovesse la invenzione di lui. Ma
abbreviando della metà iltempo,che durarono i Regni de'Re di Roma viene forse a
nulla cotesto anacronismo? E che fa rebbe, se il nostro Autore inutilmente ado
perato fi fosse, e che anche togliendo pref so che la metà degli anni dalla
somma di tutti quelli, che corsero sotto a'Regni dei fette R e, non si venisse
con questo a ren der probabile in alcun modo, che Enea, e Didone potessero
essere stati contempora Tre secoli e più corsero,secondo gli an
tichi Scrittori, dall'incendio di Troja alla f u g a d i D i d o n e, c o m e o
s s e r v a r o n o il d o t t o Petavio, e l'erudito Commentator di Vir gilio
della Rue (g): ora da trecento e le dici anni (che tanti ne corlero fecondo il
Petavio dall'eccidio di Troja alla fondazion di Cartagine ). togliendone cento
e undici, come piace all'Autor noftro,vale adire facendo venire Enea in Italia
cento undici anni più sardi, rimangono nulladimeno d u gento e cinque anni di
svario. Laonde é chiaro, che nè Virgilio abbisogna della di fesa del nostro
Autore, nè, quand' anche ne abbisognasse, sarebbe questa bastante per do
(3)Petav.Rationar.tempor.Parte I.Lib.II.Cap.IV. Cartagofundata dicitur anno
posttemplum incoatum144. qui est annus poft Trojanam calamitatem 316. Ruaeus
loc, supracis. te svanire l' anacronismo da lui commesso. fa nei? Sia adunque egli pur certo, che cote fto
fuo ripiego nontoglie, ma soltantosmi nuisce l'anacronismo di Virgilio; che
anzi questo rimane peranco maggiore di due le coli. N è soltanto vuole il Conte
Algarotti, che fia alla più esatta verità conforme ciò,che si legge in un
Poeta, purché in alcun m o anno > che comunemente credefi
centesimo undecimo dalla fondazion di Roma,alprin cipio del Regno, di cui già
dovea effer giunto N u m a al quarantesimo primo della età fua (se pur vogliamo
seguire ical coli dell'Autor nostro, il quale dando diciannove anni circa di
Regno a Romolo faprincipiare il suo Regno aNuma giàvec chio di sessant'anni ),
e fissando d'altra p a r te, come già sopra abbiamo osservato, le condo la
mente di lui, la venuta di Pitas gora anno soli do favorir possa il suo
Sistema; ma preten de eziandio, che maggior credenza prestar fi deggia ad una
popolar voce,laqualtor na in avvantaggio della opinion sua che a'più rinomati
Storici dell'antichità. Già abbiamo sopra veduto il suo parere circa all'essere
stato Pitagora contemporaneo anzi Maestro di N u m a, ora adunque a confer mare
vie più ilsuo Sistema,lorecadinuo vo in mezzo quasichè ridondar debba in
avvantaggio di questo il porgere, che fa fa vorevole interpretazione a d u n a
tale p o p o lar voce. Avendone però già altrove fuffi cientemente favellato,
non mi resta altro da aggiugnere, se non che, anche fiffando il principio del
Regno di Romolo secondo lo intendimento del nostro Autore, a quello
Queste sono le riflessioni, le quali, fecon do
quello,ch'iopenso,chiaramentedimo streranno, che il Conte Algarotti cadde trat
to dal suo Filosofo in errore. Se parranno per avventura troppo più lunghe di
quello, che neceffario fosse, gioveràin primo luo go considerare, che bastano
poche parole per mettere una cosa in dubbio, m a effer forza per iftabilirne la
certezza ricorrere a' principi, onde riescono sempre le risposte più lunghe
delle opposizioni; in secondo luogo, c h e ho stimato dovermi fermare alquanto
in torno a certi punti, i quali oltre allo influi re nella materia, che per me
trattar fi do vea, poteano essere forse non del tutto inu tili per chiarir la
Storia di quella prima età di Roma. Che gora in Italia circa a quello
anno, che giu dicasi dagli Storici dugentefimo quarantesi moquarto diRoma,
virimaneciònon ostan te un anacronismo di cento trentatré anni tra la venuta di
questo Filosofo in Italia, ed il tempo, rendere in cui Numa-già era perve anno
della età sua; o n de il Sistema del Neutone non può nè pure nuto al
quarantesimo Pitagora, e Numa contemporanei, come non può affolvere Virgilio te
dall’anacronismo interamen di Didone, e di Enea. 1 1 1144 RAGIONAM.
CONTRO IL CONTE Che se,come fpero,mi è riuscitodifar vedere l'inganno del Conte
Algaroiti, sarà questa una novella prova di quanto sia in tralciato il cammino
del vero, quanta 1 sia connesso, ed unito l'errore: collo inge gno umano,
poichè gli uomini fommi non tralasciando desser uomini, in tutto spogliar non
se ne possono. La più bella discolpa del resto che addur si possa in difesa di
lui, îi è il dire, che fe pur s'ingannò, s'ingan nò seguendo un Neurone.
L'opinione del Newton fu sostenuta in Italia dal conte Algarolti in un suo
saggio sopra la durata de're gni de'Re di Roma,scritto nel 1729,cioè due anni
dopo la morte di Newton e un anno dopo la pubblicazione del libro di
lui!.Ora,in questo suo saggio l'Algarotti lascia poche censure intentale contro
la cronologia dei primi due secoli e mezzo di Roma,procurando di provare in
particolare come non fosse succeduto davvero ciò che per una ragione generale
il Newton aveva affer malo che non era potuto succedere.Ilsuo fondamento è
soprallulto Livio; e in secondo luogo Plutarco, non
1Ilsaggiodell'Algarotttisitrovanelvol.IV dellesueopere (Cremona
1779),p.106-138.Ma laristampachequivi n'è fatta non è in tutto conforme
all'edizioni anteriori,delle quali ioho la seconda, Firenze 1746, presso Andrea
Bonducci; e dico la seconda perchèl'editoreinunaletteradidedica
all'illustrissimosig.cav.An tonioSerristorichiamaquestaunaristampa,enonpuò
esservistata, se non una sola edizione prima, perchè una lettera dell'Algarotti
allo Zanotti, che precede il saggio, è del 24 dicembre 1745, e da essa appare
che il saggio non fosse stato stampato prima. In questa lettera l’Algarotti
dice appunto di averlo scritto oramai sedici anni passati,quando dava opera
alla Cronologia sotto la scorta di quel lume vero d'Italia, Eustachio Manfredi,
e che non vi avrebbe più riguardato,«sevoinonmiavesteeccitatoainandarlovicome
fate»; e se n'era distolto, perchè « distratto da mille altre cose, e gli
pareva,che non fosse da moltiplicare in iscritture e in istampe intorno a cose
già trattate,benchè in modo diverso dal mio.» Que g l i il q u a l e a v e v a
t r a t t a t a q u e s t a, e r a u n I n g l e s e d i c u i n o n d i c e il
nome,ma di cui gli aveva dato notizia,in un suo viaggio in Inghil t e r r a, il
s i g. C o n d u i t, e r u d i t o g e n t i l u o m o i n g l e s e e d e r e
d e d e l N e w t o n, quello stesso che ha scritto una lettera di dedica alla
Regina, messa avanti alla Cronologia.Lo scritto dell'Inglese doveva esser pub
blicato in fronte d'una storia Romana. Non so chi fosse. E. M a n fredi scrisse
gli « Elementi della Cronologia con diverse scritture appartenenti
alCalendarioRomano.» Furon pubblicatiinBologna nel
1744.Egliaccettaladatavarron.dellafondaz.di Roma,01.6,3. 1.- LAMONARCHIA.
51 riferendosi a Dionisio mai; anzi confessando di non avere lello
se non idue primi'.Ora,ilsuo assuntoé che i fatti che Livio racconta dei Re,non
s'accordano col numero d'anni che questi,secondo lui stesso,avreb. b e r o r e
g n a l o. Il c h e p r o v a, m o s t r a n d o p e r R o m o l o, q u a n t a
parte del suo regno resti vuota di avvenimenti,e quanta
sial'inverisimiglianza,che,a17anni,ch'è l'etàincui si dice cominciasse a
regnare, desse già segno di tanta prudenza civile e virtù di guerriero, quanta
gli se ne attribuisce; per Numa,che dovesse,poiché eletto per la fama sua e per
avere avuto in moglie Tazia, essere asceso sul regno a sessant'anni; per Tullo
Ostilio ed Anco Marcio, che dovessero aver avuto più breve re gno,di 32 anni il
primo, di 24 il secondo,se dev'es. sere vero, che i figliuoli di queslo, il
quale aveva, a detta di Plutarco, cinque anni alla morte di Numa, non fossero
ancora maggiorenni alla sua,cioè quando Anco avrebbe avuto sessantun anni; per
Tarquinio Prisco, che non può avere regnato trenlolto anni, se dev'essere stato
ucciso per opera de'figliuoli di Anco, attentato da giovani, ancora freschi del
torto ricevuto, e non da uomini di cinquant'anni quanti ne avreb bero avuto
alla morte di Tarquinio dopo cosi lungo re gno, anche supposto che non ne contassero
se non soli dodici alla morte del padre; per Servio Tullio,che a i Cosi dice
nella lettera allo Zanotti, secondo sta nell'ediz. del 1726;ma non è ripetuto
in quella dell'edizione del 1779,che è variata anche in altri punti. E di fatti
in questa seconda edi zioneècitatoDionisio,lib.VI,permostrarecome questi,accor
gendosi dell'impossibilità, che Tarquinio Superbo assistesse egli stesso alla
battaglia del Lago Regillo, vi fa invece assistere il
figliuoloTito.Però,anchecosi,lostudiodell'Algarotti resta,come prima,poggiato
tutto sopra Livio e Plutarco. dargli quarantaquattro anni di
regno,Tarquinio Superbo, ilqualeeragiàingradodimenar mogliealprincipio
diquello,non avrebbe potuto a sessantaquattro anni opress'apoco ucciderlo nel
modo che si racconta; per Tarquinio Superbo infine,che Tarquinio Collalino non
avrebbe potuto essere giovine alla fine del regno di lui, poichè egli era
figliuolo di fratello,se il suo cugino avesse avulosessantaquattro anni al
principio del regno stesso; e che, se questi n'aveva tanti allora, n'avrebbe
avuto ottantanove, quando su sbalzato dal trono, e cento alla battaglia al Lago
Regillo dove avrebbe combattuto a ca vallo,e sarebbe poi morto, si può
aggiungere, di cento trèanni.Sicché l'Algarotti crede che questi regni si debbono
accorciare lulti, se la storia di ciascun Re si deveaccordarecolladuratadel
regno.E di quanto biso gni accorciarli,egli lo trae da un'altra considerazione,
cioè dal numero di generazioni, intervenule durante la monarchia.Queste,egli
dice, non poter essere state se nonquattro:poichèiregnidiRomolo,diNuma ediTullo
Ostilionon siestendono più di due generazioni, stante
chéOstilio,avolodiquest'ultimo,ècontemporaneo di Ro molo;un'altra generazione
richiede il regno di Anco, che è vissuto la maggior parte di sua vita durante
il regno di ullio; ed un'altra, i regni di Tarquinio Prisco. di Servio Tullio e
di Tarquinio il Superbo, poichè il primo ha del pari vissuto la maggior parle
di sua vita durante il regno di Anco. Sicché contando ciascuna generazione per
trentatré anni,la durata della monar Chia sarebbe stata di centotrentadue
anni,e ne tocche rebbero a ciascun Re, l'uno ragguagliato con l'altro,
diciannove. Sopra la durata de'Regni DE RE DI ROMA. Gli è una neceffaria
conse guenza delSistemacronolon gico del Neutono abbrevia re considerabilmente
i regni de' sette Re di Roma, a ciascun de' quali agguagliatamentegli Storici
danno trentacinque anni di regno, mentre il comun corso di Natura secondo le
offervazionidel Filosofo, non ne concede loropiù di diciot to o di venti. La
qual conseguen za separesse stranaad alcuno,pur dovrà meno parerlo a chi
risguar derà, che gli Archivi di Roma perirono dalle fiamme nel tempo che E
15 Ma noi (chiarati anco in questa parte dalle of (1) Plut,inNuma
in principio p. 59.ed.Grecolat,Francofurti 1620. 16 che iGalli occuparono
quella Cita tà(1),onde gliStoricinonebbę. ro dipoi alrro fondamento di quel lo
scriveano, se non se la tradi zionevaga ed incerta,ch'era ri masa delle cose
passate Talmente che ritenendo esli i nomi de'Re e registrando le azioni di
quelli che tuttavia duravano nella m e moria degli uomini, fecero una
Cronologia a modo loro. E questa Cronologia allungandola più del dovere,
poterono in quella incer tezza fatisfareaquelnaturale ap
petitocosidelleFamigliecome del le Nazioni, di cacciar le origini l o r o il p ị
ù i n d i e t r o c h e p o s s o n o n e l la caligine del tempo. (1).Come
Livioscrivechenonera ra.DanteInf.29: offervazioni del Neutono,possiamo
rimettere le cose al debito ordine nella serie de'tempi, e ciò fare mo non in
altro modo che aflog gettando i Re di Roma a quelle comunileggi
diNatura,allequa li ubbidiscono nelle Tavole cro nologiche tutti gli altri Re
della Terra.Pur nondimeno questa par c o f a d u r a a m o l t i c h e si d e b
b a f r a n ger,dicono efli,l'autorità di Sto ricichenonerrano(1),echevo gliano
uomini di jeri giudicar m e glio degli antichi di cose passate
tantisecoliavanti.A questiioin tendo di ragionare;e perchè ilN e u tono nella
fua Cronologia non fa al tro che accennare così in generale la detta quiftione,
io intendo d i fputarla con alcune particolari ra gio B 17 gioni,e
quefte derivate appunto da quegliStorici,dell'autoritàde' quali e'fanno sì gran
caso, e maffi-. me daTitoLivioPadre diRoma na Istoria.Nel che io mostrerò, che
avolerritenere ifattida efio lui riferiti, egli è forza rigettar le epoche da
esso affegnate 'a quelli, come non sivogliaammettere(che niuno ilvorrà) certe
irragionevo lezze da non ammettersi,che na scono da'suoi raccontimedefimi, e da
quella sua Cronologia, 18 E prima diognialtracosa io metterò innanzi una
Tavoletta de' regnidiquestiRe distesagiustal' oppinioncomune la qualeporrà
fotto l'occhio in un tratto l'anti co Sistema,eserviràameglio in tendere
ilseguente Ragionamento. T4, VII.TarquinioSuperbo 44 219 11.
Numa muore dopo un regno di anni 38 III. Tullo Oftiliom u o IV.AncoMarziomuo 43
81 32 113 38 24 redopounregnodi anni 137 V. Tarquinio Prifco muore dopo un rem
gno di anni Tulliomuo ·redopounregnodi - anni 1 TavolaCronologicade' anni anni
RediRomasecondor de' ab oppiniondiTitoLivio. Regn.V.C. 1.Romolo muore 37 37
Interregnodiun'anno Í è cacciato da Roma dopounregnodianni 25 19 re dopo un
regno di anni DO V i. Servio Ba 175: 244 Dove non sarà fuor di
propofi to avvertire quello che avverte lo stelloNeutono(1)comedaltem poincui
laCronologia cominciòad ellercertaedesatta,non sitrovain tutta laStoria pure
un'esempio di sette R e, i più de'quali furono a m mazzatied uno deposto,che ab
biano regnato dugenquarantaquat tro anni senza interruzione veruna. Ma
venendoalparticolare, e in cominciando da Romolo, i fatti di questo Principe
dopo il ratto del ledonne,primacagione delmet tersi in arme (1).Nella
Cronol.p.137. dellaE 20:) furono le guerre contro i?Sabini, che ripeteano
le donne loro,e.leguerrecontroal cuni popoli per gelosia d'imperio.
Plutarconedà l'epoca della pe nul-, diz, Franzese 1728. giuri
sdizione,laqual Fidene era stata soggiogata da Romolo innanzi Ca merio. Il che
ne somministra assai pro (α)και την πόλιν ελών, τοίς. μεν ημίσεις των
περιγενομένων εις Ρώμην εξώκισε,τών δ'υσομερόν- τωνδιπλασίους έκ Ρώμης κατώ
κισεν εις την Καμερίαν Σεξτιλίαις Καλάνδαις.τοσύτοναυτώ περιήν πολιτών
εκκαίδεκα έτησχεδον οί κάντι την Ρώμην. 21: nultima di queste guerre che
fu c o n t r o i -C a m e r j, l a q u a l e e p o c a c a -, de nell'anno
sedicesimo della edi-, ficazione di Roma,e del Regno di Romolo (1). E dopo
questa e gli non imprese altraguerra se non contro iVejenti, chemoslero cono
tro i Romani domandando la resti tuzion diFidere,come di,Città che
siapparteneva alla loro Β3 22 probabile argomento di por questa ultima
guerra guerra l'anno decimofetti mo della edificazion di Roma o là in quel
torno, non essendo punto verisimile che i Vejenti domandaf sero la restituzione
di cofa tolta troppo lungo tempo avanti; tanto più che siccome era rozza.a quei
di l'arte della guerra,rozza altresì era quellade'Manifesti.Stando a (1) In
Rom. in fine p. 37. Id. inNuma in princip.p.60. dunquecosìlacosa,cioè che l'ul
tima guerra fatta da Romolo cadel senel'annodecimosettimodelre gno suo, e
facendolo regnare tren totto anni,comedicePlutarco(1), ne rimarrebbe uno spazio
di ven tun'anno in bianco, voglio dire tuttopacifico e quieto, e con verria
dire che sotto il reggimen to A questeparticolariragionidi
abbreviare il regno di Romolo se ne aggiugne un' altra non meno ftringente
tratta da Plutarco, fe condo cui egli deveaver comin B4 cia 23 to diquel
Re fosserostatiiRom mani molto più tempu in non in guerra; il che non accorda
punto con quella indole bellicosa che tutti gliAutori ad una voce danno al
fondatore di quello Iinperio. N e ciò accorderia pure con quelle pa role che
Plutarco mette in bocca á Numa, il quale per rifiutare il Regno offertogli
dalRomani,dice che si convenia loro un Condot tierod'esercitoanzicheunRe per
cacciare que' potenti nimici che Romolo avea lasciato loro in sulle braccia
(1). pace che. (1) Plut,in Numa p.63.; (1)Id.inRom.infine 77 24
ciatoaregnareinetàdi anni di cialette, dacchè egli è morto di anni
cinquantaquattro secondoi computi di quello, e ne à regnata trentotto (1). Ora
come sipuò egli mai conciliare con una età cos sì tenera quelle tante cose che
fa cea costui secondo lo stesso Plutara co,perlequalisivoleaunaetà più
gagliarda,e più ferma?Egli eccellente ne'consigli e nella civil prudenzá mostrò
moltepruovedel suomirabileingegno inoccasiondi trattar co' vicini, attendeva
agli ftudidell'artiliberali;fi esercita vanellefatiche,nellecacce delle
fiere,nelperseguitare gliaffaslini, nel purgar levie da'ladroni,e nel difender
dalle ingiurie coloro che fusleroftatioppressi dall'altrui fu per P.37
perchieria(1):modi tutticheil feceró crescere in reputazione fra
glialtri påstori,e chedebbono fara locrescerdietàapponoi.Nè lo aver' egli
guidato a quel tempo impresedifficilisfime,lo efferfi fat to capo di un popolo,
e lo aver fondato una Città ne rimoveranno dall'oppinione di farlocominciare a
regnar più tardi, e di accorciare ilsuoregno. tore E da Romolo passando a N u
ma,eglinoncisonomenfortira gioni per abbreviare il regno anco di questo. Io
lascio ftare quella quistione roccata da Livio,e da Plutarco(2)come questo
Legisla (1)Plut.in:Rom.p.20. (2)Id.inNumap.60.69,e 74. Tit. Liv. Decad. I. lib.
la pa 14.atergo.Ed.Ald.1918.. 25 : por Authorem do&trina
ejus quia non extat,alius,falfo SamiumP y thagoram edunt,quem Servio Tül lo
regnante Rom& centum amplius poft annos in ultima Italiæ ora cir ca
Metapontum Heracleamque de Crotonam juvenum æmulantium fta diacatus
habuilleconstat.Liv,Ibid. 26 gnan tore potesse essere stato uditor di
Pitagora, il quale essendo venuto inItaliapiùtardiche Numa non cominciò a
regnare secondo la co mune oppinione (1), ne farebbe (1) Plut,in Numa p.60.
PherecidesSyrus primum di xit animos bominum esse fempiter
nos:antiquusfane:fuit enim meo regnante Gentili.Hanc opinionem discipulus ejus
Pythagoras maxime confirmavit, quicum Superbo re fu Cic.Tusc.Quæft.
Lib.I. 27 il regno suo più sotto, e per conseguente accorciare almeno le
durate degli altri cinque regni,che furonodaessoNuma fino alRegi fugio;della
certezza della qual'e pocanonsidubitadaniuno lo Jascio,dico,questa quistione,la
qua lenon risguarda tantoladuratadel regno diquestoRe,quanto il prin cipio di
quello:e vengo a cið che ne appartienepiù davicino, porre Plutarco ne dice che
Numa aveva quaranta anni (1), quando gnante in Italiam menisset, tenuit magnam
illam Greciam ac. Pythagoras qui fuit in Italia temporibusiisdem,quibusL. Bru
tus patriam liberavit. Id.Ib.Lib.IV. (1)InNuma p.62, 28 qua
rantatre, la quale ultima cosa ne dicefimilmenteLivio(1).Ma qui io domando le
parrà ragionevole ad altrui,che incosìfrescaetàpo tesseNuma essergiuntoaquelloe
minente grado di fapienza, che fi dice;emoltopiùpoiseparrà ve risimile, che
tenendo egli maslime modi di vivere differenti dagli u fatinel fuo
paese(2),egli potesse esser salico in così alto grado di re Tit. Liv. Decad. I.
lib. I.p. 16. a tergo. fu eletto in Re di Roma, e che la governò per
lospaziodi pu (1) Plut.InNuma p.73.2 74. Romulus feptem do triginta regnavit
annos. Numa tres a quadraginta - (2) Vedi Plut. in Numa in princip.
Annumque intervallum regni fuit. Id ab re quod nunc quoque tenet nomen,interregnum
appella tum. ld paullo post. Consultissimus vir omnis di putazione,che lo
facesse riverire non solo appo gli stranieri, ma nel proprio paeseeziandio per
così straordinario modo,come narrano; e per recar le molte parole in u. na, che
l'autorità del nome suo. fossetale,ch'ella dovesse in un subito far ceffare le
animosità, e le gare delle parti, che per lo Ipazia di un'anno aveano conteso
in Ro.: m a per lo Imperio (1). M a egli (1)Patrum interim animos certamen
regni ac.cupido verfa bat @c. OK 29 ci Tit.Liv.Decad.I. lib.I.p.14.
30 Plut.in Numa p.61. --- a y ci è ancora alcuna altra confider1
zione da farsi.Tazio che reggeva Roma insieme con Romolo,mcf so dalla gloria e
dal nome dilui che tantoalto suonava,selofece genero dandogli per moglie una
sua unica figliuola che si chiama vaTazia.Quandoquestoavvenif feper appunto
nonsilegge;ma eglièverobensì,che ciðfumol divini atque'bumani juris dito nomine
N u m e Patres Romani quamquam inclinari opes ad Sabi nos rege inde fumpto
videbantur: t a m e n n e q u e se q u i s q u a m, n e c f a
Etionisfuæalium,nec denique Pa trum aut Civium quenquam prefer re illo viro auf
ud unum omnes. Numa Pompilioregnumdeferendum decernunt,Id. Ib.atergo,ep.15.
to (1)T.Liv.Decad.I.Lib.I. p.12.Plut.inRom.p.32. 31 sua to di
buon'ora nel regno di R o molo,dacchè Tazio muorì prima della guerra
co'Fidenati, e co'Ca meri (1),cioè prima dell'anno see dicesimo del regno di
Romolo; e d'altra parte ne racconta Plutarco che Tazia era morta quando N u ma
fu chiamato al regno, e ch'era vissuta con esso luilo spazio di
tredicianni(2).Dal chetuttofi deeraccogliere,che grantempoa vanti la morte di
Romolo fioriva lafamadellafapienzadi Numa;e converrià dire,ritenendo il c o m p
u todiPlutarco,cheavendoNuma foli venticinque anni,questa fama
fossegiàtanta,che inducefleTa zio Re a dare in matrimonio una (2) Plut.in Numa
p.61. -(1) Id. in Numa p.63. sua unica figliuola a lui uomo
pri vato, il che mostra essere alieno da verisimiglianza, Diremo per
tantoasalvareilvero,cheNuma dovesse avere sessanta anni almeno quando fu eletto
con tanta unani mitàaRediRoma;eciòpofto, gli staranno molto meglio inbocca
quelle parole che periscansarsi da questo carico gli fa dire Plutarco,
qualmenteallecondizioni de'Ro mani era bisogno che laCittà avef seunRe
dianimoardente erobu sto (1),le quali parole più tosto fi disdirieno che no ad
un'uomo di quarantaanni.Postoadunque che Numa, come ragion vuole,comin ci a
regnare vent'anni più tardi che non si crede,> di altrettanti an ni fi verrà
ad accorciare ilsuo re gno in età in circa di ottantatre anni
(1). gno, dove si voglia ch'egli sia morto come narrano, 33 sta E per tal
modo abbreviando il regno di Numa, e similmente q u e l l o d i R o m o l o, si
v e r r à a r e n der più probabile la lunghezza del la pace di cui godè Roma a
tempo attorniata da popoli estre mamente gelosidellasua grandezza, come
ellaera.Questapace giusta l'antico computo farebbe dileffan tacinque
anni,iqualirisultano dal la somma de'quarantatre del regno diNuma,daun'anno
d'interre gno,e da'ventun'anni passati da Romolo, dirò così, nell'ozio e nella
cessazion dalla guerra; e g i u C: quel > (1) ετελεύτησε δε χρόνον ο σ ο
λύντοϊςογδοήκοντα προσβιώσας. Plut,in Numa p.64. ven di pre
34 itale cose discorse, questapace viene ad essere di ventiquattro an ni in
circa e non più. E da ciò riesce molto più verisimile, come Tullo
Ostilioerededelregno,non dell'arti di Numa, abbia potuto facilmente rinvigorir
ne' Romani la bellica virtù inspirata loro da R o molo,ecomeabbiapotuto sente
combatter con feroci Nazio ni e soggiogarle; il che di troppo
fáriafuordell'uso,e della oppi nion comune se la virtù de' R o manifossestata(nervatadauna
pa c e di fesfantacinque anni. Io non dirò nulla de' due fuf seguenti
regnidiTullo Ottilio,edi Anco Marzio,ilprimo de'qualiè di trentadue anni (1),
l'altro di (1) Tullus magna gloria bel li regnavitannosduosdotriginta. T.
Liv.Decad.I.lib.I.p.24. (2) Jam.filii prope puberem etatem erant
Id. Ib. 35 ventiquattro (1), se non che ab breviandogli un tal poco, egli
ne parrà piùverisimilequello che di ce Tito Livio de'figliuoli di A n co Marzio:
cioè che alla morte del padre e'non fossero ancora ag giunti agli anni della
pubertà (2) (1) Regnavit Ancus quatuor dig viginti. Ib.p. 26. a tergo. Anco
Marzio aveva cinque anniallamortediNuma(3):sea cinque se ne giungano trentadue,
e ventiquattro, avremo leffantun’ anno,cioè l'età d'Anco Marzio allamorte
fua;ilqualeavriadova to naturalmente lasciare figliuoli più adulti,postoche
egliavesse regnato ventiquattro anni, e Tul C2 lo annos (3)Plut. in Numa pag.
74. 36 lo trentadue; e cið perchè seconda ragione,un regio uomo
come si era Anco Marzio e che fu poi Re, dovea menar moglie assaidibuon' ora
per lasciare il regno a'figliuoli nella più ferma età che far fi po tesse.
Eniente farebbe ildire,ch' egliavesle avuto figliuoli maggio ri di età che
morisfero innanzi a lui, e che questa cura del padre di la fciar figliuoli atti
al regno futle del tutto inutile in un regno e lectivo qual sieraquello diRoma,
poichè dall ' una parte egli pare improbabile che dovessero ellere morri in
tenera età tutti i primi suoi figliuoli più tosto, che gli
altrs,edall'altrocanto eglisem bra che si avesse risguardo alla stir pe regia
nella elezione del Re. Segno è di questo, che i Romani chiamarono al regno il
medesimo 1 An 37 Ma Anco Marzio nepote di Numa che Tarquinio
Prisco allontand i figliuolidiluidaRoma neltem po de'Comizj (1). (1) C3 do
peromnia expertus (L.Tarquinius ) postremo tutore diam liberisregistestamento
insti tueretur Jam filiiprope pube remætatemerant.EomagisTar quinius
instare,utquamprimum comitia regi creando fierent: qui.. bus indi&tisfub
tempus pueros vem natum ablegavit:isqueprimus de petisse ambitiofe regnuin
& c. T. Liv:Dec. I.lib.I.p.26.atergo. Tum Anci filii duo, etfi a n tea
femper pro indignissimo habue rant fepatrio regnotutorisfraude pulsos:regnare
Romæ advenäm non modo civica, fed ne Italica qui demftirpis&
c.Id.ib.p.29.terg. e (1) Nel luogo citato. р 3:8 Ma non è già
così da passar sotto silenzio il regno del medesi mo TarquinioPrisco
successoredi Anco.Ne viene costui rappresen tato come usurpatore del regno,
secondo che disli, a' figli di quello, de'qualieglierastatoistituito tu tore
dalpadre(1).Egliregna tren totto anni (2),e vien finalmente ammazzato per opera
degli stessi fi gliuolidi Ancovaghidiricuperare il regno paterno tolto loro
dalla frande dell'uomo straniero(3).Nel che (3) Sed injuria dolor in
Tarquininın ipsum magis quam in Servium eosftimulabat (3) Duo de quadragefimo
fer me anno ex quo regnare cæperat Tarquinius bc.Id.Ib.
ipseregiinfidiaparantur.Id. Ib. aullo poft. ob hæc che chi non
ammirerà la flemma incredibile di costoro, che tra la ingiuria e la vendetta
polero in mezzo trent'otto anni, spazio di tempo bastante a sedare e spegner
forfe nell'animo qualunque più violenta passione? Questo fatto a dunque dovette
avvenire nella lo to giovanile età non molti anni d o polamortedelpadre;ilche
quan to è comprovato dalla vatura del fatto medesimo, lo è altresi dal non ne
avere effiraccolto frutto alcuno, come coloro che dopo la uccisione di
Tarquinio rimasero ne più nè meno esclusidal regno pa terno.La qualcosaben
mostraef fere questa stataopera di età gion vanile e inconsiderata, e non di
quella ferma e matura di cinquan ta anni, in cui Livio gli fa c o n troogni
verisimiglianzaoperarque 3999 Ita. C4 Che diremo oltre del
suo suc cessore Servio Tullo, il quale nel fapno regnare quarantaquattro an ni
(1)? Se non che dobbiamo di moltoaccorciareancoquesto regno, per quella
medesima ragione per la qualeabbiamoaccorciatoquello di Tarquinio Prifco fuo
predeceffore. Fu Servio Tullo anch' ello mello a morte da chi volea ricuperare
il regnopaternotoltoglida essoTul lo,ch'era di schiatta fervile,e
chefuportosultronodiRomaper artifiziodiJanaquilęmoglie diTar 40 sta
Tragedia, E però rimane che fi debbaabbreviareilregnodi Tar quinioPriscocomesiè
fattode' superiori. 1 qui (1) Servius Tullus regnavit, annosquatuor
quadraginta.Id. Ib. p. 34. a tergo. e preso dalla più violenta ambizione;
e ch'egliin 41 quinio Prisco. È in ciò dovrà pa rere molto strano che Lucio Tar
quinio, che fu poi cognominato il Superbo,abbiaaspettatoa metter lo a morte
quarantaquattro anni.E molto più poi le altri vorrà por
menteatrecose,chequestoTar quinioera giovine fatto allorchè Servio Tullo fu
aflunto al Trono, ilqualela prima cosa diede per moglie due sue figlie a due
giova ni Tarquinj Lucio ed Arunte (1); che questo Tarquinio era di natu ra
3rdentifima CS > (1)
EtnequalisAneiliberum animusadversusTarquinium fuerat, talisadversusse
Tarquinii liberam esset: duas filias juvenibus, regiis' Lucio
atqueAruntiTarquiniisjunio git •Id.Ib.p.30:a tergo• fine era
eccitato cotidianamente ad occupare il regno da Tullia fua moglie la più
stimolofa è rea f e m mina che fulle mai (1). Le quali cose considerate che
fieno,faranno che debba credersi molto più irra gionevole che Servio Tullo
abbia potuto regnare quarantaquattro an ni,che Tarquinio Prisco
trentotto. 42 Et ipfe juvenis ardentis animi do domi #xore Tullia in-,
quietum inimum stimulante Id. Ib.p.38. Sen (1) Servius quanquam jam 16 fu haud
dubie regnum possederat; tamen quia interdum jactari voces a juvene Tarquinio
audiebat büs Id.ib.p.32,àtergo. Vedi p.33. a tergo, quid te stregium juvenem
confpici jenis6607 Nel fine del regno diSer. Tullo. Senzache
questoTarquinio,che è sempre chiamato giovine nella vi ta di Servio Tullo,
moftra effére robusto e giovinę tuttavia allafi nedelregnodiquello,come co
luichepiglioServioperlomez zo della perfona, e sollevatolo in alto lo gittò giù
per la scala della Curia (1). La qual pruova giova nile non avrebbe potuto
altrimenti fareseaquarantaquattro anni del regno diServioneaggiungiamo venti
più o meno,ch'egli ne do yea avere alla morte di Tarquinio Brisco;.che lo
farebbono vecchio di sessantaquattro anni allorchè ei (1)Multo ætateį viribus
va lidior medium arripit Servium,es latumque eCuria in inferiorempar temper
gradusdejecit.Id.Ib.p.34. a tergo. per 43 » de uxoribus
mentio, Suam quisquelaudat miris modis, 44 Ora venghiamo finalmente ale
lo stesso Tarquinio Superbo che fu l'ultimoRe diRoma iAvvenne verso la fine di
questo regno,che nell'offidionedi Ardeainforgesle quistione traSesto Tarquinio
e T a r quinio.Collatino marito di quella Lucrezia,chị de'dueavesse più savia
moglie, dal che poi nacque, comeYaognuno),11Confolato ela libertàRomana,Ora
quertoTar quinio Collatina secondo le parole di Livio era giovine","e
Yecondo lo ftesto autorem pervenne ad occupare il regno 5. Upitni HI,1, cer era
figlio di un Inde IT: (1)Forte potantikusbisapud Sextun Tarquinium ubii collati
aus cænabat, Tarquinius Egerii fs lius incidit .(fratrisbicfilius e rat
Regis)Cyllațiæ in præfidio re lietus. 1:1, Ib.p, &, e 28. a tery. 45
eerto Egerio,il quale fu lafciato da Tarquinio Prisco alla guardia di Collazia
Città di novella con quita nella guerra Sabina (1) ver -fo la metà del regno
fuo o la in torno, che viene a cadere nell'an no cencinquantacinqueincircadal
(1)Collatio.c quisquid citra Collariam agri erat Sabinisadema ***** ptum
Egerius py,sub Indecertamine accenfoCollatinusne gatverbisopuseffe;paucisid
quide12 horis poffe:frisi,quantum cæteris præftet Lucretia (14. Quin sivi gor
juventa ineft confcendimus,e qws,invifimulqise præsentes 102 strarun ingenia?
T'it,Liv.Ib.p.40. la (1)Vedi'anco la Tavoletta Cronologica
registrata di topra. 46 la edificazione di Roma (1),lomi penso che sarà
mestiero darea ques sto Egerioaquel tempo per lo m e no trenta anni, sì perchè
l'età sua foffe in alcun modo eguale al cari co commessogli dal Re Tarquinio
Prisco,sìperchèquesto Egerioera nato prima del tempo in cui Tar quinio venne a
Roma sotto il re. gno di Anco (2), Ora come può egli
starecheun'uomoditrent'anni ļ' a n n o d i R o m a c e n c i n q u a n t a c i
n q u e avere unfigliogiovine l'anno du genquarantaquattro,come non sivo glia
supporre ch'egli avesse questo figlio dopo l'età degli ottant' an ni? ilche ben
vede ognuno quan to 1 (2)T,Livio Decad. I.lib. I. p. 26. che è di
niez zo tra ilpadre,e ilfigliuolo. 47 to siacontrario all'ordinario corfo delle
cose naturali. Per lo che se vorremo ritenere questa discenden za de'Tarquinj,
bisognerà accor ciare ilregiodiTarquinio Prisco di ServioTullo e similmente di
TarquinioSuperbo,che occupano tutti e tre il tempo ot Un'altrapruova
peracccrcia re ilregnodiTarquinio Superbo e quello eziandio di Servio Tullo
fuopredecessore, fipudcavarda questo. Tarquinio Superbo quand? egli occupò il
regno avea festanta quattro anni,come abbiani veduto poco
innanzi,a'qualichiaggiunga i venticinque che fi dice avere ef fo regnato (1)troverà,ch'egli
avea (1) L. Tarquinius Superbus r e gna 48 ottantanove
ánniallorchè fu elpus: fo dalregno;laqualcosapofto che vera, avšia merit:ito
d'esser nota=; ta dagli Storici. Che più? Si legno gechequestoTarquinio
parecchi a n n i d o p o il R e g i f u g i o (1 ) c o m b a t tè a cavallo
alLago Regillo con tro il Dittatore Postumio (2), il che gnavit annos quinque
la viginti ! Regnatum konæ ab condita Urbe ad liberatam annos CCXLIV. Id.
Ib.infinepo42. (1) Vedi T.Livio Decad.I. lib. II. (i) in Pofthumian prima in
acie firos adhortantem inftruen temque Tarquinius Superbus quam quam jam
'&tate a viribus erat gravior equum infeftus admifit; ietusqueab
latere,concursufuorini receptus in tutum eft. Id. Ib. Pr54. 49
du che verrebbe a cadere nell'anno centesimo e più.là ancora dell'età
sua, irragionevolezza troppo mag giore chenon sipuò comportare, e la qual nasce
pure anch'essa, co me ognunvede,da uncalcolofon dato sopra leEpoche Liviane.
Come adunquesidebbano le var molti e dalle du rate de'regnidi inni cotefti R e,
egli si provato rimane abbastanza altrimenti nasco dagliassurdiche insieme i
nelvoler comporre no le altre condizioni che ac fatti,e regni; medesimi cer
questi conpiù compagnano furono i quali fatti dalla tra a'pofteri men
tezdatrasmesli quantevolte dizione,che non un pia tornò. Ed egli abbastanza,
come se fi riducano seguirono del Cielo tre quelli sito neta al medesimo
provato è medesimamente le,cred'io, SO durate di cotesti Re
allà ordinaria legge diNatura,che li faregna re presi insieme diciotto o venti
anniperuno,secondocheàdisco perto il Neutono, tutte le difficol tà
siappianano,esvauiscono leir ragionevolezze tutte degli Storịci. La qual cosa
benchè sia oramai fuor d'ogni quistione,mi piace aggiu gnere un'altra pruova,
perchè fi vegga vie meglio qualmente sorga il vero da ogni lato, come all' in
contro da ogni lato si manifefta 1 errore·Questanovellapruova fa rà ricavata
dalle generazioni d'uo mini che sono indicate dagli Au tori nella storia di
detti Re, le quali anch' esse arguiscono di falla la tecnica loro Cronologia in
quanto alle durate de' regni. Nella vita diRomolofià,che OttilioAvo lo di Tullo
Oftilio morì nella guer-. > ra mo (1) Principes utrinquepugnam
ciebant:ab Sabinis Metius Curatius, ab Romanis Hoftius Hoftilius (2) τετάρτω δε
μηνί μεν την κτίσιν(ωςφάβιοςισορά) τοπε ρι την αρπαγήν ετολμήθη των γ υ
Voixãi.Plut. inRom.p.25. Plut.Ib.p.29.descrivendo co
meleSabinediviserolazuffatra i Ro. mani, e Sabini aggiugne: aipšv.muidice κομίζεσαινήπιαπροςταίςαγκάλαις
racontro i Sabini, che viene a cadere ne'primi anni di quel re
gno(2).Ilregnopertantodi Ro ut Hostius cecidit & c.T. Liv. Dec. 1. lib. I.
p. 11. Indo Tullum Hostilium nepotem Hostilii,cujus in infima arce clara pugna
adver Sus Sabinos fuerat, regem populus. jussit. I d. I b. p. 1 6. a t e r g o.
P l u t. inRom.p.29. / molo di Nama e di Tullo Ottilio, non occupa
a un di presso che il tempo didue generazioni: quella del padre,o della madre
che dir vo gliamo di ello Tullo Ostilio,che duvette nafcere al principio del
regno di Romolo,e quella diTul lo Oftilio medesimo D a N u na ad Ancu.Marzio
suno due ge nerazioni, poichè ello Numa era avolo di Anco Marzio (1); dat che
ne feguita che la generazione tra Numa ed Anco finendo al tempo diTullo
Oftilio,rimanga·una ge nerazione fola da Tullo alla fine del regno di Anco. Con
che dal principio del regno di Romolo al (1) Numa Pompilii regis ne pos
filia ortus Ancus Martiuserat. T. Liv.Decad.I.lib.I.p.24. la Plut.inNuma
p.74. ne la fine di quello di Anco corrono
incircatregenerazioni.Lucio Tar quinio Prisco prima detto L u c u m o ne viene
a Roma uomo maturo nel regno di Anco, (1) onde la gene razione di
Tarquinio'coincidendo con quella di Anco non resta che una sola generazione di
uomini tra ilregnodiAncoeilregnodiTar quinio Superbo figlio di Tarquinio
ilvecchiooPrisco,Adunque dal principio del Regno di Romolo al la fine di quello
di Tarquinio Su perbo corrono quattro fole genera zioni in circa di uomini e
non più, EglièilverocheTitoLiviodi cedubitarealcuni,sequesto Tar quinio Superbo
folle figliuolo a (1)T. Liv.Decad.I. lib.I. p.26.eatergo. Hic L.Tarquinius
Prifci Tarquinii filius, ne posve fuerit, p a rum liquet:pluribustamen autho
ribusfilium crediderim. Id. Ib.p. 33. devolvere retro ad ftirpem fra.
trifimilior quam patri. Ib. a ter go.Quas Anco prius, patre deinde Sito
regnante, perpelli fint.p. 37. Tarquinius reges ambos patrem 80 vie,filium
perfecisse p. 38.aterg. nepotedelPrisco;ma fenzache i più erano di
oppinione ch'ei gli fusse figliuolo, oppinione abbrac ciáca da esso Livio
medesimo, eglisipuòmostrare,cheda Tar quinio Prisco al Superbo correfle una
sola generazioneper esser Col latino ancora giovane in ful fine del regno di
Tarquinio Superbo, mentre il padre suo Egerio era uomo già fatto nel regno di
Tarqui nio Prisco,come abbiamo veduto avatt avanti.Ora fommando
insieme gli anni di quattro generazioni, ognu na delle quali ragguagliata è di
trentatre anni, si hanno cento e trentadue anni, e dando a cia fcun Re
diecinove anni di regno, sihanno cento trentatre anni,ilche derivato dalle
Leggi di Natura co sì maravigliosamente conviene col la regola cronologica
delNeutono, che leosservazioniastronoinichepiù a capello non convengono colle Teo
rie eco'calcolidiquel grand'uomo. Io nonaggiugneròaltroaque fto Ragionamento,se
non che a quel modo che la Cronologia del Neutono assolve Virgilio che fu il
più esatto de'Poeti da quello Ana cronismo imputatogli comunemen Vedi la
Cronologia del Neutono te in rispetto a'tempi in cuiyisse. ro Enea e Didone,così
ella può giustificarequellacomun tradizione tenuta inRoma,che Numa fusle stato
uditore di Pitagora, e che non meno contribuisseafondarquel lo Imperio, il qual
fu fignor delle cole,la Virtù Italiana che la Gre ca Sapienza. Algorottus. Francesco Algarotti. Keywords. Refs.:
Luigi Speranza, "Grice ed Algarotti," per Il Club Anglo-Italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
Grice ed Alici – reciproco –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Grottazzolina). Filosofo italiano. Grice:
“If an Italian philosopher tells me he believes in God, I stop calling him
‘philosopher’!” --. Grice: “I like Alici; he has philosophised on some of the
topics *I* did, since it should not surprise anyone, since we are philosophers
(if I’m also a cricketer!) --.Grice: “I will organize some overlaps in
hashtags: compassione. – serious study – il terzo incluso – I curiazi, i
moscheteri -- ”:noi dopo di noi,” ‘we after we’ – the meta-language – romolo e
remo; ossia, il bene condiviso;:romolo e remo; ossia, condividere la
deliberazione; eurialo e isso, ossia, dall’io al noi; colloquenza romana; amore:
l’angelo della gratitudine; eurialo e nisso: amore d legarsi – la reciprocita;
pilade ed oreste -- luigi Alici
Presidente nazionale dell'Azione Cattolica Italiana. Filosofo. È stato
presidente nazionale dell'Azione Cattolica Italiana, Allievo di Armando
Rigobello, ha insegnato Filosofia morale nell'Università degli Studi di Perugia
e Filosofia teoretica presso la LUMSA di Roma. Attualmente è Professore di
Filosofia morale nell'Macerata, nonché titolare degli insegnamenti di
Istituzioni di Filosofia morale, Filosofia morale (corso triennale), Etica
pubblica ed Etica della vita (corso magistrale). È stato presidente del Corso
di laurea in Filosofia coordinatore del Dottorato di ricerca in Filosofia e
Teoria delle Scienze Umane, presidente del Presidio di Qualità di Ateneo (-),
direttore della Scuola di Studi Superiori "Giacomo Leopardi" Studioso
dell'opera di Sant'Agostino, è autore di numerose pubblicazioni dedicate al
rapporto tra interiorità e intenzionalità, comunicazione e azione, libertà e
bene, con particolare attenzione alle tematiche dell'identità personale e della
"reciprocità asimmetrica", esaminate anche sotto il profilo della
loro rilevanza morale. Le sue ricerche più recenti, a partire dai temi della
fragilità e della cura, sono dedicate al rapporto tra natura, tecnologia e
libertà. Impegnato fin da giovane
nell'Azione Cattolica, nel corso degli anni ha ricoperto nell'associazione
numerosi incarichi, prima a livello locale e poi nazionale: dal 1992 al 1998 è
stato responsabile dell'Ufficio studi; -- è stato direttore della rivista
culturale "Dialoghi"; è stato eletto consigliere nazionale
dell'associazione dalla XII assemblea nazionale. In seguito alla designazione
del Consiglio nazionale, il Consiglio permanente della Conferenza Episcopale
Italiana lo ha nominato presidente dell'associazione per un triennio. Il suo
mandato è terminato. È membro dei seguenti organismi: Consiglio scientifico
dell'Istituto per lo studio dei problemi sociali e politici "Vittorio
Bachelet" (Roma); Comitato Scientifico della Collana di “Filosofia morale”
(Vita e Pensiero, Milano); Comitato di direzione della rivista “Dialoghi”
(Roma); Consiglio Scientifico del “Centro di Etica Generale e Applicata”
(Pavia); Comitato scientifico della rivista “Hermeneutica” (Urbino). Membro del
Comitato Scientifico della Fondazione “Lanza” (Padova). Dirige inoltre la
sezione di Filosofia della Collana “Saggi” (La Scuola Editrice, Brescia) e
della Collana “Percorsi di etica” (Aracne Editrice, Roma). Opere: “Il linguaggio come segno e come
testimonianza. Una rilettura di Agostino”(Edizioni Studium, Roma); “Tempo e
storia. Il "divenire" nella filosofia del '900” (Città Nuova
Editrice, Roma); “Il pensiero del Novecento Editrice Queriniana, Brescia); “Il
valore della parola. La teoria degli "Speech Acts" tra scienza del
linguaggio e filosofia dell'azione” (Edizioni Porziuncola, Assisi PG); “Presenza
e ulteriorità, Edizioni Porziuncola, Assisi (PG)); “La dignità degli ultimi
giorni” (Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI)); “Con le lanterne accese.
Il tempo delle scelte difficili, Ave Edizioni, Roma); “L'altro nell'io. In
dialogo con Agostino” (Città Nuova Editrice, Roma); “Il terzo escluso, Edizioni
San Paolo, Cinisello Balsamo (MI)); “La via della speranza. Tracce di futuro
possibile” (Edizioni Ave, Roma); “Cielo
di plastica. L'eclisse dell'infinito nell'epoca delle idolatrie” (Edizioni San
Paolo, Cinisello Balsamo (MI), (Premio "CapriSan Michele); “Amare e
legarsi. Il paradosso della reciprocità, Edizioni Meudon, Portogruaro (VE));
“Filosofia morale” (Editrice La Scuola, Brescia); “I cattolici e il paese.
Provocazioni per la politica” (Editrice La Scuola, Brescia); “L'angelo della
gratitudine, Edizioni Ave, Roma); “Cittadini di Galilea. La vita spirituale dei
laici” (Quaderni di Spello”, Edizioni Ave, Roma, (Premio “CapriSan Michele); “Il fragile e il
prezioso. Bio-etica in punta di piedi, Editrice Morcelliana, Brescia); “InfinitaMente.
Lettera a uno studente sull'università, EUM, Macerata,. Edizioni di opere di
Sant'Agostino La città di Dio, Rusconi, Milano; Bompiani, Milano. La dottrina
cristiana, Edizioni Paoline, Milano; Confessioni, Sei, Torino, Manuale sulla
fede, speranza e carità, Collana La vera religione, Città Nuova Editrice, Roma.
“Il potere divinatorio dei demoni, Collana La vera religione, Città Nuova
Editrice, Roma; La natura del bene, Città Nuova Editrice, Roma; Il libro della
pace. «La città di Dio, XIX», Editrice La Scuola, Brescia); “Agostino nella
filosofia del Novecento (con R. Piccolomini e A. Pieretti), 4Città Nuova
Editrice, Roma (comprende: Esistenza e libertà, Interiorità e persona, Verità e
linguaggio, Storia e politica). Azione e persona: le radici della prassi,
V&P, Milano, Forme della reciprocità. Comunità, istituzioni, ethos, Il
Mulino, Bologna, La filosofia come dialogo. A confronto con Agostino” (Città
Nuova Editrice, Roma, Filosofi per l'Europa. Differenze in dialogo (con F.
Totaro), Eum, Macerata, Agostino. Dizionario enciclopedico, di Allan D.
Fitzgerald edizione italiana curata assieme a Antonio Pieretti, Città Nuova
Editrice, Roma); “Forme del bene condiviso, Il Mulino, Bologna, “La felicità e
il dolore. Verso un'etica della cura” Aracne Editrice, Roma,. Dialogando. Idee,
pensieri, proposte per il nostro tempo, Edizioni Ave, Roma); “Unità e pluralità
del vero: filosofia, religioni, culture, Archivio di filosofia); “Il dolore e
la speranza. Cura della responsabilità, responsabilità della cura, Aracne
Editrice, Roma); “Prossimità difficile. La cura tra compassione e competenza,
Aracne Editrice, Roma); I conflitti religiosi nella scena pubblica. I: Agostino
a confronto con manichei e donatisti, Città Nuova Editrice, Roma); “Noi dopo di
noi. Accogliere, rigenerare, restituire: nella società, nell'educazione, nel lavoro”
(FrancoAngeli, Milano); “I conflitti di valore nello spazio pubblico. Tra
prossimità e distanza, Aracne Editrice, Roma); “I conflitti religiosi nella
scena pubblica. II: Pace nella civitas, Città Nuova Editrice, Roma); “La fede e
il contagio. Nel tempo della pandemia, (con G. De Simone eGrassi), Ave, Roma.
L'umano e le sue potenzialità: tra cura e narrazione (conNicolini), Aracne,
Roma. L’etica nel futuro (con F. Miano), Ortothes, Napoli-Salerno. Pagina di
presentazione nel docenti
dell'Università degli Studi di Macerata, su docenti.unimc. Dialogando. Il blog di Luigi Alici, su luigialici.blogspot.
Predecessore Presidente nazionale dell'Azione Cattolica Italiana Successore
Paola Bignardi. “Love and duty are the cement of society” (Elster).
“Love and duty are *not* the cement of society. The mechanism is *reciprocity*.
Seemingly co-operative, helpful, altruistic behaviour, based on versions of the
‘I’ll-scratch-your- back-you-scratch-mine’ principle, require no nobility of
spirit. Greed and fear suffice as motivation: greed for the *fruit* of co-operation,
and fear of the consequence of *not* reciprocating the co-operative helpful
overture of the other.” (Binmore). Chi tra Elster e Binmore ha ragione? Chi che
vede nell’amore il “cemento della società”, o chi che considera invece la
reciprocità dei due soggetti, basata su egoismo e paura, come il meccanismo sufficiente
per tenere assieme la società? Oppure le cose sono più complicate? Grice
propone di penetrare all’interno delle dinamiche della gratuità, della
reciprocità e del tipo di razionalità che sottostanno ad esperienze
conversazionale che potremmo chiamare “sociali”, come sono quelle dell’Economia
di Comunione Conversazionale [cf. Bruni e Pelligra]. In particolare ci
domandiamo a quali condizioni un soggetto o un’impresa mossi da una razionalità
diversa da quella standard possano sopravvivere e svilupparsi in un contesto
dove esiste una eterogeneità di soggetti interagenti. Inizieremo (§ 1) evidenziando
le caratteristiche base dell’idea di razionalità che muove l’homo oeconomicus,
cioè l’agente considerato “standard” dalla teoria economica convenzionale.
Quindi, nella sezione 2, introdurremo un tipo di agente non standard, mosso da
una razionalità in cui l’azione donativa ha una ricompensa intrinseca. Questo
fa in modo che la reciprocità possa assestarsi come equilibrio stabile. Nella
sezione 3 vedremo che, quando agenti eterogenei interagiscono tra di loro, le
cose si complicano e gli esiti non sono più scontati. Per far questo ci
serviremo della forma più elementare di giochi evolutivi; saremo, così, in
grado di mostrare i risultati più interessanti del modello, che espliciteremo
nelle conclusioni. * Alessandra Smerilli f.m.a. è dottoranda di ricerca in
economia presso l’Università La Sapienza di Roma, dipartimento di Economia
Pubblica. Luigino Bruni è ricercatore presso l’Università di Milano-Bicocca,
Dipartimento di Economia. Gli autori ringraziano Nicolò Bellanca, Luca
Crivelli, Fabio Gori, Benedetto Gui, Vittorio Pelligra e Luca Zarri per utili
suggerimenti e critiche a precedenti versioni. Perché è così difficile
cooperare (per l’economia)? L’idea di razionalità è dove sono maggiormente
concentrate le assunzioni della scienza economica circa il comportamento umano,
che potremmo anche chiamare antropologia filosofica, o psicologia filosofica.
La razionalità economica, non cerca, principalmente, di descrivere il
comportamento “quale è” nella realtà, ma piuttosto di individuare dei criteri
di comportamento ottimo, razionale appunto, che fanno in modo di poter
individuare tra i tanti comportamenti possibili quelli ottimizzanti – anche se
tra analisi descrittiva e normativa esiste poi uno stretto rapporto. Le
caratteristiche base dell’idea standard di razionalità economica, possono
essere sinteticamente enucleate guardando alle assunzioni, che restano spesso
implicite, del “gioco” più famoso utilizzato oggi in economia: il cosiddetto dilemma
del prigioniero. Esso, nell’ambito della teoria dei giochi1, è usato per
mostrare come la ricerca dell’individualistico tornaconto, in molte situazioni
(in particolare in quelle dove non è possibile stipulare un contratto
vincolante per le parti), non solo non porta al bene comune, ma neanche al bene
privato dei singoli individui. La logica che sottende il gioco è usata per
spiegare molti dei dilemmi dovuti all’assenza o al mal funzionamento dei
mercati: dall’inquinamento, alla congestione del traffico, alle difficoltà
della co-operazione. Il gioco rappresenta l’interazione tra due individui, che
chiamiamo Romolo e Remo, identici (hanno le stesse informazioni e la stessa
struttura di preferenze, i due elementi che fanno la diversità tra gli agenti
economici –a cui va aggiunto, nel caso di imprese, il potere di mercato).
Romolo e Remo si trovano a scegliere in una situazione ‘strategica’ di inter-dipendenza,
ciascuno sa di avere di fronte un soggetto identico a sé, con le stesse
preferenze, e *entrambi* conoscono la struttura del gioco (le ricompense, o
pay-off associati agli esiti, che dipendono dalle proprie azioni o muoti
conversazionali e da quelle dell’altro/i). Quali sono le preferenze? Per
restare nel concreto, pensiamo ad una situazione famigliare: la raccolta
differenziata dei rifiuti (ma il ragionamento, come si capirà immediatamente, è
di portata più universale). L’ordine di preferenze dei nostri due giocatori, e
in generale dell’homo oeconomicus standard che di norma l’economista ha in
mente quando descrive il mondo, sono le seguenti. Al primo posto Romolo ed Remo
– o Eurialo e Niso -- mettono: “l’altro fa la raccolta e io no”. A questo esito
del gioco associamo il punteggio massimo, diciamo 4 punti. Al secondo posto
“tutti la facciamo, me compreso” (3 punti). Al terzo “nessuno la fa” (2 punti).
Al quarto “solo io faccio la raccolta differenziata” (1 punti). La tabella e il
grafico sottostanti (che sono due modi diversi di rappresentare questa
situazione, rispettivamente in forma normale ed estesa) rappresentano sinteticamente
la struttura del gioco. La teoria dei giochi è oggi pervasiva nella teoria
economica. Essa è soprattutto un linguaggio che consente di rappresentare in
modo molto efficace interazioni (chiamate “giochi”) di tipo ‘strategico’, cioè
situazioni nelle quali i guadagni, non solo monetari (chiamati pay-off,
ricompense), dipendono dalla scelta dell’ altro soggetto o individuo inter-agente
con lui, e non solo dalla propria (deliberazione condivisa). La teoria dei
giochi ha oggi un campo di applicazione molto vasto, che va dalla collusione
tra imprese all’inquinamento, dalle scelte elettorali al rapporto
paziente-psicologo. Va notato che sebbene, per semplicità e per ragioni di
chiarezza espositiva, abbiamo assegnato pay-off numerici (ipotesi che verrà
eliminata nelle prossime sezioni), in realtà siamo all’interno di un orizzonte
di tipo ordinalistico. Di per sé i valori numerici non possiedono alcun
significato, e quello che conta è l’ordine delle preferenze individuali. Data
una tale struttura di preferenze, si dimostra facilmente che Eurialo e Niso, *se
sono razionali*, sceglieranno entrambi di *non* co-operare (non fare la
raccolta differenziata), ritrovandosi così al terzo livello di preferenza (con
due punti ciascuno: 2 punti per Eurialo, 2 punti per Niso), una situazione
“dominata” dalla co-operazione reciproca (fare tutti la raccolta), in cui
avrebbero ricevuto tre punti ciascuno (3, 3). Eurialo Co-opera Co-opera
3,3 1,4 Non co-opera Non co-opera 4,1 2,2. Nella rappresentazione in forma
estesa, gli esiti del gioco esprimono bene le caratteristiche base dell’idea di
soggetto che l’economia normalmente segue nel costruire i suoi modelli. Il suo
mondo ideale è quello in cui gode dei benefici (ad esempio un mondo non
inquinato) senza sostenerne i costi che preferisce trasferire sull’altro, se
può (separare i rifiuti, depositarli in raccoglitori diversi, ecc. ). Da qui il
dilemma. Si dimostra facilmente che, poiché si trova di fronte uno/a con la
stessa “razionalità” e preferenze, la soluzione del gioco è che entrambi Eurialo
e Niso si ritrovano al terzo livello dell’ordinamento di preferenze, cioè
nessuno fa la raccolta differenziata, quando invece ciascuno avrebbe preferito
che tutti la facessero (che infatti si trova al secondo posto). E la realtà
delle nostra città e del nostro pianeta ci dice quanto questi dilemmi siano
reali e urgenti, e quanto la scelta ‘sociale’ non si discoste poi tanto dal
modello astratto utilizzato dall’economia. Tutto ciò ci dice che la *soluzione*
del gioco, e gli esiti dilemmatici dipendono sostanzialmente da due ipotesi
base circa la razionalità. Primo, l’individualismo: ragionare esclusivamente
nei termini di “cosa è ottimo, o meglio, per me: mittente/recipiente”).
Secondo: lo strumentale (la bontà di una azione si misura sulla base della sua
capacità di essere un *mezzo* condizionale per ottimizzare i pay-off, non per
il suo valore categorico intrinseco. Date queste ipotesi, la non- [Nella
tabella i numeri (i pay-off) esprimono utilità, quindi il più è preferito al
meno. Il primo numero si riferisce a Niso, il secondo ad Eurialo. Nell’appendice
abbandoniamo i numeri e passiamo ad un caso più generale (dove i pay-off è
espresso in lettere, ordinate non in modo cardinale). Va aggiunto che non ogni
inter-azione rappresentabili come dilemma del prigioniero porta a risultati
dilemmatici e sub-ottimale a causa dell’antropologia sottostante. Si pensi, ad
esempio, agli [3 cooperazione (nessuno fa la raccolta) è un *equilibrio*
stabile del gioco (o equilibrio di Nash), dal quale nessuno dei giocatori ha
convenienza a spostarsi uni-lateralmente, a meno che non si sia capaci di
stipulare un *patto* vincolante. Se un patto vincolante non è possibile -- si
pensi alle interazioni quotidiane con numerosi agenti, come nel traffico
stradale -- o troppo costoso, *non* cooperare risulta la ‘strategia’ ottimale
per due ragioni. Prima se Eurialo suppone che Niso è azionale (individualista e
strumentale) allora se co-operassi avvierei Eurialo allo sfruttamento (1
punto).Se invece Eurialo ha buone ragioni per pensare che Niso *non* è razionale
o, come dice Dawkins, “ingenuo”, e che quindi si lasce sfruttare, Eurialo ha
una ragione in più per *non* cooperare. Otterrai infatti 4 punti. Quindi
l’esito dilemmatico è una combinazione di paura alla Hobbes e di opportunism. Se
va male Eurialo cade in piedi e non si lascia sfruttare. Se va bene Eurialo
prende tutto. Una razionalità puo essere con ricompense *non* materiali. In un
mondo fatto di due individui mossi da questa razionalità la co-operazione può
essere raggiunta solo quando siamo capaci di auto-vincolarci a delle regole non
opportunistiche, per un bene individuale maggiore. Io gratto la tua schiena, tu
gratti la mia. Questo principio è, in mille varianti, il tipo di co-operazione
che può emergere tra due soggetti razionali di questa maniere. Grice lo chiama
‘altruismo reciproco’ -- individuando un comportamento pro-sociale in tutte le
specie animali, dove però l’altruismo disinteressato non esiste, ma è solo
maschera di più sottili forme di egoismo (o amore proprio e non benevolenza). In
ogni caso la co-operazione è interamente condizionale e non un imperativo di
tipo kantiano. Eurialo aiuta Niso a condizione che Niso aiuta Eurialo e vice
versa. Viene comunque spontaneo chiedersi se negli esseri umani – o almeno due
filosofi oxoniensi -- ci sia qualcosa di diverso, in termini di socialità,
rispetto alle scimmie o alle formiche. Al di fuori di questi specifici casi nei
quali la co-operazione emerge, un atto che non punti a rendere massimo il
proprio interesse, di breve o di lungo periodo, è considerato *irrazionale* o ingenuo,
poiché si diventa pasto degli altri individui più aggressivi, che cresceranno e
prospereranno a spese degli ingenui. Forse molti degli atti di co-operazione a
cui assistiamo nella vita quotidiana possono trovare la loro spiegazione sulla
base di questo tipo di logica individualistica, strumentale, e condizionale. Non
tutti però. E’ infatti nostra convinzione che la convivenza civile, e le
dinamiche economiche conversazionale, conoscono anche altre forme di co-operazione,
che possono emergere sulla base di un ragionamento mosso da un tipo *diverso*
di razionalità non utilitaria ma assoluta. In quanto segue, cercheremo di
esplorare le implicazioni che scaturiscono dalla seguente domanda. Come cambia
il gioco della vita in comune se complichiamo la visione antropologica
sottostante i modelli economici? L’elemento di diversità (rispetto
all’approccio standard) che qui introduciamo, è la presenza di un valore *intrinseco*
categorico assoluto ingorghi stradali. Questi sono perfettamente
rappresentabili come dilemmi del prigioniero. Ma sarebbe impreciso definire gli
automobilisti che escono per andare a lavoro individualisti e strumentali. Ma
abbiamo a che fare con un problema di mancanza di co-ordinamento in una scelta
collettiva, che se vogliamo rimanda anch’esso a una dimensione ‘sociale’ (come
la capacità di addivenire a patti vincolanti), ma, antropologicamente, è meno
coinvolgente di casi dilemmatici che riguardano l’inquinamento o il rapporto
con il fisco. Questo per dire che la teoria dei giochi è un linguaggio che
trascende l’ambito economico e la sua tipica forma di razionalità; e infatti
essa è utilizzata anche per modelizzare agenti mossi da forme razionalità *non*
strumentali (come in parte fa Grice). (Dal nome del matematico che nei primi
anni cinquanta introdusse questa nozione di equilibrio stabile). Il fatto che
nella realtà concreta riusciamo a non cadere nel dilemma dipende dal fatto che
spesso riusciamo a disegnare patti o contratti vincolanti, con sanzioni. Grice
mostra che anche il richiamo di allarme che certi uccelli emettono per avvisare
il gruppo dell’arrivo di un predatore, a *rischio anche della propria vita*, è
il risultato di un calcolo egoista. L’uccello può più facilmente salvare la sua
vita se tutto lo stormo si sposta e non rimane isolato. -- associato a un
comportamento di gratuità, da cui discende la possibilità di sperimentare una
co-operazione, o reciprocità, non primariamente strumentale e condizionale, ma
assoluta, costitutiva dell’umano, e categorical. Questo agente economico
intende pertanto la reciprocità diversamente da come essa è usata oggi in
economia. Rispetta l’ambiente, paga le tasse o edifica la casa rispettando i
vincoli del piano regolatore (tutte faccende cooperative), ad esempio, perché
questi comportamenti sono per lei dei valori, perché le danno una ricompensa
intrinseca, e non solo strumentale (i vantaggi materiali della cooperazione,
che pure sperimenta). Questo diverso tipo di agente non è quindi puramente
consequenzialista e utilitario come invece è l’agente-individuo. Non valuta
cioè la bontà del muoto conversazionale solo sulla base della conseguenza che
tale muoto produce, ma tiene conto sia di una componente assiologica o
deontologica – non aletica --, legata al valore, sia di una componente
procedurale, più legata ai tipi di relazione all’interno delle quali il suo
muoto si sviluppa. Sa inoltre che il suo muto è pienamente *efficace* se anche
l’altro si comportano allo stesso modo (se reciprocano). Ma non condiziona il suo
comportamento a quello dell’altro (come invece farebbe l’homo
oeconomcus-individuo standard). Al tempo stesso, se l’altro si comportano sulla
base della stessa razionalità assiologica e dello stesso valore intrinseco,
allora egli soddisfa al massimo le sue preferenze, e anche il benessere sociale
aumenta. In base ad una tale struttura di valori, o cultura della reciprocità
gratuita, al primo posto dell’ordine di preferenze questo tipo di agente
economico non mette, diversamente dal tipo standard, “tutti co-operano tranne
me”, ma “tutti, me compreso, cooperiamo”, o doniamo. E questo perché il
comportamento in sé è parte integrante del suo sistema di valori. Al secondo
posto dell’ordine di preferenze pone: l’altro co-opera, io no. Al terzo posto: io
co-opero, l’altro no. Al quarto, nessuno co-opera. Per capire questi valori si
può partire dalla struttura di ricompense (i pay-off, cioè i numeri che
misurano le ricompense) del dilemma del prigioniero. Ma occorre aggiungere, o
sottrarre, ai pay-off materiali una componente intrinseca, sulla base della
teoria classica della felicità o calculo eudaimonico, o beatifico, nella quale
il comportamento buono in sé, o *virtuoso*, ha una ricompensa intrinseca. Così,
se un soggetto ha fatto propria questa cultura della reciprocità gratuita o,
per usare un’espressione più forte ma anche più corretta, della “comunione” (la
communita immune), quando Eurialo co-opera e la controparte, Niso, no (pensiamo
sempre all’esempio ambientale, o, se si vuole, ad un rapporto di amicizia), il
suo pay-off, materialmente uguale a 1 (come nel gioco standard), aumenta a
causa delle ricompensa intrinseca (che poniamo pari ad uno), attestandosi a 2.
Se Eurialo invece *non* coopera ma la controparte, Niso, sì, ecco allora che il
pay-off, pur essendo materialmente pari a 4, diminuisce a 3, perché si
inserisce una *sanzione* intrinseca. 4 – 1 = 3. Si pensi a chi, pur avendo
fatto propria la cultura della reciprocità, in un certo muoto non è coerente
perché non riesce a vincere la tentazione del vantaggio materiale. La sua
soddisfazione è comunque minore a causa della sanzione intrinseca, che potremmo
chiamare anche insoddisfazione o senso di colpa o vizio. Il mondo peggiore
(pay-off = 1) è quello in cui ciascuno è chiuso in se stesso. Qui il pay-off è
1 perché si parte da quello materiale (2) e gli si sottrae il valore intrinseco
(2 – 1 = 1). Il mondo migliore è invece la *reciprocità*, un incontro mutuo di
gratuità: (4), il pay-off materiale della co-operazione (3) più la componente
intrinseca della gratuità. Sui vari usi della categoria di reciprocità nella
teoria economica, cf. Crivelli. Questo ordine di preferenze dipende
dall’ipotesi che la componente intrinseca dei pay-off sia costante e pari ad
uno. Un’analisi più approfondita dovrebbe studiare i casi quando la motivazione
intrinseca è maggiore, minore o uguale alla componente materiale. Non è da escludere,
ad esempio, che all’aumentare di quest’ultimo dovrebbe aumentare la tentazione
di tralasciare gli aspetti intrinseci. Se fare, ad esempio, la raccolta
differenziata diventa estremamente costoso e laborioso, il numero di quelli,
anche bene intenzionati, che la faranno diminuirà. Inoltre, una tale analisi
ammette la possibilità di confronti -- La componente intrinseca
dell’azione è legata alla teoria classica della felicità o calculo
eudemonistico di Bentham. La felicità, essendo il risultato di una vita
virtuosa, è fuori dalla logica strumentale. La virtù è praticata perché ha un
valore intrinseco, non per un calcolo machiavelico strumentale costi/benefici.
La virtù, in particolare quella civica, ha bisogno di reciprocità perché porti
ad una vita sociale pianamente realizzata, ma non può pretenderla, solo
attenderla dalla libertà dell’altro. Ecco perché dagli antichi fino ad oggi
alla felicità è associato un elemento *paradossale*. La feicita ha bisogno di
reciprocità, ma solo la gratuità può suscitarla senza pretenderla. Un “gioco di
reciprocità” (intesa nella maniera appena detta), che rimane sempre del tipo
dilemma del prigioniero, può essere dunque rappresentato come segue: Eurialo Dona
Non-Dona Dona 4,4 2,3 Non-Dona 3,2 1,1 Rappresentiamo anche questo
gioco in forma estesa. Dalla tabella, o dall’albero decisionale, si nota che se
i due giocatori hanno questa stessa struttura di preferenze, l’unico esito
stabile del gioco o equilibrio di Nash, dal quale cioè nessuno è incentivato a spostarsi,
è “dona-dona”. Quindi per interpersonali di utilità, cosa peraltro non inusuale
quando l’utilità attesa si calcola con la funzione di Von Neumann Morgernstern.
Per un’analisi approfondita dei pay-off psicologici cf. Pelligra. Sul paradosso
della felicità cf. Bruni. Il modello che può essere considerato il capostipite
dei giochi del tipo gioco di reciprocità è quello introdotto da Sen -- questi
giocatori-persone donare (o co-operare) è ‘strategia’ strettamente dominante, e
l’unico equilibrio stabile del gioco è la reciprocità o la *comunione*:
dona/dona. Cosa ci suggerisce questo gioco, pur nella sua estrema semplicità?
Se sono un soggetto che ha questi valori non ho alternative a cooperare: gli
altri possono rispondere o meno, e quindi il mio benessere/felicità è incerto
(stando al gioco precedente, posso ottenere in termini materiali 2 o 4 punti):
ciononostante per me l’unica possibilità, l’unica azione razionale, è
cooperare, o come abbiamo detto, donare. Così, per fare un esempio, se sono
alle prese con un fornitore difficile, non ho alternative al donare. Potrò
trovare reciprocità o no, ma in ogni caso l’alternativa, ‘non-dona’ – che,
nella pratica, significherà ogni volta qualcosa di diverso – è per me la
peggiore (perché è sempre dominata dalla co-operazione) a causa della
ricompensa (sanzione) intrinseca. E’ questo un soggetto che per alcune scelte
non calcola i costi e i benefici. Che senso ha fare la raccolta differenziata
se solo io la faccio. Ma agisce sulla base di un valore, o di una norma etica
interiorizzata. Ciò spiega, tra l’altro, perché in certe società l’ecologia o
il rispetto delle norme civili sono messe in pratica anche in contesti nei
quali sarebbe razionale (nel senso standard) non farlo: iclassico fazzoletto di
carta buttato fuori dal finestrino quando nessuno ci osserva, e quindi nessuna
sanzione può essere applicata. D’altro canto, davanti a queste nostre
considerazioni qualcuno potrebbe obiettare. Ma se ipotizzate che gli individui
traggano soddisfazione dal muoto conversazionale stesso, diventa banale
spiegare l’emergere (dalla perspettiva della psicologia filosofica) della co-operazione.
In effetti l’idea è semplice. Ma ci auguriamo non banale, ma bizarra. In
particolare, gli aspetti più interessanti intervengono quando pensiamo che nel
mondo reale, nel mercato in particolare, non sappiamo normalmente con chi
stiamo giocando, se abbiamo cioè di fronte un soggetto del primo tipo o uno del
secondo. E qui entriamo in quello che possiamo chiamare il “paradosso della
reciprocità” o della comunione, che possiamo sviluppare sinteticamente come
segue, mettendo assieme i vari pezzi fin qui costruiti. Una vita buona ha bisogno
di reciprocità genuine. La reciprocità genuina però non viene suscitata se la
logica che ci muove è primariamente strumentale. La risposta dell’altro, la
reciprocità, non possiamo pretenderla, ma solo *attenderla* dalla libertà
dell’altro. Co-operare porta quindi a due esiti diversi (indicati con 2 o 4) in
base alla risposta o non risposta dell’altro. Per comprendere questi risultati,
si consideri che ognuno sa che l’altro ha di fronte due possibili scelte:
donare e non donare, e, date le loro preferenze, qualunque scelta faccia
l’altro per ciascuno è preferibile donare -- considerando anche il pay-off
intrinseco. Se infatti l’altro giocatore (Eurialo) sceglie “donare” i punti di
Niso sono 4 (mentre la mossa “non-dona” avrebbe portato solo 2 punti); e anche
se Eurialo scegliesse “non donare”, Niso preferisce sempre “donare” che gli dà
2 punti invece di 1 (che è il pay-off di “non-dona/non-dona”). Può valere la
pena specificare che qui con “donare” non si intende l’altruismo o la
filantropia -- che possono restare atti individualisti. Donare è sinonimo di
ciò che la cultura greco-romana chiama “amore”, e cioè un atto gratuito ma che
ha sempre di mira la *reciprocità*, il rapporto personale con l’altro
(amore-amicizia). Qualcuno potrebbe obiettare sostenendo che più che di una
diversa forma di razionalità in questo caso siamo in presenza di un soggetto
che ha solo preferenze diverse, ma la cui razionalità resta quella standard
strumentale, perché in fondo anche lui massimizza la propria utilità. Noi
preferiamo pensare che una persona che agisce mossa da motivazioni intrinseche
sia più efficacemente rappresentabile da una forma di razionalità che Grice chiamava
“rispetto ai valori” o assiologica che non dalla classica razionalità
strumentale, che si caratterizza proprio per il suo essere tutta basata sul
calcolo utilitario.Qui infatti nostri soggetti co-operativi fano la scelta non
sulla base di un calcolo, ma per un valore. È ovvio che esiste una circolarità tra
motivazioni intrinseche e il comportamento dell’altro -- su questo cf. Bruni e
Pelligra. Per questo la vita in comune è fragile, come anche i filosofi – da
Aristotele in poi - ci insegnano, perché essa dipende dalla risposta dell’altro
– l’amore di Eurialo e reciprocato dall’amore di Niso e vice versa. Quale
evoluzione? Facciamo ora un passo avanti, e ci domandiamo cosa succede quando
soggetti standard e soggetti non standard (il secondo tipo che abbiamo appena
descritto) interagiscono tra di loro. Sono situazioni che Grice studia. Sono
ormai numerosi i modelli con un agenti altruistico che interage con un agenti
auto-interessato. Qui ipotizziamo quattro casi, che, con diversi gradi di
astrazione, possono rappresentare alcune situazioni reali che vengono a
verificarsi quando l’interazione avviene tra soggetti diversi, perché mossi da
culture diverse. Utilizzeremo, allo scopo, i rudimenti della teoria dei giochi
evolutivi, nella sua forma più elementare, il cui elemento innovativo è
l’introduzione della componente immateriale del pay-off corrispondente alla
ricompensa intrinseca. Ipotizzeremo cioè i nostri giocatori immersi in un
ambiente abitato da popolazioni diverse, dapprima due, e poi tre. La teoria dei
giochi evolutivi utilizza lo stesso linguaggio, e in buona parte la stessa
metodologia, della *biologia* evolutiva. Tra più popolazioni esistenti in un
dato ambiente, nel tempo sopravvive quella che ha la fitness – capacità di
adattamento – maggiore. Se due popolazioni hanno la stessa fitness sopravvivono
entrambe. Ma se una ha una fitness minore delle altre è destinata
all’estinzione, non nel senso biologico del termine (morte di tutti i soggetti
di quella specie), ma che quel comportamento non verrà riprodotto, e saranno
imitati i comportamenti vincenti. Il dibattito sull’applicazione di una tale
metodologia agli essere umani e alle loro popolazione è aperto, e controverso. In
quanto segue noi non intendiamo abbracciare la filosofia, né la metodologia,
dei giochi evolutivi. Riteniamo soltanto che il linguaggio dei giochi evolutivi
ci aiuti a mettere in luce dinamiche, che riteniamo reali, non facilmente
individuabili con linguaggi diversi. Il nostro è quindi un esperimento, che ci
piacerebbe, in futuro, portare avanti, mettendo a quel punto in questione
alcuni assiomi che nell’attuale teoria dei giochi evolutivi ci appaiono troppo
semplificati, come il concetto di fitness: semplificati, ma non inutili, come
speriamo di mostrare. Primo caso: Tipi 1 e Tipi 2, non riconoscibili Come primo
caso facciamo le seguenti ipotesi. Esistono solo due tipi tra loro non
riconoscibili. Chiameremo tipi 1 quelli standard, e tipi 2 quelli non-standard
o di reciprocità. Le ricompense intrinseche sono determinanti per la scelta
(che, come visto, fanno sì che per il tipo 2 sia sempre razionale, perché
strettamente dominante, “donare”). Ma per la sopravvivenza nel tempo di un tipo
di agente, la cosiddetta fitness (misurata -- La versione più semplice di tali
modelli si può trovare nel Manuale di microeconomia di R. Frank. Un testo classico
è quello di Axelrod, e un recente studio, basato su evidenza sperimentale, è quello
di Bowles. Un modello vicino a quello qui presentato è Sacco e Zamagni. Interessanti
considerazioni metodologiche si trovano in Crivelli. Vale la pena specificare
che mentre nella biologia evolutiva l’unità di selezione è il gene, in economia
l’unità di selezione è il comportamento; inoltre, mente in biologia la
trasmissione è ereditaria in economia essa avviene per imitazione. Sono i vari
comportamenti adottati e imitati che rendono un agente più efficiente di un
altro. Un contributo importante a questo riguardo è l’articolo The evolutionary
turn in game theory diSugden -- dal valore medio dei pay-off materiali),
contano solo i pay-off materiali, non i pay- off dovuti alla ricompensa
intrinseca. c. I pay-off materiali sono i seguenti. Coopera – coopera. Non
coopera – coopera. Coopera – non coopera. Non coopera – non coopera. Con a >
b> c> d. La probabilità di incontrare un tipo 1 è p1, mentre quella di
incontrare un tipo 2 è p2, dove, per la definizione di probabilità, p2 = 1- p1
In questo primo caso lo scenario non è roseo per i tipi 2. Si dimostra,
infatti, che a sopravvivere saranno solo i tipi 1, e questo risultato è
indipendente dalla percentuale di tipi 1 e 2 presente nella popolazione. Infatti,
anche se i tipi 2 fossero la quasi totalità (ex. 99%) dell’universo, sarebbero
destinati ugualmente all’estinzione perché sistematicamente sfruttati dagli
individui. SE VALGONO LE IPOTESI PRECEDENTI, SOPRAVVIVONO SOLO I TIPI 1, PER
OGNI VALORE DI p1 e p2. Se supponiamo un intervento ridistributivo dello stato
che preleva risorse dai tipi 1 per sostenere i tipi 2 (es. ciò che avviene
normalmente nei sistemi di stato sociale con le imprese sociali), il gap di
fitness si riduce, e in certi casi potrebbe essere nullo, consentendo così la
co-esistenza dei due tipi. Situazione diversa se ipotizziamo che i due tipi
siano, per l’esistenza di un qualche segnale, riconoscibili, e che il tipo 2
decida di interagire soltanto con i suoi simili. Aggiungiamo, quindi l’ipotesi. Rispetto ai
giochi delle prime due sessioni, ora ricorriamo esplicitamente a pay-off
ordinali, dove la sola condizione rilevante nella misurazione dei pay-off è il
loro ordine, e cioè che a sia maggiore di b, b di c e c di d. Indichiamo con Fi
la fitness dei tipi 1, e con Fp la fitness dei tipi 2. F1 = p1c + p2a F1 = p1c +
(1-p1)a F2 = p1d + (1-p1)b. La tesi F1>F2 equivale quindi a: p1(b-a) +
p1(c-d) > b-a, per p1 = 0 la disuguaglianza diventa a>b ed è quindi vera
per p1 = 1 la disugualglianza diventa c>d ed è quindi vera osservo che ∀ valore di p1∈ (0, 1), p1(c-d) >0 p1(b-a)
> b-a, perché b-a è minore di zero, quindi: F1>F2 ∀ valore di p1∈ [0, 1]. È possibile inoltre dimostrare
che, per tutti I giochi di questo tipo, quale che sia la posizione iniziale di
partenza, l’unico equilibrio evolutivamente stabile verso cui si converge nel
tempo è quello che prevede l’estinzione di una delle popolazioni, nel nostro
caso dei tipi 2. 9 e. i tipi sono riconoscibili e l’interazione è
selettiva (il tipo 2 gioca solo con i simili). Se la riconoscibilità è perfetta
(cioè la probabilità di simulazione è nulla), si dimostra facilmente che
sarebbero i tipi 2 a sopra-vivere. Infatti, in questo caso vale il Risultato. SE
IPOTIZZIAMO PERFETTA RICONOSCIBILITÀ DEI TIPI, SI ESTINGUONO I TIPI 1. Questo
secondo risultato ci dice già qualcosa d’importante. La riconoscibilità, anche
quando non perfetta (come nella realtà normalmente avviene), aumenta la fitness
dei tipi 2. Ciò spiega, ad esempio, l’emergere del fenomeno della “rete”, una
realtà tipica dell’economia sociale. Le varie componenti ed espressioni
dell’economia sociale tendono infatti a cercarsi e scegliersi l’un l’altra:
reti di imprese, reti di consumatori che insieme preferiscono le imprese
sociali, reti di imprese (si pensi ai consorzi di co-operative, di veri
livelli), risparmiatori e consumatori (il fenomeno delle banche etiche e della
finanza etica). Nella realtà, però, supposto che un agente 2 voglia evitare di
interagire con i tipi 1 (cosa da non dare per scontata), la perfetta riconoscibilità
o la simulazione nulla sono comunque altamente irrealistiche (sono troppi i
soggetti con i quali un’impresa e anche una persone interagisce: lavoratori,
finanziatori, concorrenti, fornitori, consumatori...). E’ quindi necessario
ricorrere ad altre ipotesi per giustificare teoricamente lo sviluppo delle
imprese sociali nel tempo. E’ quanto di cerca di fare negli altri due casi. Introduciamo
ora un *terzo* tipo che si aggiunge ai due precedenti. Potremmo chiamarlo ‘civile’
o griceiano. Ipotizziamo che: f. il tipo 3 gioca una strategia “colpo su
colpo”, una strategia intermedia (rispetto alle altre due più “radicali” dei
tipi 1 e 2, che, rispettivamente, co-operano mai e sempre), che lo fa co-operare
con chi coopera, e *non* cooperare con chi *non* coopera. Quest’ultimo co-opera
quindi con chi coopera, e *non* co-opera con chi *non* co-opera. Il tipo civile
o griceiano, non attribuendo un valore intrinseco (o attribuendogliene uno
troppo basso) all’azione donativa, *non* ha “cooperare!” o “cooperiamo!” come ‘strategia’
*dominante*. La strategia dominante e “Siamo razionali”. Ma se ha di fronte un
tipo 2, pur riconoscendolo, non lo sfrutta preferendo reciprocare. E’ un 21 La
correlazione esclusiva tra tipi può avvenire per almeno due ragioni: o perché
l’agente sceglie il tipo preferito che viene riconosciuto attraverso un segnale
(che deve essere affidabile), oppure perché si trova in un cluster, cioè in
un’area nella quale si trovano soltanto soggettio dello stesso tipo – pensiamo,
ad esempio, ad una comunità locale come il gruppo maschile della sub-faculta di
filosofia a Oxford, dove la probabilità che un agente si trovi ad interagire
con uno “like- minded” è altissima, ed è indirettamente proporzionale al numero
di forestieri – non filosofi non oxoniensi -- presenti in quella comunità. In
questa situazione, i casi interessanti si trovano sui confini, dove la
probabilità di interazioni miste aumenta (pensiamo agli effetti
dell’introduzione di pratiche e comportamenti nuovi da parte del gruppo
femminile, di missionari o di emigranti da Cambridge). Il segnale, inoltre, per
essere efficace dovrebbe essere troppo costoso da imitare da parte dei tipi 1,
come l’adesione ad un codice o procedimento di comportamento o ad una struttura
di valori molto forte (come nelle botteghe del commercio equo e *solidale*, o
nelle imprese di Economia di Comunione). Con riconoscibilità perfetta, la
probabilità di incontrare un tipo simile è 1, mentre la probabilità di
incontrare uno diverso è 0. Quindi F1 =(0(a) + 1(c))=c, mentre F2 = (0(d) +
1(b)) = b, quindi: F2 > F1. Rispetto a quella classica, questa versione di
colpo su colpo è modificata, poiché non inizia sempre con un muoto di
cooperazione, e poi il gioco non è ripetuto -- soggetto leale, che per questo chiamiamo
“civile” o griceiano. Si ipotizza quindi l’esistenza di un segnale,
utilizzabile solo dal tipo civile o griceiano, che gli permette di discriminare
perfettamente tra i tre tipi che ha di fronte. Si ipotizza quindi che le altre
due imprese non possono, o non vogliono, utilizzare quel segnale (pensiamo, ad
esempio, a chi pur sapendo di rischiare entrando in un ambiente molto opportunistico,
rifiuti l’idea della nicchia e accetti di scendere in campo, non utilizzando
quindi il segnale di riconoscibilità. Cosa succede in questo caso? Innanzitutto
è possibile vedere come la fitness del terzo tipo è sempre maggiore di quella
del tipo 2. Infatti vale il risultato. SE E SOLO SE VALGONO LE IPOTESI
PRECEDENTI (a. – d., f.) SI HA: F3 > F2 ∀ VALORE DI a, b, c, d, ∀ VALORE DI p1, p2, p3. Un
secondo aspetto che emerge, è che l’evenienza che la fitness dei tipi 2 possa
risultare maggiore di quella degli 1 dipende dalla percentuale di tipi 3 civili
griceiani presente nella popolazione. Più quest’ultima è alta, maggiore è la
fitness dei tipi 2 e minore quella dei tipi 1. Qui per semplicità supponiamo
che gli scarti tra i pay-off siano uguali tr aloro, cio è che sia: (a–b) = (b–c)
= (c–d). Tali scarti possono essere visti, rispettivamente, come vantaggio
dello sfruttamento, premio della cooperazione e costo della coerenza. Anche
nell’esempio numerico precedente tali scarti sono uguali (tutti pari ad 1). Con
queste semplificazioni, vale il seguente risultato. SE VALGONO LE IPOTESI a.–d.,
f., g., F2>F1 SE E SOLO SE p +p <p. Il risultato ci dice ancora qualcosa
d’importante. La sopra-vivenza dei tipi 2 dipende anche dall’esistenza, e dal
numero, degli agenti del terzo tipo, cioè di soggetti che, pur *non*
attribuendo un valore intrinseco ma derivato dalla razionalita generale all’azione
del co-operare o donare non “sfruttano” il muoto co-operativo (come fa invece
il tipo 1), ma reciprocano. Rispondono alla co-operazione. Per questo
denominare questi tipi “civili”. Questo risultato può essere utilizzato anche a
sostegno del ruolo della cultura civile – la conversazione civile – la civil
conversazione del rinascimento italiano popolarizzato in tutta Europa. La
sopra-vivenza e lo sviluppo di imprese e un soggetto più radicali, come i tipi
2, dipendono anche dalla “cultura civile” presente nell’ambiente dentro il
quale operano. Di qui l’importanza duplice della diffusione della “cultura”,
alla quale le imprese sociali non possono non attribuire grande importanza. Le
imprese dell’EdC, ad esempio, dedicano un terzo dei propri utili alla
formazione alla *cultura del dare*. Da una parte la cultura re-inforza le
motivazioni intrinseche dei tipi 2, e dall’altra contribuisce ad aumentare e
rafforzare il senso civico e la cultura della co-operazione dalla quale,
indirettamente, dipende anche la loro sopra-vivenza e il loro sviluppo. Supponiamo,
per assurdo, che la tesi non sia vera: Dovrà essere: F3 ≤ F2 => p1c + p2b + p3 b ≤ p1d + p2b + p3b = > p1c ≤ p1d,
disuguaglianza che non e’ mai verificata essendo, per ipotesi, c>d. p1d +
p2b + p3b > p1c + p2 a + p3c ⇔ p1 (d − c) + p2 (b − a) + p3 (b − c) > 0;<=> p1(c−d) + p2(a−b
)< p3(b−c) ⇔ p1+p2
<p3. Altra implicazione del risultato è il prendere coscienza che
affinché i tipi 2 possano svilupparsi, i tipi civili debbono essere abbastanza
numerosi. In particolare, si dimostra che la fitness dei tipi 3 è maggiore di
quella dei tipi 1 se e solo se i tipi 3 sono in numero maggiore dei tipi 2. Ipotizzando,
come nei risultati precedenti, l’uguaglianza tra gli scarti, abbiamo un altro
risultato. SE VALGONO LE IPOTESI DEL LEMMA, F3>F1 SE E SOLO SE P2<P3. Rappresentiamo
le due fitness nello spazio delle fitness e di p2. 0 P2* 1 P2 F1, F3. Da questo
emergono due ordini di considerazioni. Il valore soglia di P2 (P2*) oltre il
quale F3 diventa minore di F1 dipende dalle pendenze delle due rette,
rispettivamente a per F1 e b per F3: (a – b) misura infatti il vantaggio che i
tipi 1 hanno rispetto ai 3 per la presenza dei tipi 2 che sfruttano. Quindi
minore è questo vantaggio, maggiore è la quota di tipi 2 che i tipi 3 possono
tollerare Se a=b le due rette sarebbero parallele. Si nota che i tipi 3 perdono
fitness con l’aumento dei tipi 2, e la differenza di fitness massima si ottiene
in corrispondenza di P2 = 0. E’ il meccanismo che potremmo chiamare i figli
delle rivoluzioni che uccidono i padri, perché li considerano troppo radicali,
come i francescani di seconda generazione che rimossero Francesco dal governo
dell’ordine, perché con il suo radicalismo impediva – a loro dire – lo sviluppo
del francescanesimo più moderato e minacciava la morte stessa del movimento. Nell’ultimo
scenario, ipotizziamo che la motivazione intrinseca, la componente non
materiale dei pay-off, possa avere un effetto non solo sulla scelta ma anche
sulla fitness. Finora non abbiamo fatto ciò per un senso di realismo. Eurialo
puo persuadersi a vivere nella piena correttezza verso Niso perché attribuisce
a tale comportamento un valore intrinseco. Se però poi non arrivano i risultati
economici, se ho -- F3 >F1 <=> p1c +p2b + p3b > p1c + p2a + p3c <=> p2pb +
p3b > p2pa + p3c <=> p2 (b-a) > p3 (c-b) <=> p2 (a-b) < p3
(b-c) p2 < p3. Il valore soglia P2* è pari a P3, come sappiamo dal
risultato. F1 F3 -- ad esempio
costi troppo elevati, la fitness di Eurialo ne risente. Ora però abbandoniamo
questa semplificazione, e ipotizziamo che la fitness sia influenzata anche
dalle motivazioni. Alcuni esperimenti dimostrano come i comportamenti ispirati
da motivazioni intrinseche e da logiche di gratuità, oltre a non avere buoni
sostituti - nel senso che in tali casi altre forme di incentivi monetari non
funzionano - portano anche una maggiore efficienza in termini di risultati.
Perché quindi non ipotizzare una fitness influenzata anche dalle motivazioni
intrinseche? Le fitness del primo e del terzo tipo restano le stesse (questi
due tipi non hanno motivazioni intrinseche), mentre cambia quella del tipo 2,
dove la motivazione intrinseca è rappresentata da un ε > 0,29 che viene
aggiunto ai pay-off materiali. Le fitness dei tre tipi diventano perciò le
seguenti: h. F1 =p1(c) + p2 (a) + p3 (c) F2 =p1 (d) + p2 (b) + p3(b) + ε F3 = p1
(c) + p2 (b )+ p3 (b). Si dimostra che è possibile che la fitness dei tipi 2
sia maggiore anche di quella dei tipi 3. Vale infatti il: Risultato. SE VALGONO
LE IPOTESI a. – d., f., h.: 1. F 2≥ F3, SE E SOLO SE ε≥ p1(C–D)31E
2. F2 ≥ F1, SE E SOLO SE ε≥ P1(C–D) + P2(A–B) + P3(C-B). C’è un rapporto
diretto tra ε e (c –d) dove (c – d) misura il costo della coerenza per la
fitness dei tipi 2, poiché è quanto questi perdono per essere coerenti con la
loro cultura ottenendo “d” quando interagiscono con i tipi 1, invece di
giocare, come i tipi 3, *non* coopera, ottenendo così “c”, che è maggiore di
“d”. Il valore più piccolo che può assumere ε (cioè l’effetto materiale delle
motivazioni intrinseche) affinché valga la disuguaglianza F2>F3, è ε* = p1
(c – d). Possiamo quindi osservare che, maggiore è il costo della coerenza (c –
d), maggiore dovrà essere il valore-soglia ε*. Inoltre, c’è un rapporto diretto
anche tra ε* e p1: se i tipi 1 sono, relativamente, molto numerosi, allora ε*
dovrà essere più alto (e viceversa in caso contrario). Pensiamo, per fare un
esempio, ad una impresa di Economia di Comunione che nel campo della legalità
si comporta come un tipo 2. Paga le tasse, rispetta le leggi, per una norma
etica alla quale attribuisce un valore intrinseco, non strumentale. Un tale
imprenditore se opera in un mercato nel quale il costo della coerenza è molto
alto o i soggetti opportunistici sono relativamente molti, per non estinguersi
dovrà fare in modo che le proprie motivazioni etiche si traducano in maggiore
fitness in una misura relativamente maggiore rispetto allo stesso imprenditore
operante in un mercato più civile e dove i soggetti opportunisti sono meno. Come
a dire che più un mercato, e una -- Rustichini e Gneezy -- A rigore potrebbe
anche essere minore di 0. -- Ipotizziamo quindi che solo i tipi 2 e non i 3
“civili” abbiamo motivazioni intrinseche. F2 ≥F3 ⇔p1(d) + p2(b) + p3(b) + ε>p1c
+ p2b + p3b⇔ ε ≥
p1(c−d). F ≥ F⇔p(d) + p(b)
+ p(b) + ε≥p(c) + p(a)+p(c)⇔ 21123123 ε ≥ p1(c−d)+ p2(a−b)+ p3(c−b) -- società, premia i
“furbi” (con condoni, ecc.) e penalizza i tipi cooperativi (con leggi che non
riconoscono sgravi fiscali per le imprese sociale, ad esempio), più questi
ultimi dovranno far sì che le motivazioni etiche si riflettano in maggiore
efficienza, altrimenti non sopravvivono. Affinché valga invece la seconda
disuguaglianza, F2 ≥ F1, il valore-soglia di ε, che chiameremo “ε ̊”, dovrà
essere: ε ̊ = P1(C – D) + P2(A – B) + P3(C- B). E quale il rapporto tra i tipi
3 e i tipi 1? SE VALGONO LE IPOTESI DEL RISULTATO 4.1, F3 > F1, SE E SOLO SE
P2 < P3 (b − c). (a − b) Come interpretare questo? (b – c) è il vantaggio
dei tipi 3 rispetto ai tipi 1 (solo i tipi 3 co-operano con i tipi 2 ottenendo
“b”), possiamo quindi chiamarlo il premio della cooperazione, mentre (a – b) è
il vantaggio dei tipi 1 rispetto ai 3, perché è il premio dello sfruttamento che
gli standard ottengono nei confronti dei tipi 2, al quale invece i tipi civili
rinunciano. Dal Risultato 4.2. emerge un’affermazione a prima vista
inquietante: affinché si affermino i tipi 3 (sui tipi 1) sarà necessario che i
tipi 2 non siano troppi; in ogni caso questi ultimi potranno essere tanto più
numerosi quanto più il “premio della cooperazione” sovrasta il “premio dello
sfruttamento”. Se infatti i tipi 2 sono numerosi essi diventano pasto per i
tipi 1, che hanno così un vantaggio relativo sui tipi civili. Il risultato
potrebbe, infine, essere ulteriormente rafforzato se che quando un tipo 2 incontra
un altro tipo 2 ottiene un di più dovuto alla reciprocità (il pay-off
diventerebbe in questo caso a). i. F2=P1 (d)+P2(a)+P3(b)+ε La fitness dei tipi
2 potrebbe così essere maggiore di quella dei tipi 3 e 1 con un ε anche minore
rispetto al valore di altro risultato. SE VALGONO LE IPOTESI DEL RISULTATO 4.1
E L’IPOTESI i. 1. F2≥F3, SE E SOLO SE ε≥ p1(C–D)+P2(B–A)
E 2. F2≥F1, SE E SOLO SE ε≥P1(C–D)+P3(C-B). “ε**” e il valore soglia di ε,
affinché valga la disuguaglianza F2≥F3 e, ricordando che la quantità (b – a) è
negativa, possiamo subito notare che ε**≤ ε*. Similmente, ε ̊ ̊ = p1 (c – d) + p3(c –b) è minore di ε ̊. Le
motivazioni intrinseche e il di più della reciprocità si rafforzano a vicenda e
rappresentano una strada molto interessante per esplorazioni. F<F⇔ p(c)+p(a)+p(c)<pc+b+pb⇔p<p(b−c). 1312312323(a−b).
F2 ≥F3 ⇔p1(d)+p2(a)+p3(b)+ε≥p1c
+p2b + p3b⇔ ε ≥
p1(c−d)+ p2(b−a). F ≥F⇔p(d)+p(a)+p(b)+ε≥p(c)+p(a)+p(c)⇔ 21123123ε ≥ p1(c−d)+
p3(c−b). Riassumiamo i punti ai quali
siamo giunti ragionando, con l’aiuto della teoria dei giochi, attorno alle
prospettive e alle sfide di uno scenario economico nel quale fanno la loro
comparsa soggetti diversi da quello standard. Un primo punto emerso in diverse
parti di questo scritto è che un agire economico improntato alla gratuità e
alla reciprocità, o alla comunione, in un ambiente abitato da agenti eterogenei
non cresce con la politica dell’aumento numerico: escludendo l’ipotesi di
perfetta riconoscibilità dei tipi, l’aumento numerico, di per sé non basta a
far sì che i tipi 2 sopravvivano. Sono invece tre gli aspetti strategicamente
cruciali affinché esperienze rette da una logica come quella delineata possano
svilupparsi. Lavorare sulla cultura media della società (che noi abbiamo
espresso con il “terzo tipo”, quello civile): il messaggio che emerge una volta
che abbiamo esteso la dinamica ai terzi tipi è che i tipi 2 possono
sopravvivere e svilupparsi soltanto all’interno di un’economia civile,
un’economia nella quale sono numerosi gli agenti leali, che pur non attribuendo
un alto valore intrinseco all’azione donativa (e quindi non hanno “donare” come
strategia strettamente dominante in tutti i tipi di gioco), sono comunque
corretti se incontrano un agente co-operativo, non lo sfruttano e co-operano
con esso. Poiché le motivazioni intrinseche dipendono in parte
dall’approvazione sociale, esiste un effetto di complementarietà strategica. Tanto
più tali comportamenti sono diffusi, tanto più saranno premianti36. Infatti,
uno sviluppo interessante del modello potrebbe essere quello di vedere sotto
quali condizioni i tipi 1 possono trasformarsi evolutivamente in tipi civili,
ma in questo scritto non lo abbiamo fatto. Va comunque aggiunto che se è vero
che un impegno culturale che si limita a rafforzare le motivazioni intrinseche
dei soggetti di tipo 2 non può bastare, al tempo stesso, però, questa seconda
direzione ricopre un ruolo fondamentale, per evitare che nel tempo scompaia il
tipo 2 e ci si assesti sul terzo tipo. Un mondo senza soggetti che, *almeno in
certi contesti* -- ceteris paribus --, *donano* *incondizionalmente*, sarebbe
un mondo più povero. La presenza dei due tipi civili e griceiani – Eurialo e
Niso -- ci dice che nel tempo saranno questi ultimi gli unici a sopravvivere, a
meno che le motivazioni intrinseche si riflettano nei pay-off ed il loro
“riflesso” sia relativamente grande. Questo risultato è già di per sé
significativo. Anche se in determinati contesti la motivazione intrinseca non
riesce a migliorare la performance dei tipi 2, la presenza, magari solo
transitoria, dei tipi 2 svolge un importante ruolo civile e culturale: permette
cioè che l’incontro (o equilibrio) si assesti sulla reciprocità e non scivoli
nella mutua diffidenza. Senza l’esistenza dei tipi 2, o, paradossalmente, senza
il loro sacrificio, i tipi civili non avrebbero potuto sperimentare la
reciprocità, perché in un mondo popolato solo da loro e da tipi standard,
l’unica esperienza possibile è la diffidenza reciproca, la *non* cooperazione
(war is war). Ciò serve a gettar luce sul significato culturale e civile che
nella storia hanno esperienze radicali -- Ciò implica la possibilità di
equilibri multipli ordinabili, cioè la stessa popolazione può essere altamente
inefficiente o altamente efficiente a seconda che un numero anche piccolo, al
limite anche un solo soggetto, decida di cooperare. 37 E’ infatti verosimile
che i tipi 3, quelli civili, abbiano nel loro “programma” la possibilità della
cooperazione perché nell’ambiente esiste, o è esistito, il tipo 2: certo si
potrebbe teoricamente ipotizzare che i tipi 3 co-operino tra loro anche in
assenza dei tipi 2. Ma, storicamente, la cultura civile dell’umanità è andata
avanti grazie all’esistenza di esperienze *totalitarie* che hanno creato
categorie nuove che poi hanno contaminato la cultura generale. Pensiamo, ancora
una volta, alla regola d’oro, o, più recentemente, ai movimenti ecologisti -- come
la comunione dei beni totale, certe forme di accademie o monachesimo, e in
generale i primi tempi dei fondatori di nuovi carismi (si pensi, per tutti, ad
un Francesco d’Assisi e alla sua vicenda storica. Simili esperienze non sempre
sono riuscite a sopra-vivere con tutta la loro radicalità, ma senza di quelle
chi è venuto in contatto con loro (nella nostra metafora, i “tipi civili”) non
avrebbero potuto elevare il livello della convivenza Senza coloro che si sono
fatti imprigionare, e hanno dato la vita per i diritti o per la libertà, oggi
l’umanità – il tipo umano personale di Grice -- sarebbe meno libera e meno
diritti sarebbero riconosciuti. Un po’ come avviene con il sale, che si perde
nella massa ma dà quel di più al tutto. La metafora del sale non è però l’unica
presente in quel codice della cultura occidentale che è il Vangelo: vi è anche
quell della città sul monte, una città che illumina la città sotto monte. La
dinamica evolutiva potrà condurre l’economia sociale, e l’economia di
comunione, o sul sentiero sale della terra o in quello città sul monte. Ma, in
entrambi i casi, occorre che la cultura rafforzi le motivazioni intrinseche. E forse
questo il messaggio culturale che il giocco conversazionale griceiano vuole
dare. Araujo, V.“Quale visione dell’uomo e della società?”, in Bruni, L. e V.
Moramarco (a cura di), L’Economia di comunione: verso un agire economico a
misura di persona, Milano: Vita e Pensiero. Aristotele, Etica Nicomachea, Milano:
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Game Theory, Cambridge MA: MIT Press. Zanghì, G. Dio che è amore, Roma: Città
Nuova. Luigi
Alici. Keywords: reciproco, alici, amore proprio ed amore altrui, self-love and
other-love – il paradosso della reciprocita – eurialo e niso – noi –
condividere la deliberazione – eidolon – comunita, immunita, genovesi, il
canale morale, la fidanza e il capitale sociale in Genovesi. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice ed Alici” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.
Grice ed Alighieri – filosofia
italiana – filosofia toscana – filosofia fiorentina – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo
italiano. dante. Grice: “Problem with having Alighieri as a philosopher is that
rhyming is not usually considered a priority – that’s why the old Romans like
Lucrezio never had to rhyme – you might say metre is essential to Parmenide and
Lucrezio – and that there is metre in my prose if not in endecasibili!” -- Grice:
“This is important for an Oxonian; since Sir Peter once told me that he made an
effort to understand Italian – ‘or Tuscan implicature,’ to be more precise –
just to be able to digest Inferno compleat with rhyme.’” Grice: “Must say that
my favourite Dante is ‘lasciate ogni speranza voi ch’entrate.”” Grice: “The
Italians, all being Renaissance men, love to catalogue as ‘philosopher’ those
whom the head of the Sub-Faculty of Philosophy at Oxford would NOT: Alighieri,
one of them!” Grice: “But then, a sport of Italian philosophers is to ramble on
“Pinocchio,” too!” -- “The Commedia and philosophy.” Liste di opere in Wiki. Refs.: “Philosophical references in Dante’s
Commedia.” v.17. Sevolemeguardare in LINGUAD'oco
ein LINGUA DI si, ec.e Pag.69. D’oco,ec.N o n giudico superfluo ildire alcuna
cosa su questa v.2. Massimamente quelli di LINGUA denominazione a,ncorchè ne
sia stato già parlato da altri. Era costume de'nostri antichi,volendo essi
denominare il linguaggio d 'una nazione, prendere il suo distintivo dalla
particel. la affermativa del volgare di quella gente. Per tanto la lin gua
Italiana si diceva la lingua del si, la Tedesca dell' io, la Franzese dell’oi,
la provenzale dell’hoc. Eco sì si va d a discorrendo dell'altre lingue.IlVarchịnel
TuoErcolano ac.335. facendosi interrogare dal Conte BaldaflarCastiglionesul
parti colare della lingua Italiana, con queste parole: Cbi la cbie mase
lalinguadelsi? risponde:seguiterebbeuna largbiffimodi. vifione,chehofa
dellelingue,nominandole daquellaparticella,
collaqualeaffermano,comeèlalinguad'hoc,chiamatada volgari lingua d'oca;
perciocchè hoc in quella lingua fignifica quanto væí nella Greca, e etiam ita
mella Lasina, & pelle soffre si; •perciò Dantedife: Ab Pifa, vitupero delle
gesti Del belpaese là, dove 'lsifuona. Ed avanti al Varchi Benvenuto da Imola
su questo medesimo luogo: Quiageneraliteromnisgens Italicautunturifto vulgari
sì; ubi Germani dicunt io, do aliqui Gallici dicunt oi, do aliqui Pedemontani
dicunt ol vel dic: leggo foc credendolo errore del copista nel M Ş. Laurenziano
Derivano tutte queste particelle dal latino, Il “si” nostro dal sico sic est,
eforse più interamenteda sicestbec, od al contrario da hoc eftfoc. L'altra di
queste voci fu presa da' provenzali, cioè l'hoc: e da questa fu non solamente illor
parlare denominato “lingua d'oco”, che vale a dire lingua dell'hoc. Ma il paese
ancora “Linguadoca”. e ne'tempi più
balli della latina lingua fu detto “Occitania”, ilqual paese non è altro che
l'antica Gallia Narbonensis. Lo io del Tedesco da illudbocest, ed in più
perfetta pronunzia “ja”, forse dall'”iam est”. Il Franzese ai, dall “hec illud
est”, che bene si ritrova nell'antico “ouill”, che adesso è diventato “oui”. Ed
in somma il piemontese ol, dall'istesso “hoc illud”. Sicché, a proposito del
passo di Dante, in lingua d’oco, e in lingua di sì, vuol dire in lingua
provenzale, ed in lingua Italiana. V. 24. concioffiacbè. l. conciosracofache.
Lingua, dal lat. 'lingua', voce usata in due signif. principal nel signif.
propr., per quell'organo mobilissimo del corpo anide che è posto nella bocca
ove si stende dall'osso joide fin dietro denti incisivi. Essa è la sede del
senso del gusto, serve alla funzione del succhiare, alla masticazione, alla
deglutizione, alla pronuncia delle parole, ed allo sputare.Varia molto nella
grandezza ha la forma d'una piramide, appianata dall'alto al basso, rotonda su
i suoi angoli, e terminata da certa punta ottusa che guarda ne davanti. E
'lingua' vale pure idioma, linguaggio, favella. Alighieri usa 'lingua' nei due
suoi signif. principali spesse volte nelle sue opere, nel secondo signif.
specialmente nel Vulg. El. Nella Div. Com. 'lingua' si trova 30 volte --19
nell'Inf.(II, 25; X1,72; IIV, XV, 87; XVII, 75; XVIII, 60,126; XXI, 137; XXII,
90; xxx,133; IITL 72, 89; XXVII, 18; XXVIII, 4, 101; xxx, 122; XXXI, 1; XXIII,
9, 1146; 3 volte nel Purg (vii, 17; XI, 98; xix,13) e 8 volte nel Par. 63; X1,
23; XVII, 87; XXIII, 55; XXVI, 124; XXVII,131; XXXIII,70,708). Sulle dottrine
d'Alighieri concernenti la lingua, cioè il linguaggio umano, conviene rimandare
al Vulg. El., specialmente al libro I di quest'opera. Si notino i seguenti usi.
Lingua, riferito a sete; Inf. xxx, 122. Trarre la lingua, per Spingerla fuori
della bocca; atto di SPREGIO; Inf. xvii, 75.-3. Mostrare ciò che puote una
lingua, per Condurre un idioma all'apice della sua perfezione; Purg. VII,
17.-4. Scernere nella lingua, le parole dette o scritte; Purg. XV, 87.-5. La
gloria della lingua, Il pregio d'un idioma, e la maestria dell'usarlo; Purg.
XI, 98.-6. Alighieri chiama la lingua italiana lingua di sì, la provenzale
lingua d'oc, la francese lingua d'oil;Vulg. El. 1, 8, 30 eseg.; cfr. Vit. N.
xxv, 24 e seg.-7. Concernente la lingua primitiva Alighieri esterna in diversi
tempi dee opinioni diverse. Secondo Vulg. El. I, 6, 29 e seg. la lingua dei
primi parenti fu parlata da tutti i loro discendenti sino alla edificazione
della torre di Babele, e dagli Ebrei anche dopo, onde la lingua primitiva fu
semplicemente l'ebraica. Invece secondo Par. XXVI, 124 e seg. la lingua
primitiva, parlata da Adamo, fu tutta spenta già prima della confusione
babilonica, non ha dunque che fare nè coll'ebraica nè con altre lingue.-8.
Anche in merito alla maggiore o minor nobiltà delle lingue latina e volgare
Aligheri muta opinione. Secondo Conv. I, 5, 76 e seg. il latino è più bello,
più virtuoso e più nobile del Volgare. Invece, secondo Vulg. El. 1, 1, il
volgare è più nobile del Latino. La seconda opinione è tutta propria
d'Alighieri e segna un progresso nello svolgimento del suo pensiero. La prima
era l'opinione dominante del tempo, accettata anche d'Alighieri, finchè i suoi
studi lo indussero a lasciarla. La tèrra d’Occitania a gardat fin a aüra un immense patrimòni
gropat simplament a sa lenga, una lenga qu’es istaa la primiera, comà es
ressauput, naissuá dal latin, a èsser escrita, una lenga que vuèlh soventar, a
donat vita a la primiera literatura moderna europencha, quèla qu’a servit de
model per totas las autras lengas, qu’aviá trobat dau l’acomençament sa forma
escrita, fòrça unitaria. Es pas aicí lo luòc adont percorrer l’istòira de
nòstra lenga faça als colonialismes qu’an empachat la creacion d’una lenga e de
istitucions politicas unitarias mas la retrobaa unitarietat culturala de la
tèrra occitana en cèstos darrieri ans a fait creisser un’ideá, beleu un utopiá,
quèla de una Nacion, malaürament sença estat, de una Nacion culturala. Lo
mot Occitaniá, ben conoissut fin a la Rivolucion, a retrobat sa modernitat
geografica, istorica, lingüistica. Malaürosament nòstra lenga ilh es aüra,
apres mila ans, entren de se perdre, de se esvantar al solelh. Un procés qu’a
començat a partir dal segle XVI, quand nòstra tèrra occitana a perdut
definitivament son autonomiá. Quèlos que los expecialistas de la lenga noman
gallicismes, an começat penetrar en Occitaniá sobretot a partir de l’ordonança
de Villers-Cotterêts dal 15 d’aost dal 1539, quand lo francés es devengut lenga
uficiala de la lei e de l’administracion francesa. Eissubliaa la cultura
dal Meianatge, quèla, per se comprener, dals trobaires, la lenga occitana es
chaüta dins l’umbla condicion de, e zo dizo abó una paraula francésa, patois,
patés. Cèsta paraula la vòl dire parlar abó las pautas, abó los pès. Dins
las Valadas avem perdut la valor de la paraula patois e l’anobrem tranquilament
per dire que parlem a nòstra mòda, comà la se ditz dins tantas valadas. Mas lo
mot patois pòl indicar qualsevuèlhe parlar natural dal mond, sença donar una
precisa indicacion sus la lenga parlaa. Per aiquò Occitan es l’unica paraula
que pòl servir per nomar nòstra lenga, l’unica que rend justiça a mila ans
d’istòira. Pas mens de viatge sabem pas de adont arriba nòstre vocabolari,
quala istòira an nòstras paraulas. Comà bien sabon, la plus part dal
vocabolari es d’origina latina, comun a quasi totas las lengas romanzas.
Un’autra partiá dal vocabolari ven dal grec e decò aicí zo partagem abó las
autras lengas; un’autra encara nos ven de las lengas alemandas o germanicas, de
quèlos puèples qu’an envaít l’Imperi roman. Resta una fòrta presença de paraulas
que beleu nos venon de las lengas parlaas dins nòstros territòris quand los
romans sion arribats en çò nòstre: de lengas de sobstrat, que normalment
partatgem en lengas anarias, al es a dire d’ancianas lengas mediterranèa comà
lo ligure, l’etrusc o de lenga arias pre-latinas comà lo gallic o la lenga
celta. Comà la se pòl comprener sien drant a un tresaur lexical en partiá
ben conoissut, mas adont los trabalhs lexicologics abondan pas e adont de
ensemb lingüistic comà l’occitan alpec, nomat a son temps vivarò-alpenc, reston
mal conoissut. Comà a escrit Robert A. Geuljan dins son Dictionnaire
Etymologique de la Langue d’Oc, en ligna, l’occitan “est la seule grande langue
romane dépourvue d’un Dictionnaire Etymologique. Volem pas de segur
far concorrença al trabalh qu’es istat entrenat per lo Prof. Geuljan, mas
prepausar de trabalhs sus l’etimologiá de paraulas pas gaire conoissuás de
nòstra Valadas e de l’encemb occitano-alpenc per arribar, dins lo temps, a la
redaccion d’un Diccionari Etimologic de l’Occitan Alpenc. Pas mens nòstre
Diccionari Etimologic sarè bilengas, es a dire li aurè una partiá entierament
en lenga occitana e una traducion italiana. Escriure un Diccionari sus nòstra
lenga adont per chasca paraula la se dona la traduccion dins una lenga
diferenta de la nòstra me sembla una chausa que vai contra la lenga
meseima. Pensatz a un vocabolari de l’italian o dal francés o de un’autra
lenga adont la descripcion de la paraula siè dins un’autra lenga. Per
l’occitan pareis siè la nòrma. Lo Tresor dóu Felibrige de Mistral, lo
vocabolari de Alibert comà tuts los autri que sion istats realizats dins cèstos
ans donan la paraula en occitan, mas tota la descripcion, e pas mesquè la
traducion, dins un’autra lenga, o lo francés o l’italian. Per far un autre
exemple, plus recent, cito un grand trabalh de lexicografia comà quel de
Jusiana Ubaud, adont tota l’introduccion e la descripcion de l’òbra es en
francés. Perquè un’obra sus la lenga occitana deu èsser ilustraa en se servent
d’un’autra lenga? Cèstos diccionaris rintran dins la categoriá dals vocabolaris
“dialectals”; meseime los pauqui vocabolaris fait aicí dins las Valadas,
normalment de l’occitan local a l’italian, rintran dins aicèsta
categoriá. Los catalans non pas, nos mostran, abó sos Diccionaris, que se
pòion justament redigir de diccionaris completament en lenga sença la sugecion
d’un autra lenga, comà totas las autras lengas nacionalas. Per aiquò, en
cèst espaci, en cèsta rubrica, chercharem de esclarzir l’origina de certenas
paraulas, beleu pas gaire conoissuás, de nòstre vocabolari.
ON ritrovando io, che alcuno avanti me abbia della volgare eloquenzia niuna cosa
trattato. E vedendo questa cotal eloquenzia es sere veramente necessaria a
tutti; conciò sia che ad essa non solamente gli uomini, ma ancora le femine,
& i piccoli fanciulli, in quanto la natura permette, sisforzino pervenire:
e volendo al quanto lucidare la discrezione di coloro, i quali come ciechi
passeggiano per le piazze, e pensano spesse volte, le cose posteriori essere
anteriori; con loaiuto, che Dio cimanda dal cielo, ci sforzeremo di dar
giovamento al parlare delle genti volgari. Nè solamente l'acqua del nostro
ingegno a si fatta bevanda piglie ma remo, ma ancora pigliando, ovvero
compilando le cose migliori da gli altri, quelle con le nostre mescoleremo,
acciò che d'indi possiamo dar bere uno dolcissimo idromele. Ora perciò che
ciascuna dottrina deve non provare, aprire il suo suggetto,acciò si sappia che
co sa sia quella,ne la quale essa dimora,dico, che 'l Parlar Volgare chiamo
quello,nel quale i fanciulli sono assuefatti da gli assistenti, quan do
primieramente cominciano a distinguere le voci,o vero,come piùbrevemente sipuò
dire, ilVolgar Parlare affermo essere quello,ilquale senza altra regola,
imitando la balia, s'appren de.Ecci ancora un altro secondo parlare il quale i
romani chiamano “letteratura” (greco: grammatica). E questo se condario hanno
parimente i greci & altri, ma non tutti; perciò che pochi a l'abito di esso
pervengono; conciò sia che, se non per spazio di tempo & assiduità di
studio, si ponno pren dere le regole, e la dottrina di lui. Di questi dui
parlari adunque ilVolgare è più nobile,si perchè fu il primo che fosse da
l'umana gene razione usato, si eziandio perchè in esso tut to'lmondo ragiona",avegna
che in diversi vocaboli e diverse prolazioni sia diviso; si a n cora per essere
naturale a noi, essendo quel l'altro artificiale: e di questo più nobile è la
nostra intenzione di trattare. Il testo latino ha: ipsa (locutione) perfruitur;
ossia: di esso si serve. non dico nostro,perchè altro parlar ci sia che
quello dell'uomo; perciò che fra tutte le cose che sono, solamente a l'uomo fu
dato il parlare,sendo a lui necessario solo.Certo non a gli angeli, non a gli
animali inferiori fu ne cessario parlare; adunque sarebbe stato dato invano a
costoro, non avendo bisogno di esso. E la natura certamente abborrisce di fare
cosa alcuna invano. Se volemo poi sottilmente con siderare la intenzione del
parlar nostro,niun'al tra ce ne troveremo, che il manifestare ad altri i
concetti de la mente nostra.Avendo adunque gli angeli prontissima, &
ineffabile sufficienzia d'intelletto da chiarire i loro gloriosi concet ti, per
la qual sufficienzia d'intelletto l'uno è totalmente noto all'altro, o per sè,
o almeno per quel fulgentissimo specchio,nel quale tutti sono rappresentati
bellissimi, & in cui avidis simi sispecchiano; pertantopare, chediniuno
segno di parlare abbiano avuto mestieri.Ma chi opponesse a questo, allegando
quei spi riti, che cascarono dal cielo; a tale opposi zione doppiamente si può
rispondere. Prima, che quando noi trattiamo di quelle cose, che Sono Che
l'uomo solo ha il comercio del parlare. Uesto è il nostro vero e primo parlare:
Q a bene essere, devemo essi lasciar da 3 parte, conciò sia che
questi perversi non vol lero aspettare la divina cura. Seconda rispo sta,e
meglio è,che questi demoni a manife stare fra sè la loro perfidia, non hanno
bisogno di conoscere, se non qualche cosa di ciascuno, perchè è, e qua nto è 1:
il che certamente s a n no; perciò che si conobbero l'un l'altro avanti la
ruina loro. A gli animali inferiori poi non fu bisogno provvedere di parlare;
conciò sia che per solo istinto di natura siano guidati.E poi tutti quelli
animali, che sono di una medesima specie, hanno le medesime azioni, e le m e d
e sime passioni; per le quali loro proprietà p o s sono le altrui conoscere; m
a a quelli che sono di diverse specie, non solamente non fu neces sario loro il
parlare, ma in tutto dannoso gli sarebbe stato, non essendo alcuno amicabile
comercio tra essi. E se mi fosse opposto che il serpente che parlò a la prima
femina, e l'a sina di Balaam abbiano parlato, a questo ri spondo, che l'angelo
ne l'asina, & il diavolo nel serpente hanno talmente operato, che essi
animali mossero gli organi loro; e così d'indi la voce risultò distinta, come
vero parlare; non che quello de l'asina fosse altro che rag ghiare e quello del
serpente altro che fischiare. ·Il testo
ha: non indigent,nisiutsciantquilibetde quolibet, quia est, et quantus est.
Parrebbe più proprio iltradurre cosi:non hanno bisogno di conoscere,se non
ciascheduno di ciaschedun altro,che è,e quanto è: ossia l'esistenza e il grado.
Se alcuno poi argumentasse da quello,che Ovi dio disse nel quinto de la
Metamorfosi, che le piche parlarono; dico che egli dice questo figu
ratamente,intendendo altro:ma se si dicesse che le piche al presente &
altri uccelli parlano, dico ch'egli è falso; perciò che tale atto non è parlare,
m a è certa imitazione del suono de la nostra voce; o vero che si sforzano di
imitare noi in quanto soniamo,ma non in quanto par liamo. Tal che se quello che
alcuno espressa mente dicesse, ancora la pica ridicesse, questo non sarebbe se
non rappresentazione, o vero imitazione del suono di quello,che prima avesse
detto.E così appare,a l'uomo solo essere stato dato il parlare; m a per qual
cagione esso gli fosse necessario, ci sforzeremo brievemente trattare. Che fu
necessario a l'uomo il comercio Ovendosi adunque l'uomo non per istinto di natura,ma
per ragione;& essa ra gione o circa la separazione, o circa il giudi dizio,
o circa la elezione diversificandosi in ciascuno;tal che quasi ogni uno de la
sua propria -- La voce del testo discretio sarebbe resa meglio dalla parola
discernimento -- del parlare -- specie s'allegra; giudichiamo che niuno intenda
l'altro per le sue proprie azioni, o p a s sioni, come fanno le bestie; nè
anche per speculazione l'uno può intrar ne l'altro,come l'an gelo, sendo per la
grossezza, & opacità del corpo mortale la umana specie da ciò ritenuta. Fu
adunque bisogno, che volendo la genera zione umana fra sè comunicare i suoi
concetti, avesse qualche segno sensuale e razionale; per ciò che dovendo
prendere una cosa da la ra gione, e ne la ragione portarla, bisognava es sere
razionale; ma non potendosi alcuna cosa di una ragione in un'altra portare,se
non per il mezzo del sensuale, fu bisogno essere sen suale, perciò che se 'l
fosse solamente razio nale,non potrebbe trapassare;se solo sensuale, non
potrebbe prendere da la ragione, nè ne la ragione de porre. E questo è segno
che il subietto, di che parliamo, è nobile; perciò che in quanto è suono,egli è
per natura una cosa sensuale;& inquanto che,secondolavolontà di ciascuno,
significa qualche cosa, egli è ra zionale 1. Iltestoha:Hoc equidem signum
est,ipsum sub jectum nobile,dequoloquimur:naturasensualequi dem, in quantum
sonus est, esse; rationale vero, in quantum aliquid significare videtur ad
placitum. A noi pare più giusto l'interpretare questo passo cosi. Questosegno
(l'aliquod rationale signum et sensuale, di cui ha parlato poche righe più
sopra ) è per l'appunto il nobile soggetto di cui parliamo: sensuale, per n a
tura,in quanto èsuono;razionale,inquantoche,se cheuomofuprimadatoilparlare,
echedisseprima,& inchelingua. l'uomo solo fu dato il parlare. Ora istimo
che appresso debbiamo investigare, a che uomo fu prima dato ilparlare,e che
cosa prima disse, & a chi parlò, e dove e quando, & eziandio in che
linguaggio il primo suo parlare si sciol se. Secondo che si legge ne la prima
parte del Genesis, ove la sacratissima Scrittura tratta del principio del mondo,
si truova la femina, primacheniunaltro,aver parlato,cioèlapre sontuosissima
Eva, la quale al diavolo, che la ricercava, disse, « Dio ci ha commesso, che
non mangiamo del frutto del legno che è nel mezzo del paradiso, e che non lo
tocchiamo, acciò che per avventura non moriamo.» Ma a vegna che in scritto si
trovi la donna aver pri mieramente parlato,non di meno è ragionevol cosa che
crediamo, che l'uomo fosse quello, che prima parlasse. Nè cosa inconveniente mi
pare condo la volontà di ciascuno, significa qualche cosa. Contro la quale
interpretazione stala punteggiatura, e la voce esse del testo,che sarebbe di troppo;
ma,per com penso, il brano riesce più chiaro, e si collega meglio col senso di
tutto il Capitolo. 9 Anifesto è per le cose già dette, che a pensare,che
così eccellente azione de la il generazione umana prima da
l'uomo,che da la femina procedesse. Ragionevolmente adunque crediamo ad esso
essere stato dato primiera mente il parlare da Dio,subito che l’ebbe for
mato.Che voce poi fosse quella che parlò prima, a ciascuno di sana mente può
esser in pronto; & io non dubito che la fosse quella, che è Dio, cioè Eli,
o vero per modo d'interrogazione, o per modo di risposta.Assurda cosa veramente
pare,e da la ragione aliena,che da l'uomo fosse nominata cosa alcuna prima che
Dio; con ciò sia che da esso,& in esso fosse fatto l'uo mo.E
siccome,dopolaprevaricazionedel'u m a n a generazione, ciascuno esordio di
parlare comincia da heu; così è ragionevol cosa, che quello che fu davanti,
cominciasse da alle grezza,e conciò sia che niun gaudio sia fuori diDio,ma
tuttoinDio,& essoDio tuttosiaal legrezza, conseguente cosa è che 'l primo p
a r lante dicesse primieramente Dio. Quindi nasce questo dubbio,che avendo di
sopra detto, l'uomo aver prima per via di risposta parlato, se risposta fu, devette
esser a Dio; e se a Dio, parrebbe,che Dio prima avesse parlato,ilche parrehbe
contra quello che avemo detto di sopra. Al qual dubbio risponderemo,che ben può
l'uo mo averrispostoa Dio, che lointerrogava,nè per questo Dio aver parlato di
quella loquela, che dicemo.Qual è colui,che dubiti,che tutte le cose che sono
non si pieghino secondo il voler diDio,da cuièfatta,governata,econservata
ciascuna cosa? É conciò sia che l'aere a tante alterazioni per
comandamento della natura in feriore si muova, la quale è ministra e fattura di
Dio,di maniera che fa risuonare i tuoni, ful gurare il fuoco, gemere l'acqua, e
sparge le nevi, e slancia la grandine; non si moverà egli per comandamento di
Dio a far risonare al cune parole le quali siano distinte da colui, che maggior
cosa distinse?e perchè no? Laon de & a questa, & ad alcune altre cose
credia mo tale risposta bastare. Dove,& a cuiprima l'uomo abbiaparlato. ta
così da le cose superiori, come da le inferiori), che il primo uomo drizzasse
il suo primo parlare primieramente a Dio, dico, che ragionevolmente esso primo
parlante parlò s u bito,che fu da la virtù animante ispirato: per ciò che ne
l'uomo crediamo,che molto più cosa umana sia l'essere sentito che il sentire,
pur che egli sia sentito,e senta come uomo. Se adunque quel primo fabbro, di
ogni perfezione principio & amatore,inspirando il primo uomo con ogni
perfezione compi, ragionevole cosa mi pare, che questo perfettissimo animale
non prima cominciasse a sentire, che 'l fosse sen tito. Se alcuno poi dicesse
contra le obiezioni, Iudicando adunque (non senza ragione trat che
non era bisogno che l'uomo parlasse, es sendo egli solo; e che Dio ogni nostro
segreto senza parlare, ed anco prima di noi discerne; ora (con quella
riverenzia, la quale devemo usare ogni volta,che qualche cosa de l'eterna
volontà giudichiamo),dico,che avegna che Dio sapesse, anzi antivedesse (che è
una medesima cosa quanto a Dio) il concetto del primo parlante senza parlare, non
di meno volse che esso parlasse; acciò che ne la esplicazione di tanto dono,
colui, che graziosamente glielo avea do nato,se ne gloriasse.E perciò devemo
credere, che da Dio proceda, che ordinato l'atto de i nostri affetti, ce ne
allegriamo. Quinci possiamo ritrovare il loco, nel quale fu mandata fuori
laprimafavella;perciòchesefuanimato l'uo m o fuori del paradiso, diremo che
fuori: se dentro, diremo che dentro fu il loco del suo primo parlare. Ra perchè
i negozj umani si hanno ad esercitare per molte e diverse lingue, tal che molti
per le parole non intesi da molti,che se fussero senza esse; però fia
buono investigare di quel parlare, del quale si crede aver usato l'uomo, che
nacque senza sono altrimente 1 Di che idioma prima l'uomo parld, e donde fu
l'autore di quest'opera. madre, e senza latte si nutri, e che nè
pupil lare età vide,nè adulta.In questa cosa,sì come in altre molte, Pietramala
è amplissima città, e patria de la maggior parte dei figliuoli di Adamo.Però
qualunque si ritrova essere di cosi disonesta ragione, che creda, che il loco
della sua nazione sia il più delizioso, che si trovi sotto il Sole, a costui
parimente sarà licito preporre il suo proprio volgare, cioè la sua materna
locuzione,a tutti gli altri; e conse guentemente credere essa essere stata
quella diAdamo.Ma noi,acuiilmondo èpatria, sì come a'pesci il mare, quantunque
abbiamo bevuto l'acqua d'Arno avanti che avessimo denti,e che amiamo tanto
Fiorenza, che pe averla amata patiamo ingiusto esiglio, non dimeno le spalle
del nostro giudizio più a la ragione che al senso appoggiamo. E benchè se condo
il piacer nostro, o vero secondo la quiete de la nostra sensualità, non sia in
terra loco più ameno di Fiorenza;pure rivolgendo i vo lumi de'poeti e de gli
altri scrittori, ne i quali il mondo universalmente e particularmente si
descrive, e discorrendo fra noi i varj siti dei luoghi del mondo, e le
abitudini loro tra l'uno e l'altropolo,e'lcircolo equatore,fermamente comprendo,
e credo, molte regioni e città es sere più nobili e deliziose che Toscana e Fio
renza, ove son nato, e di cui son cittadino; e molte nazioni e molte genti
usare più dilette vole, e più utile sermone, che gli Italiani. Ritornando
adunque al proposto, dico che una certa forma di parlare fu creata da Dio insie
me con l'anima prima,e dico forma, quanto a i vocaboli de le cose,e quanto a la
construzione de'vocaboli, e quanto al proferir de le con struzioni; la quale
forma veramente ogni par lante lingua userebbe, se per colpa de la pro sunzione
umana non fosse stata dissipata, come di sotto si mostrerà. Di questa forma di
par lare parlò Adamo, e tutti i suoi posteri fino a la edificazione de la torre
di Babel, la quale si interpreta la torre de la confusione. Questa forma di
locuzione hanno ereditato i figliuoli di Heber, i quali da lui furono detti
Ebrei; a cui soli dopo la confusione rimase, acciò che il nostro Redentore, il
quale doveva nascere di loro,usasse,secondo laumanità,dela lin gua de la
grazia, e non di quella de la confusione. Fu adunque lo ebraico idioma quello,
che fu fabbricato da le labbra del primo par lante. ' Il testo ha: qui ex illis
oriturus erat secundum humanitatem,non lingua confusionis, sed gratiæ frue
retur.E deve tradursi: il quale dove vanascere di loro secondo l'umanità, usasse
della lingua della grazia, e non di quella della confusione. Hi come
gravemente mi vergogno di rin 15 e per De la divisione del parlare in più
lingue. A en ta nerazione umana: ma perciò che non possia mo lasciar di passare
per essa, se ben la fac cia diventa rossa, e l'animo la fugge, non starò di
narrarla. Oh nostra natura sempre prona ai peccati, oh da principio, e che mai
non finisce, piena di nequizia; non era stato assai per la tua corruttela, che
per lo primo fallo fosti cacciata, e stesti in bando de la p a tria de le
delizie? non era assai, che per la universale lussuria, e crudeltà della tua
fami glia, tutto quello che era di te, fuor che una casa sola, fusse dal
diluvio sommerso, il male, che tu avevi commesso, gli animali del cielo e de la
terra fusseno già stati puniti? Certo assai sarebbe stato; ma come prover
bialmente si suol dire,Non andrai a cavallo anzi terza; e tu misera volesti
miseramente andare a cavallo.Ecco,lettore, che l'uomo, o vero scordato,o vero
non curando de le prime battiture, e rivolgendo gli occhi da le sferze, che
erano rimase, venne la terza volta a le botte, per la sciocca sua e superba
prosunzio ne. Presunse adunque nel suo cuore lo incu rabile uomo, sotto
persuasione di gigante, di superare con l'arte sua non solamente la na
tura,ma ancoraessonaturante,ilqualeèDio; e cominciò ad edificare una torre in
Sennar, la quale poi fu detta Babel, cioè confusione, per la quale sperava di
ascendere al cielo,avendo intenzione, lo sciocco,non solamente di aggua
gliare,ma diavanzare ilsuo Fattore.Oh cle menzia senza misura del celeste
imperio;qual padre sosterrebbe tanti insulti dal figliuolo? Ora innalzandosi
non con inimica sferza, ma con paterna, & a battiture assueta, il ribel
lante figliuolo con pietosa e memorabile corre zione castigò. Era quasi tutta
la generazione umana a questa opera iniqua concorsa; parte comandava, parte
erano architetti,parte face vano muri,parte impiombavano,parte tiravano le
corde ", parte cavavano sassi, parte per ter
ra,partepermareliconducevano.E cosìdi verse parti in diverse altre opere
s’affatica vano, quando furono dal cielo di tanta con fusione percossi, che
dove tutti con una istessa loquela servivano a l'opera, diversificandosi in
molte loquele, da essa cessavano, nè mai a quel medesimo comercio convenivano;
& a quelli soli, che in una cosa convenivano una · Il Witte osservò che in
luogo di pars amysibus tegulabant, pars tuillis linebant, come leggeva erro
neamente la volgata nel testo latino, si deve leggere: pars amussibus
tegulabant, pars trullis (o truellis) linebant, e si deve tradurre: parte
arrotavano sulle pietre i mattoni,parte con le mestole intonacavano. istessa
loquela attualmente rimase, come a tutti gli architetti una, a tutti i
conduttori di sassi una,a tuttiipreparatori di quegli una, e così avvenne di
tutti gli operanti; tal che di quanti varj esercizj erano in quell'opera, di tanti
varj linguaggi fu la generazione umana disgiunta. E quanto era più eccellente
l'arti ficio di ciascuno, tanto era più grosso e barbaro il loro parlare.
Quelli poscia, a li quali il sacrato idioma rimase, nè erano presenti nè
lodavano lo esercizio loro; anzi gravemente biasimandolo, si ridevano de la
sciocchezza de gli operanti.M a questi furono una minima parte di quelli quanto
al numero; e furono, sì come io comprendo, del seme di Sem, il quale fu il
terzo figliuolo di Noè, da cui nacque il popolo di Israel, il quale usò de la
antiquissima locu zione fino a la sua dispersione. e specialmente in Europa. Er
la detta precedente confusione di lin gue non leggieramente giudichiamo, che
allora primieramente gli uomini furono sparsi per tutti iclimi del mondo e per
tutte le re gioni & angoli di esso. E conciò sia che la P
Sottodivisione del parlare per il mondo, principal radice dela
propagazione umana sia ne le parti orientali piantata, e d'indi da l'u no e
l'altro lato per palmiti variamente diffu si, fu la propagazione nostra
distesa; final mente in fino a l'occidente prodotta, là onde primieramente le
gole razionali gustarono o tutti,o almen parte de ifiumi di tutta Europa. Ma
ofussero forestieri questi, cheallorapri mieramente vennero, o pur nati prima
in E u ropa, ritornassero ad essa; questi cotali por tarono tre idiomi seco; e
parte di loro ebbero in sorte la regione meridionale di Europa, parte la
settentrionale, & i terzi, i quali al presente chiamiamo Greci, parte de
l’Asia e parte de la Europa occuparono.Poscia da uno istesso idio
ma,dalaimmonda confusione ricevuto,nac quero diversi volgari, come di sotto
dimostre remo; perciò che tutto quel tratto, ch'è da la foce del Danubio, o
vero da la palude Meotide, fino a i termini occidentali (li quali da i confini
d'Inghilterra, Italia e Franza, e da l'Oceano sono terminati), tenne uno solo
idioma: ave gna che poi per Schiavoni, Ungari, Tedeschi, Sassoni, Inglesi &
altre molte nazioni fosse in diversi volgari derivato; rimanendo questo solo
per segno, che avessero un medesimo prin cipio, che quasi tutti i predetti
volendo affir mare, dicono jo. Cominciando poi dal termine di questo
idioma,cioè da iconfini de gli Ungari verso oriente,un altro idioma tutto quel
tratto occupò. Quel tratto poi, che da questi in qua si chiama Europa, e
più oltra si stende,o ve ro tutto quello de la Europa che resta, tenne un terzo
idioma 1, avegna che al presente tri partito si veggia; perciò che volendo
affermare, altri dicono oc, altri oil, e altri sì, cioè Spa gnuoli, Francesi
& Italiani.Il segno adunque che i tre volgari di costoro procedessero da
uno istesso idioma,è in pronto;perciò che molte cose chiamano per i medesimi
vocaboli, come è Dio,cielo,amore,mare,terra,e vive,muore, ama,& altri
molti.Di questi adunque de la meridionale Europa, quelli che proferiscono oc
tengono la parte occidentale, che comincia da i confini de'Genovesi; quelli poi
che dicono sì, tengono da i predetti confini la parte orientale, cioè fino a
quel promontorio d'Italia, dal quale comincia il seno del mare Adriatico e la
Sici lia.Ma quelli che affermano con oil,quasi sono settentrionali a rispetto
di questi; perciò che da l'oriente e dal settentrione hanno gli Ale manni, dal
ponente sono serrati dal mare in 1 Il testo ha: A b isto incipiens idiomate,
videlicet a finibus Ungarorum versus orientem aliud occupa vittotum
quodabindevocatur Europa, necnonul terius est protractum. Totum autem, quod in
Europa restat ab istis, tertium tenuit idioma. E deve essere tradotto cosi: A
cominciare da questo idioma, cioè dai confini degli Ungari verso oriente, un
altro idioma occupò l'intero tratto che da quei confini in là si chiama Europa,
e che si protrae anche più oltre. Tutto il tratto poi della rimanente Europa
tenne un terzo idioma. 19 glese, e dai monti di Aragona terminati,
dal mezzo di poi sono chiusi da'Provenzali,e da la flessione de l'Appennino. Noi
ora è bisogno porre a pericolo 1 la ' Il verbo periclitari del testo latino qui
vale mettere alla prova, cimentare. ragione, che avemo, volendo ricercare
di quelle cose ne le quali da niuna autorità siamo aiutati, cioè volendo dire
de la variazione, che intervenne al parlare, che da principio era il medesimo. Ma
conciòsiachepercammininoti più tosto e più sicuramente si vada, però so lamente
per questo nostro idioma anderemo,e gli altri lascieremo da parte, conciò sia
che quello che ne l'uno è ragionevole, pare che eziandio abbia ad esser causa ne
gli altri. È adunque loidioma,deloqualetrattiamo(come ho detto di sopra) in tre
parti diviso, perciò che alcuni dicono oc, altri si, e altri oil. E che questo
dal principio de la confusione fosse uno medesimo (il che primieramente provar
si deve) appare, perciò che si convengono in molti vocaboli,come gli eccellenti
dottori dimostrano; De le tre varietà del parlare, e come col tempo il medesimo
parlare si muta, e de la invenzione de la grammatica. A la quale
convenienzia repugna a la confusione, che fu per il delitto ne la edificazione
di Babel. I Dottori adunque di tutte tre queste lingue in molte cose
convengono, e massimamente in questo vocabolo,Amor. Gerardo di Berneil, «
Surisentis fez les aimes Puer encuser Amor.» Il re di Navara, «De'finamor
sivientsenebenté.» M. Guido Guinizelli, « Nè fè amor, prima che gentil core, Nè
cor gentil,prima che amor,natura.» Investighiamo adunque, perchè egli in tre
parti sia principalmente variato,e perchè cia scuna di queste variazioni in sè
stessa si varii, come la destra parte d'Italia ha diverso par lare da quello de
la sinistra, cioè altramente parlano i Padovani, e altramente i Pisani: e
investighiamo perchè quelli,che abitano più vi cini,siano differenti nel
parlare,come è iMila nesi e Veronesi,Romani e Fiorentini;e ancora perchè siano
differenti quelli,che si convengono sotto un istesso nome di gente,come Napole
tani e Gaetani, Ravegnani e Faentini; e quel che è più maraviglioso, cerchiamo
perchè non si convengono in parlare quelli che in una medesima città dimorano,
come sono i Bolo gnesi del borgo di san Felice, e i Bolognesi della
strada maggiore.Tutte queste differenze adunque,e varietàdi sermone,che
avvengono, con una istessa ragione saranno manifeste. Dico adunque, che niuno
effetto avanza la sua ca gione, in quanto effetto,perchè niuna cosa può fare
ciò che ella non è.Essendo adunque ogni nostra loquela (eccetto quella che fu
da Dio insieme con l'uomo creata) a nostro benepla cito racconcia,dopo quella
confusione,la quale niente altro fu che una oblivione de la loquela prima,
& essendo l'uomo instabilissimo e va riabilissimo animale, la nostra
locuzione ne durabile nè continua può essere; m a come le altre cose che sono
nostre (come sono costumi & abiti),simutano;cosìquesta,secondo ledi stanzie
de iluoghi e dei tempi,è bisogno di va riarsi.Però non è da dubitare che nel
modo che avemo detto,cioè,che con ladistanziadeltempo il parlare non si varii,
anzi è fermamente da tenere; perciò che se noi vogliamo sottilmente investigare
le altre opere nostre,le troveremo molto più differenti da gli antiquissimi
nostri cittadini, che da gli altri de la nostra età, q u a n
tunquecisianomoltolontani1.Ilperchèaudace mente affermo, che se gli
antiquissimi Pavesi ora risuscitassero,parlerebbero di diverso parlare di
quello, che ora parlano in Pavia; nè altrimente questo, ch'io dico, ci paja
maraviglioso, che I qualicisianomolto lontani (magis....quam a coetaneis perlonginquis).
ciparrebbe a vedere un giovane cresciuto,il quale non avessimo veduto
crescere.Perciò che le cose, che a poco a poco si movono, il moto loro è da noi
poco conosciuto;e quanto la va riazione de la cosa ricerca più tempo ad essere
conosciuta, tanto essa cosa è da noi più stabile esistimata.Adunque non ci
ammiriamo,se i discorsi di quegli uomini,che sono poco da le bestie differenti,
pensano che una istessa città abbia sempre il medesimo parlare usato, conciò
sia che la variazione del parlare di essa città non senza lunghissima
successione di tempo a poco a poco sia divenuta, e sia la vita de gli uomini di
sua natura brevissima. Se adunque il sermone ne la istessa gente (come è detto)
successivamente col tempo si varia, nè può per alcun modo firmarse, è
necessario che il par lare di coloro, che lontani e separati dimorano, sia
variamente variato; sì come sono ancora variamente variati i costumi &
abiti loro, i quali nè da natura,nè da consorzio umano sono firmati, ma a
beneplacito, e secondo la conve nienzia de i luoghi nasciuti.Quinci si mossero
gl'inventori de l'arte grammatica; la quale grammatica non è altro che una
inalterabile conformità di parlare in diversi tempi e luo ghi.Questa essendo di
comun consenso di molte genti regulata, non par suggetta al singulare arbitrio
di niuno, e consequentemente non può essere variabile.Questa adunque
trovarono,ac ciò che per la variazion del parlare, il quale De la varietà
del parlare in Italia da la destra e sinistra parte de l'Appennino. Ra uscendo
in tre parti diviso (come di 24 LIBRO PRIMO, per singulare arbitrio si
move,non ci fossero o in tutto tolte, o imperfettamente date le a u torità,
& i fatti de gli antichi, e di coloro da i quali la diversità dei luoghi ci
fa esser divisi. sopra è detto) il nostro parlare nella comparazione di se
stesso, secondo che egli è tri partito, con tanta timidità lo andiamo ponde
rando, che nè questa parte, nè quella, nè quell'altra abbiamo ardimento di
preporre, se non in quello sic, che i grammatici si trovano aver preso per
avverbio di affirmare: la qual cosa pare, che dia qualche più di autorità a gli
Italiani, i quali dicono si.Veramente ciascuna di queste tre parti con largo
testimonio si d i fende. La lingua di oil allega per sè, che, per lo
suopiùfacileepiùdilettevoleVolgare,tutto quello che è stato tradotto, o vero
ritrovato in prosa volgare,è suo;cioè la Bibbia,ifatti de i Trojani e dei
Romani,le bellissime favole del re Artù, e molte altre istorie e dottrine 1.
ma: 0 · Il Fraticelli avverte, a ragione, che qui bisognava tradurre non: la
Bibbia,ifatti de' Trojani... i libri che contengono i fatti de' Trojani. L'altra
poi argomenta per sè, cioè la lingua di oc; e dice che i volgari eloquenti
scrissero i primi poemi in essa, sì come in lingua più perfetta e più dolce;
come fu Piero di Alver nia & altri molti antiqui dottori.La terza poi, che
è de gli Italiani, afferma per dui privilegj esser superiore; il primo è, che
quelli, che più dolcemente e più sottilmente hanno scritti poe mi, sono stati i
suoi domestici e famigliari, cioè Cino da Pistoja, e lo amico suo; il secondo
è, che pare, che più s'accostino a la g r a m m a tica,la quale è comune.E
questo, a coloro, che vogliono con ragione considerare, par g r a vissimo
argomento. M a noi lasciando da parte il giudicio di questo, e rivolgendo il
trattato nostro al Volgare Italiano,ci sforzeremo di dire le variazioni
ricevute in esso, e quelle fra sè compareremo.Dicemo adunque laItalia essere
primamente in due parti divisa,cioè ne la de stra e ne la sinistra; e se alcuno
dimandasse qual è la linea che questa diparte,brievemente
rispondoessereilgiogodel'Appennino;ilquale, come un colmo di fistula, di qua e
di là a diver se gronde piove,e l'acque di qua e di là per lunghi embricia
diversi liti distillan, come Lucano nel secondo descrive; & il destro lato
ha il mar Tirreno per grondatoio, il sinistro v'ha lo Adriatico. Del destro
lato poi sono regioni la Puglia,ma non tutta, Roma, il Ducato 1, + Ducato
di Spoleto. , Toscana,la Marca di Genova.Del sinistro so no parte
de la Puglia, la Marca d’Ancona, la Romagna, la Lombardia, la Marca Tri
vigiana, con Venezia.Il Friuli veramente,e l'Istria non possono essere se non
de la parte sinistra d'Italia; e le isole del mar Tirreno, cioè Sicilia e
Sardigna,non sono se non de la destra, o veramente sono da essere a la destra
parte d'Italia accompagnate.In ciascuno adun que di questi dui lati d'Italia,
& in quelle parti che si accompagnano ad essi, le lingue de gli uomini sono
varie; cioè la lingua de i S i ciliani co iPugliesi, e quella de i Pugliesi co
i Romani,edeiRomani coiSpoletani,edi que sticoiToscani,edeiToscani
coiGenovesi,e de i Genovesi co i Sardi. E similmente quella de i Calavresi con
gli Anconitani, e di costoro coiRomagnuoli,e deiRomagnuoli co iLom
bardi,edeiLombardi coiTrivigianieVene ziani, e di questi co i Friulani, e di
essi con gl'Istriani; ne la qual cosa dico, che nessuno de gl’Italiani
dissentirà da noi. Onde la Italia sola appare in X I V Volgari esser variata:
cia scuno dei quali ancora in sè stesso si varia: come in Toscana i Senesi e
gli Aretini, in L o m bardia i Ferraresi e i Piacentini; e parimente in una
istessa città troviamo essere qualche variazione di parlare,come nel Capitolo
di so pra abbiamo detto. Il perchè se vorremo cal culare le prime, le seconde,
e le sottoseconde variazioni del Volgare d'Italia,avverrà che in Si
dimostra, che alcuni in Italia hanno brutto & inornato parlare. Ssendo
ilVolgareItalianopermoltevarietà dissonante, investighiamo la più bella &
illustre loquela d'Italia; & acciò che a la n o stra investigazione
possiamo avere un picciolo calle, gettiamo prima fuori de la selva gli a r
boriattraversati,elespine.Sicome adunque i Romani si stimano di dover essere a
tutti preposti, così in questa eradicazione, o vero estirpazione, non
immeritamente a gli altri li preporremo; protestando essi in niuna ragione de
la Volgare Eloquenza esser da toccare. Di cemo adunque il Volgare de'Romani,o
per dir meglio il suo tristo parlare, essere il più brutto di tutti i Volgari
Italiani; e non è maraviglia, sendo ne i costumi e ne le deformità de gli abiti
loro sopra tutti puzzolenti. Essi dicono: M e sure, quinte dici 1. Dopo questi
caviamo quelli de la Marca d’Ancona, i quali dicono Chigna mente sciate siate
2; con i quali mandiamo via questo minimo cantone del mondo si verrà,non
solamente a mille variazioni di loquela, m a ancora a molte più. I Sorella mia,
che cosa dici? 2 Qualmente siate state. , i Spoletani. E non è da
preterire, che in vitu perio di queste tre genti sono state molte can zoni
composte, tra le quali ne vidi una drit tamente e perfettamente legata, la
quale un certo fiorentino, nominato ilCastra,avea com posto; e cominciava, «
Una ferina va scopai da Cascoli Cita cita sen gia grande aina '. » Dopo questi
i Milanesi, & i Bergamaschi,& i loro vicini gettiam via; in vituperio
de i quali mi ricordo alcuno aver cantato, Ciò fu del mes d'ochiover. » Dopo
questi crivelliamo gli Aquilejensi, e gli I striani, i quali con crudeli
accenti dicono Ces fastù; e con questi mandiam via tutte lem o n tanine e
villanesche loquele, le quali di brut tezza di accenti sono sempre dissonanti
da i cittadini, che stanno in mezzo le città, come i Casentinesi, & i
Pratesi. I Sardi ancora, i quali non sono d'Italia,ma a la Italiaaccom pagnati,
gettiam via: perchè questi soli ci p a jono essere senza proprio Volgare, &
imitano la grammatica,come fanno le simie gli uomini; perchè dicono, Domus
nova,e Dominus meus. Una ferina vosco poi da Cascoli « In te l'ora del
vespero, Il Fontanini propone di leggere: Zita zita sen gia a grande aina. Zita
vale gita; e aina val fretta. «
Ancor che l'aigua per lo foco lassi. » «Amor, chelongamentem'haimenato.» Ma
questa fama de la terra di Sicilia, se dirit tamente risguardiamo, appare, che
solamente per opprobrio de'principi Italiani sia rimasa; iquali non con modo
eroico,ma con plebeo seguono la superbia. M a quelli illustri eroi Federico
Cesare & il ben nato suo figliuolo Manfredi, dimostrando la nobiltà e
drittezza de la sua forma,mentre che la fortuna gli fu fa vorevole,seguirono le
cose umane,e le bestiali sdegnarono.Ilperchè coloro,cheeranodialto De lo
Idioma Siciliano e Pugliese. Ei crivellati (per modo di dire) Volgari d'Italia,
facendo comparazione tra quelli che nel crivello sono rimasi, brievemente sce
gliamo il più onorevole di essi. E primiera mente esaminiamo lo ingegno circa
il Siciliano, perciò che pare che il Volgare Siciliano abbia assunto la fama
sopra gli altri; conciò sia che tutti i poemi, che fanno gl'Italiani, si chia
mino Siciliani,e conciò sia che troviamo molti dottori di costà aver gravemente
cantato,come in quelle canzoni, Et, Se questo poi non vogliamo
pigliare, ma quello che esce de la bocca de i principali Si ciliani, come ne le
preallegate canzoni si può vedere, non è in nulla differente da quello,che è
laudabilissimo, come di sotto dimostreremo. |Traduzione
letteraledialtripices,chesignifica in gannatori. , cuore e di grazie
dotati,si sforzavano di ade rirsi alla maestà di sì gran principi; talchè in
quel tempo tutto quello, che gli eccellenti Italiani componevano, ne la Corte
di sì gran re primamente usciva. E perchè il loro seggio regale era in Sicilia,
è avvenuto,che tutto quello che i nostri precessori composero in Volgare, si
chiama Siciliano; il che ritenemo ancora noi; & i posteri nostri non lo
potranno mutare.Racha,Racha.Che suona ora la tromba de l'ultimo Federico? che
ilsonaglio del secondo Carlo? che i corni di Giovanni e di Azzo m a r chesi
potenti?cheletibiedeglialtrimagnati? se non, Venite, carnefici; Venite,
altripici 1; Venite, settatori di avarizia.M a meglio è tor nare al proposito,
che parlare indarno. Or dicemo,che se vogliamo pigliare ilVolgar Si
ciliano,cioè quello che vien da imediocri pae sani, da la bocca de i quali è da
cavare il giu dizio, appare, che il non sia degno di essere preposto a gli
altri;perciò che 'l non si profe risce senza qualche tempo, come è in «
Traggemi d'este focora se t'este a bolontate. » I Pugliesi poi, o vero per la acerbità loro, o
vero per la propinquità dei suoi vicini, che sono Romaneschi e Marchigiani,
fanno brutti barbarismi.E'dicono, « Per fino amore vo'si lietamente. » Il
perchè a quelli, che noteranno ciò che si è detto di sopra, dee essere
manifesto, che nè il Siciliano, nè il Pugliese è quel Volgare che in Italia è
bellissimo; conciò sia che abbiamo m o strato, che gli eloquenti nativi di quel
paese sieno da esso partiti. De lo Idioma de i Toscani e dei Genovesi. per la
loro pazzia insensati, pare che a r rogantemente s'attribuiscano il titolo del
V o l gare Illustre; & in questo non solamente la « Volzera che
chiangesse lo quatraro. » Ma quantunque comunemente ipaesani pugliesi parlino
bruttamente, alcuni però eccellenti tra loro hanno politamente parlato, e posto
ne le loro canzoni vocaboli molto cortigiani, come manifestamente appare a chi
iloro scritti con sidera,come è, « Madonna, dir vi voglio. » E, opinione dei
plebei impazzisce, m a ritruovo molti uomini famosi averla avuta: come fu
Guittone d’Arezzo, il quale non si diede mai al Volgare Cortigiano;Bonagiunta
da Lucca,Gallo pisano,Mino Mocato senese,eBrunetto fioren tino, i detti dei quali,
se si avrà tempo di esaminarli,noncortigiani,ma proprjdeleloro cittadi essere
si ritroveranno. Ma conciò sia che i Toscani siano più de gli altri in questa
ebrietà furibondi, ci pare cosa utile e degna torre in qualche cosa la pompa a
ciascuno de i Volgari delle città di Toscana.I Fiorentini par. lano, e dicono,
« Non facciamo altro. » I Pisani, « Bene andonno li fanti de Fioranza per
Pisa.» I Lucchesi, « Fo voto a Dio,che ingassara eie lo comuno de Luca.» I
Senesi, « Vo'tu venire ovelle?» Di Perugia, Orbieto, Viterbo e Città Castel
lana, per la vicinità che hanno con Romani e Spoletani,non intendo dir nulla.Ma
come che quasi tutti i Toscani siano nel loro brutto p a r « Onche rinegata avessi io Siena.» Gli Aretini,
« Manuchiamo introcque.» lare ottusi,non di meno ho veduto alcuni aver
conosciuto la eccellenziadel Volgare,cioè Guido, Lapo & un altro,
fiorentini, e Cino Pistojese, il quale al presente indegnamente posponemo, non
indegnamente costretti.Adunque se esami neremo le loquele toscane, e considereremo,
come gli uomini molto onorati si siano da esse loro proprie partiti, non resta
in dubbio che il Volgare, che noi cerchiamo, sia altro che quello che hanno
ipopoli di Toscana. Se alcu no poi pensasse che quello, che noi affermiamo de
iToscani,non sia da affirmare de iGenovesi, questo solo costui consideri, che
se i Genovesi per dimenticanza perdessero il z lettera, biso gnerebbe loro, o
ver essere totalmente muti, o ver trovare una nuova locuzione; perciò che il z
è la maggior parte del loro parlare; la qual lettera non si può se non con
molta aspe rità proferire. nino, &
investighiamo tutta la sinistra parte d'Italia, cominciando, come far solemo, a
levante. Intrando adunque ne la Romagna, dicemo che in Italia abbiamo ritrovati
dui Vol gari, l'uno a l'altro con certi convenevoli con De loIdioma di
Romagna, edialcuni Transpadani,especialmentedelVeneto. P Assiamo ora le
frondute spalle de l'Appen trarj opposto !, de li quali uno tanto
femenile ci pare per la mollizia dei vocaboli e de la p r o nuncia, che un uomo
(ancora che virilmente parli) è tenuto femina. Questo Volgare hanno tutti
iRomagnuoli, e specialmente i Forlivesi, la città de i quali, avegna che
novissima sia, non di meno pare esser posta nel mezzo di tutta la provincia.
Questi affermando dicono Deusci, e facendo carezze sogliono dire oclo meo,e co
rada mea.Bene abbiamo inteso,che alcuni di costoro ne i poemi loro si sono
partiti dal suo proprio parlare,cioèTomaso & Ugolino Buc ciola faentini.L'altro
de idue parlari,che ave mo detto, è talmente di vocaboli & accenti ir suto
& ispido, che per la sua rozza asperità non solamente disconza una donna
che parli, ma ancora fa dubitare, s'ella è uomo. Questo tale hanno tutti quelli
che dicono magara, cioè Bressani, Veronesi, Vicentini, & anco i P a doani,
i quali in tutti i participj in tus,e de nominativi in tas, fanno brutta
sincope, come è merco, e bonté. Con questi ponemo eziandio i Trivigiani, i
quali al modo de i Bressani, e de i suoi vicini proferiscono lo v consonante
per f, removendo l'ultima sillaba, come è nof p e r n o v e, v i f p e r vivo;
il che veramente è barbarissimo, e riproviamlo. I Veneziani ancora non saranno
degni de l'onore de l'investigato Il testo latino ha: duo.... vulgaria,
quibusdam convenientiis contrariis alternata. tra i quali abbiamo
veduto uno, che si è sfor zato partire dal suo materno parlare, e ridursi al
Volgare Cortigiano, e questo fu Brandino padoano.Laonde tutti quelli del
presente Ca pitolo comparendo alla sentenzia,determiniamo, che nè ilRomagnuolo
nè ilsuo contrario,come si è detto, nè il Veneziano sia quello Illustre Volgare
che cerchiamo. CA Fa gran discussione del Parlare Bolognese. quello che della
italica selva ci resta.D i cemo adunque,che forse non hanno avuta mala opinione
coloro, che affermano che i Bolognesi con molto bella loquela ragionano; conciò
sia che da gli Imolesi,Ferraresi eModenesi qualche cosa al loro proprio parlare
aggiungano; chè tutti, sì come avemo mostrato, pigliano dai loro vicini, come
Sordello dimostra de la sua Mantova, che con Cremona, Bressa e Verona confina.
Il qual uomo fu tanto in eloquenzia, che non solamente ne i poemi, m a in
ciascun modo che parlasse, il Volgare de la sua patria abbandond.Pigliano
ancora iprefati cittadini Volgare; e se alcun di loro, spinto da errore,
in questo vaneggiasse, ricordisi se mai disse, « Per le plage de Dio tu non
verás »; Ra ci sforzeremo, per espedirci,a cercare la leggerezza e
la mollizia da gl'Imolesi, e da i Ferraresi e Modenesi una certa loquacità, la
qual è propria de i Lombardi. Questa, per la mescolanza de i Longobardi
forestieri, crediamo essere rimasa ne gli uomini di quei paesi; e questa è la
ragione, per la quale non ritro viamo che niuno, nè Ferrarese, nè Modenese, nè
Reggiano,sia stato poeta;perciò che assue fatti a la propria loquacità, non
possono per alcun modo,senza qualche acerbità,alVolgare Cortigiano venire. Il
che molto maggiormente de i Parmigiani è da pensare; i quali dicono inonto per
molto. Se adunque i Bolognesi da l'una e da l'altra parte pigliano, come è
detto, ragionevole cosa ci pare che il loro parlare, per la mescolanza de gli
oppositi, rimanya di laudabile suavità temperato: il che per giudi zio nostro
senza dubbio esser crediamo.Vero è che se quelli, che prepongono il Volgare S e
r mone de iBolognesi,nel compararli essi hanno considerazione solamente a i
Volgari de le città d'Italia, volentieri ci concordiamo con loro. M a se
stimano simplicemente il Volgare Bolognese essere da preferire, siamo da essi
differenti e discordi; perciò che egli non è quello che noi
chiamiamoCortigiano& Illustre;ches'elfosse quello,ilmassimo Guido
Guinizelli,Guido Ghis liero,Fabrizio,& Onesto,& altripoetinon sariano
mai partiti da esso; perciò che furono dottori illustri, e di piena
intelligenzia ne le cose volgari. « Più non attendo il tuo soccorso,
Amore. » Le quali parole sono in tutto diverse da le pro prie bolognesi. Ora
perchè noi non crediamo che alcuno dubiti di quelle città che sono poste ne le
estremità d'Italia;e se alcuno pur dubita, non lo stimiamo degno de la nostra
soluzione; però poco ci resta ne la discussione da dire. Laonde disiando di
deporre il crivello, accid che tosto veggiamo quello che in esso è rimaso, dico
che Trento, e Turino,& Alessandria sono città tanto propinque a i termini
d'Italia, che non ponno avere pura loquela; tal che se così come hanno
bruttissimo Volgare,così l'avessono bellissimo, ancora negherei esso essere
vera mente Italiano, per la mescolanza che ha de gli altri.E però se cerchiamo
ilParlare Italiano Illustre, quello che cerchiamo non si può in esse città
ritrovare. Il massimo Guido, Fabrizio, «Madonna,ilfermocore.» « Lo mio lontano gire.
» Onesto e pascoli d'Italia, e non avemo
quella pantera, che cerchiamo, trovato; per potere essa meglio trovare, con più
ragione investi ghiamola; acciò che quella, che in ogni loco si sente, & in
ogni parte appare?, con sollecito studio ne le nostre reti totalmente
inviluppia mo. Ripigliando adunque inostri istrumenti da cacciaredicemo, cheinognigenerazionedi
cose è di bisogno che una ve ne sia,con la quale tutte le cose di quel medesimo
genere si abbiano a comparare e ponderare, e quindi la misura di tutte le altre
pigliare.Come nel numero tutte le cose si hanno a misurare con la unità;e di
consi più e meno, secondo che da essa unità sono più lontane, o più ad essa
propinque. E cosi ne i colori tutti si hanno a misurare col bianco; e diconsi
più e meno visibili, secondo che a lui più vicini, e da lui più distanti si
sono.E sicome diquestichemostrano quan tità e qualità diciamo, parimente di
ciascuno I L'edizione del Corbinelli ha: redolentem ubique, etnec
apparentem.Ilprof.Witte proponedileggere: nec usquam apparentem. De lo
eccellente Parlar Volgare, il quale è comune a tutti gli Italiani. A poi che
avemo cercato per tutti i salti D de i predicamenti e de la
sustancia pensiamo potersi dire; cioè che ogni cosa si può misu rare in quel
genere con quella cosa, che è in esso genere simplicissima. Laonde ne le nostre
azioni, in quantunque specie sidividano,sibi sogna ritrovare questo segno,col
quale esse si abbiano a misurare; perciò che in quello che facciamo come
simplicemente uomini, avemo la virtù,la quale generalmente intendemo?; perciò
che secondo essa giudichiamo l'uomo buono e cattivo;in quello poi che facciamo,
come uomini cittadini,avemo la legge,secondo la quale si dice buono e cattivo
cittadino;così in quello, che come uomini italiani facciamo, avemo le cose
simplicissime. Adunque se le azioni italiane si hanno a misurare e ponde rare
con i costumi, e con gli abiti, e col p a r lare,quelle de leazioni italiane
sono simplicissi me,che non sono proprie di niuna città d'Italia, ma sono
comuni in tutte 2; tra le quali ora si 2Iltestolatinoha:inquantum
uthominesLatini agimus,quædam habemus simplicissima signa,idest morum,et
habituum, et locutionis, quibus Latino actiones ponderantur et mensurantur.
Quce quidem nobilissimasuntearum,quæ Latinorum sunt,actio num,hæc
nulliuscivitatisItaliæ propria sunt,sed in omnibus communia sunt: inter que
nunc potest di scerni Vulgare.... Il Fraticelli raddrizzò la traduzione del
Trissino a questo modo: in quello che, come uomini Il testo latino ha: virtutem habemus, ut
genera literillas(actiones)intelligamus.Edevetradursi:ab biamo per intenderle
(leazioni)generalmente,lavirtù. può discernere il Volgare,che di
sopra cerca vamo, essere quello,che in ciascuna città ap pare, e che in niuna
riposa 1. Può ben più in una,che in un'altra apparere,come fa la sim plicissima
de le sustanzie, che è Dio, il quale più appare ne l'uomo che ne le bestie, e
che ne le piante, e più in queste che ne le miniere, & in esse più che ne
gli elementi,e più nel foco, che ne laterra.E lasimplicissima quantità,che è
uno,più appare nel numero dispari che nel italiani facciamo, abbiamo certi
segni semplicissimi, cioè de'costumi, degli abiti e del parlare, coi quali le
azioni italiane si hanno a misurare e ponderare.Adun que quelle delle azioni
italiane sono nobilissime, che non sono proprie di niuna città d'Italia, ma
sono co muni in tutte: tra le quali ora si può discernere il Volgare.... Il
Trissino, in luogo di nobilissime, ha semplicissime;eforselasua
lezioneèlavera.Levoci nobilissima,hæc,propria,communiaedinterquo non possono
riferirsi ad actiones, ma a signa: cosicchè si dovrebbe tradurre segni nobilissimi.
M a il dir segni nobilissimi è, certo, poco conforme al concetto generale del
Capitolo, nel quale l'autore non parla che di semplicis simi segni: e quindi la
traduzione più propria parrebbe dovesse essere la seguente: ora, quelli, che
sono segni semplicissimi delle azioni degli Italiani, quelli non sonpropri di
nessuna città,ma comuni a tutte:trai
quali....;epiùbrevemente:iqualisegnidelleazioni degli Italiani non son propri
di nessuna città.... 4Vulgare.... quod in qualibet civitate apparet, nec
cubat in ulla. Il Manzoni, citando questo passo nella lettera al Bonghi, da noi
ristampata, traduce più esatta mente: il Volgare, che in ogni città dà sentore
di sè, e non si annida in nessuna. pari; & il simplicissimo
colore,che è ilbianco, più appare nel citrino che nel verde. Adunque ritrovato
quello che cercavamo, dicemo, che il Volgare Illustre, Cardinale, Aulico e
Corti giano in Italia è quello, il quale è di tutte le città italiane, e non
pare che sia di niuna, col quale il Volgare di tutte le città d'Italia si hanno
a misurare, ponderare e comparare. Perchè questo Parlare si chiami Illustre.
Erchè adunque a questo ritrovato Parlare aggiungendo Illustre,Cardinale, Aulico
e Cortigiano, cosi lo chiamiamo, al presente di remo; per il che più
chiaramente faremo parere quello, che esso è. Primamente adunque d i m o
striamo quello che intendiamo di fare, quando vi aggiungiamo Illustre, e perchè
Illustre il dimandiamo.Per questonoiildicemo Illustre, che illuminante &
illuminato risplende. Et a questo modo nominiamo gli uomini illustri, o vero
perchè illuminati di potenzia sogliono con giustizia e carità gli altri
illuminare, o vero perchè eccellentemente ammaestrati, eccellen temente
ammaestrano, come fe'Seneca e Numa Pompilio; & il Volgare di cui parliamo,
il quale innalzato di magisterio e di potenzia, innalza i suoi di onore e di
gloria. E ch'el sia da magisterio innalzato, si vede, essendo egli O n
senza ragione esso Volgare Illustre o r niamodisecondagiunta, cioèche Cardinale
il chiamiamo, perciò che si come tutto l'uscio seguita il cardine, talchè dove
il cardine si volta, ancor esso (o entro, o fuori che 'l si pie Perchè
questo Parlare si chiami Cardinale, di tanti rozzi vocaboli italiani, di tante
per plesseconstruzioni,ditante difettivepronunzie, di tanti contadineschi
accenti, cosi egregio, così districato, così perfetto e così civile ri dotto,
come Cino da Pistoja e l'amico suo ne le loro canzoni dimostrano. Che 'l sia
poi esaltato di potenzia, appare: e qual cosa è di maggior potenzia che quella,
che può i cuori de gli u o mini voltare, in modo che faccia colui che non
vole,volere;e colui che vole,non volere, come ha fatto questo, e fa? Che egli
poscia innalzi di onore chi lo possiede, è in pronto: non sogliono i domestici
suoi vincere di fama ire,imarchesi,iconti,etuttiglialtrigrandi? certo questo
non ha bisogno di pruova.Quanto egli faccia poi i suoi famigliari gloriosi, noi
stessi l'abbiamo conosciuto, i quali per la dol cezza di questa gloria ponemo
dopo le spalle il nostro esilio. Adunque meritamente dovemo esso chiamare
Illustre. NA Aulico, e Cortigiano. Il testo latino ha: Est etiam merito
curiale dicen dum, quia curialitas nil aliud est, etc. Il Fraticelli os serva
in questo proposito quanto segue: « La Curia è il foro,illuogoovesitrattanogliaffaripubblici;ma
es ghi)si volge; cosi tutta la moltitudine de i V o l gari de le città si
volge e rivolge, si move e cessa,secondo che fa questo.Il quale veramente
appare esser padre di famiglia; non cava egli ogni giorno gli spinosi
arboscelli della italica selva? non pianta egli ogni giorno semente o inserisce
piante? che fanno altro gli agricoli di lei se non che lievano, e pongono, come
si è detto? Il perchè merita certamente essere di tanto vocabolo ornato.Perchè
poi ilnominiamo Aulico, questa è la cagione: perciò che se noi Italiani
avessimo Aula,questi sarebbe palatino. Se la Aula poi è comune casa di tutto il
regno, e sacra gubernatrice di tutte le parti di esso; convenevole cosa è che
ciò che si truova esser tale,che sia comune a tutti,e proprio di niuno; in essa
conversi & abiti; nè alcuna altra abi tazione è degna di tanto
abitatore.Questo ve ramente ci pare esser quel Volgare, del quale noi parliamo;
e quinci avviene, che quelli che conversano in tutte le Corti regali, parlano
sempre con Volgare Illustre. E quinci ancora è intervenuto che il nostro
Volgare, come fore stiero va peregrinando, & albergando ne gli umili asili,
non avendo noi Aula.Meritamente ancora sidee chiamare Cortigiano,perciò che la
cortigiania ^ niente altro è,che una pesatura de le cose che si
hanno a fare; e conciò sia che la statera di questa pesatura solamente ne le ec
cellentissime Corti esser soglia, quinci avviene, che tutto quello, che ne le
azioni nostre è ben pesato, si chiama cortigiano. Laonde essendo questo ne la
eccellentissima Corte d'Italia p e sato,merita esser detto Cortigiano.Ma a dire
che 'l sia ne la eccellentissima Corte d'Italia pesato, pare fabuloso, essendo
noi privi di Corte; a la qual cosa facilmente si risponde. Perciò che avegna
che la Corte (secondo che ụnica si piglia, come quella del re di Alema gna) in
Italia non sia,le membra sue però non cimancano;ecome lemembra diquelladaun
principe si uniscono,cosi le membra di questa dal grazioso lume de la ragione
sono unite; e però sarebbe falso a dire, noi Italiani mancar di Corte
quantunque manchiamo di principe; perciò che avemo Corte, avegna che la sia cor
poralmente dispersa, sendo dal Trissino tradotto la Corte, viene a prodursi
confusione,perchè Corte è sinonimo di Aula o Reggia, Per l'esattezza del
significato converrà rendere la voce curialitas per curialità: e cosi in
appresso per cui curiale le voci curia e curialis., e Che i Volgari
Italici in uno si riducono, Uesto Volgare adunque,che essere Illustre, Q
Cardinale,Aulico e Cortigiano avemo dimo strato,dicemo esser quello,che si
chiama Vol gare Italiano; perciò che sì come si può tro vare un Volgare che è
proprio di Cremona, così se ne può trovar uno che è proprio di Lombardia, &
un altro che è proprio di tutta la sinistra parte d'Italia; e come tutti questi
si ponno trovare, così parimente si può trovare quello, che è di tutta Italia.
E sì come quello si chiama cremonese e quell'altro lombardo,e quell'altro di
mezza Italia, così questo che è di tutta Italia si chiama Volgare Italiano.Que
sto veramente hanno usato gl’illustri dottori che in Italia hanno fatto poemi
in Lingua Vol gare; cioè i Siciliani, i Pugliesi, i Toscani, i
Romagnuoli,iLombardi,e quelli delaMarca Trevigiana e de la Marca d’Ancona. E
conciò sia che la nostra intenzione (come avemo nel principio dell'opera
promesso) sia d'insegnare la dottrina de la Eloquenzia Volgare; però da esso
Volgare Italiano,come da eccellentissimo, cominciando, tratteremo nei seguenti
libri, chi e quello si chiama Italiano. siano quelli, che pensiamo
degni di usare esso, e perchè, e a che modo, e dove, e quando, & a chi sia
esso da dirizzare. Le quali cose chia rite che siano, avremo cura di chiarire i
Vol gari inferiori, di parte in parte scendendo sino a quello che è d'una
famiglia sola. e quali no. del nostro ingegno,e ritornando al calamo de
la utile opera,sopra ogni cosa confessiamo, che 'l sta bene ad usarsi il
Volgare Italiano Illustre così ne la prosa, come nel verso. M a perciò che
quelli che scrivono in prosa,pigliano esso Volgare Illustre specialmente da i
trovatori; e però quello che è stato trovato 2, rimane un fermo esempio a le
prose,ma non al contrario; per ciò che alcune cose pajono dare principalità 1
Il Corbinelli e, dietro lui, tutti gli altri hanno poli citantes,che non ha
senso ol'hamoltooscuro;ma forse si deve leggere sollicitantes. Quali sono
quelli che denno usare il Volgare Illustre, P. Romettendo 1 un'altra volta la
diligenzia 2 La voce inventum qui significa poetato. al verso;
adunque secondo che esso è metrico, versifichiamolo 1, trattandolo con
quell'ordine, che nel fine del primo Libro avemo promesso. Cerchiamo adunque
primamente,se tutti quelli che fanno versi volgari, lo denno usare, o no. Vero
è, che cosi superficialmente appare di sì; perciò che ciascuno che fa versi,dee
ornare i suoi versi in quanto 'l può. Laonde non sendo niuno di sì grande
ornamento, com'è il Volgare Illustre, pare che ciascun versificatore lo debbia
usare. Oltre di questo, se quello, che in suo genere è ottimo, si mescola con
lo inferiore, pare che non solamente non gli tolga nulla, ma che lo faccia
migliore.E però se alcun versificatore, ancora che faccia rozza mente versi,lo
mescolerà con la sua rozzezza, non solamente a lei farà bene, ma appare che
così le sia bisogno di fare; perciò che molto è più bisogno di ajuto a quelli
che ponno poco, che a quelli che ponno assai;e così appare che a tutti i
versificatori sia licito di usarlo. M a questo è falsissimo; perciò che ancora
gli eccellentissimi poeti non se ne denno sempre vestire,come per le cose di
sotto trattate si po trà comprendere.Adunque questo Illustre Vol gare ricerca
uomini simili a sé,sì come ancora fanno gli altri nostri costumi & abiti:
la m a gnificenzia grande ricerca uomini potenti, la · Il testo latino ha ipsum
carminemus, che non vale versifichiamolo, ma pettiniamolo, rimondiamolo. porpora
uomini nobili; così ancor questo vuole uomini di ingegno e di scienze
eccellenti; e gli altri dispregia, come per le cose, che poi si diranno, sarà
manifesto.Tutto quello adunque, che a noi si conviene, o per il genere, o per
la sua specie, o per lo individuo ci si convie ne; come è sentire, ridere,
armeggiare; m a questo a noi non si conviene per il genere; perchè sarebbe
convenevole anco a le bestie; ne per la specie; perchè a tutti gli uomini saria
convenevole: di che non c'è alcun dubbio; chè niun dice,che'lsiconvenga
aimontanari.Ma gli ottimi concetti non possono essere, se non dove è
scienzia,& ingegno; adunque la ottima loquela non si conviene a chi tratti
di cose grossolane; conviene sì per l'individuo; m a nulla a l'individuo
conviene se non per le pro prie dignità; come è mercantare, armeggiare,
reggere.E però, selecoseconvenienti risguar dano le dignità, cioè i degni;
& alcuni possono essere degni, altri più degni, & altri degnissi mi;è
manifesto,che le cose buone a i degni,le migliori a i più degni, le ottime a i
degnissimi si convengono. E conciò sia che la loquela non altrimenti sia
necessario istromento a i nostri concetti, di quello che si sia il cavallo al
sol dato; e convenendosi gli ottimi cavalli a gli ottimi soldati, a gli ottimi
concetti (come è detto) la ottima loquela si converrà. M a gli ottimi concetti
non ponno essere,se non dove è scien zia,& ingegno;adunque
laottimaloquelanon si convien se non a quelli, che hanno scienzia,
& ingegno; e così non à tutti i versificatori si convien ottima loquela, e
consequentemente nè l'ottimo Volgare; conciò sia che molti senza scienzia,e
senza ingegno facciano versi.E però, se a tutti non conviene, tutti non denno
usa re esso; perciò che niuno dee far quello, che non si gli conviene.E dove
dice,che ogni uno dee ornare i suoi versi quanto può,affermiamo esser vero; m a
nè il bove efippito !, nè il porco balteato chiameremo ornato,anzi fatto
brutto, e di loro ci rideremo; perciò che l'ornamento non è altro, che uno
aggiungere qualche con venevole cosa a la cosa che si orna. A quello ove si
dice, che la cosa superiore con la infe riore mescolata adduce perfezione, dico
esser vero,quando laseparazionenonrimane;come è, se l'oro fonderemo insieme con
l'argento; ma se la separazione rimane,la cosa inferiore si fa più vile; come è
mescolare belle donne con brutte. Laonde conciò sia che la senten zia de i
versificatori sempre rimanga separata mente mescolata con le parole, se la non
sarà ottima, ad ottimo Volgare accompagnata, non migliore,ma peggiore
apparerà,a guisa di una brutta donna, che sia di seta o d'oro vestita.
Ephipiatum vale insellato, e balteatum vale cin turato. In qual materia
stia bene usare Apoichè avemo dimostrato, che non tutti il Volgare
Illustre. D tissimi denno usare il Volgare Illustre, conse i versificatori, m a
solamente gli eccellen quente cosa è dimostrare poi, se tutte le m a terie sono
da essere trattate in esso, o no; e se non sono tutte, veder separatamente
quali sono degne di esso. Circa la qual cosa prima è da trovare quello che noi
intendiamo,quando dicemo degna essere quella cosa, che ha di gnità, si come è
nobile quello che ha nobiltà; e così conosciuto lo abituante, si conosce lo
abituato, in quanto abituato di questo; però conosciuta la dignità, conosceremo
ancora il degno. È adunque la dignità un effetto, o vero termino de i
meriti;perciò che quando uno ha meritato bene, dicemo essere pervenuto a la
dignità del bene; e quando ha meritato male, a quella del male; cioè quello che
ha ben c o m battuto, è pervenuto a la dignità de la vittoria, e quello che ha
ben governato, a quella del regno; e così il bugiardo a la dignità de la
vergogna, & il ladrone a quella de la morte. Ma conciò sia che in quelli,
che meritano bene, si facciano comparazioni, e cosi ne gli altri, perchè alcuni
meritano bene,altri meglio,altri ottimamente, & alcuni meritano
male, altri peggio,altripessimamente;e conciò ancora sia, che tali comparazioni
non si facciano, se non avendo rispetto al termine de imeriti, il qual termine
(come è detto) si dimanda dignità, manifesta cosa è,che parimente le dignità
hanno comparazione tra sè,secondoilpiù& ilmeno; cioè che alcune sono grandi,
altre maggiori, altre grandissime; e consequentemente alcuna cosa è degna,
altra più degna, altra degnis sima; e conciò sia che la comparazione de le
dignità non si faccia circa il medesimo objetto, ma circa diversi, perchè
dicemo più degno quello che è degno di una cosa più grande, e degnissimo quello
che è degno d'una altra cosa grandissima; perciò che niuno può essere di una
stessa cosa più degno; manifesto è che le cose ottime (secondo che porta il
dovere) sono de le ottime degne.Laonde essendo questo Vol gare (che dicemo
Illustre) ottimo sopra tutti gli altri volgari,consequente cosa è,che solamente
le ottime materie siano degne di essere trat tateinesso;ma
qualisisianopoiquellema terie,che chiamiamo degnissime,è buono al presente
investigarle.Per chiarezza de le quali cose è da sapere, che si come ne l'uomo
sono tre anime, cioè la vegetabile, la animale e la razionale, cosi esso per
tre sentieri cammina; perciò che secondo che ha l'anima vegetabile,
cerca,quello che è utile, in che partecipa con le piante; secondo che ha l'animale,
cerca , quello, che è dilettevole, in che partecipa con le
bestie; e secondo che ha la razionale, cer ca l'onesto, in che è solo, o vero a
la natura angelica s'accompagna; tal che tutto quel che facciamo, par che si
faccia per queste tre cose. E perchè in ciascuna di esse tre sono alcune cose,
che sono più grandi, & altre grandissi me;per la qual ragione quelle cose,
che sono grandissime, sono da essere grandissimamente trattate, e
consequentemente col grandissimo Volgare;ma è da disputare quali si siano que
ste cose grandissime. E primamente in quello, che è utile; nel quale, se
accortamente consi deriamo la intenzione di tutti quelli, che cer cano la
utilità, niuna altra troveremo, che la salute. Secondariamente in quello, che è
dilet tevole; nel quale dicemo quello essere massi mamente dilettevole, che per
il preciosissimo objetto de l'appetito diletta; e questi sono i
piaceridiVenere.Nel terzo,cheèl'onesto, niun dubita essere la virtù. Il perchè
appare queste tre cose,cioè la salute,ipiaceridi Ve nere, e la virtù essere
quelle tre grandissime materie, che si denno grandissimamente trat tare, cioè
quelle cose, che a queste grandissime sono; come è la gagliardezza de l'armi,
l'ar denzia de l'amore, e la regola de la volontà. Circa le quali tre cose sole
(se ben risguar diamo) troveremo gli uomini illustri aver vol garmente cantato;
cioè Beltramo di Bornio le armi; Arnaldo Danielo lo amore; Gerardo de Bornello
la rettitudine; Cino da Pistoia lo a m o re; lo amico suo la rettitudine.
Beltramo adunque dice, « Non puesc mudar q'un chantar non esparja. » Arnaldo, «
Laura amara fa 'ls broils blancutz clarzir. » Gerardo, N o n trovo poi, che
niun Italiano abbia fin qui cantato de l'armi. Vedute adunque queste cose (che
avemo detto), sarà manifesto quello, che sia nel Volgare Altissimo da cantare. In
qual modo di rime si debba usare R a ci sforzeremo sollicitamente d'investi 0
gareilmodo,colqualedebbiamo stringere quelle materie, che sono degne di tanto V
o l gare.Volendo adunque dare ilmodo, col quale , « Per solatz revelhar
Que s'es trop endormitz.» « Degno son io,che mora.» « Doglia mi reca nelo cuore
ardire. » il Volgare Altissimo. Cino, Lo amico suo, queste degne materie
si debbiano legare; primo dicemo doversi a la memoria ridurre,che quelli, che
hanno scritto Poemi volgari,hanno essi per molti modi mandati fuori; cioè
alcuni per C a n zoni, altri per Ballate, altri per Sonetti, altri per alcuni
altri illegittimi & irregolari modi, Come di sotto simostrerà. Di questi
modi adun que il modo de le Canzoni essere eccellentissi m o giudichiamo; là
onde se lo eccellentissimo è delo eccellentissimo degno, come di sopra è
provato,le materie che sono degne de lo eccel lentissimo Volgare, sono
parimente degne de lo eccellentissimo modo,e consequentemente sono da trattare
ne le Canzoni;e che 'l modo de le Canzoni poi sia tale, come si è detto, si può
per molte ragioni investigare.E prima,essendo Canzone tutto quello che si
scrive in versi, & essendo a le Canzoni sole tal vocabolo attri buito,
certo non senza antiqua prerogativa è processo. Appresso, quello che per sè
stesso adempie tutto quello per che egli è fatto, pare esser più nobile, che
quello che ha bisogno di cose che sieno fuori di sè; m a le Canzoni fanno per
sè stesse tutto quello che denno; il che le Ballate non fanno,perciò che hanno
bisogno di sonatori,aliqualisonofatte;adunque séguita, che le Canzoni siano da
essere stimate più n o bili de le Ballate, e consequentemente il modo loro
essere sopra gli altri nobilissimo, conciò sia che niun dubiti, che il modo de
le Ballate non sia più nobile di quello de i Sonetti. A p , presso
pare, che quelle cose siano più nobili, che arrecano più onore a quelli che le
hanno fatte; e le Canzoni arrecano più onore a quelli che le hanno fatte, che
non fanno le Ballate; adunque sono di esse più nobili, e consequen temente il
modo loro è nobilissimo. Oltre di questo, le cose che sono nobilissime, molto
ca ramente si conservano; m a tra le cose cantate, le Canzoni sono molto
caramente conservate, come appare a coloro che vedeno ilibri; adun que le
Canzoni sono nobilissime,e consequen temente ilmodo loro è
nobilissimo.Appresso, ne le cose artificiali quello è nobilissimo che comprende
tutta l'arte; essendo adunque le cose,che si cantano, artificiali, e ne le
Canzoni sole comprendendosi tutta l'arte, le Canzoni
sononobilissime,ecosìilmodo loroènobi lissimo sopra gli altri.Che tutta l'arte
poi sia ne le Canzoni compresa,in questo simanifesta, che tutto quello che si
truova de l'arte, è in esse,ma non si converte 1. Questo segno adun que di ciò
che dicemo, è nel cospetto di ogni uno pronto; perciò che tutto quello che da
la cima de le teste de gli illustri poeti è disceso a le loro labbra,solamente
ne le Canzoni si ri truova. E però al proposito è manifesto, che quelle cose
che sono degne di Altissimo V o l gare, si denno trattare ne le Canzoni. Sed
non convertitur.Più chiaro di non si converte sarebbe però non e
converso,ovvero non al contrario. De la varietà de lo stile secondo la qualità
de la poesia. L'adpotiavimusdellatinononvaleavemoapprovato, ma abbiamo dato a
bere.Il Fraticelli propone che si tra duca per traslato: abbiamo dato un
saggio. A poi che avemo districando approvato 1 co, e che materie siano
degne di esso, e parimente il modo, il quale facemo degno di tanto onore, che
solo a lo Altissimo Volgare si con venga; prima che noi andiamo ad altro, di
chiariamo il modo delle ca nzoni, le quali pajono da molti più tosto per caso
che per arte usur parsi. E manifestiamo il magisterio di quel l'arte, il quale
fin qui è stato casualmente preso, lasciando da parte il modo deleBallate e de
i Sonetti; per ciò che esso intendemo dilu cidare nel quarto Libro di
quest'opera nostra, quando del Volgare Mediocre tratteremo. R i veggendo
adunque le cose che avemo detto, ci ricordiamo avere spesse volte quelli, che
fanno versi volgari, per poeti nominati; il che senza dubbio ragionevolmente
avemo avuto ardimento di dire; per ciò che sono certamente poeti, se drittamente
la poesia consideriamo; la quale non è altro che una finzione rettorica, e po
sta in musica.Non di meno sono differenti da i , grandi poeti, cioè da i
regulati; per ciò che quelli 1 hanno usato sermone & arte regulata, e
questi (come si è detto) hanno ogni cosa a caso; il perchè avviene, che quanto
più stret tamente imitiamo quelli 2,tanto più drittamente componiamo; e però
noi, che volemo porre ne le opere nostre qualche dottrina, ci bisogna le loro
poetiche dottrine imitare. Adunque s o pra ogni cosa dicemo, che ciascuno
debbia pi gliare il peso de la materia eguale a le proprie spalle, a ciò che la
virtù di esse dal troppo peso gravata, non lo sforzi a cadere nel fango. Questo
è quello, che il maestro nostro Orazio comanda,quando nel principio dela sua
Poe tica dice, « Voi, che scrivete versi, abbiate cura Di tor subjetto al valor
vostro eguale.» Dapoinelecose,che cioccorrono + Il testo latino ha isti:quindi
non quelli,ma questi; e per conseguenza nella riga seguente non questi, ma
quelli. Sarebbe più chiaro dire i primi in luogo di quelli. devemo usare
divisione, considerando da cantarsi con modo tragico,o comico, o ele giaco. Per
la Tragedia prendemo lo stile s u periore,per la Commedia lo inferiore, per l'E
dei miseri. Se le cose che ci oc legia quello cantate col correno, pare che
siano da essere modo tragico, allora è da pigliare il Volgare Illustre, e
conseguentemente da legare la Can a dire, se sono 1 Il testo latino ha:
tensis fidibus adsumat secure plectrum; che deve essere tradotto: tese le corde,
a s suma francamente ilplettro. zone; m a se sono da cantarsi con cómico,
si piglia alcuna volta ilVolgare Mediocre, ed al cuna volta l'Umile; la
divisione de i quali nel quarto di quest'opera ci riserviamo a mostra re. Se
poi con elegiaco, bisogna che solamente pigliamo l'Umile.M a lasciamo gli altri
da parte, & ora (come è il dovere) trattiamo de lo stile tragico. Appare
certamente, che noi usiamo lo stile tragico, quando e la gravità de le sen
tenzie, e la superbia de i versi, e la elevazione de le construzioni,e la
eccellenzia de ivocaboli si concordano insieme. M a perchè (se ben ci
ricordiamo) già è provato, che le cose somme sono degne de le somme, e questo
stile che chiamiamo tragico, par e essere il sommo dei stili; però quelle cose
che avemo già distinte doversi sommamente cantare, sono da essere in questo
solo stile cantate; cioè la salute, lo amore e la virtù, e quelle altre cose,
che per cagion di esse sono ne la mente nostra conce pute, pur che per niun
accidente non siano fatte vili. Guardişi adunque ciascuno, e di scerna quello
che dicemo; e quando vuole que ste tre cose puramente cantare, o vero quelle
che ad esse tre dirittamente e puramente se gueno, prima bevendo nel fonte di
Elicona, ponga sicuramente a l'accordata lira il sommo plettro 1,e
costumatamente cominci.Ma a fare questa Canzone e questa divisione
come si dee, qui è la difficultà, qui è la fatica; per ciò che mai senza acume
d'ingegno, nè senza assiduità d'arte, nè senza abito di scienze non si potrà
fare. E questi sono quelli che 'l Poeta nel VI de la Eneide chiama diletti da
Dio, e da la ar dente virtù alzati al cielo, e figliuoli de gli Dei, avegna che
figuratamente parli. E pero si confessa la sciocchezza di coloro, i quali senza
arte,e senza scienzia,confidandosi solamente del loro ingegno, si pongono a
cantar som mamente le cose somme.Adunque cessino que sti tali da tanta loro
presunzione; e se per la loro naturale desidia sono oche, non vogliano
l'aquila,che altamente vola, imitare sentenzie a bastanza, o almeno tutto
quello che a l'opera nostra si richiede; il perchè ci affretteremo di andare a
la superbia dei versi. Circa i quali è da sapere, che i nostri pre cessori
hanno ne le loro Canzoni usato varie sorti di versi, il che fanno parimente
imoder ni; m a in fin qui niuno verso ritroviamo, che abbia oltre la undecima
sillaba trapassato, nè sotto la terza disceso. Et avegna che i Poeti , De
lacomposizionedeiversi e de la loro varietà sillabica. Noi pare di aver detto
de la gravità de le A Italiani abbiano usate tutte le sorti di
versi, che sono da tre sillabe fino a undici, non di meno il verso di cinque
sillabe, e quello di sette, e quello di undeci sono in uso più fre quente; e
dopo loro si usa il trisillabo più de gli altri; de gli quali tutti quello di
undeci sillabe pare essere il superiore sì di occupa zione di tempo, come di
capacità di sentenzie, di construzioni e di vocaboli; la bellezza de le quali
cose tutte si moltiplica in esso, come manifestamente appare, per ciò che
ovunque sono moltiplicate le cose che pesano, si molti plica parimente il
peso.E questo pare che tutti i dottori abbiano conosciuto, avendo le loro
illustri Canzoni principiate da esso; come G e rardo di Bornello, « Ara auzirez
encabalitz cantars.» Il qual verso avegna che paja di dieci silla be,è
però,secondo la verità de la cosa, di undeci; per ciò che le due ultime
consonanti non sono de la sillaba precedente.Et avegna che non abbiano propria
vocale, non perdono peròlavirtùdelasillaba;& ilsegnoè,che ivi la rima si
fornisce con una vocale; il che essere non può se non per virtù de l'altra che
ivi si sottintende. Il re di Navara, «De finamor sivient sen e bonté.» Ove se
si considera l'accento e la sua cagione, apparirà essere endecasillabo. ,
«Amor,che longiamente m'hai menato.» «Per finamore vo silietamente.» « Amor,
che muovi tua virtù dal cielo.» «Al cor gentil ripara sempre amore.» 11
Giudice di Colonna da Messina, Guido Guinicelli, Rinaldo d'Aquino, «Non spero
che giammai per mia salute.» Et avegna che questo verso endecasillalo (co me
sièdetto)siasopratuttiperildoverece leberrimo, non di meno se'l piglierà una
cer ta compagnia de lo eptasillabo, pur che esso però tenga il principato, più
chiaramente e più altamente parerà insuperbirsi, ma questo si rimanga più oltra
a dilucidarsi. Così diciamo che l’eptasillabo segue a presso quello che è
massimo ne la celebrità. Dopo questo quello che chiamiamo pentasillabo,e poi il
trisillabo ordiniamo.Ma quel di nove sillabe, per essere il trisillabo
triplicato, o vero mai non fu in onore, o vero per il fastidio è uscito di uso.
Quelli poi di sillabe pari, per la sua rozzezza non usiamo se non rare volte;
per ciò che ri tengono la natura de i loro numeri,i quali s e m Cino da Pistoja,
Lo amico suo: Erchè circa il Volgare Illustre la nostra nobilissimo;
però avendo scelte le cose che sono degne di cantarsi in esso, le quali sono
quelle tre nobilissime che di sopra avemo pro vate; & avendo ad esse eletto
il modo de le Canzoni, si come superiore a tutti gli altri modi, & a ciò
che esso modo di Canzoni pos siamo più perfettamente insegnare, avendo già
alcune cose preparate, cioèlostile,& iversi; ora de la construzione diremo.
È adunque da sapere, che noi chiamiamo construzione una regulata composizione
di parole, come è, Ari stotile diè opera a la filosofia nel tempo di
Alessandro. Qui sono diece parole poste regu latamente insieme, e fanno una
construzione. pre soggiaceno a i numeri caffi, sì come fa la materia a la
forma. E cosi raccogliendo le cose dette, appare lo endecasillabo essere su
perbissimo verso; e questo è quello che noi cercavamo. Ora ci resta di
investigare de le construzioni elevate e de i vocaboli alti, e fi nalmente,
preparate le legne e le funi, inse gneremo a che modo il predetto fascio, cioè
la Canzone, si debba legare. De le construzioni, che si denno usare ne le
Canzoni. P si M a circa questa prima è da considerare, che de le
construzioni altra è congrua, & altra è incongrua.E
perchè(seilprincipiodelano stra divisione bene ciricordiamo)noi cerchiamo
solamente le cose supreme, la incongrua in questa nostra investigazione non ha
loco; per ciò che ella tiene il grado inferiore de la bontà. Avergogninsi
adunque, avergogninsi gli idioti di avere da qui innanzi tanta audacia, che v a
dano aleCanzoni;de iquali non altrimenti so lemo riderci, di quello che si
farebbe d'un cieco,ilqualedistinguesseicolori1.È adun que la construzione
congrua quella che cerchia mo.Ma ci accade un'altra divisione 2 di non minore
difficultà, avanti che parliamo di quella construzione,che cerchiamo,cioè di
quella che è pienissima di urbanità; e questa divisione e, che molti sono i
gradi de le construzioni, cioè lo insipido, il quale è de le persone grosse,
come è, Piero ama molto madonna Berta. Ecci il semplicemente saporito, il quale
è de i scolari rigidi, o vero de i maestri, come è, Di
tuttiimiserim'incresce;ma homaggiorpietà di coloro, i quali in esiglio
affliggendosi, r i vedeno solamente in sogno le patrie loro. Ecci ancora il
saporito e venusto, il quale è di alcuni, che così di sopra via pigliano la R e
t torica,come è,La lodevole discrezione del Meglio, forse, ragionasse o
giudicasse di colori. 2 Meglio distinzione (discretio). «Nuls hom non pot complir adreitamen.» Amerigo
di Peculiano, «Si com’l'arbres,que per sobrecarcar.» ' Præparata qui ha il
senso di preveniente. « Si per mon Sobretot no fos.» Il re di Navara, « T
a m m'abelis l'amoros pensamens. » Arnaldo Daniello, marchese da Este,e la sua
preparata 1 magni ficenzia fa esso a tutti essere diletto. Ecci a p presso il
saporito e venusto, ed ancora eccelso, ilqualeèdeidettatiillustri,come è,Avendo
Totila mandato fuori del tuo seno grandissima parte de i fiori, o Fiorenza,
tardo in Sicilia, e indarno se n'andd. Questo grado di constru zione chiamiamo
eccellentissimo, e questo è quello che noi cerchiamo, investigando (come si è
detto ) le cose supreme. E di questo sola mente le illustri Canzoni si trovano
conteste, come: Gerardo, « Dreit amor qu'en mon cor repaire.» Folchetto di
Marsiglia, « Sols sui qui sai lo sobrafan, que m sorts.» Amerigo de
Belimi, « Tegno di folle impresa a lo ver dire.» « Avegna ch'io non
aggia più per tempo.» « Amor, che ne la mente mi ragiona.» N o n ti
maravigliare, lettore, che io abbia tanti autori a la memoria ridotti; per ciò
che non possemo giudicare quella construzione, che noi chiamiamo suprema, se
non per simili esempj. E forse utilissima cosa sarebbe per abituar quella, aver
veduto i regulati poeti, cioè Virgilio, la Metamorfosi di Ovidio, Stazio e
Lucano, e quelli ancora che hanno usato al tissime prose; come è Tullio, Livio,
Plinio, Frontino, Paolo Orosio, e molti altri, i quali la nostra amica
solitudine ci invita a vedere. Cessino adunque i seguaci de la ignoranzia, che
estolleno Guittone d'Arezzo, & alcuni al tri, i quali sogliono alcune volte
1 ne i vocaboli e ne le construzioni essere simili a la plebe. Nunquam
invocabulisatqueconstructionedesuetos plebescere.Non dunque alcune volte,ma
sempre., Guido Cavalcanti, « Poi che di doglia cor convien, ch'io porti.» >
Guido Guinizelli, Cino da Pistoja, Lo amico suo, 1 dere ricerca,
che siano dichiarati quelli vocaboli grandi, che sono degni di stare sotto
l'altissimo stile. Cominciando adunque, affir miamo non essere piccola
difficultà de lo intel letto a fare la divisione dei vocaboli; per cið che
vedemo, che se ne possono di molte m a niere trovare.De i vocaboli adunque
alcuni sono puerili, altri feminili, & altri virili, e di questi alcuni
silvestri,& alcuni cittadineschi chiamia m o 1,& alcuni pettinati, e
lubrici; alcuni irsuti e rabuffati conosciamo; tra i quali i pettinati e
gl’irsuti sono quelli che chiamiamo grandi; i lubrici poi e i rabuffati sono
quelli la cui riso nel metro volgare. A successiva provincia del nostro
proce. Quali vocaboli si debbano porre e quali no 1IlCorbinelliha:ethorum
quædam silvestria,quæ dam urbania:eteorum,quo urbana vocamus,quo dam
pesaethirsuta,quædam lubricaetreburrasenti
mus.LatraduzionedelTrissinovaraddrizzatacosi:edi questi alcuni silvestri,e
alcuni cittadineschi;e di quelli che chiamiamo cittadineschi, alcuni pettinati
e irsuti, alcuni lubricierabbuffati. Altrihanno invece:quædam pexaetlubrica, quædam
hirsutaetreburra:cioèal cunipettinati e lubrici (ossia scorrenti),alcuni irsuti
e rabbuffati., nanzia è superflua; per ciò che si come ne le grandi opere
alcune sono opere di magnanimità, altre di fumo, ne le quali avvenga che così
di sopra via paja un certo ascendere,a chi però con buona ragione esse
considera, non ascendere, m a più tosto ruina per alti precipizj essere g i u
dicherà; con ciò sia che la limitata linea de la virtù si trapassi. Guarda
adunque, lettore, quanto per scegliere le egregie parole ti sia bisogno di
crivellare; per ciò che se tu consi deri il Volgare Illustre, il quale i Poeti
Vol gari, che noi vogliamo ammaestrare, denno (come di sopra si è detto)
tragicamente usare, averai cura, che solamente i nobilissimi v o c a boli nel
tuo crivello rimangano. Nel numero dei quali ne i puerili per la loro
simplicità, com'è mamma e babbo,mate epate,per niun modo potrai collocare; nè
anco i feminili, per la loro mollezza, come è dolciada e placevole; nè i
contadineschi per la loro austerità, come è gregia e gli altri; nè i
cittadineschi, che siano lubrici e rabuffati, come è femine e corpo, vi si
denno porre. Solamente adunque i citta dineschi pettinati & irsuti vedrai
che ti resti no, i quali sono nobilissimi, e sono membra del Volgare Illustre.
E noi chiamiamo pettinati quelli vocaboli, che sono trisillabi, o vero v i
cinissimi al trisillabo, e che sono senza aspi razione, senza accento acuto, o
vero circum flesso, senza z nè a duplici, senza gemina zione di due liquide, e
senza posizione, in cui ·Qucecampsarenonpossumus, cioèchenonsipos
sono scansare. la muta sia
immediatamente posposta, e che fanno colui che parla quasi con certa soavità
rimanere, come è amore, donna, disio, virtute, donare, letizia, salute,
securitate, difesa. Ir sute poi dicemno tutte quelle parole, che oltra queste
sono o necessarie al parlare illustre, ornative di esso. E necessarie chiamiamo
quel le che non possiamo cambiare 1; come sono al cune monosillabe, cioèsi,vo,me,te,se,a,e,i,
0,u;eleinterjezioni,& altremolte.Ornative poi dicemo tutte quelle di molte
sillabe, le quali mescolate con le pettinate fanno una bella armonia ne la
struttura, quantunque abbiano asperità di aspirazioni, di accento, e di d u
plici, e di liquide, e di lunghezza, come è terra, onore, speranza, gravitate,
alleviato, impossibilitate, benavventuratissimo, avventu ratissimamente,
disavventuratissimamente, sovra magnificentissimamente, il quale vocabolo è
endecasillabo.Potrebbesi ancora trovare un vocabolo, o vero parola, di più
sillabe, m a perchè egli passerebbe la capacità di tutti i nostri versi, però a
la presente ragione non pare opportuno; come è onorificabilitudinitate, il
quale in volgare per dodeci sillabe si compie; & in grammatica per tredeci,
in dui obliqui però.In che modo poi le pettinate siano da es sere ne i versi
con queste irsute armonizate, lascieremo ad insegnarsi di sotto.E
questo che si è detto de l'altezza dei vocaboli, ad ogni gentil discrezione 1
sarà bastante. Ra preparate le legne e le funi, è tempo da legare il fascio; ma
perchè la cogni zione di ciascuna opera dee precedere a la ope razione,laquale
ècome segno avanti iltrarre de la sagitta,ovvero del dardo;però prima,e
principalmente veggiamo qual sia questo fascio, che volemo legare. Questo
fascio adunque bene ci ricordiamo tutte le cose trattate) è la Canzone; eperòveggiamochecosasia
Canzone, e che cosa intendemo quando dicemo Canzone. La Canzone dunque,secondo
la vera significa zione del suo nome, è essa azione o vero pas sione del
cantare; sì come la lezione è la pas sione o vero azione del leggere; m a
dichiariamo quello che si è detto, cioè, se questa si chiama Canzone, in quanto
ella sia azione o in quanto passione del cantare. Circa la qual cosa è da
considerare, che la Canzone si può prendere in dui modi, l'uno de li quali modi
è, secondo "Ingenuce discretioni,cioè ad ogni non viziato di scernimento. ,
Che cosa è Canzone, e che in più maniere può variarsi. o tuono, o
nota, o melodia. E niuno trombetta, o organista, o citaredo chia m a il canto
suo Canzone, se non in quanto sia accompagnato aqualche Canzone;ma quelli che
compongono parole armonizate, chiamano le opere sue Canzoni.Et ancora che tali
pa role siano scritte in carte e senza niuno che le proferisca, si chiamano
Canzoni; e però non pare che la Canzone sia altro, che una c o m che ella è fabbricata dal suo autore; e così è
azione; e secondo questo modo Virgilio nel primo de l'Eneida dice, « lo canto
l'arme e l'uomo.» L'altro modo è, secondo il quale ella da poi che è fabbricata
si proferisce, o da lo autore, o da chi che sia,o con suono,osenza,ecosì è
passione. E perchè allora da altri è fatta, & ora in altri fa, e così
allora azione, & ora passione essere si vede.Ma conciò sia che essa è prima
fatta,e poi faccia;pero più tosto,anzi al tutto par che si debbia nominare da
quello che ella è fatta, e da quello che ella è azione di alcuno,che da quello
che ella faccia in altri. Et il segno di questo è, che noi non dicemo mai,
questa Canzone è di Pietro perchè esso la proferisca, m a perchè esso l'abbia
fatta. O l tre di questo è da vedere, se si dice Canzone la fabbricazione de le
parole armonizate, o vero essa modulazione, o canto; a che dicemo, che m a i il
canto n o n si c h i a m a Canzone, ma 0 suono, piuta azione di
colui, che detta parole a r m o nizate,& atte al canto. Laonde così le
Canzo ni,che ora trattiamo,come le Ballate e Sonetti, e tutte le parole a
qualunque modo armoni zate, o volgarmente, o regulatamente, dicemo essere
Canzoni; m a perciò che solamente trat tiamo le cose volgari,però lasciando le
regulate da parte,dicemo,che dei poemi volgari uno ce n'èsupremo, il quale persopraeccellenziachia
miamo Canzone; « Donne,che avete intelletto di amore.» E così è manifesto che
cosa sia Canzone,e se condo che generalmente si prende, e secondo che per
sopraeccellenzia la chiamiamo. Et a s sai ancora pare manifesto che cosa noi
inten demo,quandodicemoCanzone;e consequente Meglio forse,quiealtrove,un
collegamento (conjugatio). , che la Canzone sia una cosa suprema, nel
terzo Capitolo di questo Libro è provato;ma conciò sia che questo,che è dif
finito, paja generale a molti, però risumendo detto vocabolo generale,che già è
diffinito,di stinguiamo per certe differenzie quello che so lamente cerchiamo.Dicemo
adunque che la Canzone,la quale noi cerchiamo,in quanto che per
sopraeccellenzia è detta Canzone, è una con giugazione 1 tragica di Stanzie
equali senza risponsorio, che tendono ad una sentenzia, come noi dimostriamo
quando dicemmo 2 2Iltestolatinoha:utnosostendimus,cum diximus.
mente qual sia quel fascio,che vogliamo legare. Noi poi dicemo, che ella
è una tragica congiu gazione; perciò che quando tal congiugazione si fa
comicamente, allora la chiamiamo per diminuzione cantilena, de la quale nel
quarto Libro di questo avemo in animo di trattare. Stanzie,e non sapendosi che cosa sia Stan zia,
segue di necessità, che non si sappia a n cora che cosa sia Canzone; perciò che
de la cognizione de le cose, che diffiniscono, resul ta ancora la cognizione de
la cosa diffinita, e però consequentemente è da trattare de la Stanzia, accio
che investighiamo, che cosa essa si sia, e quello che per essa volemo
intendere. Ora circa questo è da sapere, che tale voca bolo è stato per rispetto
de l'arte sola ritro vato; cioè perchè quello si dica Stanzia, nel quale tutta
l'arte de la Canzone è contenuta, e questa è l a Stanzia capace, overo il
recettacolo di tutta l'arte; perciò che sì come la Canzone è il grembo di tutta
la sentenzia,così la Stan zia riceve in grembo tutta l'arte; nè è lecito di
arrogere alcuna cosa di arte a le Stanzie s e quenti; m a solamente si vestono
de l'arte de la. Quali siano le principali parti de la Canzone, e che la
Stanzia n'è la parte principalissima. Ssendo la Canzone una congiugazione
di prima: il perchè è manifesto, che essa Stanzia (de la qual
parliamo ) sarà un termine, o vero una compagine di tutte quelle cose, che la
Canzone riceve da l'arte;le quali dichiarite, il descrivere che cerchiamo,sarà
manifesto.Tutta l'arte adunque de la Canzone pare, che circa tre cose consista,
de le quali la prima è circa la divisione del canto, l'altra circa la abitu
dine1deleparti,laterzacircailnumero dei versi e de le sillabe; de le rime poi
non face mo menzione alcuna;perciò che non sono de la propria arte de la
Canzone.È lecito certamente in cadauna Stanzia innovare le rime, e quelle
medesime a suo piacere replicare; il che, se la rima fosse di propria arte de
la Canzone, le cito non sarebbe.E se pur accade qualche cosa de le rime
servare, l'arte di questo ivi si con tiene,quando diremo de la abitudine de le
parti. Il perchè così possiamo raccogliere da le cose predette, e diffinire,
dicendo, la Stanzia è una compagine 2 diversi e di sillabe, sotto un certo
canto, e sotto una certa abitudine limitata. 2 Il testo latino ha: limitatam
compaginem. , La voce abitudine, qui e altrove, significa propor zione,
disposizione. S ne la Canzone. Che
sia il canto de la Stanzia, e che la Stanzia si varia in parecchi modi Apendo
poi che l'animale razionale è uomo, e che sensibile è l'anim a, & il corpo
è animale; e non sapendo che cosa si sia quest'a nima, nè questo corpo,non
possemo avere per fettacognizionedel'uomo;perciòchelaperfetta cognizione di
ciascuna cosa termina ne gli ul timi elementi, sì come il maestro di coloro che
sanno, nel principio de la sua Fisica affer ma.Adunque
peraverelacognizionedelaCan zone,che desideriamo,consideriamo al presente sotto
brevità quelle cose,che diffiniscano il dif finiente di lei; e prima del
canto,da poi de la abitudine,e poscia de i versi e de le sillabe in
vestighiamo.Dicemo adunque,che ogni Stanzia è armonizata a ricever una certa
oda, o vero canto; ma pajono esser fatte in modo diverso, che alcune sotto una
oda continua fino a l’ul timo procedeno, cioè senza replicazione di al cuna
modulazione, e senza divisione;e dicemo divisione quella cosa, che fa voltare
di un'oda in un'altra;la quale quando parliamo col vul go,chiamiamo Volta.E
questeStanziediun'oda sola Arnaldo Daniello usò quasi in tutte le
sue Canzoni; e noi avemo esso seguitato quando dicemo, · Il testo ha syrma, che
è quanto dire strascico. « Al poco giorno,& al gran cerchio d'ombra.»
Alcune Stanzie sono poi, che patiscono divi sione. E questa divisione non può
essere nel modo che la chiamiamo, se non si fa replica zione di una oda o
davanti la divisione, o da poi, o da tutte due le parti, cioè davanti e da poi.
E se la repetizion de l'oda si fa avanti la divisione, dicemo, che la Stanzia
ha piedi; la quale ne dee aver dui; avegna che qualche volta se ne facciano
tre, ma molto di rado.Se poi essa repetizion di oda si fa dopo la divi sione,
dicemo la Stanzia aver versi. M a se la repetizione non si fa avanti la
divisione,di cemo la Stanzia aver fronte; e se essa non si fa da poi,la dicemo
aver sirima?,o vero coda. Guarda adunque, lettore, quanta licenzia sia data a
li poeti che fanno Canzoni; e considera per che cagione la usanza si abbia
assunto si largo arbitrio; e se la ragione ti guiderà per dritto calle, vederai,
per la sola dignità de l'autorità essergli stato questo,che dicemo con cesso.Di
qui adunque può essere assai mani festo a che modo l'arte de le Canzoni
consista circa la divisione del canto; è però andiamo a la abitudine de le
parti.e de la distinzione de'versi che sono da porsi nel componimento.
tudine,sia grandissima parte di quello,che è de l'arte; perciò che essa circa
la divisione del canto, e circa il contesto dei versi, e circa la relazione de
le rime consiste; il perchè a p pare, che sia da essere diligentissimamente
trat tata.Dicemo adunque,che la fronte coi Versi 1, & i piedi con la
sirima, o vero coda, e pari mente i piedi co i Versi possono diversamente ne la
Stanzia ritrovarsi; perciò che alcuna fia ta la fronte eccede i Versi, o vero
può ecce dere di sillabe e di numero di versi; e dico può, perciò che mai tale
abitudine non avemo veduta. Alcune fiate la fronte può avanzare i Versi nel
numero de i versi, & essere da essi Versi nel numero de le sillabe
avanzata;come 1 Il Trissino tradusse con la stessa voce verso tanto il carmen
che da Dante fu usato nel significato proprio e comune di verso, quanto il
versus che fu invece usato da lui per indicare una data parte della stanza,che
consta d'un certo numero di versi. Per togliere ogni equivoco noi stamperemo in
corsivo e con l'iniziale maiuscola la parola Verso quando corrisponde al latino
versus. 77 De la abitudine de la Stanzia, del numero de ipiedi e de le
sillabe, noi pare, che questa che chiamiamo abi , se la fronte fosse di
cinque versi, e ciascuno dei Versi fosse di due versi, & i versi de la
fronte fosseno di sette sillabe,e quelli de i Versi fosseno di undeci sillabe.
Alcuna altra volta i Versi avanzano la fronte di numero di versi e di sillabe
come in quella che noi dicemmo, Ove la fronte di quattro versi fu di tre ende
casillabi e di uno eptasillabo contesta:la quale non si può dividere in piedi;
conciò sia che i piedi vogliano essere fra sè equali di numero di versi, e di
numero di sillabe,come vogliono essere frà sè ancora i Versi. M a siccome dice
mo, che i Versi avanzano di numero di versi e di sillabe la fronte, così si può
dire, che la fronte in tutte due queste cose può avanzare i Versi; come quando
ciascuno de i Versi fosse di due versi eptasillabi, e la fronte fosse di cinque
versi; cioè di due endecasillabi e di tre eptasillabi contesta. Alcune volte
poi i piedi avanzano la sirima di versi e di sillabe, come in quella che
dicemmo, Et alcuna volta i piedi sono in tutto da la si rima avanzati; come in
quella che dicemmo, « Donna pietosa, e di novella etate.» E si come dicemmo,
che la fronte può vincere di versi, & essere vinta di sillabe, & al
con « Traggemi de la mente amor la stiva. » « Amor,che movi tua virtù dal
cielo.» trario; così dicemo la sirima. I piedi ancora ponno di
numero avanzare i Versi, & essere da essi avanzati;perciò che ne la Stanzia
pos sono essere tre piedi e dui Versi, e dui piedi e tre Versi; nè questo
numero è limitato, che non si possano più piedi e più Versi tessere insieme. E
siccome avemo detto ne le altre cose de lo avanzare de i versi e de le sillabe,
così dei piedi e dei Versi dicemo, i quali nel medesimo modo possono
vincere,& essere vinti. Nè è da lasciare da parte, che noi pigliamo i piedi
al contrario di quello che fanno i Poeti regulati; perciò che essi fanno il
verso de i piedi, e noi dicemo farsi i piedi di versi, come assai chiaramente
appare. Nè è da lasciare da parte, che di nuovo non affermiamo, che i piedi di
necessità pigliano l'uno da l'altro la abitudine & equalità di versi e di
sillabe, p e r ciò che altramente non si potrebbe fare repeti zione di canto. E
questo medesimo affermiamo doversi servare nei Versi.De la qualità de i versi,
che ne la Stanzia si pongono, e del numero de le sillabe ne i versi. Cci ancora
(come di sopra si è detto) una certa abitudine, la quale quando tessemo iversi
devemo considerare;ma acciò che di E, quella con ragione
trattiamo,repetiamo quello che di sopra avemo detto de i versi; cioè che ne
l'uso nostro par che abbia prerogativa di essere frequentato lo endecasillabo,
lo eptasil labo, & il pentasillabo; e questi sopra gli altri doversi seguitare
affermiamo. Di questi adun que,quando volemo far poemi tragici,lo ende
casillabo, per una certa eccellenzia che ha nel contessere, merita privilegio
di vincere; e però alcune Stanzie sono che di soli endecasillabi sono conteste,
come quella di Guido da Fio renza, « Donna mi prega, perch'io voglio dire. »
«Donne,cheaveteintellettodiamore.» Questo ancora li Spagnuoli hanno usato, e
dico li Spagnuoli che hanno fatto poemi nel volgare Oc. Amerigo de Belmi, «
Nuls h o m non pot complir adreitamen. » Altre Stanzie sono, ne le quali uno
solo epta sillabo sitesse;e questo non può essere,se non ove è fronte, o ver
sirima, perciò che (co me sièdetto)neipiedieneiVersisiri cerca equalità di
versi e di sillabe. Il perchè ancora appare, c h e il numero disparo dei versi
non può essere se non fronte o coda; ben chè in esse a suo piacere si può usare
paro, o disparo numero deiversi.E così come al Et ancora noi dicemo:
cuna Stanzia è di uno solo eptasillabo formata, così appare,che con
dui,tre,o quattro si possa formare; pur che nel tragico vinca lo
endecasillabo,e da esso endecasillabo si co minci.Benchè avemo
ritrovatialcuni,chenel tragico hanno da lo eptasillabo cominciato, cioè Guido
de iGhislieri,e Fabrizio Bolognesi, Et alcuni altri.Ma se al senso di queste
Can zoni vorremo sottilmente intrare, apparerà tale tragedia non procedere
senza qualche ombra di elegia. Del pentasillabo poi non concedemo a questo modo;
perciò che in un dettato grande basta in tutta la Stanzia inserirvi
un pentasil labo, ovver dui al più ne i piedi; e dico ne i piedi, per la
necessità !, con la quale i piedi & i Ver s i si cantano; ma b e n non pare
che nel tragico si deggia prendere il trisillabo, che per sè stia;e dico,che
per sè stia;perciò che per una certa repercussione di rime pare, che frequen '
Propter necessitatem,qua pedibusque versibusque cantatur; per la necessità che
nei piedi e nei Versi si deve cantare. (Fraticelli.) E, E, 1 « Di fermo
sofferire, » «Donna,lofermocuore,» « Lo mio lontano gire. » temente
si usi; come si può vedere in quella Canzone di Guido fiorentino, « Donna mi
prega, perch'io voglio dire, » « Poscia che amor del tutto m 'ha lasciato. » Nè
ivi è per sè in tutto ilverso,ma è parte de lo endecasillabo, che solamente a
la rima del precedente verso a guisa di Eco risponde. E quinci tu puoi assai
sufficientemente conoscere, o lettore,come tu dei disponere, o vero abituare la
Stanzia; perciò che la abitudine pare che sia da considerare circa i versi. E
questo ancora principalmente è da curare circa la disposizione de i versi: che
se uno eptasillabo si inserisce nel primo piede,che quel medesimo loco,che ivi
piglia per suo, dee ancora pigliare ne l'altro; verbigrazia, se 'l piè di tre
versi ha il primo & ultimo verso endecasillabo,e quel di mezzo, cioè il
secondo, eptasillabo, così il secondo piè dee avere gli estremi endecasillabi,
& il mezzo eptasillabo; perciò che altrimenti stando, non si potrebbe fare
la geminazione del canto,per usodelqualesifannoipiedi,come sièdetto;e
consequentemente non potrebbono essere piedi. E quello che io dico de i piedi,
dico parimente de i Versi; perciò che in niuna cosa vedemo i piedi essere
differenti da i Versi,se non nel sito; perciò che ipiedi avanti ladivisione
della Stan zia,ma i Versi dopo essa divisione si pongono., Et in quella che noi
dicemmo: De la relazione de le rime, e con qual ordine ne la Stanzia si denno
porre. T dealcuna cosa al presente non trattando però de la essenzia loro;
perciò che il proprio trat tato di esse riserbiamo, quando de i mediocri poemi diremo.Ma
nel principio di questo Ca pitolo ci pare di chiarire alcune cose di esse; de
le quali una è, che sono alcune Stanzie, ne le quali non si guarda a niuna
abitudine di rime, e tali Stanzie ha usato frequentissima mente Arnaldo
Daniello,come ivi, « Si m fos amors de joi donar tan larga? » E noi dicemo,
L'altra cosa è che alcune Stanzie hanno tutti i versi di una medesima rima, ne
le quali è superfluo cercare abitudine alcuna; e così resta che circa le rime
mescolate solamente debbia mo insistere;in che e da sapere,che quasi Et
ancora sì come si dee fare ne i piedi di tre versi, così dico doversi fare in
tutti gli altri piedi. E quello che si è detto di uno endeca sillabo, dicemo
parimente di dui e di più, e del pentasillabo, e di ciascun altro verso.
«Alpocogiorno,& algrancerchiod'ombra.» 'Iltestolatinoha:quisuasmultasetbonas Can
tiones nobis ore tenus intimavit. Il Fraticelli traduce: ci canto a voce, ossia
ci canto improvvisando. tutti iPoeti si hanno in cið grandissima licen
zia tolta;conciò sia che quinci la dolcezza de l'armonia massimamente
risulta.Sono adun que alcuni, i quali in una istessa Stanzia non accordano
tutte le desinenzie de i versi; m a alcune di esse ne le altre Stanzie
repetiscono, overamenteaccordano;come fuGottoman tuano, il quale fin qui ci ha
molte sue buone Canzoni intimato 1. Costui sempre tesseva ne la Stanzia un
verso scompagnato, il quale essò nominavaChiave.E come diuno,cosìèlecito di dui
e forse di più. Alcuni altri poi sono, e quasi tutti i trovatori di Canzoni,
che ne la Stanzia mai non lasciano alcun verso scompa gnato, al quale la
consonanzia di una o di più rime non risponda. Alcuni poscia fanno le rime de i
versi, che sono avanti la divisione, diverse da quelle dei' versi, che sono
dopo essa; & altri non lo fanno; ma le desinenzie de la pri ma parte de la
Stanzia ancor ne la seconda in seriscono.Non di meno questo spessissime volte
si fa, che con l'ultimo verso de la prima parte, il primo de la seconda parte
ne le desinenzie s'accorda; il che non pare essere altro, che una certa bella
concatenazione di essa Stanzia. La abitudine poi de le rime,che sono ne la
fronte e ne la sirima,è sì ampla, che 'l pare che ogni atta
licenzia sia da concedere a ciascuno, m a non di meno le desinenzie de gli
ultimi versi sono bellissime, se in rime accordate si chiudeno; il che però è
da schifare ne i piedi, ne i quali ritroviamo essersi una certa abitudine
servata; la quale dividendo dicemo, che il primo piè di versi pari, o dispari,
si fa; e l'uno e l'altro può essere di desinenzie accompagnate,o scom pagnate;
il che nel pie diversi pari non è dubbio; m a se alcuno dubitasse in quello di
dispari, ricordisi di ciò che avemo detto nel Capitolo di sopra del
trisillabo,quando essendo parte de lo endecasillabo, come Eco risponde. E se la
desinenzia de la rima in un de i piedi è sola, bisogna al tutto accompagnarla
ne l'al tro;ma seinun piedeciascuna delerimeè accompagnata, si può ne l'altro o
quelle ripe tere, o farne di nuove,o tutte,o parte,se condo che a l'uom
piace,pur che in tutto si servi l'ordine del precedente: verbigrazia, se nel
primo piè di tre versi le ultime desinenzie s'accordano con le prime, così
bisogna accor darvisi quelle del secondo; e se quella di mezzo nelprimo
pièèaccompagnata,oscompagnata; così parimente sia quella di mezzo nel secondo
piè; e questo è da fare parimente in tutte le altre sorti di piedi. Ne i Versi
ancora quasi sempre è a serbare questa legge; e quasi s e m pre dico, perciò
che per la prenominata con catenazione,e per la predetta geminazione de le
ultime desinenzie,ale volte accade il detto or 8 + Il testo latino
ha: cum in isto libro nil ulterius de r i t h i morum doctrina tangere
intendamus. E si dovrebbe tradurre: che in questo libro non vogliamo parlar
pivo della dottrina delle rime. Nel Corbinelli questo ultimo capitolo è diviso
in due. Il decimoterzo finisce con le parole: tanta sufficiant. (a bastanzasarà.);e
il decimoquarto comincia con le parole: , dine mutarsi. Oltre di questo ci
pare conve nevol cosa aggiungere a questo Capitolo quelle cose, che ne le rime
si denno schifare; conciò sia che in questo libro non vogliamo altro, che
quello che si dirà de la dottrina de le rime toccare 1. Adunque sono tre cose,
che circa la posizione di rime non si denno frequentare da chi compone illustri
poemi; l'una è la troppa repetizione di una rima,salvo che qualche cosa nuova
ed intentata de l'arte ciò non si as suma; come il giorno de la nascente
milizia, il quale si sdegna lasciare passare la sua gior nata senza alcuna
prerogativa. Questo pare che noi abbiamo fatto ivi, « Amor,tu vedi ben,che
questa donna;» la seconda è la inutile equivocazione, la qual sempre pare che
toglia qualche cosa a la sen tenzia; e la terza è l'asperità de le rime, salvo
che le non siano con le molli mescolate; per ciò che per la mescolanza de le
rime aspere e delemollilatragediaricevesplendore.E que sto de l'arte, quanto a
l'abitudine si ricerca, a bastanza sarà 2.Avendo quello che è de l'arte
' Il testo latino ha: discretionem facere, che qui vale trattare
partitamente. de la Canzone assai sufficientemente trattato, ora
tratteremo del terzo, cioè del numero de i versi e de le sillabe. E prima
alcune cose ci bisognano vedere secondo tutta la Stanzia, & altre sono da
dividere, le quali poi secondo le parti loro vederemo.A noi adunque prima s'ap
partiene fare separazione 1 di quelle cose, che ci occorrono da cantare; perciò
che alcune Stanzie amano la lunghezza, & altre no; con ciò sia che tutte le
cose che cantiamo, o circa il destro o circa il sinistro si canta; cioè che
alcuna volta accade suadendo, alcuna volta dissuadendo cantare, & alcuna
volta allegran dosi, alcuna volta con ironia, alcuna volta in laude, &
altra in vituperio dire. E però le parole, che sono circa le cose sinistre,
vadano sempre con fretta verso la fine, le altre poi con longhezza condecente
vadano passo passo verso l'estremo Ex quo quo sunt artis.... (Avendo quello che
è de l'arte.... ); ed ha il titolo seguente: De numero car minum et syllabarum
in Stantia.(Del numero dei versi e delle sillabe nella Stanzia.)Alighieri.
Keywords: lingua del si, la divina implicitura, lasciate ogne [sic] speranza
voi ch’entrate, inferno – section on ‘divina commedia’ in philosophical
dictionaries. ‘inferno’ catabasis, -- la catabasis d’Enea di Virgilio -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Alighieri” –
The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.
Grice ed Aliotta –
esperienza – filosofia siciliana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Palermo). Filosofo
italiano. Grice: “I like Aliotta; he has philosophised on most things I’m
interested in: ‘la guerra eterna’ is a bit of a hyperbole if you go by a
principle of helpfulness, but that’s Aliotta! – He has focused on Lucrezio,
which is fine – But he has also studied ‘colloquenza romana’ systematically –
and more into the Italian rather than Roman idiom, he has explored Galileo (not
the father, thouh: “Some like Galileo Galiei, but Vincenzo Galilei is MY man);
he is also like me a ‘philosophical psychologist,’ along the lines of Stout and
Wundt, that is – he as given proper due to the idea of ‘esperienza’ – unlike
Oakeshott, who abuses of the notion! – and indeed, others see his attachment to
‘esperienza’ as an ‘ism’ (lo sperimentalismo).
He has also discussed the semiotics of Vico, and the idea of life-form,
following Witters (‘cricket come forme di vita’). And he has explored one
intriguing idea, that the so-called ‘meaning’ of life (‘il significato del
mondo,’ actually) is that of ‘sacrificio’ which is very fine with me – but then
it would, since I like ‘Another country’ – the ‘sacrifice’ -- He Antonio
Aliotta (n. Palermo), filosofo. Fu componente dell'Accademia Nazionale dei
Lincei, nonché dell'Accademia Pontaniana e della Società Nazionale di Scienze,
Lettere e Arti. Fondò la rivista internazionale di filosofia Logos e fu autore
di una decina di monografie. Allievo di
Felice Tocco e Francesco De Sarlo, fu influenzato molto dalla concezione della
conoscenza scientifica del secondo, che si rifaceva alle teorie di Franz Brentano. Nel primo periodo della sua vita, Aliotta si
interessò in particolar modo alla psicologia sperimentale come ricercatore,
mentre in un secondo periodo, rivolse il suo interesse alla filosofia e
all'epistemologia. Tra i suoi allievi vi
furono Nicola Abbagnano, Paolo Filiasi Carcano, Cleto Carbonara, Renato
Lazzarini, Giuseppe Martano, Alberto Marzi, Nicola Petruzzellis, Michele
Federico Sciacca, Luigi Stefanini, anche se la sua indole non dogmatica e
aperta "a diverse culture e suggestioni" non diede luogo alla
formazione di una vera e propria scuola riferibile al suo nome, ma incoraggiò i
suoi allievi a indirizzarsi su percorsi culturali autonomi, emancipandosi
dall'egemonia esercitata dal neoidealismo di Benedetto Croce e di Giovanni
Gentile. Al suo magistero può essere
associato anche la figura dello psicanalista Cesare Musatti, che si indirizzò
allo studio della psicologia dopo aver assistito alle lezioni sull'argomento
tenute da Aliotta all'Padova, divenne socio dell'Accademia delle scienze di Torino. A lui è intitolato il dipartimento di
filosofia dell'Università degli studi di Napoli "Federico II". Pensiero Psicologia Nella sua prima fase,
prettamente psicologica, agli inizi del nuovo secolo, Aliotta afferma che i
fatti psichici non possono essere quantificati come avviene con i fatti fisici
esistenti e misurabili, in quanto i fatti psichici sono elementi costitutivi
della coscienza. La psicologia, perciò, essendo una scienza empirica che studia
i fatti psichici interni al soggetto, avrebbe dovuto servirsi del metodo
dell'introspezione, riferendosi a formulazioni matematiche al solo scopo
simbolico. La filosofia La particolare
concezione della conoscenza dell'autore, intesa né come esistente in sé, né come
iscritta nel processo dialettico del pensiero, lo allontanò sia dalle posizioni
positiviste che da quelle neoidealiste.
Nelle sue opere emerge una visione contraria all'idealismo: né Hegel,
nemmeno Fichte, né tanto meno Schelling col loro proposito di racchiudere tutta
la realtà nel pensiero, sebbene con sfumature diverse, soddisfano Aliotta, che
invece paragona il pensiero a un processo vivente, costruito da tanti centri
individuali tesi verso una armonia, continuatrice dei fenomeni dell'universo.
Aliotta si sofferma sulla coordinazione delle conoscenze, sulle intese fra le
persone, sulla sintesi della scienza e soprattutto sulla ricerca filosofica a
cui assegna il compito particolare di supervisione dei campi di conoscenza con
il fine di limitarne i dissidi e di ampliare, il più possibile, il punto di
vista delle scienze particolari. Aliotta afferma che l'unico metodo che
consente la ricerca della verità sia l'esperimento; la verità stessa non è
assoluta e unica ma prevede vari livelli, i superiori dei quali sfruttano e
inglobano quelli inferiori. La ricerca filosofica possiede, secondo l'autore,
un formidabile strumento di indagine e di verifica che si chiama
"storia". In alcuni scritti
successivi ("Il sacrificio come significato del mondo",1947),
pubblicati nel secondo dopoguerra, Aliotta sembra avvicinarsi a un modello di
pensiero a metà strada tra il pragmatismo e lo spiritualismo, nel quale mette
in rilievo l'esperienza morale e il sacrificio, considerato come l'esempio di
realizzazione più elevato, sia per l'individuo sia per la collettività. L'affermarsi dello sperimentalismo produce in
Aliotta una serrata critica all'astratto intellettualismo nonché apre la strada
alla ricezione di studi avanzati sulla cosiddetta 'filosofia scientifica', in
un panorama di reazione idealistica contro la scienza e di graduale
affermazione in Italia di scienze come la sociologia (Guglielmo Rinzivillo,
Antonio Aliotta. L'idea scientifica dello sperimentalismo in Una epistemologia
senza storia, Roma, Nuova Cultura, Opere principali “Platone”, “Aristotele”; “Lucrezio”;
“Epitteto”. La reazione idealistica contro la scienza; La guerra eterna e il
dramma dell'esistenza; L'estetica di Kant e degli idealisti romantici; Il
sacrificio come significato del mondo; Il relativismo dell'idealismo e la
teoria di Einstein”; “Evoluzionismo e spiritualismo”; “Il problema di Dio e il
nuovo pluralismo”; “Le origini dell'irrazionalismo contemporaneo”; “Pensatori
tedeschi della prima metà dell'Ottocento”; “Critica dell'esistenzialismo”; “L'estetica
di Croce e la crisi dell'idealismo italiano”; “Il nuovo positivismo e lo
sperimentalismo”; “Cinquant'anni di relatività” (Edizioni Giuntine e Sansoni
Editore). Belardinelli, in Dizionario Biografico degli Italiani, riferimenti in.
Belardinelli, in Dizionario Biografico
degli Italiani, su accademiadellescienze Abbagnano, Dizionario di filosofia,
Torino, Pomba, Abbagnano, Dizionario di filosofia, Torino, Pomba, Michele Federico Sciacca, Lo sperimentalismo
di A. Aliotta, Napoli, Nicola Abbagnano Antonio Aliotta, in "Rivista di
Filosofia", Dentone, Il problema morale e religioso in Aliotta, Napoli,
Mecacci, Antonio Aliotta, in: Guido Cimino, Nino Dazzi, La psicologia in
Italia: i protagonisti e i problemi scientifici, filosofici e istituzionali: Milano,
LED, 1Enciclopedia Italiana II Appendice, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
italiana Treccani, Belardinelli, «ALIOTTA, Antonio» in Dizionario Biografico
degli Italiani, Volume 34, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,
Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Antonio Aliotta, in Dizionario biografico
degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere di Antonio Aliotta, su openMLOL,
Horizons Unlimited srl. Opere di Antonio Aliotta,. Opere di Antonio Aliotta consultabili
nell'Archivio di Storia della Psicologia, su
archiviodistoria.psicologia1.uniroma1. Filosofia Filosofo del XX
secoloAccademici italiani Professore1881 1964 18 gennaio 1º febbraio Palermo
NapoliAccademici dei LinceiProfessori dell'Università degli Studi di Napoli
Federico IIMembri dell'Accademia delle Scienze di Torino. Antonio Aliotta.
Aliotta. Keywords: esperienza, l’implicatura di Lucrezio, sacrificare,
significare, sacrificare, guerra eternal. aliotta
— l’implicatura di lucrezio — il filosofo di campagna — la guerra eterna —
sacrificare/significare — croce — il latinismo dello storicismo — galilei —
vico – epicureismo campano -- Refs.: Luigi Speranza, Grice ed Aliotta”
– The Swimming-Pool Library.
Grice ed Allegretti –
colloquenza – filosofia italiana – Lugi Speranza (Forlì). Filosofo
italiano. Grice: “I love Alegretti; very Italian; imagine: after tutoring for a
while on dialettica at Firenze,, he retires to Villa Allegretti, Rimini, where
he philosophises ‘De propositionibus’ (sulle enunciate) as part of the
Dialettica!” Grice: “He was so proud of
the meetings at his villa that he called it ‘our Parnassus’!” Grice:
“Allegretti’s idea of the villa meetings was modeled after Plato who, with
fewer means, met at the gym in theVIlla Echademo!” -- – cf. Raffaello, “Il
Parnaso.” -- Stemma della famiglia Allegretti Coa fam ITA allegretti Blasonatura
cuore d'oro su campo azzurr. Noto per aver fondato, secondo alcuni storici, la
prima accademia letteraria d'Italia. Fu
figlio di Leonardo Allegretti, giudice a Forlì, di parte guelfa. Apparteneva ad
un'antica e cavalleresca famiglia, il cui capostipite fu Mazzone Allegretti (o
Mazzonius Alegrettus), che nel 1095 prese parte alla prima crociata in Terra
Santa e per “arma” scelse un “cuore d'oro su campo azzurro”. Lesse filosofia a Bologna, logica e filosofia a Firenze. Fonda la prima accademia con un gruppo di
intellettuali: Francesco dei Conti di Calbolo, Azzo e Nerio Orgogliosi,
Giovanni de' Sigismondi, Andrea Speranzi, Rinaldo Arfendi, Valerio Morandi,
Giovanni Aldrobandini, Spinuccio Aspini e Paolo Allegretti. Per motivi
politici, gli Ordelaffi, signori di Forlì ghibellini, imposero il confino a
Giacomo e al fratello Giovanni. Si trasfere perciò a Rimini. Richiamato
dall'esilio, coinvolto in una faida familiare degli Ordelaffi, fu nuovamente
costretto a fuggire a Rimini, ove fonda una nuova Accademia, l'Accademia dei
Filergiti, con vocazione insieme letteraria e scientifica. La sua prosapia si estinse per linea maschile
ma s'innestò negli Aspini mediante una Margherita di Francesco Allegretti, che
sposò un Lodovico, che fu erede degli averi e del cognome degli Allegretti. Si
trova il seguito di questa famiglia nel senese e nel modenese (a
Ravarino). Note Fonte: F. Valenti, Dizionario Biografico
degli Italiani, riferimenti in. Opere Nel XIV secolo, la sua opera principale
era considerata il “Bucolicon”. Ma
scrisse anche: un epicedio per la morte
di Galeotto I Malatesta, signore di Rimini; un carme al Conte di Virtù; un
carme per la "divisa della tortora"; Eglogae, in lingua latina; un
carme sulla "bissa milanese", cioè lo stemma dei Visconti, il
biscione. Giorgio Viviano Marchesi,
Memorie storiche dell'antica, ed insigne Accademia de' Filergiti della città di
Forlì..., Forlì, per Antonio Barbiani, Paolo Bonoli, Storia di Forlì scritta da
Paolo Bonoli distinta in dodici libri corretta ed arricchita di nuove addizioni,
2 voll., Forlì, Luigi Bordandini, Filippo Valenti, ALLEGRETTI, Giacomo, in
Dizionario biografico degli italiani, II, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, 1960. Opere di Giacomo Allegretti, Filosofi. ALLEGRETTI,
Giacomo. - Nacque, presumibilmente, a Ravenna, da Leonardo Allegretti,
appartenente a famiglia guelfa di Forlì, in un anno da porsi tra quelli
immediatamente precedenti il 1326. È supposizione abbastanza fondata (cfr.
Massera, p. 156) che nel 1357 leggesse filosofia nello Studio bolognese; certo,
nel 1358-59 fu lettore di dialettica e di filosofia a Firenze, dove rimase
almeno fino al 1365.Benché se ne perdano poi le tracce, è indubbio che si
trovava da qualche tempo a Forlì quando, nel 1376, fu colpito, nella sua
qualità di guelfo, dal bando di Sinibaldo Ordelaffi. Ma la fama di dottrina in
diverse materie -filosofia, astrologia, medicina -che lo circondava, era tale
che egli fu ben presto richiamato alla corte forlivese, dalla quale, però,
dovette di nuovo fuggire per aver rivelato, nella sua qualità di astrologo, ma
senza essere creduto, la congiura che Pino e Cecco Ordelaffi stavano tramando
contro Sinibaldo, loro zio. L'A. si rifugiò a Rimini, dove fu precettore del
giovane Carlo Malatesta, allora succeduto al padre Galeotto (m. 21 genn. 1385),
e medico presso la corte. A Rimini l'A. possedette una villa, luogo di
raccoglimento, di studio e, forse, di dotti convegni, cui si compiaceva di dare
il nome di Parnaso; donde la notizia, tratta dagli Annali forlivesi di Pietro
Ravennate, secondo cui l'A. "Arimini novum constituit
Parnasum",notizia ripetuta ed elaborata poi da vari scrittori nel senso,
del tutto fantastico, che egli fondasse già allora una vera e propria
Accademia. Negli ultimi anni della sua vita ebbe rapporti abbastanza stretti
con la corte viscontea. Morì a Rimini nel 1393. L'A. godette di non
piccola fama presso i contemporanei. Citato, come astrologo, nel terzo trattato
del De fato et fortuna di Coluccio Salutati, fu in diretta corrispondenza col
Salutati medesimo, di cui si ha una lettera a lui con unito un lungo carme
latino (Epistolario,I, pp. 279-288), e con Antonio Loschi, del quale si
conservano due epistole metriche (ed. in Massera) a lui dirette. Fatta
eccezione per un problematico trattato in prosa De propositionibus,attribuitogli
da L. Cobelli nelle sue Cronache forlivesi (Bologna 1874, p. 21), tutte le
opere dell'A. di cui si ha notizia si riferiscono alla sua attività di poeta
latino. Ci rimangono: un lungo carme a sfondo mitologico-pastorale intitolato
Falterona,pieno di contorte allegorie politiche (Venezia, Bibl. Marciana, cod.
lat.cl. XIV, 12); un componimento a carattere araldico-encomiastico dedicato a
Gian Galeazzo Visconti (edito da F. Novati in appendice allo studio Il Petrarca
ed i Visconti in F. Petrarca e la Lombardia,Milano 1904, pp. 82-84); un
Epitaphium inonore di Galeotto Malatesta (Milano, Bibl. Ambriosana, cod. P
256);un carme Ad Ludovicum Ungariae inclitissimum Regem (Venezia, Bibl.
Marciana, cod. lat.cl. XIV, 12). La sua fama, però, era legata soprattutto ad
un'opera ora perduta, il Bucolicon,che Flavio Biondo, nella sua Italia
illustrata (Basilea), giudicava seconda soltanto alle Bucoliche di Virgilio e
che il Massera ha tentato con buoni argomenti di identificare in una raccolta
di egloghe di maniera stampata nel sec. XVII e attribuita in un primo tempo ad
Albertino Mussato. All'A., infine, come opinò il Sabbadini, andrebbero
attribuiti i cosiddetti Endecasyllabi di Gallo, che egli avrebbe, secondo la
tradizione, scoperti a Forlì ma che, invece, molto probabilmente contraffece,
credendo erroneamente che quell'antico poeta fosse nativo di Forlì.
Fonti e Bibl.: Epistolario di Coluccio Salutati,a cura di F. Novati, I,
Roma 1891, in Fonti per la storia d'Italia, Sabbadini, Le scoperte dei codici
latini e greci ne' secoli XIV e XV,Firenze, E. Carrara, La Poesia
pastorale,Milano 1 Massera, Iacopo Allegretti da Forlì,in Atti e memorie d. R.
Deput. di storia patria per le prov. di Romagna, Thorndike, A history of magic
and experimental science,III, New York
L. Bertalot, L'antologia di epigrammi di Lorenzo Abstemio nelle tre
edizioni sonciniane,in Miscellanea Mercati,IV, Città del Vaticano La stessa
origine hanno le presunte accademie di Rimini e di Forli, che gli scrittori
fanno fondare negli ultimi decenni del se colo xiv a Iacopo Allegretti da
Mantova, uomo versato cosi nella medicina e nell'astrologia come nelle
lettere.Anche in questo caso la più antica affermazione in proposito non risale
a nostra notizia al di là della seconda metà del secolo XVII.Uno storico di
Forli, Paolo Bonoli, appunto nelle sue Istorie della Città di Forlì?al l'anno
1369 dice: « Strepitava ancora di Forlivesi la fama di G i a como Allegretti,
Filosofo, Medico, Poeta et Astrologo; compose anch'egli la Bucolica, che doppo quella
di Virgilio non vede forse ilmondo lapiùbella;traletenebre
dell'antichità,manifestó molte compositioni del nostro C. Gallo,e in Rimini,ove
poi ricovrossi, per schivar l'ira degli Ordelaffi, erresse una fioritissima
Accade mia.».La notizia passa indi nel proemio delle Leggi vecchie,di stinte in
XII Tavole, dell'antica Accademia de'Filergiti della città di Forlì e nuovi
ordini-sopra essa Accademia, stampate nel 1663, aggiungendovisi però oltre
l'Accademia riminese anche un'Acca demia in Forli,che sarebbe pure stata
fondata dall'Allegretti,e che più tardi, organizzatasi, divenne l'Accademia dei
Filergiti. «G i a como Allegretti – vi si dice – Filosofo e poeta illustre,
trecento anni or sono,non si contentò di esercitare in Forli sua patria vir.
tuose sessioni, che ancora in Rimino, dove sbandito ricovrossi, er gette una
nuova Accademia ».3 Queste parole furono ripetute tali e quali da G. Garuffi
Malatesta nel L'Italia Accademica 4; però nella parte ancora inedita di
quest'opera che giace nella Gamba lunghiana, e dove si tratta appunto in
particolare delle Accademie | Francisci Petrarcae Epistolae de Rebus
Familiaribus et Variae, curate da GIUSEPPE FRACASSETTI.Volume III.Firenze 1863,
p.39. 2 Forli, In Memorie storiche
dell'antica ed insigne Accademia de'Filergiti della città di Forlì già citate:a
p.338-340. 4Rimini,1088;p.116. 136 Ma anche qui,come
dicevamo, sitrattadiunabbaglio.Aspet tando che maggior luce venga data in
proposito in quella vita del l’Allegretti,che il Novati ha promesso da
parecchio tempo,4 basterà notare che a base delle notizie circa queste due
Accademie stanno leseguentiparoledegli Annales Forolivienses5:tempore Ecclesiae
Arces in his civitatibus factae sunt: B o noniae, Imolae, Faventiae et
Forolivii. Iacobus Allegrettus Forli viensis poeta clarus agnoscitur, qui
plures Endecasyllabos Galli civis Forliviensis poetae invenit et Arimini novum
constituit Par Quest'ultima parola fu interpretata senz'altro per Ac cademia, a
cui, come al solito,furono ascritti i personaggi princi pali del tempo,perfino
il Petrarca, come abbiamo visto. | Cfr.La Coltura letteraria e scientifica in
Rimini lal secolo XIV ai pri. mordi del XIX di Carlo Tonini. Vol.I, Rimini; cfr.
anche del medesimo:VitaeVirorum Illustrium Foroliviensium.Forli Cfr.Della vita
e delle opere di Antonio Urceo detto Codro di Carlo MALAGOLA.Bologna 1878,a
p.163. 4 Cfr.Epistolario di Coluccio Salutati per cura di FRANCESCO Novati,
Vol.I,Roma 1892,p.279,nota 1. 5 Rerum Italicarum Scriptores.Tomo XXII.Milano, di
Rimini, egli dice di più che l'Accademia fondata dall'Allegretti in Rimini si
radunava in una sala del palazzo Malatesta, adornata dei ritratti dei poeti ed
oratori più celebri del tempo,e che vi era ascritto anche il Petrarca.1 Il già
citato Marchesi dal canto suo circa l'Accademia fondata dall'Allegretti in
Forli dice che costui « lasciata da parte la se verità degli studi
astronomici,medici e filosofici, ne'quali aveva spesi con molta gloria isuoi
giorni,finalmente l'anno 1370,rac colti in una degna Assemblea gl'intelletti più
perspicaci,fece la memorabile fondazione,benchè senza nome
particolare,regolamento ed impresa, invenzioni delle succedute età, ma col solo
generico d’Accademia. Furono i suoi colleghi, o piuttosto discepoli Francesco
dei Conti di Calbolo,Azzo e Nerio Orgogliosi,Giovanni de'Sigi s m o n d i,
Speranzi, Arsendi, Morandi, Aldobrandini, Spinuccio Aspini e Paolo Allegretti,
tutti illustri per sangue, ed assai più per l'affetto che professavano per le
belle arti.Per le frequenti sessioni che, tenevano a porte aperte, e per gli
ammaestramenti e saggi dati dal Fondatore, s'avanzarono molto iprimi Accademici
colla coltivazione della poesia,sopra ogni altra scienza da essi tenuta in
pregio ».? Esiliato poi l'Allegretti
daForli,l'Accademiaandòdispersa,eleraunanze vennero riprese solo nel secolo xv
per opera di Antonio Urceo.3 18 nasum DELLA TORRE Orbene si osservi
che l'Allegretti fu in Rimini maestro di Carlo Malatesta '; e qual cosa più
naturale che assieme al Malatesta si trovassero altri giovani delle principali
famiglie Riminesi? Epperò quel Parnasum va senza dubbio inteso per scuola di
umanità e non già per Accademia nel senso che l'intendono gli scrittori su
riferiti. Quanto poi all'Accademia di Forli, come osserva giustamente
ilTiraboschi,?severamentefosseesistita,loscrittoredegli An nales Forolivienses
che nota il Parnasum aperto dall'Allegretti in Rimini, avrebbe a tanto maggior
ragione notata un'Accademia. fondata in Forli, le cui vicende appunto egli si
propone di nar rare;ed invece nulla.Come alsolito,gli scrittoridicose
forlivesi, che, interpretando Parnasum per Accademia credevano che l'Alle
gretti avesse fondata appunto un'Accademia in Rimini, sapendo che l'Allegretti
era stato anche a Forli,gliene fecero fondare sen z'altro una anche in
Forli,ascrivendovi come al solito quanti in quel tempo vi erano di uomini
insigni per ingegno e per cultura. E con questa mania, sempre nel secolo Xvir,
si andò tanto oltre, che si raggrupparono insieme perfino gli architetti del
duomo di Milano per farne un'Accademia;laqualesarebbe cominciata verso l'anno
1380, mentre Giovan Galeazzo Visconti andava pensando di gettar le fondamenta
del D u o m o: vi si sarebbe atteso « a quella maniera di fabricare,che i
moderni chiamano Alemana »; avrebbe àvuto sede « nella Corte ducale
compiacendosi in estremo quello stesso Duca del fabricare e dell'udirne
talvolta discorrere i m a g giori architetti di que'tempi, ch'erano Giovannuolo
e Miche lino, da'quali furono ammaestrati i compagni di Bramante » 3 Non
occorre certamente fermarci piú a lungo per dimostrare l'as surdità di queste
affermazioni:basti il dire che questa volta a base di esse non sta il più piccolo
dato di fatto.4 1Cfr.ANGELO BATTAGLini:Della corte letteraria di Sigismondo Pan
dolfo Malatesta Signore di Rimini in Basinii Parmensis poetae Opera prae
stantiora. Tomo II,parte I. Rimini, e Lettera di Coluccio Sa lutati a Carlo
Malatesta del 10 settembre 1401 in Epistolario di Coluccio Sa. Lutatiacuradi FRANCESCONOVATI.VolumeIV.Roma
1896,p.538:«Velim igitur,simichicredideris,eum
(GiovannidaRavenna)decernasintertuos recipere et in locum magistri tui, viri
quidem eruditissimi, quondam Jacobi de Alegrettis et in eius provisionem
acceptes et loces ». 3 Cfr. GiroLAMO BORSIERI Il supplimento della Nobiltà ili
Milano. Milano, 1619,p.37,eZANON,Catalogoetc.inl.c.p.305. 4 Si dia in proposito
la più semplice scorsa alla prima parte di Il Duomo di Milano di Camillo Boito,
Milano 1889.Jacopo
Allegretti. Giacomo Allegretti. Allegretti. Keywords: colloquenza, dialettica,
villa, villa Allegretti a Rimini, Bucolicon, Andrea Speranzi, i filergiti, “De
propositionibus”, scuola di Firenze, dialettica a Firenze, accademie italiane
dall’A alla Z, Andrea Speranzi, il primo accademico italiano a Firenze. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice ed Allegretti” – The Swimming-Pool Library.
Grice ed Allievo –
filosofia italiana – Luigi Speranza (San Germano Vercellese). Filosofo
italiano. Grice: “I love Allievo; of course he reminds me of all those scholars
back in the day that I relied on for my philosophising on ‘intending’ – since
isn’t this an act of the ‘soul’ – I mean Stout, and the rest – I once was a
Stoutian, and then for better or worse, I became a Prichardian!” -- Grice: “Now Oxford never knew what to do with
people like Stout – surely ‘the Wilde’ readership was a possibility, but Lit.
Hum. and the Sub-Faculty of Philosophy always considered ‘mind’ – (as in the
journal, ‘a journal of psychology and philosophy’) secondary to metaphysics! We
thought The Aristotelian Society had more prestige than the Mind Association,
and we still do!” – Grice: “So Allievo, like myself, was fascinated by Stout
and Spencer and Bain and – in the continent, closer to Allievo, and always
having more prestige than the barbiarian islanders! – Grice: “Add to that the
charm of his italinanness versus the Germanic coldness of a Wundt – his name is
unpronounceable to Allievo – and you get to the heart of his philosphising on
‘psicofisiologia’ – where the ‘io’ meets the ‘tu’ – and his focus, having
studied the philosophical tradition in Rome – to ‘educatio fisica’ – which
obviously needs to be psicofisica!” -- Wundtan d Flechner!” – Giuseppe Allievo
(San Germano Vercellese) filosofo. Frequentò
la facoltà di filosofia dell'Torino e seguì l'insegnamento di Giovanni Antonio
Rayneri, sacerdote e filosofo di matrice rosminiana. Laureatosi il 18 luglio 1853 insegnò pedagogia
a Novara, a Domodossola, dove conobbe Rosmini, e a Ivrea e nel Collegio di
Ceva. A Domodossola pubblicò i suoi primi saggi e scrisse articoli per la
Rivista contemporanea di Luigi Chiala.
Arrivò alla cattedra di pedagogia a Torino (1869). Cattolico
spiritualista, fu propugnatore del cosiddetto sintesismo degli esseri,
principio secondo il quale «nessuna parte di un ente può sussistere divisa dal
tutto dell'ente stesso, e nessun essere può sussistere né operare diviso dagli
enti che costituiscono l'universo». Il
13 gennaio 1895 divenne socio dell'Accademia delle scienze di Torino. Pensiero Critico dell'hegelismo, soprattutto
per motivi religiosi, Allievo sosteneva doversi rifare alla tradizione
filosofica spiritualista italiana per combattere sia la dottrina hegeliana che
quella positivista che nella pedagogia si stava in quegli anni diffondendo in
Italia. Rimase fino al 1912 nell'Torino
insegnando pedagogia e dedicandosi a ricerche di antropologia e pedagogia. Fu
autore anche di un'opera di vaste proporzioni dedicata a Il problema metafisico
studiato nella storia della filosofia, dalla scuola ionica a Giordano Bruno
(Torino 1877). Opere principali: “Saggi
filosofici”; “Il problema metafisico studiato nella storia della filosofia”; “Studi
antropologici”; “L’uomo e il cosmo”; Si espone e si disamina
l'opinione del Brothier. Si espone e si giudica la teoria di G. A. Hirn. Segue
l'esposizione critica della teoria di G. A. Hirn. Büchner. Si pone la questione
e si accenna il come risolverla -- Si accenna la differenza tra l'uomo ed il
bruto. Concetto definitivo dell'antropologia. Valore ed importanza
dell'antropologia -- Del metodo in antropologia Divisione dell'antropologia --
Concetto della persona umana -- Analisi della persona umana -- La virtù
intellettiva -- Della coscienza personale -- La coscienza di sè e la conoscenza
esteriore -- Individualità soggettiva della conoscenza esteriore --
Universalità oggettiva della conoscenza esteriore -- Il potere animatore ed
affettivo -- Del corpo umano in sè e nelle sue attinenze col potere animatore
-- L'organismo esanime ed il potere animatore -- Unità sintetica della persona
umana TEORICA DELLA VITA UMANA -- La vita latente anteriore alla nascita --
L'infanzia -- Le prime origini dei problemi psico-fisiologici. L'attività
volontaria -- La suprema libertà dello spirito -- Varie forme della personalità
umana derivanti dall'attività volontaria -- Attinenze tra la facoltà
conoscitiva e l'attività volontaria -- Corrispondenza dell'organismo col potere
affettivo -- Trapasso dalla teorica dell'essenza umana alla teorica della vita
umana -- Il corso della vita umana -- Della conoscenza esteriore -- Mente e
corpo distinti ed uniti nella persona umana -- La gioventù -- La virilità -- I
poteri della vita -- Teorica della sensitività -- L'atteggiamento
esteriore dell'organismo ed il potere animatore -- Concetto comprensivo della
persona e dell'essenza umana La vita maschile -- La vecchiaia -- Delle potenze
in riguardo all'oggetto -- Delle potenze in rapporto col soggetto umano --
Delle potenze umane in particolare -- Specie del potere affettivo -- Del potere
animatore -- Distinzione essenziale tra la mente e l'organismo corporeo --
Unione personale della mente coll'organismo corporeo -- Del potere affettivo --
Carattere universale ed ufficio del sentimento -- Concetto e forme della vita
umana -- La vita propria e la vita comune -- Divisione del corso temporaneo
della vita ne'suoi periodi fondamentali -- Durata della vita umana -- Dei
periodi della vita umana in particolare -- Considerazioni generali in torno i
periodi della vita -- La vita oltremondana -- Delle potenze umane in generale
-- Delle potenze considerate nel loro sviluppo -- La vita fisica e la vita
mentale -- Del senso fisico e delle sensazioni -- Del senso spirituale e de'
sentimenti -- Del sentimentalismo -- Dell'istinto -- Della percezione sensitiva
-- Della fantasia sensitiva -- Teorica dell'intelligenza -- Della speculazione
e della memoria. Dell'intelligenza in riguardo al soggetto conoscente --
Dell'intelligenza in riguardo all'oggetto pensabile -- L'esperienza e --
L'intelligenza umana e LA PAROLA -- Dell'immaginazione. Concetto generale
dell'immaginazione. Specie dell'immaginazione. Efficacia dell'immaginazione.
Delle potenze estetiche. Teorica della volontà. Potere della volontà. L'operare
della volontà. La libertà del volere. TEORICA DEL CARATTERE UMANO E DEL
TEMPERAMENTO -- Ragione e genesi del carattere -- Concetto generale del
carattere id. Dell'intuizione. Dell'attenzione intermedia tra l'intuizione e la
riflessione -- Della riflessione -- Dell'istinto in ordine all'oggetto --
Trapasso dalla teorica della sensitività alla teorica dell'intelligenza --
Concetto generale dell'intelligenza -- Dell'intelligenza in riguardo al
soggetto pensante -- La libertà del volere e la scuola positivistica -- Critica
del determinismo positivistico -- La libera volontà e l'ambiente Art.7.
Sintesismo dei poteri della vita -- Del senso -- Dell'istinto rispetto allo
scopo la ragione. Dell'intelligenza in riguardo all'oggetto conosciuto -- Del
carattere in ispecie -- Del carattere riguardato nella sua fonte -- Del
carattere rispetto alle potenze ed alle forme dell'attività umana -- Del
carattere morale -- Il carattere umano nella specie, nelle stirpi, nelle nazioni
-- Del temperamento -- De'temperamentiinparticolare -- De'temperamenti in
rapporto fra di loro “Studi pedagogici”; “Attinenze tra l'antropologia e
la pedagogia”; Il linguaggio e la scrittura -- Dell'attenzione --
Dell'immaginazione sensitiva -- Dell'arguzia -- Della riflessione -- La memoria
ed il ricordo -- Educazione del senso del bello -- La Levana di Giovanni Paolo
Richter – Cenni biografici dell'autore --- Concetto generale -- Importanza ed
efficacia dell'educazione -- La Levana o Scienza dell'educazione -- Appendice: Dell'educazione
fisica infantile -- Dell'educazione della donna. “Esame
dell'hegelianesimo”; “Il ritorno al principio della personalità”. Note
Fonte: Francesco Corvino, Dizionario biografico degli Italiani alla voce
corrispondente in F. Corvino, Op. cit.
ibidem Giuseppe ALLIEVO, su accademia
delle scienze. Giuseppe Allievo, su Treccani Enciclopedie on line, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Giuseppe Allievo, in Enciclopedia Italiana,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Giuseppe Allievo, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Opere di
Giuseppe Allievo, su open MLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Giuseppe
Allievo, Filosofia Filosofo del XIX
secoloFilosofi iSan Germano Vercellese Torino Membri dell'Accademia delle
Scienze di Torino. L'intelligenza umana e la PAROLA (dal
greco, parabola) sono due termini,che mostrano l'uno verso l'altro armonica
corrispondenza e vicendevolmente si spiegano e s'illustrano, come lo spirito ed
il corpo nell'uomo. Il conoscere ed il sapere umano ritrae dalla ‘parola’, che
lo riveste, una peculiare impronta, che lo distingue dal conoscere proprio
degli spiriti puri, e la lingua rivela la tempra mentale. L'intelligenza
infantile si schinde dal suo germe in grazia della ‘parola’, con essa va via
via sviluppandosi e progredendo, con essa ha comuni le vicende e le fasi.
Infatti, la ‘parola’ torna necessaria all'effettivo pensare, all'effettivo
conoscere. Finchè il pensiero non si concreta nella ‘parola’, ed in essa per così
dire non s'incorpora, nès'incarna, è inconsistente, sfuggevole, vago, non per
anco formato, ma solo rudimentale ed appena sbozzato. Le percezioni, che si
hanno degli oggetti esterni mercè isensi, sono confuse, indistinte, e si dileguano
col dileguarsi degli oggetti percepiti. Ben si possono in certo qual modo fissare
colle immagini, le quali rimangono anche nell'assenza degli oggetti materiali.
Ma le immagini sono pur sempre *individuali*, come gli oggetti, cui si
riferiscono, e per di più sfuggevoli e vane.Veri pensieri e vere cognizioni
propriamente dette non si hanno se non mercè la ‘parola’. E e questa torna
tanto più necessaria, quanto più la idea da SIGNI-ficare (o segnare) e generale
ed astratta, ed ecco ragione per cui I BRUTI NON ‘PARLANO’ (Monkeys can talk) siccome
quelli, che sono destituiti della facoltà di generaleggiare e di
astratteggiare. Che se ponga si mente non più alla percezione esteriore, ma
alla ragione ed alle funzioni diverse della riflessione, la necessità della ‘parola’
si chiarisce ancora più evidente a segno che senza di essa tornerebbe impossibile
la formazione di qualsi voglia specie dell'umano sapere. Se adunque la ‘parola’
è vincolo necessario, che lega la mente col mondo delle idee e mezzo es -- Vedi
la nota g in fine del volume. Due altre ragioni si aggiungono a confermare
vie meglio la necessità di siffatto studio, l'una sociale, pedagogica l'altra.
La ‘parola’ non solo è mezzo alla formazione dei pensieri e delle idee, ma
altre sì organo il più acconcio A MANIFERSTAR la proposizione ALTRUI, epperò
vincolo necessario, che congiunge l'uomo co'suoi simili in comunanza di vita,
condizione potissima della società umana. Gli spiriti umani, perchè ravvolti
nell'involucro dell'organismo corporeo, non possono rivelarsi l'uno all'altro, nè
intendersi, nè mutuamente rispondersi senza qualche MEZZO SENSIBILE riposto in
qualche atto o movimento del corpo: quale è appunto la ‘parola’, la cui potenza
ed efficacia sugli animi altrui è meravigliosa. Ancora, essa non solo è una
necessità sociale, ma altre sì pedagogica, perchè è vincolo essenziale, che
unisce in armonia di intendimenti e di voleri l'educatore coll'alunno, il
maestro col discepolo, tanto chè senza di essa ogni educazione ed istruzione
vera ed efficace rimane un vano e sterile desiderio. La ‘parola’ e l'immaginazione,
quando vengono raffrontate l'una coll'altra, appariscono convenire insieme in
ciò, che entrambe importano una dualità di elementi, sensibile ed intelligibile
[[psico-fisico]] insieme accoppiati, e sono potenze individualizzatricie rappresentative
dell'idea sotto forma sensibile. Ond'è che tal fiata l'immagine ridesta la ‘parola’,
tal altra la ‘parola’ ri sveglia l'immagine, ed amendue rinvengono un punto di
comune contatto nel linguaggio metaforico, figurato, immaginoso. Ciò nulla meno
evvi tra queste due potenze siffatto divario, che l'immagine essenzialmente si
di spaia dal semplice SEGNO, ed oltre di ciò la ‘parola’ è un sensibile tolto
dall'organismo umano, l'immagine per contro è un sensibile attinto dalla natura
esterna. Riguardata nella sua nativa essenza la ‘parola’ può venire definita un
sensibile umano SEGNANTE (o significante) un intelligibile. Umano, dico, perchè
riposto in qualche atto o movimento del nostro corporeo organismo, quale il
gesto, la voce pronunciata ed udita. Rintracciando la ragione spiegativa
dell'essenza della ‘parola’ noi la rinveniamo nell'essenza stessa dell'uomo.
Infatti i due costitutivi della ‘parola’, quali sono IL SEGNO [o SEGNANTE] sensibile e l'e lemento intelligibile [IL
SEGNATO], ritrovano la ragione ed il fondamento loro nei due supremi
costitutivi dell'essere umano, quali sono l'organismo corporeo [il segnante] e
la mente [il segnato]; e come all'essenza dell'uomo torna tanto necessario lo
spirito, quanto il corpo, così è tanto necessario alla ‘parola’ il SEGNO quanto
l' idea significata [IL SEGNATO]. Onde si vede ragione, percui ai bruti,
destituiti di mente, fallisce la ‘parola’. Inoltre a costituire la ‘parola’ non
basta la dualità degli accennati elementi, ma occorre, che siano contemperati
ad unità, essendochè il sensibile debbe essere SEGNO [segnante] di un
intelligibile. -- esenziale alla formazione de' pensieri ed all'acquisto
delle conoscenze effettive, appare manifesto, che l'intelligenza umana, ad
essere compiutamente compresa, va altresì studiata nelle sue attinenze colla ‘parola’.
Ora quest'unità importa un primato dell'intelligibile sul sensibile, ed ha la
sua ragione nel dominio della mente sull'organismo corporeo, ciò è dire
nell'armonia stessa dei due supremi costitutivi dell'uomo. In fatti la mente
nostra padroneggiando l'organismo, con cui è naturalmente congiunta, essa è che
eleva i gesti, la voce, l'udito, il moto delle membra alla virtù di significare
[O SEGNARE] una idea o un sentimento dell'animo, vincolando questi con quelli.
Di qui la bella sentenza di Cicerone intorno l'origine della ‘parola’. Vox
principium a mente ducens (De natura Deorum, lib.2). Nella parola adunque il
segno O SEGNANTE sensibile e l'idea, o IL SEGNATO, sono due termini inseparabili
tanto, quanto sono nell'uomo indisgiungibili lo spirito ed il corpo. Da siffatto interiore e naturale
compenetramento fluiscono alcuni corollarii, che reputo opportuno di accennare.
Il pensiero progredisce di pari passo col linguaggio. La lingua corre le
medesime sorti e segue le stesse fasi che il pensiero,tanto chè la ragion
spiegativa delle origini, dei progressi, delle trasformazionie del corrompersi
di un idioma va rintracciata nello studio delle vicende, a cui soggiace il
pensiero di un popolo, che lo parla. Dichesi pare quanto vadano errati non pochi
cultori della filologia, i quali la segregano onninamente d allo studio del pensiero
umano, di cui il linguaggio è l'ESPRESSIONE esteriore, togliendole di tal modo
il carattere di scienza, non solo, ma trasmutandola in un tessuto di errori. Lo
stampo e l'indole peculiare di un idioma arguisce uno stampo o tempra singolare
di mente in chi lo adopera. Epperò come gli è vero, che la lingua genericamente
presa è nota specifica, che distingue l'umano pensare e conoscere da quello di
altri esseri intelligenti, così è pur vero, che i differenti idiomi in
particolare sono note altresì distintive, che differenziano le une dalle altre
le menti umane individue e nazionali. Tuttavia in mezzo a questa tra grande varietà
di lingue etnografiche apparisce un fondo comune, su cui tutte sono intessute,
e, direi, uno spirito universale, che tutte le informa e le solleva ad una
unità superiore, essendochè la mente umana, se si manifesta molteplice e varia
nelle molteplici nazioni e nei varii individui, risguardata nella suas pecifica
essenza è una ed identica, perchè, governata dalle medesime leggi logiche e
rivolta all'universalità del vero. E quest’unità radicale delle lingue
riverberata dall'unità specifica della mente umana arguisce logicamente l'unità
originaria e specifica del genere umano, come la loro moltiplicità arguisce la varietà
delle razze,in cui esso è distribuito sulla faccia della terra. Consegue ancora
dal principio stabilito, che il tradizionalismo, il quale pronuncia, che l'uomo
riceve dalla società insieme colla ‘parola’ anche le idee e la virtù dello intendimento,
apparisce erroneo, siccome quello, che disconosce il primato dell'idea sul
segno vocale, e l'ingenita virtù della mente di elevare la voce a dignità dinunzia
del pensiero. Se l'uomo impara dalla società il linguaggio, ciò è dovuto
alla virtù, che possiede la sua intelligenza, di intenderne il significato o
SEGNATO. Infine discende quest'altro corollario, che non manca della sua
importanza pedagogica. Vera istruzione non è, quando il discepolo riceva
passive la parola del maestro, come se questa dia bell'e fatta all'alunno
l'idea, la quale invece vuol essere un portato del suo lavoro mentale, e quindi
si deve cooperare alla forma zione della ‘parola’. Poichè altro è ricevere la ‘parola
e meccanicamente ripeterla, altro è FARLA NOI. IMPLICATURA. La’ parola’ ‘altrui
ha sempre alcunchè di vago, di incerto e di oscuro per CHI LA RICEVE, mentre
presenta un SENSO FERMO e più o men
definito per chi se la forma, come si avvera nella formazione di un neologismo
come ‘implicatura’. Il linguaggio umano trae le sue prime origini da
quell'impulso spontaneo della NATURA, che spinge l'infante a significare O
SEGNARE mercè di una GRIDA INARTICOLATA il suo BISOGNO, il suo desiderio, la
sua sensazione, e già abbiamo chiarito altrove, come a poco a poco egli ne
abbia svolto il suo linguaggio ARTICOLATO. Ma la grida primitiva, onde si svolse
il linguaggio articolato e convenzionale, non costituiscono tutto quanto il
linguaggio naturale, spontaneo o di azione, il quale abbraccia altresì IL
GESTO, il movimento, la fisionomia ed altri segni ed atteggiamenti esteriori
della persona. Ora GESTO può anch'esso svolgersi e perfezionarsi, o come
complemento del linguaggio o accompagnando e compiendo il linguaggio
articolato, o da sè solo sotto forma di linguaggio mimico, quale lo scenico dei
drammatici e lo educativo dei sordo-muti. Il linguaggio articolato primeggia
sul naturale, perchè il suono articolato o l'organo vocale, accompagnato
dall’organo auditivo,è più pie ghevole, più facile, più svariato e perfettibile,più
acconcio ad esprimere le idee in tutte le loro articolazioni. Esso può essere o
parlato, o scritto. La ‘parola’ parlata riesce più viva della scritta, più ESPRESSIVA,
più animata, ma alla sua volta questa è stabile e permanente, quella sfugge
vole e mobile. Il linguaggio articolato riveste forme diverse corrispondenti alle
forme progressive dell'intelligenza nelle varie età degli individui. Quindi si
distingue un linguaggio proprio dell'intuizione e del sentimento, un altro
della riflessione e della coscienza, un altro della scienza e dell'arte. Il
linguaggio dei popoli e degli individui fanciulli è povero, sintetico,
metaforico e figurato. Quello dei popoli e degli individui adulti è più o meno
concettoso, la grammatica ne è fissa, la prosa misurata. Quello dei popoli
colti e dei pensatori è dotto, analitico e sintetico ad un tempo. Imparare a parlare
è qualche cosa di più elevato che non imparare le lingue particolari; e noi
impariamo a parlare apprendendo LA LINGUA MATERNA. Questa lingua, che abbiamo
imparato da piccini, quando la nostra intelligenza cominciava a schiudersi, costituisce
per noi il linguaggio per eccellenza. Ogni altra nuova lingua, che sia pprenda,
si capisce soltanto mediante il suo paragone o rapporto colla lingua materna,
ed a questa con maggior ragione convengono tutte le lodi, che noi attribuiamo
alla lingua dei Romani come mezzo di coltura. Il bambino è sempre tanto
desideroso di udirvi, che spesso vi interroga anche su cose conosciute,
unicamente per aver occasione di ascoltarvi. Or bene tutto il mondo esteriore
vien fatto comparire e brillare davanti alla fantasia del bambino mediante il
nome, con cui vien designato ciascun oggetto. Tutto ciò, che è corporeo, venga
analizzato sotto gli occhi del fanciullo durante i suoi due primi lustri, ma
non gli si faccia analizzare affatto tutto ciò, che è solo spirituale. La
lingua materna siccome e la più innocente delle filosofie pel fanciullo,
siccome il più valido esercizio di riflessione. Parlategli molto e con
precisione, ed anche da lui esigete la precisione.Una PROPOSIZIONE oscura, ma
che diventa chiara se ripetuta una volta, provoca l'attenzione e rinforza
l'intelligenza. Non temete mai di non essere intesi, e nemmeno se si tratta di
intere proposizioni. La vostra faccia, il vostro accento, e il vivo bisogno che
sente il fanciullo di comprendere, rendono chiara la cosa per metà. E questa
prima metà farà col tempo capire anche l'altra. Pensate che I fanciulli. [SVILUPPO
DELLA TENDENZA ALLA COLTURA DELLO SPIRITO] come facciamo noi per la lingua
greca o per qualunque altra lingua straniera, imparano prima a CAPIRE la nostra
lingua, che a ‘parlar’-la. Al bambino parlate sempre come se avesse qualche
anno di più. L'educatore, il quale a torto attribuisce al suo insegnamento troppa
parte di ciò, che impara l'alunno, ricordi che il bambino porta già pronto in
se medesimo ed imparato tutto il suo mondo spirituale (cio è le idee morali e metafisiche),
e che la lingua con tutte le sue immagini sensibili non serve che a rischiarare
questo mondo interiore. Qui trova suo luogo la questione dello studio della
lingua dei romani come mezzo di coltura mentale. Lo studio della lingua de
romani e come una ginnastica dello spirito, che ne riceve una scossa ed
eccitazione salutare.Esso studio, non tanto in virtù del mero vocabolario, quanto
in forza della grammatica, che è la logica della lingua, costringe lo spirito a
ripiegarsi sopra di sè, a riflettere sulla ‘parola’, considerandole come un
riverbero della propria attività intuitiva. Dal linguaggio si passa a dire
dello scrivere, ed anche su questo punto non sono meno assennati ed acuti I
suoi accorgimenti. In sua sentenza, lo scrivere, ancora più che il ‘parlare’,
separa e concentra le idee, perchè il suono meccanico della ‘parola’ parlata
insegna a scosse e passa rapido, mentre i caratteri della scrittura ‘parlano’ in
modo continuato e distinto. Lo scrivere facilita la produzione delle idee assai
più che il suono rapido della ‘parola’, essendo esse una veduta interiore più
che un'audizione esteriore. Sotto altri riguardi la ‘parola’ parlata assai
sovrasta alla parola scritta, essendochè quella è ‘parola’viva, che esce
animata dall'interiore organismo e discende potente nell'anima di chi la
ascolta, mentre questa è parola morta, che esce dalla penna inanimata e non è
che una debole eco della prima. Esercitate di buon’ora, e gli prosegue, il
fanciullo a scriver e I pensieri suoi proprii piuttostochè ivostri. Risparmiategli
i temi comunissimi, quali sarebbero le lodi della diligenza, del maestro di
scuola,dei governanti ecc.Niente più nuoce a qual siasi componimento, quanto la
mancanza di un oggetto proprio e di inspirazione. Una lettera, provocata
unicamente dalla volontà del maestro, e non da un bisogno del cuore, diventa
una morta apparenza di pensiero,un inutile consumo di materia mentale. Se
fate scrivere lettere, siano rivolte ad una persona determinata e sopra un
determinato oggetto. Lo scrivere una pagina eccita e sveglia l'intelligenza
assai più che il leggere un libro intiero. Vi è tanto poca gente,che sappia
scrivere con un po'di garbo, quanto son pochi coloro, che sanno dire quattro
periodi continuati [2. Dell'attenzione. È avviso dell'autore,che
l'attenzione,riguardata non in generale,ma specialeerivolta ad un particolare
oggetto,non va raccomandata,nè suscitata o promossa con mezzi esteriori, quali
sarebbero il premio od il castigo, poichè in tal caso il fanciullo più che
all'oggetto proposto all'osservazione, terrebbe l'animo attento al premio, che
lo attrae, od al castigo minacciato. Pongasi mente, che esso non è atto a
sostenere un'atten zione prolungata e non mai interrotta;perciò non pretendete,
che anche trattandosi d'un argomento, che possa interessarlo, vi presti la sua
attenzione in qualunque ora e luogo e per tutto il tempo prescritto dai nostri
regolamenti scolastici. La novità è pure una potente attrattiva per
l'attenzione, m a per ciò stesso non va sciupata ripetendo troppo spesso le
medesime cose sicchè diventino monotone e stucchevoli. ] . Chi
dovrà un giorno fare giustizia e scrivere veramente la storia del pensiero
filosofico italiano nell’ultimo secolo, non potrà non dare una gran parte allo
spiritualismo: del quale certo uno dei più illustri e combattivi rappresentanti
è stato ed è»1. Le parole di Calò attestano una realtà difficilmente
discutibile per chi si approcci anche alle vicende della pedagogia italiana nel
mezzo secolo successivo all’Unità. Nato a San Germano Vercellese il 14
settembre 1830, Giuseppe Allievo2 compì gli studi secondari al seminario
Arcivescovile di VGiuseppe Allievoercelli. Vinta una borsa al Collegio Carlo
Alberto di Torino, si iscrisse nella Facoltà di filosofia della Regia
Università. Si distinse per la preparazione e l’applicazione negli studi. In un
articolo pubblicato sulla«Rassegna Nazionale», Giacomo Cottini riportò una
lettera scritta da Aporti che comunicava al giovane Allievo la vincita di un
premio che ammontava a trecento lire per i suoi meriti universitari3, segno
premuni tore di una carriera accademica di primo piano. Laureato nel 1853,
già lo stesso anno fu chiamato alla direzione di una scuola di metodo presso
Novara, dove teneva anche il corso di pedagogia. Iniziò così una lunga serie di
esperienze educative che lo portarono in diversi centri piemontesi: nel 1854 fu
trasferito a Domodossola, poi per due anni ad Ivrea, quindi nel collegio di
Ceva e successivamente a Casale Monferrato dal 1858 al 1860. L’anno seguente fu
destinato sempre all’insegnamento di filosofia al Regio Liceo di Porta Nuova a
Milano, l’attuale Liceo Parini, dove rimase per sei anni. Nel centro lombardo
insegnò anche Filosofia teoretica, 1 G. Calò, Giuseppe Allievo Filosofo, in
Vita e mente di Giuseppe Allievo, Torino, Scuola Tipografica Salesiana, 1913,
p. 13. 2 G. B. Gerini, Gli scrittori pedagogici italiani del secolo decimonono,
Torino, Paravia, 1910, pp. 707- 708; P. Braido, Allievo Giuseppe, in Dizionario
Enciclopedico di Pedagogia, Torino, S.A.I.E., 1958, vol. I, pp. 59-60; M. P.
Biagini, Allievo Giuseppe, in Enciclopedia Pedagogica, Brescia, La Scuola,
1989, vol. I, pp. 377-381. 3 G. Cottini, Giuseppe Allievo, «Rassegna
Nazionale», I settembre 1913, p. 66. 22 logica e metafisica, all’Academia
Scientifica – Letteraria. Ebbe modo di stringere rapporti con alcune delle
personalità di spicco della cultura milanese: Pestalozza, Poli, Cantù, Tullio
Dandolo. Continuò a tenere i rapporti con l’università torinese, dove nel 1857
aveva superato l’aggregazione nella Facoltà di lettere e filosofia, con giudizi
molto positivi del Mamiani e del Rayneri4. Furono anni di intenso studio e
anche segnati dalla sofferenza, dopo la morte di uno dei suoi figli5. Nel 1867
poté tornare a Torino poiché fu nominato insegnante di filosofia al Regio Liceo
Cavour e incaricato del corso di pedagogia all’Università, dopo la morte del
Rayneri. Continuò ad insegnare nella scuola sino al 1869, quando fu nominato
titolare della cattedra di Pedagogia. Divenne ordinario solo nel 1878, ed
insegnò ininterrottamente all’Università di Torino sino al 1912. La sua
produzione pedagogica fu copiosa. Scrisse più di cento pubblicazioni tra
monografie e saggi. Le sue opere più importanti furono: Saggi filosofici
(1866), Della pedagogia in Italia, L’antropologia e l’hegelismo, L’Hegelismo e
la scienza, la vita (1868), L’educazione e la nazionalità (1875), L’educazione
e la Scienza (1882), Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico (1883),
Delle idee pedagogiche dei Greci, Studi pedagogici, Riforma 4 Cottini riportò
un ricordo di Antonio Parato, risalente al giorno Allievo passò il concorso per
l’aggregazione a Torino: «Antonino Parato, anch’esso decoro e vanto della
scuola pedagogica italiana, disse nella sua Vita Magistrale, che avendo nel
giorno stesso della pubblica prova incontrato Giovanni Antonio Rayneri, allora
professore di Pedagogia nel Torinese Ateneo, gli venne dal medesimo annunciato
con trasporto di gioia che il Collegio Universitario aveva allora allora
accolto nel suo seno una sicura speranza della Filosofia italiana» G. Cottini,
Giuseppe Allievo. Nel suo articoli, Cottini trascrive una lettera di Allievo
indirizzata all’abate e professor Bernardo Raineri, rinvenuta dallo studioso e
sacerdote Alessandro Roca tra le carte che il Raineri affidò agli archivi dei
padri rosminiani. Si tratta di pagine molto significative, scritte poco dopo la
morte del figlio Giulio, deceduto all’età di soli dieci anni: «Professore
carissimo, Vi sonon grato e riconoscente della vostra lettera consolatoria. La
profonda e grave ferita, che mi sta aperta nell’animo, è insanabile, ma pure
ringrazio di cuore gli uomini del loro pietoso ufficio. L’immagine del mio
povero Giulio mi accompagna dovunque, eppure so che vivo non lo rivedrò mai più
sulla terra. La mia mente è con lui nel sepolcro, dove assisto col pensiero
alla dissoluzione delle sue povere membra, che si confondono colla polvere
della terra e in ogni passo che faccio, mi pare ci sentirmi dire: Padre, perché
mi calpesti? Ah, se io avessi la sventura di essere materialista, vedendo che
il mio Giulio è tutto finito in un pugno di polvere, non saprei resistere all’idea
di rinunciare anch’io alla vita in modo violento. La fede, solo la fede
cristiana, mi fa forte nella lotta tremenda, e rassegnato ai duri, eppur sempre
adorabili voleri di Dio. La natura mi ha strappato dal seno il mio diletto per
convertirmi il corpo in poca polvere; la fede miaddita il suo spirito sempre
vivo in cielo e mi assicura che quella poca polvere si rifarà corpo vivo per
mantenerla. Non ho voluto che la salma di mio figlio giacesse qui a Milano,
dove non si pensa più ai poveri morti: l’ho fatto in quel campestre cimitero,
accanto ai sepolcri, dove riposano lacrimate le ossa de’ miei genitori. E
vorrei anch’io abbandonare per sempre Milano, ma non posso nulla per me. I
molti miei amici vivamente mi solleticano di chiedere la cattedra di pedagogia
vacante nell’Università di Torino, e ci andrei volentieri, ma io mi tengo forte
nel mio proposito di non chiedere più nulla al Potere. Ieri mi è giunto notizia
che è morto un mio fratello ammogliato, lasciando dietro di sé tre creature. E
quasi tutto ciò non bastasse, ho il mio ultimo bimbo di quatto anni ammalato da
25 giorni di febbre miliare, in grave pericolo di vita ed ormai disperato dai
medici. Sono infelice, ma l’infelicità non è così, quando si è con Dio, il
quale ci addolora quaggiù per bearci in cielo. Ricambiate i mieri saluti a
quall’anima di Iacopo Bernardi: ditegli che gli sono proprio riconoscente della
parte che prese al mio dolore, e voi vogliatemi sempre bene» Ibid., pp.
67-68. 23 dell’educazione mediante la riforma dello Stato (1897),
Esame dell’hegelismo (1897), La pedagogia antica e contemporanea (1901),
Opuscoli pedagogici, G. G. Rousseau
filosofo e pedagogista. Scrive anche alcuni manuali per le scuole secondarie
come il Breve compendio di filosofia elementare ad uso de’ licei (1862),
Elementi di pedagogia ad uso delle Scuole normali del Regno e il Compendio di
Etica ad uso dei Licei (1899), con più edizioni e ampiamente adottati nelle
scuole italiane. Allievo collaborò attivamente alla pubblicistica pedagogica e
filosofica del tempo6. Nel 1867 con Carlo Passaglia fu il principale animatore
del «Gerdil», organo dei giobertiani e spiritualisti torinesi, che ebbe però
breve durata non riuscendo a superare l’anno. Vi scrissero, tra gli altri,
Giovanni Maria Bertini e Francesco Bertinaria. Diresse «Il campo dei filosofi»,
un periodico fondato a Napoli da Gaetano Milone, poi trasferito a Torino nel
1867. Si tratta di un’esperienza pubblicistica che ebbe una certa rilevanza nel
dibattito filosofico e pedagogico italiano, come ha già sottolineato Eugenio
Garin7. Vi collaborarono autori come Di Giovanni, Toscano, Morgott, Peyretti,
Rayneri, Tagliaferri, Bonatelli, Marsella, Tiberghien, Bosia, 6 Cfr. G. Chiosso
(ed.), La stampa pedagogica e scolastica in Italia (1820-1943), Brescia, La Scuola.
Dopo aver citato alcuni brani della rivista, Garin osserva: «“Il Campo dei
Filosofi Italiani”, la rivista vissuta a Napoli dal 1864 al ’67, e poi passata
a Torino sotto la direzione dell’Allievo, si proponeva di combattere
soprattutto “l’idealismo dell’Hegel e il positivismo del Comte” – come scriveva
l’Allievo nel programma del ’68, continuando del resto l’attività iniziata a
Napoli dal barnabita Gaetano Milone. Oltre i saggi di critica all’hegelismo già
citati, altri ve ne comparvero, dell’Allievo nel ’72, del Di Giovanni nel ’64,
del Donati nel ’66, del Selvaggi nel ’67, del Tagliaferri nel ’70. E l’attività
della rivista in questo settore meriterebbe di essere studiata, tanto più che
non è privo d’interesse il legame subito stabilito fra hegelismo e positivismo,
quasi gemelli nemici». Dopo aver ricordato la facilità con cui diversi
idealisti si «convertirono» al positivismo negli anni seguente all’Unità, Garin
spiega questo fenomeno riprendendo e valorizzando l’analisi dell’Allievo che
vedeva in queste due teorie apparentemente distanti, un comune denominatore:
«Quell’onesto studioso che fu Giuseppe Allievo, professore di antropologia e
pedagogia a Torino, che aveva alimentato una vivace ma seria discussione
intorno all’hegelismo sul “Campo dei Filosofi Italiani”, che nel ’68 aveva
messo insieme un onesto libretto su L’hegelismo, la scienza e la vita,
pubblicando quasi trent’anni dopo, nel ’97, a Torino, un Esame
dell’hegelianismo, che voleva essere un bilancio, credeva di poter individuare
una convergenza profonda fra positivismo e hegelismo. “L’Hegelianismo –
scriveva – e il positivismo, che a tutta prima hanno sembianza di due dottrine
diametralmente opposte e riluttanti, in realtà sono fra loro congiunti da un
punto di contatto intimo e profondo.” Assoluta immanenza, realtà come processo
e sviluppo, celebrazione della ‘scienza’ (Wissenschaft): ecco alcuni dei punti
su cui insisteva l’Allievo, pur avverso a entrambe le concezioni. Ma comunque
si valuti la sua disamina, e al di là dei ‘casi’ degli hegeliani passati al
positivismo, una cosa certa l’Allievo coglieva esattamente: l’esistenza di una
‘riforma’ in atto della dialettica del senso dell’evoluzionismo, con tutto
quello che una veduta del genere implicava, “in metafisica, in politica, in
diritto, in morale, in religione” – per usare le sue parole. Proprio dentro
questo processo, già avviato nell’ambito dell’eredità feurbachiana, si muoverà
fra tensioni e polemiche Antonio Labriola: contro l’evoluzionismo spenceriano
al posto del moto dialettico della storia, contro il socialismo
neokantiano-positivistico al posto del marxismo, per una rinnovata filosofia
della prassi, ma anche – lo dichiarerà a Engels – per una sostituzione del
metodo genetico a quello dialettico, il che non era solo ‘questione di parole’»
E. Garin, Tra due secoli. Socialismo e filosofia in Italia dopo l’Unità, Bari,
De Donato, 1983, pp. 56-57. 24 Bertini, Polla, Leonardi, Naville,
Passaglia e altri. In seguito pubblicò una serie di articoli sulla «Rivista
filosofica». Nel 1883, quando era ormai divenuto uno tra i principali
protagonisti del dibattito pedagogico nazionale, Allievo assunse la direzione
de «Il Baretti»8, un foglio dedicato a questioni scolastiche e pedagogiche, che
guidò sino al 1885. Qui vi apparvero perlopiù una serie di articoli utili a
lumeggiare le sue posizioni in merito alla libertà d’insegnamento e, più in
generale, alla politica ministeriale. Nella sua lunga carriera, Allievo
rappresentò una delle personalità di primo piano della pedagogia spiritualista
italiana. Le sue opere e il suo pensiero divennero un punto di riferimento per
la riflessione e il mondo educativo cattolico9, trovando una considerevole
«circolazione pedagogica», per riprendere una categoria riproposta da
Prellezo10. La Bertoni Jovine ne parlò come il maggiore esponente del
«neospiritualismo»11, sino a considerarlo, esagerando, come la guida della
corrente cattolica12. Il ruolo assunto nella discussione pedagogica del tempo è
senza dubbio legato alla posizione privilegiata avuta per quasi mezzo secolo in
ambito accademico. Va tenuto conto che allora i docenti di pedagogia
incardinati nelle Università italiane erano relativamente pochi. Serafini,
riprendendo un brano di Cesca, rileva come nel 1890 si contassero solo cinque
professori di pedagogia nelle tredici facoltà italiane di Lettere e Filosofia,
e di questi solo tre erano gli ordinari13. Allievo era uno di loro, ed
insegnava in un Ateneo come quello torinese che oltre ad avere con quello
napoletano il primato per il numero di studenti iscritti, rappresentava in quei
decenni uno dei poli principali del dibattito pedagogico italiano, sia in campo
accademico, che in quello pubblicistico e scolastico. 8 Cfr. G. Chiosso (ed.),
La stampa pedagogica e scolastica in Italia (1820-1943), cit., pp. 90-91. 9 G.
Chiosso, I giornali scolastici torinesi dopo l’Unità, in Id. (ed.) Scuola e
Stampa nell’Italia liberale. Giornali e riviste per l’educazione dall’Unità a
fine secolo, cit., p. 17. 10 In uno studio dedicato a Rayneri, a cui ne seguì
uno analogo su Allievo, Prellezo invita ad approfondire la capacità di
influenza dei pedagogisti più impegnati teoreticamente con la realtà educativa.
Egli parla della «necessità di promuovere ricerche puntuali allo scopo di
definire limiti e portata dell’incidenza delle dottrine pedagogiche, non solo
nell’ambito delle riforme dell’insegnamento pubblico, ma anche, ad esempio, in
quello dell’azione educativa dei fondatori e primi membri delle congregazioni
religiose dedicate all’insegnamento» J. M. Prellezo, Pensiero pedagogico e
politica scolastica. Il caso di G. A. Rayneri (1810- 1867), in «Annali di
Storia dell’Educazione e delle Istituzioni scolastiche», n. 1, 1994, Brescia,
La Scuola, p. 149. 11 D. Bertoni Jovine, F. Malatesta, Breve storia della
scuola italiana, Roma, Editori riuniti, 1961, p. 25. 12 «Il neo spiritualismo
dell’Allievo se riuscì a creare una corrente alla quale aderirono studiosi come
il Conti e l’Alfani e tutto il gruppo della Rassegna Nazionale non ebbe la
capacità intrinseca di operare un capovolgimento della pedagogia e neanche
quella di combattere efficacemente il positivismo che, benché debole dal punto
di vista speculativo, era portatore di vivissime esigenze socali, sostenute dai
partiti democratici» D. Bertoni Jovine, La scuola italiana dal 1870 a nostri
giorni, Roma, Editori Riuniti, 1972, p. 63. 13 G. Serafini, L’idea di pedagogia
nella cultura italiana dell’Ottocento, Roma, Bulzoni Editore, 1999, p.
83. 25 Riguardo alla «circolarità» di Allievo nella corrente
cattolica, merita di essere accennata la collaborazione con i salesiani14. Il
docente vercellese poté conoscere presumibilmente l’esperienza educativa della
congregazione già negli anni dell’Università, prima come studente della città
di Torino, e poi quando divenne professore. Diversi collaboratori di Don Bosco
frequentarono infatti l’ateneo subalpino. In seguito, uno dei suoi figli studiò
al collegio salesiano di Mirabello. Il docente vercellese si avvicinò sempre
più alla congregazione: collaborò nel collegio salesiano di Valsalice, partecipò
alle numerose manifestazioni scolastiche e culturali dei salesiani in città15,
fece spesso visita in qualità di «esperto» alle scuole del santo piemontese.
Alcuni studiosi salesiani hanno parlato di una vera e propria amicizia tra Don
Bosco e il pedagogista vercellese16. Un episodio risulta significativo nella
ricostruzione di questo rapporto. Quando alla fine degli anni ’70 l’oratorio di
Valdocco rischiò di essere chiuso per dei provvedimenti voluti dal Ministro
Correnti, Allievo si offrì per cercare di salvare l’istituto. Aiutò don Bosco
nella compilazione dell’istanza da inviare al Ministero e si impegnò per
inoltrare un ricorso al Consiglio di Stato. Negli anni seguenti mantenne
stretti i rapporti con gli altri salesiani più giovani, soprattutto con don
Durando, direttore generale degli studi delle scuole salesiani. Il pensiero
dello studioso vercellese ispirò anche alcune opere dei primi pedagogisti
salesiani17. Prellezo documenta l’influenza della pedagogia di Allievo sulla
Storia della pedagogia (1883) di Cerruti e sugli Appunti di pedagogia (1897) di
Barberis18. Una certa influenza è anche rilevabile nelle Lezioni di pedagogia
di don Vincenzo Cimatti19. In 14 Sul tema si rinvia al documentato e
approfondito studio di: J. M. Prellezo, Giuseppe Allievo negli scritti
pedagogici salesiani, «Orientamenti pedagogici», n.3, maggio-giugno 1998, pp.
393-419. 15 Proverbio ricorda la presenza dell’Allievo alla seconda
rappresentazione del Phasmatonices di Rosini nel 1868. «Le insistenza per la
replica furono tali che il sipario si riaprì l’otto giugno: vi accorsero molti
torinesi, tra cui il professor G. Allievo, docente di pedagogia alla Università
di Torino, il quale “andava per la sala del teatro a trarre innanzi persone
ragguardevoli”, mentre negli intervalli venivano eseguite le romanze verdiane
di G. Cagliero» G. Proverbio, La scuola di don Bosco e l’insegnamento del
latino (1850-1900), in F. Traniello (ed.), Don Bosco nella storia della cultura
popolare, Torino, Sei, 1987, p. 172. 16 Trat tando del santo piemontese,
Braido ha osservato: «reali furono le relazioni, perfino di cordialità e di
amicizia, con alcuni teorici della pedagogia contemporanei, come A. Rosmini, G.
A. Rayneri, G. Allievo» P. Braido, L’esperienza pedagogica preventiva nel
secolo XIX, Don Bosco, in Id. (ed.), Esperienze di Pedagogia cristiana nella
storia, cit., p. 313. Si veda anche: J. M. Prellezo, Giuseppe Allievo negli
scritti pedagogici salesiani, cit., p. 413. 17 Su tale legame Pietro Braido ha
rilevato: «Giannantonio Rayneri e Giuseppe Allievo esercitarono un palese
influsso diretto su due note figure di studiosi salesiani di pedagogia,
rispettivamente D. Francesco Cerruti e D. Giulio Barberis; gli inediti Appunti
di Pedagogia sacra di quest’ultimo rivelano un’evidente dipendenza. Allievo,
benefattore e sostenitore di Don Bosco, si batté strenuamente per la
sopravvivenza delle scuole di Valdocco, mettendo a disposizione, in difesa
della libertà educativa, la sua energica contrarietà al centralismo burocratico
del Ministero della P.I.» in P. Braido, L’esperienza pedagogica preventiva nel
secolo XIX, Don Bosco, in Id. (ed.), Esperienze di Pedagogia cristiana nella
storia, cit., p. 313. 18 J. M. Prellezo, Giuseppe Allievo negli scritti
pedagogici salesiani, cit., pp. 406-412. 19 Ibid., p. 413. 26
verità, anche altri manuali pedagogici del tempo si ispirarono alla riflessione
dell’Allievo20. Se l’opera del vercellese fu accolta subito con favore dal
circuito cattolico liberale e da quello salesiano, il gruppo intransigente non
sembrò accorgersi del suo contributo. Solo all’inizio del Novecento, quando la
dialettica interna nel mondo cattolico assunse toni meno aspri, anche «La
Civiltà cattolica» lo menzionò per le sue posizioni a favore della libertà
d’insegnamento21. Sebbene l’opera di Allievo mantenne una dimensione
prevalentemente nazionale, egli attirò l’attenzione di alcuni studiosi
stranieri come Naville, Daguet, Blum. Dopo una lunga esistenza spesa
interamente alle riflessione educativa si spense a Torino il 24 giugno 1913. I.
1. Influenze rosminiane e dimensione europea Alla costruzione del sistema
pedagogico e filosofico dell’Allievo, contribuirono molteplici scuole e
sollecitazioni. Gran parte degli studi dedicati al pedagogista vercellese hanno
rilevato un’«evidente traccia della riflessione rosminiana»22, come già aveva
sottolineato nelle sue ricerche Gentile23. Per cogliere le ragioni di tale
influenza, occorre in primo luogo considerare il peso del rosminianesimo nella
cultura pedagogica e filosofica piemontese della prima metà dell’Ottocento.
L’Ateneo torinese rappresentò con i seminari lombardi uno dei maggiori centri
di influenza e propagazione della filosofia del roveretano24. Si tratta di un
afflato radicato, che si conservò ancora a lungo nella cultura subalpina25.
Allievo trascorse, pertanto, gli anni della sua formazione universitaria in un
contesto permeato dal pensiero rosminiano. Diversi dei suoi professori erano
discepoli rigorosi del roveretano. Grazie ad un suo docente, Allievo poté avere
un primo contatto con Rosmini: Pier Antonio Corte inviò al pensatore roveretano
un breve scritto dello studente vercellese per averne un parere. Poco tempo
dopo, Rosmini rispose all’invito del professore e 20 Tra gli altri, Arcomano,
sottolinea come il saggio di Costanzo Malacarne, Sunti di pedagogia, un
classico della manualitstica pedagogica del tempo, appaia fortemente
influenzato dalla pedagogia di Allievo. Cfr. A. Arcomano, Pedagogia, istruzione
ed educazione in Italia, Chiosso, Editoria e stampa scolastica tra otto e
novecento, in L. Pazzaglia (ed.), Cattolici, educazione e trasformazioni socio
– culturali in Italia tra Otto e Novecento, Chiosso, Novecento pedagogico,
Brescia, La Scuola, Gentile, Le origini della filosofia contemporanea in
Italia. I platonici, Messina, Principato, Gambaro, Antonio Rosmini nella
cultura del suo tempo, «Il Saggiatore», Traniello, Cattolicesimo conciliarista,
Rosmini e il Piemonte. Studi e Testimonianze, Stresa, Edizioni rosminiane,
1994. 27 apprezzò il lavoro pur sottolineando i limiti dello scritto
di Allievo, allora solo ventiduenne26. Pochi anni dopo, nel 1854, il
pedagogista vercellese ebbe anche l’occasione di conoscere personalmente il
Rosmini, poichè allora dirigeva un corso di Metodica a Domodossola, frequentato
da alcuni allievi dell’Istituto di Carità. Del roveretano ebbe una impressione
eccezionale. Ricordando quella circostanza, ne parlò come di una persona dotata
di una «modestia pari alla sua grandezza»27, ma anche di una profonda serenità,
probabilmente legata, in quel periodo, al recente Dimmitantur per le sue opere.
Il legame con il rosminianesimo fu corroborato da Giovanni Antonio Rayneri, da
cui Allievo ereditò la cattedra all’Università di Torino. Professore e
sacerdote, il Rayneri rappresentò un protagonista nel fermento educativo e
pedagogico piemontese tra gli anni ’40 e ’50 dell’Ottocento. Il suo sistema
pedagogico si innestava sull’impianto filosofico del roveretano, di cui offrì
un’organica riproposizione in chiave educativa. L’elaborazione di Rayneri fu di
vitale importanza per la circolazione della pedagogia rosminiana28. La lezione
del suo predecessore rimase un costante punto di riferimento per l’Allievo. Lo
studioso vercellese curò nel 1869 la pubblicazione postuma del saggio Della
pedagogica, una summa in cinque volumi del pensiero del Rayneri, «supplendo il
libro e mezzo, che mancava, con pochi appunti rinvenuti fra le carte
dell’autore»29. Si tratta di un’opera considerata da Allievo come una delle
maggiori confutazioni agli errori della pedagogia moderna30. In una delle sue
prime opere più importanti,: L’Hegelismo e la scienza, la vita (1868) si trova
una dedica molto significativa al suo maestro31. 26 In una lettera datata 17
febbraio 1852, il Rosmini scrisse al Corte: «La ringrazio d’avermi comunicato
lo scritto del signor Giuseppe Allievo. L’ho letto con piacere e confermo
pienamente il giudizio favorevole da lei portato e mi congratulo colla R.
Università se fa di tali allievi, mi congratulo con Lei e coll’autore del detto
scritto, che mi par l’ugna del leone. Quello che può mancare alla proprietà del
linguaggio verrà in appresso, essendo cosa che solo s’impara cogli anni...
Queste sottili osservazioni però non impediscono che il lavoro favoritomi sia
degnissimo di lode» Citata in G. B. Gerini, La mente di Giuseppe Allievo,
Torino, Tipografia S. Giuseppe degli artigianelli, 1904, p. 8. 27 G. Allievo,
Il concetto pedagogico di Antonio Rosmini, in Per Antonio Rosmini, Milano,
Cogliati, 1897, vol. II, p. 523. 28 G. Chiosso, Rosmini e i rosminiani nel
dibattito pedagogico e scolastico in Piemonte (1832-1855) in Antonio Rosmini e
il Piemonte. Studi e Testimonianze, cit., p. 102. 29 G. Cottini, Giuseppe
Allievo, cit., p. 71. 30 Nella commemorazione già citata scrive: «La Pedagogica
mi apparisce una spiccata antitesi dell’Emilio di Gian Giacomo Rousseau; in
quella tutto è semplice, connesso, lucido, ordinato e preciso: in questo tutto
è sconnesso, incoerente, saltuario; il nostro Pedagogista ha la coscienza del
suo pensiero, misura i suoi conoscimenti, non trascorre mai gli estremi; il
ginevrino scatta fuori con grandi paradossi che colpiscono, con pensieri
sublimi, grandi originali, dove la verità è in lotta continua con l’errore;
[...] Un’altra idea della vita, un giusto sentimento della natura umana, un
vivo ed operoso concetto del dovere, sono questi i principi filosofici, che
informano la Pedagogica del RAYNERI, principi diamentralmente opposti a quelli
dell’umanismo contemporaneo, che fa dell’uomo Dio a se stesso» G. Allievo,
Commemorazione del primo Centenario della nascita di Giovanni Antonio Rayneri,
letta in Carmagnola, Asti, Tipografia Popolare Astigiana, 1910, pp. 14-15. 31
La dedica recita: «Alla cara e venerata memoria di Gioanni Antonio Rayneri, Che
primo fra gl'italiani tentò elevare all'unità sistematica della scienza la.
Pedagogica da lui per un ventennio professata all'Università di Torino questo
tenue lavoro con riverenza di discepolo piamente consacro». 28 Nel
1910, il vercellese fu invitato a tenere un discorso in occasione del
centenario dalla nascita di Rayneri32. Ormai prossimo alla pensione,
ripercorrendo quasi cinquant’anni di insegnamento universitario, ricordò con
queste parole il maestro: «Gran parte della mia vita pedagogica sta collegata
col nome di lui, essendochè negli anni miei giovanili, sedendo sui banchi
dell’Università io ascoltava la sua magistrale parola, e che egli ha illustrato
per poco più di un ventennio quella cattedra, che io tengo da quasi mezzo
secolo»33. Durante gli anni del suo magistero, Allievo rimase sempre in
contatto con gli ambienti rosminiani, collaborando anche ad alcune riviste ad
esso legato34. Diversi concetti e posizioni del sistema del vercellese sono
chiaramente mutuati dall’alveo rosminiano. Un primo elemento è l’idea della
personalità, che Allievo pone al centro della sua pedagogia35. In questo campo,
accolse gran parte dell’impianto psicologico e antropologico del roveretano,
riproponendo la tripartizione delle facoltà: senso, volontà e intelletto,
largamente utilizzate e approfondite dal professore piemontese. Al Rosmini lo
legano anche ragioni e argomenti di critica alla filosofia moderna. Al pari del
roveretano, ma anche di altri autori spiritualisti, Allievo riunì Kant e i
pensatori idealisti sotto la stessa etichetta di «scettici». Un altro elemento
riguarda l’unità di filosofia e pedagogia, di cui Allievo si fece araldo di
fronte agli eccessi di metodologismo cui erano tentati anche alcuni studiosi
cattolici36. All’idea di unità, è collegato un altro concetto rosminiano
accolto da Allievo, vale a dire quello del «sintetismo»37, strettamente
connesso a quello di «armonia», considerato nodale per comprendere la sua idea
di educazione38. Non senza motivo, Berardi riassunse la teoria della
personalità dell’Allievo come una «traduzione del sintetismo di origine 32 G.
Allievo, Commemorazione del primo Centenario della nascita di Giovanni Antonio
Rayneri, letta in Carmagnola, cit. 33 Ibid., p. 4-5. 34 Tra le altre, offrì la
sua collaborazione alla rivista La Sapienza, Rivista di filosofia e di Lettere,
diretta da don Vincenzo Papa e pubblicata dal 1879 al 1886. Cfr. Antonio
Rosmini e il Piemonte. Studi e Testimonianze, cit., p. 65. 35 Giovanni Calò
sostenne come, in fondo, «Quella del Rosmini è una pedagogia della personalità»
G. Calò, Pedagogia del Risorgimento, Sansoni, Firenze, 1965, p. 679. 36
Commentando un breve intervento dello studioso vercellese sulla pedagogia del
Rosmini, Cavallera ho osservato come «l’Allievo individua nel concetto di unità
la forza del pensiero pedagogico rosminiano uscendo dai consueti schemi della
illustrazione della metodica, ma non va oltre tale precisazione» H. A.
Cavallera, Rosmini nella Pedagogia dell’Ottocento, cit., p. 117. 37 Come
conferma Mazzantini: «Rimasero sempre per lui fari di orientamento, nella sua
vita di studioso, le dottrine ontologiche (già in gioventù manifestateglisi
evidenti) della gradualità e del sintetismo degli esseri» C. Mazzantini, I
capisaldi del sistema filosofico pedagogico di G. Allievo, «Rivista
Pedagogica», n. 10, 1930, p. 702. 38 In merito la Quarello, che ha dato alle
stampe uno dei lavori più precisi ed elaborati sull’Allievo, ha osservato:
«Nella dottrina pedagogica dell’Allievo la legge fondamentale è dunque
l’armonia, legge che necessariamente deriva da quella suprema filosofica: “Il
sintetismo universale”» V. Quarello, G. Allievo, studio critico, Lanciano,
Carabba, 1936, p. 121. 29 rosminiana»39. Sebbene il vercellese, ad
esempio nei Saggi filosofici, sul tema si rifaccia alle opere del Krug, le
tracce del discorso rosminiano sono evidenti. Se tali elementi mostrano un
chiaro ancoraggio all’opera rosminiana, da una lettura più attenta delle opere
di Allievo emerge tuutavia anche una serie di differenze con il roveretano che
non permettono di ascrivere in toto l’opera del professore piemontese tra quello
del circuito rosminiano vero e proprio, rispetto al quale, al contrario,
manifestò l’esplicita intenzione di differenziarsi. Si tratta di una posizione
che, secondo uno dei più importanti pedagogisti di scuola rosminiana, poteva
tuttavia essere letto in modo positivo40. Già Francesco Paoli, curatore di
alcune delle più importanti opere postume del Rosmini e suo ultimo segretario,
nel saggio Della scuola di Antonio Rosmini, recentemente ripubblicato, nel
disegnare la geografia del rosminianesimo in Italia sottolineava la dissonanza
tra l’Allievo e il roveretano41. Questa precisazione di Paoli, peraltro in un
libro con toni marcatamente apologetici, denota come tra i seguaci «osservanti»
del roveretano, l’Allievo non fosse considerato un rosminiano «ortodosso»,
nonostante la riconosciuta prossimità. La distanza tra i due pensatori è
documentata dal fatto che nelle opere del vercellese i richiami e le influenze
dell’opera rosminiana si diradano. La maggior parte dei espliciti riferimenti
al roveretano, infatti, si riscontrano nei primi lavori dell’Allievo, in specie
nei Saggi filosofici (1866), con chiari rinvii all’ontologia, alla metafisica e
alla logica. Ma già in un’opera dell’anno seguente, Della pedagogia in Italia
dal 1846 al 1866, il legame con il sistema del roveretano appare più
distaccato. In particolare, si coglie un certo ridimensionamento dell’apporto
del Rosmini. Delineando l’itinerario della pedagogia italiana del primo
Ottocento, sebbene non manchino apprezzamenti positivi, Allievo sottolinea come
il vero innovatore della pedagogia italiana fu il Rayneri. Si tratta, senza
dubbio, di un’interpretazione impensabile per qualsiasi studioso rosminiano42.
39 R. Berardi, La libertà d’insegnamento in Piemonte 1848-1859 e un saggio
storico di G. Allievo, «Quaderni di cultura e storia sociale», febbraio 1953,
p. 62. 40 Cottini rileva come: «Circa la discordia fra l’Allievo e il sommo
Roveretano, osservò giustamente il mio quondam condiscepolo Prof. Giuseppe
Morando, che il dissenso aperto e leale dell’Allievo porge maggiore rilievo
alla riverenza sconfinata che questi gli professò, ed all’omaggio, ch’egli gli
rese in ogni occasione» G. Cottini, Giuseppe Allievo, cit., p. 67. 41 Scrive il
pedagogista di Pergine: «Di presente l’onore della Filosofia e della Pedagogia
è sostenuto nell’Università di Torino dal Prof. Giuseppe Allievo, che se non
professa del tutto la filosofia del Rosmini, l’accetta in gran parte e la onora
colla esemplarità della vita e colle molte gravi sue pubblicazioni pedagogiche»
F. Paoli, Della scuola di Antonio Rosmini (a cura di P.P. Ottonello), cit., p.
38. 42 Scrive: «Del Rosmini, per quel che spetta alla pedagogia rigorosamente
intesa, non si aveva che il Saggio sull’unità dell’educazione, opuscoletto di
poche pagine. I lavori del Tommaseo sono studi serii, monografie peregrine,
pensieri, desiderii, come egli stesso li intitola, sono preziosi elementi
scientifici, ma un organico sistema di scienza non fanno; egli stesso si tiene
in guardia dalla mania de’ sistemi anche in 30 In alcune opere
degli anni ’70, quando il sistema dell’Allievo si consolidò, il vercellese si
discostò esplicitamente da elementi non secondari della filosofia rosminiana.
Nell’opera in cui sistematizza con più rigore le sue teorie ontologiche, vale a
dire Il problema della metafisica, si affranca dal roveretano in merito alla
dottrina dell’essere. Mentre Rosmini crede che l’oggetto primo della metafisica
sia l’essere categorico, astratto e comunissimo, egli lo identifica nella
realtà infinita e finita considerate nel loro insieme e nelle «vicendevoli loro
attinenze»43. Nello stesso saggio, riconoscendo nel fatto di pensare il primo
noto della metafisica, si preoccupa di sottolineare l’assenza di tale idea in
Rosmini44. Sempre in campo gnoseologico, Allievo contesta inoltre la teoria
secondo cui dall’intuito si arrivi alla visione dell’essere ideale
universalissimo. Stando al pedagogista vercellese, l’intuito percepisce la
realtà confusa ed indeterminata45, opponendosi così ad uno degli elementi
caratterizzanti la gnoseologia del roveretano, oltre che oggetto di aspre
contese con la filosofia neoscolastica. Pare ancora più netta la posizione
esposta negli Studi psicofisiologici in merito alla psicologia e al rapporto
tra anima e corpo: «In che ripone il Rosmini l’essenza dell’anima umana? È
assai malagevole impresa il cogliere su questo punto della psicologia
capitalissimo il suo pensiero; tanto parmi intricato, inconsistente,
incerto!»46. E poi motiva: «Il concetto psicologico del Rosmini oscilla incerto
tra questi tre pronunciati: 1° l’anima umana è sentimento dell’Io e niente di
più: il sentire animale sta all’infuori di essa, ossia non è contenuto nella
sua essenza; 2° l’anima possiede di fatto, siccome suoi essenziali costitutivi,
il principio sensitivo animale ed il principio intellettivo; 3° il principio
sensitivo è virtualmente contenuto nelle intellettivo»47. Contrario a tali
posizioni considerate equivoche, proporrà un duo dinamismo coordinato su cui
avremo modo di trattare in seguito. La valenza delle critiche mosse al
pensatore roveretano dall’Allievo, è confermata dalle dure repliche di alcuni
dei più «fedeli» epigoni di Rosmini. A questo proposito, sono molto
significativi due scritti di Pietro De Nardi, rosminiano ortodosso, che stampò
due severi pamphlet contro l’Allievo. pedagogia, e crede che addestrando in
maniera variata il pensiero si serva, meglio che con severe teoriche, all’unità
dell’idea. Il Rayneri seppe far tesoro de’ profondi e svariati lavori parziali
de’ pedagogisti, che lo precedettero, coll’intendimento di ricondurli all’unità
della scienza» G. Allievo, La pedagogia italiana antica e contemporanea,
Torino, Tipografia Subalpina di Stefano Marino, 1901, pp. 148-149. 43 G.
Allievo, Il problema metafisico studiato nella storia della filosofia dalla
scuola ionica a Giordano Bruno, Torino, Stamperia reale, 1877, pp. 35, 46. 44
Ibid., p. 47. 45 G. Allievo, L’uomo e il cosmo, Torino, Tipografia Subalpina,
1891, p. 298. 46 G. Allievo, Studi psicofisiologici, Torino, Tip. del Collegio
degli artigianelli, 1911, p. 60; 47 Ibid., 62; 31 Nel 1883,
pubblicò La teorica rosminiana dello sviluppo graduato della ragione umana
difesa da P. De Nardi contro la traccia di contradditoria che ad essa ha dato
G. Allievo. In questo saggio lo studioso rosminiano considerava «gravissima
nella sostanza»48 la critica mossa da Allievo riguardo lo sviluppo della mente
nell’opera del roveretano, esposta ne Il positivismo in sé e nell’ordine
pedagogico. L’anno seguente De Nardi pubblicò Due sillogismi di Giuseppe
Allievo contro la percezione intellettiva come viene percepita da A. Rosmini49,
nel quale contestava al pedagogista vercellese prima il merito di un appunto
sulla filosofia del roveretano riguardanti i rapporti tra l’anima sensitiva e
intellettiva, e poi criticò un presunto pensiero del vercellese secondo il
quale «oggetti» di natura diversa non possano comunicare fra loro. Una prima
risposta alle accuse del De Nardi appare ne L’uomo e il cosmo (1891), dove
Allievo confuta i pamphlet e una recensione apparsa su Il Rosmini del marzo
1887, sostenendo che fossero state travisate le sue parole. Dopo aver mostrato
l’infondatezza delle critiche fattegli, muove una critica molto significativa a
certi epigoni del Rosmini i quali «s’immaginano, che il sistema rosminiano sia
tutto quanto verità esso solo, sicché chiunque osa muovergli qualche appunto,
bisogna dire che cammina nella via dell’errore»50. Per lumeggiare più
chiaramente il rapporto tra Allievo e Rosmini, è inoltre indispensabile citare
i due testi in cui l’Allievo trattò specificatamente dell’opera del roveretano:
il brevissimo saggio, Il concetto pedagogico di A. Rosmini51 e il più
sostanzioso articolo dal titolo Antonio Rosmini uscito prima nella rivista
universitaria «Studium», e poi pubblicato nel 191252. Il primo lavoro, seppure
breve, appare tuttavia molto significativo. Tale saggio fa parte del già citato
Per Antonio Rosmini, un’opera che raccolse in due volumi gli interventi al
congresso commemorativo per il centenario dalla nascita del filosofo,
organizzato dall’Accademia degli Agiati di Rovereto nel Maggio del 1897. 48 P.
De Nardi, La teorica rosminiana dello Sviluppo Generale della Ragione umana
difesa da Pietro De Nardi contro la taccia di contradditoria che ad essa ha
dato Giuseppe Allievo, professore all’Università di Torino, Intra, Bertolotti,
1883, p. 3. 49 P. De Nardi, Due sillogismi di Giuseppe Allievo, Professore
all’Università di Torino, contro la percezione intellettiva come viene
concepita da Antonio Rosmini esaminati da Pietro De Nardi, Professore di
Filosofia nel Collegio Internazionale Italiano di Torino, con appendice del
medesimo in risposta a T. Mamiani, Modena, Vincenzi, 1884. 50 G. Allievo,
L’uomo e il cosmo, cit., pp. 417-418. 51 G. Allievo, Il concetto pedagogico di
Antonio Rosmini, in Per Antonio Rosmini, cit., vol. II, pp. 521- 523. 52
G. Allievo, Antonio Rosmini, Pavia, Tipografia Fratelli Fusi, 1912. 32
Nel suo intervento Allievo riconobbe in prima istanza le virtù filosofiche di
Rosmini53, attestando l’importanza di lavori come il Saggio sull’unità
dell’educazione e Del supremo principio della metodica per lo studio della
filosofia e della pedagogia. Tra i principali meriti, individuò l’aver difeso
l’idea che l’educazione è vera, efficace e perfetta solo quando è «schiettamente
cristiana». Un concetto che, secondo Allievo, intuirono in tanti ma «niuno
meglio del Rosmini seppe farla risplendere di quella lucentezza ideale, che
scaturisce dalla ragione speculativa»54. Nella stessa sede, tuttavia, Allievo
volle sottolineare le differenze tra il suo sistema e quello di Rosmini55.
Questa precisazione in un consesso con chiari intenti apologetici a pochi anni
dal Post obitum, conferma con limpidità la volontà di Allievo di smarcarsi
dalla discendenza rosminiana. Il secondo saggio citato, Antonio Rosmini, è
molto più consistente e permette di approfondire le idee di Allievo circa il
roveretano. Introducendo il lavoro, fa notare la grande risonanza che ebbe il
pensiero di Rosmini, e cita tra i suoi discepoli Tommaseo, Cantù, Sciolla,
Berti, Cavour, Bonghi, Pestalozza, Corte, Rayneri. Conduce poi un’analisi
particolareggiata dell’opera filosofica e pedagogica del Rosmini, muovendo una
serie di critiche e «correzioni» al pensiero del roveretano. Riguardo
l’articolazione delle scienze nel sistema del roveretano, parla di un’ambiguità
del Rosmini circa il legame tra la psicologia e l’antropologia56. In seguito
contesta la seguente definizione di uomo tratta dall’Antropologia di Rosmini:
«l’uomo è un soggetto animale, dotato dell’intuizione dell’essere ideale
indeterminato e operante secondo l’animalità e l’intelligenza». Allievo trova
in questo enunciato un eccessivo risalto per la parte «naturale» dell’uomo. Nel
definire la persona, Allievo preferisce mettere l’accento sulla natura
spirituale dell’uomo, poiché in esso l’animalità «è subordinata alla
spiritualità, che la informa e la governa»57. Tale critica è poi smussata
tenendo conto del modo in cui Rosmini affronta e suddivide la scienza
antropologica. Riprende inoltre la critica al concetto dell’intuizione primaria
dell’uomo dell’essere ideale indeterminato: «Questo - dice Allievo - è un
pronunciato fondamentale del sistema di Rosmini, ma è impugnato da molti, e non
è una verità dimostrata con tanto rigore, che debba essere accettata da
tutti»58. Sempre in campo gnoseologico corregge l’espressione rosminiana di
«sentimento corporeo» che secondo 53 «È virtù propria del genio speculativo
risalire ai supremi principi dell’essere e del sapere, e nella loro unità
comprensiva raccogliere tutto un intero ordine di idee organate da questo
sistema» G. Allievo, Il concetto pedagogico di Antonio Rosmini, in Per Antonio
Rosmini, cit., vol. II, p. 521. 54 Ibid., vol. II, p. 521. 55 «Ed io, sebbene
da lui discorde in alcuni punti delle sue dottrine filosofiche, mando questo
mio lavoruccio in attestato della mia scienza sincera e profonda ammirazione
verso tant’Uomo» Ibid, vol. II, p. 523. 56 G. Allievo, Antonio Rosmini, cit.,
p. 8. 57 Ibid., 9-10. 58 Ibid., p. 10. 33 Allievo dovrebbe essere
«senso corporeo», e poi aggiunge: «Come pure io non so capire come mai il senso
intellettivo, la cui esistenza è innegabile, possa essere compreso come parte
nel tutto, nella sensitività animale, come fece l’autore»59. Anche in campo
pedagogico, fa degli appunti alquanto critici. Trattando dell’unità
dell’educazione sostenuta dal Rosmini, lamenta l’assenza di un adeguato
approfondimento del concetto di varietà60. Un'altra definizione contestata
riguarda il rapporto tra le affezioni casuali e l’ordine interiore. Allievo
riporta senza rinvii al testo originale: «si conduca l’uomo ad assimilare il
suo spirito all’ordine delle cose fuori di lui, e non si vogliano conformare le
cose fuori di lui alle casuali affezioni dello spirito suo». E poi ne prende le
distanze, «correggendo» le posizioni del Rosmini»61. Sullo stesso argomento,
commentando poco dopo la parte del Saggio sull’unità dell’educazione relativa
all’«Unità degli oggetti» sostiene che è «alquanto sconnessa». Allievo fa
notare come il Rosmini abbia dedicato molto spazio all’analisi
dell’apprendimento e dell’educazione durante l’infanzia, soffermandosi sullo
sviluppo delle facoltà del bambino. Il pensatore vercellese, tuttavia, fa
notare come un corretto sistema pedagogico debba tener conto dell’intervento
educativo, e del fatto che spesso si insegnino cose che il bambino non sa
ancora, e che quindi lo studio delle naturali facoltà del bambino non sia
sufficiente ma debba essere integrato dai metodi educativi esterni62. Anche se
riconosce al Rosmini il contributo sulla libertà d’insegnamento, a dispetto per
esempio di un Gioberti giudicato eccessivamente statalista, l’Allievo contesta
al Rosmini l’affermazione secondo cui la scuola dovrebbe «guardarsi dallo
spirito individuale siccome 59 Ibid., p. 12. 60 «L’autore ripone nell’unità la
legge suprema dell’educazione; nel che io non convengo pienamente con lui.
L’unità vera, effettiva, feconda non può andare disgiunta dalla varietà, né
questa può andare scissa da quella. Unità senza varietà è arida, sterile, priva
di moto e di vita; varietà senza unità è sparpagliata, dissipata, che si sciupa
nel vuoto. L’uno nel vario, il vario nell’uno, ossia l’armonia è la legge
suprema della vita in ogni ordine di cose. Epperò all’umana educazione l’unità
e la varietà tornano essenziali amendue ad un modo. Certamente l’autore non
esclude, né perde di vista la varietà, giacché riconosce la molteplicità delle
dottrine, che si insegnano, e delle potenze, che vanno educate; ma occorreva
che avesse in modo esplicito riconosciuta e formulata la varietà accanto
all’unità, siccome egualmente necessaria» G. Allievo, Antonio Rosmini, cit., p.
17. 61 «Però in riguardo alla dottrina del Rosmini, a me par giusto
l’osservare, che se per una parte sonvi nel nostro spirito affezioni casuali,
le quali vanno acconciate e conformate all’ordine oggettivo delle cose fuori di
noi, per l’altro anche nell’ordine esteriore vi hanno accidentalità e
turbamenti casuali e fortuiti, a cui lo spirito nostro non che adattarsi, deve
seguire una reazione, conservando intatta la sua indipendenza. Anche nel nostro
spirito esiste un ordine oggettivo posto dalla nostra natura, sicché la formula
del Rosmini sembra bisognevole di essere corretta e parmi più conforme a verità
l’affermazione che il supremo principio pedagogico dimora nel mantenere in
perfetta armonia l’ordine oggettivo dello spirito dell’alunno coll’ordine
oggettivo delle cose fuori di lui. S’intende da sé, che quest’armonia importa
il riconoscimento di un principio superiore divino, ed inoltre supremo, in cui
l’ordine oggettivo esteriore e l’ordine oggettivo interiore hanno il loro
centro di unità e la loro cagione efficiente» Ibid., p. 19. 62 «Il Rosmini,
intento, alla legge suprema direttiva dell’umano pensiero descrive per filo e
per segno i momenti successivi, per cui progredisce e per cui va condotta la
mente infantile, il Pestalozzi in iscuola tracciava sulla lavagna a’ suoi
fanciulli una proposizione, che di presente essi non comprendevano, ma
avrebbero compreso col tempo» Ibid., p. 29. 34 da suo capitale
difetto», e osserva: «Questa opinione dell’autore parmi bisognevole di essere
ritoccata. Sta bene che l’educazione pubblica non debba tener conto delle
singole famiglie e de’ singoli individui, ma se non vuole incorrere nel
dispotismo e trasmodare, occorre che essa rispetti mai sempre lo spirito
informatore della famiglia e la personalità individuale di ciascun uomo,
essendochè lo stato è fatto per le famiglie e per le persone singolari, non
questo per quello»63. Oltre alle critiche, emergono anche una serie di
considerazioni positive. Allievo considera di vitale importanza il contributo
di Rosmini nell’aver mostrato la conciliabilità tra lo spiritualismo e la
realtà naturale dell’uomo64, di aver riportato la pedagogia ad un metodo
realista65, il richiamo all’armonia come principio educativo, valorizza il
tentativo di salvare l’unità della persona, l’idea di sviluppo armonico delle
facoltà umane ed elogia il merito di aver unito didattica ed l’educazione. Vivo
apprezzamento egli esprime circa il legame tra pensiero e nazionalità. Allievo
scrive che «è meritevole di nota il rapporto, che il Rosmini istituisce fra il
metodo filosofico e la diversa tempra degli ingegni proprii delle singole
nazioni». Lontano da tentazioni sciovinistiche e da forme di autarchia
culturale, il vercellese sostenne l’importanza di conservare le tradizioni
della filosofia italiana. In questo senso cita la lezione III Del metodo
filosofico in cui Rosmini scrive «Il vero metodo è indigeno all’Italia: il
carattere dell’ingegno italiano consiste nella chiarezza» e ne sottolinea
l’importanza66. Altri autori spiritualisti influenzarono Allievo. Tra questi
esercitò un considerevole ascendente il Bertini67, almeno «quello» precedente
alla conversione razionalista. Lo studio della sua opera, l’Idea d’una filosofia
della vita, rappresentò un momento importante nello sviluppo del pensiero di
Allievo. Il pensiero di Bertini lo convinse ad affermare il Primo teologico,
vale a dire Dio inteso come potenza, sapienza, amore infinito, il Primo
cosmologico e cioè che il creato è l’essere che partecipa della potenza, amore
di Dio, e 63 Ibid., p. 21. 64 «Come la sua filosofia è essenzialmente
spiritualistica, così il carattere, che informa la sua dottrina pedagogica, è
lo spiritualismo, non però lo spiritualismo gretto ed esclusivo, che sacrifica
la materia allo spirito, bensì lo spiritualismo largo e comprensivo, che
riconosce come parte anch’essa essenziale dell’umano composto l’organismo
corporeo, ma lo vuole subordinato all’impero dell’anima razionale» Ibid., p.
41. 65 Trattando del contributo pedagogico e scolastico dell’impostazione
rosmininana osserva: «Un secondo punto di capitalissima importanza per la
scuola normale è questo: “prima regola del metodo filosofico (scrive l’autore)
è che l’osservazione precede il ragionamento”. Questa norma riguarda
propriamente il procedimento, che deve tenere il pensiero nella costruzione
della scienza» Ibid., p. 32. 66 Ibid., p. 33. 67 Sull’influenza del Bertini
sull’Allievo, Virginia Quarello che pubblicò nel 1936 uno dei lavori più completi
e attenti sulla filosofia dell’Allievo scrisse: «L’influenza del Bertini
sull’Allievo, specie nel campo religioso, è stata fortissima tanto che il
pensiero dell’uno non solo si connette, ma perfettamente aderisce a quello
dell’altro» V. Quarello, G. Allievo, studio critico, cit., p. 62.
35 quindi il Primo enciclopedico per cui «l’infinito s’intria nel
finito»68. Secondo Vidari oltre che il Rosmini, proprio al Bertini, Allievo
dovrebbe la fondazione del suo sistema filosofico69. Stretti rapporti ebbe
anche con Augusto Conti. Nei Saggi filosofici (1866) riportò tre scritti
sull’opera del samminiatese: uno riguardante la Storia della filosofia, una
recensione di un libro scritto sul toscano da Pietro Dotti, e un lavoro sui
legami tra il pensiero di Naville e quello di Conti, con particolare attenzione
alle considerazioni espresse dal filosofo ginevrino nel testo La vie éternelle.
Allievo condivide una serie di concetti del Conti, come la critica al principio
moderno secondo cui la filosofia nasca dal dubbio e non dalla sorpresa
dell’essere70, l’analisi dei criteri della filosofia e il legame con il senso
comune, il concetto di errore e di distinzione. Nel commento alla Storia della
filosofia si possono riconoscere diverse analogie tra le concezioni dei due
pensatori. Del testo citato, Allievo sottolinea diversi elementi positivi:
l’idea che la storia della filosofia debba essere un confronto tra le teorie
filosofiche e la filosofia perenne, l’importanza attribuita alla biografia e al
contesto culturale per cogliere la filosofia, e il criterio «cronologico» con
cui il Conti conduce la narrazione della storia della filosofia guidati da
cause di relazione e connessione. L’unico appunto mosso dall’Allievo al Conti
riguarda la questione degli universali71. Allievo fu anche un buon conoscitore
del panorama culturale europeo e dei maggiori pedagogisti e filosofi stranieri.
Si tratta di un elemento non così comune tra gli autori della seconda metà
dell’Ottocento. Nonostante diffidasse di una certa esterofilia, che contestava
68 G. Calò, Il pensiero filosofico – pedagogico di Giuseppe Allievo, «La
Cultura filosofica», n. 5, Sett-Ott. 1910, p. 447. 69 «Movendo dalla formula
giobertiana «l’ente crea l’esistente», che non lo soddisfaceva del tutto, e
passando attraverso all’Idea di una filosofia della vita del Bertini, che
all’ALLIEVO era parsa un’opera provvidenziale per la filosofia italiana dopo i
traviamenti a cui l’aveva esposta il Gioberti, Egli si arresta al concetto
cristiano – cattolico della creazione, per cui da una parte è Dio infinito
creatore libero, dall’altra gli enti finiti e reali che trovano in quella la
loro causa prima» G. Vidari, Giuseppe Allievo, Torino, Stamperia Reale Paravia,
1914, p. 6. 70 «Ripudiando il criticismo come propedeutica della filosofia,
egli vuole che il conoscere sia fin dalle prime tenuto per vero, e come tale
riconosciuto ed esaminato dappoi, e non già posto in problema. La natura umana,
perché ragionevole, è nella verità, opperò il conoscere naturale è di per sè
evidènte, non già problematico nè bisognevol di prova. In questa evidenza del
vero o del conoscere ci ripone il supremo ed intrinseco criterio della
filosofia, dal quale fluiscono poi e nel quale si appuntano come criterii
secondarii ed estrinseci l'affetto della verità, il senso comune, la tradizione
scientifica e la rivelazione» G. Allievo, Saggi filosofici, Milano, Gareffi,
1866, p. 384. 71 Osserva il pedagogista: «Quanto è poi al concetto filosofico
del nostro Autore, sebbene mi paja più comprensivo assai e più conforme a
verità che non altri parecchi, durerei tuttavia non poca fatica ad accoglierlo
come definitivo e perfetto. E veramente (per tacere qui di altri argomenti in
contrario ) io non so fare buon viso a quella ontologia scolastiso-wolfiana non
ancora abbandonata a' di nostri, che egli pone come parte integrale, anzi
sublimissima della filosofia; giacché l'essere astrattissimo e onninamente
indeterminato, in cui si vogliono concentrati i sommi universali di essa
ontologia, ove si pigli da sè, disgiuntamente da Dio e dalle realtà finite,
convertasi in un aereo ed inconsistente fantasma, che mal reggendosi di per sè
è quindi impotente ad ammanire un saldo fondamento alla protologia, cardine di
tutto il sapere» Ibid., pp. 359-360. 36 soprattutto ai positivisti
e agli hegeliani, accolse nel suo sistema diversi elementi di autori stranieri:
«Dello spiritualismo tedesco accetta e il sintetismo trascendentale del Krug
(l’io riflette sui “fatti della conoscenza” anzi nella coscienza, per
l’originaria armonia di pensiero e realtà, ideale e reale si sintetizzano) e in
concetto del Krause della personalità ed essenza divina (“l’essere Dio è il
principio personale del mondo”) e il suo Panenteismo, conciliante in sintesi
sia la ragione con l’esperienza, sia il processo analitico (dall’io e dal
finito a Dio) con il processo sintetico (da Dio all’io ed al finito.)»72. Nel
Krug apprezzò la capacità di conciliare il realismo con l’idealismo73. Dello
studioso riprese nei Saggi filosofici (1866)74 il principio della sintesi a
priori, nel tentativo di spiegare l’origine dell’unità tra oggetto e soggetto.
Si tratta di un concetto facilmente accostabile all’idea primaria di Rosmini.
Allievo raccolse così soprattutto le tesi di quanti cercarono di superare le
antinomie dell’idealismo75. Un altro autore molto importante nella biografia
intellettuale di Allievo fu Lotze76, il successore di Herbart all’Università di
Gottinga. Del filosofo sassone cita i Principes généraux de psychologie
physiologique77 che definisce un «lavoro magistrale»78. Allievo lo cita
nell’elaborazione della sua psicofisiologia, nel tentativo di sostenere con il
suo «duodinamismo coordinato» un approccio che coniugasse gli studi
sperimentali con la struttura spirituale della persona. Importante anche il
legame con Maine de Biran di cui accoglie le idee circa il legame tra la
persona umana e la persona divina, Allievo oltre che il principio de
«l’autocoscienza della personalità vivente»79. Spesso citato fu anche Heinrich
Pestalozzi. Il pedagogista vercellese fu quasi «devoto» all’esempio e alla
pedagogia dell’educatore svizzero. Non senza ragioni Calò lo definì un
«pestalozziano». L’unica critica che gli mosse riguardò l’utilizzo del termine
«organismo», al quale Allievo preferisce quello di persona. 72 V. Quarello, G.
Allievo, studio critico, cit., p. 28. 73 G. Allievo, L’Hegelismo e la scienza,
la vita, Milano, Agnelli, 1868, p. 42. 74 G. Allievo, Saggi filosofici, cit.,
p. 30. 75 «E dirò che, con il Krause e con il Jacobi, proprio lo Stahl fu
sempre presente all’Allievo, nella sua opposizione decisa all’idealismo
post-Kantiano» V. Quarello, G. Allievo, studio critico, cit., p. 83. 76 A
riguardo, la Quarello ha osservato: «Più forte, certamente, fu l’influsso di
Lotze specie nel campo psicologico, benché, a mio credere, si possa pure far
risalire al Lotze il concetto di Dio come suprema realtà personale, che crea il
mondo degli spiriti personali» Ibid., p. 82. 77 H. Lotze Principes généraux de
psychologie physiologique, nouvelle edition, traduite de l'allemand par A. Penjon,
Paris, Bailliere, 1881. Si tratta di una traduzione del primo
capitolo del testo H. Lotze, Medizinische Psychologie oder Physiologie der
Seele, Leipzig, Weidmann’sche bucchandlung, 1852. 78 G. Allievo, Studi
psicofisiologici, cit. 79 V. Quarello, G. Allievo, studio critico, cit., p.
29. 37 Altri autori hanno sottolineato il ruolo del vercellese
nella ricezione dell’herbartismo in Italia80. Sempre Calò lo giudicò «più
herbartiano di quello ch’egli stesso non creda»81, un giudizio che fu in
seguito emendato82. L’opera dell’Allievo è anche segnata dall’opera del
Naville, a cui lo accomuna la convinzione che alla base della pedagogia ci
debba essere l’antropologia e non l’etica come per Herbart o la psicologia
scientifica come per molti positivisti. Nella voce sull’Allievo, presente
nell’Enciclopedia Filosofica di Sansoni83 e riportata in quella Bompiani84,
Pozzo accosta Allievo perfino a Plotino, riprendendo la valutazione del
Gentile, sostenendo che il vercellese aveva una concezione teistica di «tipo plotiniano
(l’ente uno infinito pone fuori di sé il molteplice e a sé lo richiama) da cui
deriva il concetto di armonia dell’universo, come “coesistenza” (o
“sintetismo”) di esseri che cooperano sotto l’imperio dell’inesauribile atto di
Dio». In sintesi, ci sembra di poter ragionevolmente sostenere che nonostante i
diversi apporti e «contaminazioni» con diversi autori, il professore piemontese
abbia preferito smarcarsi da discendenze unidirezionali. Più che di Rosmini, di
Pestalozzi, di Rayneri, egli si sentiva un rappresentante dello «spiritualismo
italiano». Egli considerava questa corrente come la più genuina tradizione
nazionale85, oltre che in linea con la più autentica pedagogia e 80 In merito
alla crisi del positivismo iniziata già negli anni ’80 dell’Ottocento,
Malatesta e la Bertoni Jovine commentarono: «Il Labriola prima, il Fornelli e
l’Allievo poi e in ultimo il Credaro, avevano prodotto una svolta molto
sensibile negli studi introducendo nella pedagogia i princìpi più validi
dell’herbartismo» D. Bertoni Jovine, F. Malatesta, Breve storia della scuola
italiana, cit., p. 43. 81 G. Calò, Il pensiero filosofico – pedagogico di
Giuseppe Allievo, Prato, Tipografua Carlo Collini, 1910, pp. 34-35. 82 G. Calò,
Dottrine e Opere, Lanciano, Carabba, 1932, p. 262. 83 Enciclopedia Filosofica,
Firenze, Sansoni, 1967, vol. I, pp. 192-193. 84 Enciclopedia Filosofica,
Milano, Bompiani, 2006, vol. I, p. 297. 85 Nel testo già citato Della pedagogia
in Italia dal 1846 al 1866 (1867) ripercorre la storia della pedagogia italiana
e chiosa: «Le opere pedagogiche chiamate fin qui a rassegna rivelano un
carattere comune, che tutte le segna di una medesima impronta: lo
spiritualismo. È questo il carattere dominante e tradizionale di tutta la
pedagogia italiana da Vittorino da Feltre al Rayneri. Essa riconosce nel
perfezionamento dell’uomo la preccelenza del principio spirituale
sull’organismo corporeo, l’immortalità personale dello spirito umano e la
dipendenza di esso da Dio risguardato come spirito conscio di sé, distinto sostanzialmente
dal mondo, causa creatrice e finale di quanto sussiste. Essa considera la
nostra temporanea esistenza siccome tirocinio e preludio di una esistenza
oltremondana, e conseguentemente vuol preparare il fanciullo alla sua duplice
destinazione, vuol educare in lui l’uomo temporaneo che passa quaggiù
soffrendo, e lo spirito immortale fatto per una seconda vita. Essa ripudia
siccome offensiva della dignità della persona umana la dottrina che vuole il
fanciullo esclusivamente allevato per la patria e pel reggimento politico
dominante, facendolo così, di essere avente ragione di fine, un semplice mezzo
agli arbitrii del Governo e della società. L’ideale dell’uomo perfetto che la
natura ha preformato nell’infante, essa lo addita vivente in Cristo, assegnando
per iscopo all’opera educativa la virtù cristiana, non la virtù naturale, né la
civile, né lo sterile misticismo. Per lei non si da istruzione vera ed efficace
senza l’educazione dell’animo; non vera educazione morale senza religiosità;
non religiosità vera senza Cristianesimo cattolico, sicché l’educazione ha da
abbracciare tutto l’uomo e con tale universalità ed armonia, che i sensi
vengano subordinati alla ragione, il corpo allo spirito, la libertà a Dio, la
vita temporanea alla oltremondana. Mercé questo carattere dello spiritualismo
la pedagogia italiana contemporanea mantiensi fedele alle sue tradizioni
secolari e si ricongiunge colla scuola spiritualistica platonica di Firenze,
perché discepolo ed amico di Giovanni di Ravenna, il grande scuolaro del
Petrarca» G. Allievo, La pedagogia italiana antica e contemporanea, cit., p.
158. 38 filosofia greca86. Allievo era convinto che fosse una
tradizione che andasse difesa87, soprattutto dall’idealismo e dal positivismo,
considerate teorie di «importazione» aliene allo spirito filosofico italiano.
I. 2. Gnoseologia e metafisica I testi in cui Allievo affronta i problemi più
specificatamente metafisici e gnoseologici sono i Saggi filosofici (1866), Il
problema metafisico studiato nella storia della filosofia dalla scuola Jonica a
Giordano Bruno (1877) e Studi antropologici: l’uomo e il cosmo (1891). Non si
può affermare che su tali questioni il contributo di Allievo abbia avuto una
reale originalità. Lo studioso si è limitato piuttosto alla ricerca di alcune basi
teoretiche che gli permettessero di fondare la sua pedagogia su una prospettiva
«realistica», com’è stata definita la sua filosofia88. La carenza di
approfondimenti è stata oggetto delle critiche di alcuni studiosi dell’Allievo
come la Quarello89 e Mazzantini90. Sebbene il contributo di Allievo non abbia
apportato novità rilevanti nel discorso gnoseologico e metafisico del tempo,
espose comunque il suo pensiero in modo organico e coerente. Egli considera la
Metafisica come il momento fondamentale della ricerca filosofica,
caratterizzata dall’universalità e dalla trascendenza. La definisce come
«scienza del Primitivo»91 o «Scienza de’ supremi principii del sapere e
dell’essere»92. Contro gli orientamenti antimetafisici di marca positivista e
scettica, considerava l’abrogazione del problema del senso e del «tutto» come
un tradimento della filosofia. Essa trovava la sua ragion d’essere in quel
mandato della persona umana, che strutturalmente e spontaneamente interroga
l’Universo e ne pretende un significato. In questo senso la metafisica
collocava la sua origine nel desiderio dell’uomo di «rendersi ragione di questo
86 G. Allievo, Studi pedagogici, Torino, Tipografia Subalpina, 1889, p. 33. 87
Accusato di nazionalismo, Allievo si difese: «Noi siam lontanissimi
dall'assumere il nazionalismo per sommo ed infallibil criterio del Vero; che
anzi arditamente sosteniamo, che nel principio di nazionalità qual è
universalmente ammesso v'è del troppo e del vano assai da tor via, e gli
bisogna essere ricondotto entro a più ragionevoli e modesti confini. Noi invece
propugniamo l'italiana filosofia non per ciò solo che è italiana, ma primamente
e precipuamente perché fondata sulla verità del Teismo cristiano, siccome
ripudiamo l'Idealismo di Hegel ed il Positivismo di A. Comte perché disformi
entrambi dal Vero, e non già perché l'uno di tedesca, l'altro di francese
origine» G. Allievo, L’Hegelismo e la scienza, la vita, cit., p. 14. 88 V.
Suraci, Giuseppe Allievo filosofo e pedagogista, «Educare», maggio - giugno
1952, p. 151. 89 V. Quarello, G. Allievo, studio critico, cit., p. 21. 90 C.
Mazzantini, Due filosofi spiritualisti piemontesi della seconda metà del sec.
XIX, «Archivio di Filosofia, organo del R. Istituto di Studi Filosofici», Roma,
1942, n. 1-2, pp. 35-36. 91 G. Allievo, Saggi filosofici, cit., p. 284. 92 G.
Allievo, Il problema metafisico studiato nella storia della filosofia dalla
scuola ionica a Giordano Bruno, cit., p. 5. 39 gran tutto, che
dicesi universo»93, un’esigenza che non può essere soppressa, pena la negazione
dell’identità umana. Sulla scorta del rosminianesimo e di molta filosofia
cristiana, Allievo rileva come la crisi della metafisica fu prima inaugurata
dal soggettivismo di Cartesio e poi consacrata dal criticismo di Kant. La
gnoseologia moderna era soggiogata, a suo giudizio, da un equivoco legato alla
volontà di condurre in dubbio il valore veritativo e orientativo dei criteri
dell’evidenza e del senso comune insiti nell’uomo. Si tratterebbe di un
cortocircuito conoscitivo dai corollari disparati. Se, infatti, da un lato si
svaluta la ragione riducendone il dominio (kantismo), dall’altra si arriva a
«divinizzare» l’Io (idealismo), attribuendo alla razionalità umane quasi gli
stessi attribuiti che i teologi avevano sino ad allora riservato al Creatore.
Per superare l’impasse, Allievo sollecitò in coro con il resto degli
spiritualisti una correzione radicale della prospettiva. La filosofia non
poteva uscire dalla palude dello scetticismo, se non «attestando» e
«accettando» dei criteri conoscitivi immanenti all’uomo. Questa soluzione era
considerata l’unica possibilità per uscire dall’equivoco gnoseologico moderno.
Le sue posizioni gli costarono la critica del Gentile, che nel saggio sulle
origini della filosofia contemporanea, inserisce l’Allievo tra i «mistici»,
cioè tra quei filosofi che continuavano a «credere» nell’esistenza di una
realtà «esterna» all’Io pensante. Non potendo «dimostrare» l’esistenza del
mondo e spiegare il suo rapporto con lo spirito, secondo Gentile, i realisti
accettano in modo fideistico il senso comune. Per questa ragione, ossrvò che
quella di Allievo è «una filosofia fondata sul mistero dell’evidenza»94, una
critica poi ripresa e approfondita dalla Quarello95. Il sintetismo, cioè
un’interpretazione della relazione intima tra l’essere e il pensiero in
un’ottica realista, era considerato da Gentile come una soluzione non fondata
per motivare la relazione tra la mente e il «supporto» mondo esteriore96.
Questa visione armonica dell’essere, è anzi letta da Gentile, nella sua tipica
riduzione della storia della filosofia a preambolo di un compiuto Io
spirituale, come delle tesi idealiste «mancate». 93 G. Allievo, Il problema
metafisico studiato nella storia della filosofia dalla scuola ionica a Giordano
Bruno, cit., pp. 2-3. 94 G. Gentile, Le origini della filosofia contemporanea
in Italia. I platonici, cit., p. 366. 95 V. Quarello, G. Allievo, sudio
critico, cit., p. 20. 96 «Il sintetismo dell’Allievo, dunque, non vale più
dell’ordine del Conti. Anche per l’Allievo basta il sintetismo ad aprire tutte
le porte e svelare tutti gli enimmi. Così il gran problema gnoseologico del
rapporto del pensiero con l’essere, per l’Allievo è prima risoluto che
formulato. Criticismo o scetticismo? Separazione dell’essere dal pensiero, o
identità dell’uno con l’altro? Ma il sintetismo c’insegna che tutto è unito e
distinto in natura, e ciascuna forza opera consociata con tutte le altre! Anche
il soggetto e l’oggetto vorranno essere insieme connessi, ma non confusi:
conciliati in un armonia, che non sia per altro la negazione delle loro
differenze» G. Gentile, Le origini della filosofia contemporanea in Italia. I
platonici, cit., p. 366. 40 Il filosofo siciliano riconobbe in ogni
caso nell’Allievo «una certa inquietudine circa la saldezza del suo principio
filosofico»97, originata dal confronto con la logica hegeliana, che gli avrebbe
«turbato i sonni» nel corso della sua opera. Di fronte alla tesi idealista,
Allievo reputava l’accettazione dell’essere come l’atto più consono alla natura
razionale dell’uomo98. Si tratta di un’attestazione «misteriosa», ma non per
questo irrazionale99. Il primo dato della coscienza è la percezione di un mondo
fuori di noi, tale dato si può o accettare o rifiutare, non si può dimostrare.
Secondo l’Allievo la filosofia trova il suo fondamento nella constatazione
dell’esistenza dell’essere. Il pedagogista sollecita perciò a tornare ad un
sano realismo, a ripartire dal mondo delle cose, dal dato semplice della sua
esistenza, dal mistero del sé, per giungere solo dopo all’Eterno. Ciò ha
conseguenze gnoseologiche importanti, tra le quali il fatto che stando
all’Allievo il ruolo iniziale nel ragionamento risiede nell’intuito che si
muove verso la comprensione. Nel saggio Il problema metafisico studiato nella
storia della filosofia dalla scuola ionica a Giordano Bruno, egli traccia una
serie di stadi, o passaggi, con cui si sviluppa un pensiero filosofico
compiuto. Un primo livello della riflessione riguarda la constatazione
dell’esistenza di un senso comune e di criteri con i quali di norma si valuta e
si giudica, in un secondo momento vi è un pensiero critico che si interroga
sulla veridicità di quanto pensato, nell’ultimo passaggio il pensiero
speculativo indaga e verifica con criteri validi e veritativi. Per l’Allievo,
la riflessione speculativa non è la negazione del senso comune, ma ad esso è
strettamente legato, poiché i criteri veritativi emergono spontaneamente nella
persona, e non sono la costruzione dell’impegno filosofico. Il compito della
metafisica è dunque proprio quello di riconoscere la «realtà della vita, pur
mentre la spiega e si solleva al di sopra di essa per dominarla dall’alto: essa
rispetta le credenze universali del genere umano, conformasi alle esigenze
della natura umana, tien conto de’ suoi bisogni, soddisfa le sue imperiose
aspirazioni, e non disconosce veruno degli elementi integrali dell’umanità»100.
97 Ibid, p. 368. 98 Osserva a proposito «Nel fatto della cognizione il soggetto
e l’oggetto si compenetrano misteriosamente l’un l’altro senza però smettere ciascuno
la sua la propria ed individua natura» G. Allievo, Saggi filosofici, cit., p.
14. 99 In un brano molto significativo, quasi replicando a tale obbiezione,
Allievo enuclea la sua concezione del mistero: «La ragione ha certamente il
diritto di respingere l’assurdo, perché l’assurdo ripugna, ma non ha diritto di
respingere il mistero, perché il mistero è una proposizione, di cui si
conoscono i singoli termini, che la compongono e non si comprende bene il
nesso, che collega il soggetto col predicato. Quindi possiamo affermare che in
ogni mistero dogmatico vi è sempre alcunché di conosciuto accessibile alla
ragione, come in fondo di ogni verità conosciuta dalla ragione umana vi è
sempre alcunché di ignoto, di tenebroso, un’ombra del mistero» G. Allievo, Appunti
di Antropologia e Psicologia, Torino, Carlo Clausen, 1906, pp. 33-34. 100 G.
Allievo, Il problema metafisico studiato nella storia della filosofia dalla
scuola ionica a Giordano Bruno, cit., p. 38. 41 Allievo identifica
nel «primo noto», evidente e concreto, la base della sua speculazione
metafisica. Si tratta di quanto il vercellese chiama anche Io penso, da cui
nasce la constatazione che l’essere esista e che possa essere riconosciuto
nella sua realtà e verità. Sulla relazione tra il pensiero e il reale, si pone
in continuità con il concetto di sintetismo esposto da Rosmini. Allievo
ammetteva un Universale ontologico assoluto a cui erano subordinati i singoli
universali ontologici, attraverso la legge del sintetismo e dell’armonia101. Il
suo realismo gli impedisce di ammettere sia tesi che vorrebbero la causa del
reale come qualcosa di non reale, sia quelle le forme di spiritualismo che
identificano Dio con qualsiasi essere ideale. Secondo Allievo sebbene Dio sia
l’origine dell’uomo e di tutte le cose non si identifica con esse. E anche qui
applica una delle regole classiche della sua filosofia, il «Distinguere per
unire», enunciato già nei primi libri, e posto alla base della sua
gnoseologia102. In questo senso, avversa sia l’identificazione del pensiero con
l’essere di origine idealista, sia il monismo materialista. La Quarello ha
considerato insufficiente la spiegazione della relazione tra l’Io e il non Io
nel pensiero del Vercellese: «Il punto debole del sistema dell’Allievo è
proprio qui, in sede gnoseologica, nell’avere, cioè, posto a base della
speculazione puramente filosofica l’evidenza dei dati della realtà, nell’avere
voluto che il sapere filosofico non fosse che elaborazione del sapere naturale
(oggettività della conoscenza) ammettendo poi, senza spiegarla, un’intima
“conciliazione” fra ragione ed esperienza»103. E ribadisce «L’Allievo non ci
spiega il come dell’atto conoscitivo anche se ampiamente ha tentato di svolgere
la sua tesi di una corrispondenza tra pensiero e realtà, tra soggetto ed
oggetto, tale da essere considerata una unione stabilita da natura, secondo la
legge dell’ordine universale per la quale tutti gli esseri armonizzano in unità
una molteplicità di parti e cooperano e sono uniti fra loro, pur rimanendo
distinti, sì da formare una totalità armonica»104. I. 3. Il principio della
personalità 101 Suraci spiega con le seguenti parole il «percorso» che va dal
primo nota alla vera conoscenza: «L’Allievo nota che il pensiero, nel suo
movimento dialettico, descrive un circolo non vizioso, ma solido per cui
dall’uno gnoseologico, l’universale oggetto dell’intuito primitivo, si passa al
molteplice della cognizione determinata, distinta, oggetto della riflessione:
dal molteplice si passa poi alla visione comprensiva delle cose e quindi alla
visione mentale dell’Uno ideale. Dialetticamente la mente umana, secondo
l’Allevo, non fa che “discorrere dalla cognizione intuitiva o virtuale dell’Uno
gnoseologico alla cognizione riflessa o attuale del suo molteplice ideale, e
dalla cognizione attuale del molteplice ideale alla cognizione attuale dell’Uno
gnoseologico”. Questa formula del movimento del pensiero somiglia molto da
vicino a quella enunciata dal Rosmini nel n. 701 della sua Logica, al quale
l’Allievo si attiene, citandolo spesso nel corso di questi “Saggi” e, potremo
dire, in tutte le sue Opere» V. Suraci, Giuseppe Allievo filosofo e
pedagogista, cit., p. 158. 102 G. Allievo, Saggi filosofici, cit., p. 3. 103 V.
Quarello, G. Allievo, studio critico, cit., p. 21. Lesse all’Università di
Torino una prolusione dal titolo, Il ritorno al principio della personalità105.
In quella occasione, ripercorse l’itinerario delle sue opere identificando in
questo concetto il punto cardine di tutto il suo pensiero106. Questa considerazione
fu poi ribadita qualche anno dopo nella prefazione degli Opuscoli
pedagogici107. Oltre a riprendere il contenuto di questo principio e a mettere
in luce la rilevanza nell’economia del suo pensiero, diversi autori hanno
considerato l’elaborazione del principio della personalità come il più
importante contributo di Allievo alla storia del pensiero pedagogico e
filosofico108. Calò ne ha ricordato la valenza pedagogica, osservando come
«nessuno con tanta consapevolezza e chiarezza aveva prima di lui messo in luce
quel principio e mostratane la fecondità e illuminatane vivamente tutta quanta
l’opera educativa»109. Con questo principio, Allievo affronta la più profonda
questione antropologica, vale a dire la specificità dell’uomo rispetto al resto
della natura. Di fronte alla domanda «chi è l’uomo?» Allievo parla della
persona come «una mente informante un organismo corporeo»110. Egli individua
due piani strettamente connessi: «nell’uomo la mente ed il corpo sono due
sostanze diverse, eppur fatte l’una per l’altra il corpo è animato, l’anima è
105 G. Allievo, Il ritorno al principio della personalità, Prolusione letta
all’Università di Torino il 18 novembre 1903, Torino, Tipografia degli
Artigianelli, 1904. 106 Citò la prima prolusione letta all’Università nel 1870,
in cui già enucleò tale principio. Scrisse: «Questo nuovo concetto, che allora
mi era balenato alla mente, fece la sua prima apparizione nella mia Prolusione
universitaria del 1870, intitolata appunto Il principio della personalità, base
della scienza e della vita. “Questo principio (io scriveva allora) è quel
centro ideale, che vale a comporre le antinomie tra le dissidenti scuole
filosofiche nel mondo del sapere, ed i dissidi tra gli elementi sociali nel
mondo dell’operare, e questi due mondi della scienza e della vita insieme
composti solleva ad una unità superiore, che è il punto di contatto e di
armonia di entrambi. Enunciando in una breve e chiara formola questo concetto,
poniamo che, senza il riconoscimento speculativo e pratico della personalità,
non si dà né vera scienza, né vera vita per l’uomo.” Da quel punto questo
principio diventò il pensiero dominante della mia mente, il tema perpetuo delle
mie meditazioni, lo spirito animatore de’ miei lavori e delle mie lezioni, la
mia credenza filosofica rimasta incrollabile e costante in tanto volgere di
anni, in mezzo a tante rivolture e volteggiamenti d’ingegni e di dottrine,
l’arma della mia critica contro tutte quelle teoriche e quei sistemi che
inchiodarono la scienza e la vita sul nudo calvario dei fenomeni sensibili,
senza uno spirito che li animi e li illumini» Ibid., p. 4. 107 «Tutti i miei
lavori pedagogici, a qualunque punto della umana educazione si riferiscano,
sono informati da una idea unica e suprema, il concetto della personalità
umana: da esso si vanno logicamente esplicando, in esso si ritrovano il loro
principio di armonia, in esso si compongono ad una comprensiva e potente unità»
G. Allievo, Opuscoli pedagogici, Torino, Tipografia del Collegio degli
Artigianelli, 1909, p. 5. 108 Cannella, che peraltro afferma come il
pedagogista piemontese non sia stato «in Italia conosciuto ed apprezzato
abbastanza» scrive sul principio di personalità: «Lasciando da parte le sue
critiche storiche, acute, precise, e bene spesso pregevolissime, io credo, per
esempio, che la sua idea fondamentale pedagogica dell’educazione della
personalità meriti molta considerazione e racchiuda in sé il nucleo vero,
intorno a cui si deve aggirare una dottrina pedagogica. E così si può dire di
molte sue opinioni sui problemi pratici, dove tanta confusione regna oggi, e
dove l’Allievo ha già disegnato soluzioni assai giuste» G. Cannella, Opuscoli
pedagogici inediti ed editi di Giuseppe Allievo, in «Rivista di Filosofia
Neoscolastica», n. 2, 20 aprile 1910, p. 209. 109 G. Calò, Dottrine e Opere,
cit., pp. 261-262. 110 G. Allievo, La scuola educativa, principi di
antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili,
Torino, Tipografia Subalpina, 1904, p. 3. 43 incorporata»111.
L’uomo è definito «sintesi vivente di un’anima razionale e di un corpo
organico, insieme composti ad unità di essere; o meglio ancora è una mente
informante un organismo corporeo, prendendo qui il vocabolo mente come sinonimo
di spirito, ossia di anima razionale»112. Questo primo antropologico scaturisce
dalla sua profonda origine: «Lo spirito umano, ossia la mente sostanziale è
persona per essenza, il corpo umano con essa congiunto in unità di essere è
personale per derivazione e partecipazione, ossia è della nostra personalità
complemento estrinseco, non già principio intrinseco»113. Si tratta di una
prospettiva che ha implicazioni teologiche. Trattando di questo principio
Mazzantini ha osservato: «non è, dico, d’importanza suprema solo in quanto
rivela l’uomo a se stesso, ma in quanto altresì offre un principio supremo
interpretativo della realtà universale, compresa la stessa realtà divina»114.
Su questo versante, è stato osservato come il principio della personalità sia
imprescindibile dal teismo di Allievo115. Per il vercellese, infatti, il concetto
di persona trova la sua ragion d’essere e il suo compimento nella relazione con
la Persona infinita116. In una radicale e metafisica indagine antropologica,
Allievo individuava la questione nodale della scienza pedagogica: «Ora l’idea
fra tutte la più comprensiva, la più feconda, la generatrice di tutto il sapere
speculativo, è, se io ben veggo, l’idea della personalità. Il moto riformatore
della scienza debbe esordire da lei»117. Il destino della pedagogia era legato
al rispetto di questo principio, che invece considerava minacciato dalle teorie
coeve. Nel saggio già citato Sulla personalità umana, elenca una serie di
orientamenti che 111 Ibid., pp. 49-50. 112 G. Allievo, Appunti di Antropologia
e Piscologia, cit., p. 3. 113 G. Allievo, L’uomo e il cosmo, cit., p. 78. 114
C. Mazzantini, Due filosofi spiritualisti piemontesi della seconda metà del
sec. XIX, cit., p. 33. 115 Ha scritto in merito Suraci: «Il principio
“personalistico” serve all'Allievo per affermare senz'altro in sede pedagogica,
che, “la personalità finita dell'educatore e quella dell'educando si reggono
sulla personalità infinita di Dio, trovano in questa la loro ragione sulla
personalità infinita di Dio, trovano in questa la loro ragione di essere la
loro causa efficiente”. Ebbene, bisogna porsi da questo punto di vista
ontologico ed essenzialmente religioso per intendere a pieno il valore e il
vero significato della pedagogia dell'Allievo, nella quale convergono con
ricchezza di argomenti e di ampia e, spesso, di esauriente trattazione scientifica,
tutti i temi relativi all'essenza e allo svolgimento della natura umana e della
educazione dell'uomo. La religiosità, la credenza di Dio e nella immortalità
dell'anima, rimane, per il nostro autore, il punto di partenza e di arrivo
dell'azione educativa, il cardine essenziale in cui si radica e gira la
pedagogia; è luce inoffuscabile che deve rischiare l'idea e il fatto
dell'educazione: “l'uomo si muove in Dio, principio della sua vita, fine
supremo della sua esistenza”» V. Suraci, Giuseppe Allievo filosofo e
pedagogista, cit., p. 9. 116 «La coscienza personale è il primo, fondamentale
pronunciato da cui esordisce la scienza. La persona umana sovrasta per
eccellenza e nobiltà di natura su tutto il corporeo universo; ma finito qual è
sottostà alla personalità infinita divina. Non bisogna mai perdere di vista
questa dualità di essere personali, che si richiamano e si corrispondono;
poiché, tolta la prima, l’uomo rimane oltraggiato nella sua dignità personale e
diventa una cosa; tolta la seconda, si apre il varco al più ignobile egoismo,
alla libertà più sfrenata, alla più selvaggia indipendenza. L’uomo riconosce
l’esistenza di un essere personale infinito, dacchè egli stesso è una persona
finita, e con esso si congiunge con un vincolo d’intelligenza e di amore.
Questo vincolo costituisce la religione, la quale forma l’oggetto della
disciplina religiosa» G. Allievo, Il ritorno al principio della personalità,
Prolusione letta all’Università di Torino il 18 novembre 1903, cit., p.
11. 117 G. Allievo, Sulla personalità umana, Torino, Fina, 1884, p. 4.
44 reputava nocivi a tale principio118. Divide queste teorie in due
gruppi. Nel primo inserisce i sistemi che disconoscono la persona nella vita
speculativa: il panteismo, il calvinismo, il fatalismo, il materialismo e
l’ipermisticismo. Si tratta di teorie accomunate dalla svalutazione
dell’apporto dell’individualità nella storia e nella vita. Nel secondo
raggruppa gli orientamenti che menomano il ruolo della persona nella vita
pratica: il socialismo, la statolatria, il dispotismo del costume. Si tratta di
teorie che riducono la persona ad un «mezzo» per il raggiungimento del
progresso della società. Nell’ultimo sistema citato, il dispotismo del costume,
Allievo si schiera contro certa sociologia «per cui ciascuno vien tratto a
conformare il proprio vivere e pensare, al vivere ed al pensare altrui come a
norma suprema»119. Oltre alle teorie citate, il pedagogista vercellese
denunciava il rischio di ingigantire il ruolo di un aspetto della persona a
discapito della sua totalità. Il professore vercellese riconosce questa
tendenza in due grandi sistemi che allora si contendevano il campo della
filosofia: il positivismo e l’idealismo. Secondo Allievo la mente non è quella
degli idealisti, staccata dal corpo e superiore ad esso, ma non è neanche
quello dei positivisti e di certi psicologi sperimentali che riducevano il
pensiero ad un’espressione materiale. Anche se non si confonde con essa, la
vita della mente e dello spirito è intimante connessa con quella carnale120. La
loro relazione non deve condurre all’assimilazione di una delle due nature che
compongono l’uomo121. Entrambi i livelli sono distinti in una stretta
«collaborazione»: «l’essere umano possedendo un corpo organato alla vita
materiale non può essere spiegato tutto quanto senza la materia, ma neanco può
essere spiegato colla sola materia, dacchè il suo organismo è informato di una
sostanza spirituale»122. Sebbene il rapporto tra materia e spirito nell’uomo
rimanga un «mistero»123, non è ammissibile assimilare su questo presupposto la
persona al resto della natura determinata. Nella vita dell’uomo, infatti,
emergono proprietà irriducibili alle dinamiche delle entità 118 Ibid., pp.
54-57. 119 Ibid., p. 57. 120 «L’uomo è siffattamente costituito, che non vi ha
parte del suo essere, la quale non viva congiunta coll’universo corporeo
esteriore. Sentire, pensare, volere, sono i tre supremi attributi costitutivi
dell’umano soggetto; e tutti e tre si svolgono in intima ed operosa
corrispondenza colla natura, fuor della quale rimarrebbero atrofizzati» G.
Allievo, L’uomo e la natura, Torino, Carlo Clausen, 1906, p. 4. 121 La natura e
lo spirito sono uniti «ma sarebbe gravissimo errore il credere, che siffatta
unione si converta in una identità, negando così ogni sostanziale distinzione
fra l’uno e l’altra, e confondendoli in una comune essenza. La distinzione
esiste e non distrugge l’unione. Poiché nel mondo esteriore le sostanze sono
corporee, e quindi i fenomeni e le forze sono fisici; nel mondo interiore la
sostanza è l’anima, i fenomeni sono psichici, le forze sono facoltà o potenze.
Ma il punto più spiccato, che distingue questi due mondi, malgrado la loro
cospicua armonia, sta in ciò, che l’anima ha la coscienza de’suoi fenomeni, il
dominio delle sue potenze; e questa coscienza di sé, questo dominio di sé manca
alla natura» Ibid., p. 6. 122 G. Allievo, La scuola educativa, principi di
antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili,
cit., p. 4. 123 G. Allievo, Studi psicofisiologici, cit., p. 11. 45
fisiche. Come osserva Allievo: «il punto più spiccato che distingue questi due
mondi malgrado la loro cospicua armonia, sta in ciò, che l’anima ha la
coscienza de’ suoi fenomeni, il dominio delle sue potenze»124. Negando la
natura spirituale dell’uomo, la realtà effettiva della persona sfugge alla
comprensione: «È un dogma del senso comune ed un pronunciato della sapienza
filosofica tradizionale, che l’uomo non è tutto quanto materia organata, come
non è neppure uno spirito puro, bensì una sintesi stupenda, un’armonia vivente
di questi due distinti principii insieme composti ad unità di persona: ponete
che tutto il suo essere si risolva in un composto di molecole organate a vita
materiale, e voi non capirete più nulla dei solenni problemi, che agitano la
coscienza dell’umanità, più nulla delle sublimi aspirazioni, che fervono
indomabili nei penetrati dello spirito umano»125. Per il vercellese, è lo
spirito che dà dignità all’uomo, sollevandolo dal resto della natura. La
persona esprime il grado sommo dell’essere e lega l’individuo all’eterno. La
coscienza dell’esistere colloca la persona in una dimensione irraggiungibile
per qualsiasi altro essere della natura. L’esigenza di sottolineare il primato
spirituale lo portò il docente piemontese a criticare in una serie di lavori la
definizione aristotelica dell’uomo come animale politico126, che reputava
ambigua. Data la confusione antropologica coeva, Allievo non reputava
conveniente indicare primariamente nell’uomo la natura animale. Si rischiava di
avallare le tesi dei materialisti positivisti e di un certo evoluzionismo127,
che volevano ridotto l’uomo ad un «bruto», per usare le parole di Allievo128.
Il pedagogista avvertiva il rischio di ridurre lo studio della persona, al solo
aspetto materiale: «Per conseguente l’antropologia, anziché scienza distinta e
superiore, apparirà niente più che una parte della zoologia, parte la più
sublime, se vuolsi, ma pur sempre una parte»129. 124 Ibid., p. 15. 125 Ibid.,
p. 9. 126 G. Allievo, L’uomo e il cosmo, cit., p. 80. 127 Osserva: «La
tristissima definizione, l’uomo è animal ragionevole, non solo capovolge
l’ordine naturale, che regna tra questi due elementi, ma soppianta ben anco la
stessa personalità umana, la quale ha la sua propria sede e radice nella mente imperante
sull’organismo corporeo e fornita di una perenne sussistenza, mentre essa pone
l’animalità siccome soggetto, di cui la ragionevolezza apparisce un mero e
semplice predicato, tantochè venendo meno la prima, cessa issofatto la seconda,
né questa può spiegare altra virtù, che non sia compresa nella cerchia di
quella»127. In seguito ribadisce che accoppiare «all’animalità la
ragionevolezza come ad un soggetto un attributo suo è un disconoscere il
primato dello spirito sulla materia e della mente sull’organismo corporeo
nell’uomo, ed un aggiudicarlo alla materia sullo spirito, al corporeo organismo
sul principio pensante» G. Allievo, Della vecchia e della nuova antropologia di
fronte alla società, Genova, Tipografia del R. Istituto dei sordo – muti, 1874,
p. 7. 128 «Mentre il bruto opera per impulso irresistibile di cieco istinto,
l’uomo opera consapevole di sé e del fine a cui mira, ed è arbitro delle sue
azioni. Questa potenza, per cui l’umano soggetto si determina da sé ad operare
per un fine conosciuto, è la volontà» G. Allievo, La scuola educativa, principi
di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili,
cit., p. 46. 129 G. Allievo, Della vecchia e della nuova antropologia di
fronte alla società, cit., p. 6. 46 Per riscoprire l’autentica alterità
umana, era invece compito dell’antropologia evidenziare nello sviluppo della
persona quegli aspetti irriducibili al divenire determinato. Allievo richiama
all’osservazione dell’uomo, delle sue facoltà, e della sua azione. Egli afferma
che in ogni uomo inizia, prima o dopo, la «vita spirituale» che consiste nella
coscienza del sé e del mondo: «Io sono: con questo pronunciamento un essere
personale si desta alla vita, annunzia la propria esistenza, afferma se stesso,
rivela sé a se medesimo, e specificamente si differenzia dagli esseri
impersonali che esistono, pur non sapendo di esistere. Questa coscienza di sé
può essere più o meno viva, più o meno ampia e potente, ma è pur sempre
necessaria all’io, poiché una incoscienza assoluta ripugna alla natura di un
essere intelligente, qual è la persona»130. Nella visione di Allievo,
l’affiorare dell’Io, diviene così la prova della natura spirituale della
persona: «Il vocabolo io chiude esso solo in sé la più decisiva confutazione
del materialismo, essendochè il ripiegarsi che fa l’io sopra di sé ed il
riconoscersi siccome sostanzialmente identico nella dualità del soggetto
riflettente e dell’oggetto riflettuto è dote propria dello spirito ed affatto
ripugnante all’essenza medesima della materia, che è di sua natura
impenetrabile, cioè tale da non poter compenetrare interiormente sé stessa e
tutta riconcentratasi siccome in semplicissimo punto: chè in tal caso
cesserebbe di essere materia»131. L’emergere della individualità personale
all’interno del mondo, indica anche lo sviluppo della coscienza alla scoperta
della propria esistenza132. L’Io emerge primariamente in due connotati propri,
vale a dire l’intelligenza e l’attività volontaria133. In questo senso
definisce la persona come «sostanza dotata di intelligenza, mercé cui ha
coscienza di sé affermandosi quale unità vivente di vita sua propria distinta
dalla realtà esteriore e pur con questa unità, e di attività volontaria, per
cui possiede sé stessa e dispiega liberamente la virtualità sua in ordine al
fine universale segnato dalla personalità infinita di Dio»134. Questi due
attributi sono l’espressione della coscienza, in 130 G. Allievo, Il ritorno al
principio della personalità, Prolusione letta all’Università di Torino il 18
novembre 1903, cit., pp. 4-5. 131 G. Allievo, Sulla personalità umana, cit., p.
17. 132 «La coscienza personale è l’io, che rivela sé a se medesimo. Ora quali
sono le rivelazioni della coscienza interiore? L’io sente di essere uno od
identico con se medesimo, di possedere un’esistenza effettiva e reale, si
riconosce e si afferma una sostanza sussistente, attiva, semovente, operosa,
che svolge la sua intima virtù in una molteplicità di pensieri, di affetti, di
voleri, ed in sé li raccoglie ad unità» G. Allievo, Il ritorno al principio
della personalità, Prolusione letta all’Università di Torino il 18 novembre
1903, cit., p. 6. 133 «Lo studio della personalità umana è lo studio dela mente
contemplata primariamente in sé medesima, poi nelle attinenze su coll’organismo
corporeo. La mente, sede della personalità, emerge da due supremi costitutivi,
che sono l’intelligenza conoscitiva e l’attività volontaria» G. Allievo, Sulla
personalità umana, cit., p. 16. 134 Ibid., p. 55. 47 cui l’uomo
trova la sua indipendenza, alterità e potenza rispetto al resto della
natura135. Con altre parole, Allievo osserva: «Dovunque c’è la persona, cioè un
soggetto dotato di intelligenza ed attività volontaria, là vi è lo spirito. La
persona è una energia, un’attività, una forza, non cieca, ma intelligente e
conscia di sé, non fatale e necessitata, ma libera e signora di sé, lo domina e
lo trasforma informandolo giusta il suo ideale: ma la materia non conosce né se
stessa, né lo spirito, non domina sé medesima, ma è irrepugnabilmente dominata
dalle forze, che la investono»136. Nell’uomo, infatti, la volontà è radicata
nell’intelligenza137. Solo una prospettiva simile, per Allievo, è capace di
comprendere la vita della persona, e salvare la sua unità138. Commentando una
parte del celebre libro di Smiles, Self – help, tradotto in Italia con il
titolo Chi si aiuta Dio l’aiuta, Allievo scrive che ognuno: «sente di essere
un’attività consapevole di sé ed arbitra del proprio operare, una forza morale,
che si muove all’atto non per esteriore costringimento, ma per intrinseco
impulso intelligente e libero. “Se ciò non fosse (scrive lo Smiles nel capitolo
VIII della sua opera Chi si aiuta Dio l’aiuta), dove sarebbe la responsabilità?
A che gioverebbe lo insegnare, l’ammonire, il consigliare, il correggere? A che
servirebbero le leggi, ove non fosse la credenza universale, come è un fatto
universale, che gli uomini obbediscono o no ad esse, secondo che deliberarono
individualmente?”»139. 135 «La persona è un tutto individuo e sostanziale, che
afferma sé come distinto dalla realtà universa; un soggetto, che possiede sé
stesso mercè il pensiero e la volontà; una monade, che è conscia sui et compos
sui, è presente a sé ed è tutta in ciascuna delle molteplici sue forme,
determinazioni, momenti e stati, sicché il secreto de’ grandi caratteri dimora
nel conservare la propria individualità personale in mezzo alle forze contrarie
padroneggiandole; una sostanza dispiegantesi per intrinseca sua virtù da un
centro o principio supremo di vita suo proprio e che nello esplicamento del suo
contenuto compenetra tutta sé stessa in una viva ed attuosa unità di intendere
e di volere» Ibid., p. 54. 136 G. Allievo, Lo spirito e la materia
nell’universo, l’anima e il corpo nell’uomo, Torino, Carlo Clausen, 1903, p.
15. 137 Secondo Allievo l’attività volontaria è «la fonte secreta,
inesauribile, da cui prorompe tutta la corrente della vita umana, ed a cui
rifluisce con perpetuo circolar movimento. Il voglio pronunciato dall’io
attesta l’atto di una coscienza personale ed annuncia il lavoro. S’intende da
sé che questa forza, quest’attività interiore dell’io non è una volontà cieca,
inconsapevole di sé, bensì illuminata dall’intelligenza, essendochè chi dice
coscienza, dice conoscenza, e propriamente conoscenza di sé» G. Allievo, Il
ritorno al principio della personalità, Prolusione letta all’Università di
Torino il 18 novembre 1903, cit., p. 8. 138 «La coscienza è la rivelazione
dell’anima a sè stessa nella sua natura e ne’ suoi fenomeni, nella sua sostanza
e ne’ suoi modi, nella sua essenza e nella sua attività, nel suo essere e nelle
sue manifestazioni. Così il concetto della personalità umana, vale a dire di un
soggetto sostanziale fornito di intelligenza e di libera volontà, è il solo,
che concilii la molteplicità dei fenomeni coll’unità del loro comune soggetto,
sicché questi due termini nello sviluppo della vita umana si mantengano
indisgiungibili, e si rischiarano l’un l’altro» G. Allievo, Studi
psicofisiologici, cit., p. 74. 139 G. Allievo, La scuola educativa, principi di
antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili,
cit., p. 47. 48 L’esistenza nella persona di una unità tra mente e
corpo, rappresenta una premessa incontrovertibile su cui dipanare il discorso
antropologico e pedagogico140. Negare questa dualità nell’uomo, significherebbe
disconoscere un dato di realtà. Stando al pedagogista, la stessa idea di
scienza appare contenere implicitamente l’affermazione dell’esistenza della
coscienza141. Allievo dedicò ampio spazio al rapporto tra la dimensione spirituale
e quella corporale. Com’è già stato osservato, l’uomo è sintesi tra persona e
corpo, due nature che si mantengono in una relazione di armonia nell’uomo. In
questo senso egli definisce l’uomo come «persona organata»142 o «persona
incorporata». Questa relazione, pone il problema di come i due livelli siano
coordinati tra loro. Come premessa a questo problema, Allievo scrive che
«nell’uomo non vi sono due esseri, ma uno solo; quindi in lui le potenze
mentali dell’anima e le funzioni animali del corpo si svolgono complicate
insieme, sicché non si può tracciare una linea di separazione tra i fenomeni
psichici ed i fisiologici»143. Contro i positivismi chiarisce in più di
un’occasione che la vita della mente va distinta da quella materiale. Osserva:
«L’anima non trae la sua origine dagli organi del corpo, ma (dicevano i
pitagorici) vien dal di fuori nel corpo è un’emanazione dell’etere, simbolo
dell’anima universale, ossia di Dio animatore supremo»144. Nel testo Studi
psicofisiologici, si occupa in specie della relazione tra la natura spirituale
e quella fisiologica, citando diverse opere di studiosi tra cui Marat, Lèlut,
Lotze, Cerisem, Cabanis, Broussais ed Herzen. Polemico contro il monismo
scientista, propone una teoria chiamata duodinamismo, che spiega in questo
modo: «Mentre il monodinamismo concentra la vita umana tutta quanta in una
sostanza, cioè o nel solo spirito o nella sola materia componente l’organismo
corporeo, il duodinamismo riconosce nell’uomo due centri di vita
sostanzialmente distinti, cioè l’anima razionale e la forza vitale, e da quella
fa rampollare i fenomeni mentali, da questa i fenomeni fisiologici ed
animali»145. La teoria si 140 Per Allievo l’uomo è «La persona, sostanza
individua, sussistente in sé, volontariamente attiva; l’unità è l’identità
dell’io nella molteplicità e varietà dei suoi modi e dei suoi fenomeni; la vita
intima ed individuale intrecciata colla vita esterna e comune; la vita mentale
svolgentesi insieme colla vita organica. Ecco le rivelazioni della coscienza
personale, rivelazioni, che costituiscono le prime, spontanee intuizioni dello
spirito umano, salde, inconcusse, irrepugnabili. Ora da ciascuna di queste
rivelazioni la ragione vede spuntare una serie ordinata di problemi, che
ammaniscano la materia, su cui la scienza ordisce le sue trame e compie il suo
lavoro speculativo» G. Allievo, Il ritorno al principio della personalità,
Prolusione letta all’Università di Torino il 18 novembre 1903, cit., p. 10. 141
«Così coscienza e scienza sono i due poli, fra cui si muove il mondo della
speculazione: la coscienza ci rivela la personalità dell’essere, ed alla luce
di questo principio la ragione costruisce la scienza» Ibid., p. 10. 142 G.
Allievo, Della vecchia e della nuova antropologia di fronte alla società, cit.,
p. 14. 143 G. Allievo, Studi psicofisiologici, cit., p. 26. 144 G. Allievo,
Delle idee pedagogiche presso i greci, Cuneo, Tipografia Subalpina di Pietro
Oggero e C., 1887, p. 18. 145 G. Allievo, Studi psicofisiologici, cit., p.
69. 49 rifà ad autori come Barthez, Montpellier, Lordat. Essa
«concilia insieme la molteplicità della natura umana coll’unità dell’Io
individuale. Infatti l’anima razionale non essendo uno spirito puro, ma
congiunto colla materia, è essa che informa ed avvia il corpo, è il suo
principio ed animatore: così il principio corporeo produce i fenomeni della
vita fisica ed animale, ma in grazia della forza vitale ricevuta dall’anima, la
quale in tal modo produce direttamente e per se stessa i fenomeni della vita
mentale, ed indirettamente, ossia per mezzo del corpo i fenomeni della vita
corporea»146. Al naturalismo e al positivismo contestò, come già accennato, la
riduzione dell’antropologia a un «capitolo della fisiologia, ad un ramo della
zoologia»147. Allievo chiarisce è che non è contrario alla fisiologia, ma al
«fisiologismo». Negli Studi pedagogici cita il caso dei fisiologi come
Salvatore Tommasi, che sostengono come la disciplina non porti necessariamente
al materialismo148. Inoltre osserva come anche alcuni positivisti abbiano
ammesso una serie di difficoltà nello spiegare la vita mentale con la sola
fisiologia. Per suffragare la sua tesi rinvia al saggio Herzen, Il cervello e
l’attività celebrale, nel quale lo studioso riconosce quanto sia ancora lontana
la possibilità di chiarire aspetti fondamentali del funzionamento della mente
umana. Allievo trae queste conclusioni: «Così i più grandi rappresentanti del
positivismo contemporaneo riconoscono l’ignoto, che giace in fondo al problema
dell’unione tra la vita fisica e la vita mentale dell’uomo. Certamente la
fisiologia moderna co’suoi luminosi ed incontestabili progressi ha sparso molta
luce su questo problema, ma non ha svelato il mistero che lo avvolge»149.
Allievo si poneva come obiettivo di salvare insieme le esigenze spirituali e i
dati fisiologici. Osserva: «Il principio antropologico da me propugnato è
antico quanto l’uomo, il quale intuisce per natura la personalità del suo
essere, ma è pur fecondo di novità e di progressivo sviluppamento, perché
ammette insieme armonizzati i due supremi fattori della scienza, voglio dire
l’esperienza, che apprende la fenomenalità delle cose, e la ragione, che coglie
il loro essere sostanziale»150. Nel principio della personalità si palesa lo
spiritualismo di Allievo, che viene spiegato così dalla Quarello: «Realismo
spiritualistico e spiritualismo teistico: tale è la filosofia dell’Allievo. È
realismo in quanto il pensiero è l’ “attività” di un essere reale (io =
persona); è spiritualismo in quanto la persona è essere uno, sostanziale
cosciente di sé (“lo 146 Ibid., p. 72 147 G. Allievo, L’uomo e la natura, cit.,
pp. 13-14. 148 G. Allievo, Studi pedagogici, cit., pp. 42-43. 149 G. Allievo,
Studi psicofisiologici, cit., p. 12. 150 G. Allievo, Il ritorno al principio
della personalità, Prolusione letta all’Università di Torino il 18
novembre 1903, cit., p. 14. 50 spiritualismo, egli scrive, proclama la
personalità umana”); è teismo in quanto Dio è pensato come persona (“il teismo
proclama la personalità infinita di Dio”)»151. Lo spiritualismo dell’Allievo
trae alimento dal principio della personalità. Se da una parte, infatti, si
afferma una dimensione irriducibile alle dinamiche nell’uomo, e dall’altra
l’attestazione di questa «natura» dell’uomo conferma il suo spiritualismo.
«Preso nel suo ampio senso – osserva il pedagogista vercellese - lo
spiritualismo risiede nell’ammettere l’esistenza di sostanze immateriali, che
cioè non cadono sotto i sensi e non hanno le proprietà della materia, quali
sono la figura, la grandezza, l’estensione, la divisibilità, il movimento
locale, bensì sono fornite di intelligenza e di libera volontà»152. In questa
duplice difesa dello spirito e della realtà materiale, sembra di poter
affiancare Allievo al personalismo nato in Francia diversi decenni dopo, a cui
lo accomunò la volontà di «evitare che la persona umana fosse schiacciata dal
materialismo positivistico o assorbita nel vortice del monismo idealistico»153.
I. 4. Antropologia e pedagogia Secondo Allievo, la pedagogia deve fare i conti
con la realtà educativa e le sue dinamiche154. La riflessione teorica e la vita
formativa rappresentano due poli indispensabili l’uno all’altro155. Allievo
prospetta, in questo senso, un metodo di ricerca pedagogico sia empirico che
razionale. Egli lo definisce «dialettico» in quanto «contempera insieme
l’esperienza e la ragione, i fatti e i principi»156. La storia della pedagogia
documenta come qualsiasi riflessione sistematica sull’educazione, abbia sempre
fondato le sue posizioni su una concezione dell’uomo e del suo ideale. Anche
per Allievo, l’antropologia come «scienza dell’essere umano»157 si 151 V.
Quarello, G. Allievo, Studio critico, cit., p. 79. 152 G. Allievo, Appunti di
Antropologia e Psicologia, cit., p. 8. 153 Pedagogie personalistiche e/o della
Pedagogie della persona, Brescia, La Scuola, 1994, p. 15. 154 «Siccome
l’educazione è ad un tempo un’idea ed un fatto, così la Pedagogia, che ne
rampolla, assume il duplice carattere di scienza e di arte. Essa è scienza
perché l’esplicazione razionale di quell’idea; è arte, perché ideale tipico di
quel fatto. Come scienza è un sistema di cognizioni, una teoria speculativa
intorno l’educazione umana, epperò potrebbe appellarsi pedagogia pratica» G.
Allievo, Studi pedagogici, cit., 1889, p. 25. 155 «Così la scienza pedagogica è
la teoria dell’educazione, l’arte pedagogica è la pratica dell’educazione;
scienza ed arte, teoria e pratica bisognevoli l’una dell’altra. Poiché la mera
pratica dell’educazione, non illuminata dalla scienza pedagogica, non è vera
arte, bensì cieco empirismo; la scienza pedagogica alla sua volta, non tradotta
in pratica, né fecondata dal magistero dell’arte, rimane una vana e sterile
teoria» G. Allievo, Concetto generale della storia della pedagogia, Pavia,
Bizzoni, 1901, p. 2. 156 G. Allievo, Studi pedagogici, cit., p. 55. 157 G.
Allievo, L’uomo e il cosmo, cit., p. 1. 51 prospetta come uno
studio di fondamentale importanza tanto per la teoria quanto per la pratica
educativa158. Allievo colloca l’antropologia al centro dell’organigramma di
tutte le scienze. Egli individua il suo obiettivo nella conoscenza dell’essenza
unitaria della persona159. L’Allievo non pensa all’antropologia come ad una
etnografia, ma come «scienza generale sull’uomo» connotata da un orizzonte
metafisico. Dallo studio generale sull’uomo, discendono due gruppi di
discipline, quelle che lo studiano nella sua accezione individuale, e quante ne
approfondiscono l’aspetto sociale160. Le scienze che studiano l’uomo sotto
l’aspetto individuale si dividono a loro volta in altri due gruppi. Del primo fanno
parte tutte le discipline che si occupano della mente: logica, estetica, etica,
eudemonologia, filologia, pedagogia. Al secondo gruppo afferiscono le scienze
che riguardano l’organismo corporeo: fisiologia, anatomia umana, patologia,
terapeutica, igiene, ginnastica. Le scienze che riguardano l’uomo sociale sono
secondo l’Allievo la politica, la giuridica, l’economia pubblica colle scienze
industriali e commerciali, la storia, l’etnografia, la filosofia della storia.
Tutte queste discipline sono legate all’antropologia, che permea e fonda
qualsiasi aspetto dello scibile umano. Secondo Allievo, la prospettiva sulla
natura e il senso della persona, permea le possibili soluzioni avanzate
riguardo la vita della società, le sue leggi, le sue prospettive, il suo
sviluppo. Osserva: «Ogni problema sociale, vuoi politico, vuoi artistico, vuoi
religioso, cova in sé un problema antropologico»161. Questa relazione è ancora
più evidente per quanto concerne la scienza pedagogica, con la quale
l’antropologia ha un «vincolo indissolubile»162. Lo studioso piemontese,
infatti, pur riconoscendo un proprium alla pedagogia nell’affrontare dei
problemi fondativi e generali sull’educazione, considerava necessario il
contributo delle altre scienze, indispensabili per completare e integrare la
ricerca pedagogica163. Tra queste primeggia l’antropologia filosofica poiché
necessaria per chiarire 158 «L’educazione dell’uomo presuppone la conoscenza
dell’uomo stesso, epperò la pedagogia o scienza dell’educare e la didattica o
scienza dell’istruire, hanno il loro fondamento nell’antropologia, o scienza
che studia l’essere umano» G. Allievo, La scuola educativa, principi di
antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili,
cit., p. 3. 159 Allievo sostiene che l’antropologia studia «l’uomo nella sua
intima e generalissima essenza, ossia nell’integrità e pienezza complessiva del
suo essere» G. Allievo, Studi psicofisiologici, cit., p. 6. 160 Cfr. G.
Allievo, Appunti di Antropologia e Psicologia, cit., p. 8. 161 G. Allievo,
Della vecchia e della nuova antropologia di fronte alla società, cit., p. 4.
162 G. Allievo, Studi pedagogici, cit., p. 39. 163 Nel seguente brano elenca le
discipline ausiliarie alla pedagogia, che sono: «1° L’antropologia generale,
che studia l’uomo nella dualità di anima e di corpo e nella unità della sua
persona; 2° la psicologia, che studia l’anima umana nelle proprietà della sua
natura e nella varietà delle sue potenze; 3° la logica riguardata siccome la
teorica della verità e della scienza; 4° l’etica, che studia il Buono, norma ed
oggetto della libertà morale umana; 5° la cosmologia, che è una spiegazione
scientifica del mondo; 6° la metafisica, 52 la natura e il fine
dell’educando, e quindi dell’educazione. Nonostante i diversi ambiti di ricerca
«tra l’antropologia e la pedagogia intercedono le due fondamentali attinenze
della distinzione e dell’unione»164. Se il principio della personalità è il
fulcro dell’opera di Giuseppe Allievo, l’antropologia è il centro della
pedagogia. Non a caso, quando il professore vercellese sostituì Rayneri sulla
cattedra di pedagogia all’Università di Torino, cambiò il nome
dell’insegnamento da «Metodica» in «Antropologia e Pedagogia». Il carattere di
ciascun sistema pedagogico dipende dalla prospettiva antropologica: «le diverse
e contrarie teorie pedagogiche professate dai cultori di questa disciplina
traggono appunto la loro ragione e origine dai diversi e contrari concetti
antropologici, da cui essi hanno preso le mosse, e su cui hanno costrutto il
sistema»165. Per capire e pensare l’educazione occorre una chiara idea su cosa
sia l’uomo, se ci sia e quale debba essere il suo compito nel mondo: «Ogni
dottrina pedagogica ritrae dai principi antropologici su cui si regge, la virtù
peculiare, che la informa, e lo stampo singolare, che la individua»166. Non si
possono slegare questi due aspetti nella riflessione: «L’uomo e la sua
educazione sono due termini insieme compenetrati, come un principio e la
conseguenza sua, e che li disgiunge, è mente piccina che né l’uno, né l’altra
intende. L’uomo spiega se stesso nell’educazione e l’educazione riflette se
stessa nell’uomo; e sempre il concetto antropologico ed il concetto pedagogico
serbano l’uno coll’altro rispondenza esatta o veri o fallaci che siano
entrambi»167. La correlazione è necessaria. In un altro brano chiarisce gli
scopi delle due discipline: «La distinzione delle singole scienze origina dalla
distinzione dei loro oggetti: l’una non è l’altra, perché versa sopra un
oggetto suo proprio, che non è quello dell’altra. Per conseguente la scienza
antropologica dalla pedagogica si differenzia essendochè quella ha per oggetto
suo l’essere umano, questa l’educazione umana, l’una studia l’uomo
nell’integrità e compitezza dell’esser suo, l’altra sotto il peculiare riguardo
della sua educabilità; la prima si propone di rispondere alla domanda: Che cosa
è l’uomo; la seconda ha per ufficio di soddisfare all’inchiesta: Che
l’educazione e come l’uomo va educato. Ecco il rapporto di distinzione, ma da
questo stesso già si rileva il vincolo unitivo, che stringe l’una all’altra le
due discipline, essendochè l’uomo e la educazione sua sono due termini
inseparabili. La pedagogia ha coll’antropologia un vincolo così intimo e
necessario, che trova in questa il fondamento e che studia l’Essere primitivo
in sé e ne’ suoi rapporti col mondo e coll’uomo» G. Allievo, Del positivismo in
sé e nell’ordine pedagogico, Torino,Tipografia Subalpina di Stefano Marino,
1883, p. 246. 164 G. Allievo, Attinenze tra l’antropologia e la pedagogia,
«Rivista Pedagogica Italiana», Asti, 1897, vol. I, p. 308. 165 Ibid., p. 310.
166 G. Allievo, Delle idee pedagogiche presso i greci, cit., p. 31. 167 G.
Allievo, Opuscoli pedagogici, cit., 1909, p. 10. 53 la ragion sua
ed in ogni punto del suo processo si regge sui principii supremi della scienza
antropologica»168. Per fare pedagogia occorre dunque possedere una «conoscenza
scientifica dell’origine, della natura, del fine dell’uomo»169. Bisogna tenere
conto del fatto che nella temperie culturale in cui Allievo sosteneva queste
posizioni, porre l’antropologia filosofica a fondamento della pedagogia, non
era un’ovvietà, soprattutto quando essa era collocata entro un contesto
metafisico. Porre il baricentro del discorso pedagogico sulla questione
antropologica, era considerato da Allievo come la risposta emergente ad una
problematica educativa reale. Si trattava di un problema radicale che faceva da
discriminante tra le varie teorie. Le risposte alla questione circa la natura
dell’uomo, non erano infatti da considerare secondarie per la qualità della
relazione pedagogica: «Educare è sviluppare le virtù insite dell’uomo
fanciullo. Ma che cosa e quale è mai l’uomo che si vuol educare? Forse l’uomo
di Molescott, un mero giuoco di elementi chimici colla predominanza del fosforo
pensiero, e niente più? O l’uomo-scimmia de’ moderni naturalisti? O l’uomo de’
panteisti tedeschi fatto una cosa sola con Dio? O l’uomo de’ razionalisti
trasformato in libero pensiero? O l’uomo de’ mistici che lo spiritualeggiano
per intero, mentre i materialisti lo abbruttiscono?»170. Per l’Allievo, si
trattava di domande impellenti. La pedagogia esigeva nuova chiarezza sull’idea
di persona: «Oggi più che mai essa reclama un supremo principio vitale, che
risponda al suo altissimo compito, ricomponga ad unità di organismo potente la
sua squilibrata compagine e le additi l’ideale suo, verso cui cammina franca e
sicura»171. Secondo il pedagogista, la domanda circa la natura dell’uomo non
poteva essere affrontata con gli strumenti epistemologici delle scienze esatte,
incapaci di cogliere l’essenza della persona. Tale compito spetta alla
filosofia, che diviene la prima interlocutrice della pedagogia. In più di una
occasione chiarì che la sua era una «pedagogia filosofica»172 poiché si «fonda
sopra un principio essenzialmente vero ed inconcusso, quale è quello della
natura umana riposta nella personalità dell’io, e nel suo procedimento adopera
non la sola esperienza disgiunta dalla ragione, né la sola ragione astratta,
che disdegna la realtà dei fatti, bensì entrambe queste due potenze
conoscitive, e l’una in armonia coll’altra»173. 168 G. Allievo, Attinenze tra
l’antropologia e la pedagogia, cit., pp. 308-309. 169 Ibid., p. 309. 170 G.
Allievo, La pedagogia italiana antica e contemporanea, cit., p. 125. 171 G.
Allievo, Il ritorno al principio della personalità, Prolusione letta
all’Università di Torino il 18 novembre 1903, cit., p. 12. 172 G. Allievo, La
nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, Torino, Carlo Clausen, 1905,
p. 3. 173 Ibid., p. 8. 54 Stando a Calò, uno dei punti centrali
nell’opera dell’Allievo è questo: «Non trascurare le esigenze dell’esperienza
né quelle della ragione; ecco, secondo l’Allievo, il primo canone del metodo
filosofico»174. Ciò è confermato anche dall’esigenza di rompere le catene del
misurabile, e allargare la pedagogia alla profondità e al mistero della
persona. Solo «La pedagogia filosofica riconosce nell’alunno un’anima razionale
non già separata dal corpo, ma con esso vitalmente congiunta in unità di
persona, sebbene da esso distinta, un’anima, che sviluppa di continuo le sue
energie in una successione di fenomeni, che formano la sua vita, epperò vuole
un’educazione, che si estenda a tutto quanto l’uomo nella dualità delle sue
sostanze e nell’unità della sua persona, alla vita temporanea e alla
futura»175. La natura delle domande che l’esigenza dell’educazione ci pone, non
si possono risolvere con il metodo scientifico176. Allievo non portò
sostanziali novità nella riflessione epistemologica, ma difese la prospettiva pedagogica
spiritualista, confutando i detrattori della metafisica in campo antropologico.
Secondo Serafini, nonostante «il modello disciplinare intorno al quale egli
lavora è ancora, in larga misura quello di una pedagogia come scienza pratica
(quantunque punti particolarmente sulla figura d’una disciplina complessa) che
si differenzia dal modello elaborato in ambito positivistico particolarmente
per gli effetti che su questo ha il suo personalismo»177. Un altro carattere
distintivo della pedagogia di Allievo è l’idea della specificità nazionale
della pedagogia. Occorre secondo il pedagogista pensare in continuità con la
storia del proprio popolo e con le proprie attitudini. Su questo tema trovò una
consonanza con il saggio di Antonino Parato dal titolo «La scuola pedagogica
nazionale», non senza motivo diverse volte citato dall’Allievo. I. 5.
L’educazione 174 G. Calò, Il pensiero filosofico – pedagogico di Giuseppe
Allievo, cit., p. 8. 175 G. Allievo, La nuova scuola pedagogica ed i suoi
pronunciamenti, cit., p. 10. 176 Spiega Allievo: «La pedagogia è la scienza
dell’educazione umana; e siccome l’uomo non può essere convenientemente educato
se prima non è conosciuto secondo verità, quindi è che la pedagogia dipende ed
attinge da tutte quelle scienze, che hanno per oggetto la conoscenza ragionata
dell’uomo riguardato in sé ed in rapporto colla realtà universale. Ciò posto,
che cosa è l’uomo, donde esso viene e dove va? Come si congiungono in lui ad
unità di vita il corpo e la mente? I suoi destini si compiono quaggiù o in una
vita ultramondana? Esiste la verità e la scienza, a cui aspira la sua
intelligenza? Esiste una legge morale, norma della sua libera volontà? Che
cos’è questo mondo esteriore, che lo circonda, ed in cui è posto a vivere? Qual
concetto dobbiamo formarci di quell’essere assoluto ed infinito, che è
l’oggetto della moralità e religiosità umana, origine prima e fine ultimo di
lui?» G. Allievo, Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, cit., pp.
245-246. 177 G. Serafini, L’idea di pedagogia nella cultura italiana
dell’Ottocento, cit., p. 130. 55 In più di un’opera, il pedagogista
vercellese denunciò una grave crisi educativa, che egli imputava alla
confusione imperante circa i caratteri di una formazione adeguata178. Sulla
base del principio della personalità, egli considerava l’efficacia educativa
legata alla previa soluzione data al senso della perfettibilità dell’uomo179.
Mancando, come già si è accennato, una concezione adeguata sulla natura dalla
persona, anche la pratica educativa ne veniva fuori menomata. Tra i fondamenti
pedagogici di Allievo si colloca questa massima: «Sul sentimento e sul rispetto
della dignità della persona si fonda l’arte dell’educare»180. Al pari di un
ampio stuolo di pedagogisti ed educatori, il docente vercellese era convinto
che non si dà autentico sviluppo della persona senza un intervento
formativo181. La natura esteriore, infatti, «non è per se stessa educativa nel
senso rigoroso della parola, bensì tale diventa allorquando il fanciullo in sé
accogliendola l’accompagna e la feconda colla coscienza del suo sviluppo»182.
Per tratteggiare i caratteri precipui dell’educazione, Allievo si rifà alla
lezione di Rayneri, che nella Pedagogica enumerò cinque attributi
imprescindibili: Unità rispetto al fine, Universalità rispetto a tutte le
facoltà umane che devono essere medesimamente sviluppate, Armonia tra le
potenze umane, Gradazione, Convenienza, cioè – oggi diremmo – personalizzazione
dell’intervento educativo183. Mentre il suo maestro considerava la
«convenienza» come la più importante di queste leggi, Allievo sostiene il
primato dell’armonia184, quale condizione necessaria per un’educazione
efficace185. 178 G. Allievo, Studi pedagogici, cit., pp. 21-22. 179 «L’opera
educativa si modella sul concetto dell’uomo: quale noi lo conosciamo, tale lo
educhiamo, e per conseguente ogni dottrina pedagogica si informa e si esempla
sopra una dottrina antropologica.(...) L’educazione muove dalla natura
originaria dell’uomo, come da suo fondamento, lo segue nel corso progressivo
della sua vita governando lo sviluppo delle sue potenze, mira ad un ideale di
perfezione, a cui intende sollevarlo» G. Allievo, G. G. Rousseau filosofo e
pedagogista, Tipografia Subalpina, Torino, 1910, pp. 81-82. 180 G. Allievo, La
scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole
normali maschili e femminili, cit. p. 185. 181 G. Allievo, Studi pedagogici,
cit., pp. 67-68. 182 G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia
e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, cit., p. 68. 183
G. Allievo, Studi pedagogici, cit., p. 106. 184 Ibid., pp. 109-112; 185
L’educazione deve essere armonica rispetto a tutte le facoltà della persona
«Che l’alunno debba essere educato in armonico accordo colla natura fisica circostante,
colla famiglia e colla nazione, a cui appartiene, coll’organamento sociale, in
cui vive, col grado di civiltà e collo spirito proprio del tempo, è una verità
già riconosciuta e proclamata dalla pedagogia filosofica. Poiché l’alunno non è
una monade solitaria ed isolata, chiusa ad ogni comunicazione esteriore, bensì
abbisogna della convivenza di altri esseri, a fine di espandere la sua vitalità
interiore e compiere il suo esplicamento. Ma egli possiede una personalità sua,
che non può essere sacrificata al mondo fisico sociale; è fornito di una
libertà interiore, che gli conferisce il dominio di sé medesimo, sicché egli è
quale vuole essere, non quale lo fa la necessità insuperabile dell’ambiente;
non potrebbe vivere una vita comune nel consorzio con altri esseri se anzi
tutto non vivesse in se medesimo di una vita tutta sua propria; non potrebbe
mettersi in conformità di accordo coll’ambiente, se da prima non fosse in
concorde armonia con sé stesso; non potrebbe acconciarsi alle impressioni del grande
organismo 56 Sebbene guidata da un criterio unitario, l’educazione
può essere analizzata nella sua molteplicità. Allievo parla di un’educazione
fisica, intellettuale, estetica, morale, religiosa. Distingue tra quella
naturale, che segue lo sviluppo delle facoltà della persona, e quella esterna,
guidata da modelli valoriali, culturali e intellettuali dal discente. Il perno
dell’educazione della persona è la sua razionalità ed intelligenza. Riprendendo
la tripartizione rosminiana delle facoltà umane186, Allievo ricorda come
l’interiorità della persona sia il vero oggetto dell’educazione, mistero non
materiale187, ed eccedente i meccanismi fisiologici188. I fenomeni
dell’interiorità sono governati da leggi come quella di associazione,
simultaneità, successione, e si fondano sulla dinamica delle potenze umane,
tratto tipico della pedagogia rosminiana, che si dividono in corporee o fisiche
e in spirituali o mentali189. Compito dell’educazione è di sviluppare le
potenze umane, in cui l’intelligenza umana si esprime come desiderio
spirituale190. Se l’educazione è il mezzo attraverso cui l’uomo può essere se
stesso, questa va rivolta a chiunque. Allievo considerava necessario offrire a
qualsiasi persona l’educazione e l’istruzione, senza discriminazioni per le condizioni
economiche, sociali, o di genere. In questo senso contesta i positivisti che
negavano la possibilità e l’utilità di occuparsi dell’educazione e
dell’istruzione dei diversamente abili. Negli Opuscoli Pedagogici191 sostiene
la necessità di educare i sordomuti, i nevrastenici, i balbuzienti, i ciechi,
ed esorta ad approfondire gli studi sui mezzi con i quali sia meglio educarli,
richiamando a prendere esempio da altre nazioni europee come la Francia. Nel
saggio su Rousseau, contesta l’idea difesa nell’Emilio, secondo cui i della
natura, se anzi tutto non sentisse il vitale influsso dell’organismo corporeo
suo proprio; infine egli aspira ad un ideale della vita futura, il quale non
può trovar luogo nella cerchia dell’ambiente della natura tutto circoscritto ad
un punto del tempo e dello spazio» G. Allievo, La nuova scuola pedagogica ed i
suoi pronunciamenti, cit., pp. 19-20. 186 «Sentire, intendere e volere, in
questa triplice classe di fenomeni psicologici si raccoglie tutto lo sviluppo
del nostro essere spirituale» G. Allievo, La scuola educativa, principi di
antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili,
cit., p. 6. 187 «I fenomeni interni o psicologici non si veggono cogli occhi
del corpo, non si toccano, non si odono, non si odorano: un pensiero, un
affetto, un volere non hanno forma o figura, non divisione o dimensione, non
grandezza o misura: essi soltanto alla coscienza si mostrano e sono oggetti di
osservazione interiore» Ibid., p. 7. 188 «I fenomeni interni sono di loro
natura superiori all’organismo; i sentimenti, i pensieri, i propositi
deliberati sono manifestazioni esclusivamente proprie dello spirito, al cui
compiuto sviluppo i fenomeni dell’organismo corporeo intervengono bensì, ma
come condizione soltanto, non some causa» Ibid., pp. 7-8. 189 «Ciò posto,
siccome i fenomeni interni ci vennero superiormente distribuiti in tre classi
supreme, affettivi cioè, intellettivi e volitivi, così siamo condotti ad
ammettere tre supreme potenze umane corrispondenti, la sensitività,
l’intelligenza e la volontà, intendendole con tale larghezza, che la
sensitività comprende tanto la sensazione animale, quanto il sentimento
spirituale, l’intelligenza abbracci tanto la percezione o fantasia sensitiva
quanto la ragione, e similmente la facoltà spirituale della volontà si mostri
preceduta dagli appetiti inferiori e con essi collegata» Ibid., p. 12. 190
«Come l’istinto animale provvede alle esigenze della nostra vita fisica, così
l’istinto spirituale fornisce alla vita mentale i beni, che le sono proprii.
Ora lo spirito vive del Vero, del Bello, del Buono, e vi si sente portato da
naturale istinto, il quale viene così a distinguersi in intellettivo, estetico
e morale» Ibid., p. 29. 191 G. Allievo, Opuscoli pedagogici, cit., pp. 94-97.
57 diversamente abili, Allievo parla di «storpi», non abbiano diritto
all’istruzione e all’educazione192, ribadendo la convinzione che l’educazione
sia un diritto per tutti. Tutti gli uomini sono persone, qualunque sia la loro
condizione, e ognuno merita di essere educato e istruito, anche se ciò deve
essere fatto secondo le inclinazioni e le potenzialità di ciascuno.
Analogamente contestò Platone quando estromette i «malconformati di corpo»
dalla cerchia degli educabili. Inoltre fa notare come «anche lo Spencer a’ di
nostri muove rimprovero alla società che si prende cure dei miserabili, dei
poveri, degli infermi, fino a dichiarare una grande crudeltà il nutrire gli
inetti a spese dei capaci degli operosi»193. Allievo considera questa
prospettiva come una diretta conseguenza del materialismo: disconoscendo il
valore assoluto dell’uomo, non ha più senso la cura di quanti non «funzionano»,
non «producono», quanti insomma sarebbero solo un peso per il sistema
economico. Secondo Allievo solo il riconoscimento della dignità suprema
dell’individuo permette il rispetto di ciascuno e la sua valorizzazione.
Dimenticata la persona nell’uomo, si elimina la ragione dell’eguaglianza degli
esseri umani e dunque il diritto all’educazione per tutti. Sulla base del
principio della personalità, il pedagogista vercellese fu altresì un difensore
dell’istruzione e dell’educazione delle donne. Anche per l’Allievo, come per
molti altri studiosi della seconda metà dell’Ottocento, era necessario
concepire l’educazione della donna in armonia con l’ufficio della maternità e
la cura della famiglia, compiti a cui secondo il pedagogista la donna era
naturalmente destinata. Dopo aver difeso il ruolo della donna nella famiglia,
spiega: «Né altri di qui inferisca, che la donna circoscrivendo nel recinto
della casa il suo genere peculiare di vita debba crescervi e passarvi i suoi
giorni solitari, ignorante, incolta, spregiata e negletta. Anch’essa possiede
per natura tutte le facoltà costitutive della specie umana, a cui appartiene;
epperò ha, quanto l’uomo, diritto alla verità, alla felicità, alla virtù, al
rispetto della dignità umana, che in lei rifulge, al perfezionamento suo
proprio. E se abbia da natura sortito qualche raro pregio di mente e di
spirito, qualche felice attitudine al culto di qualche disciplina, od arte, o
nobile professione sociale, chè non venga mai meno alla sua prima e natural
missione, alla quale è chiamata nel santuario domestico»194. Allievo reputa che
sia necessario offrire un percorso educativo e di istruzione anche alle donne
meno abbienti. Dopo aver analizzato le opere della Saussure, contesta il fatto
che si parli dell’educazione solo per i ceti sociali più alti: «Però io non
posso passare sotto 192 G. Allievo, G. G. Rousseau filosofo e pedagogista,
cit., p. 160. 193 G. Allievo, Delle idee pedagogiche presso i greci, cit., p.
113. 194 Ibid., pp. 117-118. 58 silenzio, che in questo eletto
lavoro pedagogico della Saussure è tutto rivolto alla coltura della donna di
agiata e civil condizione, come lo sono altresì le opere pubblicate dalle due
egregie donne italiane, la Colombini e la Ferrucci intorno l’educazione
femminile. Eppure anche l’educazione della donna popolana ed operaia può e deve
fornire al cultore della pedagogia bello e grande argomento di studio e di meditazione,
per quantunque debba essere discorso sott’altra forma ed in proporzioni più
modeste»195. Nonostante l’inciso finale, il discorso dell’Allievo sembra
innovativo rispetto alle comuni pratiche e teorie pedagogiche. La donna
inoltre, in quanto persona, non poteva essere considerata proprietà di alcuno.
Per questo motivo critica Rousseau che aveva fatto di Sofia una moglie
totalmente asservita al marito. Al contrario: «La donna non è nata per essere
la schiava né dello Stato, né dell’uomo»196. L’attività dell’educatore e della
scuola deve anche essere in armonia con quella familiare. La famiglia è
l’inizio e il paradigma dell’educazione. Chi si occupa di educazione deve avere
come modello l’istituzione familiare. Allievo sostiene la necessità di una famiglia
generosa, laboriosa e aperta. Contesta la famiglia rappresentata nell’Emilio,
considerata isolata ed egoista. Invero, persistono nella sua opera ancora
alcuni stereotipi sul sesso femminile. Allievo parla di un’inferiorità
fisica197, e sostiene che «nella donna il sentimento e l’affetto predominano
sull’intelligenza e sulla volontà», e sebbene sottolinei i vantaggi di questa
caratterustica femminile198, considera l’uomo maggiormente capace di
sottomettere la volontà alla ragione199. Secondo Allievo la durata
dell’educazione abbraccia tutta la vita. L’uomo ha sempre da essere
perfezionato. Il suo cammino verso il compimento di se stesso è costante200. È
tuttavia vero che la vita è composta da diverse fasi, ognuna ha delle
particolari esigenze educative. Allievo contesta cesure nette nella
teorizzazione dello sviluppo della persona. 195 G. Allievo, Delle dottrine
pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure, Francesco
Naville e Gregorio Girard, Torino, Libreria Scolastica di Grato Scioldo, 1884,
p. 222. 196 G. Allievo, G. G. Rousseau filosofo e pedagogista, cit., p. 159.
197 «Insegna la fisiologia, che l’organismo corporeo è più gagliardo e più
robusto nell’uomo, più esiguo e più delicato nella donna; questa diversità di
struttura deve naturalmente riuscire ad una differenza tra le potenze fisiche
del sentire e del muoversi corporeo» G. Allievo, La scuola educativa, principi
di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili,
cit., pp. 16-17. 198 «Essa pensa più col cuore, che col cervello. La verità la
sente più che non la mediti, la intuisce più che non la ragioni, la crede senza
avvolgerla fra le tortuose spire del dubbio, la accoglie tutta quanta viva ed
intiera senza dissolverla e notomizzarla col coltello dell’analisi; pensa e
riconosce Dio come un bisogno del cuore, anziché come un principio della
ragione; posa il suo pensiero sulla realtà concreta e vivente e mal si rivolge
alle aride astrattezze, alle generalità trascendetali» Ibid., p. 17. 199
«Venendo alla volontà, anch’essa nella donna soggiace alla influenza del
sentimento, nell’uomo procede a tenore della ragione» Ibid., p. 18. 200
«L’educazione comincia colla vita e mai non cessa, perché la nostra
perfettibilità dura quanto la nostra mortale esistenza; però essa muta tenore
ed ufficio ed indirizzo secondo il mutare delle diverse età» G. Allievo, Delle
idee pedagogiche presso i greci, cit., p. 33. 59 La vita non può
essere divisa in tappe con demarcazioni rigide, dato che la crescita è graduale
e soggettiva. A tal proposito critica Rousseau, il quale «ha rotto l’uomo (e
con esso l’educazione) in tre pezzi, che spuntano non si sa come, l’un dopo
l’altro, il fanciullo, l’adolescente, il giovinetto: e sotto il taglio della
sua anatomia psicologica la personalità è finita»201. Tale istanza è legata ad
uno dei principi cardine dell’educazione in Allievo, vale a dire l’armonia. «Se
la virtù e l’anima e l’universo e Dio medesimo e tutto quanto esiste è armonia,
appar manifesto, che anche essa l’educazione deve posare e reggersi tutta
quanta sull’armonia, come suo fondamentale principio, val quanto dire
essenzialmente ed integralmente ordinata all’armonico sviluppo delle forze del
corpo e delle facoltà dell’anima»202. Importanti appaiono alcune annotazioni
sul rapporto educatore-educando. Se la persona è libera e tende alla sua
libertà, l’educatore non può agire sull’educando non tenendo conto di questo
aspetto proprio della persona. Dato che l’uomo è libero, non si potrà ridurre
l’educazione ad un meccanismo, l’educatore non costringe, non forza, non
chiude, ma mostra, fa ammirare, interroga, sollecita, suscita. Su tale
principio l’Allievo riprende fortemente il modello della paideia greca,
contrapposto alla modernità che confusa sulla natura spirituale della persona e
dunque sulla sua libertà, ha costretto l’insegnamento in un procedimento vuoto
e disumano. Non c’è libertà senza l’autorità. La pedagogia moderna, di cui
Rousseau è il più alto rappresentante, ha disconosciuto tale evidenza.
Nonostante sia giusto assecondare la crescita naturale del bambino, non lo si
può privare dell’intervento esterno: «Mai non ci deve cadere di mente, che
nell’educazione umana suolsi seguire come infallibil maestra la natura
medesima, sicché nulla mai si tenti, né si faccia, che contraddica a’ suoi
principii, nulla si dimentichi, né si trascuri, che torni opportuno o
necessario a secondarlo nel suo spontaneo sviluppo. Ai dì nostri vide questa
potenza educatrice della natura Gian Giacomo Rousseau, ma di troppo la esaltò
fino a bandire siccome inutile e nocivo il magistero dell’arte. Aristotele non
disconobbe la virtù educatrice, che giace nella consuetudine o costume, e nella
coltura della ragione o disciplina. Poiché i germi del Bello e del Buono
deposti in noi da natura non crescono già né maturano mercé l’opera dei beni
esterni, né il caso e la sorte fa sì che noi diventiamo onesti; bensì
richiedesi a tanto fine l’esercizio della facoltà del volere e del sapere»203.
201 G. Allievo, Delle dottrine pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina
Necker di Saussure, Francesco Naville e Gregorio Girard, cit., p. 117. 202 G.
Allievo, Delle idee pedagogiche presso i greci, cit., p. 34. 203 Ibid., p.
155. 60 Per questo stesso motivo mette in guardia da una
sopravvalutazione dell’autodidattica: «L’io umano è un soggetto personale, e
quindi fornito di una energia pensante sua propria, per cui aspira scientemente
e liberamente alla conoscenza della verità, siccome suo naturale obbietto; ecco
l’origine ed il fondamento dell’autodidattica. Ma la personalità umana
individua è limitata per natura, e quindi bisognevole di un intervento
esteriore: ecco la ragione dei limiti, che circoscrivono l’autodidattica»204.
La persona ha bisogno di altre persone per essere introdotta nell’esistenza. In
un altro brano, Allievo individua nella «nuova psicologia» l’origine
dell’equivoco: «L’autodidattica si regge tutta quanta sulla personalità
dell’io, riguardato come un soggetto sostanziale fornito di una individualità
singolare, per cui è consapevole che l’energia pensante, di cui è fornito, è
tutta sua propria, e che gli atti intellettivi, in cui si svolge, vengono da
lui ed a lui appartengono come loro principio originario e comune soggetto. Ora
i fautori della nuova psicologia rinnegano apertamente la libera attività e la
personalità dell’io umano riducendolo ad un insieme complessivo di fenomeni
mentali, che non appartengono a nessun soggetto e si succedono a tenore di
leggi ineluttabili, facendo dell’anima umana una mera funzione dell’organismo
corporeo»205. La prima regola del maestro è il rispetto per il discente, che è
l’attore principale dell’atto educativo. Una vera educazione è contraddistinta
dal rispetto e dalla pazienza. L’educatore è chiamato a essere umile, non c’è
inoltre insegnamento quando l’insegnante non impara a sua volta: «Il maestro
deve di sicuro sovrastare al discepolo per ampiezza di dottrina, per coltura e
sviluppo mentale, ma non dimentichi mai, che in faccia all’immensità dello
scibile quel tanto, che egli sa, è poco meno che nulla, e gli bisogna perciò
imparare sempre, ed imparare nell’atto medesimo, che istruisce gli altri»206.
Allievo riprende la celebre frase di Plutarco che critica l’insegnamento come
«riempimento», e sostiene che «Il vero imparare è un lavorare colla propria
mente ed avere consapevolezza della verità scoperta e del come siamo giunti a
scoprirla; il vero insegnare è un accendere la scintilla del pensiero e
mantener viva la fiamma della riflessione. La parola del maestro riesce
all’alunno necessaria in quella guisa, che ad un seme l’aria e la luce
esteriore del sole, il quale destando la virtù sopita in esso lo schiude dal
suo germe e lo tien vivo ed atto a spiegare le sue forme. L’acquisto della
scienza è un martirio per uno spirito giovanile abbandonato alle solitarie ed
isolate sue forze, come il possesso materiale 204 G. Allievo, La nuova scuola
pedagogica ed i suoi pronunciamenti, cit., p. 16. 205 Ibid., p. 17. 206 G.
Allievo, Delle idee pedagogiche presso i greci, cit., p. 83. 61
della scienza non conquistata colla nostra meditazione somiglia a splendido
patrimonio avito, eredato da nepoti degeneri e dappoco»207. Educare è dunque
far cresce armonicamente le capacità dell’alunno, è un atto della vita che fa
entrare nella vita, sviluppa e forma il carattere, ma soprattutto tende a far
essere se stessi, e cioè autocoscienza del mondo. Educare significa formare le
capacità umane, ma soprattutto interrogare il discente, contagiare l’esigenza
di conoscersi e di capire se stessi. Nel suo studio, la Quarello riporta una frase
della Marchesa di Lambert citata dall’Allievo nello Studio Storico critico di
pedagogia femminile (1896), in cui la pedagogista sostiene che: «La più grande
scienza sta nel sapere essere in sé»208. L’educatore è chiamato a condurre
l’educando a questa vetta. L’azione formativa risulta dunque una continua
interrogazione ed esortazione. È molto interessante la considerazione di Calò,
secondo cui l’Allievo puntava ad un’azione educativa che «correggesse con un
movimento centripeto verso il nucleo più profondo dell’io il movimento
centrifugo verso l’esterno, che sapesse fare procedere l’educazione dal di
dentro, non dal di fuori». 209. In questo «stare in sé» l’uomo scopre una
dimensione infinita che lo interroga, lo spiazza. La persona sente in sé il
richiamo di un’alterità misteriosa ma a cui si sente inesorabilmente legato:
«Dovunque si muova l’educazione trovasi in faccia all’infinito sempre, perché
l’educando è persona finita sì, ma che pur si muove e gravita verso
l’infinito». Su questi presupposti, Allievo è convinto che non si possa negare
l’educazione religiosa ai giovani: «La coltura impertanto dell’intelligenza, e
dell’attività volontaria va ordinata a Dio. Così la personalità finita
dell’educatore e dell’educando si regge sulla personalità infinita di Dio, e
trova in questa la sua ragion di essere, del pari che la sua cagione
efficiente. Educazione vera non è, che non sia personale sotto entrambi questi
riguardi. Il materialismo, che spegne nel fango la personalità dell’uomo,
l’ateismo, che nega a Dio la sua personalità infinita, il panteismo, che nega
all’uomo ed a Dio una personalità loro propria per confonderli in una medesima
sostanza, conducono ad un’educazione disumana, omicida, perché è negazione
della persona. La formazione del carattere, intorno alla quale si travaglia
tutta l’arte educativa, torna opera impossibile, ove non si regga sulla
personalità dell’essere infinito»210. Strettamente legato alla questione della
vocazione umana ed educativa, è il concetto di «carattere», con cui Allievo riprende
un tema caro ad altri pedagogisti cattolici e non. Il carattere è definito come
«quello stampo, o quell’impronta speciale, che configura 207 Ibid., pp. 84-85.
208 V. Quarello, G. Allievo, Studio critico, cit., p. 106. 209 G. Calò,
Dottrine e Opere, cit., p. 25. 210 G. Allievo, Opuscoli pedagogici, cit., p.
31. 62 ciascuna natura umana»211. Con questo concetto intende
l’universalità dell’essere persona nella particolarità del singolo. «L’alunno
accoppia in sé l’umanità comune a tutti i suoi simili, e l’individualità
propria di lui solo»212. Un altro passo chiarisce tale relazione: «il genere
(umano) vive nell’individuo sotto forma del carattere»213. È compito
dell’ufficio educativo riconoscere e far fruttare l’individualità della
persona214. Secondo l’Allievo: «l’uomo di carattere è colui, che pensa con
verità e colla propria testa, è arbitro del suo operare e conforma le sue
azioni esterne coi suoi interiori convincimenti, sempre mirando all’ideale
divino della perfezione»215. Ma per condurre al vero carattere bisogna educare,
non basta istruire. Allievo definisce l’educazione del carattere come il «punto
di gravitazione» e l’ «apogeo»216 dell’educazione. All’educatore spetta il
riconoscere il carattere dell’alunno, la sua coltivazione, e l’aiuto verso la
vocazione personale di ciascuno. Così «Il fanciullo è persona, cioè sostanza
individua, che in sé armonizza la virtù conoscitiva, fonte della vita
operativa, congiunta con un organismo corporeo, sede della vita fisica e
ministro della vita spirituale. La vita speculativa si sviluppa mercé
l’acquisto del sapere, oggetto dell’educazione intellettuale, la vita operativa
mercé la formazione del carattere, compito dell’educazione civile, morale,
religiosa, la vita fisica mercé il rinvigorimento, la salute e la destrezza del
corpo, termine dell’educazione fisica; e tutte e tre queste forme di educazione
deggiono armonizzare insieme, come armonizzano dell’unità dell’umano soggetto
le tre forme di vita umana»217. Il carattere va educato sin dalla prima infanzia,
e in esso l’esempio è il principale fattore218. L’apice della formazione è il
carattere morale, vale a dire la libertà dell’uomo di obbedire esclusivamente
alla legge morale insita nell’uomo. Allievo considerava il rispetto e
obbedienza a questa legge, come il compimento della libertà, che certo non
riteneva essere un arbitrio assoluto del 211 G. Allievo, L’uomo e il cosmo,
cit., p. 357. 212 G. Allievo, Studi pedagogici, cit., p. 336. 213 G. Allievo,
L’uomo e il cosmo, cit., p. 357. 214 «La formazione del carattere è opera
nostra, sebbene abbia suo fondamento in natura, e le occorra il sussidio
dell’arte educativa» G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia
e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, cit., p. 50. 215
G. Allievo, La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, cit., p. 4.
216 G. Allievo, Studi pedagogici, cit., p. 322. 217 G. Allievo, Opuscoli
pedagogici, cit., p. 31. 218 «Il carattere morale non forma lì per lì come per
incanto nell’età virile; ma, come ogni opera grande e duratura, che sorge da
piccoli inizii, esso fa le sue prime prove nella puerizia, e progredisce con
lento lavorio sino alla compiuta sua forma mediante l’opera concorde
dell’alunno, del maestro, dei genitori, durante tutto quel lungo periodo
educativo, che dalla prima puerizia si stende sino al termine della gioventù»
G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso
delle scuole normali maschili e femminili, cit., p. 91. 63
soggetto219. Il pedagogista vercellese è, infatti, convinto che «Volere
liberamente il dovere, ecco, secondo me, la formula di tutto l’ordine
morale»220. Per un’educazione efficace è imprescindibile lo sviluppo della
capacità di volere e seguire ciò che è bene. «La dignità umana rifulge nel
carattere. Plasmare nel fanciullo il carattere dell’uomo, che esprime la
santità della vita in sé, nella famiglia, nella patria, questo è dell’arte
educativa il supremo, altissimo ufficio»221. Parlando dell’insegnamento in
classe dice che «ogni atto educativo dev’essere un’affermazione, un’impronta
della sua individualità personale. Così si forma il carattere, così l’alunno
impara a diventare uomo maturo di senno, esperto della vita, arbitro delle sue
sorti»222. L’ultima opera dell’Allievo, datata 1913, è dedicata allo studio
comparato tra Giobbe e Schopenhauer. Contrapposto al nichilismo, al pessimismo,
e al disimpegno del secondo, Giobbe rappresenta la vera statura umana, colui
che nonostante le circostanza si spende per la verità. Osserva Allievo: «L’operosità
della vita, perché si compia con efficacia, con dignità e decoro, richiede in
noi la coscienza della nostra libertà personale rivolta ad un ideale supremo,
il sentimento della nostra propria vigoria, il voglio imperioso dello spirito
pronto a lottare contro le difficoltà, gli ostacoli, con imperturbabile
costanza sino al sacrificio, riverente a quanto si presenta di grande, di
nobile, di sacro, di divino»223. L’Allievo critica la riduzione dell’intervento
educativo all’istruzione, riprendendo una battaglia tipica della pedagogia
spiritualista. Sulla base dell’antimetafisica e del relativismo etico di certo
positivismo, più di un pedagogista ridusse il compito dell’educazione
all’istruzione, estromettendo dai suoi compiti la formazione del carattere, e
quindi dell’autocoscienza e della libera volontà. Tale approccio ha come
premessa fondamentale la convinzione che non ci sia nulla di vero, e quindi di
insegnabile, fuori dalle asserzioni scientificamente dimostrabili. A questo
proposito può essere utile richiamare un aneddoto raccontato da Allievo
riferito ad una visita di Padre Girard all’Istituto del Pestalozzi: «Nell’atto
che il Padre Girard stava visitando l’Istituto di lui, egli uscì fuori con
queste parole: “È mio intendimento, che i miei 219 Per queste posizioni fu
criticato da Santoni Rugiu: «L’Allievo ha della moderna pedagogia una
concezione normativa (come sempre, d’altronde, nella concezione cattolica), la
vede cioè non come un’indagine libera e obiettiva sulla natura e sulle
condizioni reali in cui si svolge la formazione dei soggetti, ma come
l’elaborazione di un insieme di indiscusse norme, appunto, che guidino alla
perfezione morale e spirituale. Guai a lasciarsi travolgere dal «gran movimento
sociale» e ritenere che esso indichi sempre la via del progresso e della
civiltà» A. Santoni Rugiu, Storia sociale dell’educazione, Milano, Principiato,
1987, p. 528. 220 G. Allievo, Del positivismo in sé e nell’ordine
pedagogico,cit., p. 89. 221 G. Allievo, Opuscoli pedagogici, cit., p. 18. 222
G. Allievo, Principi fondamentali di Scienza Pedagogica, in «Rivista
Pedagogica», n. 10, 1930, p. 687. 223 G. Allievo, Giobbe e Schopenhauer,
Torino, Tipografia Subalpina, 1912, p. 41. 64 alunni non tengano
per vero, tranne ciò solo, che possa essere loro dimostrato come due e due fan
quattro”. Al che il Girard rispose: “Se io fossi padre di trenta figli, nemmeno
un solo ve ne affiderei ad essere ammaestrato, perché non vi verrà mai fatto di
dimostrargli come due e due fan quattro, che io sono suo padre, e che egli è
tenuto di amarmi»224. Le parole di Padre Girard erano utili a spiegare quali
fossero i rischi dell’ipertrofia della ragione scientifica e matematica.
Limitando il veritativo al «misurabile», infatti, si escludevano
dall’educazione tutta una serie di apprendimenti e principi morali
indispensabili alla vita e alla formazione del carattere. Anche su questo punto
Allievo esorta a distinguere ma senza dividere. L’educatore deve far crescere
tutte le capacità umane, sia quelle del «cuore» che quelle della «mente». Era
convinto che «la natura non si riforma, bensì va riconosciuta e rispettata»225.
E la natura della persona non può essere ridotta alla pura istruzione, ma ha
bisogno della certezza morale, dei principi, dei criteri per distinguere bene e
male. I. 6. Critica all’idealismo e al positivismo Una parte considerevole
delle opere di Allievo è destinata alla critica dell’idealismo e del
positivismo. A tali correnti, sin dai primi lavori, Allievo addossò le
responsabilità della profonda «crisi»226 e confusione che ammorbava la
filosofia italiana. Oltre ad una lunga serie di studi dedicati a questi
sistemi, anche negli altri saggi di Allievo appaiono frequenti incisi polemici
contro queste teorie. Calò ha rilevato come questa ricorrente confutazione e
polemica del positivismo e dell’idealismo, rappresentò un tratto specifico del
pensiero del pedagogista vercellese «L’atteggiamento critico contro le due
correnti suddette forma la preoccupazione costante e costituisce, insieme con
il principio della personalità, svolto dall’Allievo in tutti i suoi aspetti, il
motivo fondamentale e la sostanza del suo pensiero filosofico»227. Secondo
alcuni studiosi Allievo avrebbe avuto nei confronti delle teorie coeve un
atteggiamento difensivo ed eccessivamente «polemista»228. Caramella, un
gentiliano che certo non concordava con le critiche dell’Allievo all’hegelismo
e ai suoi epigoni, fu molto severo con il pedagogista, e ne sminuì il
contributo, riducendolo ad una lamentela sterile e arretrata: «Ma venendo ai
risultati effettivi della sua vasta opera di più che mezzo secolo, 224 G.
Allievo, Delle dottrine pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di
Saussure, Francesco Naville e Gregorio Girard, cit., p. 89. 225 G. Allievo, Del
positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, cit., p. 261. 226 G. Allievo,
L’Hegelismo e la scienza, la vita, cit., p. 6. 227 G. Calò, Il pensiero
filosofico – pedagogico di Giuseppe Allievo, cit., p. 4. 228 S. Caramella, Lo
spiritualismo pedagogico in Italia, «La nostra scuola», n 13-14, 1921, p.
9. 65 qual è il significato storico dell’Allievo? Niente di meno ma
niente di più che un’ostinata battaglia cattolica contro lo scientifismo, senza
che dal cozzo si generasse mai una scintilla nuova»229. Una critica analoga gli
venne mossa da Vidari230. È facile riscontrare nell’opera di Allievo toni duri,
se non apocalittici, nei confronti di teorie giudicate dannose non solo alla
pedagogia, ma anche alla vita educativa e sociale del paese. In molti saggi
mancano aperture concilianti, mentre le posizioni espresse sono spesso risolute
e poco inclini ad aperture. Ma, a onor del vero, va riconosciuto che le
critiche portate dal pedagogista sono sempre articolate e suffragate da una
conoscenza precisa degli autori e delle scuole esaminate. «L’Allievo non fa mai
la critica per la critica: il suo scopo è sempre molto preciso, quello di
dimostrare e di salvare certi principi e certe verità filosofiche»231.
All’interno del lungo itinerario delle opere dell’Allievo possiamo distinguere
due momenti. Sino agli anni ’70 dell’Ottocento, si concentrò in particolare
sull’idealismo, mentre in seguito si occupò quasi esclusivamente del
positivismo, data l’incipiente influenza che iniziava ad avere sulla pedagogia
e filosofia italiana. Già alla fine degli anni ’60, Allievo notava come il
positivismo si accingesse a dominare il clima nelle Università italiane e negli
studi filosofici e pedagogici, mentre l’idealismo era destinato a restare ai
margini del dibattito. Nel 1903, ricordando quel tornante storico, commentò: «Il
campo filosofico era in allora combattuto da due scuole di tutto punto opposte,
l’idealismo hegeliano, che andava declinando dal suo apogeo, ed il positivismo
anglo-francese, che si annunziava ristauratore sovrano della scienza e della
vita»232. In quegli anni, la scuola idealistica era viva quasi esclusivamente a
Napoli grazie a Spaventa e Vera. Allievo, peraltro docente in una sede dove
l’idealismo era quasi inesistente, si misurò criticamente soprattutto con i
positivisti. Come accennato, i lavori di critica all’idealismo si concentrano
in larga parte nelle opere giovanili, in particolare nei Saggi filosofici
(1866) ne L’hegelismo, la scienza e la vita, (1868) e nell’ Esame
dell’hegelismo (1897), un saggio più breve di quello precedente dove riprende
pressappoco le stesse tematiche. 229 Ibid., p. 9-10. 230 «In tutti questi
lavori la mente dell’ALLIEVO si presenta sempre nell’atteggiamento di chi,
incrollabilmente fermo e sicuro nelle proprie convinzioni maturate in uno
studio severo e diuturno, vede nell’avversario e nelle dottrine da lui
rappresentate un pericolo esiziale per la società e per la scuola, in cui esse
si diffondano. Onde non tanto Egli mira a penetrare ed esporre l’idea
dell’avversario nella sua genesi e nelle sue eventuali giustificazioni, quanto
a metterne in rilievo le deficienze o le contraddizioni o le inaccettabili
conseguenze» G. Vidari, Giuseppe Allievo, cit., p. 8. 231 G. Calò, Il pensiero
filosofico – pedagogico di Giuseppe Allievo, cit., p. 447. 232 G. Allievo, Il
ritorno al principio della personalità, Prolusione letta all’Università di
Torino il 18 novembre 1903, cit., p. 3. 66 Alcuni cenni polemici
contro l’idealismo sono presenti anche in altri testi, tra cui L’antropologia e
l’umanesimo (1868), Della vecchia e della nuova pedagogia (1873),
L’Antropologia ed il movimento filosofico sociale (1869); La pedagogia e lo
spirito del tempo, Il problema metafisico studiato nella storia della filosofia
(1877) Studi filosofici sul carattere delle nazioni (1878) Sulla personalità
(1878). Il testo in cui espone in modo più articolato le sue tesi contro
l’idealismo è L’hegelianismo la scienza e la vita, un lavoro giudicato da
Eugenio Garin «onestamente espositivo»233. L’opera fu scritta in occasione del
concorso Ravizza del 1865-1866, che chiedeva agli scrittori di cimentarsi con
questo tema: «Quali pratiche conseguenze derivino dall’idealismo assoluto di G.
Hegel nella morale, nel diritto, nella politica e nella religione?». Il testo,
che vinse il premio, fu poi rivisto e pubblicato. Nell’opera, l’Allievo delinea
l’origine dell’hegelismo, mettendo in luce l’humus kantiano da cui nacque
l’idealismo. Il pedagogista enuclea i passaggi che portarono dalle posizioni
del filosofo di Königsberg ad Hegel. Allievo ricorda come Kant fosse allora
considerato il nuovo «Socrate» per aver salvato la scienza dallo scetticismo,
mentre egli pensava che il kantismo fosse stato la «tomba» della scienza e
della filosofia234. L’errore di Kant fu quello di disconoscere il primo dato
filosofico, vale a dire l’evidenza dell’essere. Egli perpetuò quella torsione
prospettiva cartesiana che si piegò sull’affidabilità della ragione,
dimenticando lo stupore e l’attestazione del mondo. Allievo osserva che l’uomo
neanche penserebbe se non ci fosse quel «fuori». Così Kant aveva «condannato il
soggetto ad un perpetuo e violento celibato segregandolo dalla realtà
oggettiva»235. Osserva Allievo: «Scienza assoluta intorno il pensiero umano,
ignoranza assoluta intorno la realtà universale, ecco i due poli del Criticismo
di Kant, la finale risposta che egli diede alla sua prima domanda. Con questo
suo sistema originale Kant reputava di avere ricostrutto su salda base il
sapere speculativo, e quetati una volta i dissidii che da secoli sconvolgevano
il regno della metafisica: Ubi solitudinem faciunt (direbbe qui Tacito), pacem
appellant»236. Ma se lo scopo di Kant era quello di salvare la scienza, egli
superò lo scetticismo di Hume, in quanto non riuscì a riconoscere il senso e i
motivi della scienza metafisica. E ciò fu confermato dagli sviluppi successivi
della filosofia. Nei cinquant’anni trascorsi tra la pubblicazione della Critica
della Ragion Pura, 1781, e la morte di Hegel, 1831, la Germania visse un
radicale cambiamento culturale. Dallo scetticismo di Kant si arrivò attraverso
Fichte e Schelling, all’affermazione dell’idealismo 233 E. Garin, Tra due
secoli. Socialismo e filosofia in Italia dopo l’Unità, cit., p. 56. 234 G.
Allievo, L’Hegelismo e la scienza, la vita, cit., p. 22. 235 Ibid., p. 31. 236
Ibid., p. 29. 67 assoluto di Hegel, che secondo Allievo non fa
altro che trarre le nefande conseguenze di quel divorzio tra l’io e il mondo,
che se aveva portato Kant allo scetticismo, conduceva Fichte alla tesi dell’Io
assoluto, origine e creatore del mondo. Si trattò di una deriva di quelli che
chiamò in un altro testo i «trascendetalisti tedeschi», i quali «estendendo
fuor di misura il potere dell’io umano, lo posero creatore dell’essere e del
sapere, e finirono collo spogliarlo della soggettività ed individualità sua,
confondendolo col massimo degli universali»237. Nel saggio Allievo dedica
diversi capitoli a questi passaggi, concentrandosi dopo Kant, su Fichte e
Schelling. In ultimo affronta in modo analitico la figura e la filosofia di
Hegel, introducendo il suo pensiero con un’accurata esposizione della vita,
oltre che un’analisi degli apporti e delle influenze che ne condizionarono il
pensiero. Successivamente, ne enuclea il sistema filosofico, con un’analisi
articolata. Allievo parte dal concetto generale di filosofia, quindi affronta
il metodo dialettico, il concetto dell’Idea e il suo sviluppo nel Sistema. Poi
tratta della Logica, della filosofia della Natura e infine della filosofia
dello Spirito. In conclusione sintetizza i motivi della critica all’idealismo.
Il seguente brano compendia la critica di Allievo: «Il nome di Idealismo
assoluto con cui viene designata la dottrina di Hegel, ne rivela tutto lo
spirito e ne compendia il contenuto. Il suo sistema è tutto in queste due
parole: Idea assoluta, od in altri termini Idea e sviluppo, giacché l'essenza
dell'Assoluto è un esplicamento universale, un moto continuo e senza fine. Come
per Condillac tutto è sensazion trasformata, così per Hegel tutto è Idea
trasformante. L'idea essendo assoluta si fa tutte le cose, e con questo suo
diventare universale spiega successivamente tutto l'essere, perché
riproducendolo rivela le intime essenze delle singole cose, sicché l'Idea
assoluta si manifesta ad un tempo siccome il sistema della scienza e l'insieme
della realtà, identità universale delle idee e delle cose, del pensiero e
dell'essere. Datemi materia e moto, diceva Cartesio, ed io creerò l'universo.
Hegel pigliando in senso trascendentale il motto cartesiano avrebbe potuto
ripeterlo dicendo: Datemi Idea e sviluppo, ed io vi ridarò rifatta e spiegata
la realtà universale»238. L’identificazione dell’essere con l’idea conduceva
l’idealismo a numerose antinomie ed epicicli, elencati dall’Allievo. Il
pedagogista fa notare come Hegel, mentre tacciava di misticismo i realisti,
chiedeva un atto di fede nel riconoscimento dell’Io assoluto. In conclusione,
Allievo ripropone la ragionevolezza del realismo. Secondo il pedagogista
vercellese, il reale anticipa, sporge e supera il razionale. Una frase
dell’Amleto di 237 G. Allievo, Sulla personalità umana, cit., p. 18. 238 G.
Allievo, L’Hegelismo e la scienza, la vita, cit., p. 59. 68
Shakespeare è ripresa dall’Allievo come legge della filosofia, «v'hanno cose e
in cielo e in terra di cui le nostre filosofie non si sognano neppure»239. La
diaspora degli hegeliani e le numerose critiche fattegli dai suoi discepoli
evidenziano tanto il fascino della prospettiva hegeliana, quanto la sua
fragilità. L’errore cruciale dell’idealismo è la negazione della validità di
quella serie di evidenze e strumenti che l’uomo ha nel suo naturale rapporto
con il mondo: «il sistema dell’identità assoluta contraddice ai pronunciati
della coscienza e si oppone ai dati del senso comune e del sapere naturale;
dunque è insussistente»240. Per questa ragione, Allievo definisce Hegel come
uno «spietato Torquemada del senso comune»241. Il pedagogista riprende
l’analisi rosminiana e considera gli idealisti fondamentalmente degli scettici.
Osserva: «La scienza è la spiegazione razionale della realtà sussistente: ora
la realtà va anzitutto schiettamente osservata quale si presenta alla nostra
percezione, e non già indovinata a priori e ricercata attraverso le pieghe del
nostro cervello. Una teoria della realtà, costrutta col puro ragionamento e non
fondata sull’osservazione, non è scienza seria e verace, ma un tessuto di
astruserie, che potrà tutt’al più dimostrare la potenza immaginativa di chi
l’ha costrutta. L’idealismo trascendentale germanico de’ tempi nostri ha
sacrificato l’osservazione della realtà al puro ragionamento. Esso ha preso le
mosse dal concetto più astratto, a cui si possa giungere ragionando, e colla
virtù di quel concetto vuoto ed indeterminato pretese di costruire la realtà
universale»242. Prima Gentile243 e poi la Quarello244, criticarono all’Allievo
una conoscenza poco approfondita di Hegel. Se non si può considerare il
pedagogista vercellese tra i massimi studiosi di Hegel, dai suoi lavori emerge
un confronto nel merito con il cuore delle posizioni idealiste. Altri autori,
come il Suraci, parlarono dell’opere sull’Hegelismo come «una critica quanto
mai acuta e serrata»245. Anche per altre teorie, Allievo non bada ad una
erudizione pedante sulle vicende di una corrente, ma al cuore e al significato
delle sue principali direttrici filosofiche. Come è già stato accennato, dopo
alcuni lavori dedicati all’idealismo, Allievo diede largo spazio alla critica
del positivismo, che occupò gran parte della sua attenzione nella sua carriera
seguente. Il pedagogista si accorse della rapida diffusione del positivismo
nelle Università. Uno degli atenei in cui tali teorie presero piede e si
diffusero era proprio quello 239 Ibid., p. 143. 240 G. Allievo, Saggi
filosofici, cit., p. 6. 241 Ibid., p. 372. 242 G. Allievo, Antonio Rosmini,
cit., p. 33. 243 G. Gentile, Le origini della filosofia contemporanea in
Italia. I platonici, cit., p. 370. 244 V. Quarello, G. Allievo, Studio critico,
cit., pp. 128-129. 245 V. Suraci, Giuseppe Allievo filosofo e pedagogista,
cit., p. 84. 69 di Torino, che era stata sino a pochi anni prima
una roccaforte del rosminianesimo e dello spiritualismo cristiano. Come ha
ricordato Giorgio Chiosso: «Proprio a Torino la cultura positivista stava
compiendo il massimo sforzo con Moleschott, Lessona, Lombroso, Mosso per
tracciare una antropologia incentrata su esclusivi tratti fisio – psichici e
fortemente condizionata dalla cultura evoluzionista»246. Come ebbe a scrivere
Norberto Bobbio, Torino rappresentava sul finire dell’Ottocento «la citta più
positivista d’Italia»247. Allievo individuava come ragione della diffusione di
tale corrente un forte appoggio politico, che era diventato come abbiamo già
rilevato, il braccio ideologico dei gruppi anticlericali che spesso sedevano
nelle poltrone più importanti del neonato Stato italiano. Il pedagogista aveva
una chiara percezione di tale egemonia e non mancò di denunciarla. Scrisse a
proposito «Il partito iperdemocratico, che nei lontani sfondi della rivoluzione
italiana del 47 appena s’intravvede indistinto e sfumato, prese a poco a poco
forme più spiccate e concrete, e fattosi potente tende oggidì a tenere esso
solo il campo. Esso novera potenti ingegni fra i suoi numerosi seguaci, che ne
bandiscono i principii dalle cattedre universitarie, dalle tribune
parlamentari, dalle officine della pubblica stampa. La sua arma è la critica,
il suo dogma supremo è l’umanesimo sociale, ossia il naturalismo pagano
razionalizzato. E la critica, dacché fu inaugurato il Regno dell’Italia una, si
spiegò con forze maggiori che mai. Essa si pose ad abbattere il principio di
autorità nell’ordine del pensiero e della vita, a dissolvere le credenze morali
e religiose dell’universale, a minare le fondamenta di tutta la dommatica del
cristianesimo, a snaturare l’indole nativa e tradizionale della filosofia
italiana»248. Nonostante il peso del positivismo fosse riscontrabile già nei
citati dibattiti del ’47, fu solo con l’Unità che ai positivisti fu concesso
quello spazio privilegiato col quale poterono diffondere le loro teorie e avere
una inaspettata diffusione. Come denunciò Allievo: «Ai seguaci e promotori
della nuova scuola pedagogica il Governo prodiga la pienezza de’ suoi favori, e
sotto la potente sua egida assicura il trionfo»249. Se i capi scuola europei
del positivismo meritarono, da parte dell’Allievo, delle analisi approfondite e
alcuni, rari, apprezzamenti, la valutazione degli epigoni italiani fu molto
severa. Essi vennero ridotti al rango di semplici ripetitori di autori più
organici come Spencer, Comte, Bain. Allievo si limitò ad affrontarne in modo
sbrigativo la produzione positivistica italiana nel saggio La pedagogia
italiana antica e contemporanea (1901). In 246 G. Chiosso, L'interpretazione
rosminiana di Giuseppe Allievo, «Pedagogia e vita», n. 6, 1997, p. 152. 247 N.
Bobbio, Introduzione, in E. R. Papa (ed.), Il positivismo e la cultura
italiana, Milano, Angeli, 1985, p. 13. 248 G. Allievo, La pedagogia italiana
antica e contemporanea, cit., pp. 161-162. 249 Ibid., p. 168. 70
esse il pedagogista si lasciò andare a valutazione in parte ingenerose e
tranchant. Affrontò le teorie di Angiulli, Siciliani, Gabelli, e di altri
pedagogisti minori. Il primo è considerato il «principe» fra i cultori del
positivismo in Italia. Viene definito come un «pensatore robusto e profondo, ma
non originale»250 che ricalca fondamentalmente le posizioni di Spencer, e
dunque tutti i suoi errori. La riduzione spencieriana dell’uomo ad un animale,
mina le basi del pensiero di Angiulli: «Lottando contro la realtà dell’io, che
egli ha negato e che s’impone inesorabile al suo pensiero, si vede costretto a
ricorrere ad una novità di linguaggio, ad una dicitura attortigliata ed
involuta, ad un ritornello di espressioni stereotipate, che spargono una
nebulosa caligine sul tutt’insieme della sua dottrina»251. Un altro errore a
cui lo conduce la negazione del principio della personalità è la statolatria
nel campo dell’istruzione pubblica. Pietro Siciliani è invece accusato di
eclettismo e di aver mal combinato istanze inconciliabili, producendo un
sistema contradditorio e instabile. In una prelazione risalente al 1882,
rammentò il cambio di opinione sul positivismo, prima criticato e poi
elogiato252. Del sistema del Siciliani l’Allievo denunciò l’incapacità di
giustificare sui presupposti positivisti l’esistenza della libertà e i
fondamenti della morale. Negli Opuscoli lo accusa di trasformismo e scrive che
«muta di dosso i panni a tenor della moda»253. Stando ad Allievo, questa
«accozzaglia» di principi spuri condanna alla mediocrità la pedagogia del
Siciliani: «Egli non si afferma né spiritualista, né materialista, né
idealista, né ontologista, né trasformista, né positivista, e lascia capire che
vuol essere qualche cosa di più e di meglio di tutto ciò; ma non ci presenta un
principio superiore a tutti questi sistemi, che impronti il suo pensiero e lo
determini per quello che è»254. Si occupò anche di altri autori come Emanuele
Latino, Aristide Gabelli, Edoardo Fusco in cui rileva sostanzialmente gli
stessi errori di Siciliani e dell’Angiulli. Saluta invece con soddisfazione il
ritorno allo spiritualismo di Ausonio Franchi, al secolo Cristiano 250 Ibid.,
p. 169. 251 Ibid., p. 174. 252 Nel saggio cita direttamente le parole di
Siciliani e poi le commenta: «“Troppo scettici, noi Italiani abbiamo bisogno di
fede: troppo anneghittiti dal positivismo, abbiamo bisogno di sacro entusiasmo
nella scienza, nell’onestà, nell’onore, nei principii di giustizia,
nell’attività del lavoro, nell’autorità creata da noi stessi, nell’Italia.
Possiamo dunque accettare il Positivismo? No. Inteso come sistema, il
Positivismo è dottrina assolutamente negattiva, non ha storia, non ha
principii; è contrario allo spirito filosofico di nostra età, è dannevole nelle
sue applicazioni morali, estetiche, politiche, religiose, storiche. Nol
possiamo accettare come sistema, perché contrario alla nostra istoria, alla
mente dei nostri padri, all’indole nostra, al nostro genio, alle nostre
tendenze, contrario ai nostri bisogni fisici e intellettuali [in nota: P.
Siciliani, Critica del positivismo]”. Chi pubblicava or non è molto queste
righe contro il sistema positivistico, è quegli stesso, che oggi ha inalberato
il vessillo del positivismo dlla sua cattedra di pedagogia in una
celebratissima Università italiana, mutando dottrine con quella leggerezza
medesima, con cui altri muta di dosso i panni a tenor della moda» G. Allievo,
L’educazione e la scienza. Prelezione fatta all’Università di Torino il dì 18
novembre 1881, Torino, Marino, 1882, pp. 14-15. 253 G. Allievo, Opuscoli
pedagogici, cit., p. 122. 254 G. Allievo, La pedagogia italiana antica e
contemporanea, cit., p. 177. 71 Bonavino, di cui esalta le Lezioni
di pedagogia che viene indicato come un testo fondamentale per la pedagogia
spiritualista. Le considerazioni dell’Allievo restarono severe. Valuto le
teorie positiviste «disumane e liberticide»255. Inoltre avversò una certa
indifferenza degli epigoni di Comte che sembravano sordi agli appunti delle
altre correnti pedagogiche. In più d’una occasione Allievo lamentò la loro
indifferenza alle critiche, oltre alla poca onestà intellettuale256 Come già
accennato, i suoi studi si concentrarono soprattutto sui fondatori del
positivismo europeo: Comte, Spencer, e Bain. Le sue numerose opere dedicate a
questa corrente, rappresentano una prima sistematica reazione dello
spiritualismo italiano al positivismo europeo. Il lavoro più preciso e
sistematico su tale corrente è Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico
(1883), definito dalla «Civiltà Cattolica» come una «splendida e serrata
critica di questo sistema»257. Nella prelazione tenuta per l’anno accademico 1881-1882,
Allievo annunciò che durante il corso sarebbe sceso «nell’arringo a combattere
il positivismo riguardandolo siccome una larva ingannevole della scienza,
siccome un pericolo esiziale della pedagogica»258. Nel solco di quelle lezioni
pubblicò poi il lavoro. L’opera si divide in due parti principali: nella prima
tratta delle origini del positivismo e ne mette in discussione i fondamenti
filosofici, nella seconda critica le conseguenze pedagogiche ed educative.
Allievo identifica come causa prima del positivismo, la stessa dell’idealismo,
vale a dire la crisi della metafisica avvenuta con la modernità, che Kant sancì
nella Critica della ragion pura, sostenendo la sostanziale inconoscibilità del
non sperimentalmente. Il metodo scientifico si dogmatizzò, pretendendo di
estromettere dalla conoscenza e dalla vita privata e pubblica tutto ciò che non
è misurabile. Il positivismo si configurò come una nuova prospettiva
epistemologica, metodologica e antropologica, fondata sulla negazione di tutte
le conoscenze non verificabili sperimentalmente. In questo senso, si oppone a
qualsiasi 255 G. Allievo, Delle idee pedagogiche presso i greci, cit., p. I.
256 Nel saggio su La scuola educativa, Allievo riporta una critica fattagli da
Fornelli che nel testo La pedagogia e l’insegnamento classico, accusò il
professore vercellese di aver travisato le posizioni di Comte. Dopo essersi
difeso, critica anche una evidente storture delle sue posizioni, avendolo
assimilato all’idealismo: «Ma il più grosso abbaglio del mio critico è questo:
io non sono punto quell’idealista, che egli s’immagina mostrando di non aver
letti i miei lavori filosofici, o di averne frainteso il significato malgrado
la loro conveniente chiarezza. Mi additi un solo passo, da cui risulti che io
ripongo le origini prime del pensiero in concetti astrattissimi, anteriori e
superiori ad ogni realtà concreta e sussistente, ed io mi do’ per vinto» G.
Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle
scuole normali maschili e femminili, cit., p. 218. 257 Linee di pedagogia
moderna, «La Civiltà Cattolica», quaderno 1565, 1915, vol. III, p. 542. 258 G.
Allievo, L’educazione e la scienza. Prelezione fatta all’Università di Torino
il dì 18 novembre 1881, cit., p. 15. 72 considerazione metafisica,
di cui è «la sua negazione assoluta ed esclusiva»259. In questo rifiuto
consiste, per il pedagogista vercellese, anche «il carattere direi negativo del
positivismo»260. Va tenuto conto, che Allievo riconosce l’apporto positivo
delle scienze sperimentali e della metodologia scientifica. Senza alcun timore
verso gli esiti della ricerca empirica, il pedagogista attribuisce alla scienza
(non al positivismo) il merito di aver accresciuto notevolmente la conoscenza
del mondo e il benessere materiale. Tuttavia, Allievo individua proprio
nell’euforia per gli esiti della tecnologia la presunzione di certo
positivismo. Galvanizzata dalle scoperte scientifiche: «esaltò l’esperienza
sensibile siccome l’unica e suprema ed assoluta fonte di tutto lo scibile umano,
rigettò tra le illusioni tutto ciò, che trascende i suoi confini, assegnò unico
oggetto della scienza i fenomeni disgiunti dalle sostanze e respinse la ragione
siccome facoltà trascendente che contempla la sostanzialità delle cose»261.
Allievo ricorda come il metodo sperimentale non possa racchiudere tutto il
campo dello scibile, pena l’esclusione di ambiti conoscitivi fondamentali per
la vita umana. Rivolgendosi ai positivisti Allievo scrive: «No, la mente umana
non può fermarsi ai confini dell’esperienza, come alle colonne di Ercole: i
grandi problemi dell’esistenza, soffocati dalla vostra dottrina, risorgono
davanti alla ragione e le si impongono irremovibili. Voi non riuscirete mai a
cancellare dalla coscienza del genere umano questo indestruttibile sentimento,
che noi non siamo sfuggevoli fenomeni, quasi ombre erranti alla ventura nel
deserto, bensì persone vive, forniti di una ragione che trascende la cerchia
dell’esperienza sensibile e si innalza alle supreme idealità della vita. Gli
ingegnosi apparecchi meccanici, di cui avete forniti i vostri laboratori di
psicologia sperimentale, potranno procacciarsi nuove ed interessanti notizie
intorno la vita sensitiva dell’uomo esteriore, ma non ci sapranno dir nulla
intorno i misteri dell’anima, il secreto lavorio della sua vita intima, le sue
sublimi aspirazioni»262. La scienza esatta e sperimentale non può esaurire
tutto il campo della conoscenza dell’uomo. Inoltre, secondo Allievo,
l’esautorazione della metafisica dal campo dello scibile danneggia la stessa
scienza. Essa, infatti, nasce da domande metafisiche, si nutre di concetti e di
una logica che non può essere rinvenuta nella esperienza materiale, ma solo in
quella spirituale. L’antimetafisica getta il positivismo in un paradosso: lo
scientismo, 259 G. Allievo, Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico,
cit., p. 13. 260 Ibid., p. 10. 261 G. Allievo, Il ritorno al principio della
personalità, Prolusione letta all’Università di Torino il 18 novembre 1903,
cit., p. 14. 262 Ibid., pp. 14-15. 73 infatti, nega le premesse
della scienza. Con l’affermazione «non esistono che fatti» si esprime un
giudizio generale e veritativo sul mondo, portando avanti un discorso
propriamente metafisico. Scrive Allievo: «Dicono infine che, seguendo la dottrina
evoluzionistica, le teorie non sono più campate in aria quali sono foggiate
dall’apriorismo, ma riescono l’interpretazione oggettiva dei fatti. Sta bene: i
fatti vanno adunque interpretati; ma con quale criterio? Certamente con qualche
concetto o principio ideale, superiore ai fatti stessi, perché questi per sé
sono lettera morta, bisognevole dello spirito, che la vivifichi e la illustri.
Eccon quindi chiarita l’insufficienza dell’esperienza alla formazione della
psicologia e della pedagogia»263. Il positivismo si autodefinisce teoria delle
scienze positive, ma secondo Allievo, la costruzione di un sistema filosofico
accede già ad una dimensione della riflessione che travalica i confini
dell’esperienza empirica. Si tratta di una «astrazione» che si serve della
logica, del giudizio, dell’argomento. In questo senso, se i positivisti
volessero essere coerenti con le loro posizioni, dovrebbero «liberarsi da
concetti «metafisici» come quelli di causalità, identità, o di non
contraddizione. In questo senso, per il pedagogista vercellese, l’assoluta
antimetafisica del positivismo, si traduce in un suicidio della scienza stessa:
«Dacchè dunque l’antropologia studia l’uomo pensante, il quale sovrasta alla
materia e possiede in sé i principi ideali necessarii alla costruzione del
sapere, consegue che essa è lo spirito informatore delle discipline positive e
naturali, e che il naturalismo, che la impugna, distrugge le stesse scienze
della natura e contraddicendo a se medesimo fa della metafisica col proclamare
che la materia è l’essenza universale di tutto, che è infinita, eterna, mentre
tutto questo trascende i limiti dell’esperienza e dell’osservazione
sensibile»264. Allievo giudica la posizione gnoseologica dei positivisti
fondamentalmente scettica, in quanto le loro premesse conducono all’inevitabile
dissoluzione della conoscenza: «Una critica priva di principii universali ed
assoluti, che la rischiarino, è una critica, che pretende di essere fine a se
stessa, anziché mezzo potente per giungere al Vero, ossia è criticismo scettico.
Il positivismo contemporaneo ha menato un gran guasto nel campo della critica
odierna, la quale è insorta a dissolvere e disfare quelle medesime verità
universali, che è tenuta a rispettare siccome fondamento della sua
esistenza»265. A proposito di tali nefande conseguenze, Allievo ebbe modo di
criticare il Romagnosi, che vicino a posizioni simili 263 G. Allievo, Gli
evoluzionisti e il metodo in pedagogia, «Rivista Pedagogica Italiana», Asti,
1897, vol. I, pp. 305-306. 264 G. Allievo, L’uomo e la natura, cit., p. 17. 265
G. Allievo, Delle dottrine pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina Necker
di Saussure, Francesco Naville e Gregorio Girard, cit., p. 9. 74
sosteneva che è sano solo colui che la pensa come la maggior parte dei suoi
concittadini, non avendo più un riferimento metafisico su cui fondare la
validità delle posizioni266. Inoltre il materialismo non può che portare ad una
confusione nella scienza, in quanto se la conoscenza è un prodotto necessario
dell’esperienza personale, e nasce da questa in modo spontaneo e
incontrollabile, perde di significato la valutazione delle teorie che non sono
né vere né false, ma unicamente frutto della determinazione. Scrive a
proposito: «Ora se il pensiero è sempre di necessità quale lo forma
l’esperienza, ossia quale lo esige la condizione fisiologica, in cui versiamo,
allora cessa ogni distinzione tra un vero ed un falso pensiero, e così il
pensiero a priori, o sarà vero anch’esso, oppure dovrebbe negarsene
l’esistenza, siccome di un fatto impossibile, mentre l’evoluzionista lo piglia
ad oggetto della sua critica»267. Invece l’esistenza della scienza conferma la
presenza di una natura non materiale nell’uomo, solo la persona ha coscienza
del mondo e cerca la verità. Un altro nodo insolubile per il positivismo è
l’esistenza della libertà. La scienza esatta, come ha insegnato Kant, non può
attestare la sua esistenza, e il materialismo e determinismo di certi
positivisti la negano. Se l’uomo non è più libero, si chiede Allievo, come lo
potrà essere la scienza? Inoltre ad Allievo pare pretestuoso l’uso della
scienza contro la metafisica e la religione. Le scienze naturali «anziché
escludere di loro natura la metafisica, rinvengono in questa sola la loro
suprema ragione, sì che non lasciano più luogo alla filosofia positiva.
Infatti, un fisico, un chimico, un astronomo, può ammettere i pronunciati del
teismo e dello spiritualismo, senza punto rinunciare ad un solo dei teoremi
della propria scienza (valga l’esempio di Newton, del Galilei, del Padre
Secchi, del Pasteur)»268. Un'altra «vittima» del positivismo è l’antropologia,
che da tale corrente viene snaturata. La negazione della metafisica ha notevoli
ripercussioni sulla scienza dell’uomo, poiché getta nell’indecifrabile la sua
essenza personale. Il positivista non può conoscere la vera essenza dell’uomo,
in quanto la persona non può essere raggiunta e compresa nell’esprit del
finesse. Scrive Allievo «Colla loro antropometria non giungeranno mai a
misurare le profondità dell’anima, a scandagliare gli immensi problemi, che si
agitano nelle intimità dello spirito umano»269. La persona non è rilevabile
nell’esperienza come se fosse un fenomeno fisico, è riscontrabile solo nella
riflessione oltre il sensibile. Occorre, stando ad Allievo, sollevarsi dal
fatto, per constatare l’Io: «Il positivista vuol fatti, nient’altro che fatti,
né vuol saperne di esseri individui, di sostanze permanenti. Ma il factum (e
chi nol 266 G. Allievo, Studi psicofisiologici, cit., p. 29. 267 G. Allievo,
Gli evoluzionisti e il metodo in pedagogia, cit., pp. 304-305. 268 G. Allievo,
Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, cit., p. 16. 269 G. Allievo, Lo
spirito e la materia nell’universo, l’anima e il corpo nell’uomo, cit., p.
6. 75 sa?) è un sostantivo verbale derivante dal verbo facere, è un
participio che presuppone l’ego facio, tu facis, ille facit: importa l’essere,
che fa, il soggetto operante, e rompe in una contraddizione il positivista
separando l’un termine dall’altro»270. Ma tale agnosticismo si trasformò presto
in una negazione. Infatti, per i positivisti, «L’uomo non è una sintesi vivente
di due sostanze, spirito e corpo essenzialmente distinte, eppur composte ad
unità di persona, bensì un complesso di fenomeni fisiologici e psicologici,
diversi di grado soltanto, ma non di essenza da quelli animali»271. Osserva nei
già citati Opuscoli pedagogici: «Negli intimi recessi dell’anima, dove non
penetra coltello di anatomico, dove non giunge lente microscopica di fisiologo
e naturalista, si nascondono secreti che accennano all’Infinito, si destano
aspirazioni, che vengono dall’alto e nell’alto ritornano. Quei secreti, quelle
aspirazioni il positivista riguarda quali vani fantasmi, e lo spirito umano
quale un fantasma multiforme errante fuori del mondo della realtà. Duri tempi
per questi tempi»272. Così la prospettiva epistemologica dei positivisti mette
in discussione la scienza dell’uomo e sfigura la persona. Osserva Allievo: «il
sistema antropologico dei materialisti non è la scienza nuova, che cerchiamo,
ma la negazione della scienza»273. La loro antropologia risulta dunque un
grande «equivoco»274. Per questo chi approccia l’antropologia positivistica è
«trascinato entro una selva intricata di osservazioni senza un’idea suprema
dominante, che lo sorregga e le dia unità, anima e vita a quel tritume di
particolari»275. Il miglior esponente di questa prospettiva è Spencer che
enuclea tali concetti nel Primi Prinicipii, così commentati dall’Allievo: «Per
quantunque la credenza nella realtà dello spirito individuale sia inevitabile,
e benché sia riaffermata non solo dall’unanime consenso del genere umano, ed
adottata da tanti filosofi, ma ben anco dal suicidio dell’argomento scettico,
pur tuttavia non può venire per nulla giustificata dalla ragione: havvi ancora
di più; allorquando la ragione è messa alle strette di pronunciare un giudizio
formale, essa condanna tale credenza... di guisa che la personalità di ciascuno
ha coscienza, e la cui esistenza è da tutti avuta per un fatto certissimo sopra
ogni altro, è tal cosa che non può in veruna guisa essere conosciuta; la
conoscenza della personalità è vietata dalla natura medesima del pensiero»276.
270 G. Allievo, Delle idee pedagogiche presso i greci, cit., p. 87. 271 G.
Allievo, Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, cit., p. 243. 272 G.
Allievo, Studi pedagogici, cit., p. 13. 273 G. Allievo, Della vecchia e della
nuova antropologia di fronte alla società, cit., p. 13. 274 Ibid., p. 12. 275
G. Allievo, La pedagogia italiana antica e contemporanea, cit., p. 58. 276 G.
Allievo, Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, cit., p. 315.
76 Il filosofo britannico non può che giungere ad un riduzionismo
antropologico. Scrive ancora Allievo: «Lo Spencer fa sua (né vi ha di che
stupirne) l’osservazione di uno scrittore, che cioè a riuscire nella vita
occorre primamente essere un buon animale»277. Tale prospettiva è inaccettabile
per l’Allievo, secondo cui l’uomo è strutturalmente differente dal resto della
natura: «L’umano soggetto, insino dal primissimo istante della sua mortale
esistenza, è non solo di grado, ma di specie differente dal bruto, perché la
mente, ossia l’anima razionale, che lo costituisce uomo, ei la possiede per
natura, e non l’acquista punto col tempo, non la vede allo sviluppo progressivo
dell’organismo corporeo. Questo giustissimo concetto pitagorico, che tanto bene
risponde al sentimento naturale della dignità umana, sta diametralmente opposto
alla moderna dottrina del positivismo evoluzionistico, il quale sentenzia che
nel neonato l’animalità si viene a poco a poco trasformando in unità in virtù
delle leggi fisiologiche dell’organismo animale, il quale, mentre nella prima
infanzia della vita si manifesta mercé le sole funzioni inferiori del senso
fisico e del cieco istinto, proseguendo nel suo sviluppamento, acquista la
virtù di esercitare esso stesso la facoltà superiore dell’intendere, del
ragionare e del volere, sicché la mente, lo spirito, l’anima razionale, che
tanto ci sublima e ci differenzia dal bruto, non sarebbe già una sostanza
diversa dall’organismo corporeo, bensì rimarrebbe pur sempre in fondo
l’animalità stessa che funziona sott’altra forma più elevata»278. L’uomo è
ontologicamente differente rispetto al resto della natura. Il positivismo al
contrario «afferma che l’io umano non è un’energia vivente, un’attività libera
e conscia della sua personalità sostanziale, bensì un mero complesso di
fenomeni che non appartengono a nessuno»279. Queste posizioni antropologiche,
denuncia Allievo, portano ad inevitabili corollari pedagogici: «ai giorni
nostri e nella nostra Italia in fatto di pubblica educazione si trascorre agli
estremi, sicché questa gran legge dell’armonia rimane offesa. All’educazione
fisica si attribuisce una importanza esorbitante, e assai più di quanto le
convenga ed in suo servizio si lavora in tutti i rami ed in tutte le guise,
mentre la formazione del carattere che è di tutta l’umana educazione la parte
più nobile e più prestante, giace pressoché dimenticata e negletta. Lo Spencer
esaltando sopra misura la cultura dell’organismo corporeo ha asserito che
l’uomo debb’essere anzi tutto e soprattutto un buon animale, ma ha dimenticato
che si può essere un buon animale ed un pessimo soggetto ad un tempo»280. 277
Ibid., p. 322. 278 G. Allievo, Delle idee pedagogiche presso i greci, cit., pp.
28-29. 279 G. Allievo, Opuscoli pedagogici, cit., pp. 5-6. 280 G. Allievo,
Principi fondamentali di Scienza Pedagogica, cit., p. 680. 77
Invece la persona è quella briciola dell’Universo che appartiene a se stessa, e
a ciò deve essere educata. La persona sente, capisce e vuole. La riduzione
dell’uomo ad animale compromette la morale, e cioè l’immanenza dei criteri di
bene e di male e la responsabilità personale. Allievo individua le conclusioni
di queste premesse nell’opera di Spencer, il quale negando la libertà, «nella
sua psicologia riguarda la volontà quale una evoluzione dell’istinto fisico ed
assoggetta perciò l’opera umana ad un fatale e necessario determinismo, in cui
i fenomeni psichici si succedono gli uni agli altri con un intreccio
indissolubile. Torna quindi inutile, anzi contrario a ragione, il pronunciare,
che siamo moralmente tenuti a compiere le azioni per noi vantaggiose ed
astenerci dalle dannose se esse non dipendono dal nostro libero volere, ma sono
per insuperabile necessità predeterminate le une alle altre»281. Si tratta di
una posizione con nefandi corollari morali e pedagogiche. «Rigettando la
libertà – infatti - viene per ciò stesso a mancare ogni ragione di
responsabilità morale, in quella guisa che, rovesciato un principio, cadono
tutte le conseguenze sue»282. Si tratta di una corollario spesso negato dai
positivisti. Allievo ben evidenzia questa contraddizione e osserva «parlano
della necessità imperiosa di formare il carattere dell’alunno, di promuovere lo
sviluppo spontaneo della sua attività mentale, di educarlo alla libertà di
pensiero; ma in tal caso la logica li costringe ad accogliere il concetto
filosofico dell’uomo, da cui discendono tutte queste conseguenze pedagogiche, e
rigettare il concetto antropologico positivistico da cui fioriscono conseguenze
pedagogiche diametralmente opposte»283. Si tratta di un’aporia che emerge con
chiarezza nella «retorica» sull’autodidattica284. Privato della libertà e del
fine, l’uomo si rifugia nell’accidia: «Vivere adunque alla giornata secondochè
porta il caso fino a che venga l’unus interitus hominum et iumentorum, ecco
l’unica morale a cui possa logicamente far luogo il positivismo»285. Allievo
critica ancora lo Spencer quando nella sua Educazione morale, intellettuale e
fisica riduce la morale a «conservazione propria diretta», una considerazione
che se è 281 G. Allievo, Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, cit.,
p. 309. 282 Ibid., p. 109. 283 G. Allievo, La nuova scuola pedagogica ed i suoi
pronunciamenti, cit., p. 5. 284 Scrive sull’argomento: «I propugnatori della
nuova scuola positivistica vanno proclamando la somma importanza
dell’autodidattica e dell’educazione del carattere, e se ne fanno banditori
come di una loro scoperta; ma con ciò non si avvedono, che danno una smentita
alla loro dottrina, la quale facendo dell’io umano un mero fenomeno senza
sostanza, e rigettando fra le illusioni la libertà dello spirito, toglie di
mezzo quella personalità, per cui l’alunno colla sua interiore energia
conquista le conoscenze e vi attinge la fermezza incrollabile del volere» G.
Allievo, Il ritorno al principio della personalità, Prolusione letta
all’Università di Torino il 18 novembre 1903, cit., p. 13. 285 G.
Allievo, Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, cit., p. 262. 78
spiegabile col suo darwinismo non è accettabile ai fini di una convivenza e di
una prassi educativa. La vita diviene adattamento e sopravvivenza. Senza un
fine ultimo non può esistere educazione, ma solo adattamento, e cioè in qualche
modo abbruttimento e alienazione. Il positivismo è la negazione della vera
educazione e «non ha ragione di usurpare il posto della scienza, così
compromette fatalmente le sorti dell’educazione umana»286. In questo senso, non
sconsacra solo la fede e la metafisica, ma anche la vita umana, la fiducia,
l’amore, la morale, gli ideali. La nuova antropologia dei positivisti ha
conseguenze nefaste sull’educazione. Negato il principio della personalità e il
valore della libertà, l’educazione è declassata ad adattamento. Il fine della
formazione si riduce all’ «allevamento» di un buon animale, il suo unico
interesse e scopo dovrà essere quello di collaborare al benessere dell’Umanità.
Nella prospettiva positivistica perde di significato quella formazione del
carattere, della volontà, e di emancipazione dalle funzioni biologiche, in cui
risiede secondo Allievo lo scopo dell’educazione umana. Anche l’istruzione,
come contesta Allievo al Bain, è ridotta a comunicazione di nozioni, sempre
funzionali alla produzione o alle condizioni sociali, e senza nessun
riferimento all’educazione, agli ideali, ai valori. Non si bada più alla
formazione del carattere, ma alle capacità cognitive, privandole però del fine
e della direzione. L’educazione cessa di essere esortazione per divenire
condizionamento. Il suo senso nella pedagogia positivistica viene svilito in
quanto «manca il pensare grandioso, elevato, che raccoglie una molteplicità
svariatissima di idee particolari in una potente ed organica unità; manca quel
soffio di idealità, che innalza lo spirito dell’educatore al sentimento del suo
arduo e sublime magistero»287. Oltre all’idea di libertà, di morale, e di
educazione sono le stesse scienze umane che vengono ribaltate sulla base dei
principi antimetafisici, materialisti e naturalisti. Allievo denuncia che «Le
scienze della natura hanno usurpato il posto delle scienze dello spirito: la
psicologia, la morale, la filosofia in genere non hanno più una esistenza loro
propria e distinta, ma sono trasformate in altrettanti rami delle scienze
naturali»288. La pedagogia vede messi in discussioni i suoi principi
fondamentali: «Una scienza pedagogica senza verità universali e necessarie,
un’educazione senza ideale, ecco le conseguenze, che derivano dal principio,
che l’esperienza è la norma unica e suprema della disciplina pedagogica»289.
286 G. Allievo, La pedagogia italiana antica e contemporanea, cit., p. 183. 287
G. Allievo, La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, cit., p. 27.
288 G. Allievo, Lo spirito e la materia nell’universo, l’anima e il corpo nell’uomo,
cit., p. 4. 289 G. Allievo, La nuova scuola pedagogica ed i suoi
pronunciamenti, cit., p. 8. 79 Il primo dato necessario alla
pedagogia che il positivismo confonde è la natura non materiale della persona:
«La nuova scuola, mentre proclama di non voler accogliere nella cerchia della
scienza altro che fatti, inconseguente a se medesima rinnega alcuni fatti di
singolarissima importanza. Giacché è un fatto irrepugnabile, che l’educatore e
l’alunno, l’uno di fronte all’altro, sentono di essere non già meri fenomeni
insieme implicati, bensì due persone vive e reali, che hanno ciascuna affetti,
intendimenti e voleri suoi propri, ed affermano la loro individualità col
vocabolo io; sentono di essere attività libere, consapevoli di sé, arbitre del
proprio operare. Ora la nuova scuola proclama illusorii questi due solennissimi
fatti, che sono il fondamento primo dell’opera educativa». L’antimetafisica
mette in discussione un altro elemento necessario per la pedagogia, vale a dire
l’evidenza che «L’uomo è un soggetto educabile. Questo concetto semplicissimo
ed elementare trascende la sfera dell’esperienza»290, e non può dunque essere
incastonato nell’architettura positivista. La persona inoltre ha bisogno di un
ideale, di un fine a cui piegare la sua esistenza. «Senza ideale non si vive da
uomo, non si vive personalmente; e l’ideale vero non ci viene da una scuola, la
quale insegni che la vita umana si risolve tutta quanta in un gabinetto di
fisiologia, non ci viene dalla nuda esperienza. Essa mi dirà quello che io sono
di fatto, o integro o corrotto che io mi sia; l’ideale invece mi rivela quello
che io debbo essere; quello dell’esperienza è l’ideale del momento che passa,
del punto che scompare; il vero ideale abbraccia l’universalità del tempo e
dello spazio»291. In un altro saggio osserva: «L’esperienza mi dice quello, che
è di fatto, non quel che debb’essere; mi apprende cioè che l’uomo viene
realmente educato, ma non già che lo debba essere; è dessa la ragione, che
muovendo dal concetto della persona umana ne argomenta che l’educazione le è
necessaria ed essenziale. Così la sola esperienza non vale a somministrarci la
verità universale e necessaria dell’educabilità»292 L’educazione ha bisogno di
un ideale. Questo brano sintetizza chiaramente i concetti suaccennati: «Che se
il soggetto educando de’ positivisti, conscia ed arbitra di sé e cagione
efficiente degli atti suoi, è niente più che una mera successione de’ fenomeni,
i quali non appartengono a nessuno, ognun vede, 1° che voi farete del vostro
alunno non già una libera individualità, che pensi da sé e si regga per virtù
interiore, bensì un meccanismo di fenomeni insieme raccostati dalla forza
dell’abitudine; 2° che la santità del dovere è sfatata e l’educazione morale
torna impossibile, perché i fenomeni passano senza lasciar traccia di sé, e le
nostre risoluzioni 290 Ibid., p. 6. 291 G. Allievo, Il ritorno al principio
della personalità, Prolusione letta all’Università di Torino il 18 novembre
1903, cit., p. 15. 292 G. Allievo, La nuova scuola pedagogica ed i suoi
pronunciamenti, cit., p. 6. 80 volontarie sarebbero una risultante di
fenomeni ossia di forze meccaniche cooperanti; 3° che anch’essa l’educazione
religiosa non ha più ragione di essere, perché il positivismo è la negazione
della metafisica, come scienza dell’Essere assoluto, e la negazione della
religione, come amore intelligente ed operoso dell’Essere divino»293. La
pedagogia positivista viene inoltre criticata in quanto si fregia di aver
portato fondamentali novità per la pratica educativa. Allievo chiarisce che: «I
positivisti s’immaginano di avere dato alla scienza dell’uomo e della sua
educazione un impulso affatto nuovo e potente, di averle impresso il suo vero
indirizzo, di averla ricostruita sulle sue giuste fondamenta come se tutti i
grandi pensatori, che meditarono prima di essi intorno a queste due discipline,
avessero brancolato alla cieca; e tutta la riforma, della quale vanno altieri,
sta nell’aver circoscritto tutto il compito dell’antropologia e della pedagogia
allo studio de’ fatti umani ed alla ricerca delle loro leggi, indipendentemente
da ogni considerazione relativa alla sostanzialità del me, in cui essi fatti
hanno il loro comune principio, il loro punto centrale ed armonizzatore»294. Ne
La nuova scuola pedagogica analizza le novità che i positivisti si prendono il
merito di aver apportato alla pedagogia: metodo intuitivo, autodidattica e
adattamento. Allievo fa notare come siano tutte intuizioni e nozioni assai note
prima della nascita del positivismo e prima ancora della comparsa della
pedagogia. Per quanto riguarda le scienze umane, Allievo contesta la
trasformazione positivistica della psicologia in una branca della fisiologia.
Tale critica è legata alla battaglia per la difesa della personalità umana e
della sua libertà. Ciò che Allievo intendeva difendere era l’idea che i fatti
psicologici non fossero solo fisici, ma fondamentalmente spirituali. Il mentale
non può essere trattato come il biologico, per cui l’oggetto della psicologia
deve essere l’io sostanziale e non la sua espressione fisiologica o fenomenica.
Per tale motivo la psicologia deve seguire, a detta di Allievo, un metodo
filosofico e non scientifico, con cui invece si può indagare l’uomo da un punto
di vista anatomico o fisiologico. Così per l’Allievo «la psicologia è quella
parte di filosofia, che ha per oggetto l’anima umana studiata ne’ suoi fenomeni
e nel suo essere sostanziale mediante la coscienza perfezionata dalla
riflessione al ragionamento»295. Tale concezione deve essere contestualizzata
in un periodo in cui la scienza italiana era parecchio lontana dagli approcci e
dai risultati dei laboratori psicologici svizzeri, tedeschi e francesi. Questa
difesa del collocamento della psicologia nella filosofia da quanti la volevano
ridotta a pura fisiologia, nacque dalla paura 293 G. Allievo, Del positivismo
in sé e nell’ordine pedagogico, cit., p. 409. 294 G. Allievo, Delle idee
pedagogiche presso i greci, cit., p. 87. 295 G. Allievo, Appunti di
Antropologia e Psicologia, cit., p. 24. 81 che tale prospettiva
avallasse la riduzione dell’essere umano a un mero meccanismo biologico.
Occorre inoltre far notare che Allievo tenne in grande considerazione le
scienze sperimentali, anche se denunciò l’alto rischio dello scadimento della
scienza in scientismo. Osserva «Non vi è amatore del vero sapere, che non
riconosca e non ammiri i grandi progressi fatti dalle scienze naturali, e lo
splendido avvenire, a cui sono chiamate, proseguendo per la retta via
dell’osservazione sincera e compiuta dei fatti fisici, fecondata da una lenta e
prudente induzione verificata mediante la prova e riprova di ben condotto
esperimento. Questo successo e sicuro progredire del pensiero nella scoperta
delle leggi e delle forze della natura avvantaggia le sorti dell’umanità e
conferisce potentemente alla civiltà ed al perfezionamento sociale, essendochè
l’uomo la fa sua rivolgendola al compimento del suo ideale. Se non che mentre
per una parte il progresso delle scienze naturali conforta l’animo di liete
speranze, per l’altra si nota con rincrescimento la tendenza di alcuni illustri
ingegneri contemporanei a trascendere i confini proprii di esse scienze e
riguardarle siccome la vera e sola scienza, a cui tutte le altre vanno
sacrificate, come se in esse sole fosse incarnato lo spirito scientifico»296. Appare
dunque poco fondato l’appunto mosso dalla Bertoni Jovine all’Allievo, che
criticò al vercellese una presunta ostilità nei confronti della scienza e del
suo valore educativo. Secondo la studiosa emiliana, per Allievo: «Tutte le
scienze che si valgano di questo metodo e che inducono l’educando
all’osservazione spregiudicata dei fatti storici e naturali sono dunque scienze
diseducative o quanto meno non-educative, se per “educative” s’intendono
soltanto le suggestioni che rafforzano la fede»297. In un lavoro successivo
provò a giustificare la supposta contrarietà all’insegnamento della scienza,
con l’esigenza di difendere il «dogmatismo» in funzione dell’ostruzionismo al
progresso sociale e civile298. 296 G. Allievo, L’uomo e la natura, cit., pp.
12-13. 297 D. Bertoni Jovine, Storia della scuola popolare in Italia, Torino,
Einaudi, 1954, p. 387. 298 «Ad ogni modo, pur attraverso una prosa gonfia e
nello stesso tempo reticente, è opportuno districare il filo delle
argomentazioni del pedagogista torinese. Il punto sostanziale della sua
polemica è la critica del valore educativo della scienza. La scuola moderna si
fa un feticcio della scienza sottovalutando altri elementi formativi dello
spirito umano. Ma di quale scienza parla Allievo? Lo chiarirà in una nota
inviata alla Reale Accademia di Scienze di Torino. Si tratta soprattutto si
quel complesso di problemi e di studi che si raggruppa sotto il nome di
“sociologia” e che interessa tutti i problemi della vita moderna, compresi
quelli educativi. Egli non avrebbe probabilmente trovato tanto rivoluzionarie
le teorie del positivismo, dello scientificismo, dello storicismo, se tutte
insieme queste nuove teorie non avessero giusitificata l’esigenza di dare un
nuovo sviluppo e un nuovo orientamento alla scuola; se in altri settori della
vita pubblica quell’esigenza non si fosse collegata con necessità fatte
sull’analfabetismo non avessero messo l’accento sull’influsso che una struttura
economica arretrata aveva sulla scarsa efficienza della scuola. In questo legame
l’Allievo trova il punto più pericoloso delle nuove dottrine pedagogiche che
segnavano il tramonto di quello spiritualismo al quale egli si richiamava con
nostalgia. Ad esse attribuisce il fallimento scolastico italiano, richiamando
gli educatori ad una maggiore prudenza nell’accettare quel metodo positivistico
che 82 Nel testo Studi Psico fisiologici (1896) riprese diverse
scoperte fatte in ambito sperimentale e ne valorizzò i meriti e la valenza
pedagogica. In più d’una occasione dovette difenderne l’importanza per la
pedagogia da quanti, come gli idealisti, ne contestavano il senso e
l’utilità299. Tale avvicinamento alla psicologia sperimentale gli costò la
critica dell’idealista Santamaria Formiggini che avversando l’ilemorifismo
dell’Allievo vide nell’apertura alla psicologia sperimentale un tradimento
della realtà spirituale:300 D’altra parte pare chiaramente inesatto il giudizio
di Vidari che fa dell’Allievo un osteggiatore della psicologia, sostenendo che
il principio della personalità è «anti-sperimentalista» e «anti –
sociologico»301. Invece l’armonia tra il materiale e lo spirituale, il loro
“accordo”, era proprio ciò a cui Allievo puntava. Le due discipline, psicologia
e fisiologia, non dovevano essere confuse ma ben distinte nel comune studio sull’uomo.
Scrive a proposito: «La psicologia si trova in intimo contatto colla
fisiologia, ma ciascuna di queste due scienze va distinta dall’altra, perché la
prima ha per oggetto suo proprio la mente co’ suoi fenomeni psichici, la
seconda l’organismo corporeo colle sue funzioni vitali; e tuttavia sono unite
insieme da quel medesimo vincolo, che congiunge nell’uomo l’anima razionale ed
il corpo organico, e così unite costituiscono l’antropologia»302. A causa di
ciò Allievo non può essere considerato come un nemico della psicologia
sperimentale, ma contro quella che esclude la «natura personale» nell’uomo. La
critica del positivismo e del materialismo è connessa a quella
sull’evoluzionismo. Allievo fa notare come il darwinismo non sia una necessaria
conseguenza del positivismo, ciò è confermato dal fatto che non fosse condivisa
da autori come Auguste Comte o Stuart Mill. Nella Nuova scuola pedagogica
(1905) Allievo osserva: «La nuova scuola pedagogica annovera nel suo seno
alcuni seguaci dell’evoluzionismo darviniano, i quali accusano la distruggerà
il metodo dogmatico [in nota: G. Allievo, L’indirizzo storico e sociologico
della pedagogia contemporanea, Torino, 1908]. Tutte le scienze che si valgono
di questo metodo e che inducono il fanciullo all’osservazione spregiudicata dei
fatti storici e naturali sono dunque scienze diseducative o quanto meno
non-educative, se per “educative” s’intendono soltanto le suggestioni che
rafforzano la fede» D. Bertoni Jovine, Storia dell’educazione popolare in
Italia, Bari, Laterza, 1965, pp. 221-223. 299 G. Allievo, Il problema
metafisico studiato nella storia della filosofia dalla scuola ionica a Giordano
Bruno, cit., p. 14. 300 «Forse l’Allievo si lasciò trascinare nella sua vita
dal desiderio di porre la sua psicologia in maggiore armonia con le teorie
scientifiche sull’emozione che allora si diffondevano in seguito all’indirizzo
di studi del Wundt; volle dimostrare la possibilità di coordinare il suo
sistema coi risultati della scienza più moderna; ma naturalmente non poté riuscire
bene nel suo intento, perché l’eclettismo è il più difficile di tutti i
sistemi» E. Santamaria Formiggini, La pedagogia italiana nella seconda metà del
secolo XIX, parte I, gli spiritualisti, Roma, A. F. Formiggini, 1920, p. 281.
301 Vidari sostiene che l’Allievo è contrario alla «psicologia fenomenistica,
che è per la Pedagogia rovinosa, negando essa il principio fondamentale della
sostanzialità e unità della Persona» G. Vidari, Giuseppe Allievo, cit., pp.
8-9. 302 G. Allievo, Appunti di Antropologia e Psicologia, cit., p. 26.
83 vecchia pedagogia di posare sopra una psicologia astratta e
dualistica, per cui mancava di salde basi scientifiche, adoprava un metodo
puramente soggettivo ed astratto e toglieva di mezzo ogni raffronto tra i fenomeni
psichici dell’uomo e quelli degli animali. Tutte queste accuse presuppongono
che l’evoluzionismo, a cui si appoggiano, sia una verità scientifica
rigorosamente dimostrata, ma cadono l’una dopo l’altra, dacché il Darwinismo è
una mera ipotesi sostenuta da pochi pensatori, che lo scambiano per un teorema
scientifico dimostrato. Anche riguardato come una pura ipotesi bisognevole di
conferma, l’evoluzionismo è ben lontano dallo adempiere i difetti ingiustamente
attribuiti alla pedagogia filosofica e rinnovare di sana pianta la scienza
educativa nelle sue basi, nel suo metodo, nelle sue attinenze sociali»303. In
tale testo conferma una considerazione fatta già nel 1874: «L’alterazione della
specie sostenuta da Darwin è una mera ipotesi, che va ogni di più perdendo valore
e seguaci»304. Di certo la previsione è risultata sbagliata. Tuttavia, il fatto
che Allievo considerasse la teoria dell’evoluzionismo come una probabilità
appare giustificabile sulla base delle conoscenze scientifiche e delle prove
addotte dal darwinismo alla fine dell’Ottocento. Va peraltro tenuto conto che
la critica dell’Allievo fu abbastanza superficiale e incentrata su questioni
filosofiche più che scientifiche (non ne aveva gli strumenti). L’idea che il
pedagogista vercellese difendeva era comunque la stessa, l’irriducibilità
dell’uomo alla natura. Nel testo L’uomo e la natura (1906) si interroga:
«possiamo noi ammettere che la specie umana abbia avuto origine dalla materia
universale diffusa nello spazio per via di una lenta e progressiva trasformazione
degli organismi viventi? Lo asseriscono i seguaci dell’evoluzionismo
materialistico, ma non lo hanno mai dimostrato seriamente né punto, né poco; né
dimostrare lo possono perché nemo dat, quod non habet, e la materia bruta
primitiva non racchiudeva certamente in sé il germe di quella sublime
razionalità, che è il carattere costitutivo della specie umana. Carlo Vogt
nelle sue Lezioni sull’uomo si sbraccia a dimostrare, che le diverse razze
umane originarono dalle differenti famiglie di scimmie, ma ristrinse tutto il
suo esame alla morfologia del cranio umano raffrontato con quello scimmiesco, e
non disse verbo delle facoltà mentali proprie dell’umanità: che veramente
avrebbe avuto un disperato partito per le mani, se avesse preteso che la
mentalità dell’uomo è sbocciata dalla brutalità della scimmia»305 Stando
all’Allievo il positivismo non è perdente solo sul piano teoretico. È la vita a
condannare questo sistema. Nell’introduzione degli Studi Pedagogici, Allievo
riprende il 303 G. Allievo, La nuova scuola pedagogica ed i suoi
pronunciamenti, cit., p. 12. 304 G. Allievo, Della vecchia e della nuova
antropologia di fronte alla società, cit., p. 10. 305 G. Allievo, L’uomo e la
natura, cit., p. 10. 84 romanzo di Dickens, Duri tempi per questi
tempi, e cita diversi brani al fine di mostrare la confusione a cui porta il
positivismo nella vita reale, infatti è inevitabile che venga svilito il
compito dell’educatore, svalutata l’immaginazione, sminuito il sentimento e
l’amore. Il positivismo soffoca l’esistenza. Anche se Allievo ricorda che «il
cuore è tal forza che più di ogni altra della natura scoppia irresistibile
quanto più lungamente e violentemente repressa»306, il positivismo conduce
inevitabilmente alla «ruina e lo sfacelo della vita domestica e sociale»307.
Allievo contesta anche le posizioni positivistiche sulla scuola. Critica Comte
che impone alle prime classi un quadro orario composto quasi esclusivamente con
materie matematico scientifiche, sminuendo quelle umanistiche. Nonostante le
critiche Allievo riconosce alla nuova pedagogia anche dei meriti308. Uno degli
apporti importanti del positivismo è stato quello di riavvicinare la scienza
pedagogica all’analisi e all’osservazione degli aspetti empirici
dell’educazione.309 Comunque se Allievo dopo gli anni ’70 risultava preoccupato
per l’avanzata del positivismo, alla fine della sua carriera ebbe occasione di
esultare per la sua decadenza. Nel 1909 Allievo poteva scrivere che «Il
positivismo pedagogico attraversa una grandissima crisi e va via via smarrendosi
in mezzo a diversi e contrari indirizzi. La mancanza assoluta di critica, la
cieca fidanza si sé, il dogmatismo sostituito al ragionamento ed alla
discussione, la noncuranza delle dottrine contrarie, il disprezzo della
tradizione, tolgono a questo sistema ogni efficacia scientifica e segnano il
suo decadimento»310. 306 G. Allievo, Studi pedagogici, cit., pp. 8-9. 307
Ibid., p. 12. 308 «Nessuno mai, che abbia fior di senno, rigetterà siccome
sciupato, fallito e contrario al vero tutto il lavoro della nuova scuola
pedagogica. Anch’essa ha le sue parti buone e commendevoli accanto alle malsane
e morbose; ha messo in bella luce alcuni punti, che non erano stati
sufficientemente lumeggiati; ha posto in rilievo alcuni fatti educativi
mediante un’analisi sottile ed accurata; ha dato un nuovo impulso
all’educazione fisica ed alla coltura del pensiero; ma il principio
fondamentale, su cui essa posa, è radicalmente sbagliato; epperò tutte le
verità, che essa contiene nella sua dottrina, non le può logicamente ammettere,
se non a condizione di rigettare il suo principio supremo, mentre la pedagogia
filosofica le può accogliere tutte quante, perché rientrano nel principio che
le è proprio» G. Allievo, La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti,
cit., p. 9. 309 «Il positivismo (sarebbe ingiustizia il disconoscerlo) ha
recato non poco giovamento agli studi antropologici coll’averli ritirati dalla
via dell’incompiuto ed esclusivo metodo trascendentale dell’antica scuola e
condotti su quella dell’osservazione e della storia; ma è solenne errore quel
suo fermarsi alla nuda osservazione dei fatti e delle loro leggi senza punto
assorgere allo studio delle origini, della natura e della destinazione
dell’uomo che è causa efficiente e ragione spiegativa di quei medesimi
fatti.”309 Osserva ancora: “Certamente dimostrerebbe ingiusto verso la nuova
scuola chi le negasse il merito di avere efficacemente contribuito
all’incremento della scienza pedagogica; ma dall’altro lato è giuoco – forza
riconoscere, che nel corso delle sue indagini ha passato sotto silenzio
argomenti e problemi pedagogici di altissimo rilievo» Ibid., p. 27. 310
G. Allievo, Opuscoli pedagogici, cit., p. 6. 85 Concludendo, si può
rilevare come Allievo abbia scovato nelle critiche al positivismo e
all’idealismo un errore comune. Entrambe mancano infatti di realismo, e
riducono sia il campo dello scibile che quello dell’esistente311. I. 7. Il
contributo alla storia della pedagogia Gli studi di storia della pedagogia
costituiscono una parte cospicua nella produzione di Allievo, che nella sua
lunga carriera si è occupato di diversi periodi, che vanno dalla pedagogia
antica greca e romana, all’itinerario della riflessione europea tra il XVIII e
il XIX secolo, alla storia dello spiritualismo italiano. L’importanza data agli
studi storici è inoltre confermata dal fatto che i testi in cui Allievo espone
il “suo” sistema pedagogico e filosofico sono lavori di storia della pedagogia,
vale a dire i Saggi filosofici, gli Opuscoli e Il problema metafisico. Tra le
opere più importanti vi è il già citato Del positivismo in sé e nell’ordine
pedagogico (1883), che non si limita ad una critica sui contenuti ma riprende
con precisione lo sviluppo delle teorie pedagogiche di Comte, Spencer, Bain.
Sulla stessa corrente, è particolarmente significativo il testo La psicologia
di Herbert Spencer: studio espositivo-critico (1898). Al contributo della
pedagogia svizzera dedica il libro: Delle dottrine pedagogiche di E.
Pestalozzi, A. Necker de Saussure, F. Naville e G. Girard (1884). Un altro
testo importante è Delle idee pedagogiche presso i Greci (1887). Nel 1901
pubblicò La pedagogia italiana antica e contemporanea in cui in un capitolo è
riportato un testo pubblicato quaranta anni prima: Della pedagogia in Italia
dal 1846 al 1866 (1867). Negli Opuscoli pedagogici (1909) presenta saggi su
l’Helvetius, Gerdil, Jacotot, Kant, Herbart, Blackie ed altri. Importante anche
lo studio sul fondatore della pedagogia moderna, G. G. Rousseau filosofo e
pedagogista (1910) e l’ultima opera che rappresenta il testamento pedagogico
dell’Allievo: Giobbe e Schopenhauer (1912). Un altro importante contributo fu
la traduzione e l’introduzione della Levana di Richter, e lo studio su Maine de
Biran e la sua dottrina antropologica (1895). 311 Sui punti in comune delle due
teorie scrive: «Queste due specie di umanismo filosofico hanno due punti comuni
in cui convengono, ai quali corrispondono due punti di discrepanza, in cui esse
differiscono. Anzi tutto entrambe concordano nel proclamare l'autonomia illimitata
del pensiero umano, che nulla più riconosce oltre di sè: da ciò poi che
l'attività del pensiero si spiega e come ragione avente per oggetto il mondo
soprasensibile, immutabile ed assoluto delle essenze, e come esperienza la
quale coglie il mondo sensibile, mutabile e relativo de' fenomeni, ne viene una
ragion soggettiva per cui l'umanismo filosofico si specifica in razionalismo
assoluto ed in empirismo universale. Ancora, esse convengono nel proclamare il
moto indefinito delle cose e delle idee, mercè il quale l’uomo, disertando il
posto segnatogli dalla propria natura, o si faccia identico con Dio, che gli
sovrasta, trasumanando, o si confonda colla materia che gli soggiace.
disumanandosi; e di qui una ragione oggettiva, per cui l'umanismo differenziasi
in antropoteismo ed in naturalismo» G. Allievo, L’Hegelismo e la scienza, la
vita, cit., pp. 9-10. 86 Uno dei periodi più studiati dall’Allievo
fu la pedagogia del XIX secolo. Nel testo Delle dottrine pedagogiche di Enrico
Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure, Francesco Naville e Gregorio Girard,
(1884), innalza la scuola svizzera come un momento importante per l’intera
scienza e storia della pedagogia, una scuola che seppe integrare le spinte
della modernità con una prospettiva antropologica spiritualista. Un altro testo
molto significativo è il già citato Della pedagogia in Italia dal 1846 al 1866
(1867). Questo saggio ripercorre con precisione lo sviluppo della cultura
pedagogica e della legislazione scolastica in Piemonte e in Italia, in un decennio
decisivo per la costruzione della scuola italiana. Commentando questo saggio
Gerini ha scritto: «La monografia, composta per incarico del Ministro della
P.I., è il primo saggio di storia pedagogica scritto in Italia, che sarà sempre
consultato da quanti vorranno conoscere il nostro risorgimento educativo»312.
Dello stesso avviso anche Arcomano, che commenta: «È una rassegna delle
situazioni, delle attività e delle opere del ventennio 1846-1866, in fatto di
istruzione ed educazione, e si può considerare un capolavoro di chiarezza nella
interpretazione degli avvenimenti e nella presentazione delle idee che
circolavano»313, anche se poi rileva come il testo è forse troppo concentrato
sulla realtà subalpina. Il testo ebbe vasta eco nel dibattito pedagogico, lo
troviamo spesso citato in opere di altri autori314, abbastanza rare sono le
critiche315. In questo saggio Allievo esalta i protagonisti di quella stagione
come Vincenzo Troya, Agostino Fecia, Vincenza Garelli, Carlo Boncompagni.
Riprende poi tutte le discussioni sulla riforma della scuola, e trova
nell’esperienza pedagogica del Piemonte e della Toscana nella metà
dell’Ottocento i due laboratori della nuova scuola e della nuova pedagogia. È
molto significativo il peso dato dall’Allievo alla «Società pedagogica» e anche
alle riviste del tempo. Questo testo, contribuì a dimostrare come fosse solo un
mito l’idea propagandata dai positivisti secondo la quale la pedagogia
precedente alla loro non avesse avuto nulla da dire. Allievo fa risaltare la
pedagogia spiritualista risorgimentale e quel clima di liberalismo educativo
che sarà tradito e defraudato dalla statolatria e dal positivismo. 312 G.
B. Gerini, La mente di Giuseppe Allievo, cit., p. 44. 313 A. Arcomano,
Pedagogia, istruzione ed educazione in Italia (1860-1873), cit., p. 56. 314
Cfr. C. Uttini, Nuovo compendio di pedagogia e didattica: ad uso delle scuole e
delle famiglie, Torino, Libreria scolastica di Grato-Scioldo, 1884, p. XIV. 315
Si vedano per esempio gli appunti negativi di Vidari: «Abbastanza buono per la
parte della pedagogia contemporanea è il Saggio dell’Allievo, il quale porta in
esso il contributo delle sue proprie memorie e impressioni; ma anche qui il
senso della vita storica, cioè della interiore unità onde si collegano nel loro
svolgimento le dottrine, è quasi del tutto assente, e invece prevalgono le
preoccupazioni personali dell’autore» G. Vidari, Il pensiero pedagogico
italiano nel suo sviluppo storico, cit., p. 4. 87 Senza dubbio lo
studioso può essere considerato uno tra i primi storici della pedagogia
italiana, e non solo per il numero dei lavori pubblicati, ma anche per la
teorizzazione dell’ambito disciplinare e delle metodologie di ricerca. Allievo
espone il suo pensiero circa il fine e il metodo della Storia della pedagogia
nel breve opuscolo Concetto generale della storia e della pedagogia (1901),
anche se accenna a tale questione in diversi altri saggi. Nel lavoro citato,
parte dalla considerazione dell’educazione come fatto e concetto comune. La
pratica e la teorizzazione educativa sono imprescindibili, e la scienza
pedagogica si sviluppò sotto la spinta di voler vedere perfezionata l’arte
educativa. In questo senso continua: «La necessità di una scienza pedagogica
emerge dal difetto inerente all’inconscia educazione naturale, e quindi
dall’insufficienza del suo concetto»316. Egli rivendica uno statuto
epistemologico propria alla storia della pedagogia, che distingue tanto dalla
pedagogia in sé, che dalla storia dell’educazione. In questa direzione critica
Paroz che nella Histoire universelle de la Pédagogie non separa le due
discipline317. Allievo distingue anche la storia dell’educazione in generale,
vale a dire i tratti tipici dell’educazione e la sua storia universale, dalla
storia dell’educazione di una particolare tradizione o società318. Nei suoi
studi richiama l’importanza della precisione storiografica ed uno studio
approfondito delle fonti. In particolare rimarca come la storia dell’educazione
debba essere: ordinata, veridica, ragionata, compiuta. Chiede di riferirsi sempre
a «fonti accurate e sicure»319. Uno degli aspetti innovativi dei lavori
dell’Allievo è il peso dato allo studio del contesto e della personalità
dell’autore320. 316 G. Allievo, Concetto generale della storia della pedagogia,
cit., p. 1. 317 «La storia dell’educazione ha per ufficio suo proprio di
esporre le diverse forme, che prese l’educazione presso i diversi popoli
antichi e moderni; per contro la storia della pedagogia espone le origini e lo
sviluppo di questa scienza attraverso le dottrine, i sistemi, le teorie de’
pensatori, che la coltivarono. [...] Per certo queste due specie di storie sono
fra di loro congiunte da intime attinenze e si lumeggiano a vicenda, ma la loro
distinzione va tenuta in conto per non confondere due ordini di cose affatto
diversi, quali sono le idee pedagogiche de’ pensatori e le azioni educative
degli istitutori» Ibid., p. 3. 318 «La storia dell’educazione, riguardata
rispetto alla sua estensione, viene a diversi in universale, particolare e
singolare. La storia universale si estende all’educazione di tutti i tempi dai
più remoti ai contemporanei, di tutti i popoli e barbari e civili, e antichi e
moderni. La particolare comprende un periodo storico generale, quale sarebbe la
storia dell’educazione antica, o parte di un periodo storico, come ad esempio
la storia dell’educazione dal 1500 a noi. In entrambi i casi abbraccia
l’educazione presso tutti i popoli ristretti però ad un tempo determinato. È
altresì particolare quella, che espone l’educazione di una nazione considerata
o in tutta la durata della sua esistenza (quale l’educazione presso i romani) o
in uno de’ suoi periodi storici (quale l’educazione dei romani nel periodo
repubblicano). Infine è singolare, se si restringe o ad un dato secolo (come la
storia dell’educazione ai tempi della rivoluzione francese), o ad un Istituto
educativo, quale l’Istituto pitagorico o l’Istituto educativo di Vittorino da
Feltre; ed allora piglia più propriamente nome di monografia storica» Ibid., p.
3-4; 319 Ibid., p. 4. 320 Già in uno dei primi saggi esponeva con chiarezza
tale principio: «La critica ha da descrivere la genealogia del genio
speculativo; ha da seguirlo in tutto il suo periodo evolutivo ricordando i
sentieri e le vie riposte per cui è passato prima di giungere al suo ideale
definitivo; ha da studiare il movimento speculativo dell'epoca in mezzo al
quale si svolse; ha da sceverare nelle pagine della storia le idee di cui ha
elementato il proprio sistema e significare come queste nel proprio sistema
s'intrecciarono e vi ricevettero un'impronta peculiare e sistematica. Tale è
l'ufficio narrativo della critica. Oltre a tutto questo, apprezzare nel suo
giusto 88 Come la storia dell’educazione, anche la storia della
pedagogia si può dividere in generale e particolare. Il suo fine non si limita
ad una narrazione asettica della riflessione educativa, ma trova il suo senso
nella valutazione delle teorie pedagogiche rispetto all’autentica scienza
pedagogica. Scrive Allievo: «Da queste generali considerazioni intorno al come
si forma e si va svolgendo la pedagogia emerge da sé il concetto della sua
storia, la quale apparisce una ordinata e razionale narrazione dello
svolgimento progressivo della scienza pedagogica attraverso i tentativi fatti
dai pensatori di tutti i tempi e luoghi a fine di determinare l’ideale tipico
dell’umana scienza»321. In particolare, sono significativi alcuni brani
presenti negli Studi pedagogici (1889)322 e ne La nuova scuola pedagogica ed i
suoi pronunciamenti (1905)323, in cui mostra come lo scopo dell’approfondimento
storico è strettamente connesso al fine della scienza pedagogica. L’Allievo
sostiene che l’educazione possa essere studiata o nel suo svolgimento pratico o
da un punto di vista speculativo. La pratica educativa può essere di tre tipi:
quella che normalmente le persone attuano, quella di una determinata società, e
la vera arte di educare. Come l’educazione, anche la teoria pedagogica sembra
connaturale alla vita umana. Per tale motivo in ogni epoca l’uomo si è fatto
un’idea circa il miglior modo di educare. Così, secondo Allievo, esistono tre
tipi di teorie pedagogiche: la pedagogia volgare, quella del singolo pensatore,
e la scienza pedagogica. Il compito della storia della pedagogia quello di
individuare il differenziale tra quanto pensato in passato e la scienza
pedagogica. La storia ha così un valore fondamentale della riflessione
pedagogica, poiché propone agli studiosi interlocutori di vaglia, anche sé
Allievo ricorda di distinguere la scienza dalla storia324. Il seguente brano
ben lumeggia la distanza tra ciò che si è pensato e la scienza: «Fu detto che
la storia universale è tutta una congiura contro la verità: nell’ipotesi che
stiamo valore il punto iniziale da cui un sistema piglia le mosse, il processo
a cui s'informa il suo sviluppamento, il termine finale in cui si è chiuso;
pronunziare se nella storia del pensiero speculativo esso segni un periodo di
sosta o di progresso; giudicare se il problema filosofico sia stato concepito
in tutta la sua integrità e giustezza, e risoluto a dovere; epperò se siano
state convenientemente satisfatte le esigenze del pensiero spéculativo senza
punto disconoscere i pronunziati universali della sapienza comune, anzi
armonizzandoli colle conclusioni della ragion filosofica: ecco l'altro ufficio
della critica che discute» G. Allievo, L’Hegelismo e la scienza, la vita, cit.,
p. 18. 321 G. Allievo, Concetto generale della storia della pedagogia, cit., p.
6. 322 G. Allievo, Studi pedagogici, cit., pp. 28-31. 323 G. Allievo, Delle
dottrine pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure,
Francesco Naville e Gregorio Girard, cit., p. 7. 324 «I cultori della pedagogia
trovano nella storia una saggia maestra, che additando gli errori dei pensatori
che li precedettero, da un lato, e dall’altro le verità da essi scoperte e
lumeggiate, li consiglia a procedere ammisurati e guardinghi nei loro
tentativi, li anima e li sorregge all’amore ed alla conquista del vero, ed
allarga l’orizzonte del loro pensiero. Riconoscendo l’utilità e l’importanza
della storia della pedagogia, guardiamoci però dall’ingrandirla oltre il
convenevole.» G. Allievo, Concetto generale della storia della pedagogia, cit.,
p. 8. 89 discutendo, bisognerebbe ripetere, che anch’essa la storia
della pedagogia è tutta una congiura contro la scienza pedagogica»325. Nel
stesso saggio critica il Siciliani e il suo testo Storia critica delle teorie
pedagogiche nel quale sostiene che la scienza pedagogica si fonda sulla
esperienza storica dell’educazione326. Se per Siciliani la scienza pedagogica è
frutto di evoluzione, per lo spiritualista Allievo la «vera» scienza pedagogica
è una, e ad essa ci si può avvicinare o allontanare. Entra poi in merito a come
si fa la storia della pedagogia. Spesso si è costretti a raccogliere le «idee
slegate e frammentate» in opere non propriamente pedagogiche, scovando le
«teorie particolari intorno a qualche punto di educazione, o sia che esse
formino un tutto da sé distinto da ogni altro, o sia che giacciano implicata ed
involte in opere di altra natura», ma anche «i trattati che abbracciano un
compiuto sistema pedagogico, dove l’educazione è contemplata in tutta
l’integrità del suo organismo, quali ce ne porge in copia moderna». Bisogna
quindi studiare le opere dell’autore, i frammenti della sua opera presente in
altri autori, la tradizione su di lui. «Gli scritti originali di un pedagogista
sono essi soli le vere fonti, da cui si attinge limpida e netta la sua
dottrina, mentre i frammenti registrati nelle opere di altri scrittori, e la
tradizione scritta od orale, anziché fonti, sono rivi più o meno puri». Dai
suoi scritti occorre innanzitutto cogliere in concetto centrale di un autore,
cercandone poi le cause. Occorre comunque valutare la pedagogia degli autori
studiati: «Ma il compito più elevato, più grave e ad un tempo più arduo della
critica storica risiede nel cernere nelle esposte dottrine la parte vera dalla
erronea, la certa dall’incerta ed opinabile, l’elemento soggettivo,
particolare, relativo, dall’oggettivo, universale, assoluto, che solo può
passare nel dominio della scienza pedagogica»327. Lo storico dovrà stare
attento ad ancorarsi sempre alla scienza pedagogica328. In conclusione
sintetizza così il compito dello storico della pedagogia: «Ai quattro uffici
propri della storia pedagogica ora accennati fanno natural corrispondenza
quattro distinte e successive forme speciali, che essa può rivestire nel suo
progressivo sviluppo. La storia della pedagogia rintraccia primamente i
materiali, che entrano a comporla, ed in questo suo primo studio riveste la
forma di memorie e frammenti. Poi si accinge ad esporre e descrivere le
raccolte dottrine, e qui assume la forma di cronaca, alla quale succede la
forma di storia propriamente detta, 325 Ibid., p. 9. 326 Ibid., p. 10. 327 Ibid.,
p. 15. 328 «Lo storico deve scansare due estremi; da un lato la troppa fidanza
di sé ed il cieco immobilismo nelle proprie idee, dall’altro l’incostanza e la
volubilità del pensiero, a cui potrebbe essere trascinato dallo spettacolo di
tanti sistemi diversi e contrari» Ibid., p. 16. 90 che corrisponde
all’ufficio etiologico od inquisitivo, finché s’innalza alla sua più perfetta
forma, quale è la filosofia della storia, che risponde all’ufficio critico e
speculativo»329. Il senso della Storia della pedagogia ha appunto lo scopo di
rilevare il differenziale presente sia tra i modi che le popolazioni che ci
hanno preceduto avevano di educare in confronto con la vera arte di educare,
sia il confronto tra le varie teorie pedagogiche e la vera scienza pedagogica.
Osserva Allievo: «Quindi ancora ne consegue, che introno al medesimo oggetto
conoscibile (ad esempio intorno l’essenza dell’educazione, od al suo fine, od
alle sue leggi) possono darsi e si danno di fatto molte teoriche, e quel che è
più le une dalle altri discordi ed avverse, mentre una sola è la scienza e
sempre a se stessa concorde, perché una sola è la verità, in quella guisa che
nell’ordine geometrico tra due punti dati non può correre che una sola linea
retta, mentre di linee curve se ne possono condur chi sa quante». Il senso
della Storia della pedagogia è analizzare i sistemi pedagogici confrontandoli
con la vera scienza pedagogica. Dunque: «La storia de’ sistemi pedagogici è
sostanzialmente la storia de’ tentativi felici od infelici, retti o traviati,
fatti dai cultori dell’arte educativa per giungere al Vero siccome fondamento
di essa; per lo contrario la storia della scienza pedagogica è la storia della
Verità educativa riguardata nel suo progressivo esplicamento»330. Sulla base di
questa prospettiva, i numerosi studi di storia della pedagogia di Allievo, sono
un dialogo rispetto a determinati principi pedagogici con gli autori trattati,
più che un’esposizione oggettiva del loro pensiero. Lo studio della storia
della pedagogia secondo Allievo può condurre a una migliore comprensione
dell’educazione e a quei tratti unici e particolari che la caratterizzano. Per
tale ragione nelle sue ricerche spesso trova degli spunti per confermare alcune
delle sue tesi o muove critiche agli altri sistemi pedagogici, in primis ai già
citati positivisti. I testi sono dunque ripetutamente accompagnati da
valutazioni personali, commenti, paragoni, e non pochi giudizi sferzanti. Ha
scritto puntualmente Vidari «Si comprende da tutto questo come l’Allievo nei
suoi studii di storia delle dottrine antropologiche e pedagogiche fosse guidato
e mosso più che dal proposito di comprenderle nel loro processo di formazione,
di inquadrarle nel momento storico a cui appartennero, di seguirle nei loro
sviluppi, nelle loro irradiazioni e conseguenze, da quello piuttosto di
saggiarle e 329 Ibid., p. 16. 330 G. Allievo, Delle dottrine pedagogiche di
Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure, Francesco Naville e Gregorio
Girard, cit., p. 6. 91 giudicarle in rapporto a quei principi
fondamentali di scienza dell’educazione, che egli andò illustrando in tutto il
resto della sua produzione filosofica»331. Dalle posizioni prese di fronte al
«laboratorio della storia della pedagogia» si precisa ancora meglio il sistema
pedagogico di Allievo. Forse anche per questo la lettura di questi testi aiuta
a cogliere il cuore e le preoccupazioni pedagogiche dell’Allievo. Il tema
principale su cui Allievo si confronta è per la maggior parte legato a
prospettive antropologiche e alle loro conseguenze in campo educativo e
scolastico. Giustamente Valdarnini osserva: «qual criterio adotta l’Allievo per
giudicare della verità o della falsità delle dottrine di cui è intessuta la
storia della Pedagogia? Questo: il sentimento e il concetto della dignità
propria della specie umana»332. Da Seneca a Rousseau ciò che l’Allievo valuta è
quale l’idea di uomo essi comunicano e difendono. Ma tale prospettiva ha
secondo alcuni studiosi portato a esiti negativi. La Quarello, ad esempio,
critica il fatto che certi giudizi storici siano «troppo soggettivi»333 e fa
notare che alcune valutazioni dell’Allievo partono «talora da “presupposti
dommatici” più che da dimostrazioni convincenti»334. Tra le altre, critica la
scarsa considerazione data al Kant della Critica della ragion pratica. Di
un’idea contraria è Vidari quando osserva che «alcune delle osservazioni
critiche che l’Allievo muove alla dottrina morale di Kant, per quanto non
nuove, sono giuste e fondate»335. Come già accennato, sempre stando alla
Quarello, Allievo non avrebbe colto il contenuto della filosofia di Hegel,
riducendo la portata dello Spirito e dell’Assoluto hegeliano336. Tra gli altri,
il principio della libertà d’insegnamento è uno dei criteri con cui valuta le
teorie pedagogiche. Nel testo Delle idee pedagogiche presso i greci la
questione della libertà d’insegnamento decide della divisione degli autori.
Allievo affronta prima Pitagora e Socrate, che sono considerati i difensori di
un’educazione libera, e poi Senofonte, Platone e Aristotele, che considera
difensori di una visione spartana e statolatrica dell’educazione. Affrontando
tali autori esprime la sua idea di educazione e di libertà. Scrive: «Plutarco
non separa la famiglia dallo Stato, né la confonde con esso. Per lui la
famiglia non è solo un grado della gerarchia dello Stato, ma un centro, che ha
uno sviluppo suo proprio. 331 G. Vidari, Il contributo di G. Allievo alla
Storia della Pedagogia, «Rivista Pedagogica», n. 10, 1930, p. 689. 332 A.
Valdarnini, Giuseppe Allievo storico della pedagogia, in Vita e mente di
Giuseppe Allievo, cit., 1913, p. 56. 333 V. Quarello, G. Allievo, Studio
critico, cit., p. 124. 334 Ibid., p. 124. 335 G. Vidari, Il contributo di G.
Allievo alla Storia della Pedagogia, cit., p. 692. 336 V. Quarello, G. Allievo,
Studio critico, cit., pp. 128-129. 92 L’educazione, senza punto
dimenticare di preparare il fanciullo a divenire buon cittadino, ha sovra tutto
per compito suo di formare in lui l’uomo mercè il culto della famiglia»337.
Sugli «avversari» della libertà scrive invece: «Platone aveva confuso la
famiglia collo Stato fino ad introdurre il Governo nei penetrali del santuario
domestico, e colla famiglia anch’esso l’individuo veniva assorbito nella
comanza politica. Aristotele giunse a distinguere la famiglia dallo Stato, ma
il suo pensiero su questo grave argomento mostrasi perplesso ed oscuro, tant’è
che l’uomo in sua sentenza non è tale, perché persona individua, perché padre o
marito, o figlio, ma perché cittadino»338. Un altro brano su Platone mostra la
pertinenza tra il concetto di persona e quello della libertà d’insegnamento, e
come la perdita del primo faccia necessariamente scivolare nello statalismo:
«Il massimo e capitale errore, che falsa la politica e conseguentemente la
pedagogia di Platone e scorre e s’inviscera in tutte le parti della sua teoria,
questo è di avere sacrificato l’attività personale dell’individuo
all’onnipotenza dello Stato, di avere assorbito l’uomo nel cittadino. La
dottrina politica di Platone è un esplicito socialismo governativo: l’individuo
esiste e vive in servigio esclusivo dello Stato, è niente più che una molla, un
ordigno del gran meccanismo sociale, giacché nell’assoluta ed oppressiva unità
della comunanza politica si perde ogni libertà personale. Epperò l’educazione
riesce essenzialmente ed onninamente politica, mentre dovrebb’essere primamente
e sostanzialmente personale: l’umana persona, spogliata della sua dignità
finale, viene educata come semplice mezzo e strumento della civil società»339.
Concludendo la parentesi greca scrive: «Lo Stato adunque non prevale
sull’individuo, bensì gli sottostà come effetto della sua cagione; e quando
Aristotele a sostenere la supremazia naturale dello Stato sulla famiglia e sui
singoli uomini osserva, che il tutto trionfa sulla parte, perché distrutto
quello, anche questa vien meno, possiamo ritorcere il suo argomento contro di
lui avvertendo che la parte congregandosi con altre parti, forma essa il tutto,
e se quella scompare, anche questo ruina. In una parola non l’individuo è fatto
per lo Stato, bensì lo Stato è fatto per tutti e per ciascuno, epperò
l’educazione debb’essere umana e personale, prima che politica e civile»340 In
alcuni punti le valutazioni dell’Allievo sono decisamente esagerate. Nel testo
su Giobbe e Schopenauer apre una parentesi molto sommaria contro il popolo
ebraico341, rasentando il razzismo. In altre occasioni il suo giudizio è
palesemente sproporzionato. 337 G. Allievo, Delle idee pedagogiche presso i
greci, cit., p. 163. 338 Ibid., p. 162. 339 Ibid., pp. 131-132. 340 Ibid., p.
148. 341 G. Allievo, Giobbe e Schopenhauer, cit., pp. 36-37. 93
Come quando nell’introduzione al lavoro su Delle idee pedagogiche presso i
greci (1887) osserva «Pitagora e Socrate ci appariscono gloriosi campioni di
una pedagogica, che si muove libera di sé, franca da ogni ressura governativa,
sorretta da un ideale divino, che consacra la persona, santifica il dovere,
suggella l’immortalità della vita personale. Platone ed Aristotele ci si
mostrano fautori dello Stato educatore, che disconoscendo ne’ singoli uomini la
dignità della persona individua, trae con sé a perdimento tutta la Grecia»342.
Anche Santamaria Formiggini contesta all’Allievo la scarsa precisione su taluni
lavori, in particolare fa riferimento agli studi su Rousseau ed Herbart.
Inoltre sostiene che l’Allievo non riuscì a «penetrare oggettivamente nel
pensiero degli autori che studia e che critica»343. Però poi ammette che «Come
pedagogista egli lascia a grande distanza gli altri per la larga informazione
storica, che è uno degli elementi essenziali per la trattazione ponderata ed
illuminata delle questioni educative, è condizione per un vero progresso delle
teorie. Egli può considerarsi veramente uno dei primi pedagogisti che abbiano
indirizzato gli studiosi italiani a mettere in raffronto e in rapporto i loro
studi con i risultati del pensiero pedagogico straniero, perché dai confronti
scaturisca più viva e più nuova la verità, perché si evitino ripetizioni di
teorie discusse e superate»344. Oltre ad imprecisioni, i lavori dell’Allievo
risultano approfonditi e curati. Lo studio su Rousseau criticato dalla
Formiggini, è ricco di riferimenti bibliografici ma soprattutto offre una
chiave di lettura molto interessante del pensatore ginevrino non temendo di
evidenziarne i pregi, ma anche le contraddizioni, le ambiguità e i rischi. Non
pensiamo di essere lontani dal vero affermando che nonostante la sterminata
bibliografia sull’autore dell’Emilio, il libro di Allievo risulta ancora oggi
ricco di spunti e di considerazioni. Il merito di Allievo come storico della
pedagogia emerge ulteriormente se paragonato ai lavori coevi di storia della
pedagogia, dai quali si distanzia per riferimento alle fonti e immedesimazione.
Senza dubbio si può affermare che Allievo può essere considerato uno tra i
primi storici della pedagogia italiani. I. 8. La scuola educativa 342 G.
Allievo, Delle idee pedagogiche presso i greci, cit., p. II. 343 E. Santamaria
Formiggini, La pedagogia italiana nella seconda metà del secolo XIX, parte I,
gli spiritualisti, cit., p. 12. 344 Ibid., pp. 322-323. 94 Nel
corso della sua carriera, Allievo diede ampio spazio alla riflessione sulla
scuola, cui attribuiva un ruolo decisivo per il destino delle nazioni345. Se
riferimenti e accenni su questioni scolastiche sono disseminati in molti dei
suoi libri, in un saggio del 1904, La scuola educativa, è presente una
sistematizzazione più articolata e completa delle sue posizioni. Riflettendo
sulla funzione di questo istituto, Allievo racchiude le questioni più
importanti del problema in quattro semplici domande: «1° in servizio di chi è
ordinata la scuola? 2° a chi spetta il diritto di governarla? 3° in quale
giusto rapporto deve serbarsi colla famiglia e colla società? 4° come
debb’essere organata l’educazione e l’istruzione nella scuola?»346. Allievo è
convinto che l’autentico e principale scopo della scuola sia lo sviluppo
perfettivo della persona nella sua totalità. Caratterizzata da una appassionata
ricerca della verità e del bene dell’alunno347, auspicava fosse animata da un
vero «culto della personalità dell’alunno»348. Contro il determinismo di certa
didattica, sosteneva l’idea di una scuola in cui il rispetto della vera libertà
potesse divenire il fine e lo stile della vita educativa349. Su queste
prospettive invocò una convergenza dell’istruzione e dell’educazione, che
dovevano coabitare e collaborare in vista di uno sviluppo integrale della
personale350. La conoscenza e l’educazione, dovevano potenziarsi a vicenda. In
questo senso considerava l’istruzione anche come un aspetto necessario per la
formazione solida del carattere351. 345 «La casa dunque, il tempio, la scuola
sono i tre grandi centri dell’umana coltura, i tre solenni convegni sacri alla
comune educazione. La scuola segnatamente apparisce il santuario del sapere, il
tirocinio della vita sociale, il vivaio della civiltà; epperò essa racchiude
nelle sue modeste pareti le sorti di un popolo e collo splendore o
coll’oscuramento del suo ideale segna i giorni di grandezza o di decadenza di
una nazione. Dall’importanza massima della scuola agevolmente si misura la
necessità di formarcene un concetto adeguato e verace, che risponda al suo
intimo organismo ed al suo ideale» G. Allievo, La scuola educativa, principi di
antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili,
cit., p. 68. 346 Ibid., p. 69. 347 «La scuola è luogo sacro al culto del Vero e
del Buono, ciò è dire è il santuario della sapienza, essendochè questa
congiunge in sé il lume speculativo della scienza e la pratica onestà della
vita. Oggidì il carattere educativo della scuola è misconosciuto. La scienza ha
cacciato fuor della scuola la virtù e la divinità. Si è consumato un divorzio
tra l’istruzione della mente e l’educazione del cuore. Istruzione in iscuola,
educazione in casa. Si aprono ogni dì nuovi edifizi scolastici per piantarvi
l’albero della scienza, senza badar più che tanto, se all’ombra dell’albero
germogli e si spieghi il fiore delle virtù domestiche, civili e religiose.
Quest’eresia pedagogica va ogni di più propagandosi, e minaccia giorni luttuosi
alla famiglia ed alla patria. La scuola (ripeto col Tommaseo) se non è tempio,
è tana; e quando mai fosse tana, dovrei ripetere col Rousseau: L’uomo che
pensa, è animal depravato. Gli è allora che la scuola diventa davvero un
semenzaio di socialismo, perché i giovani ne escono poi gonfi di borra
enciclopedica, quanto vuoti di ogni principio morale e religioso, e
riversandosi nella gran società diffondono la corruzione, che portano in seno,
pretensioni, sprezzanti, spostati, scontenti di tutti e di tutto, gittando qua
e là il disordine e lo scompiglio» Ibid., p. 78. 348 Ibid., p. 70. 349 «Se
l’alunno non è lui il primo educatore di se medesimo, che spiega la personalità
sua e la afferma spiegandola, gli altri educatori persona la vera loro ragione
di essere, perché non formano più una persona, ma foggiano una macchina» Ibid.,
p. 67. 350 G. Allievo, Studi pedagogici, cit., pp. 65-67. 351 «Lo studio è un
dovere, e dall’idea del dovere sorge appunto il carattere» G. Allievo, La
scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole
normali maschili e femminili, cit., p. 92. 95 Uno degli errori
maggiori individuati da Allievo era quanto chiamava «enciclopedismo», vale a
dire la riduzione del ruolo della scuola a veicolo di nozioni da sommare nelle
menti degli allievi: «L’enciclopedismo (perché tacerlo?) è il verme roditore
delle nostre scuole, il cancro dell’educazione moderna»352. Allievo auspica che
l’accumulo di conoscenze si coniughi con lo sviluppo di uno spirito libero e creativo:
«L’enciclopedismo violenta, tortura, conquide, le potenze mentali del giovine:
la virtù intellettiva, che concepisce l’ideale, il sentimento, che lo accalora,
l’immaginazione, che lo colorisce, giacciono spossate»353. Il pedagogista
osservò come la scuola somigliasse sempre più «all’aria morta di una
biblioteca»354. Mancava quella spinta ideale che è invece propria
dell’educazione. A questa stortura del compito educativo, concorse un
traviamento del ruolo dell’insegnante: «Pur troppo si è ormai perduta di vista
questa gran verità pedagogica, che il maestro, segnatamente delle scuole
elementari e secondarie, debb’essere non solo l’insegnante, ma ben anco
l’educatore de’ suoi alunni, interessandosi delle loro persone, vegliando sulle
loro sorti, vivendo con essi la vita del cuore, come fa un padre, una madre co’
figli suoi»355. Da queste premesse, era convinto che il “cuore” degli educatori
fosse il ganglio vitale della pratica educativa e al contempo il discriminante
della sua efficacia356. Allievo si sofferma a considerare come l’insegnamento
sia un’azione propria della persona, ed espressione della sua specificità. Si
impara e si insegna con le parole, suoni che uniscono nel significato le
coscienze e le conoscenze dell’educatore e dell’educando. Poter capire
costituisce la superiorità dell’uomo sulle cose357. In questo senso, Allievo
sottolinea come: «Lo sviluppo dell’intelligenza è intimamente connesso colla
parola, la quale è un segno sensibile esteriore, che esprime un’idea»358. La
parola si impone così come 352 G. Allievo, Opuscoli pedagogici, cit., p. 14.
353 Ibid., p. 425. 354 G. Allievo, Delle dottrine pedagogiche di Enrico
Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure, Francesco Naville e Gregorio Girard,
cit., p. 250. 355 Ibid., p. 249. 356«Pestalozzi, Girard, De la Salle furono
grandi istitutori, perché furono grandi cuori, che sentirono la santità del
loro apostolato, e fecero di sé nobile sacrificio per loro alunni. Senza cuore
non si educa con dignità, non si ammaestra con verità, non si impara con senno;
e la scuola diventa essa stessa corpo senz’anima. Ed in quella guisa che le
istituzioni politiche anche ottime declinano, si disfanno e finiscono, quando
sono guaste dallo spirito settario, dall’ambizione sfrenata dei reggitori, dal
dispotismo sotto maschera di libertà, così gli istituti scolastici anche meglio
organati languiscono e cadono giù, quando nei governanti che li dirigono e nei
maestri che professano, sottentra l’indifferenza e l’apatia, il mestierismo e
la cupidigia del guadagno, la vanità pretensiosa e lo scetticismo demolitore»
in G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso
delle scuole normali maschili e femminili, cit., pp. 182-183. 357 G. Allievo,
Studi pedagogici, cit., pp. 102-107. 358 G. Allievo, La scuola educativa,
principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e
femminili, cit., p. 44. 96 «necessità pedagogica», da indirizzare
verso l’educazione della persona359. Per tali motivi il fulcro della scuola è
la spiegazione360. La sua importanza è attestata, secondo Allievo, anche dalle
difficoltà di relazione e di formazione dei sordo - muti361. Considerava un
grave errore pensare che la mera istruzione potesse bastare all’educazione:
«Che l’istruzione faccia colla educazione un’adequazione perfetta e si converta
con essa, è fatale errore, il quale trascina la società a distrette più
deplorande, che non quelle medesime dell’ignoranza e della rozzezza. L’uomo non
vive di sola conoscenza, ma ben anco di virtù e d’amore, perché alla potenza
dell’intendere accoppia la libertà del volere e la facoltà del sentire. Laonde
la scienza è sibbene una splendida manifestazione dell’umana essenza, ma non è
punto l’umanità tutta quanta: nell’immensa sfera dello svolgimento umano essa tiene
un posto luminoso, ma non il solo, né il più elevato, sottostando alla vita
morale e religiosa»362. Questa mancanza, era colta da Allievo soprattutto nella
scuola secondaria, dove lo sviluppo razionale e il prossimo approccio alla
vita, meritavano una relazione educativa e valoriale piena, e non solo limitata
all’istruzione: «La nostra scuola secondaria non educa, perché è tutta
nell’istruire: le materie di studio sono tenute estranee allo sviluppo del
sentimento morale e religioso. La cattedra non è un apostolato di civile e
morale insegnamento, ma di puro sapere: rilassati e pressochè spezzati i
vincoli tra la scuola e la famiglia, e maestri ed i discepoli». L’assenza di
un’educazione morale e religiosa, senza la quale lo sviluppo integrale della persona
era reputato da Allievo impossibile, fu variamente ripresa: «Questa idolatria
della scienza fa le sue tristissime prove nel campo della pubblica istruzione;
l’istruzione è come una gran fiumana che allarga il santuario della scuola e
caccia via la coltura morale e religiosa, come se vi fossero soltanto teste da
riempire, e non anco anime da ispirare, cuori da educare. Questa specie di
fanatismo per il culto del sapere è la piaga precipua, che vizia oggidì
l’organismo della pubblica educazione.»363 Due delle sue citazioni preferite
erano la celebre frase di Tommaseo: «La scuola se non è tempio, è tana» e il
motto socratico Non scholae sed vitae discendum. Oltre che culto 359 «La parola
è pur anco una necessità pedagogica, perché vincolo essenziale, che unisce le
intelligenze e le volontà del maestro e del discepolo, dell’educatore e
dell’alunno, ma a tale riguardo occorre, che la parola del maestro sia luce
intellettuale piena d’amore, e che il discente non la riceva passivo, ma la
faccia ripensandola. Un insegnamento parolaio sciupa se stesso in un’intrinseca
contraddizione, essendochè appartiene all’essenza medesima della parola
l’ufficio di significare un’idea» Ibid., p. 45. 360 «Il programma governativo
è, per così dire, l’embrione della materia d’insegnamento, il didattico ne
mostra le giunture, le articolazioni in forma di compagine, il libro di testo
porge l’organismo in carne ed ossa e polpa e sangue, la spiegazione del testo è
la vita, che circola per entro l’organismo» Ibid., p. 103. 361 Ibid., p. 98.
362 G. Allievo, L’educazione e la scienza. Prelezione fatta all’Università di
Torino il dì 18 novembre 1881, cit., p. 6. 363 G. Allievo, G. G. Rousseau
filosofo e pedagogista, cit., p. 59. 97 della verità, la scuola doveva
infatti divenire tirocinio alla vita, e non doveva essere staccata da essa364.
Ciò implicava anche un assetto didattico in cui era prevista la formazione
professionale e la ginnastica. Sotto questo profilo critica la proposta
educativa di Platone365, considerata eccessivamente spiritualista. La scuola
deve preparare soprattutto alla partecipazione alla società, della quale essa
può diventare importante fermento di progresso e umanizzazione. In questo
senso, contestò posizioni come quelle di Rousseau, che mettevano in evidenza le
ingiustizie perpetuate nella socialità scolastica, invece che i suoi aspetti
formativi366. Allievo sottolinea il rapporto virtuoso tra educazione e società.
Solo se cresce il singolo, progredisce la comunità. Giustamente Allievo ricorda
che «La personalità umana giustamente intesa ed educata a dovere porta la
floridezza sociale»367. La scuola non poteva, tuttavia, essere vista come
funzione della società, e soprattutto del suo potere politico368. Il controllo
sociale esercitato mediante la scuola rischiava di tradire il principio della
personalità369. Il legame con la vita e l’unità dell’educazione, doveva essere
corroborato da una stretta collaborazione tra gli istituti scolastici e la
famiglia. Per questa ragione propone l’abolizione dei convitti, preferendo che
gli allievi restassero nella loro famiglia370. In caso di necessaria lontananza
dalla propria casa, Allievo indica come modello le pensioni libere inglesi in
cui gli alunni seppur lontano dalla propria casa vivono con un’altra famiglia,
a 364 «Quest’armonia tra la scuola e la società esige che nell’ordinamento
delle discipline scolastiche si abbia speciale riguardo a quelle che sono
peculiarmente reclamate dallo spirito del tempo, dai bisogni sociali,
dall’indole della nazione. Però anche qui non va dimenticato, che la scuola,
pur mentre si attempera alle condizioni della società, non debbe servire alle
medesime, come se fossero l’ideale supremo e definitivo di ogni umano
consorzio» G. Allievo, Opuscoli pedagogici, cit., p. 37. 365 G. Allievo, Delle
idee pedagogiche presso i greci, cit., p. 103. 366 «Il mio concetto della
persona umana, in servigio della quale dico ordinata la scuola, è ben altro dal
concetto della natura umana, in cui Rousseau vuole riposto il fine supremo
della educazione. Nell’essenza medesima della persona umana, che è intelligenza
ed attività volontaria, io scorgo la fonte medesima della socievolezza, ossia
la virtù di stringersi in comunanza di intendimenti e di voleri con altre
persone, mentre l’autore dell’Emilio reputa le istituzioni sociali natefatte a
snaturar l’uomo, spogliandolo dell’unità sua per assorbirlo come parte nel
tutto» G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad
uso delle scuole normali maschili e femminili, cit., p. 71. 367 Ibid., p. 71. 368
«La scuola non può, non debb’essere una funzione della società, perché ne
verrebbe essenzialmente snaturata. Infatti, la scuola è un santuario di
persone, ossia di creature intelligenti e libere, e non già una agglomerazione
di bruti o di cose. Ora la persona non è uno strumento ai voleri altrui, ma è
una creatura sacra, fornita di diritti, che vanno rispettati da qualunque
potere sociale, da qualunque autorità umana, il diritto all’esistenza, alla
verità, alla felicità, alla virtù, sicché se ad esempio la prosperità di un
popolo intiero costasse la schiavitù o la distruzione di una sola creatura
umana, già per ciò stesso dovrebb’essere detestata come un delitto. Orbene,
ponete che la scuola sia una funzione,una proprietà, un’appartenenza della
società e soggiaccia al suo assoluto dominio, e allora gli alunni non verranno
più educati siccome persone, che appartengono a sé stesse, ed ordinate ad un
fine, da cui hanno diritto di non essere deviate, bensì come mancipii del
volere sociale, come cose o strumenti in servizio della società» G. Allievo, La
nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, cit., p. 23. 369
«L’individualismo egoistico ed il socialismo oppressivo sono due estremi, che
contraddicono agli intendimenti della natura, la quale mentre chiama gli uomini
alla convivenza sociale, vuole ad un tempo salva la personalità di ciascuno».
G. Allievo, G. G. Rousseau filosofo e pedagogista, cit., p. 99. 370 G.
Allievo, Studi pedagogici, cit., pp. 333-335. 98 volte la stessa dei
propri insegnanti. Ciò aiuta a supplire la funzione dei genitori, che deve
rimanere un paradigma. Non è un caso che parlò della scuola come «seconda
famiglia»371. In merito all’organizzazione della scuola avanzò una serie di
proposte. Sosteneva il primato degli asili italiani rispetto a quelli
fröbeliani372, auspicava una scuola elementare unica senza distinzione di
censo373, mostrandosi fortemente preoccupato per una divisione della scuola
classista374. Propose la fusione del ginnasio con la scuola tecnica per
rimandare la scelta della scuola superiore di tre anni, ipotizzando così la
nascita di una scuola media unica. Sostenne il valore dell’educazione classica,
un insegnamento della filosofia armonico con le altre discipline, un più ampio
spazio alla storia italiana. Della scuola superiore critica l’eccessivo numero
di materie, e il quadro orario troppo lungo. Inoltre contestò i criteri di
valutazione negli esami, nei quali si preferisce la quantità alla qualità degli
apprendimenti, inducendo ad una mentalità enciclopedica e non critica. Anche
per questo motivo propone di eliminare la Giunta centrale per gli esami di
licenza liceale. Per quanto riguarda le scuole normali prospetta un quadro
orario in cui si affermi il 371 G. Allievo, La scuola educativa, principi di
antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili,
cit., p. 86. 372 «I nostri asili infantili sono una creazione del genio
nazionale e per un trentennio conservarono la loro originale impronta. Verso il
1860 entrarono in lotta coi seguaci della scuola germanica, che insorsero
coll’intendimento di atterrarli e sulle loro rovine costrurre i giardini
fröbeliani. I novatori lottarono e lottano tutt’ora coll’opera e colla parola,
nelle Conferenze pedagogiche e nei privati convegni, con ardore sempre vivo,
invocando ben anco in loro aiuto la potenza ministeriale (Vedi l’opuscolo
Società dei giardini d’infanzia di Udine, ecc. Udine, 1981, pag. 24). Ed il
Ministero non nascose la sua simpatia pel fröebelismo. Già nel regolamento del
188°, all’art. 28, esso sostituiva alla denominazione asili d’infanzia il
vocabolo giardini; poi impose ai professori di pedagogia presso le scuole
normali l’obbligo di insegnare alle allieve maestre in teoria ed in pratica il
metodo di Fröebel, prescrivendo lo stesso metodo alle scuole italiane aperte
all’estero, e nella sua Circolare del 27 gennaio 1889 manifestava
l’intendimento di «trasformare man mano i numerosi asiloi, secondo vecchi
metodi governativi, in istituti educativi informati a una dottrina che prenda
il nome dal Pestalozzi o da Fröebel, o meglio da entrambi; tal fine si può ben
dire ci abbia segnata la via, nella quale dobbiamo metterci». Nel fervore della
lotta non mancarono valenti istitutori, che, come l’Uttini a Piacenza, il
Colomiatti a Verona, la Goretti – Veruda a Venezia, si adopravano con saggio
accorgimento a riparare gli abusi ingenerati nelle scuole aportiane da
sbagliate applicazioni pratiche, ad adempiere i difetti ed introdurvi le
ragionevoli migliorìe, pur conservando intatto il principio interiore della
loro origine» Ibid., pp. 127-128. 373 Attacca quanti volevano fare una scuola
per il popolo e una per la classi agiate e scrive: «Quindi si fa necessaria una
scuola, la quale abbia appunto per iscopo di fornire quella coltura, la quale
occorre a tutte le classi sociali senza riguardo ed eccezione di sorta. La
scuola che risponde a questo fine universale è appunto la scuola elementare,
così denominata, perché ha per oggetto gli elementi della coltura umana. Da
questo suo concetto si scorge che essa non ammette disparità tra i figli
dell’operaio e i figli del facoltoso, perché la coltura primordiale è la stessa
per tutti: non deve mirare agli uni piuttosto che agli altri, ma va ordinata in
servigio di ambedue: essa è ad un tempo democratica ed aristocratica, rurale ed
urbana, popolare e borghese» Ibid., pp. 139-140. 374 «Alle corte, intendete voi
che la scuola elementare accolga a comune ammaestramento i figli di tutte le
classi sociali, o quelle soltanto della classe operaia? Nel primo caso, la
trasformazione, che propugnate, non più ragione di essere: nel secondo caso,
create un dualismo irragionevole» Ibid., p. 140. 99 «primato» alla
pedagogia, mentre nei licei, legandosi ad una battaglia tipica di quegli anni,
fu fautore della centralità della filosofia375. Da un punto di vista
metodologico richiama alla necessità di conoscere le facoltà psicologiche
dell’allievo e denuncia l’ignoranza della classe magistrale su tali tematiche.
Gli insegnanti sembrano essere più preoccupati di offrire agli alunni conoscenze
precise e copiose, rispetto a capire quanto i loro alunni possano imparare. Un
altro aspetto avversato dall’Allievo è un’idea caporalesca della disciplina,
che dimentica l’importanza della libertà e del consenso per un’educazione
efficace. Voleva che la scuola educasse al patriottismo. Ciò non deve far
pensare ad un Allievo nazionalista e sciovinista, il pedagogista era però
convinto che la scuola dovesse difendere la tradizione, la cultura e la
filosofia italiana376, di cui i giovani avrebbero dovuto acquisire
consapevolezza e orgoglio. Inoltre considerava importante l’assimilazione
dell’idea di nazione, intesa come comunità a cui appartenere e da servire. Per
questo propose di sostituire all’ «educazione civile», la materia di
«educazione italiana». Riguardo al tema dell’obbligo scolastico, che coinvolse
il dibattito pedagogico durante la costruzione del sistema scolastico
nazionale, Allievo si oppose alla sua applicazione, perché lo considerava
illiberale. Il pedagogista non intendeva restringere il diritto all’educazione
ad un’élite, ma riteneva che l’obbligo non fosse un mezzo adatto per la
diffusione dell’istruzione e dell’educazione377. Egli era altresì convinto che
bisognasse convincere alla scuola e non costringere378. Come non si possono obbligare
le persone ad essere virtuose o a lavorare, così non le si può costringere ad
istruirsi, mentre può moltiplicare le scuole e formare bravi insegnanti che
attirino le famiglie ad iscrivere i figli nelle scuole379. Dove c’è
costrizione, secondo l’Allievo, non può esserci una vera educazione. I. 9. La
libertà d’insegnamento e la riforma della scuola 375 «Nelle scuole normali
spetta alla pedagogia il posto supremo ed intorno ad essa vanno coordinate
tutte le altre materie. Nei licei la filosofia deve tenere il campo, siccome
quella, che in virtù del suo carattere universale è atta a collegare in
armonico accordo tutte le altre discipline» Ibid., p. 116. 376 Cfr. G. Allievo,
Studi pedagogici, cit., p. 36. 377 G. Allievo, Dell’istruzione obbligatoria,
Torino, Tipografia Subalpina, 1893, p. 5. 378 Sull’argomento, in un saggio cita
Lambruschini, che in una relazione presentata al Ministro Berti scrisse
»L’istruzione e l’educazione son cosa di sì alto ordine, e così degna di essere
desiderata e cercata per se medesima, che la violenza nell’imporle ne scema il
pregio agli occhi si chi deve riceverle, e ne spegne l’amore. Da un altro
canto, comechè si adoperi il Comune acciocchè l’istruzione sia ricevuta da
tutte le famiglie, non riuscirà mai nell’intelletto, se nelle famiglie non
nasce l’amore dell’istruzione”, dopo di ciò commenta “In Prussia erasi
organizzato un sistema di polizia, per cui allorquando un fanciullo si
rifiutava di recarsi a scuola, né il padre ve lo mandava egli stesso, un
poliziotto lo pigliava a casa e lo trascinava a scuola come un pubblico
malfattore» G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia e
didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, cit., p. 137.
379 G. Allievo, Dell’istruzione obbligatoria, cit., p. 12. 100 Le
posizioni di Allievo sulla scuola e sulla libertà d’insegnamento sono state in
parte già oggetto di studio380. Si tratta, infatti, di un contributo di
rilevante importanza nell’economia delle vicende scolastiche del secondo
Ottocento. Le opere più importanti in cui affronta tali questioni sono:
L’educazione e la nazionalità (1875)381, La legge Casati e l’insegnamento
privato secondario (1879)382, Intorno le scuole normali e gli asili di infanzia
fröbeliani (1888)383, Lo Stato educatore ed il Ministro Boselli, (1889)384,
Della istruzione obbligatoria (1893)385 e La scuola educativa (1893)386, poi
rivisto e pubblicato nel 1904387. A questi vanno aggiunti altri come: La
Riforma dell’educazione moderna mediante la riforma dello Stato (1879)388, Il
Classicismo nelle scuole (1891)389, Esposizione critica delle opinioni di
illustri pedagogisti intorno il rapporto tra l’educazione privata e la pubblica
(1898)390 Delle condizioni presenti della pubblica educazione (1886)391,
raccolti negli Opuscoli pedagogici (1909). In realtà, l’intera produzione
dell’Allievo è disseminata di richiami e rilievi su tali questioni392. 380 I
lavori sinora pubblicati lasciano spazio per ulteriori studi e considerazioni.
Il testo di R. Bonghi, Idee di G. Allievo circa la libertà d’insegnamento,
«Cultura», n. 19-20, 1889, p. 603, è scritto nel vivo delle polemiche
scolastiche del tempo e manca di una necessaria distanza critica e storica; il
lavoro di R. Berardi, La libertà d’insegnamento in Piemonte 1848-1859 e un
saggio storico di G. Allievo, cit., pp. 60-74, prende in esame una sola opera
del pedagogista, vale a dire Della pedagogia in Italia dal 1846 al 1866 (1867),
e soffre di una conoscenza parziale dell’opera del pedagogista; il saggio di A.
Consorte, Scuola e Stato in Giovanni Allievo, «Ricerche Pedagogiche», n. 12,
1969, pp. 52–65, seppur significativo, approfondisce soprattutto le polemiche
tra lo studioso piemontese e l’apparato ministeriale, tenendo peraltro conto
solo di alcune sue opere. 381 G. Allievo, L’educazione e la nazionalità,
Torino, Tip. del giornale Il Conte Cavour, 1875. 382 G. Allievo, La legge
Casati e l’insegnamento privato secondario, Torino, Tip. Salesiana, 1879. 383
G. Allievo, Intorno le scuole normali e gli asili di infanzia fröbelliani,
Torino, Tip. Subalpina,1888. 384 G. Allievo, Lo Stato educatore ed il Ministro
Boselli, Torino, Tip. del Collegio degli artigianelli, 1889. 385 G. Allievo,
Della istruzione obbligatoria, Torino, Tip. Subalpina, 1893. 386 G. Allievo, La
scuola educativa. Principi di antropologia e didattica: pedagogia elementare,
Torino, Tip. Subalpina, 1893. 387 G. Allievo, La scuola educativa. Principi di
antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili,
cit., 1904. 388 G. Allievo, La Riforma dell’educazione moderna mediante la
riforma dello Stato, Torino, Tip. Subalpina, 1879. 389 G. Allievo, Il
classicismo nelle scuole, Torino, Tip. M. Artale, 1891. 390 G. Allievo,
Esposizione critica delle opinioni di illustri pedagogisti intorno il rapporto
tra l’educazione privata e la pubblica, «Rivista pedagogica italiana», 1-2,
1898. 391 G. Allievo, Delle condizioni presenti della pubblica educazione.
Prolusione letta nella R. Università di Torino il 25 novembre 1886, Torino,
Tip. Subalpina, 1886. 392 In tutte le opere dell’Allievo sono ricorrenti degli
incisi nei quali lo studioso propone parallelismi con le condizioni scolastiche
coeve. Il seguente brano pare particolarmente paradigmatico. Dopo aver esposto
i caratteri della pedagogia romana, ad esempio, Allievo riporta un passo di una
lettera scritta da Plinio il giovane ed indirizzata a Corellia Ispulla, nel
quale le suggerisce di scegliere con oculatezza l’insegnante di retorica per il
figlio. Subito dopo, Allievo chiosa: «Qual profondo divario tra i tempi di
Plinio ed i nostri in riguardo ai pubblici studi! Allora la scuola si muoveva
libera da ogni potere governativo, epperò la scelta dei maestri spettava ai
genitori come un sacro e coscienzioso dovere. Ora invece lo Stato impone alle
famiglie i maestri da lui solo fabbricati ad immagine e somiglianza sua. Una
radicale riforma intorno a questo rilevantissimo punto della vita civile e
sociale è una necessità pedagogica. La libera attività dei cittadini, su cui
posa in gran parte la civiltà moderna, non consente che essi vengano trattati
come fanciulli, i quali hanno nel governo il loro supremo educatore ed assoluto
maestro. La libertà non è privilegio esclusivo di nessuno. 101 Il
problema della libertà d’insegnamento occupa un posto privilegiato nell’opera
di Allievo. Quest’attenzione è indubbiamente legata all’evoluzione del sistema
scolastico italiano, di cui il pedagogista vercellese denunciò la deriva
monopolistica ed un assetto contrario alla libertà d’insegnamento. Stando allo
studioso, tali politiche avevano profonde radici filosofiche e pedagogiche. In
particolare, erano la conseguenza da una parte della crisi del concetto di
libertà, e dall’altra, del «mito» dello Stato nato con la modernità. Lo
sbriciolamento della metafisica, inaugurato nel ‘600, condusse alla confusione
circa l’esistenza e il ruolo della libertà personale. Ciò portò ad una certa
sfiducia verso l’iniziativa privata, preferendo al rischio educativo la
gestione del processo formativo. D’altra parte con la modernità si impose il
profilo di uno Stato simile al «Leviatano» prospettato da Hobbes, nel quale il
governo di pochi si arrogava il diritto di fagocitare e sacrificare le singole
individualità in nome del bene della collettività. Un «mostro», come lo definì
Allievo, ingombrante, fatto di meccanismi politici e burocratici. Da ciò la
scuola e l’educazione non erano più considerate una responsabilità della
famiglia, ma dello Stato393. Il vercellese definiva questo statalismo anche
«socialismo governativo». In una sua opera spiega: «socialismo dico ogni
istituzione che la santa autonomia della persona e della famiglia disconosca in
qualsiasi modo, rimestando ad arbitrio quella convivenza sociale che ha da
posare sicura sulle leggi eterne dell’umanità»394. In un altro saggio commenta:
«Socialismo governativo è lo Stato moderno; socialismo pedagogico è
l’educazione moderna. Lo vuole la logica, lo proclamano i fatti. Onnipotente è
lo Stato? Dunque onnisciente. Creazione sua la società? Dunque suo feudo la
scuola. Esso, che si reputa l’umanità, ben può dire di sé: l’educatore sono
io»395. Secondo Allievo, da tale pretesa nacque il controllo sul sistema
scolastico, sui programmi, sul reclutamento degli insegnanti,
sull’organizzazione degli esami, sui libri di testo. La monopolizzazione della
scuola era sentita dall’Allievo in modo catastrofico: «Là dove l’educazione
propria della famiglia viene sacrificata all’educazione dello Stato, vano è lo
sperar bene delle sorti di una nazione»396. Scrive: «Non si dà libero cittadino
senza il governo di sé, né si da governo Governi lo Stato le sue pubbliche
scuole; ma siano libere le famiglie di associarsi insieme per fondare istituti
educativi ed imprimere ad essi un indirizzo rispondente alle loro aspirazioni
egualmente che allo spirito del tempo. Così sorgerebbe una nobile gara, da cui
la pubblica educazione trarrebbe singolare e felice incremento», in G. Allievo,
La pedagogia italiana antica e contemporanea, cit., p. 40. 393 Commentando il
progetto di legge di Baccelli sul riordinamento degli studi universitari, lo
studioso vercellese scrive: «Il Ministro, che l'ha proposto, sente che nella
coscienza universale ferve irrefrenabile l'aspirazione alla libertà; ma ad un
tempo è imbevuto del dominante pregiudizio, che il Governo è lui il primo e
sovrano motore di tutta la vita pubblica e civile, è lui l'unico ed assoluto
maestro ed educatore della nazione, che la legge è lui, come Luigi XIV
proclamava sé lo Stato» G. Allievo, L’autonomia universitaria proposta dal
Ministro Baccelli ed esaminata da Giuseppe Allievo, Torino, Tip. Subalpina,
1899, p. 5. 394 G. Allievo, Opuscoli pedagogici, cit., p. 11. 395 Ibid., pp.
11-12. 396 G. Allievo, G. G. Rousseau filosofo e pedagogista, cit., p.
89. 102 di sé quando lo Stato siede arbitro e donno di tutte le
attività umane. Tolta di mezzo l’autonomia personale de’ singoli cittadini
anche l’indipendenza della nazione diventa ingannevol menzogna; e verrà giorno
in cui suprema battaglia per un popolo quella sarà che esso combatterà non per
l’indipendenza dalla straniero, ma dalla statolatria»397. Va notato che nella
prospettiva di Allievo, il concetto di Stato è ben separato da quello di
Nazione, come giustamente ha rilevato polemicamente la Bertoni Jovine398. Per
il pedagogista la Nazione è espressione della civiltà, di valori, di tradizioni,
di una storia, mentre lo Stato non necessariamente ne rappresenta e asseconda
gli interessi. La famiglia rappresenta il punto di congiunzione tra l’individuo
e la Nazione, e ad essa lo Stato deve rispondere nell’organizzazione della
scuola. Lo stato è nato per servire la famiglia, e suo compito è garantirne la
libertà. Secondo Allievo: «È necessario far penetrare nella coscienza sociale
questa gran verità, che principio, cardine e ragion d’essere dello Stato è la
famiglia, che fondamento e centro unificatore della vita pubblica e civile è la
vita domestica, e che perciò i primi educatori per diritto e per natura sono i
genitori, che lo Stato non possiede un diritto pedagogico e scolastico assoluto
e supremo, ma relativo soltanto e derivato dalla famiglia»399. Per queste
ragioni: «Il Governo non può avere altro diritto scolastico, se non quello, che
gli venga implicitamente o esplicitamente consentito dalla famiglia, ciò è a
dire un diritto relativo, non assoluto, secondario e non supremo, partecipato e
non originario»400. Non sembrano dunque fondate le critiche mosse ad Allievo,
circa la connessione tra l’antistatalismo e un presunto individualismo
scaturigine del principio della personalità, segnalato da Vidari401. Il
pedagogista non professava una totale anarchia in campo educativo, ma
esautorava lo Stato dal diritto assoluto sull’educazione. 397 G. Allievo,
Opuscoli pedagogici, cit., p. 18. 398 «Uno dei più forti oppositori della
preminenza dello Stato nell’educazione fu Giuseppe Allievo, dell’università di
Torino, che svolse il concetto di “nazione” distinguendolo da quello di Stato.
Lo Stato non ha alcun diritto ad educare, mentre la nazione che “è lo stesso
uomo collettivo”, influisce con tutti i suoi elementi sullo sviluppo
dell’individuo; onde nazionalità ed educazione sono due fatti inseparabili. È
naturale che fra i più importanti elementi della nazione l’Allievo collochi la
religione e la Chiesa pur accettando dagli avversari alcuni elementi più
moderni diventati realtà con le vittorie liberali. Con l’esigenza di uscire dal
ristretto cerchio della famiglia, si assimila infatti, in questa ideologia, il
concetto basilare di patria. Si supera così il punto critico che divideva i
liberali dai clericali: “Dio, patria e famiglia” divengono i tre pilastri fondamentali
dell’educazione sui quali i cattolici più avanzati e i liberali moderati vi
ritrovano la concordia; ma se i clericali assimilavano l’educazione
patriottica, esigevano che i liberali accettassero l’educazione religiosa. E
questo era possibile perché nonostante la vittoria laicista ottenuta con la
legge Coppino, non era mai stata definita la questione dell’insegnamento del
catechismo» D. Bertoni Jovine, F. Malatesta, Breve storia della scuola
italiana, cit., p. 25. 399 G. Allievo, Opuscoli pedagogici, cit., p. 43. 400 G.
Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle
scuole normali maschili e femminili, cit., p. 73. 401 «In fondo l’impronta
fortemente individualistica, un po’ derivata dal principio della persona, ma
molto anche da una deficienza del senso della continuità e unità storica nella
vita dello spirito, è prevalente in tutta la pedagogia dell’Allievo; e si
presenta poi in forma estrema là dove, applicando alla politica e al diritto
i 103 Sulla paternità della responsabilità educativa, famiglia o
stato, si giocò il dibattito pedagogico sul tema, considerato tale non solo in
ambito spiritualista402. Allievo attribuisce alla famiglia la responsabilità
educativa. La famiglia è il nucleo che solo può permettere il futuro della
Nazione e una vera educazione delle giovani generazioni. Sugli stessi principi,
critica aspramente anche Fröbel per non aver riconosciuto il primato della
famiglia sulla società.403 Sotto questo profilo sono evidenti i richiami alla
tradizione del cattolicesimo liberale, che attribuiva alla famiglia un valore
educativo centrale, nelle opere di autori come Berti, Gustavo di Cavour e
Rosmini, i quali fondavano la libertà d’insegnamento proprio sul principio
della libertà e sul protagonismo educativo della famiglia. Attacca in più di
un’occasione gli hegeliani come Spaventa e i positivisti come Siciliani,
Angiulli, De Dominicis, considerati fiancheggiatori della statolatria. Il
seguente brano lumeggia le sue idee: «Riponendo nella famiglia la suprema
autorità scolastica noi ci troviamo collocati nel giusto punto di mezzo tra i
due opposti sistemi, dei quali l’uno attribuisce al Governo un assoluto e
supremo diritto sopra la scuola, l’altro gli niega ogni e qualunque siasi
ingerimento pedagogico. Se lo Stato possiede bensì un’autorità nell’ordine
scolastico, ma subordinata a quella della famiglia e de’ privati cittadini, ne
consegue che esso deve lasciare luogo alla libertà della scuola, e potersi con
questa conciliare. E qui si vede la ragione di ammettere, oltre le scuole
pubbliche governative, anche le scuole private, le quali però non devono essere
una storpiatura, una copia forzata e stereotipata delle scuole governative, ma
hanno diritto di muoversi libere e spontanee dentro un’orbita loro propria. Il
libero insegnamento va riconosciuto siccome una delle più splendide forme della
libertà politica e civile, che informa la scuola moderna»404. Egli non
teorizzava l’anarchia in campo educativo, ma uno Stato meno opprimente e più
rispettoso della libertà. Come ha fatto notare Giorgio Chiosso, egli preferiva
allo «Stato educatore» uno «Stato regolatore»405. Egli, infatti, non escludeva
il controllo dello Stato suoi concetti, arriva a concepire la libertà
d’insegnamento in modo essenzialmente antistatale, così da affermare che “lo
Stato non possiede un diritto pedagogico e scolastico assoluto e supremo, ma
relativo soltanto e derivato dalla famiglia”» G. Vidari, Il pensiero pedagogico
italiano nel suo sviluppo storico, cit., pp. 86-87. 402 Non è un caso che la
voce “Libertà d’istruzione” curata da Fornari nel Dizionario Illustrato di
pedagogia di Credaro e Martinazzoli, che rappresenta uno spaccato della
pedagogia italiana di fine Ottocento, introduca il tema con la domanda «A chi
appartengono i figlioli?» Cfr. P. Fornari, Libertà d’istruzione, in A.
Martinazzoli e L. Credaro (ed.), Dizionario illustrato di Pedagogia, Milano,
Vallardi, 1895, vol. II, p. 62. 403 G. Allievo, Delle dottrine pedagogiche di
Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure, Francesco Naville e Gregorio
Girard, cit., p. 117. 404 G. Allievo, Lo Stato educatore ed il Ministro
Boselli, cit., pp. 24-25. 405 G. Chiosso, Alfabeti d’Italia, Torino, Sei, 2011,
p. 93. 104 sull’istruzione406. Nonostante la comune rivendicazione
della libertà di insegnamento, le tesi dell’Allievo si discostavano da quelle
allora prevalenti nel mondo cattolico, in particolare negli ambienti
dell’intransigentismo. In questo caso il principio della libertà d’insegnamento
era alquanto strumentale e sostenuto più per ragioni pragmatiche che per la sua
validità pedagogica. La vera scuola era quella «cristiana» e in nome di questa
si avvertì l’esigenza di creare una scuola cristiana parallela a quella
statale, in linea con quella logica «separatista» dal “paese legale” che ebbe
largo corso dopo Porta Pia. Per questo motivo era chiaro che una rivendicazione
simile sarebbe stata immotivata in uno Stato rispettoso dell’educazione
religiosa e cristiana407. Per Allievo invece, la libertà rappresentava un
valore effettivo per la scuola. In questo senso contestava la contraddizione di
molti sedicenti liberali, che in molti paesi europei negavano la «lotta»408,
cioè la concorrenza, proprio in campo educativo. Secondo il pedagogista il
concorso di soggetti privati all’istruzione del popolo, il confronto e il
«gareggiamento» tra le diverse realtà, rappresentava un volano per il
miglioramento della scuola. Per mostrare i vantaggi dell’applicazione di tale
principio, Allievo approfondì con appositi studi i sistemi di istruzione di
Gran Bretagna e degli Stati Uniti, dove i principali liberali avevano forgiato
anche le istituzioni scolastiche. Un altro stato indicato come modello da
Allievo per quanto riguarda l’autonomia scolastica è il Belgio, di cui cita ed
elogia gli articoli della Costituzione concernenti la libertà
d’insegnamento409. Alla realtà educativa degli Stati Uniti dedicò un saggio
dettagliato intitolato Dell’educazione pubblica negli Stati Uniti D’America410.
In esso sostiene come la peculiarità del sistema scolastico americano fosse la
libertà dei cittadini di fondare e 406 Sempre criticando il citato progetto di
legge Baccelli sull’Università scrive: «Ecco il primo articolo della sua
proposta: “Alle regie Università e a tutti gli altri Istituti d'istruzione
superiore è concessa personalità giuridica ed autonomia didattica,
amministrativa, disciplinare sotto la vigilanza dello Stato”. È cosa manifesta,
che autonomia e vigilanza sono i due concetti supremi, a cui s'informa questo
disegno di legge; ma è pur evidente, che il giusto significalo dell'autonomia
dipende dai limiti, che vengono segnati alla vigilanza. Che lo Stato vegli,
bene sta: ma la vigilanza sua va circoscritta entro determinati confini, sicché
non trasmodi in un illimitato ingerimento e soppianti la libertà» G. Allievo,
L’autonomia universitaria proposta dal Ministro Baccelli ed esaminata da
Giuseppe Allievo, cit., p. 5. 407Luciano Pazzaglia ha rilevato come,
soprattutto dopo l’Unità, più che la difesa del principio della libertà
d’insegnamento in quanto tale, prevalse nella Chiesa la rivendicazione della
sua prerogativa educativa. Commentando la significativa allocuzione di Pio IX
alla Gioventù italiana del 6 gennaio 1875, lo studioso della Cattolica osserva:
«Pur continuando a sostenere la tesi del monopolio educativo della Chiesa e a
condannare, parallelamente, la libertà d’insegnamento come principio che mal si
conciliava con i diritti della verità di cui solo il magistero sarebbe
l’autentico interprete, concedeva che in certe condizioni la libertà d’insegnamento
potesse diventare per i cattolici uno strumento essenziale al raggiungimento
dei loro obiettivi» in L. Pazzaglia, Educazione e scuola nel programma
dell’Opera dei Congressi (1874-1904), in Cultura e società in Italia nell’età
umbertina, cit., p. 426. 408 G. Allievo, L’autonomia universitaria proposta dal
Ministro Baccelli ed esaminata da Giuseppe Allievo, cit., p. 8. 409 G. Allievo,
Lo Stato educatore, in Opuscoli pedagogici, cit., pp. 68-69. 410 Il saggio è
inserito negli Opuscoli pedagogici, cit., pp. 380-406. 105
mantenere delle scuole. Secondo Allievo ciò permise di far sorgere tantissime
scuole pubbliche non statali che hanno accresciuto la vita scientifica e
sociale della giovane nazione, che seppur fondata da poco, aveva di gran lunga
superato nella libertà e nella preparazione le scuole del vecchio continente.
Sostiene inoltre che l’Università americana fosse molto più democratica di
quella italiana. Seppur finanziata dalle tasse di tutti i cittadini le
Università italiane erano frequentate quasi solo da persone benestanti, a causa
delle alte tasse che venivano chieste alle famiglie di studenti. Negli Stati
Uniti invece anche se le Università si mantengono quasi esclusivamente sulle
tasse degli studenti gravando relativamente poco sui bilanci statali,
esistevano numerose borse di studio che permettevano agli studenti capaci, ma
con pochi mezzi, di poter frequentare prestigiose Università. Nel testo
valorizza anche le «Scuole di scienza» e cioè le Università scientifiche di
medicina e ingegneria che si diffondevano nel paese. Gli Stati Uniti erano un
chiaro esempio del fatto che il monopolio dell’istruzione fosse in
contraddizione con i principi dello stesso liberalismo. Allievo sostiene che
«Il libero insegnamento va riconosciuto siccome una delle più splendide forme
della libertà politica e civile, che informa la società moderna»411, i liberali
italiani erano incoerenti con i loro stessi principi. Scrive su tale
contraddizione: «La libertà delle scuole è la suprema necessità del momento, se
già non fosse un principio sacrosanto scritto nel codice della civiltà vera; è
l’unica tavola di salvamento nel presente naufragio della nostra istruzione. Ma
qual è l’opinione dominante su questo vitale argomento? Anche qui dissidio di
menti e lotta di idee. Propugnatori del libero insegnamento non mancano, ma ad
esso non sanno fare buon viso i novatori e gli iperdemocratici, i quali lo
vogliono angustiato in tale strettoie governative da farne un monopolio per sé
e per i loro seguaci. Ingrato spettacolo di gente che vela con una mano la
statua della libertà dopo di averla coll’altra levata alla pubblica
venerazione»412. Ma le posizioni dell’Allievo erano in controtendenza rispetto
agli indirizzi del Ministero. La lobby massonico liberale che tenne le fila della
Minerva nei decenni successivi all’Unità contrastava la battaglia per la
libertà d’insegnamento dietro la quale vedeva la mano della Chiesa preoccupata
di non perdere l’egemonia sull’istruzione e sull’educazione, messa in seria
discussione dopo l’Unità. L’istruzione pubblica e l’Università resteranno sotto
il totale controllo del Ministero, le scuole libere saranno tollerate, ma
discriminate sotto il profilo giuridico ed economico. Niente fu fatto per una
vera parità nell’erogazione dei titoli di studio, una delle questioni da 411 G.
Allievo, Lo Stato educatore, in Opuscoli pedagogici, cit., p. 68. 412 G.
Allievo, La pedagogia italiana antica e contemporanea, cit., pp. 164-165.
106 cui dipende l’effettiva libertà d’insegnamento. Lo statalismo scolastico,
infatti, è primariamente un monopolio di «abilitazioni», controllando le quali
il governo «obbliga» e i giovani a frequentare le sue scuole. D’altra parte,
costringeva le scuole libere ad adeguarsi ai dettami governativi. In un testo
osserva: «Bella concorrenza davvero sarebbe quella di Istituti privati ridotti
ad una storpiatura o miserevole copia dei governativi! Bella libertà scolastica
quella di chi fosse legato mani e piedi ai ceppi dell'Autorità ufficiale»413.
Paradossalmente il percorso di statalizzazione della scuola e di riduzione
degli spazi di autonomia per le iniziative educative libere iniziò in un
periodo in cui la pedagogia sembrava andare in una direzione opposta. La
libertà d’insegnamento fu, infatti, un tema largamente sviluppato nella riflessione
cattolico liberale che aveva caratterizzato la stagione risorgimentale.
Lambruschini, Rosmini, Tommaseo, Gioberti, con le dovute differenze,
auspicavano per lo Stato un ruolo da supervisore nell’educazione pubblica, non
quello di gestore e macchinatore dell’istruzione e dell’educazione. Il percorso
di statalizzazione tradiva quei principi di libertà caratteristici del clima
culturale del ’48. Allievo denunciò questa inversione di tendenza, riprendendo
i temi della Società pedagogica: «Il primo Congresso generale tenuto dalla
Società in Torino nell’ottobre del ‘49 rivelava in modo solenne l’unità di
disegno e l’universalità del concetto che la governava: senatori del Regno e
deputati del Parlamento, autorità ministeriali e scolastiche, membri di Accademie
scientifiche e reggitori di istituti educativi, professori e dottori di
Università e maestri elementari, sacerdoti e laici, esuli degli altri Stati
della patria comune illustri per sapere, intelligenti promotori della pubblica
educazione, là convenivano a pubblica discussione, e nella arena del
dibattimento discendevano insieme affratellati i cultori degli studi classici e
speculativi coi maestri dell’istruzione tecnica e professionale, i reggitori di
pubblici e governativi istituti scolastici ed i favoreggiatori del privato e
libero insegnamento. Così il Piemonte, appena sorto a nuova vita, adoperava in
servigio di nobilissima causa il diritto di libera associazione allora sancito
nel nuovo Statuto Carlalbertino, ma, prima che negli stati politici, scritto a
caratteri indelebili nel gran codice della natura; così esso porgeva uno
splendido esempio di attività cittadina e di privata entratura, che sole sanno
a tenere a modo la podestà del governo così lesta ad invadere diritti non suoi.
E si fosse mantenuta costante quell’attività e quell’entratura privata, e
propagatasi più rigogliosa e compatta in tutte le regioni d’Italia! Chè ora la
pubblica istruzione del nostro paese non gemerebbe soffocata da alcuni anni
sotto lo strettoio del potere esecutivo»414. Già nel saggio sull’hegelismo del
1868 attribuì a 413 G. Allievo, La legge Casati e l’insegnamento privato
secondario, cit., p. 8. 414 G. Allievo, La pedagogia italiana antica e
contemporanea, cit., p. 90. 107 Cavour e al «cavourinismo» la colpa
per il profilo illiberale della scuola italiana415. Una simile lettura del
pensiero e delle responsabilità dello statista piemontese sembra essere
confermata dall’iter della legge Lanza416. Esso quindi vedeva nei principi
della legge Casati degli aspetti positivi, poi traditi dalle politiche
successive417. I. 10. Le polemiche con la Minerva Il docente dell’ateneo
subalpino non si limitò a teorizzare i princìpi intorno a cui si sarebbe dovuta
realizzare la libertà scolastica, ma entrò in diretta polemica con gli esponenti
politici più o meno «statolatri» che, tra la sua giovinezza e la maturità,
governarono il Dicastero dell’Istruzione Pubblica. Qualche anno dopo la laurea,
già noto per alcune pubblicazioni, Allievo fu incaricato dal Ministro Berti di
scrivere un saggio sulla scuola e la pedagogia italiana in occasione della
mostra universale della Arti e delle industrie a Parigi del 1867. Ne uscì il
saggio Della pedagogia in Italia dal 1846 al 1866418 (1867), che, tuttavia, non
incontrò il parere positivo del ministero, motivo per il quale il libro non fu
presentato alla fiera419. Commentando quell’episodio Gerini osservò come mentre
il positivismo fosse una dottrina «protetta in alto», «agli avversari della
pedagogia spiritualistica furono prodigati tutti i favori del Ministero, a lui
l’oblio»420. Le posizioni espresse dall’Allievo, considerando le quali non
desta meraviglia la censura ministeriale, sono utili per introdurre le sue
critiche alla politica scolastica post unitaria. Già nello scritto del 1867,
l’Allievo nel ripercorrere gli anni del riformismo 415 G. Allievo, L’Hegelismo
e la scienza, la vita, cit., p. 7. 416 M. C. Morandini, Da Boncompagni a
Casati: l’affermazione del modello centralistico nella costruzione del sistema
scolastico preunitario (1848 – 1859), in F. Pruneri (ed.), Il cerchio e
l’ellisse, centralismo e autonomia nella storia della scuola dal XIX al XXI
secolo, cit., p. 50. 417 Tale lettura è confermata in un opera della fine del
secolo. Scrive: «Or mezzo secolo fa veniva promulgata la legge pel
riordinamento della pubblica istruzione, che ancora oggidì governa il nostro
insegnamento universitario. Quella legge porta l'impronta del tempo, che l'ha
inspirata, fervido di nobili aspirazioni e di grandi speranze. La libertà non
era un nome vano ed illusorio, ma una santa realtà potentemente sentita,
lealmente riconosciuta, mirabilmente armonizzata col rispetto dello patrie
istituzioni. Gli animi tutti erano assorbiti nella grande idea
dell'indipendenza nazionale, e davanti alla coscienza del popolo italiano
splendeva l'ideale di un nuovo glorioso avvenire. Ora non ci riconosciamo più.
Dal 1859 al 1899 siamo discesi sempre più giù per la china del decadimento. Lo
Stato andò sempre più invadendo il campo riservato all'attività dei cittadini
comprimendo sotto il suo strettoio le energie individuali» G. Allievo,
L’autonomia universitaria proposta dal Ministro Baccelli ed esaminata da
Giuseppe Allievo, cit., 1899, p. 3. 418G. Allievo, Della pedagogia in Italia
dal 1846 al 1866, cit.; poi in G. Allievo, La pedagogia italiana antica e
contemporanea, cit., pp. 84-168. 419 Lo stesso pedagogista racconta la vicenda
in G. Allievo, Della pedagogia in Italia dal 1846 al 1866, cit., pp.
99-100. 420 G. B. Gerini, La mente di Giuseppe Allievo, cit., p. 126. 108
pedagogico subalpino all’origine della riforma Boncompagni del 1848421,
lamentava che gli ideali originari – ispirati al principio della libertà
scolastica – fossero stati in seguito gravemente compromessi dalle iniziative
successive che avevano invece rafforzato il ruolo dello Stato422. Secondo
Gerini, l’ostilità del ministero ebbe delle conseguenza nella progressione di
carriera dell’Allievo: Straordinario nel 1871, ottenne la promozione ad
Ordinario solo nel 1878423. In un’altra occasione sembrò al pedagogista
vercellese di aver subito un torto dalle autorità politiche, quando cioè,
eletto consigliere comunale, fu volutamente escluso dall’assessorato
all’istruzione424. La lettura di Allievo sull’evoluzione del sistema scolastico
italiano fu ripresa nel già citato La Legge Casati e l'insegnamento privato
secondario apparso nel 1879. In questo scritto l’Allievo denunciava la
contraddizione tra le norme a tutela della libertà scolastica prevista dal
testo del 1859 e la loro attuazione pratica, sulla base del principio politico
secondo cui il Governo «sopravveglia il privato a tutela della morale,
dell'igiene, delle istituzioni dello Stato e dell'ordine pubblico»425. Per
quanto la Casati riconoscesse l’utilità di una proficua «concorrenza degli
insegnamenti privati con quelli ufficiali»426, le norme e gli atti successivi
andarono contro questo principio. Per Allievo era evidente che politiche simili
fossero dettate dal timore del Clero e della sua presenza educativa, ma ciò non
poteva minimamente giustificare la soppressione della libertà427. 421Va
sottolineato come il principale redattore del testo legislativo, fu il
sacerdote Giovanni Antonio Rayneri. Cfr. M.C. Morandini, Da Boncompagni a
Casati: l’affermazione del modello centralistico nella costruzione del sistema
scolastico preunitario (1848- 1859), cit., p. 42. 422G. Allievo, La pedagogia
italiana antica e contemporanea, cit., p. 90. 423Secondo Gerini, genero
dell’Allievo (ne aveva sposato la figlia), curatore di numerosi saggi sul
pedagogista, il ritardo non fu casuale. Citando una lettera dello stesso
Allievo al ministro De Sanctis e alcune considerazioni di Parato, egli sostiene
che ci fu una ostruzione ministeriale alla carriera del vercellese, motivata
dal suo credo spiritualista e dalle sue posizioni critiche nei confronti delle
politiche ministeriali. Cfr. G.B. Gerini, La mente di Giuseppe Allievo, cit.,
pp. 10-12. 424 Come racconta Gerini: «Dopo le elezioni amministrative del 1895,
essendo riuscito con bella votazione consigliere (il 20° su 80), l’Allievo venne
chiamato a far parte della Giunta. Costituita la quale “l’opinione generale e
più favorevole, specie nel corpo insegnante di tutti i gradi d’istruzione,
dalla elementare alla universitaria, era che nella distribuzione dei varii rami
di amministrazione fra gli assessori, al prof. Allievo sarebbe toccato il
governo dell’istruzione, essendo egli la persona meglio indicata, per
attitudini particolari ben note, a tenerlo: invece venne destinato dal sindaco
alla direzione della Biblioteca dei Musei”. Naturalmente l’Allievo con sua
lettera in data 5 luglio rinunziava all’assessorato. Il sindaco Rignon, cui non
menziono in questo luogo a titolo d’onore, non gli affidava l’ufficio
dell’istruzione perché non si conoscevano ancora abbastanza le sue idee intorno
al governo delle scuole, pur essendo disposto a commetteglielo quanto avesse
avuto campo di far conoscere il suo modo di pensare (Osservatore scolastico di
Torino, 13 luglio 1895). Il fatto non abbisogna di commenti. Basti il dire, che
qualche tempo dopo il Rignon chiamava all’assessorato dell’istruzione un
avvocato, il quale non aveva mai dimostrato d’intendersi d’amministrazione
scolastica. – Nelle successive elezioni l’Allievo declinò in modo irremovibile
la candidatura» Ibid., pp. 11-13. 425 R. D. 13 novembre 1859, n. 3725, art. 3.
426 G. Allievo, La legge Casati e l’insegnamento privato secondario, cit., p.
12. 427 “La potenza che voi paventate nel clero; non la distruggerete colla
forza dei divieti, ma la fortificate colla mostra della persecuzione e colla
vostra sfiducia nella libertà. Voi la volete la libertà, ma per voi e per
109 Nell'appendice l’Allievo dimostra tale tesi, analizzando nel
dettaglio i diversi provvedimenti elaborati dai successori di Casati, tra cui
Natoli, Coppino e Correnti, criticandone lo scarto rispetto ai principi della
legge fondativa del ’59. E così icasticamente conclude: «Da vent'anni e più
anni la legge riconobbe e sancì il principio del libero insegnamento: da quasi
venti anni il Governo continua a misconoscerlo, la burocrazia a
manometterlo»428. La stessa lettura dell'evoluzione dell'ordinamento scolastico
italiano è confermata in un altro testo di vent’anni dopo429. Un caso esemplare
del «tradimento della Casati» riguarda la figura dell’istitutore libero. Come
spiega Allievo, secondo la legge: «L’istitutore è governativo o libero,
secondochè la scuola, in cui esercita il suo magistero educativo, è retta dallo
Stato o da privati cittadini. All’uno il governo prescrive la sostanza e la
forma del suo insegnamento, la misura, il procedimento, il criterio direttivo.
Dall’altro la vigente legge 13 novembre 1859 esige i titoli, che lo
autorizzano, ed il rispetto dell’igiene, della morale e delle patrie
istituzioni, epperò la sua libertà non è assoluta; ma non concede al Governo di
sindacare, se e quanto, e come egli educhi e insegni; chè altramente la libertà
dell’istitutore si risolverebbe in una vana parola»430. Ma alla libertà
riconosciuta dalla Casati, conclude l’Allievo, corrisposero norme restrittive
che di fatto compromisero l’iniziativa dei liberi insegnanti. Non meno severa
era la denuncia dei rischi dell’ingerenza statale sull’identità delle scuole
private: «Dalle recenti statistiche – così scriveva nel 1879 – si rileva come
gli istituti secondari liberi affidati alle provincie, ai comuni alle
corporazioni religiose, ai privati, gareggino per numero con quelli del
Governo; il che è splendido argomento del grande amore, che nutrono i
cittadini, per l’incremento degli studi e lo sviluppo della coltura sociale; ma
non si può non provare ad un tempo un sentimento increscevole e doloroso in
veggendo come tanti nobili sforzi vengano in gran parte sciupati dallo smodato
ingerimento del Governo, il quale introduce la monotona e rigida uniformità de’
suoi gli amici vostri; a siffatta guisa di libertà anche i vostri avversarii
potrebbero fare buon viso, anche la Czar delle Russie: di una veneranda matrona
ne avete fatto una brutta ed intollerabile Megera.” G. Allievo, La legge Casati
e l’insegnamento privato secondario, cit., p. 28. 428 Ibid, p. 26. 429 Un passo
di un saggio del 1899 conferma la lettura di Allievo: «Or fa mezzo secolo fa
veniva promulgata la legge pel riordinamento della pubblica istruzione, che
ancora oggidì governa il nostro insegnamento universitario. Quella legge porta
l'impronta del tempo, che l'ha inspirata, fervido di nobili aspirazioni e di
grandi speranze. La libertà non era un nome vano ed illusorio, ma una santa
realtà potentemente sentita, lealmente riconosciuta, mirabilmente armonizzata
col rispetto dello patrie istituzioni. Gli animi tutti erano assorbiti nella
grande idea dell'indipendenza nazionale, e davanti alla coscienza del popolo
italiano splendeva l'ideale di un nuovo glorioso avvenire. Ora non ci
riconosciamo più. Dal 1859 al 1899 siamo discesi sempre più giù per la china
del decadimento. Lo Stato andò sempre più invadendo il campo riservato
all'attività dei cittadini comprimendo sotto il suo strettoio le energie
individuali» G. Allievo, L’autonomia universitaria proposta dal Ministro
Baccelli ed esaminata da Giuseppe Allievo, cit., p. 3. 430G. Allievo, La scuola
educativa. Principi di antropologia e didattica: pedagogia elementare, cit., p.
86. 110 metodi, de’ suoi programmi, de’ suoi studi là dove
dovrebbe lasciare, che si svolga libera, varia e feconda la vita
scolastica»431. Ciò dipendeva, a giudizio del pedagogista piemontese, dal
monopolio statale dei titoli di studio, mediante il quale il Governo
disincentivava l’iscrizione negli istituti liberi. Inoltre il «pareggiamento»
delle scuole libere, condizione per erogare titoli equiparati a quelli statali,
era regolamentato da norme restrittive e obbligava all’omologazione con il
sistema statale. Come denunciò il vercellese: «A chiunque si muova fuori
dell’orbita degli studi segnata dal Governo, è chiuso irrevocabilmente l’adito
alle professioni liberali; potrà procacciarsi una coltura scientifica e
letteraria ampia ed eletta per quanto si voglia, ma prima pur sempre di un
carattere pubblico e legale, e ridotta ad un puro ornamento dell’animo e nulla
più»432. Allievo leggeva bene la situazione della concorrenza tra scuole
statali e non statali. La Talamanca, riprendendo il dibattito parlamentare su
tali argomenti, fa notare come le scuole private cattoliche avessero un numero
maggiore di studenti rispetto a quelle statali. Cita il senatore Menabrea che
nel maggio del 1872 fa notare come sui 4136 studenti che avevano sostenuto la
licenza liceale, ben 2670 provenivano da scuole private e seminari433. Ma come
dimostrano le vicende successive, il sistema nato dalla Casati avrebbe portato,
come denunciato dall’Allievo, all’assottigliamento delle scuole private. Sulla
volontà del governo di attuare la libertà d’insegnamento è particolarmente
significativo un breve saggio dal titolo: L’autonomia universitaria proposta
dal Ministro Baccelli ed esaminata da Giuseppe Allievo434. Il testo non riporta
la data di pubblicazione, ma si può desumere da alcuni brani che sia stato dato
alle stampe nel 1899. Allievo critica nel testo della legge una profonda
ipocrisia. Da una parte si affermava il principio dell’autonomia, ma nei fatti
esso rimaneva un flatus vocis, in quanto veniva contraddetto dal resto della
legge. Infatti il progetto non segnava i limiti della “vigilanza” governativa;
sanciva che i confini dell’autonomia sarebbero stati in seguito definiti dal
Consiglio Superiore e dal Consiglio di Stato (senza contrattazione con gli
atenei); affermava che la nascita di nuove Università, Istituti o Scuole
d'istruzione superiore, o di Facoltà poteva avvenire esclusivamente per
decreto; attribuiva al Ministero il potere di respingere le 431 G. Allievo,
Opuscoli pedagogici, cit., p. 25. 432 Ibid., p. 25. 433 A. Talamanca, La scuola
tra Stato e Chiesa dopo l’Unità, in Chiesa e religiosità in Italia dopo l’Unità
(1861-1878), cit., vol. I, p. 365. 434G. Allievo, L’autonomia universitaria
proposta dal Ministro Baccelli ed esaminata da Giuseppe Allievo, cit., p.
3. 111 proposte di nomina o di conferma dei professi ordinari e
straordinari avanzate dalle Università. In questo modo, ironizza Allievo, «il
Governo lascia alle Università il governarsi da sé, purché si governino a modo
suo»435. Il pedagogista guarda così al modello medioevale, tornando a
contestare l’idea secondo cui gli istituti nascano per legge e non dalla libera
associazione436. Conclude citando Villari, correlando la mancanza di autonomia
con la crisi dell’Università437. Un altro aspetto che Allievo considerava
illiberale e nefasto era il controllo dei libri di testo, con cui il Ministero
poteva indirizzare politicamente e culturalmente l’insegnamento. Lo stesso
pedagogista pubblicò un pamphlet nel quale difese un saggio di un professore
siciliano438 che, stando alla sua narrazione, incorse ingiustamente nella
censura ministeriale439 a motivo del suo orientamento filo cattolico440. 435
Ibid., p. 7. 436 «Seguendo l'ordine numerico del disegno di legge, passiamo
all'art. 3 che suona cosi: “La creazione di nuove Università, Istituti o Scuole
d'istruzione superiore, o di loro Facoltà o sezioni, non potrà avvenire se non
per legge”. Anche qui abbiamo un segno del tempo. Sentendo proclamare
l'autonomia degli Istituti scolastici superiori, il nostro pensiero corre
spontaneo alle gloriose Università medioevali, che sorsero e fiorirono non per
decreti di Stato, ma per libero valore di insigni maestri, di studiosi
discepoli, di privali cittadini, fervidi amatori della scienza, e ci
immaginiamo di essere ritornati a quo' felici tempi di scolastica libertà.
Illusione! A nessuno si concede di creare nuove Università, o facoltà universitarie,
o Scuole d'istruzione superiore senza il placet regio o parlamentare. Non si
osa proclamare francamente e incisamente il principio, già sancito dal Belgio
coll'articolo 17 della sua Costituzione: “L'insegnamento è libero; ogni misura
preventiva è vietata”» Ibid., p. 7. 437 «Io potrei proseguire più oltre la mia
critica, ma dalle poche considerazioni, clic sono venuto fin qui esponendo,
emerge, per quel che a me ne pare, la conclusione, clic la proposta autonomia è
irretita fra tali e tante strettoie da essere ridotta ad una vana parvenza,
mentre la vigilanza dello Stato non ha confini, che la circoscrivano, non ha
norme, da cui sia vincolata. 11 segnare i giusti limiti della vigilanza
governativa, non è qui luogo da ciò: questo solo panni di potere
ragionevolmente affermare, che questo disegno di legge conferisce al Governo
poteri assolutamente inconciliabili colla autonomia universitaria veramente
intera. Qualche anno fa Pasquale Villari scriveva: “Dal 1850 fino ad oggi,
colle libertà, eolie nuove leggi, regolamenti e mutamenti, con nuovi professori
italiani e stranieri, noi non siamo ancora riusciti a far nascere nelle nostre
Università una vera vita scientifica: esse non rispondono all'aspettazione
giustissima del paese. E perché, dimando io? Perché il Ministero arrogandosi il
diritto supremo ed assoluto della pubblica istruzione ed educazione, ha
governato a sua posta le Università invece di mostrarsi ossequente alla legge
del 1850 non mai abolita, informata ai più larghi o giusti principii di libertà
/in nota cita il libro di Martelli, La decadenza dell’Università italiana”»
Ibid., p. 10. 438Si tratta del libro di G.B. Santangelo, La Famiglia e la
Scuola, letture proposte alle allieve delle classi femminili, esercizi
fondamentali di lettura, scrittura e calcolo per le bambine, Palermo, Tip. M.
Amenta, 1887. 439 G. Allievo, Clericalismo e liberalismo, ossia i libri di
lettura del prof. G. B. Santangelo censurati dal Ministero della Istruzione
pubblica e difesi da Giuseppe Allievo, Palermo, Tip. delle letture domenicali,
1888. 440 Nella relazione del Ministro in cui si valutava negativamente il
testo difeso dall’Allievo, si accusava il libro di un certo «odore di
sagrestia». A tale accusa, lo studioso piemontese replicò: «Ah finalmente ecco
qui la chiave omerica, che apre l’arcano di una critica spigolistra, permalosa,
assassina! L’Autore per ragione pedagogica e per debito di programma ha qua e
là nei suoi libri (e non dalla prima all’ultima parola, come, bugiardamente
asserisce il Relatore) parlato di Dio e delle cose sante: dunque giù botte da
orbo sulla sua mal battezzata cervice! In verità addolora il vedere il
Ministero suggellare coll’autorità sua il giudizio di chi parla un linguaggio
tanto plateale e lacera il primo articolo dello Statuto fondamentale del Regno
e l’articolo 315 della vigente legge organica della pubblica istruzione! Ma già
il sentimento religioso è puzza di sagrestia, che ammorba e va proscritto in
nome della nuova Igiene! L’Ermenegarda morente del Manzoni sclamava: “Parlatemi
di Dio, sento ch’ei giunge”: il moderno epicureo grida: Non parlatemi di Dio,
sento che mi si guasta la digestione. Se il Santangelo fosse stato un prete
spretato, che avesse gettato il tricorno alle ortiche, o 112
L’unico momento in cui sembrò potersi fermare la parabola monopolistica, fu la
nomina a Ministro dell’istruzione del senatore palermitano Perez nel luglio
1879. Il neoministro mostrò la volontà di mettere mano ad una riforma della
scuola volta a difendere il principio della libertà d’insegnamento. L’Allievo
prese subito le difese del Ministro in un articolo pubblicato nella Gazzetta
piemontese del 20 agosto e stese il saggio La riforma dell’educazione moderna
mediante la Riforma dello Stato, che trovò l’apprezzamento del neoministro441.
Gerini documenta come Perez avesse l'intenzione di chiamare Allievo stabilmente
al Ministero, con lo scopo di redigere una riforma della scuola e
dell’Università incentrata sulla libertà d’insegnamento e contraria alla deriva
monopolistica intrapresa dai suoi predecessori442. L’Allievo fu infatti presto
coinvolto nella compilazione di un nuovo Regolamento per la licenza liceale in
sostituzione di quello precedente definito dal ministero Correnti nell’aprile
1870. Il nuovo regolamento, nel quale Allievo ebbe «non poca e vivissima
parte»443, intendeva ricondurre gli esami di licenza liceale alla loro
«primiera forma legale, allorquando l'alunno privato si presentava a sostenerli
presso qualunque pubblico liceo dello Stato e senz'obbligo dell'attestato di
licenza ginnasiale e del percorso triennio»444. Il suo scopo era quello di
restituire più ampia libertà agli studenti delle scuole non statali445. Il
pedagogista documentò nel saggio sulla legge Casati come il testo trovò il
consenso della maggior parte dei provveditori e dei presidi sui quali era stato
fatto un sondaggio preliminare446. Ma il progetto suscitò anche numerose
polemiche447. Accusato dagli ambienti liberal-democratici di voler favorire la
scuola libera (e quella cattolica in specie), a pochi mesi dal suo insediamento,
già nel novembre 1879, il Perez dovette abbandonare il un frate sfratato, che
avesse bruciato il convento per andare a godersi la vita, i suoi libri
avrebbero incontrato ben altro giudice ed altro mecenate» in G. Allievo,
Clericalismo e liberalismo, ossia i libri di lettura del prof. G. B.
Santangelo, cit., p. 19. 441 In un autografo del 9 agosto 1879 il Ministro
scrisse ad Allievo «...m’accorgo come Ella sia fra quei pochi cui non travolge
la mente l’idolatria dello Stato onnipotente e onnisciente» in A. Consorte,
Scuola e Stato in Giovanni Allievo, cit., p. 53. 442 G. B. Gerini, La mente di
Giuseppe Allievo, cit., pp. 11-12. 443 G. Allievo, La legge Casati e
l’insegnamento privato secondario, cit, p. 36. 444 Ibid., p. 35. 445 Così il
professore piemontese sintetizza i punti salienti del Regolamento: «Gli
articoli più sostanziali di esso Regolamento, che avrebbero radicalmente mutato
l'attuale sistema degli esami di licenza, sono: il quinto, che restringe
l'esame sulle materie nei limiti, in cui esse furono svolte nel terzo anno,
quando si siano superati gli esami di promozione dei due primi anni; il
settimo, che lascia libero il candidato privato di iscriversi presso qualunque
pubblico liceo del Regno; il nono, che lo proscioglie dall'obbligo
dell'attestato di licenza ginnasiale e del percorso triennio; il dodicesimo,
che incarica i professori liceali della preparazione di temi per le prove
scritte, ed inchiude l'abolizione della Giunta centrale» Ibid., p. 36. 446
Ibid., pp. 36-37. 447 «Eppure quel regolamento era un semplice richiamo alla
legge Casati: si intendeva di ricondurre gli esami d licenza liceale alla loro
primiera forma legale, allorquando l'alunno privato si presentava a sostenerli
presso qualunque pubblico liceo dello Stato e senz'obbligo dell'attestato di
licenza ginnasiale e del percorso triennio. E se ne fece una questione di
clericalismo, mentre era una questione di legalità» Ibid., p. 35.
113 dicastero448. Il caso sembra confermare quanto annotato da Giuliana
Limiti: «Il problema della scuola privata sembra essere fatale per la sorte di
taluni ministri della Pubblica Istruzione e qualche volta per la sorte degli
stessi governi!»449. Sebbene impossibilitato ad incidere effettivamente negli
indirizzi della scuola, la sua collaborazione con il Ministero continuò negli
anni seguenti. Come ricorda Prellezo: «nel 1884 esprime il suo parere sui
programmi delle Scuole normali; nel 1885 viene incaricato dal Ministro Coppino
dell’ispezione delle Scuole normali del Piemonte e della Liguria; nel 1887 lo
stesso Ministro Coppino lo chiama a far parte della Commissione reale per il
riordinamento della scuola popolare»450. Molto più duro fu il rapporto con il
Ministro Paolo Boselli, che guidò la Minerva dal 17 febbraio 1888 al 6 febbraio
1891, durante i due primi governi Crispi. Qualche mese dopo il suo
insediamento, Allievo criticò il Boselli a motivo della censura di un testo già
citato451. Questo iniziale contrasto probabilmente convinse il pedagogista
piemontese, chiamato a far parte della commissione presieduta da Pasquale
Villari per stendere i nuovi programmi delle scuole elementari, a non
partecipare a buona parte delle sedute. Pesò probabilmente la convinzione di
rappresentare un’esigua minoranza all’interno della commissione, formata in
larga maggioranza da studiosi di area laicista e positivista. Qualche tempo
dopo l’Allievo attaccò più severamente il Ministro con il pamphlet dal titolo
Lo Stato educatore ed il ministro Boselli452. Si tratta di un saggio con toni
molto 448Così commentò l’Allievo: «Il Ministro Perez, rara avis, ritornando al
concetto della legge arditamente si accingeva a spastoiare le scuole private ed
a redimere gli istituti governativi da quel formalismo artifiziato e da quel
enciclopedismo, che insieme congiuravano a sciupare gl’intelletti giovanili e
sfibrare i caratteri. Ma il dio Stato colpiva a mezzo del lavoro la mano
ribelle del suo Ministro. La genìa burocratica con ignobili e subdole manovre,
la stampa liberalesca con una critica sleale ed assassina lo precipitarono ben
presto di seggio miterandolo da clericale! Come avevano adoprato alcuni anni
prima verso il Ministro Berti, propugnatore sincero di libertà» in G. Allievo,
Lo Stato educatore ed il Ministro Boselli, cit., p. 4. 449G. Limiti, Momenti e
motivi della legislazione sulla scuola non statale in Italia, in S. Valitutti
(ed.), Scuola pubblica e scuola privata, Bari, Laterza, 1965, p. 133. 450 J. M.
Prellezo, Giuseppe Allievo negli scritti pedagogici salesiani, cit., p. 396.
451Introducendo il lavoro Allievo denuncia: «Questa turba liberalesca altro non
vede e non adora che se medesima, e va gridando: l’Italia siamo noi, noi siamo
il patriottismo, la libertà, la Costituzione, lo Stato: chiunque non ci
appartiene è nemico della patria, chi non è con noi, è contro di noi. Sì, i
clericali sono contro di voi, perché i nemici della patria siete voi, voi i
demolitori delle franchigie costituzionali e della indipendenza politica, gli
oppressori della libera attività dei privati cittadini. Oh benedette
rimembranze del 1848, allorchè si vagheggiava, anelando, un ideale di unità e
di floridezza sociale, di dignità e di indipendenza nazionale, di vera e larga
libertà politica e civile, sorretta dalla religiosità e dall’integrità del
costume! In omaggio a quell’ideale languivano nelle carceri del dispotismo
austriaco o cadevano decapitati sul palco i martiri italiani; cimentavano sui
campi lombardi la vita contro gli stranieri i prodi. Orta quel santo ideale
conquistato con inauditi sacrifici di sangue e di danaro, è buttato nel fango
da una turba di affamati, di ambiziosi e di settarii» in G. Allievo,
Clericalismo e liberalismo, ossia i libri di lettura del prof. G. B. Santangelo
censurati dal Ministero della Istruzione pubblica e difesi da Giuseppe Allievo,
cit. 452 Solo la prima parte del saggio, intitolata Lo Stato educatore, è stata
ripubblicata in G. Allievo, Opuscoli pedagogici, cit., pp. 50-70.
114 aspri, ma composto da critiche precise e circostanziate come è stato
notato da Bonghi453. Nel saggio ribadì le accuse al sistema statolatrico
italiano e stigmatizzò una serie di provvedimenti emanati dal Ministro: criticò
il decreto 9 maggio 1889 il quale prescriveva che, per le sole scuole statali,
la licenza elementare fosse titolo sufficiente per l’ammissione alla prima
classe del ginnasio e della scuola tecnica; contestò la circolare dell’8 agosto
1889 con cui, in mancanza di maestri legalmente abilitati, dava la possibilità
ai militari congedati che avevano superato l'esame prescritto per gli aspiranti
sergenti, di insegnare nelle scuole assicurando la metà della copertura con
fondi ministeriale, al contrario di quanto avveniva per gli altri insegnanti;
protestò contro una circolare ministeriale nella quale, a dispetto dell’art.
325 della legge Casati, s’impediva ai parroci di presiedere gli esami di
istruzione religiosa; recriminò che il corso di pedagogia non risultasse tra i
corsi obbligatori per il conseguimento della laurea in Lettere e Filosofia454.
Criticò, inoltre, i toni di una circolare del 20 febbraio 1889 finalizzata al
riordino degli Orfanotrofi e dei Conservatorii e stigmatizzò la «faziosità» con
cui il Ministro gestì i trasferimenti tra le diverse Università per influenzare
le vicende concorsuali. Questi elementi condussero Allievo a tacciare Boselli
di «cesarismo scolastico». In conclusione avanzò una proposta provocatoria e
risoluta: «Delenda Carthago. Il ministero della pubblica istruzione va
annullato»455. La proposta dell'abolizione del dicastero, peraltro avanzata già
in Parlamento il 18 giugno 1867 dal deputato libertario e socialista Salvatore
Morelli, non rappresentava in effetti agli occhi di Allievo la condizione
ideale per il governo dell’istruzione pubblica, ma costituiva la fatale
soluzione alla «metastasi statalista» che soffocava la scuola italiana456.
Confermò le stesse posizioni in un 453 Commentando il saggio, il Bonghi
osserva: «L’Allievo è professore di pedagogia come tutti sanno, e tanto ha
scritto della scienza che professa, e posto molta cura a’ problemi, che vi si
trattano, da meritare, di certo, che un suo studio sulla materia
dell’educazione, teorica e pratica, non passi inosservato. Quello che
annunciamo, è diviso in due parti. Nella prima tratta la questione se e quale
parte spetti allo Stato nell’educazione; e viene alla conclusione media e vera,
che la suprema autorità scolastica risiede nella famiglia, e allo Stato spetta
un ufficio complementare e di vigilanza. La seconda è una critica minuta – e
talvolta, il che non è bene, acre – della condotta dell’attuale ministro di
Pubblica Istruzione. Né si può negare che una buona parte dele osservazioni sia
giusta, e a ogni modo consigliamo il ministro di darvi peso, e non immaginarsi,
che, prima o dopo, non ne avranno. Soprattutto le considerazioni intorno al
concetto e alla condizione dell’insegnamento religioso nelle scuole elementari,
come appaiono nelle più recenti circolari del ministro, ci paion degne ch’egli
vi rivolga la sua attenzione» R. Bonghi, Idee di G. Allievo circa la libertà
d’insegnamento, cit., p. 603. 454 Sullo stesso tema il pedagogista aveva già
scritto un pamphlet: G. Allievo, Il ministro Coppino e la pedagogia, Torino,
Borgarelli, 1878. 455 G. Allievo, Lo Stato educatore ed il Ministro Boselli,
cit., p. 44. 456 Concludendo il saggio Allievo ricorda la sua fedeltà alle
istituzioni dello Stato Italiano: «Pubblicando questo lavoro io non ho inteso
di venir meno ala ragionevole riverenza dovuta all'autorità ministeriale; e ne
fa prova manifesta il rispetto, che io professo sincero per le leggi dello
Stato, per le patrie istituzioni, per le franchigie costituzionali, per la
nazionale indipendenza. Ho censurato gli atti governativi adoperando quella
crudezza di forma, che risponde alla gravità del male, esercitando un diritto,
che lo Statuto conferisce ad ogni libero cittadino, adempiendo un dovere
impostomi dalla carità del loco natio e dalla coscienza del mio mandato. Ho
parlato il linguaggio dei fatti; ed i fatti li smentisca chi può, li riconosca
chi deve. 115 articolo del 1910, intitolato Salviamo la scuola!,
nel quale dopo essersi soffermato sulle storture della scuola statale e sul suo
ordinamento illiberale ritornò a prospettare la soppressione del Ministero457.
Un attacco così diretto non restò senza conseguenze. All’opuscolo del
pedagogista replicò infatti un libretto anonimo intitolato Lo Stato educatore –
botte di un educatore – risposte di un educato458 che, stando al Gerini,
sarebbe stato redatto negli uffici del ministero. La risposta alle critiche è
non solo pungente quanto, del resto, le denunce dell’Allievo, ma scade a
livello di attacco personale. Oltre a difendere ogni singolo provvedimento
annotato dallo studioso vercellese, l’autore si abbandona alla denigrazione
della sua attività didattica e scientifica: «Ha una famiglia pedagogica
l’Allievo? No. E la ragione è una sola, ed è naturale e chiara, non si può dar
famiglia senza amore. Omnia vincit amor. Ma l’Allievo non ha amore, se non
verso sé medesimo»459 [...] «Il sentimento che noi scorgiamo nel prof. Allievo
non è, no, mal volere; è piuttosto un affetto immoderato che lo muove a far
troppo di sé centro a sé stesso; talmente che egli rende, senza forse
accorgersene, l’immagine dantesca di cosa che sé in sé rigiri; e rigirandosi,
egli nella sua vaga visione si esalta così, che gli par di poggiare su, ad un
punto superiore a quello di chi nella scala sociale e nella realtà dei fatti è
più alto di lui»460. L’acida polemica continuò con un ulteriore passaggio in
una replica dell’Allievo nel breve saggio: Risposte di un educato: un educato.
Fin dalla prima pagina lo scritto era poco conciliativo, sia nel difendere le
sue tesi sia nel contestare le accuse, così chiosando ironicamente lo
statalismo ministeriale: «Beati i popoli (ripiglio io), retti da un governo
così raccolto ne’ suoi giusti confini, così ossequiante alle leggi ed ordinato
in ogni atto suo, così alieno dallo esclusivismo e tanto rispettoso della
libera attività de’ cittadini All'educazione nazionale peggior ventura che
quella del Ministero di Paolo Boselli non è toccata mai» Ibid., p. 45 457 «Il dilemma
si affaccia irrevocabile. Delenda Carthago! L’abolizione del Ministero di
pubblica istruzione si impone imperioso, urgente, indeclinabile. La salute
della nostra grande ammalata, che è la scuola, è a questo prezzo. Per questa
via sola si giunge a smantellare la roccia della vastissima setta, che impera
sovrana alla Minerva. Dacchè il parlamentarismo rasenta la bancarotta, può ben
far senza di un Ministero, liberandoci da quella smania di legiferare, da quel
subisso di leggi e regolamenti e decreti e circolari scolastiche, che
intralciano il regolare processo della pubblica istruzione e comprimono la
libertà degli studi» Salviamo la scuola! in «La libertà d’insegnamento.
Bollettino trimestrale della “Unione pro Schola Libera”», Torino, Tip. S.A.I.D,
n. 2, 1910, pp. 14-15. 458Lo Stato educatore – botte di un educatore – risposte
di un educato, Roma, Stabilimento Giuseppe Civelli, 1890. 459 Ibid., p. 54. 460
Ibid., p. 55. 116 segnatamente nel campo pedagogico, che alla
famiglia non venga impedito di comporsi nell’ordine suo ed adempiere la sua
missione educatrice»461. L’anno seguente tornò a criticare il Ministro Boselli
sulle pagine de Il nuovo Risorgimento462. Alle accuse precedenti ne aggiunse
altre come quelle circa l’ingerenza della Minerva sulla scuola dell’infanzia,
la nomina di un impiegato di biblioteca ad ispettore scolastico di prima
classe, e il fatto che «il ministro Boselli con una sua ordinanza deferiva
l’anno scorso alle singole Commissioni esaminatrici la proposta dei temi per le
prove scritte della licenza liceale, offendendo l’articolo 38 del R.
regolamento 23 ottobre 1884 allora vigente»463. Si trattava secondo l’Allievo
della persistenza di una serie di «abusi del potere esecutivo», in cui scorgeva
il tradimento dello Stato di diritto e della libertà: «L’Italia è tutta infesta
da una turba di pseudo-liberali, che la libertà fanno strumento di servitù, e
della patria, delle franchigie costituzionali, delle leggi dello Stato si fanno
sgabello per salire in alto sitisbondo di dominio e di oro, corrompendo il
pubblico costume e le istituzioni politiche e civili della nazione»464. Un
altro episodio che segnò lo scontro con la Minerva, risale al pensionamento di
Allievo, quando il dicastero era guidato dall’onorevole Credaro. Nel corso del
1912 il pedagogista, ormai anziano e con poche forze, chiese al Ministero che
gli affidasse un sostituto. La Facoltà nominò il pedagogista Romano, «ex»
spiritualista e cattolico convertito al positivismo. Lo studioso era già stato
bocciato in una serie di concorsi per conseguire la libera docenza a Torino,
Milano, Palermo e Bologna. A Catania addirittura tutti e cinque membri della
commissione esaminatrice diedero esito negativo. La nomina di un candidato
simile come suo supplente, peraltro agli antipodi rispetto alla sua linea
pedagogica, portò l’Allievo a prendere dura posizione contro la Facoltà e il
preside Vidari, e poi a chiedere di andare definitivamente in pensione, per
impedire al Romano di insegnare sulla sua cattedra. Raccogliendo una serie di
articoli apparsi su giornali e riviste come Italia Reale, L’Unione di Vercelli,
Il Momento, Il Corriere d’Italia, I diritti della scuola Studium, fu pubblicato
un pamphlet sulla vicenda465. Furono inserite anche due lettere inviate da
Allievo a due di queste riviste come ringraziamento della solidarietà
dimostrata, e un piccolo scritto dallo stesso pedagogista in cui chiariva
ulteriormente i contorni della vicenda. La posizione di Allievo sulla vicenda è
molto significativa: 461G. Allievo, Un educato anonimo, Torino, Tip. Subalpina,
1890, p. 7. 462 G. Allievo, Il Ministro Boselli e la legge, «Il nuovo
Risorgimento», 1890-1891, pp. 165-172. 463 Ibid., p. 168. 464 Ibid., p. 171.
465 Giuseppe Allievo e la sua cattedra, Torino, Tip. S, Giuseppe degli
artigianelli, 1912. 117 emergono sia un vivo attaccamento
all’impegno pedagogico e magistrale466, ma anche forti dissidi con l’ambiente
universitario. Nelle sue ricostruzioni Allievo attribuì a Giovanni Vidari,
allora preside della Facoltà di Lettere e Filosofia di Torino, la
responsabilità dello smacco subito467, collegando l’appoggio da parte del
preside del Romano e un generale poco rispetto dimostrato anche con altri
episodi, in virtù della sua aderenza ai principi spiritualisti e alla sua
fede468. Un altro testo in cui attacca il Ministero è il testo Del realismo in
pedagogia469, nel quale contesta le posizioni espresse da De Sanctis in uno
scritto del 1878 pubblicato ne la «Gazzetta letteraria di Torino», in cui lo
statista napoletano sosteneva come la classe magistrale dovesse ispirarsi ad un
realismo di impronta pragmatista. L’Allievo era invece convinto che l’anima
della scuola poteva essere un solido ideale umano. Senza valori certi, 466 Si
tratta di una lettera inviata a l’Unione di Vercelli, per ringraziare delle
parole in sua difesa. Scrisse: «Io non sono più maestro. Non è la morte, che mi
abbia rapito alla cattedra, ma è qualche cosa di peggio. In questi ultimi anni
la mia vita universitaria fu amareggiata da grandi dolori. Pur tuttavia avrei
continuato nel mio insegnamento; ma quando mi si volle imposto per supplente un
rifiuto di tutti i concorsi universitari, a cui egli si è presentato, esclamai:
Basta così; e mi ritirai nel santuario della vita privata, abbandonando alla
dimenticanza ed all’oblio quei tra infelici che malignavano sulla mia persona.
[...] Abbandono con certo qual rammarico la cattedra, che per più di
cinquant’anni mi fu cara compagna di lotta del pensiero, nella conquista della
verità, e vedendo scomparire a me d’intorno quella folla sempre nuova di
giovani studiosi che nel volgere degi anni veniva ad ascoltare la mia povera
parola, mi pare quasi che la mia vita si spenga nell’isolamento. No, non si
spegne, ma semplicemente si trasforma. [...] Veggo che la mia più che
attuagenaria esistenza volge al tramonto, ma io mi esalto pensando al Divino
Maestro, al Pedagogo eterno, al Verbo vivente, al Redentore dell’umanità»
Ibid., pp. 6-7. 467 Dopo aver accennato i concorsi falliti da Romano, Allievo
commenta l’ultimo a Catania «quest’ultimo poi gli fu veramente disastroso, non
avendo riportato nemmeno un voto favorevole. Tanto è che coloro stessi fra i
miei colleghi che per lo passato lo avevano sempre protetto e difeso a spada
tratta, in faccia a quel disastro esclamarono: È un uomo liquidato! Ma che?
Questi medesimi lo proposero per mio supplente e poi riuscirono ad insediarlo
sulla Cattedra di Pedagogia da me lasciata vacante. Viva la libertà del dire e
del disdire! Il Romano deve il presente suo splendido successo al Presidente
Vidari, il quale rifiutando di interpellarmi intorno la scelta del mio
supplente, sostenne in Consiglio di Facoltà insieme con sei altri professori
presenti all’adunanza (senza contare tre altri, che diedero voto contrario) che
fosse proposto il libero docente, fallito in tutti i concorsi universitari di
pedagogia specie in quel disastroso di Catania» Ibid., cit., p.12. 468 Allievo
riporta nello scritto un brano di una lettera uffficiale scritta da Vidari in
occasione delle sue dimissioni, e così la lo commenta: «Egli mi rivolse un
saluto perché abbandoni l’Università, ma non aggiunge sillaba, che esprima il
menomo rincrescimento di aver perduto in me un collega, e quando presentai le
mie dimissioni non mi ha significato il menomono desiderio che fossero
ritirate. L’augurio anche’esso mi sa di forte agrume. Che nel placido riposo io
possa lungamente deliziarmi nei prediletti miei studi? – Ma questi cari miei
studi prendono forma e vita dalla pedagogia italiana tradizionale fondata sul
teismo cristiano. Ora questa pedagogia l’avete cacciata via dalla mia Cattedra
per fare luogo alla dottrina razionalistica del mio supplente, sicché l’augurio
a me rivolto viene a tradursi in questi termini: Deliziati senza fine negli
studi tuoi, ma non qui in queste aule universitarie in mezzo a noi e nella
realtà della vita sociale, ma in mezzo alle mi- stiche regioni del
soprannaturale, nelle sedi beate dei Campo elisi conversando cogli spiriti
magni di Ferrante Aporti e di Giovanni Antonio Rayneri. Sì, io serberà sempre
viva la mia ragione filosofica sorretta dalla fede religiosa in Cristo; ma voi
vi vantate razionalisti e calpestate la scienza collocando sulla cattedra chi
non la possiede; voi esaltate la libertà del pensiero, e v’inchinate a tutte le
dottrine, fossero pur dissolventi e scettiche: soltanto il pensiero cristiano
non trova grazia presso di voi.» Ibid., p. 21. 469 G. Allievo, Del realismo in
pedagogia, Torino, Roux e Favale, 1878 inserito in Id., Opuscoli pedagogici,
cit., pp. 422-426. 118 si sarebbero abbandonate le giovani generazioni
a progetti e prospettive volgarmente materiali e pragmatiste, condannandole
all’alienazione. All’inizio del Novecento la battaglia dell’Allievo in favore
della libertà d’insegnamento si tradusse – per quanto egli fosse già avanti
negli anni – nel sostegno alla fondazione, nel 1907, dell’associazione «Unione
pro schola libera. Società nazionale per la libertà d’insegnamento», fermamente
voluta da don Giuseppe Piovano e dal prof. Rodolfo Bettazzi, finalizzata
diffondere le ragioni della libertà scolastica, contro lo statalismo e i suoi
fautori. Allievo fu scelto come «presidente generale effettivo», carica che
ricoprì solo per un anno, dopo il quale si allontanò progressivamente dal
nucleo direttivo e organizzativo dell’associazione, a cui continuarono a
legarlo comunque lo spirito e le motivazioni di fondo. Nel 1910 iniziò ad
essere pubblicato anche il Bollettino dell’associazione, La libertà
d’insegnamento470, un trimestrale a diffusione nazionale pubblicato
inizialmente in circa tremila copie. La nascita e l’attività del sodalizio
ebbero notevole risonanza contribuendo a vivificare il dibattito sulla libertà
scolastica che stava registrando in quegli anni una notevole ripresa471. In un
convegno svoltosi a Genova tra il 28 e il 30 marzo 1908, dal titolo Istruzione
ed educazione cristiana del popolo italiano gli eredi dell’Opera dei Congressi,
confluiti nelle Unioni Cattoliche, lodarono l’iniziativa dell’Allievo e nella
seconda delle tre risoluzioni fu sancito uno stretto rapporto con l’Unione
torinese. «La Civiltà Cattolica» – che a lungo aveva praticamente ignorato le
tesi dell’Allievo – dedicò al Convegno un articolo, riportando le conclusioni
dell’assise cattolica ed encomiando l’operato dell’Allievo e dell’«Unione pro
schola libera»472. Appaiono significative le affermazioni conclusive
dell’articolo, nel quale si celebrano affianco agli allievi i più importanti
rappresentanti del cattolicesimo liberale francese473. 470 G. Chiosso (ed.), La
stampa pedagogica e scolastica in Italia (1820-1943), cit., p. 398. 471 G.
Chiosso, Gentile, i cattolici e la libertà di insegnamento nei primi anni del
Novecento, in G. Spadafora (ed.), Giovanni Gentile. La pedagogia, la scuola,
Roma, Armando, 1997, pp. 309-315. 472 Nella seconda delle tre risoluzioni fu
scritto che il Congresso «Plaude all’Unione pro schola libera sorta in Torino
sotto gli auspici del venerando prof. Allievo, e a tutte le altre istituzioni
aventi lo scopo di tutelare i diritti dell’insegnamento libero; Fa voti che
l’azione in favore della scuola libera sia efficacemente coadiuvata dai padri
di famiglia, dagli insegnanti degli istituti privati e specialmente dall’azione
illuminatrice della stampa quotidiana; Delibera di affidare all’Unione stessa
l’incarico di studiare ed attuare quei mezzi pratici, che valgano a salvare
quanto resta ancora di libertà d’insegnamento nella vigente legislazione e di
ottenere dai pubblici poteri quegli immediati temperamenti, che servano a
sopprimere le più odiose disposizioni regolamentari contro l’insegnamento
privato» Il congresso cattolico di Genova, «La Civiltà Cattolica», quaderno
1388, 1908, vol. II. pp. 140-150. 473 Scrive l’autore dell’articolo: «Dopo
queste semplici osservazioni intorno alla prima risoluzione, lasciamo ai
lettori di apprezzare l’importanza della seconda risoluzione del congresso; in
cui si traggono con un senno pratico degno di ogni encomio, le conseguenze
legittime del principio fissato nella prima. Quale campo fecondo di attività,
non meno benefica che urgente nelle singole deliberazioni di questa seconda
119 Fu a partire da questo periodo che il pensiero pedagogico del
pedagogista vercellese iniziò a essere apprezzato e diffuso anche al di fuori
del circuito del cattolicesimo liberale. Lo confermano una serie di articoli
pubblicati sulla «Civiltà Cattolica»474, l’attenzione delle «Rivista di
Filosofia neoscolastica»475, i meriti riconosciutigli da Filippo Meda476, e un
celebre saggio di Giuseppe Monti, La libertà della scuola (1928) in cui si
trovano citati gli scritti di Allievo e si ricordano le sue battaglie
scolastiche477. Nel frattempo Giuseppe Allievo aveva lasciato questo mondo, il
24 giugno 1913. risoluzione! Le ponderino attentamente i cattolici
italiani; i giornalisti, i conferenzieri e gli stessi sacerdoti, in Chiesa e
fuori di Chiesa, ne facciano il soggetto del loro apostolato, finché il popolo
se ne impossessi e ne sappia fare buon uso specialmente in tempo di elezioni:
da ciò dipende la salvezza della gioventù e della patria! Noi ne siamo sì
profondamente persuasi, che non possiamo fare a meno di mandare da queste
pagine un saluto e un augurio solenne all’Unione pro schola libera di Torino e
al suo venerando presidente prof. Giuseppe Allievo, il più illustre pedagogista
che oggi vanti l’Italia, degno rappresentante delle tradizioni filosofiche ed
educative veramente italiane; la cui fama è pur troppo assai inferiore al
merito, perché ingiustamente eclissata dal predominio del positivismo anglo –
sassone e teutonico negli atenei e nelle scuole normali del regno. Possa il suo
nome tramandarsi ai posteri con quelli del Montalembert, del Falloux e del
Dupanloup per la Francia, come simbolo della conquistata libertà d’insegnamento
per l’Italia!” Il congresso cattolico di Genova, cit.. pp. 147-148. 474In tre
articoli pubblicati nel 1915 sulla pedagogia contemporanea sono citate le opere
di Allievo e le sue critiche al positivismo. Cfr: Linee di pedagogia moderna,
cFinalità educative, quaderno 1568, 1915, vol. IV, pp. 129-146; L’opera
educativa positivista, quaderno 1570, 1915, vol. IV, pp. 397-411. 475 G.
Cannella, Opuscoli pedagogici inediti ed editi di Giuseppe Allievo, cMeda,
Universitari cattolici italiani, cit., pp. 197-214. 477 G. Monti, La libertà
della scuola, principi, storia, legislazione comparata, Milano, Vita e
Pensiero, 1928, pp. 4, 7, 206. Antropologia e di pedagogia
nell'Università di Torino Torino,Carlo,Clausen 1896. In un'opera assai
importante pubblicata nel 1891 (1) dall'illustre prof. Allievo, della quale ho
a suo tempo discorso in questa autorevole Rivista,leggeşi un capitolo
inscritto: Prime origini dei problemi psico.
fisiologici,checontieneingermelamateria della presente memoria, la quale
richiama a sè l'attenzione di tutti coloro che s'interessano dei più gravi
problemi della scienza antropologica. Pigliando le mosse dall'origine storica e
psicologica dell'Antropo logia,dellaqualedeterminapurei limiti,l’A.poneinsodo
ilVero, l'incerto e l'ignoto di questa disciplina, per dichiarare quindi l'ana.
logia tra il mondo esteriore della natura ed il mondo interiore dell'anima. Ma
se il mondo esterno ed il mondo psicologico interiore si rispecchiano e si
rassomigliano sotto certi riguardi, tra l'anima ed il corpo nell'uomo,
intercedono analogie assai più intime, spiccate e na• turali, intorno alle
quali si trattiene a lungo l'Allievo. Ora uno dei più cospicui punti di
corrispondenza tra l'anima ed il corpo si manifesta nel parallelismo di
sviluppo attraverso le successive età della vita umana: parallelismo però, che
non è nè assoluto, nè continuato,tanto meno poi un'identità. Un'altra
corrispondenza è quella che intercede tra la mente sada
edilcorposano,tralemalattiedell'anima oquelledel corpo.L'A.
(1)Studiantropologici– L'uomoedilCosmo Unvol.in8gr.dipag.450circa Torino
Tipogr.Subalpina editrice. Psicologia. Studi psico-fisiologici. Memoria
di GiusePPE ALLIEVO, professore BOLLETTINO PEDAGOGICO E FILOSOFico.
ripone la sanità della mente nell'armonico e regolare sviluppo della
medesima,elasanitàdelcorpo,nell'equilibriooperosodelle funzioni fisiologiche.
Conseguentemente distingue una duplice specie d'igiene, di patologia e di
terapeutica,corrispondenti alle due sostanze componenti l'essere umano.Anche
iduestati dellavegliae delsonno sicorrispon dono fra di loro, essendochè su
ciascuno di essi le potenze dell'anima elefunzionidell'organismosimostranosottoforme
specialiedana. loghe.Lo spiritopoiedilcorpointuttoilcorsoascensivodelloro
perfezionamento si prestano vicendevoli uffici, poichè lo spirito deve ai sensi
esterni la prima conoscenza del mondo sensibile corporeo; alla parola, che è un
segno sensibile ordinato ad esprimere un intel
ligibile,losvilnppodelsuopensiero;alla mano (nellacuistruttura Elvezio non
dubitava di riporre la superiorità dell'uomo sul bruto) lo strumento della sua
attività artistica e morale. Lo spirito alla sua volta ricambia dei suoi
servigi ilcorpo,inpalzandolo alla dignità prco pria della persona umana,e
conferendogli virtù singolari,assai supe jiori alla sua costitutiva essenza.
Iofatti il corpo umano, informato dalla mente che lo governa, è reso capace di
compiere azioni a cui non arrivano i corpi dei bruti, sia che venga riguardato
nell'intiera compagine del suo organismo, sia che lo si consideri nella
speciale struttura delle sue parti e nelle funzioni de'suoi sensi particolari.A
questo punto l'A. richiama ad un'ordinata rassegna la molteplice varietà dei
fenomeni, che si svol gono nell'interiorità del nostro essere, e che forniscono
argomento di una specialedisciplina,lapsico-fisiologia,dellaqualetraccialelinee
generali, non senza avvertire che di essa ai nostri tempitrovansicenai
nelSaggio sui'principiiedilimitidellascienzadeirapportidelfisico e del morale
del Cerice, e più ancora nei Principi generali di psico login fisiologica di
Ermannu Lotze. La scienza psico-fisiologica, dice l'A.,suppone come sua condizione
la psicologia e la fisiologia e facendo tesoro delle cognizioni che le
ammannisce l'unaintorno all'anima umana,l'altra intornoall'organismo
corporeo,s'innalza a studiare ilsupremo principio generatore di tutti i
fenomeni della vita umana che forma il problema fondamentale di tale
disciplina.Ilquale può ricevere due soluzioni principali, secondo che
ilprincipio generatore di tutti ifenomeni riponsi in una sostanza o nei
fenomeni stessi. Nel primo caso abbiamo il dinamismo; nel secondo il fenomenismo.
Il primo può essere mono-dinamismo, se riconduce tutti i fenomeni umani ad una
sola sostanza, la quale potendo essere o l'anima od il corpo, bipartisce il
mono-dinamismo in animismo e materialismo: duo-dinamismo se pone una differenza
essenziale tra ifenomeni mentali ed i fisiologici. Il fenomenismo si bipartisce
pure, potendo essere dualistico od e voluzionistico, secondo che riconosce una
linea di distinzione trai due ordini di fenomeni, ovvero sostiene che
sitrasformano gli uni ne gli altri. Allievo esamina con singolare lucidezza di
pensiero e grande chiarezza d'esposizione queste diverse classi di sistemi
psico-fisiologici, considerandoli nei loro più noti rappresentanti; ed è degno
di consi derazione l'esame della dottrina di Serbatti su questo punto. Venendo
allo scioglimento del problema,vuolsi distinguere il duodinamismo esclusivo dal
temperato. Ora se il primo non risolve il problema perchè separa l'uno
dall'altro idue principii costitutivi dell'uomo, per guisa
chel'animarazionaleècausaunicaessasoladituttiesoliifenomeni mentali e non
interviene per nulla nella produzione dei fenomeni fisio
logiciedanimali,ilprincipiovitalepoièessosolo ilgeneratore dei fenomeni della
vita corporea e mantiensi affatto estraneo ai fenomeni mentali; il secondo pel
contrario siccome quello che mantiene distinti i due principii costuitutivi
dell'uomo, e riconosce ad un tempo la loro
vicendevoleinfluenza,talchèifenomenimentalisicompenetrano coi fenomeni animali
e si condizionano a vicenda, dà un'equa soluzione al problema. a Cosi, conclude
l’A., il concetto della personalità umana, vale a dire di un soggetto
sostanziale fornito d'intelligenza e di libera volontà, è il solo,che conciliila
molteplicità dei fenomeni coll'unità delloro umano soggetto, sicchè questi due
termini nello sviluppo della vita umana, si mantengono indiegiungibili, e si
rischiarano l'un l'altro. Su questo concetto si fonda appunto la notissima
divisione della psi cologia in empirica e razionale.» Tale è nelle sue linee
generali lo studio dell'insigne filosofo subal pino che mostra un ingegno
vigoroso sempre ed acutissimo:e siamo certi che l'accoglienza fatta alle altre
opere di lai, sarà rinnovata per questa memoria,nella quale si scrutano ipiù
ardui problemi della scienza dell'uomo.Giuseppe Allievo. Keywords. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice ed Allievo” – The Swimming-Pool Library.
Grice ed Allmayer –
colloquenza – filosofia siciliana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Palermo).
Filosofo Italiano. Grice: “I like Allmeyer; especially his rambles on Roman
philosophy when he taught at Rome – ‘La filosofia romana’ has a very datable
beginning: that infamous embassy that terrified the old Romans but charmed the
younger ones, such as Scipione!” -- Grice:
“Due to Gentile, Allmaayer was forced to focus on Italian philosophy, and
Gentile allowed him to call Galileo a ‘filosofo’! – Grice: “Allmayer’s
pragmatics is Griceian: there is a colloquium, when a ‘soggeto’ empirico
recognises another soggesto empirco (il tu del’io) – and they shape a ‘noi’ –
for this he appeals to concepts of objectivity as intersubjectivity – If I
imply, it is the UTTERE’s expression and implication that is primary, but I
INTEND my implicature to be reccognised by the ‘tu’ – and this does not
‘alienate’ my concrete subjectivity – it does not vanish – it is merely
re-invoked by the other – ‘invoke’ being a linguistic term – vox –: this is
what the ‘assoluto’ stands for, that terrified Bradley!” -- Grice: “I love the fact that Allmayer taught
the history of logic, with a focus on ‘stoic’ logic – and it’s only natural
that ‘stoicismo’ was his favourite stage in Roman philosophy!” – Grice: “Oddly,
Allmayer has a genial commentary on my favourite of Arisotlte’s treatises and
the foundation of my method in philosophical psychology – “De Anima””! Fu
insieme a Gentile, e altri filosofi, uno degli esponenti di spicco della
corrente filosofica detta attualismo. Nacque a Palermo da Giuseppe
Emanuele Fazio, originario di Alcamo (ex garibaldino e in servizio presso il
Museo nazionale di Palermo) e da Felicina Allmayer, di origine tedesca, ma
residente in Italia. Fin da ragazzo si interessò alla storia dell'arte; a 23
anni si laureò in giurisprudenza ma poiché era appassionato alla filosofia,
iniziò subito gli studi filosofici e a frequentare la Biblioteca filosofica di
Palermo, dove ebbe modo di conoscere Giovanni Gentile. Nel 1910
l'Allmayer si laureò in filosofia e iniziò la carriera come professore: nel
1914 passò al liceo "Umberto I" di Palermo, dove cominciò la sua
ricca produzione saggistica che lo rese famoso in Italia. La sua carriera
continuò a Roma; subito dopo la caduta del fascismo, nel novembre 1943, il
Fazio Allmayer fu sospeso dall'insegnamento; per essere reintegrato dopo la
fine della guerra. Dopo un periodo travagliato della sua vita, negli anni
Cinquanta riprese la molteplice attività di saggista e critico, oltre che di
docente. Nel 1915 si era sposato con Concettina Carta, con cui ebbe tre figli.
Nel 1953, rimasto vedovo, si sposò in seconde nozze con Bruna Boldrini che,
conosciuta col cognome acquisito, è stata tra i maggiori critici del Fazio e ne
ha promosso un'edizione completa delle Opere (I-XXII, Firenze 1969-1991).
L'Allmayer, colpito da infarto tre anni prima, morì a Pisa nel 1958. In
memoria di questo insigne filosofo e pedagogista di origine alcamese, il Liceo
Statale delle Scienze Umane, Economico Sociale, Linguistico, Musicale (ed
autorizzato per le Arti coreutiche) è stato intitolato al suo nome. Carriera
1910: Professore presso il liceo di Matera 1911: professore al liceo di
Agrigento, vinse nello stesso anno una borsa di studio per perfezionamento
presso l'Roma 1914 docente presso il liceo "Umberto I" di Palermo
1918: libero docente di storia della filosofia a Roma 1919: trasferito a
Palermo, fu condirettore del Giornale critico della filosofia italiana,
fondato da Gentile e diretto dallo stesso prima di essere ministro. 1921-1922:
docente di filosofia presso l'Palermo 1922-1924: docente di storia della
filosofia (con corsi su Bacone e sui sofisti e Platone) presso l'Roma, in
sostituzione di Gentile e incaricato di pedagogia al magistero di Roma. 1924:
collaboratore di Gentile per la riforma scolastica e, con l'incarico di
ispettore centrale degli istituti medi di istruzione, ebbe affidata la
redazione dei programmi della scuola media. 1925: professore non stabile di
storia della filosofia medievale e moderna 1929: ebbe la cattedra di filosofia
teoretica in sostituzione di Pantaleo Carabellese 1939: preside della facoltà
di lettere 1925-1931: commissario per l'amministrazione straordinaria della
sezione arti decorative, annessa alla Scuola artistica e industriale di Palermo
dal 1931 in poi: commissario governativo per l'Accademia di Belle Arti. 1943: sospeso
dall'insegnamento e reintegrato dopo la fine della guerra 1951: cattedra di
storia della filosofia dell'Pisa 1954: direttore dell'istituto di filosofia.
Pensiero filosofico Il tramonto del Positivismo e l'amicizia con Gentile lo
portarono a un impegno ideologico a favore dell'attualismo che sembrava poter
portare a un rinnovamento culturale e civile; secondo l'attualismo, era l'atto
del pensare in quanto percezione, e non il pensiero creativo in quanto
immaginazione, a definire la realtà. Assieme a Gentile e Guido De
Ruggiero, fu uno dei sostenitori di quell'attualismo che "aveva tutta la
seduzione romantica e tutta la fiducia ottimistica a trarre a sé... i migliori
dei giovani scontenti, quelli che non si muovevano verso D'Annunzio o Marinetti",
e appoggiò apertamente, anche con conferenze, l'intervento dell'Italia nel
conflitto mondiale, ma venne riformato alla visita militare. Nelle parole
di Bruna Boldrini, moglie del filosofo, che tendeva a sottolineare la
sostanziale autonomia della ricerca del Fazio dalla metafisica di Gentile, il
Fazio-Allmayer giunge a giustificare l'esperienza storica come vita concreta,
in cui le molteplici e diverse forme confluiscono in un rapporto
intersoggettivo, sintesi etico-estetica, nella specificità di ciascuna (p. 35).
D'altronde, anche Benedetto Croce, fin dal 1922, in una recensione del saggio
Contributo alla teoria della storia dell'arte (poi in Opere, IV, 103-113), metteva in dubbio che si potesse
parlare ancora di idealismo attuale per il Fazio. Nel secondo dopoguerra,
in un momento denigratorio dell'idealismo, e maggiormente dell'attualismo, che
era accusato di connivenza col fascismo, la posizione del Fazio fu di aperta
difesa dell'attualismo e di un fedele sviluppo del proprio pensiero.
Insegnare è non morire Insegnare vuol dire non morire, ma entrare in un
processo di vita che ci precede e ci prosegue nel tempo: su questa certezza di
Vito e Bruna Fazio-Allmayer, si basa una spinta pedagogica di tipo socratico,
per cui il maestro si sente un uomo tra uomini, lui più esperto, e loro più
giovani, ma protesi verso il nuovo. L'educatore, nel suo farsi persona,
diventa storico di se stesso, nel rapporto con i propri alunni li deve
riconoscere nella loro singolarità, piuttosto che livellarli. Aprirsi agli
altri è il contributo al vivere: allorché viene meno questo senso di
solidarietà col tutto, si crea in noi il disagio dell'angoscia. Quindi il
senso della vita è quello della speranza e dell'amore: gli altri individui non
sono antitetici al proprio io, ma un indispensabile sbocco del proprio io.
Ognuno di noi si fa compossibile agli altri per ciò che dà e per quello che
ripiglia dagli altri, così il particolare si risolve nell'universale e
quest'ultimo nel particolare. Per Vito Fazio-Allmayer la speranza è nella
certezza che il futuro è nel presente: sono vecchi, quindi, gli insegnanti che,
presi dal passato, trovano disprezzabile tutto ciò che si produce nel presente,
e sciocchi i giovani, e sbagliato ogni nuovo pensiero. La scuola è vecchia se
non riesce a vedere il mondo nuovo e in rinnovamento; l'insegnante che si
racchiude nelle memorie del passato, manifesta la malattia mortale che si
chiama vecchiaia. Fondazione La Fondazione Nazionale "Vito
Fazio-Allmayer” è sorta a Palermo nel 1975, creata da Fanny Giambalvo e Bruna
Fazio-Allmayer, che venne in Sicilia dalla Toscana per insegnare Filosofia
morale e Storia della Pedagogia; tale istituzione è stata fondata per onorare
il ricordo del marito e per suscitare nelle giovani generazioni l'interesse per
la filosofia. Opere Su: La Sicile illustrée, articoli e saggi (1905-1908)
Su: Rassegna d'arte, articoli e saggi (1905-1908) Studi sul pensiero antico;
Sansoni, 1974 Galileo Galilei; R. Sandron, 1911 Galileo Galilei, Palermo, poi
in Opere, Galileo Galilei; Sansoni, Novum organum: Bacon, Francis; Laterza
& Figli, Dell'anima Aristoteles; Laterza, la formazione del problema kantiano, in Annali
della Bibl. filosofica di Palermo, fasc. I,
43-89, poi in Opere, IV, 191-235)
La scuola popolare e altri discorsi ai maestri: Battiato, Introduzione allo
studio della storia della filosofia; Zanichelli; Materia e sensazione (Sandron,
Palermo, poi in Opere, II) Materia e sensazione; Sansoni, 1969 Introduzione
alla filosofia; Sansoni, La teoria della libertà nella filosofia di Hegel
(Messina, poi in Opere, XIV) Saggio su Francesco Bacone (Palermo, poi in Opere,
XI) Saggio su Francesco Bacone; 1979 Il problema morale come problema della
costituzione del soggetto, e altri saggi (Firenze, Le Monnier, 1942, poi in
Opere) Il problema morale come problema della costituzione del soggetto e altri
saggi; Sansoni, 1971 Il significato della vita; Sansoni, 1955 Il significato
della vita; 1988 Divagazioni e capricci su Pinocchio; G.C. Sansoni, 1958
Divagazioni e capricci su Pinocchio; Fondazione nazionale Vito Fazio-Allmayer,
Ricerche hegeliane; G. C. Sansoni, 1959 Ricerche hegeliane; Fondazione
nazionale Vito Fazio-Allmayer, 1991 Storia della filosofia; G.B. Palumbo, 1942
Storia della filosofia; Sansoni, 1981 I vigenti programmi della scuola elementare:
Commento e interpretazione; Firenze, F. Le Monnier, 1954 Morale e diritto;
Sansoni, 1955 Discorsi, lezioni; Sansoni, 1983 Saggi e problemi; Sansoni, 1984
Recensioni e varie, 1986 La Pinacoteca del Museo di Palermo e altri saggi;
notizie dei pittori palermitani, Palermo, Prolusioni e discorsi inaugurali;
Sansoni, Alcune lezioni edite e inedite; Sansoni, Alcune lezioni edite e
inedite; Sansoni, 1983 Spunti di storia della pedagogia Moralita dell'arte:
rievocazione estetica e rievocazione suggestiva (con 53 postille); Sansoni,
Moralita dell'arte e altri saggi; Sansoni. Logica e metafisica; Sansoni, La
storia; Sansoni, Lettere a Bruna; Fondazione nazionale Vito Fazio-Allmayer,
1992 Lettere a Gentile; Fondazione nazionale Vito Fazio-Allmayer, 1993 Introduzione
allo studio della storia della filosofia e della pedagogia; Sansoni, La teoria
della liberta' nella filosofia di Hegel; Giuseppe Principato, Opere; Sansoni,
1969 Commento a Pinocchio; G. C. Sansoni, 1945 Il problema Pirandello; Firenze,
Belfagor, 1957
Note //treccani/enciclopedia/vito-fazio-allmayer_(Dizionario-Biografico)/ E. Garin, Cronache di filosofia italiana...,
I-II, Bari, ad Indicem; //fazio-allmayer/index//
treccani,//treccani/enciclopedia/vito-fazio-allmayer_(Dizionario-Biografico)/.
fazio-allmayer,//fazio-allmayer/index//. Vita e pensiero di V. F., Firenze, Palermo,
con degli scritti del e sul F.,
alle A. Massolo: Fazio e la logica della
compossibilità, in Giornale critico della filosofia italiana,Luporini, Ricordo
di V. F., in Belfagor, Francesco: Intenzionalità ermeneutica e compossibilità
nell'attualismo comunicazionale di Vito Fazio-Allmayer: implicazioni
pedagogiche; Edizioni della Fondazione nazionale Vito Fazio-Allmayer, A. Guzzo,
V. F. e Rossi, in Filosofia, Giornale critico della filosofia italiana,
(scritti di G. Saitta, A. Massolo, S. Caramella, F. Albeggiani, M. F. Mineo
Fazio, B. Fazio-Allmayer Boldrini); A. Santucci: Esistenzialismo e filosofia
italiana, Bologna, Negri, In ricordo di V. F., in Filosofia, XIII (1962), 527-530; E. Garin, Cronache di filosofia
italiana..., I-II, Bari ad Indicem; B. Fazio-Allmayer: Esistenza e realtà nella
fenomenologia di V. F., Bologna, L. Sichirollo, Filosofia e storia nella più
recente evoluzione di F., in Per una storiografia filosofica, II, Urbino Giambalvo, La metafisica come esigenza in
Bergson e l'esigenza della metafisica in V. F., Palermo, Sini: Studi e
prospettive sul pensiero di V.F. Allmayer; estratto da "il Pensiero"
ist. editoriale Cisalpino, Milano-Varese Atti del 1º Congresso nazionale di
filosofia "V. F., oggi", Palermo Atti del Convegno nazionale su
l'estetica come ricerca e l'impegno dell'artista nel suo mondo, Palermo (con interventi di L. Lugarini, U. Mirabelli,
L. Russo Attualismo (filosofia) Giovanni
Gentile Guido De Ruggiero Alcamo
treccani, http://treccani/enciclopedia/vito-fazio-allmayer_(Dizionario-Biografico)/. Filosofia Filosofo del XX secoloFilosofi italiani
del XXI secolo Pedagogisti italiani Insegnanti italiani del XX secolo Insegnanti
italiani Professore. Vito Fazio Allmayer. Allmayer. Keywords: colloquenza,
colloquio, dialettica, dialogo, hegel – fascism – he was forced to retire after
the fall of fascism, altmeyer wurd allmeier Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed
Allmayer” – The Swimming-Pool Library.
Grice ed Alminusa – i nobili
siciliani – filosofia siciliana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Catania).
Filosofo italiano. Grice: “Cutelli is like Hart, a jurisprudent, rather than a
philosopher!” Si laurea a Catania. Un saggio e il “Patrocinium pro regia
iurisdictione inquisitoribus siculis concessa”. Vuole escludere dal
"privilegium fori" numerosi delitti come la resistenza a pubblico
ufficiale, ed omicidio anche tentato.
Altro saggio: “Codicis legum sicularum libri quattuor” dove manifesta
un'idea di politica amministrativa che mira a creare un centro unificatore e un
ministro superiore, cui fosse affidato il compito di amministrare e dirigere la
monarchia, ottenendo il rilancio economico, la riduzione delle spese e il
riequilibrio del conto fiscale. Si recò a Napoli. Acquista il feudo di Mezza
Mandra Nova. Altro saggio: “Catania
restaurata”. Altro saggio: “Supplex libellus.”Acquistò il feudo di Alminusa e
il borgo già creato da Giuseppe Bruno, figlio del fondatore Gregorio, per atto
del notaro Pietro Cardona di Palermo. Ad Aliminusa dota la chiesa di Santa Anna
e stabilisce un legato di maritaggio di dieci onze l'anno in favore di una
figlia dei suoi vassalli, come si scorge dal suo testamento redatto innanzi al
notaio Giovanni Antonio Chiarella di Palermo. Acquista il feudo di
Cifiliana. Il suo testamento rivela la
volontà di destinare una parte dei suoi possedimenti alla fondazione di un
collegio d'huomini nobili in cui si dovesse studiare filosofia: il Convitto
Cutelli, o Cutelli.A Catania gli sono dedicati una piazza sita sul percorso
della centrale via Vittorio Emanuele II e il Liceo Classico "Mario
Cutelli". Dizionario biografico
degli italiani. Una utopia di governo.
La formazione dell'élite in Sicilia tra Settecento ed Ottocento. Il
"Collegio Cutelliano" di Catania, in "Quaderni di
Intercultura". Conte di Villa Rosata. Conte Mario Cutelli di Villa Rosata
e signore dell’Alminusa. Alminusa. Keywords: i nobili, i nobili siciliani, homosocialite,
boys-only, male-only, Convitto Cutelli, élite filosofica, all-male
establishment, Oxford as non-co-educational – the coming of Somerville! –
Grice’s play group as an all-male play group, the idea of nobilita, nobility.
--. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Alminusa” – The Swimming-Pool Library.
Grice
ed Alopeco – Roma – filosofia italiana – Lugi Speranza (Metaponto). Filosofo
italiano. According to Giamblico di Calcide (“Vita di Pitagora”), Alopeco was a
Pythagorean.
Grice ed Altan –
soggeto, simbolo, valore – ermeneutica antropologica – filosofia italiana –
Luigi Speranza (San Vito al Tagliamento). Filosofo
italiano. Grice: “I like Altan; he is of course an anthropologist and not a
philosopher, although his first rambles were on Croce and philosophy as
synthesis of history! – but then I lectured on Peirce’s misuse of ‘symbol,’ and
Altan, not a philosopher, just like Peirce was not – repeats the mistake –
Welby should possibly know better – Grice: “Altan fails to explain why the Romans
felt the need to borrow ‘symbolum’ from the Greeks, and never return it!” Grice:
“The examples in Short and Lewis for the Roman use of ‘symbol’ are extravagant
– Peirceian almost!” – Grice: “Altan’s point is that a ‘soggeto,’ to
communicate via ‘logos’ with another ‘soggeto’ in a colloquium, must rely on
this or that symbol, which means that he must rely on this or that ‘valore’ –
and unless you share those values, you don’t quite grasp the implicatum in the
use of the symbol.” Nato da un'antica famiglia friulana di San Vito al
Tagliamento, Carlo Tullio-Altan è stato uno dei massimi esperti di antropologia
culturale in Italia. Destinato dalla famiglia alla carriera diplomatica,
si laurea nel 1940 in giurisprudenza a La Sapienza di Roma con una tesi in
diritto internazionale. Inviato in Albania durante la seconda guerra
mondiale, partecipa successivamente alla Resistenza, militando nel Partito
d'Azione. Dopo le vicende belliche, conosce Benedetto Croce grazie a cui
fa il suo ingresso nel panorama culturale italiano. L'incontro con Croce,
avvicina il suo pensiero all'idealismo crociano ed allo spiritualismo etico,
come testimoniano le sue prime opere di questo periodo. Trascorre quindi, a
partire dai primi anni '50, dei periodi di studio e di ricerca a Vienna, Parigi
e Londra, dove si accosta pure all'antropologia e all'etnologia. Dal
1953, grazie all'influsso di Ernesto De Martino, di Remo Cantoni (di cui sarà
anche assistente volontario, a partire dal 1958) e di Tullio Tentori, si dedica
all'antropologia, secondo un approccio che non si basi esclusivamente sulla
ricerca sul campo e l'etnografia ma che faccia soprattutto ricorso al pensiero
filosofico, alla storia delle religioni, all'epistemologia, alla sociologia,
alla psicologia. Inoltre, influenzato pure dall'opera di Bronisław Malinowski,
si oppone allo strutturalismo, aderendo successivamente al funzionalismo nonché
a un marxismo mediato dalla scuola francese degli Annales. Nel 1961, gli
viene assegnato, per la prima volta in Italia, l'incarico di insegnamento di
Antropologia culturale alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Pavia,
successivamente ricoperto alla Facoltà di Sociologia dell'Trento. Poi, come
ordinario della stessa disciplina, ha lavorato alla Facoltà di Scienze
Politiche "Cesare Alfieri" dell'Firenze e, dal 1978 fino al
collocamento a riposo (nel 1991), nella Facoltà di Lettere e Filosofia
dell'Trieste, della quale è stato poi nominato professore emerito. Nel
1987, organizza a Roma, insieme ai maggiori antropologi italiani di allora, il
primo "Convegno nazionale di antropologia delle società complesse",
che, negli anni, verrà riorganizzato più volte. Negli ultimi anni, ha
vissuto tra Milano e un'antica casa rurale tra Aquileia e Grado, la stessa dove
lavora il figlio Francesco Tullio-Altan. Sulla base della sua iniziale
formazione universitaria in discipline storico-giuridiche nonché della sua
vasta conoscenza filosofica e culturale, dopo una prima fase di originali
ricerche sulla fenomenologia religiosa ed il simbolismo, volge la sua
attenzione verso i metodi antropologici applicati all'analisi sociologica,
quindi si dedica allo studio dei comportamenti e dei valori della gioventù
italiana negli anni '60-'70, che lo hanno poi condotto ad approfondire, da una
prospettiva storico-culturale e con una visione alquanto critica, la dimensione
identitaria degli italiani. Altan ha poi cercato di far capire sia
all'opinione pubblica che ai politici italiani l'importanza e la necessità di
dare al loro paese una "religione civile". In questo progetto, vanno
inserite alcune fra le sue opere più recenti come La coscienza civile degli
italiani e il manuale di Educazione civica. L'ultimo periodo della sua
attività di ricerca, lo dedicò allo studio delle basilari componenti simboliche
dell'identità etnica, concentrandosi, a tale scopo, sulla categoria
dell'ethnos, individuandone ed analizzandone le sue cinque principali
componenti, ovvero l'"epos" (cioè, la memoria storica collettiva),
l'"ethos" (cioè, la sacralizzazione delle norme e delle regole in valori),
il "logos" (cioè, il linguaggio interpersonale), il "genos"
(cioè, l'idea di una comune discendenza) ed il "topos" (cioè, il
simbolo di una identità collettiva comunitaria stanziata su un dato
territorio), allo scopo di trovare una possibile soluzione razionale, dal punto
di vista dell'antropologia, ai conflitti tra i vari etnocentrismi. Altre
opere: “La filosofia come sintesi esplicativa della storia. Spunti critici sul
pensiero di B. Croce e lineamenti di una concezione moderna dell'Umanesimo” (Longo
& Zoppelli, Treviso); “Pensiero d'Umanità. Sommario breve d'una
moderna concezione speculativa dell'Umanesimo” (D. Del Bianco e Fratelli,
Udine); “Parmenide in Eraclito, o della personalità individuale come assoluto
nello storicismo moderno, Udine); “Lo spirito religioso del mondo primitivo”
(Il Saggiatore, Milano); “Proposte per una ricerca antropologico-culturale sui
problemi della gioventù” (Società editrice il Mulino, Bologna); “Antropologia
funzionale, Bompiani, Milano); “La sagra degl’ossessi: il patrimonio delle
tradizioni popolari italiane nella società settentrionale” (Sansoni, Firenze);
“Personalità giovanile e rapporto inter-personale” (ISVET, Roma); “Le origini
storiche della scienza delle tradizioni popolari” (Sansoni, Firenze); “Atteggiamenti
politici e sociali dei giovani in Italia” (Società editrice il Mulino,
Bologna); “I valori difficili. Inchiesta sulle tendenze ideologiche e politiche
dei giovani in Italia” (Bompiani, Milano); “Comunismo e società” (Società editrice
il Mulino, Bologna); “Valori, classi sociali, scelte politiche. Indagine sulla
gioventù” (Bompiani, Milano); Manuale di antropologia culturale. Storia e
metodo” (Bompiani, Milano); “Modi di produzione e lotta di classe in Italia” (Arnoldo
Mondadori Editore-Isedi, Milano); “Tradizione e modernizzazione: proposte per
un programma di ricerca sulla realtà del Friuli, Editrice cooperativa Il Campo,
Udine); “Antropologia. Storia e problemi” (Feltrinelli, Milano); “La nostra
Italia: arretratezza socioculturale, clientelismo, trasformismo e ribellismo
dall'Unità ad oggi” (Feltrinelli, Milano); “Populismo e trasformismo. Saggio
sull’ideologie politiche italiane” (Feltrinelli, Milano); “Per una storia
dell'Italia arretrata” (Le Monnier, Firenze);
“Una modernizzazione difficile. Aspetti critici della società italiana”
Liguori Editore, Napoli); “Soggetto, simbolo e valore. Per un'ermeneutica
antropologica, Feltrinelli, Milano); “Un processo di pensiero, Lanfranchi,
Milano); “Ethnos e Civiltà. Identità etniche e valori democratici” (Feltrinelli,
Milano. Italia: una nazione senza religione civile. Le ragioni di una
democrazia incompiuta, IEVF-Istituto editoriale veneto friulano, Udine); “La
coscienza civile degli italiani. Valori e disvalori nella storia nazionale,
Gaspari Editore, Udine); “Religioni, simboli, società: sul fondamento umano
dell'esperienza religiosa” (Feltrinelli, Milano); “Gl’italiani in Europa.
Profilo storico comparato delle identità nazionali europee, Il Mulino,
Bologna); “Per un dialogo fra la ragione e la fede, Leo S. Olschki, Firenze); “Le
grandi religioni a confronto. L'età della globalizzazione, Feltrinelli,
Milano); Identità etniche, Una religione civile per l'Italia d'oggi,
emsf.rai/biografie/ anagrafico.asp?d=328 Il crogiolo, web. archive.org/web/ /http://emsf.rai/biografie/ anagrafico.asp?d=328;
“L'esperienza dei valori”, “Identità etniche e valori universali” web.archive.org/
/http://emsf.rai/ biografie/anagrafico.asp?d=328 Modelli concettuali
antropologici per un discorso interdisciplinare tra psichiatria e scienze
sociali, in: Psicoterapia e scienze umane, polser.wordpress.com/2009/02/25/carlo-tullio-%e2%80%93-altan-modelli-concettuali-antropologici-per-un-discorso-interdisciplinare-tra-psichiatria-e-scienze-sociali-in-psicoterapia-e-scienze-umane-n-1-Citazioni
«Per la destra l'antropologia è roba per selvaggi; la sinistra pensa solo
all'economia; altri sono ancorati a schemi anglosassoni, che vedono le
strutture politiche come realtà a sé», da un'intervista rilasciata a Paolo
Rumiz e pubblicata in La secessione leggera, Roma, Editori Riuniti, 1997202.
Note Cfr. il saggio autobiografico: C.
Tullio-Altan, "Un percorso di pensiero", Belfagor. Rivista di varia
umanità, nonché il testo autobiografico
Un processo di pensiero, Lanfranchi Editore, Milano, Cfr. U. Fabietti, F. Remotti, Dizionario di
Antropologia. Etnologia, Antropologia Culturale, Antropologia Sociale,
Zanichelli Editore, Bologna, 1997, voce "Tullio-Altan, Carlo"772.
Cfr.//controluce/notizie-old-html/giornali/a14n03/18-culturaecostume-altan.htm Cfr.//segnalo/TRACCE/ NONPIU/tullio-altan.htm Frutto di questo nuovo programma di ricerca,
fu peraltro la monografia Lo spirito religioso nel mondo primitivo (1960). Cfr. A. Rigoli, Lezioni di etnologia, II
edizione, Renzo e Reau Mazzone editori/Ila Palma, Palermo (IT)/San Paolo (BRA),
Cfr. U. Fabietti, F. Remotti, cit. Fra
cui Armando Catemario, Giorgio Raimondo Cardona, Matilde Callari Galli,
Vittorio Lanternari, Gavino Musio, Francesco Remotti, Aurelio Rigoli, Luigi
Lombardi Satriani, Tullio Tentori. Cfr.
Tullio Tentori, Antropologia delle società complesse, A. Armando Editore, Roma,
1999. Da un punto di vista storico, è da
ricordare come l'antropologia culturale abbia avuto origini giuridiche. Invero,
molti dei maggiori antropologi della seconda metà Professoreerano giuristi o,
quantomeno, avevano una formazione giuridica. Ciò fondamentalmente è dovuto al
fatto basilare per cui nessuna società umana è priva di una qualche forma di
diritto, anzi tutte le istituzioni sociali hanno una imprescindibile dimensione
giuridica; cfr. U. Fabietti, F. Remotti, cit., voce "Antropologia
giuridica". Cfr. I. Ignazi,
"Populismo e trasformismo nell'analisi di Carlo Tullio-Altan", il
Mulino. Rivista di cultura e politica. Angioni, "Obituary. Carlo
Tullio-Altan: un antropologo "anti-italiano". Familismo amorale e
clientelismo tra i mali del Paese", in: Il Sole 24 Ore, Cfr. Enciclopedia multimediale delle scienze
filosofiche in. Cfr. C. Tullio-Altan, "La dimensione
simbolica dell'identità etnica", in: G. De Finis, R. Scartezzini,
Universalità e differenza. Cosmopolitismo e relativismo nelle relazioni tra
identità e culture, Franco Angeli Editore, Milano, 1996, 318-339.
Qui, per regola, si intende una norma, in genere non necessariamente
codificata, suggerita dall'esperienza o stabilita per convenzione o
consuetudine, spesso in riferimento al modo usuale di vivere e di comportarsi,
sia individualmente che collettivamente; cfr.
Cfr. C. Tullio-Altan, Ethnos e civiltà. Identità etniche e valori
democratici, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 1995, nonché i ricordi di
Umberto Galimberti e di Marcello Massenzio comparsi su La Repubblica del 16
febbraio 2005 e reperibili all'indirizzo
Archiviato il 1º marzo in. Cfr.
pure A. Rigoli, cC. Tullio-Altan, Un processo di pensiero, Lanfranchi Editore,
Milano, 1992 (testo autobiografico). C. Tullio-Altan, "Un percorso di
pensiero", Belfagor. Rassegna di varia umanità, Ferigo, " di Carlo
Tullio-Altan", Metodi & Ricerche. Rivista di studi regionali, Atti del Convegno Storia comparata,
antropologia e impegno civile. Una riflessione su Carlo Tullio Altan,
Udine-Aquileia, i cui sunti sono stati pubblicati, Liza Candidi, sulla rivista
Italia Contemporanea, 243, (cfr., per esempio, ). Fascicolo speciale
dedicato a Tullio-Altan: 16, N. 1, Anno
2005 della rivista Metodi & Ricerche. Rivista di studi regionali. L'antropologia italiana. Un secolo di storia,
Editori Laterza, Roma-Bari, 1985. E.V. Alliegro, Antropologia italiana. Storia
e storiografia, SEID Editori, Firenze,. C. Tullio-Altan, C. Signorelli, "A
proposito di alcune critiche: dibattito Tullio Altan-Signorelli", in
Rivista della Fondazione Italiana dei Centri Sociali, Roma, A. Forniz, "Il Palazzo Tullio-Altan in S.
Vito al Tagliamento: dimore illustri nel Friuli occidentale", in Itinerari.
Carlo Tullio-Altan, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Carlo Tullio-Altan, in
Dizionario biografico dei friulani. Nuovo Liruti online, Istituto Pio Paschini
per la storia della Chiesa in Friuli.
Biografia [collegamento interrotto], su feltrinellieditore. Biografia,
su blog.graphe. Convegno in memoriam, su qui.uniud. Ricordo biografico, su
controluce. Filosofia Sociologia
Sociologia Categorie: Antropologi italianiSociologi italianiFilosofi
italiani Professore, San Vito al Tagliamento PalmanovaAccademici italiani del
XX secoloStudenti della SapienzaRomaProfessori dell'Università degli Studi di
PaviaProfessori dell'Università degli Studi di Trento. Carlo Tullio-Altan.
Altan. Keywords: soggeto, simbolo, valore – ermeneutica antropologica, Croce,
filosofia come sintesi, Velia, la porta rossa di Velia, fascismo, ideologia
politica italiana, ideologie politiche italiane, simbologia, simbolismo,
ermeneutica, mercurio, ermete, mercurio, humano, uomo, umanesimo, Altan e
Passolini, Palazzo Altan – Altan nobile friulese, il conte Carlo Tullio-Altan –
la etnia friulese, ‘friulese, non italiano’ – dizionario biografico dei
friulesi – friul – la lingua friulese – la base romana – la occupazione romana.
Aquileia – i friulesi durante il fascismo – contro il friulese, italisazzione –
Altan e la resisenza – etnia e italianita, -- romanita ed italianita –
friulesita -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Altan” – The
Swimming-Pool Library.
Grice ed Alvarotti – retorica –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Padova). Filosofo italiano. Nacque nell'antica famiglia padovana Speroni degli Alvarotti nel
palazzo di famiglia in contrà Sant'Anna. Il padre Bernardino fu archiatra di
Leone X, la madre Lucia era esponente dei Contarini. Bambino prodigio negli
studi, divenne professore di semiotica a Padova a soli diciotto anni. Dopo
pochi anni di insegnamento però decise di approfondire gli studi a Bologna, da
Pomponazzi. Alla morte di Pompoazzi, ritornò a Padova dove insegnò per altri
tre anni, fino al decesso del padre; dopo di ciò dovette occuparsi attivamente
della sua famiglia. A questo periodo risale la composizione dei dialoghi
che verranno pubblicati dall'amico Barbaro con il titolo di Dialogi: sono il
“Dialogo d'amore”, “ Della dignità delle donne”; “Del tempo di partorire delle
donne” e “Della cura famigliare”; due dialoghi lucianei “Della usura” e “Della
Discordia”, seguiti da quello “Delle lingue” e da “Della retorica” e infine
quello “Delle laudi del Catajo, villa della S. Beatrice Pia degli Obici e
quello Intitolato Panico e Bichi. Questi dialoghi sono le opere più note di
Speroni, nonostante siano stati pubblicati a sua insaputa e non siano mai stati
riconosciuti, e hanno avuto decine di ristampe nel corso del Cinquecento.
A questo periodo risale anche la composizione del “Dialogo della vita attiva e
contemplativa” che non venne però inserito nei Dialogi per motivi tuttora
sconosciuti. Membro dell'Accademia degli Infiammati e amico di Tasso si
occupò della revisione della Gerusalemme liberata. Fu autore della Canace,
pubblicata a Venezia, tragedia che darà
seguito a un'accesa polemica tra l'autore e Giambattista Giraldi Cinzio.
In seguito intervenne anche nella polemica tra lo stesso Cinzio e Pigna a
proposito dell'”Orlando furioso” e del romanzo come genere letterario. Si
trasferì a Roma dove divenne amico di Caro. Tornato a Padova compose i
“Discorsi Su Alighier”, “Sull'Eneide”; “Sull'Orlando furioso” e il “Dialogo
della istoria.” Fu fautore di un classicismo ancor più estremo di quello del
vicentino Trissino, cui rimproverava di aver tratto dalla storia e non dalla
mitologia il soggetto della sua Sofonisba. Conformemente all'uso greco e,
naturalmente, nel pieno rispetto delle unità aristoteliche, si ispirò alle
Heroides ovidiane per la Canace. Fu sepolto nella Cattedrale di Padova
negli avelli degli Alvarotti. Nell'andito della porta settentrionale gli venne
in seguito eretto un monumento ad opera di Girolamo Campagna.
Sperone Speroni. OOpere di M. Sperone Speroni-degli-Alvarotti tratte da'
mss. originali, Marco Forcellini, Venezia, Occhi, Sperone Speroni, in
Trattatisti del Cinquecento, Mario Pozzi, Milano-Napoli, Ricciardi, Francesco
Cammarosano, La vita e le opere di Sperone Speroni, Empoli, Tipografia R.
Noccioli; Francesco Bruni, Sperone Speroni e l'Accademia degli Infiammati, in «
Filologia e letteratura », Francesco Bruni, Sistemi critici e strutture
narrative (Ricerche sulla cultura fiorentina del Rinascimento), Napoli,
Liguori, Amelia Fano, Notizie storiche
sulla famiglia e particolarmente sul padre e sui fratelli di Sperone Speroni
degli Alvarotti, in « Atti e memorie dell'Accademia di Padova », Padova, Tipografica
G.B. Randi, Amelia Fano, Sperone Speroni, Saggio sulla vita e sulle opere, I,
La vita, Padova, Fratelli Drucker, Piero Floriani, I gentiluomini letterati. Il
dialogo culturale nel primo Cinquecento, Napoli, Liguori; Adelin Charles
Fiorato, Jean-Louis Fournel, Il “camaleonte” e il “cuoco”. Sperone Speroni e la
critica del romanzo, in « Schifanoia », Stefano Jossa, Rappresentazione e
scrittura. La crisi delle forme poetiche rinascimentali, Napoli, Vivarium, Stefano Jossa, Verso il barocco. Sperone Speroni
e Borromeo (tra retorica e mistica), in « Aprosiana », Mario Pozzi, Le lettere familiari di Sperone
Speroni, in « Giornale storico della letteratura italiana » Pozzi, La critica
fiorentina fra Bembo e Speroni: Varchi, Lenzoni, Borghini, in M. Pozzi, Ai
confini della letteratura. Aspetti e momenti di storia della letteratura
italiana, Alessandria, Edizioni dell'Orso, Sperone Speroni, volume monografico
di « Filologia veneta », Padova, Editoriale Programma, TreccaniEnciclopedie on
line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Camillo Guerrieri Crocetti, Sperone Speroni, in Enciclopedia Italiana,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Sperone Speroni, su sapere, De Agostini.
Luca Piantoni, Sperone Speroni, in Dizionario biografico degli italiani,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Opere di Sperone Speroni, su Liber Liber. Opere di Sperone Speroni, su openMLOL,
Horizons Unlimited srl. Opere di Sperone Speroni,. Audiolibri di Sperone
Speroni, su LibriVox. Michele Messina,
Sperone Speroni, in Enciclopedia dantesca, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Keywords: “Dialogo della lingua”--. Speroni degli Alvarotti. Speroni
degl’Alvarotti. Alvarotti. Keywords: retorica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed
Alvarotti” – The Swimming-Pool Library.
Grice ed Amaduzzi – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Savignano di Romagna). Filosofo
italiano. Grice: “Oddly, I had an occasion to refer to Amaduzzi’s birthplace in
my little thing on Caesar crossing the Rubicon!” -- “I love Amaduzzi: he writes
about the academy of Paris, and the academy of Berlin, but nothing about the
English Acadeemy! He notes that the warrior – against the Trojans, was
Echademos – and ‘it is naturally that the first important Accademy was founded
in Tuscany, -- since a Tuscan hates a Roman!” –Grice: “Amaduzzi’s hobby was to
collect references to ‘accademies,’ – “which are all nonsensical, since only
ONE has a ‘rigid’ designation link to EchEdemos!”. Discepolo a Rimini di
Giovanni Bianchi (Iano Planco), si trasferì dal 1762 a Roma, dove iniziò la sua
attività di ricerca ed erudizione, sia pure tra numerose ristrettezze. Un
assestamento nella sua vita si registrerà alla fine degli anni Sessanta del XVIII
secolo, come rilevano i diari dei suoi primi "diporti" (gli Odeporici
autunnali eruditi), le brevi perlustrazioni compiute nei dintorni della città
eterna o comunque entro lo Stato della Chiesa, emblema di un genere letterario
di viaggio che mostra chiaramente la sua versatilità di interessi. Grazie
alla protezione del papa Clemente XIV, anch'egli ex allievo di Bianchi, dal
1769 fu professore di lettere greche presso La Sapienza, mentre dal insegnò al Collegio Urbano. Nel frattempo era
anche diventato ispettore della Congregazione di Propaganda Fide, ottenendo da
Clemente XIV la carica di soprintendente della relativa stamperia. Con la quale
curò la pubblicazione, scrivendone le prefazioni, in particolare di importanti
trattati di grammatica di lingue orientali, fra cui l'ebraico, il persiano,
l'armeno, il tibetano e perfino il malayalam. Per i suoi studi ottenne
ottima reputazione presso i principali esponenti del panorama culturale
settecentesco, entrando in contatto e in corrispondenza, tra gli altri, con
Pietro Metastasio, Vincenzo Monti, Carlo Denina, Ippolito Pindemonte, Girolamo
Tiraboschi, nonché con Lazzaro Spallanzani. Fra le sue pubblicazioni
spiccano anche dissertazioni di ordine filosofico, che s'innestavano nell'alveo
di un illuminismo moderato: infatti, con i «discorsi» su La filosofia alleata
della religione e sull'Indole della verità e delle opinioni del 1786 (per i
quali fu denunciato all'Inquisizione), i cui temi di fondo erano ispirati al
filosofo inglese John Locke, egli cercava di coniugare il sensismo con il
cattolicesimo, poiché vedeva nel sensismo un valido approccio alla conoscenza
dell'uomo. Vicino alle istanze del giansenismo regalistico, come emerge dalla
ultradecennale corrispondenza con Scipione de' Ricci, ebbe parte significativa
nella discussione che portò al decreto di soppressione della Compagnia del
Gesù. Si occupa anche di archeologia, curando fra l'altro i “Fragmenta vestigii
veteris Romae” -- e la “Raccolta di antichità agrigentine”. In questo ambito
s'inscrive l'ampia corrispondenza con l'aquilano Anton Ludovico Antinori.
Compose, inoltre, canzoni e rime, e poco prima di morire pubblica anche per la
Stamperia del Bodoni a Parma un commentario su Anacreonte. Fu tra gli
accademici dell'Arcadia, con lo pseudonimo di Biante Didimeo. Opere
principali: Dissertazioni – “Dissertazione canonico-filologica sopra il titolo
delle instituzioni canoniche De officio archidiaconi, s.e., s.i.l.”; “Donaria
duo graece loquentia quorum unum in tabula argentea apud moniales Saxoferratenses
S. Clarae, s.e., Roma); “Discorso filosofico sul fine ed utilità
dell'Accademie, per i torchi dell'Enciclopedia, Livorno); “La filosofia alleata
della religione. Discorso filosofico-politico, per i torchi dell'Enciclopedia,
Livorno); “Discorso filosofico dell'indole della verità e delle opinioni, dai
torchj Pazzini, Siena); “Carteggi Ad virum clarissimum Janum Plancum
archiatrum, et patricium Ariminensem epistola, typis J. Rocchii, Lucae); “De
veteri inscriptione Ursi Togati ludi pilae vitreae inventoris epistola, apud B.
Francesium, Romae); “Epistola ad Iohannem Baptistam Bodonium qua emendatur et
suppletur commentarium de Anacreontis genere eiusque bibliotheca, in aedibus
Palatinis typis Bodonianis, Parmae). Il carteggio tra Amaduzzi e Corilla
Olimpica, L. Morelli, Leo S. Olschki, Firenze, Lettere familiari, G. Donati,
Accademia dei Filopatridi, Savignano sul Rubicone); Carteggio, M. F. Turchetti,
Edizioni di storia e letteratura, Roma); “Curatele Leges novellae 5. anecdotae
imperatorum Theodosii junioris et Valentiniani, Typ. Zempelianis, Romae); “Alphabetum
Brammhanicum seu Indostanum Universitatis Kasi, (a J. Ch. Amadutio editum),
Sac. Cong. de Propaganda fide, Romae); “Alphabetum Hebraicum addito Samaritano
et Rabbinico, Sac. Cong. de Propag. Fide, Romae); “Alphabetum veterum
Etruscorum et nonnulla eorundem monumenta, Sac. Cong. de Propaganda fide, Romae);
Alphabetum Graecum, Sac. Cong. de
Propag. Fide, Romae Alphabetum grandonico-malabaricum sive samscrudonicum, Sac.
Cong. de Propaganda Fide, Romae); “Alphabetum Tangutanum sive Tibetanum, Sac.
Cong. de Propaganda Fide, Romae); Anecdota litteraria ex mss. codicibus eruta, apud
G. Settarium, Romae); “Catalogus librorum qui ex tipographio sacrae congreg. de
propaganda fide variis linguis prodierunt et in eo adhuc asservantur, Sac.
Cong. de Propaganda Fide, Romae); “Alphabetum Barmanum seu Bomanum regni Avae
finitimarumque regionum, typis Sacrae Congregationis de Propaganda Fide, Roma);
“Alphabetum Persicum, Sac. Cong. de Propag. Fide, Romae); “Alphabetum Armenum],
Sac. Cong. De Propaganda Fide, Romae); “Characterum ethicorum Theophrasti
Eresii capita duo hactenus anecdota quae ex cod. ms. Vaticano saeculi 11, Typ.
Regia, Parmae); “Alphabetum Aethiopicum sive Gheez et Amhharicum, Sac. Cong. de
Propaganda Fide, Romae); Intitolazioni L'Accademia dei Filopatridi di Savignano
ha creato nel 1999 il Centro di studi amaduzziani, su proposta di Antonio
Montanari, autore di vari testi su Amaduzzi. Tra le principali iniziative del
centro: «Giornate amaduzziane»: una giornata di studi annuale su G.
Amaduzzi; «Biblioteca amaduzziana»: la pubblicazione di opere (biografiche e non)
su Amaduzzi. Il primo volume è Elogio dell'abate Giovanni Cristofano Amaduzzi di
Isidoro Bianchi, la prima biografia scritta sull'abate savignanese. Note T. Scappaticci,Gli Odeporici di Amaduzzi, in
Fra Lumi e reazione. Letteratura e società nel secondo Settecento, Cosenza G. Moroni, Dizionario di erudizione
storico-ecclesiastica, Venezia, Cfr.Metastasio,
Opere, V, Firenze, A. Cappelli, Del
carteggio inedito tra Ludovico Antonio Antinori e Giovanni Cristoforo Amaduzzi.
Studi archeologici, Tip. Perfilia, Aquila, L. Spallanzani, Diciassette lettere
di Lazzaro Spallanzani all'abate Gio. Cristoforo Amaduzzi per la prima volta
stampate, Ditta tip. Conti, Faenza, L'espressione è di Antonio Piromalli. A. Piromalli, La letteratura calabrese, I, Pellegrini, Cosenza, G.C. Amaduzzi,
Raccolta di antichita agrigentine alle quali si uniscono i disegni del tempio
di Teseo in Atene e di quello di Pesto il tutto espresso in 53. rami, Zempel,
Roma, A. Cappelli, V. Lancetti, Pseudonimia. Ovvero tavole alfabetiche de' nomi
finti o supposti degli scrittori con la contrapposizione de' veri, Milano G. C. Amaduzzi, Odeporici autunnali eruditi,
ovvero diario di un viaggiatore curioso ed erudito, I, Rubiconia Accademia dei Filopatridi,
Savignano sul Rubicone, G. C. Amaduzzi, Rime, G. Donati, Rubiconia Accademia dei
Filopatridi, Verucchio, A. Fabi, «Amaduzzi, Giovanni Cristofano», in Dizionario
Biografico degli Italiani, II, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, Roma, A. Montanari, Giovanni Cristofano Amaduzzi e
la scuola di Jano Planco, Accademia dei Filopatridi, Studi Amaduzziani, III,
Viserba di Rimini, A. Montanari, Amaduzzi, illuminista cristiano, «Romagna arte
e storia», A. Montanari, Appendice storico-critica in G. C. Amaduzzi, La
Filosofia alleata della Religione, rist. an. Il Ponte, Rimini, A. Montanari,
Amaduzzi editore a Roma delle Notti di Bertòla. Storia inedita dei Canti
clementini, Quaderno, Accademia dei Filopatridi, Savignano sul Rubicone, A.
Montanari, Amaduzzi, Scipione De' Ricci ed il ‘giansenismo' italiano, «Il
carteggio tra Amaduzzi e Corilla Olimpica, Olschki, Firenze, T. Scappaticci,
Fra lumi e reazione. Letteratura e società nel secondo Settecento, Pellegrini,
Cosenza 2006. M. Trincia Caffiero, Cultura e religione nel '700 italiano:
Giovanni Cristofano Amaduzzi e Scipione de' Ricci, in «Rivista di Storia della
Chiesa in Italia», TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Giovanni Cristofano Amaduzzi,
in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Opere di Giovanni Cristofano
Amaduzzi / Giovanni Cristofano Amaduzzi (altra versione) /Giovanni Cristofano
Amaduzzi (altra versione), su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Giovanni
Cristofano Amaduzzi, Documenti sui fratelli Amaduzzi sul web. Filosofi italiani
Professore1740 1792 18 agosto 21 gennaio Savignano sul Rubicone RomaScrittori
italiani del XVIII secolo Linguisti italianiPoeti italiani del XVIII
secoloOrientalisti italianiAccademici dell'Arcadia. Giraian Cristofano Amaduzzi di Savignano fu
una delle țeste più filosofiche e veramente erudite delsecolotraq scorso. Nacque
di Michele Amaduzzi, e di Caterina Gasperoni. La sua famiglia traeva origine da
Longiano, com'egli stesso nella pre fazione del libro intitolato DEVOLUTIO AD
S. R. E. afferma = Grato enim animo me ab hoc solo (Longiani) ad Sabinianense
traductum recordor, quinimirum exeagenteprogpatussim, cujussintab ipso saeculi
XIV initio certissima inter vos incolatus monumenta etc. = Giovinetto amò
tanto,oltre l'età, lostudioelafatica,cheilpadrene vennefind'alloraa
buonesperanze; e però fu posto fraglialunnidel Seminario di Rimini, ove prese
gli ordini clericali. Furono sì rapidi i progressi ch'egli fece, da destare
ammirazione grande disè.Compiutalacarrieradegli studii,ed ap presa assai bene
lingụa Jatina!eloquenza, eragion poetica uscì del Seminario, e fu nel 1955, e
sidiede tutto alla filosofia, fidato alla scorta del famoso dottor Gio.
Bianchi, il quale della propria casa, aveva fatto una scuola per chi volesse
usarne, ricca di biblioteca, dimuseo,digiornali;ediquantoerada luiprivato
LONCIANI DI 1... procurare a bene del pubblico. Nè solo filosofia, ma
lingua greca imparò dal Bianchi, e sì bene da uscirne solenne maestro. Gli
piacque anche conoscere le leggi, e però si fece ad udire lezioni dell'avvocato
Lelio Pasolini che era pubblico professore di giurisprudenza nella stessa
città.Nell'anno 1761 l’abbate Amaduzzi non più discepolo, ma amico e fratello
del Bianchi si cessò dalla sua scuola, e poco appresso recossi a Roma; efuappuntonelmaggiodel1762.
Appena ebbe preso stanzanella metropoli del m o n do cattolico non è a dire
come prestamente desse a conoscere di quale ingegnoera fornito,e come entras se
nella grazia dei più distinti personaggi che al lora quivi mostravansi. E a ciò
gli valse specialmente la benevolenza e la protezione del magnifico Gaetano
Fantuzzi, cui non so se la porpora de cardinali desse o ricevesse più
splendore: perocchè egli nella sua vita. fututtoinproteggere gliuominidotti,e,fattanerac
colta presso di sè,giovarli d'ogni maniera conforti, e quel che più è,senza
pompa di fasto in mezzo ad una vitaillibataemodesta.E perchèiomivogliadimol
tialtri tacere,non passerò sotto silenzio i cardinali Boschi, Torrigiani,
Borgia, Garampi, Doria, Antonelli,Mare foschi,Zelada,Giovanetti,ilcardinaleduca
diYorch, einfineilGanganellichefupoiPapagloriosissimo e de gnodi piùlungo pontificato.
Che anziquest'ultimol'eb be fra suoi più cari, e levato alla cattedra di Pietro
se ne valse in molte e gravi bisogne. E s'egli avesse più a lungo vivuto,
all?abaté Amaduzzi non sarebbeforso mancata eminenzadicaricaparial suo ingegno e
dal suo'merito. Ma perrendermial'filodella narrazione dirò che, poichè
14Amaduzzi a più tornate 'ebbe letti discorsi profondamente filosofici e
nobilissimi in Arca dia,tuttaRoma fupienadellesuelodi.Egli perassecon dare
idesiderii de'suoi genitori, che avrianó voluto far di lui un
giureconsulto,poichè non erano giunti adaverlo sacerdote,diemano alla
giurisprudenza;ma essendo d'animo sehietto, e nemico di cavilli, e d'in
sidieforensi,piùchealfôrositenne,ailibridei gius pubblicisti,esimisea
svolgereleoperedel Cujaccio, dell'Alciati,del Gottofredo, del Gravina e di
somiglianti, sdegnoso di quell'ammasso informedi leggi,di prati 6
che, di consuetudini sotto cui sovente venivano artata mente sepolte la
verità e la giustizia. A prova del profitto che egli fe’in questaragione di
studii pub blicò prima d'ogni altra cosa nel 1767 le cinque novelle inedite
degli imperatori Teodosio juniore, e Valenti niano terzo, (di cui più appresso
avremo a riparlare), nella quale opera non so qualpiùsimostriobuon legista, o
critico acuto o profondo archeologo. Nè la sciò aparte gli studii
teologici,(perocchè a'suoi pia ceva che ei si guadagnasse alcun impiego
ecclesiastico) ecome simanifestaper alcunesueerudite disserta zioni, in breve
in questa scienza pure entrò molto i n nanzi. Gli fu maestro il celebre P.
Marcelli agosti niano; e tanto s'internò nelle dottrine del gran de dottore s.
Agostino, che a difesa delle medesime ebbepiùvoltea
combattere.Siconobbepurediquel la parte di diritto, che io dirò sacro perché
riguar. da la canonizzazione dei Santi, e si esercitò in più cause, essendo
promotori dellaFede monsignor Forti prima, e monsignor Pisani dappoi. M a dove
più di forza intese fu nella cognizione de'sacri canoni, indispensabile a chi
voglia penetrare nelle ecolesiastiche antichità con sicurezza digiudizio.
Belledissertazioni,lequalicomprovanoconoscenza som ma che egli aveva dei
canoni,lesse egli nell'accade mia che il sullodato cardinal Fantuzzi aveva
formata in Roma de'più chiari personaggi, di cui era protet tore come è detto.
Non acquetossi a questi studii la mente dell'Amaduzzi,laquale sentiva
d'averforzada stendersi a più largo campo, e però si fece ad ap prendere
lalingua ebraica e molte altre orientali,e n’eb be amaestriilTeoli, l'Eva, ilGiorgi, l'Assemani,cime
d'uomini,anzidisapere.Non èmaravigliadopoque sto, seappena scorso un'anno dalla
sua venuta in Roma, il cardinal Torrigiani con onorevolissima lette ra dell' 11
novembre 1963 raccomandò l' Amaduzzi al principe di Francavilla, a cui spettava
provvedere di custode labiblioteca Imperiali; officioche ben con
venivagli,echeavrebbeottenuto,selamorte delmar chese Imperiali non avesse rese
vane le premure del V ottimo porporato. In questa occasione ebbe pure una
raccomandazionedelducadiParma.Intantol'Amaduzzi 7 In questo mezzo
essendo accordatalagiubilazio ne aGio.BattistaGautier,professoreche fudilingua
greca nell'Archiginnasioromano,Clemente XIV.di moto proprio
glinominòsuccessore1'Amaduzzi,ed egli n'ebbe il diploma. Essendo passato di vi
ta l'abbate Barcubaldo Bicci, che aveva la direzione della tipografiadiPropaganda,l'Amaduzziconviglietto,
della segreteria di Stato fu nominato a quell?uffizio inluogodel
defunto.Equìmipiacenotareunabel lissima lode a,lui doyuta, qual è di aver
meritato i primi pensieridelsuoprincipe,edi non averli com perati con viltà di
adulazione, o tristo mercimonio di corte. Anche,un altra lode si ebbe
l’Amaduzzi, e fu del mostrarsigrato alsuo maestro Jano Planco; peroc che si
adoperò onde,avesse grado di Archiatro del Pontefice, e gli siaumentasse
l'onorario che aveva in patria, e quel che è più rimarchevole scampasse dal
1'umiliazione di soggiacereallefave annualmente; co sadi rilievoassai,perchè
troppo spesso avviene, che nei municipii prevalga il privato risentimento dei
yo- 8 non si cessando mai dalle sue erudite occupazioni, ac-. cresceva ad
un tempo in sapere, ed in fama. E seb bene avesse a sostenere fin dai primi
anni la guer ra degl'invidi, e dei tempi, nimicizie perpetue dei buoni
ingegni,pure non ristette perquesto. In una lettera al dottor Giovanni Lami scritta
li si luglio 1.768 si legge cosi: = Non godono le nostremuse quella
tranquillità, che loro invidia l' infelicità dei tempi che corrono. Pure non
ostanteio,che mi pre servo per quei tempi più lieti che spero,non inter metto
lemieletterarie occupazioni(Nov. Lett.di Firenze1768).Elettonel15.maggiodel1769.a.Pon
teficeMassimo Ganganelli, tutta Roma,che benediluisiconosceva,seneallegro,e
piùchemail'A maduzzi,ilqualeebbeascriverepocoappresso= sotto
questopontificatocomincianoarisorgerelelettere=.E perchèquellagranmentecheeraPapa
Ganganellivede va che il ravvivare gli studii,e gli uomini, che per quelli
hanno grido,ristorare, è opera disavio e buon prin cipea questo sivolse,e
cercavamodo diprovvederel'A maduzzi per cui aveva speziale stima, e
benevolenza. 1. tanti al bene del pubblico. Quanto poi studiasse por
gersi r i conoscent e a l l' immortal suo benefattore Pontefice lo danno a
vedere le opere che egli pubblico, e che vanno sì onorateper lo mondo, chenon è
permes 80 ignorarle a chi abbia pure attinto a prime labbra
glistudiidiantichitàsacrae profana.Lasacracon gregazione diPropaganda volendo
dar segno di aggra dimento alle tante fatiche dell'Amaduzzi, gliconferì la
cattedra di lingua greca nel collegio Urbano,la qualeera rimastavacante per la
morte del celebre. Raffaele Vernazza.Ciò funel:il 27 9 salito, e la
grazia dei grandi, bre.Ilgridoincheera,loa parola del vero captivavasi cui egli
collasevera avesse per poco posto sì in alto, c h e, se egli vevano, avría
posto la mano per piegato alle artidi corte che nome; non letterato che non
volesse fortuna.Nonviera accademia trooicapeglidella ne ricercasse,il averloa
socio,enon non si onorasse commercio di let;non giornale che non si riputasse
tere.coll’Amaduzzi dotti pensieri. Fu ascritto a vanto pubblicare i suoi 6.
febbra alla società letteraria de'.Volsci di Velletri Etrusca di Cortona il 5.
jo del 1769., all'accademia, alla Fulginea li 29. gennajo aprile col nome di Nestore.1
8. a quella dei Forti in Roma del 1774,e ne scrisse a modo delle dodici ta
ottobre col nome di Biante Didimeo voleleleggi;all'Arcadia il 7. febbraro 1775;
all'accademia dei Placidi di Re del 1775; alla società georgica dei canati1'8.
aprile 1779: all'acca Sollevati di Montecchio
demiarealediScienze,eLetteredi Napoliil5.agosto diVerona il4. giugno del
del1779: alla Filarmonica il 7 settem Colombaria diFirenze:alla società
degliAffidatidi Pavia il bre del 1785., all'accademia di Dublino li del
1786;alla reale Ibernese 4. giugno anno;alla reale di Scienze 21. novembre
dello stesso il30. agostodel 1789. eamolte al eLetteredi Mantova letterarjdi
quei giorni. tre.Scriyeva nei migliori giornali Pressocchè tutti gli articoli
provegnenti da R o m a senza me d'autore del Lami,le quali furonopoi continuate
n o, che leggonsi dal 1760. al 1791. nelle Novel le Letterarie,sono cosa
dell’Åmaduzzi. Ebbe anche mole dal Lastri di Palermo,nell'Ef ta mano nelle
notizie de’Letterati di novem e n femeridi
letterarie,enell'Antología di Roma,neglian nali ecclesiastici di Firenze.
Carteggiava in Italia con tuttiipiùdistinti uominidiqueltempo,fraiquali siami
lecito nominare Lami, Bandini, Lastri, Passeri, Olivieri,Mandelli,
Vettori,Ferri,Mingarelli,Giovenaz zi, Bianchi, Pietro Borghesi,ePasqualeAmati
suoi con cittadini. Fuor d'Italia poi aveva corrispondenza di lettere estesa
più che mai, come si può vedere da mol ti volumi che esistono manoscritti nella
pubblica li brería di Savignano., Chi potesse, dice ildottissimo Isidoro
Bianchi in una nota (36) all'elogio ch'egli scris şe dell'Amaduzzi, raccogliere
e regalare al pubblico tutte le lettere famigliari, che il nostro Cristofano ha
nel corso della vita iscritte a tanti e così dotti amici
d'ognirango,d'ognicondizione,siavrebbecertamen te un'opera di moltissimi
volumi, che nel merito su pererebbe forse molte altre, che egli ha vivendo rese
pubbliche collestampe;un'opera pienadianeddoti interessantissimi, la quale ci
presente rebbela più veridica e genuina storia de'più grandiosi fatti e singola
ri avvenimenti, che nel giro di non molti anni si 80 no nel nostro secolorapidamente
succeduti.Gli ogget ți di politica, e le grandi notizie del giorno formaro no
una parte essenziale del suo erudito carteggio. Egli ben conosceva le corti, e i
ministri di gabinetto, e di stato, e in particolar modo i principi, ei loro
rispetativi interessi.E certo benchè egli nulla ambisse, pure aveva voce in
corte,e ilPapa volentieri l'udiva, eglifidavacosed'importanzaassai.Ma
poichèquel grande Pontefice ebbe a cedere a fato immaturo, la fortuna si volse
contro l'Amaduzzi, il quale dovette sentirne i colpi più avversi eduri a
sostenere.Alcuni glidavano tacciadimalfilosofo, altri altrimenti il' mordevano.Ilmondo
parteggiava avarie fazioni,e tutte erano contro l'Amaduzzi, perchè egli non
istudiava ad alcuna, anzi combattevale tutte per seguire la verità, Non
mancavano forse le gare degl'invidi, e di quegli che volevano fargli scontare a
caro prezzo labenevos lenza che aveva goduta di Papa Ganganelli. Nel 1790. usci
un libello famoso contro di lui senza data di luo. go, Aveva per titolo Lettera
di un viaggiatore istruito, ad un amico di Rama risguardante principalmente
la ! 10 dottrina dell abbate Cristoforo Amaduzzi. Era quel
libro una catena di calunnie e d'infamie; non più che sedicipaginesistendeva,ma
insedicipagine chiude vaquanto puòlarabbias temperarein moltivolumi.Ven devasi
inRoma,ma senza luogo enome di stampato re. L'autore non è a richiedere, che si
stette e starà sempreocculto: elomerita. L'Amaduzzi,comecchèsu periore fosse
alle male arti dell'invidia e della calun nia, pure tenne dell'onor suo
rispondere e scolparsi; e dettò uno scritto intitolato Rimostranza al Trono
Pontificio,emanifestoalPubblico= Equestofino dal 1790. era in punto per le
stampe. M a consigliato dagliamici a presentarne prima il Papa, alloraPio VI,
anzichèmandarlo allaluce, eglicondiscese. L'ebbe (1)
infattoilPontefice,lolesse,conobbe lacalunnia,eren dendolo con molta benignità
all'autore gli fe'travede re, che egli avrebbe punito i calunniatori col
trionfo delcalunniato.Ma lavitanonbastòall'Amaduzzi.Sa rebbe assai desiderevole
che questa Rimostranza fosse data a luce, perocchè oltre allo scoprire fino al
fondo l' animo dell'autore, mostra la condizione dei suoi tempi, e di molte
cose incerte rende pienissima fede. Ivi egli parla di sè con libertà di
filosofo, e fa il ca rattere suo qual era in fatto, ed i suoi stessi difetti
non nasconde. Si confessa amatore della filosofia, non di quella che in barbaro
gerga di voci più barbare non dà che frasche, e sofismi, m a di quella
nerboruta e vigorosa che prese spirito dal Galilei, da Bacone, da Cartesio, da
Newton e dagli altri di tale schiera, i quali, abbattute le vecchie
superstizioni e le matte fre nesie, rimisero al suo seggio la ragione,e in
quello stesso che la innalzavano la mostrarono più riverente, ed ossequiosa alla
Religione.E apertamente dichiara solo quella filosofia piacergli, che è guida e
conforto degli uomini, maestra di costumi, e di civiltà, e che nasce dalla
carità cristiana, che è la sola per cui la società ha fermezza, e innanzi cui
scompare ogni fel lonia ed ogni pubblica sventura.E non disconfessa il
suosentirsidisoverchiotrasportatoadireilveronu do e calzante,e l'essere
sdegnoso de tristi, e insofa (1) Vedi rimostravza al Trono Pontifieio] ferente
di oltraggi.Insomma io non credo che altri possa ritrarre lụimeglio, di quello
che egli stesso in quella scrittura si ritrasse. L'abate Francesco Gusta nella
sua Vita di:Co stantino, oltre il pụngere sovente ! Amaduzzi, e tal volta
inveire contriesso, lo tratteggia come soverchia
menteamicodinovità,elomandadelparicolPe reira, col Tamburini, col Natali, e col
Zola .Ma cheil Gusta parlasse per invidia, e per bassissima vendetta, sitravede
in leggendo quella vita; e l'Amaduzzi ben fe? a punirlo collo sprezzo
dell'opera, e dell'autore. Egli il 16. maggio del 1791. ottenne di essere giu
bilato dalla cattedra di lingua greca nel collegioUre bano, e il decreto n'è
molto onorevole. Nel dicem bre dello stesso anno cadde malato, e giudicarono
che egli avesse pericolosa ostruzione alla milza, ed al fe gato.Siposeinletto,e
arigorosacura;ma ilmale anzi che cessare rincrudì, e lo mise fuori d'ogni spe
ranza di riaversi. Anima nobilissima come era,accettò l'annunzio del pericolo
suo con serenità di volto, e tranquillità, e adoperò in quello stremo da quel
filo sofo cristiano, che per tutta la vita aveva mostrato. Sia qui debita lode
ai cardinali Antonelli, Borgia, G a rampi, che luisoccorsero generosamente in
ogni gui sa; perocchè egli non aveva modo da sè di sostenere lunghe spese di
malattia; non avendo mai voluto far denaro,anche potendolo.Ne glimancarono
buoni ami ci in quell'estremità,che ben n'aveva di tali; sebbe ne egli fuor del
mondo col cuore solo fidava in Dio, e però presi i conforti della chiesa,
dispose delle poche cose sue,etranquillamentepassòil21.gennaro del1792. in età
di soli 51. anni. Morendo lego alla patria la sua ricca biblioteca che era il
meglio dell'eredità sua; legato preziosissimo specialmente peisuoi scritti,e
pel carteggio. Fu pore țato al sepolcro in abito clericale suo principale o r n
a mento edecoro,come,egli primadimoriredichiarò; poichè egli aveya ricevuti,
come siè detto, gli ordini minori. Tutti i giornali d'Italia piansero laperdita
di tantuomo.L'abbateOssuna ex-gesuitamaestrodirettori: pa in Savignano ne
inserì un bell'elogio nella gazzetta di Cesena;unaltronemiseilP.Pujatinegliannali
eça clesiastici di Firenze.Anche il Mazzuchelli nella sua grand'opera
degliScrittoriitalianinefeceun bell'elogio: ma il più ricco di tuttifu letto
nella reale accademia delle scienze e belle lettere di Mantova il 29. novembre
del 1793. dall'abate don Isidoro Bianchi,con appresso il catalogo delle opere
dell'illustretrapassato; catalogo â cui rimetto i miei lettori, perchè penso
che di m e glio non si possa fare. Basti sapere che ilnumero delle opere
dell'Amaduzzi tra le edite, e quelle che inedite rimangono nella biblioteca
savignanese vanno oltre à cento venti, é ve ne ha alcuni di gran mole. Non
possoperò quipassarmidall'accennarneuna per oni 1 Amaduzzi si ebbe grandi
amarezze, e fu = Lege'snovellaeV.anecdotaeImperatorum Theodosiiju
nioris,etValentiniani111.etc.= Intornolaqualeil dotto Bianchi dice così = Ai
colti bibliografi non è ignoto, che in tempo che l'abate Amaduzzi era in R o ma
occupato per la pubblicazione di quest'opera in signe,inRavennapure sitravagliava
dal dott. Anto nio Žirardini per lo stesso oggetto. Or la morte dello
stampatore,cheincominciò l'edizione romana,é ledue malattie di quello che la
prosegui (vedi Nov. Lett. del Lami del 1766. a col. 822. ) ritardò la medesima
più oltre del tempo assegnato nel manifesto, che usci ai 21. di giugno del
1766; é nel quale si promettevä il libro nel prossimo agosto, quando per le
suddette c a gioni realmente non uscì che nel 1767. L'edizione in tanto del
Zirardini si rese pubblica nello stesso mese di giugno dell'anno sumentovato, e
dal Lami ne fu subitoriportato un lungoestratto,chesiè creduto di mano dello
stesso Zirardini, o di qualche altro suo intimo amico dimorante in Roma
(Gaetano Marini): Un altro breve annuncio della stessa edizione faentina
fadatodaigiornalistid'Yverdon (tom.I.1768)av vilendola forse un po'troppo in
confronto della roma na.Questoannunziounpo'vibratomisedimoltomal amore il
Zirardini, e stuzzicò un letterato romano (it prelodato Marini)molto amicodel
medesimo ad inse rire nel tomo 3. del giornale di Pisa un lungo estrat to
dell'edizione delle cinque Novelle fatte in Faeriza dal dott.Zirardini,
attaccando l'abbate Amaduzzi d'im postore e di plagiario, come se egli nella
sua edizione] La cosa era in sè semplicissima. Due dottiquali
eranoilZirardini,el'Amaduzziavevano estratta00 pia delle cinqueNovelle quasi
inpari tempo;amendue vi ponevano studio intorno per illustrarle;l' uno in
sciente l'altro le pubblicava. Or che male è qui? lo avviso che se i
giornalisti d'Yverdon avessero con più lode trattata l'edizione faentina non si
sarebbe mossa querela alcuna nè dallo Zirardini, nè da alcun altro. M a il
Zirardini punto dalle parole dei giornalisti d ' Y verdon, e rinfocato dal
Marini, che vedeva forse di mal'occhiosalitoinfama1'Amaduzzi,chealloraa lui non
era amico più che d'apparenza (cosa che si pro va benissimo per molti fatti,ma
piùper le lettere del Marini al dottissimo pesarese Olivieri le quali nella p u
b blica biblioteca di Pesaro si conservano )cominciò a fare lagnanze, ed
avventarsi contro l'Amaduzzi.Sebbene sa rebbe piùveroildire, cheilZirardini,chemodestoepaci
fico era di natura, si lasciò reggere in tutto dal Marini stesso; il quale si
fe' innanzi al pubblico co'suoi scritti a c cusatore dell'Amaduzzi,più presto
che buon difenso redelZirardini.Egliè fuordubbiochemolto inge nuamente
l'Amaduzzi, nel S, X. della prefazione dopo aver mostrata nel suo vero essere
la cosa, diè le più belle lodi che mai al Zirardini, sino a confessare che ove
avessepotuto,sisarebbeegliastenuto dalpubblica re l'opera sua, dopo avere
conosciuta quella dell'illu stre ravignano. Eccone le parole = Neque hic nunc
silentiopraetereundum dum opus hoc nostrum praelo traderetur, has ipsas
Novellas ex eodem Othoboniano Codice depromptas
faventinisArchiitypisprodiisselu culentissimo commentario illustratas Antonii
Zirar dini ravennatis viri consultissimi, qui eundem codi cem insciis nobis ab
ipso Ruggerio jampridem obti, nuerat, qui sane longe effusiori doctiorum adnota
tionum segete,ulteriorique rerum doctissimarum ap 999 » 14 romana si
fosse approfittato dei lumi, e della erudizio ne sparsa nell'edizione faentina.
L'abbate Amaduzzi però,cheebbe sempre a cuoreilproprio onore,esem pre si fece
un dovere di vendicare igravitorti, che la malignità congiunta all'invidia
avesse saputo recare alladi lui onestà,e buona fama,non tardòapubblica re sotto
il finto n o m e di Evisio Erotilo la sua apología. 92 99 jypáratu rem
perfecit;quod sane sinobis, antequam hanc spartam curandam susciperemus,
innotuisset, w cîtrapublicaefidei,quajamobstringebamurinjuriam;
eademfortedimittianobispoterat.= (Ginanni t. 2. Memorie storico-critiche degli
scrittori ravennati ): Dopo questo io non posso credere per conto alcuno a ciò
che francamente il Marini afferma nella sua im.
mortaleoperadeipapiridiplomatici.- L'Amaduzzi volle far credere di non aver
lettö il libro del giures consulto ravennate,chepur aveva tutto coraggiosamento
te espilato و Parole che bene consuonano alle acers bissime che scriveva
all'Olivieri, dalle quali si pare, che per buon viso che mostrasse all'Amaduzzi
pure vi avesse mal'animo contro.Tanto possono le passioni nel cuore degliuomini
piùsapienti,etale èlasciagura perpetua delle lettere italiane! L'Amaduzzi fu
uomo pio, caritatevole,generoso; bocca di verità.Cogli amici affabile,con tutti
umano; socievole. Consultato dai primi dotti volentieri lorð sinceramente si
prestò. Sappiamo infatto che fu inters pellato dal famoso Pasquale Amati per la
sua col lezione dei Poeti latini,come si legge nel tomo I. pax gina 6. della
prefazione; dal dottorFantini per le an tichità di Sarsina, che ristampò in
Faenza nel 1969: in cui si trovano varie aggiunte dell'Amaduzzi; dal Ferri; dal
Bianconi,dalcardinalRiminaldi,aiqualidièmoltis sima mano.Faceva
volentiericopiaaltruidelsuo vasto sapere, e spesso scrisse per altri donando la
fatica e la gloria che ne verrebbe. Grato oltre ogni credere tramandò ai
posteri le lodi di quanti a lui premoriro no amici, e benefattori. Se qualcuno
a lui caro o sti mato veniva offeso nell'onor letterario o in altro, e gli si
levava a difesa, e acerrimamente ripugnava le accuse. Intraprese viaggi per
diversi luoghi d'Italia onde meglio erudirsi, visitando biblioteche e codici, e
molti ne trasse dalle tenebre.Usava ogni di notare in un libro le cose vedute,
o fatte. Amò lapoesía, e giovine dettòversi italiani, iquali,comecchèritraggano
assai del secolo in che visse, sono degni di essere letti. Si piacque oltremodo
delle artibelle, e ne rendono fede i'elogioche egliscrisse di RaffaeleMengs, e
l'amici xia che lo lego al Winckelman, al Bianconi, al Bottari; 16 'e ai
primi artisti di Roma. Non 'cercò, anzi rifiutò ca riche offertegli. Dalle
lettere a lui dirette da varii m i nistri sirileva cheegli fuinvitato dalla
real corte di Napoli allacarica di CustodedellaBiblioteca regiae
delmuseofarnesiano,'edi coadjutoreperpetuo della reáleaccadèmia il 2. settembre
del 1780. con onora rio di 300 a 400 ducati, ed altre buone condizioni. Ed
essendosene scusato 'fu di nuovo invitato con più vive istanzel' con più
largheof ferte.Nè unsecondorifiutobastòacessarel'inchieste: poichè il 24.
luglio del 1784. gli furono offerti mille d u cati,equelch'egli
volesse,solochesirecasseadac cettare l'invito.Altrecariche purericusò,perchèa
tutto anteponeva lo starsi fra 'suoi libri in R o m a. La patria accettando
ilgeneroso legato fattoglidi oltre 4000 volumi gli ordinò solenniesequie nella
chie sa maggiore a spese pubbliche, a cui intervennero il magistrato, e i
principali cittadini di ogni ordine. Fu posta sullaporta della chiesa una
'onorevole iscrizione dettatadall'eruditissimoPietroBorghesi,laquale andò
pure'alle'stampe.Appresso nell'atrio dellecasedel municipiofuincisala seguente iscrizione
scritta dal chiarissimo suoconcittadinocavaliereBartolomeoBor ghesi figlio di
Pietro, la quale dice così. Jano · Christophoro · Mich · F · Amadutio Philologo:
Eruditissimo Ordo • Sabinianensium Civi. Bene ·Mer. ·Altro onore vole titolo puresarà
in breveposto entrolabiblioteca, ovecongrandesennoe gloriadei trapassati, a
stimolo dei viventi 'concittadinisono in marmo descritti gli
elogidiquantireseroillustre la patria dell'Annaduzzi, che fu pur quella del
Barbaro, dei Borghesi, degli Amati, è del Perticari. N.B.Ilritrattoèstatorica-
miglia Amaduzziin Savignano. mpato da quello esistente nella fa MONTANARI PROF.
G. I.DI BAGNACAVALLO = SCRIS. EA est temporis ed acitas, ut cum ftapaul- latim
diflolvat, nullaque res fit vel pre¬ tio,velfoliditate,velquocumquealio nomine
praeftans, quae eius imperium detreftare (e poffc confidat. Si Roma¬ norummonumentaadaeternitatemcon-
ftru&a perpendamus, quae nunc vel diruta, vel male confi- ftentia oculis
nofiris obverfiantur, intimo quodam doloie percellimur, & aegre licet,
indubie tamen fluxam rerum hu¬ manarum conditionem agnofeimus. Ceterum is eft
de animi noftriimmortalitatenobisindituslenius,atqueitaaltede¬ fixus, ut veluti
tacite ab eo profe&um intelligamus tum de-
fiderium,quotangimur,veterummonumentorumanxieper¬ quirendorum, tum lolertiam,
quam in lifdem vel reipfia con¬ fervandis,velinlongiusduraturamateriaexcipiendisimpen¬
dimus. Haec peragentes videmur quodammodo inanimatis re¬ busnoftramtribuere immortalitatem,qui&eafdempofteritati
commendemus, & earumdem praefidiovelutinosipfos ad transacftas remotiffimas
aetates, ad quas pertinent, transferamus, atque I II atque ita
exiguam nimis vitae noltrae brevitatem vel produ¬ cendo, vel compenfando nobis
libentiffime blandiamur. Quae ergo veterum artes, & profeffiones
condiderunt, Signa, Protomas, Hermas, Anaglypha, Sarcophagos, Titulos, cetera-
quemonumentacolligeretumprimumfategitFrancifcusPe- trarcha, quem Tuae aetatis
perpauci, plures fequiorum tem¬ porumimitati, tumMulca,& Villasiifdemlucupletantesa
litu, Iquallore, quin& interituprovidilTime vindicarunt.Sed in irritum
cefolTet haec ipfa follicitudo, nili typorum etiam accefliffet luccenturiata
fedulitas. Quot enim diffracta Mufoa, quot iam Villae labefactatae, & quot
vel avulfa, vel rurfus obruta, atque etiam foede difrupta, quae ibidem
exfiftebant, monumentavelutiaboculisnollrisaufugerunt 1Quarelaetandum nobis
elt, eo pervenille humanae mentis acumen,
utiplistemporum,&rerumvicilTitudinibusoblittere,&vim inferre non
dubitaverit, & curas curis addendo nova excogita¬ veritpraelidia, quibus diuturniori
huiufmodi monumentorum confervationi prolpiceret. Hmc ergo elf, ut quae in unum
collecta monumenta perierunt, perenniter vivant in eruditorum Voluminibus vel
typis aeneis contignata, vel doctis illultrata adnotationibus, quibus nunc
autographorum deliderium nobis reparari quodammodo videatur. Quare non aliam ob
cauffam, neque etiam abfimili ratione quae olim laudabili providentia Cyriaci,
&: Afdrubalis ex Matthaeia gente Procerum, & lovii Marchionum tum in
Hortis Caelimontanis, tum in Aedibus ad Circum Flaminium coafta, & collocata
fuerunt omnis generis monumenta, nunc primum aereis formis infoulpta, nollris
il¬ ludi ationibus ditata, in unum collecta, rite dilpolita, ac tribus
comprehenfa Voluminibus preli beneficio in publicam lucem emittuntur. Licetenim,
utfuolocomonuimus, &deinceps etiam monebimus, multa eorum a prioribus hilce
domiciliis pro- III profectain celeberrimumillud MufarumSacrarium,Mufeum
nempe Clementinum Vaticanum, conceffierint aevo quam lon- giffimo fruitura,
tamen non omnia illuc fe receperunt, multa quinimmoproculiamabiere, acmultaetiamindiesfatifcunt.
Videt, credo, porro unufquifque, ereomninofuifle, utquae
olimfuerittantamonumentorumcongeries, unooculiiftu perluftretur, tumdomi,& foris,tumpraefenti,acfuturo
tempore innotefcat. Deliderandum quidem erat, Hortos, & Aedes Matthaeiorum
tantis confpicuas monumentis litterato¬ rum obtutibus exhiberi, ne tot aliis,
numquam cum iis comparandis, quae hoc beneficium nactaefuerant, veluti quodam¬
modo inferiores & haberentur, & effient. II. Poftquamlitterarum, &veterumfcriptorum,rnonu-
mentorumque ftudium adolevit, tum artes ipfae, quibus ab honeftate nomen efi,
barbariem a Gothis, Langobardis, ce- terifque feptentrionalibus populis
inaufpicato invectam Italia exfulare iulfierunt, homines conformare fe
urbanitati, cultui, & magnificentiae Romanorum veluti quadam concertatione
facta coeperunt. Inter cetera Romanae magnificentiae opera, quibus luxus
impenfius excreverat, &.ipfe Perfarum faftus, & opulentia obfcurata
omnium iudicio cenfebatur, Villae pro¬ fecto fuerunt, quibus nihil pulchrius,
nihil amoenius, nihil
praeftantius&fpatiiamplitudine,&ftruHuraeexcellentia, & aedificii
decore, &: operum copia haberi poterat. Exftant nunc etiam Tibure
Hadrianeae Villae veltigia, quae fupra re¬ liquas plane excellebat, & ex
qua tam infignia & Graecorum, & Aegyptiorum monumenta prodierunt, ut
iis Mufeum Ca¬ pitolinumtamquamcimeliisomninolingularibus,omnium- que
praefiantiffimis inclaruerit (0. Scatebat porro Tiburtinus ager (i) Pyrrhi
Ligorii Defcriptio Villae Tiburtinae Hadriani Caefaris. Romae 1551. in fol. eum
Ji- guris • Vide lofephum Roccum Vulpium Vet.Lat. Tom. X. y Sc omnes Tiburtinos
Hifloricos, Ioh. Franc. Martium, & Antoninum Regium, tum_, Idyllium Fabii
Crucii, inferius citandum - Omnium IV ager multis aliis privatorum
civium fecedibus longe clegan- tiffimis, inter quos omnium deliciarum genere
conferta emi¬ nebat Maecenatis Villa, aderantque aliae, quae ad Manlium
Vopifcum(0,MunatiumPlancum,SalludiumCrifpum,C. Caffium, Quintilium Varum,
Marcum Lepidum, & Cyn¬ thiam Propertii amicam, aliofque pertinebant.
Praetereo Ci¬ ceronis Tufculanum (2), quod fuerat antea Syllae, tum For¬ mianum,
Cumanum, Puteolanum, & quod omnibus celebrius, porticu, & nemore
infigne, atque Academicis quaedionibus facrum, Pompeianum. Celebre &
Horatii diverforium in Sa¬ binis (?), Catulli extra Portam Valeriam ad ripam
Anienis (4), Senecae in via Nomentana 5), Martialis ibidem C6), & longo
laniculi ingo (V, aliorumque. III.Horumigiturimitatiexempla(aeculiXVI.magnates
opulentia, luxu, & litteris praedantes fuburbana condere coe¬ perunt
amoenidima, quorum primum illud cd, quod in oppido Bagnaiae anno coidxi.
inchoatum tandem perfecit Ioh. Franci- fcus Gambara Card., & Viterbiends
Eccleliae Epifcopus, cuius fata & Francifcus Marianius (s), &
Felicianus Buldus (9) late alienigenarumfrequentiacelebraturhaecVilla,nec
caruic praefentia IOSHPFII II. Imp. Pii Felicis Aug. 3 cuius rei memoria
marmore infculpta haec Imp. Caef. lofepho. II Petro. Leopoldo. M. Etruriae.
Duci Archiducibus. Andriae. Germanis. Fratribus PP. FF. AA Hadrianae. Villae.
vedigia In. hoc. fundo, ac. vicinia, confpicua Huius. Villae. Dominus,
demondravit Iofephus. Eqiles. de. Fide Aulae. Caefareae. Confiliarius XIII.
Kal. Apr. A. MDCCLXIX pro- lianaeVillaeexidimat;tumGregoriumPlacenti- nium de
Tafculano Ciceronis 3 nunc Crypta Fer- rata; Romae 1758. (3) Vide Differtazione
di Domenico de Sanctis tra oli Arcadi Falcifco Carijliofopra la Villa di Orazio
Flacco; Roma pel Salomoni 1761., 8c De- cuoverte de la Maifon de Campagne
d'Horaee par PAbbe Bertrand C.ap Martin-Chaupy; d Rome 1769. vol. III. (4)
Hendecafyll. XLII. (5) Epiff 104., & 110. (6) Lib. I. Epig. 106. (7) Lib.
IV. Fpig. 64. (8) In Parergo de Fpifcop. Viterbien. pojl Dif- fertationem de
Etruria Metropoli; Romae 1728. (9) Ifloria della Cittd di Viterbo; in fine del-
(2) Vid. Ioh.LucamZuzzcrium(D'unaanti- laCronologiade'Vefcovi;Roma1742.Condito¬
ca Villa [coperta fui dojfo dei Tufalo; Venezia rum nomina hifce Verfibus Petri
Magni ibidem (0 Vid. Statium Sifa. Lib. I. 3. 17 47- 9 qui Ruifincllac delicium
Jocum fuiffe Tui- exaratis innuuntur: Nec V profequuntur. Tum
prodierunt, ac longe lateque inclaruerunt Horti Tiburtini, quos poft Card.
Bartholomaeum Quevam, qui aluliolll. obtinuerat, Card. Hippolytus Eflenfis
exftruxit, permagnifico praetorio auxit, & antiquis ftatuis, picturis
regiaque prorfus fupelleftile locupletavit. Hi dein in Card. Aloyfium Eflenfem
translati funt, quo vita funbto, ex, Hip¬ polytite ftamentaria voluntate, &
iudicialifententia, eorumdem usura XII. annorum spatio cedit Sacri Collegii
Decano, donec purpura donato Alexandro Eftenfi, eorumdem ius in ipfa
familia'inftauratum cft, novafque a legitimis dominis & additiones, &
reparationes poftea habuerunt(0. Tiburtinum hoc delicium carminibus celebravit M.
Ant. Muretus, ac praedicarunt infuper Libertus Folietius (2), Ioh. Francifcus
Martius (s), Antoninus Regius(4), Fabius Crucius W, Ferdinandus Ughellius 05),
Francifcus Scottius»), Rodulphinus Ve- Nec placuifle tibi laus ultima3 magne
Riari, A quo primus honos 3 nobilitafque loci. Quod fi longa tuae ncvifTct
flamina vitae Invida Parca, nihil quod quereremur erat. Saltem magnanimi virtus
praeclara Rodulphi Serius ad fuperos hinc abiifTet heros. Nunc j o Dive loci
praefes, tibi Gambara poft hos Contigit haud opibus } fed pietate pari.
(0TeflesfuntfequentesInfcriptiones’: I. Regios. Eftenfium. Principum Hortos.
iinmenfo. Card. Hippolyti Sumptu. praeruptae. rupis Afperrimis. cautibus In.
mollilTimi. clivi. penfiles Ambulationes. converfis Ac. terebrati. per. montis.
vifcera Duffcis. ex. Anniene. innumeris Fontibus. admirandos. ab. Aloyfio
nutius Magnificentiori. forma. conftru&i Et. venuftati. quam. vides
Reftituti Anno. Salutis. MDCLXXXV (2) Tyburtinum Hippolyti Card. Ferrarien. ad Flavium
Vrfinum Card. ampliff. 3 inter Opera fub- Jiciva Vberti Folieti Genuen. Romae
apud Franc. Zanettum 1S’79- j & In 1'om. I. Part. II. Thefaur. antiq.
bijtor.ltalic.Ioh.Georg.Graevii.Lugd. Batav. 1704. (2) Hiflor. Tibure. Lib. V.
num. 174. Thef.. Graev. Vol. III. pag. 4. (4) Antichitd di Tivoli di Antonino
dei Re; Tom. eod. Thef. Graev. (5) Ville di Tivoli deferitte dall'Arc/prete Fa¬
bio Croce di detta Citta; ldilio divifo in due rac- conti 5 nei quali
fedelmente Ji narratio non meno le Ville, che anticaraente v'ebbero, e
frequenta- rono gl*Imperatori, Re con altri infigniperfonag-
Et.Alexandro.Cardinalibus pi,ecelebrivirtuofi, raalamedefimadellaSere- Magna.
fplendidi. cultus Acceflione. nobilitatos II. Serenifiimi.Francifci. II.
Mutinae. Regii. &c. Ducis Vel. abfentis. munificentia Fontes. ifli.
temporis. iniuria. collabentes nijjima Cafa d*EJle &c. 1» Roma per it
Mancini 1664. in 8. (6) In additionibus ad Alpbonfum Ciacconium de Fontiff.
Rora. 3 S.R.E. Cardd., ad ann. 1539. ubi de Hippolyto Card. Eftenfi. (7) In
Itinerario Italiae Lib. III. pag. 631. nutius(0,IohannesPetroskiusO),IolephusRoccusVulpius
(3), Ioh. Andreas Barottius (4), aliique. Picturam vero aeneis typis Romae
publicavit Corona Pighius. In hos oculos Ilios potiflimum intendit, & horum
exemplo incenius eit Cy- riacusMatthaeius,quodeinluosinCaelimontioexcitaret,
quoslatedeferibemus, poftquamceteros,quideinRomae, vel in eius vicinia conditi
funt, levi calamo attigerimus. IV7. Fere eodem tempore excitari coepit ab
Alexandro Farnefio Card., Paulli III. fatris filio, Caprarolae delicium,
infigni praclertim architectura lacobi Barotii a Vignola, St praeclaris
Thaddaei, Friderici, St Octaviani fratrum Zucca- riorum, Antoniique Tempeftii
picturis celebratiflimum b). Heicetiam laudandinunc veniuntHorti,quiprimumexiuflu
Card.IuliiMedicei, qui fuit poflea Clemens VII. P. M., for¬ mam praebente
Raphaele Sanctio, conftructi funt ad Clivum Cinnae (nunc Montem Marium dicunt
), picturilque Iulii Ro¬ mani, StIoh.Utinenfisornatifunt,actandeminFarnefiam
gentem, quae cultu fplendidiores, St opere ampliores fecit, devenerunt W
Recenlenda infuper eft Villa Philonardia, quam
EnniusPhilonardiusS.R.E.Card.Tiburefibicomparavit, quaeque nunc fquallet, St
rimarum plena undique fatifeit, atque dilabiturb). Quid vero memorem Hortos a
Iulio III. extra Portam Flaminiam dein mire exftruStos, a Faufto Sa¬ (1)
Defcrizione topografica 3 ed iflorica di Ro¬ ma moderna Tom. II. pag. 925. bae-
prarola &c. Opera de' pih celebri Arebitetti 3 di- fegnata da diverfi.
Libro in 8$. fol. 3 c mezzi fol. Imper. Parte III. Tum Deferizione 3 e rela-
zione iflorica dei nobilijftmo real palazzo di Ca-
prarola&c.daLeopoldoSebafliani;Romapergli (2) Trigonometrica Dioecefls,
& Agri Tiburti- tii Topograpbia 3 ‘veteribus 1viis 3 'villis 3 ceterifque
antiquismonumentisexculta&c.RomaetypisGe¬ nercflSalamoni3pag.XIII.
eredideiFerri1741.inS.VideEpigrammaAu¬ ($) Vet. Lat. Tom. X. (4) Memorie
Ifloriche de’ Letterati Ferrareft; opera pofluma. In Ferrara nella Stamperia
Came- rale 1777. Vol. I. pag. 336. CS) Vide Studio d’Arcbitettura civile fopra
va¬ rie Cbiefe, Cappelle di Roma 3 e Palazzo da Ca- relii Urfii Romani de
Caprarolae deferiptione ad Card. Farnefium Lib. III. Epigr. 21. pag. 75-
utriufque editionis Parmen. 1589. 3 & Bonon. 1594* (6) Nunc Villa Madama
vulgo audit \ (7) Vid.‘Iofephum Roccum Vulpium Vet. Lat. Tom. X. Lib. XVIII.
Cap. X. pag. 379-
baeio(*)&FrancifcoCommendonio.C2)carminibuslaudatos, tum a Scottio Cd,
BoifTardio 3 CiacconioW 3Panvinio (6), aliifque fufe defcriptos? Ii namque a
Clemente XIV., & PIO VI. Summis Pontificibus nuper reparati eruditorum o-
mnium oculos in fe converterunt, & aeneis formis expreffi, noftnfque
illuftrationibus audi in publicam lucem ad Archi- tedonicae artis praefertim
adiumentum propediem prodibunt. Laudari vero lure poftulant Horti Medicei in
Colle Hortulo- lum exfiflentes, a Card. Ioh. Puccio Politiano inchoati, &
dein ab altero, eoque eximio Romanae purpurae ornamen¬ to, tum Magno Etruriae
Duce Ferdinando Mediceo multis eruditae vetuftatis praeclaris reliquiis, &
exoticarum lingua¬ rum typographia longe celeberrima magnificentiffime ampli¬
ficati. Commemoratio faltem defiderium reparet Hortorum Carpendum, quos in
Quirinali olim aedificaverat, atque adeo praeclaris ornamentis infigniverat
Rodulphus Pius S. R. E. Card., ut CXXXVI. amplius ftatuae in iis numerarentur, quarumpraeffantioresrecenfetLJlyffesAldrovandiusV)3eas
infuper referens, quas & ipfius Palatium in Campo Martio
fervabat.Hisiungantur&Hortiilli,quioliminSuburra prope Amphitheatrum
Flavium, & Templum Pacis a Card. Lanfranco conditi, Carpenfes dein fadfi
funt. Prodierunt & hoc tempore Horti Farnefiani Tranftiberini (8J, aliique
Palati- nifV,ubinuncvineae,&;vepres.Necreticendifuntmodo ma¬ to
Epigrammatam Lib.I. pag.Sj., fi7.,,33., 138., 144.3 148., i;i., ij6., ij7.,
161, (2) Ex Mf. Cod. Epiflolar, Cornelii Muflii Epifc. Bituntini apud CI.
Praefulem Stephanum Borgiam a Secretis Sac. Congr. de Propaganda Fide. (3)
Itiner. Ital. pag. 483. (4) Topograpbia Vr.bis Romae Tora. I. pag. Jo. &
feqq. (3) In vitis Ptmtif., 'ubi de Iulio III. (fi) ln vita Ia/ii III. poli
vitas Barth. Platinae. Hortis Carpenfibus legendus Boiflardius loc. cit.
pag.46.jScottiusloc.cit.Lib.II.Cap.VII[. pag.476.j Francifcus Swertius Lib. II.
Itiner. Italiae 3 Andreas Victorellius, ae Ferdinandus U- ghellius apud
Ciacconium in Rodulphi Pii Card. vita3&FloravantesMartinelliusRomaexethni¬
ca facra pag. $y. Vide Portae eCtypum inter o- pera Architectonica Iacobi
Barotii a Vignola^ Tab. XXXXV. (8) Vid. Scottium loc. cit. pag. 416., Boif Tardium
(7) D elieStatue antiche, cbepertutta Roma, loc.cit.pag.11.,&UrfiumLib.I.epigr.12.pag.52.
fiveggono 3 pag. 29J. Vid. fuperius pag. 201. De (9) Vid. Scottium pag.
444. VIII ma*nificentiffitni Horti Quirinales Card. Guidonis
Bentivoh Ferrarienfis, quibus nulli Romae erant arboribus fplendidiores, ut
& lilvae lpeciem praeberent, & labyrinthi b).Succedant dein HortiCaelii,qui,defcribenteloh.BaptiftaFonteio-,
ad dexteram laniculum habent, ad laevam Vaticanos montes, ante fe Tiberim,
SancTi Spiritus Fanum, & Xenodo¬ chium, pojlfe Prata Neroniana, fornaces
lateribus exco¬ quendis infimaas, edito in colle,fecundum aedes Cacfias re-
fertiffimas ipfis antiquitatibus. Horum Hortorum Inlcripuones multas refert
ipfe Fonteius, lulius Iacobonius, cetenque, ac nonnulla eorumdem vetera
monumenta iamdiu inde avufa ad augendam Capitolii maieftatem praecipue
emigrarunt b. NonnullisantiquitatisexuviisditatiquoqueerantHortiAven¬ tini
Maximorum H). Nec fua careat laude Blofianae Villae amoenitas, & Hortorum
Coloccianorum apud veteres Sallu ftianosO123) tumobveterummonumentorumcopiam,tumob
litteratorum conventum celebritas. Infuper memoretui Augu-
ftiniChifiiSuburbanumTranftiberinum,inFarnefiamgentem translatum,
magniRaphaelis picturis, multifque antiquitatibus IpedlatiffimumV; 5 Marcelli
Ccrvinii Card., & dein Pontificis Max. Villula elegantiffimaV), ac Petri
Melinii altera V), in qua Poe- (1) Vid. Scottium pag. 479.} &
BoifTardiurrL. pag. 47. (2) DeprifeaGaeftorumgenteLib.Il.Cap.XIII. pag. 154.
Vid. Urfium Epigr. 19. Lib. III. pag. 72., ubi de fimulacro Veftae in Hortos
O&avii Caefii translato. (3) In Capitolio: Clemens.XI.P.M Romae. de. Dacia.
Triumphantis Captivorumq. Numidarum. Regum. Statuas Ex. Hortis. Caefiis Addito.
Aegyptiorum. Signorum. ornatu Porticuque. a. fundamentis. excitata Ad. augendam.
Capitolii. maieftatem Tranftulit Anno. Salut. M. D. CC. XX "4) Vid. lulium
Iacobonium appendice ad Fon- umdeprifeaGaeftorumgenteCap.XIX.pag.229. (5) Vid.
Fauftum Sabaeium Lib. 111. Epigram., 525., 524., & 5*5- edic- Romae isj6-
(6) Vid. Virum Cl. loh. Francilc. Lancellot-,m in vita Angeli Coloccii
praemilta operi, cui ulus:PoefieItaliane,eLatinediMtuifg.'i»'
IoColocci&c.hfi.772-PUires''"rcriP‘ionesCo- rcianae migrarunt in
Palatium Caid. Carpine!: Le Smetio in Praef. Infer. (7) Suburbanum Aitgitfini
Chifi per Blofum illadium. Romae per lacobum Mazocbium Re- jn. Academiae
Bibliopolam 1J12. (8) Vid. Sabaeium loc. cit. pag. 568. (9) Vid. Benedi&i
Lampridii Cremon. Odem in eliciis Poetar. halor. Tom. I. pag. 1311«
IX Poetas de more familiae coena excipere ipfe folebat. Accedat Villa
Lantia in laniculenfi calle fita, quam Iulii Romani architeftura, & piHurae
celebrem praefertim fecerunt. Acci¬ pe nunc & veteres Hortos Vaticanos (0,
quibus Hortus Bo- tanicus quinetiam Nicolai V. iufiu olim conditus adnecleba-
tur(2),quofqueamoenioresfecithoctemporePiusIV.,ex- flxufto 'ibidem delicio fane
elegantiffimo, ufus opere Pyrrhi Ligorii, qui formam dedit, & perficiendam
curavit. Huc e- tiam revocanda Villa ampliffima, quam ad Tufculanum aedi¬
ficavit Card. Marcus Siticus Altempfius Pii IV. fbroris filius,
quaeMondragonisdiflaeft,quaequedeinfaftaeitCard.
ScipionisBurghefii,aquomultaetiamhabuitincrementa. Sed iam properemus ad
celebres Hortos Viminales, five Ex- quilinos, quos Sixtus V. condidit,
infignibufque ornavit ve¬
terummonumentis,quiproinde&Perettii,&Montaltini dicti funt, quos
Aurelius Urfius Romanus (d praefertim car¬ minibus celebravit, quofque dein
fuos fecit Ioh. Francifcus Nigronius Genuenfis S. R. E. Cardinalis O. Tum his
iungan- turproximitate,&eiufdemPontificisbeneficentia,&aufpi- ciis
affines Horti Viminales Martii Frangipanii0), qui nunc
adStrotiamgentempertinent; atqueitafinisim ponaturprae¬ cipuis, quae tulit
ruralia delicia faeculum XVI. IV.Necminoricelebritate,magnificentia,acveterum
monumentorum congerie praeftiterunt huiufmodi Suburbana, quae (i) Belvedere
vulgo audiunt. Vid. Delie. Poetar, halor. Iani Gruteri Tom. i. pag. 638.
(2)Vid.HortiRomanibrevemHiJloriamGeorgu. Bonellii CI. Medicinae Profefloris in
Archigymna- fio Romanae Sapientiae ad Tom. I. Horti Botani¬ ci Romani pag. 1.
(;) Carminum tib.II. pag.:8. Peretthm, fm Sixti V. Pontif. M. Horti Exquilim,
& Lib.IU- Epigr. 24. pag. 73, de Perettina Sixti V. P. M VUlq carmine
deferipta, mittit nempe verfus fu- perius indicatos. (4) In inuro Hortor, prope
Bafilicam Tiberianam: Sub. praefidio. Deiparae
I.F.tit.S.M.in.Ara.Caeli.Card.Nigronus Se. fuos. fuaque. conflituit Die. V.
Aug. ann. Domini. MDCCVII (5) In fronte Aedium: Sixto. V. Pont. Max Ob. collata
In c‘. fe. beneficia Hortofque. Viminales Au Flos Martius. Frangipanius Grati.
animi. ergo b X quae dein faeculo XVII. exftru&a funt. Tufculum
quidem amoe¬ nitate loci multos ad fe rapuit, & ad deliciarum feceffus ibi
dem aedificandos invitavit. Talis eft, quem Petrus Aldobran- dinius Clementis
VIII. fratris filius regiis prorfus impenfis, &
apparatibusexfiruxit0),& cuiabipfograto prospectu nomen inditum est. Eidem
etiam accepti referendi funt, qui in Quirinali colle eius Aedibus iunguntur,
& veterum nuptiarum pi¬ cturis, ex Titi thermis addu&is, Horti
potiftimum celebrantur. Romae in Ianiculi vertice prope Portam Aureliam
delicium fibi comparavit InnocentiusMalvafiaV)AnnonaePraefectus, eumlocum occupans,
quemibi Horti Martialis olimobtinuerant (r). Quis vero pro dignitate referat
Hortos Pincianos fplendidiftimos, quos condidit Card. Scipio Caffarellius in
Burghefiamgentemadfeitus,quoiquetot,actantiselegan- tioris antiquitatiscimeliis,
tum&picturislocupletavit?Manillius, Montelaticus, Leporeus, Brigentius,
aliique C) latis fuperque eofdem celebrarunt. Nec iple Paullus V. Burghe- (1)
Infcriptlo ibi legitur: Petrus. Aldobrandinius Clem.VIII.Fratris.Filius Redacta.
in. poteflatem. Sanftae. Sedis. Ferraria Reipublicae. Cbriftianae. fallite.
reflituta Villam. hanc Deducta. ex. Algido. aqua. extruxit Vid. Villa
Aldobrandina Ttefculana, & varii il¬ ($) Vid. Epigr. LXIV. Lib. IV: Hinc
Jeptem dominos videre montes, Et totam licet aejlimare Romam.
litisHortorumi&Fontiumprofpettus;infol.E-
pitifingolari.IuRomaperGio.FrancefcoBuagni didit Dominicus Barriere ann. 1647.
Tabulis XV., & dicavit Ludovico XIV. Galliarum Regi. (2) Perfecit anno
1604., ut docet Infcriptio, quae fic fe habet: in S. 3 Aufctorem habet
Dominicum Montelaticum. Defcrizione della Villa di Borgbefe di Lodovico Leporeo
in 4. Vide Apes Urbanas Leonis Allatii pag. 185. Poetica deferiptio Villae
Burghefiae vul¬ go Pineianae Andreae Brigentii. Romae 1716. fius. (4) Villa
Borgbefe fuori di Porta Pineiana di Giacomo Manilii Romano,hiRomaperLodovico
Grignani 1650., in S. Villa Borgbefe fuori di
PortaPincianaconPornamenti3chefioffervano nel di lei palazzo, e con le figttre
delle Statue In. hoc. Colle. lani. Bifrontis. memoria
Et.Martialis.Poetae.Hortis.celebri in8.Deorum ConciliuminPinciisBurgbeftanis
Suburbanum.hunc.fecefium Domo. clauftro. flatuis. picturis Fonte. aviario.
pomario. vinea Inftruftum. ornatum Innocentius. Malvafia. Cam. Apo/t. Clericus
Annonae. Praefe£tus. fibi. amicis Animi. caufa. comparavit Anno.Sal. MDCCIIII
HortisabEr/.Iob.Lanfrancoimaginibus,mono- crornatibus} & ornamentis
exprejfum. Delineavit, & infculpfit Petrus Aquila, fol. IX. imper. Fpi-
Jlola Francifci Blancbinii de nobilijjimo hofpite Co¬ mitis de Traufnitz nomen
profejjo, & in Villa Pinciana Burgbefiorum Principum excepto die 27. Maii
1716. Romae 1716. 'XI fius, qui Quirinale Mutatorium Pontificum
excitavit, Hortos ibidem defiderari, neque eofdem & veterum monumentis-,
&. ceteris honeftae voluptatis deliciis carere voluit. Celebres &
antiquis monumentis referti funt Horti Ludovifiani, quibus
locuscumvetuftisSalluffianisHortiscommunisaliquainparte efi, quique Cardinalem
Ludovicum Ludovifium praecipuum auftorem habent. His neftantur Horti alii
Ludovifia¬ ni iucundifiimi, quos dein fuos fecit gens nobilillima de Co¬
mitibus, in Tufculo politi. Non elegantia folum, fed etiam
Ioh.TomciMarnavitiiBofnenfisEpifcopidefcriptiocelebrem fecit Villam Sacchettiam
Oftienfem. Quis omnes recenfeat Barberiniae gentis delicias & in Vaticano
ubi olim Horti Neronis, & in Ianiculenli, & in Quirinali colle (ri,
& ad Ca- llrum Candulphi etiam magnifice conditas? En Rufina Villa in
veitice Tufculi, ubi Tulculanutn Ciceronis aliqui ftatue- runt, ut &
fuperiusinnuimus, quam Alexander Rufinus Roma¬ nus MelphienfiumEpifcopusexftruxit.Prodeat&nunclani-
culenlis Nobilia Villa, cui nunc Spadiae a gente, quae eam poftea obtinuit,
nomen efi, quamque inter Aureliam Portam, & Hortum publicum Botanicum
Vincendus Nobilius excita¬ vit ri). Sed Ianiculenfem collem nulla magis
confpicuum fecit, quam Pamphilia Villa, cuius pi-oPpedum, delineationem, & praeftantiora
monumenta typisaeneisper Ioh. Bapt. Faldam
inlcuiptisexhibuitIoh.IacobusRubeus,quiopusinfcribens Principi Ioh. Bapt.
Pamphilio perperam Alexandri Algardii C0 Villa Sacchetta OJlienfis
cofmograpbicis ta¬ bulis, & notis illuftrata > rujlicanis legibus, officinarumque
infcriptionibus adnotata &c. Romae apud Ludov. Gngnanum 16jo.i,; 4. vid.
Leonem Allatium in Apib. Vrban. pag. 166. (2) Vid.Tetium in Aedib. Barberin.
p.37o& feqq. G)Haecibidemlegiturlnfcriptio: Villa. Nobilia Viator Hic. ubi.
Aedes., ad. animos archi- Inter. amoena. exhilarandos A. Vincentio. Nobilio.
excitatas Adfpicis Aug. Caesarem. aquae. de. fuo. nomine. vocitatae Ex. Lacu.
Alfiatino. milliario. XIV Conceptae Et.in.rranfliberinam.Regionem.perduftae
Emiffarium.exftruxifle. ne. fis. nefcius Dixi. abi. felix. &. vale An. Sal.
MDCXXXIX b2 XII architecturam fecit, cum ad Ioh. Franc. Grimaldium
Bono- nienfem pertineat (0. Exquilinum vero collem tenet, atque
ornatVillaAlteria,inquaStatuae,Frotomae,Infcriptiones, & sepulcri Nafonum
Picturae nonnullae veteres adfervantur. Iuftinianea Villa, quae extra Portam
Flaminiam & veterum ci- meliis, & recenti cultu conlpicua olim erat,
nunc omnino fquallet, eiufque ornamenta praecipua iam ad alteram iuxta
Lateranum fitam amplificandam proceflerunt (2). Dies me de¬ ficeret, ficeterasminores
Villas, Cofiagutiam, Caipineam, Caeferiniam, Urfiniam ad Arcus Neronianos,
Gilliam via Portuenfi, Cafaliam in Caelimontio, Gymnafiam in Aventino,
Sannefiam via Flaminia, Nariam via Salaria, Cinquiniam
viaNomentana,aliaiquefingillatimpercenfere,acdefcribe- re nunc vellem. V. Quare
memorentur nunc tandem Villae praeftantiores, quas tulit noltra aetas. Praeftat
extra Portam Nomen¬ tanam splendidecx ftructa PatritiaVilla (fi, quamimmortalis
memoriae Pontifex Clemens XIV. honeltum oblectamentum capturus quotidie fere
adire confueverat. 1 ranitiberinas Aedes Corfiniae gentis, olim Riariae, ubi
iam degerat Chrifti- na Succorum Regina, ornatiores facit Viridarium amplum,
amoenumque, quod iifdem coniungitur. Fluic proximum elt aliud eiufdem Corfiniae
gentis Delicium extra Portam Aure¬
liam,exSimonisSalviiarchitecturaconltructum,lofephiPaf-
feriipicturisinfignitum,pomarioauctum,&veterumcolum¬ bariis, quae Petrus
Sanctes Bartholius illuftravit W, & quo¬
(0VillaPamphilia3eiufquePalatiumcumfuh Ioannes profpeUibus } Jlatua^ fontes }
vivaria, theatra > Card areolae 3plantarum3 viarumqueordinescumeiuf¬ dem
ahfoluta delineatione. Romae formis loh. Ia- cobi de Rubeis in fol. Dicitur
haec Villa Re/re- Patritius Anno MDCCXVII fpiro. (4)Vid. Praef.adlibrum,cuititulusde'Sepol-
(2) Anno 1715. (5) In fronte Aedium haec leguntur: cri degli antichi; &
opus alterum eiufdem poftu- mum editum Parifiis a CU. Viris Caylufio9 & Ma-
rietteio 3 quod infcribitur Peintures antiques. rum XIII rum unum
eft libertorum Verginiae gentis, noftra aetate de- te£him('), refertifiimum;
quod licet exafto faeculo ortum, no- ftro tamen maxima ex parte eft
amplificatum. Ad Portairu. Nomentanam, contra Coflagutiam Villam, novam
excitavit ColbertiiaemulusSilviusValentiusGonzagaMantuanus,S. R. E. Cardinalis,
Sc fapientiffimi Pontificis Benedicti XIV. a fecretioribus confiliis, quam
doctis omnibus patere iubebat, Sc antiquis infcriptionibus, exoticis plantis,
pluribufque ex India, & America adveftis cimeliis abunde ditaverat, quae¬
que dein a Card. Prolpero Columna Sciarra comparata Bar- beriniae genti nunc
acceflit. Extra eamdern Portam aliam fibi paravit Villam, nonnullis antiquis
monumentis ornatam, Car¬ dinalis Hieronymus Columna Aerarii Pontificii
Quaeftor, Ca¬ merarius vulgo nuncupatus. SecefTum quoque via Aurelia libi fecit
iucundiflimum Card. Iofephus M. Feronius Florentinus, qui primus docuit hortos
topiario opere ex malis medicis instruere, ne voluptas, Semagnificentia folo
fiimptu,Stfterilitate diftingueretur, quin potius ex ipfo luxu, &
oblectamento non mediocris gigneretur proventus. Deliciis, & elegantia
fpectatif {imam Villam infuper aedificavit extra Portam Salariam non longe ab
Aniene, & ponte Narfetis Flavius Chifius Iunior S.R. E.Cardinalis, quemmoxdirafatiforsperemit.
Verumceteris fupereminet,&iamomniummaximefamacelebraturfplen-
didiffimaVilla,quamextraPortamSalariamaedificavit,St quotidie etiam amplificat
Eminentiffimus S. R. E. Cardinalis Alexander Albanius, qui regio plane cultu,
Sc exquifita ele¬ gantia ipfam perfecit. Aegyptiaca, Graeca, Sc Romana eiu-
ditae antiquitatis monumenta ubique fe produnt, quorumple¬ raque anecdota typis
aeneis expreflit, doctifque illuflravit ex¬ pli¬ co Vid.
EphemerideslitterariasFlorentinasCl. O) Vid. Elogio dei Card. Silvio Vale,ni
Go«- Ioh.Lamiianni1765.n.21.3 &feqq.coi.jai.j zaga
(deiCh.Monfig.ClaudioTodefchi). « &peqq. Roma dalle Jlawpe dei Salomoni
177^*PaS-34* plicationibus Vir Cl., idemquc infeliciflimus
Ioliannes Win- ckelmannius Saxo, olim Nethnicii in Agro Drefdenti Buna- vianae
Bibliothecae, quae in Electoralcm pottea migravit, Cu¬ ltos alter, tum Romanae
Ecclefiae facra profefTus, Romanarum antiquitatum praefe&ura ornatus,
Bibliothecae Vaticanae Scriptor Graecus renunciatus, & Albaniae iplius
Bibliothecae curandae praepofitus (0. Cetera, quae ipfe intafta reliquit, eadem
plane ratione expofuit Vir alter eruditiffimus Stephanus Raffeius C2); utceterospraeteream,quifparfimipfavelexplanantes,
vel laudantes celebratiffimam hanc Villam undique praeftiterunt. Tanto
apparatui refpondent & picturae, quae au- btorem habent Antonium Raphaelem
Mengfium, cuius prae¬ dantia eo pervenit, ut Urbinatenfis virtuti proxime
acceflifie omnium iudicio exiltimetur. Vere quidem dixeris & Gratias, &
Mutas heic habere domicilium, ac veterum Confulum, & Au- guftorum tamquam
redivivam exfurgere maieftatem. Non igitur mirum, ti fplendiditTimum huius
Villae atrium patuerit Ca- moenis Dardani Aluntini, Iotephi II. Caefaris (3),
& Herme- lindae Thalaeae, Mariae Antoniae Walburgae Bavarenfis, Sa- xonicae
Electricis viduae (4) laudes concinentibus, ipfum- que Augultitlimum Principem,
&: Romanorum Imp. electum, Romae degentem, anno cididcclxix. a. d. XIV.,
& V. Kal. Aprilis & invifentem, & admirantem tantarum rerum copiam,
(0Monumentiautlchiineditifpiegati,ei‘tl- lujtrati da G:o. Winckelmann &c.
Torni II. Roma in fol. (2) Ricerche
fopra uti Apolline della Villa.j dellEmoSig.Card.AlejjandroAlbani.IuRoma 1772.
Saggio di ojfervazioni fopra ttn Bafforilisvo della Villa fuddetta (efprimente
il voto di Bere¬ nice ) In Roma 1773. Ojfervaziom fopra un altro
BafforilievodellameiefmaVillaAlbani(elpri- mente Ercole domatore d’Echidna
Scitica ). Dif- fertazione fopra uh fmgolar combattimento efpreffo in
Bajforiliem, efflente nelta Villa fuddetta, c cioe Ja monomachia di Mennone con
Achille). & prae- Filottete addolorato 3 altro Bafforilievo tiella Vil¬ la
JleJfa; in fol. (3) Adunanza tenuta dagli Arcadi per Velezio- ne della Sacra
Reni Maefla di Giufeppe II. Re de’ Romani. In Roma 1764.3 cui adne&itur Ta¬
bula aenea exprimens frontem Aedium } & Atrii ornatiHimi. (4) Adunanza
tenuta dagli Arcadi nella Villa AlbaniadouorediS.A.R.MariaAntoniaWal- burga di
Baviera Elettrice Vedova di Saffonia, fra le Pajlorelle acclamate Ermclinda
Talea.• In Roma 1772.XV
&praeftantiam,ibidemmirecoaddam,&concinnedilpofi- tam confpexerimus (0.
VI. Recenfitis Hortis omnibus, aut faltem celebriori¬
bus,quivelpraeceflerunt,velfubfequutifuntMatthaeianos
noftros,reflatmodo,utdeiplispreflius,&latiusdicamus. Locum nunc
perpendimus. Iidem fiti funt in ea Pomoerii parte, quam Aurelianusintra Urbemcomplexuseft(2),quaeque
in Regione II. Caelimontana comprehendebatur. Man- flones Albanas antiquitus
hunc locum potiflimum tenuifle, cenfueruntBoiflardiusCj), MarlianiusW,&DonatiusD,fed
nullam, quaniterentur, rationemattulerunt. Quareincertus,
fiNardinio0)credimus,adhuceftharumManfionumlocus, neque nos quidquam etiam hac
de re ftatuere aufimus ali¬ bi de iildem loquentes (7). Proxima huic
Caelimontii parti fuifle, immo iplam occupafle aliquando Caftra Peregrinorum ab
Augufto inftituta, alii cenfuerunt, atque inter ceteros Pan- vinius W, &
Vignolius (?), innixi potiflimum veterum infcri-
ptionibus,inquibuseorummentio,quaequevelinareaAedi¬ culae Sanctae Mariae in
Domnica, vel prope Aedem rotundam S. Stephani inventae funt; ut nunc praeteream,
quaeetiamin laudata area erutae fuerunt Benedi&i Aegii Spoletini aetate,
quasipfeedidit(IO),quibufqueadduddus&eademCaftraibi¬ dem agnovit, & eos,
qui ponunt ad Templum SS. IV. Coro¬ (i) Huius rei accipe monumentum ibidem po-
fitum: lofepho. II Pio. Felici. Augufto Quod. has. Aedes. praefentia. fua Maximus.
hofpes. impleverit Alexander. Card. Albanus M. P nato- ($) Lib. III. cap. XII.
(6) Rom. vet. Lib. III. cap. 7. (7) Append. ad Fragmenta 'vejligii 'veteris Ro¬
mae lob. Petri Bellorii Tab. XXVI. pag. 95. (3) Defer. Vrbis Romae } TheJ\
Antiq. Romau. Graevii Tom. III. pag. 286. (9) lnfcript.felecl. pojl Differt, de
Columna Imp. Antonini Pii pag. 183. j e feq. (10) In adnotationibus ad
Apollodori Atbenien. (2) Vid. Fabrettium de aquis 3 & aquaeducti¬
busn.45.ad53. Bibliotb.,fivedeDeor.origine&c.Romaeinae¬ (3) Topograpb. Vrb.
Romae dibus Antonii Bladi 1555. Vid. apud Gruter. pag. (4) Topograpb. Vrb.
Romae Lib. IV. cap. 9. 22. n. 3. & pag. $93. n. 2.3 & 3.
XVI natorum(0, impugnavit.Muripars feptentrionalis, quaHorti
Matthaeianicinguntur, licetadvetusMonafterium,dequo mox dicemus, potiflimum
fpectct, pertinebat olim ad ductum aquae Claudiae, cuius ibidem divortia erant;
pars enim in An- toninianasThermas,utteltanturlitteraeadhucconfpicuae...
NTONIANA, magnis laterum tabulis e muro paullulum prominentibus confectae W;
pars in Palatium Caefarum tendebat, ut produnt veftigia aquaeductus interdum
occurrentia. His adneftitur arcus adhuc exftans ex lapide Tiburtino, fuper c]uo
aqua ad Aventinum procedebat, & in quo legitur inlcri- ptio fatis nota (s):
P. CORNEUVS. P. r.DOLABELlA C. 1VN1VS. C. F. SILANVS. FLAMEN. MARTIALIS COS
LX.S.C FACIVNDVM. CVRAVERVNT. IDEMQVE. PROBAVERVN.T Via, quae ad Clivum Scauri
per Curiam Hoftiliam ante Hor¬
tosnoftrosprocedit,eacenfetur,quaolimperTabernolam,
antiquaeUrbisvicum,attendebaturinCaeliumU).Prope
etiamaderatrotundumTemplumvelFauni(j),velBacchi) velClaudii,aPombaiamVefpafianiImpp.,utaliicenfuerunt,
quodnuncNicolai Circiniani, vulgoPomerancii,&Anto¬ nii Tempeltii picturis,
veterum Martyrum diros cruciatus ex- Pri- (1) Inter ceteros Boijfard.
Topograpb. Vrb. Rora. Tom. I. pag. His nunc accedit Hora¬ tius Orlandius
Ragionamento fopra ut?Ara antica (dedicataaVulcano).Roma1772.art.ult.pag.95.
Suppiem-adJVuv.T*hef.Muratoriipag.So.n.5., (2) Vid: Epiftolam Flaminii Vaccae
latinitate' fed mutilam, aliique. Fornicis typum habes apud donatam a
Montfauconro in Diario Italico Cap. X. pag. 14S. Gudius pag. 81. n. 10. refert
tabulas in¬ ventas c regione vineae S. Sixti, «Sc Thermarum Antoninianarum ad
radicem Montis Aventini ver- fus regionem dictam Pifcinam publicam 3 in quit,
bus haec legebantur: A^VA. CLAVDIA. ANTONIANA. NOVA VIRIAE. ALCESTE. ET. L.
VIR1I. ANTIQ FORTVNATI (5) Refert Gruterius pag. 176. n. 2.3 Panvi- nius de
Civ. Rora. Cap. XXIV. coi. 217. Tom. I. Ioh. Bapt. Piranefium Tom. I. Airtiq.
Koman. Tabula XXV. Fig. I. (4) Nardin. Rora, •veter. Lib. IIL cap. V. 3 Bor-
richius de antiqua Vrbis facie Cap. IV., Rondi- ninius de SS. Ioh. 3 &
Paullo, eoruraq. Bajilica in ‘Drbe Roma vetera monumenta. (5) In inferiptione
hoc loco detefta, quam re¬ fert lulius lacobonius Append. ad Fonteium de
prifeaCaejiorumgenteCap.IV.pag.38.3memo¬ ratur AED1CVLA GENIO AGRESTI dicata.primentibus
(*), ornatum, duplicique columnarum ordine fu-
ftentatumDivoStephanoMartyrifacrumeft(12**).Heicetiam- numconfpicuifuntarcus Neronianiaquae
Claudiae,quibus aquaipfaad Palatinumdeferebatur. Proximaetiamerat Curia
Hoftilia, a Tullo Hoflilio III. Romanorum Rege magnifi¬ ce aedificata, cuius
adhuc haberi reliquias, hafque cenfendas efle ingentes arcus ex Tiburtino
lapide, quibus fuperftat nunc
turriscampanaria,longainfuperfubftrudioneinhortumpor- redos, recentiores
plures, praeeunte Flavio Blondio 0), Con- fenferunt; idque eo magis, quod
ibidem quatuor Pulvinaria marmoiea eruta fuerint, quae dein ad fcalas Aedium
Matthaeiarum in Circo Flaminio translata fuerunt, quaeque nos fuo loco(T
adduximus. Ceterum Pompeius Ugonius d), alii¬ que aedificium aliquod Caefarum
aetate excitatum in hilce ruderibusagnofcendumpotiusexiftimant,quodparumcredi¬
bile videatur pofl tot faeculorum lapfum, poft tot Urbis exci¬ dia, atque poft
tot imperii viciftitudines hactenus antiquiflimi aedificii reliquias, annorum
edacitatis, & direptionum furoris
vidrices,fupereflepotuifie.Montfauconius(5)hacdere_» etiam dubitavit, quod
aegre in animum libi induceret, im¬ manemillamaedificiimolem,caftrorummoremunitam,unicam
fuifle Curiam; quin potius hinc coniedafie nonnullos refert, exftitiflehocloco CaftraPeregrinorum.
Heicquidem fuifle aedes Sandorum fratrum Iqhannis, & Paulli, in quorum
honorem dicata eft proxima Bafilica, ambigi non po- teft; quarum quidem
veftigia haberi putat Philippus Rondi- nini- (1) Ecclefiae militantis triumphi)
five Deo ama- (3) Romae inflaur. Lib. I. hilium Martyrumg/oriofapro Chrijlifidecerta-
(4)Vol.II.horumMonumentor.ClafT.X.Tab. mina ) prout in Ecclefia S. Stephani
Rotundi Romae vifuntur depicia, a Vincentio Billy aeneis Tab. expreffa. Romae
1714. (2) Interioris huius Templi profpe&um habes apud Ioh. Bapt.
Piranefium Tom. I. Antiq. Ro- man. Tab. XXV. Fig. II. ' LXXII. Fig. I., &
II., Tab. LXXIII. Fig. I., & II., & Tab. LXXIV. Fig. I., & II. pag.
93., & feqq. Vid. Ficoronium Vejligia di Roma antica Lib. I.,cap. XIV. pag.
87. (5) Eibro de Stationibus Vrbis. (6) Git. Diar. Ital. Gap. X. pag.
148- XVIII ninius CO in quibufdam arcubus, & ruderibus prope
laudatam Bafilicam exfiftentibus, quorum nemo Scriptorum meminit. Sub Hortis
noftris vetus aliquod etiam fuille aedificium, arguere licet ex marmore reperto
eo loci, quod refert Fabret- tius (2), & in quo habetur fimulacrum Veftae,
& artis pilto- riae inffrumenta, modium, spicae, & mola verfatilis, cum
hac epigraphe: VESTAE. SACRVM C. PVPIVS. FIRMINVS. ET MVDASENA.TROPH IME VII.
Veterum aedificiis. Hortos Matthaeianos ambien¬ tibus, ufque dum recenfitis,
accedant Chriftiana Templa, quae iifdem ita adhaerent, ut ipforum pars effe
videantur. Nihil amplius dicemus de Templo S. Stephani, & de Balilica SS.
lob., & Paulli, quae titulus Pammachii dicitur, cum de
his,utpotepaulloremotioribus,fatisiamactumvideripoffit. Omnium quidem proximior
Matthaeianis Hortis eft Eccleha S.Mariaein Cyriaca, livein Dominica,quae&in
Domni- ca,&in Navicula h)?anaviculamarmorea,caudavotilo¬ cata, quae ante
Templum cernitur, dicta eft. Haec navis m- fignita eft roftro apri caput
referente, quam ex voto Marti, vel alio Numini politam aliqui putant a milite
in Caftris pe¬ regrinis degente. At Ficoronius (4) Cybeli potius dicatamu»
fufpicatur, quod aliud viderit anaglyphum, ab ipfo etiam vul¬ gatum b) 5 in
Mufeum Veronenfe profectum, ubi navis cernitur, in qua vehitur Dea Cybele,
quamque Matrona velata, funis ope, cui adligata eft, extra aquas ad fe trahere
dextera manu nititur, hac fubiecta infcriptione: (0 &e SS. Martyribus
lobanne 3dr Paullo, Seft.I. n.3. pag.94.
eorumqueRafilicainVrbeRoma‘veterarnonumen- (3) VulgoNavicella. MA- ta &c.
Romae 1707. Cap. VII. §. I. pag. 69. (2) Ai Tabulam Iliadis poftColumnam Tra-
ian.pag.339.3SiInfer. Cap.VIII.n.277.Pag-632.
Attulimus&nosTom.III.Clafs.X.Syllog. Infer. (4) Le ve/ligia, e rarita di
Roma antica Lib. I.Cap.XIV.pag.90. (5)Ibid.Cap.XXII. pag.148.
MATRI.DEVM.ET.NAVI.SAI.VIAE SALVIAE. VOTO. SVSCEPTO CLAVDIA.SYNTHYCHE D.D
Nomen Cyriacae, vel Dominicae Ecclefiae inditum videtur acelebri MatronaRomana,quaeibidemaedeshabuerit('),
ut & praedium habuit in Agro Verano. Forte fandae huius Ma¬ tronae imaginem
habes in antiqua pidtura ex ipfius Coemeterio ad S. Laurentii extra muros iam
eruta, quam Cl. Ioh. Botta- rius 00 ex Arringhio adduxit. Ceterum Sanctae
Domnicae no¬ men, & natale Bollandius affert (2) ex Menaeis Graecorum ad d.
VIII. Ianuarii; fed haec Virgo Africana, quae floruit fub TheodofioM.ufque
adLeonem,&Zenonem Augg.,anoftra differt.VualafridiStrabonisG)fententiam, aDomino,cuicultus
in illa aede redditur, nomen repetentem, quia omnibus ae¬
dibusfacriscommunem,acceterasetiamhuicquidemnonabfi-
milesfententiashaudmorabimur. EcclefiahaecaPafchaleI. a fundamentis ampliata,
& renovata fuit, cuius exftat ver¬
miculataabfisaduabusporphyreticiscolumnisfuffentataG);
quibusacceduntXVIII.infuperexGraecomarmore,nigro, & viridi, columnae aliae
nihilo inferiores. Sanctae Balbinae corpus ibidem reconditur, atque heic Sixtum
I. per Levitam Laurentium ecclefiae thefauros pauperibus diffribui mandafle,
funt qui tradant. Vetuftiflima quidem haberi debet haec Ec- clefia, cuius
mentio eft in veteri Defcriptione Regionum Ur¬ iis,editaa MabillonioG),ubiagensdefeptemviisufque.>
porta Ajinaria, ftatim fubditur Sancta Alaria Dominica. Adfaeculumfaltem XI.pertinerevideturArchipresbyterRe-
ncdillus Diaconus Sanctae Alariae, quae Domnica dicitur, (1) Roma fotterranea
Tom. II. Tav. CXXX. pag. 17S. cu- (5)V id. Floravantem Martinellium Roma ex
ethnica facra pag. 214. (6) Vetera Analecta pag. 365. fecund. edit. (2) Aci.
Santf. lanuar. pag. 4S3. (3)Viet.Franc.VifloriiDiffert.Philolog.pag.$1.
Parif.1725. (4) De rebus ecclejiajlic. Cap. VII. c2 XIX JiX cuius
monumentum in Divi Stephani in Monte fitum, & a Doniod) adductumheicfiltimus:
HIC. REQVIESCIT. CORPVS. DEVOTVS. XPI FAMVLVS. ARCH1PBR. BENEDICTAS. DIAC. SCI.
MA RIF,. QA. DOMICA. Q. OMS. Q. AD. HANC. BASILICA. IN GREDITIS. DIGNEMINI.
ORARE. PRO. ME. PECCATORE. AC. P. XPI. NOMEN. OMS. CONIVRANS. VT NVLLVS. HOC.
TVMVLO. VIOLARE. AVDEAT. 3 SI. QVIS <0 AVTEM. VIOLARE: P: SVPSERIT: i A.
PATRE. ET. FILIO. E. SPS SCI. ANATHEMATE. IM. P.. P. DANATVS. EXISTAT Certe
quidem, ut innumeris exemplis o(tendi pofTet, ab VIII. ufque laeculo ad. XI.
ufus obtinuit has malas precationes, a Chriftiana pietate, & manfuetudine
alienas, & a fola tempo¬
rumbarbarie,&infcitiaquoquomodoexcubitasadhibere(3>; quidquid contra
Reinefium (j) Fabrettius M reponat. Cum Benedictus dicatur Diaconus huius
Eccleliae, apparet nondum ad Archidiaconum pertinuifie, ut dcin factum
videbimus. Iam in noftra Diflercatione in tit. Canonicum de officio Archi-
diaconiWadduximus Chartamanecdotamannidcccclxxxii.,
inquamemoratumcernimuslohannemArchidiaconumfum- viac Santiae Apojlolicac Sedis,
& praepojitum venerabili Diaconiae Santlae Dei Genitricis Alariae, quae
appellatur No- ha;incuiusnimirumArchivohaecipfa Chartafervatur. Quarearguerelicet,pofterioritemporehocfactumeffe;
nec fane documenta, quae id adltruant, occurrunt faeculo XII. maiora. Commode
in Chronico Ricardi Cluniacenfis, quod abanno Chriltidccc. Usquead annum mclxii.
pertingit,quod¬ (0 Jnfcrip. antiq. C!afT. XX. n. 71. pag. 539. ex fchedis Nic.
Alemanni. que (5) D iffertazione Canonico-Filologica fopra il ti- tolo delle
IJlituzioni Canonicbe de Officio Arcbidia¬ coni, recitata dali’Abate Giovanni
Criflofano Arna- dtizzi la fera de’ 17. d'Agoflo deiPanno 1767. in (2) Vid.
Hieron. Fabrium Ravenna antiqua pag. 116., Mabillonium ile re Diplornat. Lib.
II. Cap.VIII.§.XVII.pag.ioi.,ArringhiumRora-
RomanelPAccademiadelPEmin.3eRev.Sig.Car¬ fubterran. Lib. IV. Cap. XXVII.,
aliofque. dinale Gaetano Fantuzzi &c. adnot. $. pag. 57. (3) Syntag. veter.
Infcript. Clafl*. XX. n. 440. Tom. XVII. Nova Raccolta d'Qpufcolifcientifici3
(4) Infcript. Cap. II. pag. no. e flologici. In Venezia 1768. XXi
queaMuratoriorelatumeft(0,recenfenturDiaconiaeCardi¬ nalium S.R.E. decem, &
odo, quarum princeps Sundae Ala¬
riaeinDomnica,ubiejiArchidiaconus.Huicacceditteftimo- nium Petri Manlii apud
Mabillonium (12), ubi legitur: S.Ala¬ ria in Domnica, ubi debet ejje
Archidiaconus; & Leonis Ur- bevetaniapud Cl. loh. Lamium (A, ubi haec
habentur: S. Ala¬ ria in Domnica, ipfe eji Archidiaconus altorum; quorum primus
ad laeculumXII., alter ad XIV. pertinet. At vero hanc Ecclefiam haud Cardinali
Archidiacono adfignatam, nili laben- te ipfo faecula XII., credere licet, cum
certum fit, triginta, vel viginti ad fummum annos ante eius exitum ipfam Diaco¬
num, non Archidiaconum obtinuiffe. Docet id Bulla Inno¬
centi!II.annimcxlii.apudHarduinium(4),cuifubfcripfitGe- rardus Diaconus Card.
S. Alariae in Dominica. Id etiam ad- firueret D. lacobus tit. X. Alariae in
Navicella, qui a Bollan- diftisV) recenleturex Marchefiointereos Cardinales,qui
interfuerunt canonizationi S.Brunonis Epifcopi Signini, quam Signiae anno
mclxxxi. peregit Lucius III. Summus Pontifex, nili critices regulae obliderent,
Bollandiflae ipli hanc Cardi¬ nalium recenfionem affumentum iudicarunt, &
iure merito; neque enim fi lincera lubnotatio fuiflet, Ecclefia ipfa titulus
dicta efiet, quo vocabulo numquam Diaconias appellatas aut antiquitus, aut
recenter inveniemus. Quo tempore vero haec effedefieritiurisArchidiaconiCardinalis,incertum;verofi-
mile tamen eft, id accidifte, cum, translata Avenionem Apoftolica Sede, Romanae
dignitates mutationem aliquam fubierunt, & Gallicos mores induerunt, &
ipfa Archidiaconi iurifdiftio, & munus magna ex parte ad Camerarium delata
eft. Honorii III. aetate Ecclefiam hanc pertinuifle ad Ec- (1) Antiq. med. aevi
Tom. IV. coi. 1113. (4) Concil. Tom. VI. Par. II. coi. 1170. (2) Ord. Roma».
XII. n. II. pag. $6y. (j) In Comment. praevio ad A£ta S. Brunonis
($)Delie,erudii.Toni.II.pag.28. Epifc. Signinidie XVIII.Iuliiqum.24.
XXII Ecclefiamalteram S.Thomae, StS.Michaelis Archangelide de Formis (de
qua mox dicemus ), innuit laudati Pontificis Bullaannim ccxvii.,quainterceteraspoffeffiones,
quaseidem confirmat,refertabjidam,&inclaujirumEcclefiaeB.vlla- riae in
Donnica (0. Parochialem vero curam eidem adnexam etiam fuilPe, docent Litterae
Apoftolicae SixtilV. C), quibus Apollonius de Valentinis & Canonicatibus
Lateranenfis Eccle- fiae, St S. Mariae in Via lata, St Parochia S. Mariae
Navicellae interdicitur. Honor, quo, Archidiaconali dignitate deleta,
Eccleliahaec decidit,integratusquodammodovifuseft, cum
Card.IohannesMcdiceusPontifex Max. Leonis X. nominere- nunciatus eft. Ipfe enim
inftaurari illam iullit, atque ut id pro dignitate fieret, Raphaelis Sanclii
opera ufus eft quoad Ar¬ chitectonicae artis concinnitatem, lulium vero
Romanum, St Perinum Bonacurfium Vagae difcipulum pro pibturae or¬ namento
adhibuit. Tum eadem obtigit Card. Iulio -Mediceo, Leonis X. patrueli,
Archiepifcopo Florentino, Sc S. R. E. Vi- ce-Cancellario, qui poftea fuit
Clemens VII., licet & Eccle- fiam S. Clementis, & alteram S. Laurentii
in Damafo dein fibi adfeiverit. Eadem Diaconia potitus eft poftea Iohannes
Mediceus Cofmi I. Magni Florentiae Ducis filius, qui a_. Pio IV. Cardinalis eft
renunciatus, & cuius exftant tres epilholae de ipfius Ecclefiae cultu, Sc
famulatu (0, quem appri¬ me (0 Collect. Bullar. Sacrofantlae Bafilicae Va¬
gliare } perche rifeda in la Cbiefa della Navicella
ticanae&c.Romae1747.Tom.I.pag.100.
aujfiziare,&dipiu3perchefattovederlecofe3 (2) Ex Tom. 96. Regeft. Brev.
Sixti IV. pag. 74. in Archivo fecr. Vaticano. CS) LetteredeiCard.G:o.de’Aledicifigitodi
Cofano 1. Grati Duca di Tofeana, efiratte da un nifi Roma 1752. Fib. Ili. pag.
505. Lettera ferit- ta dal Poggio 25. Settemb. 1561. al Podefta di Grofleto, a
cui dice di voler pariare a M. Porzio Fanuzio Canonico della Navicella 3 che
capitava coli j o a Monte Fano. Ivi pag. 506. Lettera ferit- ta dal Poggio 26.
Settemb. 1561. al Vefcovo Ce- farino, a cui dice > che manda D. Gio. luo
fami- che di prefente occorrono farfi per riparazioni di
quelluogo,meloavvifiparticolarmente3acciofi
pojfadaropportunoriparo&c.Homandatoper quel medefimo Porzio Fanuzio per
aver da lui in- formazione di quel3 che fiara a fiua notizia delle cofe di
quella Cbiefa. Ivi pag. 507. Lettera ferit- ta dal Poggio a di detto al Babbi
in Roma: Noi mandiamo il prefente D. Gio. nojlro famigliare 3per- cbe rifeda a
ujfiziare vella Cbiefa della Navicel¬ la j non volendo noi filia 'fenza un
Cappellauo 3 fimo a tanto, cbe fi verranno ritrovando 3 e riordtnan- do
XXIII me curaffie conflat. Huic vita fundo in eamdem fucceffit Cardinalis
Ferdinandus Mediceus, marmoribufque ornavit, ac refecit, antequam ampliffima
dignitate abdicaret, & Magni Ducis Etruriae, denato Francifco eius fratre,
infignia recipe¬ ret.Habuit&Card.CarolusMediceus,cuiusmemoriamar¬
moreaibidemcerniturfuprafacrariiportam.Tandeminitio huius faeculi tenuit etiam
ex eadem regia domo Card. Franci- fcus M., de quo nihil eft aliud, quod
moneamus. Presbyte¬ rum Beneficiatum, qui Ecclefiae inferviret, facrumque face¬
retdiebusfeffis, PaullusV.inftituit(0,idquemunerispri¬ mus obivit Vir Cl. Leo
Allatius, antequam ad maiora fibi viam faceret in Urbe officia. Ex Diaconia in
titulum presbytera- lem convertit Benedidus XIII 0);ac tandem Monachis Grae-
co-Melchitis Congregationis S. Ioh. Baptiflae in Soairo OrdinisS.BafiliiMagni,poflulanteSacraCongregationedePro¬
paganda Fide, Templum cuftodiendum, & aedes incolendas Benedidus XIV.
conceffit. Vili. Huic proxime fuccedit Templum S. Thomae in Caelio, quod& S.
Thomae, & S. MichaelisinFormisdi-
dumeft,cuiquehofpitaleadnexumerat.DudusaquaeClau¬
diae,quieidemadhaerebant,nomendeFormisinduxe¬ runt G). Ecclefia haec fuit olim
Abbatia in Urbe non igno¬ bilis;cumeiusAntiftes,teftePanvinioG),intervigintiAb¬
bates, qui Romano Pontifici celebranti adeffe confueverant, decimus tertius
accenferetur. Eamdem pollea Innocentius III. conceffit Fratribus Ordinis
Sandifs. Trinitatis Redemptionis captivorum, quam proinde, dum vixit, incolatu,
corporis veroexuviispoflobituminfignivitS.IohannesdeMatha, licet
dolealtrecofe.Vedrete 3cbeabbiaqualcbepo-
toprefente30fiarelazionedellaCortediRoma&c. In Roma 1765. Tom. I. Cap. I.
pag. 8. fa 3 cbe ci pare impojjibile, cbe non ve ne Jia. (3) Fabrett. de aquis
3 & aquaedtM* Dif Tert. IX- (1) Vid. Martinellium loc. cit. pag. 215. (4)
Lib. de VU• 'Urbis EccleJ'. pag. 142. (2) Vid. Equitem Hieronymum Lunadorium
Staco di Jlanza 3fe ve n’’ealcuna pertinente alia Chie- XXIV licet
dein in Hifpanias translatae fuerint. Interea Honorius III. Bullam emifitd),
qua Ordinem praedictum commendat, Ec- claliameidemconcetfamfub Apoltolicae Sedistutelalufcipit,
privilegiis ornat, facras aedes, ac bona quamplurima eidem
lubditarecenfet,&confirmat.Quareibidemmemoratfor¬ mam, fcilicet aquae
Claudiae ductum, fuper ditia Ecclejia S. Tbomag cum aedificiis, cimitcrio,
crucibus, & aliis per¬ tinentiisfuis: montem cum formis, fi?aliisaedificiispojitum
interclaufiram Clodei(CaftellumnempeaquaeClaudiae, quod forma quadratum, &
magna ex parte integrum Fabri¬ cius W vidit), fi? inter duas vias, unam
videlicet, qua a praeditia Ecclejia S. Thomae itur ad Colifcum, fi? aliam, qua
itur ad SS. lobannem, fi? Vaulum fi?c. Exftat adhuc fupra fores hofpitalis,
five coenobii tigillum ex mutivo Ordinis, quem diximus, Redemptionis captivorum,
& arcui marmoreo forium haec inferipta leguntur:
MAGISTER.1ACOBVS.CVM.FILIO.SVO.COSMATO.FECIT. HOC.OPVS Dein Poncellio EJrfinio
Cardinali commendatam Ecclefiam ipfam fuiffe infuper patet, donec Urbano VI.
iubente anno mccclxxxvii. menfae capitulari Vaticanae Bafilicae adnexa fuit,
ipfaque unio ex Bonifacii IX. Diplomate dat. V. Idus Novem¬ bris confirmata
eft. Ceteras Apoltolicas Bullas lohannis XXI., five XXII. 0), Bonifacii IX. O,
& Eugenii IV. W iam editas in Bullario Vaticano, & ad hanc Ecclefiam
pertinentes fciens praetereo. IX. Defcripfimus locum, quem tenent nunc Horti
Mat- thaeiani,tumediticia&vetera,&fubfequentia,quaeipfisob-
iacent.Rcftatmodo,utdeeorumaubtore,forma,&prae- ftantia dicamus. Ii
fiquidem auctorem habent nobiliffimum, toAnn- '2'7-vii- ColleU. Bullar.
SacrofanU. Baftl.Vatie. &c.Romae1747.Tom.I.pag.iod. (2) D efcript. Vrb.
Romae cap. 17. & ma¬ (3) Cit.Collecl. fttillar.Bafil.Vatic.Tovn.l.p.28J.
(4) Ibid. Tom. II. pag. 31. (5) Ibid. Tom. II. pag. 3y. XXV
&magnificentiflimum Virum Cyriacum Matthaeium,Alexandri filium, Cyriaci
nepotem, qui fane avitam gentis fuae am¬ plitudinemho copere explicandam fiulcepifievifusefi.
Non noftrumheicefi;,MatthaeiaegentisoriginemaPaparefchia, quae genuit
Gregorium, poftea Innocentium II., deducere, quodvifuminprimisefi:OnuphrioPanvinioCO,AlbertoCaf
fio G), Felici M. Nerino (3), aliifque; non enim id ipfius vel
vetuftati,velnobilitatiacceflionisplurimumfaceret.Monu¬ mentum fiquidem faeculiXIII.,
quodcontinetSenatuscon- fultumhabituminTemploS.MariaedeCapitolio,quodque ex
apographo Perufino edidit Cl. praefui lofephus Garampius nunc apud Aulam
Vindobonenfetfi Apofiolicus Nuntius me- ritifiimus G), gentis huius
praefiantiam fatis prodit, cum in¬ ter ceteros nobiles Romanos viros
recenfeatur etiam ibidem lohannes Matthaei, quemGarampiusipfenoftrisadferibere
non dubitat G). Ceteros ex hac gente illufires viros recenfe- re quinetiam non
iuvat, quorum monumenta praefertim con- fulere facile quifque poflit apud
Cafimirum Romanum, Fran- cifcanae familiae Alumnum, ubi de Templo Aracaelitano
G). Quare circa annum mdlxxxi. Villae huius confiruftionem ag- grelfus efi:
Cyriacus nofier, & ad annum mdlxxxvi. perfecit,
utdocentmonumenta,quaeibidemmarmoreinfculpcnda
curavit,quaequenemoadhucedidit.Siquidemfuprapor¬ tam Villae parte interiori
haec leguntur: CY- (1)Cod.Mf.dcGente Matthaeiain Bibliotheria alculto dellaR.ChiaradiRhnino&c.
In caFrangipania. Roma175:5- Differt.VIII.pag.244.jefegg.
(2)Memorieijlorichedellavitadi S.Silvia&c. (5)Vid.Indicemvoc.Matteipag.52J.
Cap.XIII.§.I.pag.89. (6)Memorieijlorichedellacbiefaje convento (3)
Detemplo,& coenobioSS.Bonifaciij& Ale- di $. Maria in Araceli di Roma
&c. In Roma i73j5. Cap. IV. pag. 29., Cap. V. pag. 43. 3 44., 394. Ad not.
54. 71.;, & 72. 3 e Cap. XVII. pag. 451. (4) Memorie ecclefiajliche
appartenenti all'ijlo- xiihijloricamonumentain Append.n.VIII.pag.
XXVf Tum inferne: CYRIACVS. MATTHAEIvs. HORTOS GENTILICIOS.CVLTV.AEDIFICIO
VETERVM.SIGNORVM.COPIA INLVSTRIORES. ET. AMOENIORES REDDIDIT A. S. M. D. LXXXI
CYRIACVS.MATTHAEIVS HORTOS. CAELIMONTANOS A. IACOBO. MATTHAEIO. SOCERO. SVO
SIBI. POSTER ISQ__. SVIS. DONO. DATOS. MVLTIS • ORNAMENTIS MAGNIFICENTIVS.
EXCVLTOS. SVAE. ET. AMICORVM OBLECTATIONI.DICAVIT M.D.LXXXVI Quae ille
praeftiterit, ut ampliffimos undequaque Hortos hof- ce efficeret, prodit etiam
epigraphe, quam affixit parieti Aedium ad meridiem, quae ita fe habet: CYRIACVS.
MATTHAEIVS ALEX F. CYRIACI.NEP HORTOS.CAELIOS GENTILICIOS. POMARIIS AVIARIIS.
NF.MOR1BVS OBELISCO.AEDIFICIIS IAM.INSTRVCTOS AD. MAIOREM. POSTEROR
SVORVM.AMICORVMQ_ OBLECTATIONEM VETERIBVS ETIAM.SIGNIS EXORNAVIT Huic etiam
infcriptioni confbna eft altera, quam edidit Petrus Leo Cafella (0, quae forte
Hortorum domini, & conditoris fuffragium non tulit, cum nullibi ipfam
infculptam viderim. En ipfam: CY- (0 Elogia illufirium Artificum;, Epigrammata,
Ionis, de Tufcorum origine, & Republica Florett-
&foferiptiones,poliLibrumdeprimisItaliaeco-tina,pag.186.edit.Lugdun.1606.
CYRIACVS.MATTHAEIVS.ALEXANDRI.F CYRIACI.N GENIO. CAELIMONTANAE.
SALVBRIORIS. AMOENITATIS HORTOS. GENTILICIOS. SIBI. ET. SVIS. AEDIBVS. ET AQVIS.
IRRIGVIS. EXCOLVIT. FONTANIS. EXHILARAVIT QVAE. PRO. GRADVVM. CORONA. EX.
EPISTYLIIS. ALTE SVBSILIENTES. FLORVM. IN. CIRCIS. FLORVM LVDVNT.LVDICRA TVM.
ET. AREAM. ET. AREOLAS TOPIARIIS.SEPSIT.POMARIIS VALLAVIT AMBITVM.MVRO.CINXIT
VETVSTEIS.MONVMEN TEIS.SIGNIS.DISPOSITIS ET.MVNIPICENTISSIM A.S.P.Q R
INDVLGENTI.A OBELISCO. EXORNAVIT X. Quare Hortos nortros vel hilce
infcriptionibus ita iamamplos, excultos, elegantes, &locupletes defcriptos
habes, ut vix nobis, quae infuper adnotentur, relinquantur. Innuemus tamen.
Aedes, quae in medio Hortorum adfur- gunt, ex lacobi Ducae architeilura
conditas fuilTe, quarum vertibulum porticu ornatur, columnis, lignis, ac
protomis infignita; quemadmodum aula, & cetera, quae fequuntur, cubicula
undique & lignis, & protomis, & columnis, & ana¬ glyphis, &
cippis, & aliis rarirtimis cimeliis, inter quae men- faexviridiporphyreticomarmore,
miruminmodumpraecellunt. Porticum enim in primis ornant Statuae ex alaba- rtro
Pomonae, & Midae Phrygiae Regis, aliaeque Bacchi,
Faunorum,&Caracallae.Tumauladirtinguebaturpraefer- tim Simulacro colofleo
M. Aurelii Antonini, & Statua eque- ftri L.Aurelii Commodi, qui Antoninus
alter, vel Hadrianus antea cenfebatur, quae dein in Mufeum Clementinum
Vaticanumtranslataeft.Inadiacentibuscubiculisreconde¬ batur d2 XXVII
XXVIII batur inter cetera caput Ciceronis, quod nunc in Aedibus adCircum Flaminium,
caputalterumIovisSerapidisexba- falte, tum caput Plotinae Traiani uxoris, &
Signa Dianae, &.Herculis,Graecifculptorisopera,aliaque,quaeiamVa¬
ticanoMufeo,utinfradicemus,infuperaccefierunt,Fauni cum utre iacentis, &
alterius a Satyri pede fpinam extrahentis, actandemStatuaAmicitiae,opusPetriPaulliOlivem,
quam CyriacoMatthaeiodonodederatVirginiusUrlinius, ut patet ex epigraphe, quam
exhibet lamella aenea ibidem appoiita: VIRGINIVS. VRSINIVS CYRIACO. MATTHAEIO
AMICITIAE. MONVMENTVM STATVERE ILLVSTRIVS. ME. IPSA AMICITIA NON.POTVIT MDCV
Aditus ex foribus Hortorum recda ad Aedes ducit per ambu¬ lacrum, utraque parte
ornatum urnulis fepulcralibus elegan- tiffimis, ut nufquam tot ullibi fe
vidiffe affirmaverit Montfau- coniusb). Aedium vero externus paries
meridionalis multis etiamdiffinguiturSignis,acpraefertimImpp.IuliiCaelaris,
Octaviani Aug., Cl. Domitii Neronis facrificantis habitu, Liviae Aug. Coniugis,
tum etiam Cereris, ac Bacchantum. In medio autem pariete tollitur (lemma
Matthaeiae gentis, pileo ornatum, cui haec subscribuntur: HIERONYMO. CARD
MATTHAEIO HicenimfuitCard.tituliS.Pancratii,Cyriaci,&Afdruba- lis frater,
cui iidem titulum etiam pofuerunt in Templo Ara- caelitano (2^>. Area dein
panditur, in qua celebris Urna IX. Mu- (0 Diar. Italie. Cap. X. pag. 148. dal
P. F. Cajimiro Romano &c. Cap. V. pag. 72. (2) Vid. Memorie ijloriche della
chiefa, e con¬ Vid. aliud monumentum ibid. Cap. XVII. pag. 451. vento di S.
Alaria in Araceli di Roma raccolte /•-rr. XXIX Mufarum proflat,
& in cuius medio cernitur Obelifcus Ae¬ gyptius variis infcriptus
hieroglyphicis litteris, quas haud mo¬ ramur, cum neque Hermapionis perlonam
geramus, qui Obelifcorum inlcriptiones olim interpretatus Auguftum dece¬ pit,
neque etiam Kircherium imitari lubeat, qui eamdem_.
provinciamornansdecepitfeipfum.CeterumMarchioSci¬ pio MafFeius (0 in ea fuit
fententia, ut putaret, fculpturas Obelifcorum nullam fcripturam praefeferre,
notafque illas nul¬ liusgeneris efle litteras. Quare id dumtaxat innuemus, Matthaeianum
Obelifcumaltumefle XXXVI.palmos,latumvero ad baflm palmos IV. Caret vero
litteris, five notis X. a bafi
palmis,livequodilledataoperafieftusfuerit,fiveignecafu confumptus. Verumtamen
novem primae, quae in cufpide conlpicuaefuntnotaeadquatuor lingulalatera,omninocon¬
veniuntcumiis, quasexhibet Obelifcus, olimIpinaeimpolitus CirciFloraeinvicoPatriciointerViminalemcollem,&
Exquilias, nunc in Hortis Mediceis ereftus. Nofter vero ex- ftabatolim ante
fores minores Templi Aracaelitani, e quibus in plateam Capitolinam
delcendcbatur, five in eius Caeme- terio, ut placet Boiflardio (2), in cuius
bafe, tefte lacobo Ma- zochio G), haec legebatur inlcriptio, quam Gruterius (+)
ipfe adducit: deo.CAVTE FLAVIVS.ANTISTIANVS V.E.DE.DECEM.PRIMIS PATER.PATRVM
Tandempetenti CyriacoMatthaeioexSenatusconfultoa.d. III. Idus Septembrisannimdlxxxii.concefluseft
Obelifcus,quem fuisin Hortiscollocavit,acdeinduplexmonumentumineius (1) Art.
erit, lapid. Lib. I. coi. 3. (3) Epigramm. Vrb. pag. 21. a ter. (2) Topograpb.
Vrb. Romae Tom. I. pag. 24. (4) lnfcript. pag. 99. n. 4. ba- XXX
bafe infcripfit, quo fuum gratum animum Populo Romano lar¬ gitori tortaretur,
Primum, quod meridiem relpicit, hoc eft: CYRIACVS.MATTHAEIVS OBELIS CVM. HVNC.
A. POPVLO ROMANO.SIBI.DATVM.A CAPITOLIO. IN. HORTOS SVOS.CAELIMONTANOS
TRANSTVLIT.VT. PVBLICAE ERGA. SE. BENEVOLENTIAE MONVMENTVM. EXSTARET ANNO.M.D. LXXXII
Alterum vero boream verfus ita fe habet: S. P. Q_. R CYRIACO.MATTHAEIo
OBELISCVM. HVNC. SVMMO CONSENSV.DARI.DECREVIT VT. IIORTORVM. EIVS PVLCIIRITVDO.
PVBLICO ETIAM. ORNAMENTO AVGERETVR Huius Obelifci typum non dedimus, quod aere
incifus olim non fuerit, neque id nunc Librario luberet, neque nos etiam
apprime necertarium cenferemus. Si quis velit eumdem con-
fulere,facilecomperietapudMontfauconium0),Iohannem Barbaultium (2), ac Bonaventuram,
& Michaelem Overbe- keiosL). Ipfum etiam defcripferunt, ac laudarunt
Scottius (A } (0 Antiq. explic. Tom. II. Par. II. Lib. II. Cap. VII. Tab.
CXL1I1. n. 5. pag. 332. (2) Les plus beaux Alonumeuts de Rome ancien- tie3 ou
Recueil des plus beaux morceaux de Pan¬ tiquite' Romaine qui exijleut encore,
dejjines par Monfieur Barbault Peintre ancien Petijtonaire du Roy a Rome 3
& grave eu 12S. plancbes avec leur explication; fol. max. a Rome cbez
Boucbard de Pimprhnerie de Komareb 1761. Pl. 30. n. i.p. 47. Ca-
O)LesreflesdePancienneRomerecherchez&c. & gravez par feu Bonaventure
d'Overbeke &c., imprimesauxdepensdeMicbeld'0-verbeke.Ala Haye cbez Pierre
Gojje 1763. Tom. II. Pl. 14. pag. 21. Vide etim Degli avanzi delPantica Ro¬ ma
3 opera pofluma di Bonaventura Overbeke Pit-
toreInglefe&e.3accrefciutadaPaoloRolliPa- trizio Todino. Iu Londra 1739. §.
JLVIII. pag. 177. (4) Itiner. ltal. Lib. II. Cap. VII. pag. 401.
XXXI Cafimirus Romanus 0), Marangonius, qui fingulos etiam Romanos
Obelifcos enumerat 0), tum Ficoronius, Venutius, Titius, ceteriquc, qui Romanas
antiquitates, &c magnificen¬ tias defcribendas fumpferunt. Reflat nunc
caput coloflale Alexandii Magni, quod plateam hanc ornat parte meridio¬ nali,
quoque nullum in Urbe maius. Siquidem a mento ad ladicem capillorum mensura
eflfex pedum pariliorum, totum vero caput odio pedum, ut proinde
fexagintaquatuor pedibus conflaret eius Statua, fi integra fuperelTet. Sane ca¬
put marmoreum Domitiani in impluvio Aedium Capitolina¬
rumeflquinquepedum,acproindeintegraStatuaquadra¬ ginta dumtaxat pedum fuiflet;
nec aliter fuadent pes, & alia membrorum frufla, quae ibidem exllant. Tum
in Villa Lu- dovifiaefl' caputcoloflalequatuorcirciterpedum;&inIu- flinianeaextraPortamFlaminiamhabebaturolimcolofluslu-
flinianiImp.,neccle’funtinaliisvillis,acaedibusRomae
Statuaealiaeproceritatevulgariduplo,auttriplomaiores. Caput vero noflrum, quod
Alexandro M. tribuitur, quodque nos fuoloco (Villuftravimus, ex Aventini ruini serutumfuit,
ut prodit infcriptio, quae ibidem legitur: CYRIACVS. MATTHAEIVS ALEXANDRI.
MAGNI. CAPVT. EX. AVENTINI RVINIS. EFEOSSVM. INIVRIA. TEMPORVM NONNIHIL. CORRVPTVM.ANTIQ_VAE
FORMAE. ET. NITORI. RESTITVIT VETVSTATIS.AMATORIBVS SPECTAN DVM. PROPOSVIT
Ipfum vero accurate descripflt MontfauconiusW,aflad quem pertineat, incertum
elfe afferuit. Hinc Ficoronius M mul- (0 Cit. Memor, ijloricbe della chiefa, e
con¬ fino alia pag. 36$. ventodiS.MariainAraceli&c. Cap.V.§.V. (3) Tom.II. ClafT.II.Tab.
VII.pag.9. pag.71. (4) Diar.Ital.Cap.X.pag.148.
(2) Delie cofe gentilefchej eprofane trafportate (5) Offervazioni contro il
Diario dei P. Mont• ad ufo, ed ornamento delle Cbiefe 3 dalla pag. 555. faucon
pag. 3 1. XXXII multas eidem gemmas, & numifmata obiecit, quibus
ex for¬ mae fimilitudine fidem huic etiam monumento conciliaret. Sed contra
repofiuit Romualdus Riccobaldius (0, qui Plutar- chifi) teftimoniumurgens,incertamAlexandriM.effigiem
etiam tunc temporis exlfitifie contendit, ac magis dubiam fa¬ ciam fuifie
deinceps, cum Caracallam lubido incefiit adfcri- bendi fibi Alexandri nomen,
praecipiendique quinetiam, ut ipfius vultum quifque fibi pararet, fervaretque.
XI. Praeftat vero haec leviter attingere, ut ceteras Hortorum Matthaeiorum
partes perluftrando defcribamus. Areola hinc occurrit, cui ab amoeno afipeclu
fi) quaefitum nomen eft, & ex qua moenia ab Aureliano producta ufque ad
Portam Capenam, & Latinam, & Thermarum Antoniniana- rum ingentia rudera
intueri praefertim licet. Statuae, & in- fcriptiones heic ordine difpofitae
habebantur, quarum prio¬ res referebant Apollinem Citharoedum, Martem,
Mercurium, Dianam, Herculem, Poetam cum cycno, Feminam velatam cum puero,
Gladiatorem, & Pudicitiam. Ambulacris hinc in¬ de recurrentibus ad
oppofitam partem area altera occurrit,
inquapraefertimHermaeconfpiciuntur,quibusPlatonem, Heraclitum, Ariftotelem,
Ifocratem, Epicurum, Diogenem, Ariftomachum, Pindarum, Anacreontem, Euripidem,
Ari- flophanem, Hefiodum, Apollonium Tyanaeum, Pofidonium, Apuleium, L. Iunium
Rufiicum, Archimedem, aliofque re¬ ferre vulgo cenfetur. Quid iuvat conclavia,
quae fex prae¬ fertimnumerantur, nemora, topiaria, aliaqueloculamenta
fingillatim defcribere, eaque fignis, anaglyphis, aliifque monumentis fere
undique diffincla Labyrinthum tamen innue¬
mus,licetvixnuncinveftigandum,ecuiusregioneaffingit co Apologia dei Diario
Juddetto Cap.LX.pag.48. (3) Belvedere vulgo audit. (2) In vita Alexand. M. pro XXXIII
procera columna porphyretica viridis coloris, quae ob minu- tiffimas, ex quibus
coalefcit, materiae partes lingularis merito cenfetur. Nec aliae defunt hinc,
& illinc difperfae co¬ lumnae, quarum pleraeque multi aedimandae funt,
quaeque XXVII. fummatim numerantur. Nodrum vero non ed fon¬ tes, pomaria, viridaria,
ceteralqueHortorumpartesvillicis commendatas defcriptione profequi. Innuemus
tamen fub Aedibus haberi hortulum malis aureis confitum, ac fupra eius odium
hoc didichon legi: HAVRI. OCVLIS. ET. NARE. LICET. TIBI. VIVA. VOLVPTAS SIC.
ALITVR. TANTVM. CARPERE. PARCE. MANV Plures funt in Hortos ingrefius; fed duo
infigniores, quorum unum, idque princeps, prope Templum S. Mariae in Do-
mnica;alterumvero adCuriam Hodiliam,quiconditoris nomen gerit, cum longa linea
infcriptum habeatur: HIER. MATTHAEIVS. DVX. IOVII. AN. IVBILAEI. MDCL XII.
Habes, quae fuerit Hortorum Matthaeiorum amplitudo, amoenitas, &
praedantia. Hinc nil mirum, d advena somnes infui admirationem rapuerint,
tumcivesad se ipsos sive describendos, live illudrandos invitaverint. Quare Scottius('),Mabillonius(12345),Montfauconiusb),Addifo-
nius (d, Richardius b), aliique inter exteros tum ipfos expen¬ derunt, tum in fuis
hodoeporicis praedantioreseorumdem partes defcribere fatagerunt. Inter nodros
vero illos potidimum quoquo modo illudrarunt Pinarolius (6), FicoroniusW, Ve-
(1) hin. Ital. Lib. II. Cap. VII. pag. 401. (2) Itin. Ital. pag. 88. (3) Dior.
Ital. Cap. X. pag. 148. (4) The Works of the right honourable lofeph Addifon
EJ'q., Beingh remarks onfeveral parts of Jtaly &c. in the Tears 1701. 3
1702.3 1J03. Du¬ bii» 1735* Vol. III. pag. 16 3. (5) Defcription hiflorique}
& critique de Phalle; a Dijon 1766. Tom. VI. Par. II. Cap. 17. pag. 169.
(6) Trattato delle cofe piri memorabili di Roma, opera di Gio. P. Piuaroli;
Roma 1725. Tom. II. pag. 274., e fegg. (7) Le •vejligia 3 e rarita di Roma
antica; Roma 1744. Lib. I. Cap. XIV. pag. 90. 3 e Lib. II. Le Jingolarita di
Roma moderna Cap.VIII. pag-68. XXXIV VenutiusCO, Vafius W, &
Titius^); Celebrarunt vero inter Poetas Aurelius Urfius Romanus (4), &
Ludovicus Lepo- reus C). Tum monumenta ipfa, quae in illis adfervantur, nacta
funt qui & typis exprelTerint, & explanaverint, ut luo loco monuimus.
Si Signa lpectes, eorum praeflantiora adducta habes a Paullo Alexandro MafFeio,
& Bernardo Mont- fauconio.SiAnaglypha,eorumpleraqueeditaviderelicet apud
Sponium, Bellorium, & ipfum JVIontfauconium. Si In- fcriptiones, noftris
pleni funt celebres thefauri, live colle¬ ctionesiameditaeab Apiano, Mazochio, Smetio,
Urlinio, Gruterio, Reineho, Sponio, Malvafia, Gudio, Donio, Fabrettio, Muratorio,
Maffeio,Donatio,aliifque.At,quae lane elt rerum humanarum infelix conditio, ita
paucis ab heincannisimmutataelt Hortorumnoltrorumfacies,utqui
cosintueaturpraeltantioribusmonumentisIpoliatos,atque undique collabentes,
dicere fimiliter poffit: Iam fcgcs cjt, ubi 'Troiafuit. Sanenon nullas marmoreas
Infcriptiones in Caeliis Hortis exltantes conceflcrat iam Alexander Matthaeius
Iovii Dux Cl. Praefuli Raphaeli Fabrettio, ut ipfe grati ani¬ mi caufla faepe
commemorat, in fua domelticarum Inlcriptio- num fylloge, & nos quinetiam
fuis locis advertimus. Tum ex iis profectum eft in Mufeum Capitolinum,
poftulante Bene- diftoXIV. Pontifice Max.,marmorAebutianum,iamanobis adductum
(D, & antiqui Romani pedis, aliorumque Archite¬ cto-
(0Accurata,efuccintadefcrizionetopografi¬ nuovofinoalTannoprefente. InRoma1763.pag.
ca, e tjlarica di Roma moderna, opera pofiuma di Ridolfino Venuti &c. Roma
1766. prejfio Carlo Bar- biellini Tom. I. pag. 4. (2) Itinerario iflruttivo
divifo in otto fiazioni 3 0 giornaie per ritrovare con facilitd tutte le an-
tiche 3 e moderne magnificenze di Roma, di Giu-
feppeVafiInRoma1765.11.58.pag.62. (3) Defcrizione delle pitture, fcalture, e
ar- cbitetture efpojle al pubblico in Roma, opera co- minciata dati'Abate
Filippo Titi da C.itta di Ca- fielk,conPaggiuntadiquantoeflatofattodi 208., e
475. (4) Carminum Tib. III. Epigr. 32. pag. 74. edit.
Parmen.,&Bonon.3ubihaechabentur: ln Hortos Mattbaeiorum: Komae fepultae
hinc intueri imaginem, Arcus,theatra,Scimperiivireslicet. Urbis, & Orbis
lumina, & miracula. (5) Poefie; ln Roma 1682. pag. 88. Sonetto. (6)
Tom.III.ClalT.X.Sect.VI.n.<;.Tab.LXII. Fig. I. pag. 118. XXXV
flonicac artis inftrumentorum forma infculptum; cuius rei memoria exftat in
titulo marmoreo, qui ibidem appofitus ell f ^. Sed noftra aetate maximum palTi
lunt detrimentum, cum novi Vaticani Mufei condendi neceflitatem peperit erum¬
pens quotidie veterum monumentorum copia, & eorumdem alportationis
impediendae providentia. Poftquam igitur San- dlillimus, ac fapientilTimus
Pontifex Clemens XIV., quem ut poteprimum litterariaemeae fortunaeparentem,&publi¬
caetranquillitatis,quafruimur,fundatoremfempergratoani¬ mi fenfu, & laudum
praeconiis profequar, Ambulacrum Va¬ ticani Palatii, quo iter eft ad
Bibliothecam, veteribus Infcri- ptionibus in clalfes naviter diftinefis V)
ornandum fufeepit; tum Chriftianum Mufeum, quod aeternae memoriae Pontifex
Benediftus XIV. iam excitaverat, & gemma affabre Iculpta, (i) Editus eft a
CI. Praefule Ioh. Bottario in opufculo, cui titulus: Indice delle antichita 3
cbe fi cujiodiscono nel Palazzo di Campidogltc &c. pag. 8., poft Philippi
Titii librum de Pi&uris, Scul¬ pturis j & Architecturis Romanis ab eo
amplifica¬ tum3 quoddeinfeorfimbisetiameditumfuit: Mo- ('b) Grut. Tom. II. pag.
167 (c) Fabrett. de Aquis, & aquaedu6tib. Differt.II. pag. 73., & 74.
n. 129. j & feqq. (2)HucconfluxeruntpraeterMatthaeianas, veteres
Infcriptiones domus Porciorum 3 tum plures Paflioneii Eremi apud Camaldulenfes
in Tufculo. Ceterum vide varias antiquas Infcriptiones ex iis 3 quae pro hac
ingenti colleftione coa6tae fuerunt 3 vel memoratas, vel addu6tas in Epiftola
noltra edita in Ephemeridibus litterariis Florentinis anni 1772. n. 10. coi.
14S., & n. feq. coi. 170, um in aliis n. 45. j & feqq- coi. 6yy. 3
& feqq., dein n. 48. coi. 7$S.3 ac tandem n. 1. earumdem Anecdotorum
noftrorum. De Feriis Latinis huc addu&is vid. quae adnotavimus hoc I. Vol.
Clafs. VII. pag. 73. e2 00 (&) (0 Ephemeridumanni1775.coi.4.3tumn.2.coi.10.
Confuleetiam Opufculum, cuititulus: Adlnfcri- ptionem M.lunii PudentishocipjoannoRomae
deteffam adverfus anonymi convicia curae pojlerio- Dono.Hieronymi.Principis.Alterii
res(CaietaniMelioris).Romae177$.Vid.Ephe¬ Aebutianum merides Romanas eiufdem
anni 3 ubi de eadem In- Ex.Matthaeiorum.Villa
feriptioneEpiftolaCl.viriMatthiaeZarilliin.XXI. pag. 161. Habes etiam aliquas
Infcriptiones Va¬ ticanas editas a CI. Viro Caietano Marinio Tom. IX. 3 &
feq. Diarii Pifani litteratorum 3 & in Syl- loge veter. Infer. 3 qua
claufimus III. Volumina Marmora. omnia. antiqui. pedis Modulo. infculpta
Scriptorumq. teftimoniis. commendata Benedictus. XIV. P. O. M In. Mufeum.
Capitol. tranftulit Anno. Pontif. III Dono. Hieronymi. Ducis. Matthaei
Capponianum Non. ita. pridem. Via. Aurelia. reper Ex. Aedibus. Capponianis Dono.
Alexandri. Gregorii Marchion. Capponii Eiufdem. Mufei. Curatores. perpetui
Statilianum In. Ianiculo. alias. effofium Ex. Hortis. Vaticanis Colfutianum.
feu. Collotianum Ex. Marii. Delphini. Aedibus (a) Aldrovand. pag. 121.
XXXVI Mofaici ferpentis emblema referente (0, & Carfagnanae fi-
gillo(*), testimonio sane luculentissimo antiquae eiufdemfi¬ delitatiserga Beatum
Petrum, &RomanamEcclefiam,pro¬ vide ditavit, novique cubiculi elegantifiime
picti a temporum noftrorum Apelle, Antonio Raphaele Mengfio, accefiione auxit,
ut Papyris omnibus per Bibliothecam, & fecretum Ta¬ bularium olim
difperfis, in unum colleblis, aliifque Vibloriae
gentiscomparatiscertuslocuseffiet(?);acinfiuperEtrufco- rum Vafculorum, quibus
Bibliothecae Vaticanae fcrinia 01- nantur, fupcllecfilem mire amplificavit M;
ipfumque tandem aeneorum monumentorum Mufeum a Clemente XIII. fplen- dide
exftrucfum, praeter recentia ad fe dono mifia Vindobo- nenfis, Parifienfis,
Taurinenfis, Palatinae, aliarumque lega¬
liumfamiliarumaureanumilmata,argenteisnummisquine- tiarn FerettiaeE), &
Palfioneiae EI gentis, tum & ballarinii Mufei Wfanerariffimis, Herodis AntipaeE)lingulariaeneo
(1) Offervazioni di varia erudizione fopra un carneo antico rapprefentante il
ferpente di bronzo, efpojle da Orazio Orlandi Romano &c. In Roma 1773. per
Arcangelo Cafaletti. Vide cenfuram_, noftram in Ephmerid. Litter. Romanis
eiufdem an¬ ni num. XLI., 8c XLIE (2) Vid. Ephemerides litterar. Florentinas anifl'
1771- n. 12*43- c°l* 194- j & feqq. Articulum nos ipfi fuppeditavimus Donum
Cl. Praefulis Ste- phani Borgiae. llluftratum pridem fuerat a Cl. alio Praefule
Iofepho Garampio edito opere, cui
titulus:IlluflrazionediunanticoSigillodellaGar- fagnana. In Roma 1759. per
Niccolb, e Marco Pagitarini. Anonymi Lucenfis cenfuris refponfio nunc paratur.
(5)^ rid. in cit. Ephem. Flor. ann. 1771. n. 1. num- gubiui de tribus Vasculis
Etruscis encaatice piclis a Clemente XIV• P O. M. in Mufeum Vaticanum inlatis
Differtatio. Florentiae 1772. in Typogra- pbia Mouckiana - Ex Mufeo Anfideiano
Perufino. Alia plura Vafcula in Vaticanam Bibliothecam mi¬ grarunt ex munere
Antonii Raphaclis Mengfii eximiiPi&oris, & Raphaelis Simonettii PatritiiAu-
ximatis,CanoniciBafilicaeVaticanae3&SS.D. N. a cubiculo. (5) Vid. articulum
noftrum in Ephem. litter. Flor, anni 1771. n. 14. coi. 210. (6) Vid. ibid. n.
31. coi. 482. (7) Nempe Simonis Ballarinii Praefe&i Biblio¬ thecae
Barberiniae j & a cubiculo Pontificio, qui obiit V. Idus Martii anni 1772.
Hic donavit aliquot rariora, & vetuftiora numifinata Pontificia, feu potius
nummos; cetera empta poft eius obitum. coi. 5.3 ubi alter articulus nofter de
huiufmodi Papyris. Adde Papyrum alteram dono datam ab Equite Marchione Carlo
Mufca Bartio Pifaurenfe, dequaconfuleEpiftolamnoftraminfertamEphe¬
mo3inNummophylacioClementisXIV.P-O.M. meridibus Florent, anni 1775., &
praefertim n. 49. coi. 774., & n. 51. coi. 811. Vid. & Praefatio¬ nem
noftram ad Fragmentum Papyri faecali V. 3
velVI.&c.inTom.II.Anecdotor.litterar.p.437. (4) Iobannis Bapt. Pajferii
Pifaurenfis Nob. Eu- affervato, demonflratur, Cbrijhrm natum ejfe anno VIII-
ante aeram vulgarent contra veteres 0- mnes, & recentiores Cbranologos,
auBore P Do¬ minico MagnanOrd. Minirn. Presb.&c. Romae 1772. typis Arcbangeli
Cafaletti. Vid. 8c Epifsolamnummo, aerae Chriftianae inchoandae documento,
Bruti, Sc Numoniae confularis familiae aureis nummis Plancani Mu-
fei('),quorumunuspretiofiffimus,alteranecdotus,Titi,Sc Traiani argenteis
Graecis nummis rarioribus maximi modulis vigintiduobusinM.Antoniinummislegionibus,&binisine¬
ditis Lucretiae, & Minutiae gentis, a Traiano reftitutis nu- mifmatibus
Mufei Zarilliani (2), veterum Beneventi Ducum ab Arigilio ad Georgium Patricium
aureis, argenteifque nummis bene multis 0), Etrufci pueri in Tarquinienli agro
eruti prae- clariffimohmulacroexaereG),TabulisaeneisOftranorum,&
SentinatiumveterumUmbriaepopulorumG),tumpaterisG), fiftrisG), inauribus (s),
vitris vetuftilTimis C9), ac ceteris hu- iufmodi monumentis munificentiffime
locupletavit; id infuper conlilii cepit, ut novum omnino Muleum in ipfis
Innocen- tii VIII. cubiculis, infigni porticu, adytifque ornatiffimum ad
excipiendumfigna, protomas, anaglypha, ceteraque mar¬ morea monumenta excitaret.
Inlatum fuit quapropter in ipfum, ut primum licuit, Iovis Verofpiae gentis
marmoreum Signum praeclarissimum (IO), tum aliud omnino integrum, rarum- ]ara
noftram in Ephem. litter. Florent, anni 1771. n. 35. coi. 517*) & feqq.
Donavit Henricus San- clementius Monachus Camaldulenlis } nunc Gregorianii Coenobiiad
Clivum Scauri Abbas. (1) De his vid. Epiftolae noftrae partem 3 quae eft in
Ephem. litter. Florent, anni 1773* n* 47* coi. 745.3 & n. 49. coi. 772.3
& feqq. De nummo Bruti vide etiam 3 quae adnotavimus Tom. II. ho¬ rum
Monumentor. ClalT.II. Tab.XII. Fig.I. pag.29. (2) Vid. Epiftolam noftram in
cit. Ephcmcrid. ann. 1774- n- 43* c0,‘- 67S. & feq. (3) Vid. camdem ibid.
coi.68 1. Donum Cl. Praef. Steph. Borgiae. (4) Vid. articulum noftrum in cit.
Ephcmer. anni 1771- n. 49. coi. 774. 3 & Praefationem nostram ad Alphabetum
veterum Etruscorum pag. 29. Videndaetiamloh.Bapt.PajferiiPifaur.JVob.Eu- gubini
de pueri Etrufci aeneo firnulacro a demen¬ te XIV. P- O. M. in Mufeum Vaticanum
inlato Dijfertatio. Romae in Aedibus Palladis 1771* Con- fule tandem 3 quae nos
adnotavimus hoc I. Vol. Clalf. X. pag. 108. Donum praeclarifiimi Praefu- Jis
Francifci Carrarii Bergomatis} qui etiam pate¬ ras j & numifmata aliquot
argentea donavit 3 de quibus vide Epiftolae noftrae partem 3 quae eft ad n. 40.
coi. 628. Ephem. Flor. ann. 177 1. (5) Vid. articulum noftrum in laud. Ephem.
e- iufdem anni n. 1. coi. 4. Retulit Muratorius Thef. Infer, pag. 563. n. 2. 3
& pag. 164. n. 1. (6) Vid. Epiftolae noftrae partem in Ephem. Flor, ann.
177^. n. 47. coi. 745. Adde pateras Carra- rianas, de quibus fuperius adnot. 4.
(7) Vid. ibidem. (8) Vid. eiufdem Epiftolae partem, quae eft ibid. n. 49. coi.
772.3 8c feqq. (9) Vid. Ephemerides litter. Romanas anni 1774. n. VI. pag.41. DonumCl.PraefulisMariiGuar-
naccii Volaterrani. (10) Vid. articulum noftrum in Ephem. Flor, an¬ ni 1771. n.
49. coi. 777.3 quaeque adnotavimus hoc XXXVIII rumque Ottaviani
Augufti (0, Meleagri alterum longe cele¬ berrimum Aedium Pighinianarum 0),
lunonis, & Narciffi (s) non deterioris artis, & famae gentis
Barberiniae, Sardanapali fuo nomine inferipti (4), Paridis Aedium Altempliarum
(j), Dianaeftolatae(6),&fervibalneatorisV)HortorumPam- philiorum, Dilcobuli
laudatiffimi in agro Romano non ita_» pridem eruti, aliorumque; Tum Borgiae
gentis Helvii Perti¬ nacis rariffima Protome (8), aliaque Antinoum referens,
Card. I tidetici Marcelli Lantis munus (9), Antifthenis Athenienfis I hilofophi
Herma Tiburtinus 0°), Ara Vulcani Hortorum Ca-
falium('05BigacircenfisadDiviMarciBalilicamiacens<12), hoc Tom. I. ad Tab.
I. pag. 2. Vid. typum apud £q. Paullum Alexand. MafFeium in ColleEtionc ve¬
terum Signorum Romae Tab. CXXXV. pag. 127. (0 Vid. quae adnotavimus hoc Tom. 1.
ClalT. VIII. Tab. LXXVL pag. 77. (2) Vid. EpiRolae noftrae fragmentum in Ephcm.
Flor, anni 1770. n. 15. coi. 231., quaeque ad¬ notavimus Tom. III. horum
Monument. ClalT. V. lab. XYX. pag. 59. Vid. apud eumdem MafFeium ibid. Tab.
CXLI. pag. 131. C$) Laudantur haec Signa ab omnibus Romana¬ Can- Vid. typum
Tab. 36. cit. Villae Pamphiliae. (S) Typum aeneum habes apud lof. Roccum
Vulpium Vet. Lat. profati. Tom. IV. Cap. VI. Tab. VII. Vid. Fpiftolae noftrae
fragmentum in Ephem. Flor, anni 1773. n. 34. coi. 551., quae¬ que adnotavimus
Tom. II. horum Monum. ClalT. III. Tab. XXVI. Fig. II. pag. 42. (9) Meminimus
hoc ipfo Vol. ClalT. VIII. Tab. LXXXVIII. pag. SS. (10) Vid. Epiftolam noftram
in laud. Ephemer. eiufd. anni num. 45. coi. 715. 3 & n. 47. coi. 742.
rumAntiquitatumferiptoribus,alterumveroad¬ OORagiotiamentodiOrazioOrlandiRomam
ducitur a Hier. Tetio in Aedib. Barbariniis litt. N. a Cl. Ioh. Winckelmannio
Monum. antiq. inedi V°l. F n. 207., Protomen porphyreticam Philip pi Imp.,
& duos Sarcophagos, de quibus omn bus vide Epiftolae noflrae partem in
Hphcin. Flo; ann. 1772. n. 45. coi. 711. (4) Vid. eius typum apud
Winckeimanniur loc. cit. Vol. I. n. 163., cuius illuftrationem ha b_s \ ol. II.
Par. III. Cap. I. pag. 219. (5) Apud Maffeium cit. Colle#. Tab. CXXIV pag. 116.
(6) De Dianae Signo Winckelmannius loc. cit. X° l U' Par’ L CaP- VII. n. III.
pag. 27. Vid. t)pum T„b. 5-3. in y t/la Pamphilia, eiufque pa¬
latiocumfuisprofpeclibus,fatuis,fastibus&c. Romae formis Iacobi de Rubeis.
(7) De Servi balneatoris Signo, quod Senecae falfo tribuitur, vide eumdem
Winckelmannium Jbid. Par. IV. Cap. IX. n. II. Jitt. C. pag. 256. fopra un’Ara
antica pojjeduta da Monfig. Antonio Cajali Governatore di Roma. Iu Roma per Ar-
cangelo Cafiletti 1772. Vide, quae nos adnota. vimus Tom. III. horum Monument.
ClalT. VII. Tab. XXXVII. Fig. II. pag. 73. Adde vas cine¬ rarium
elegantilTimuin, quod fimul dono datum
cft,&abOrlandioilluftratum.PraecelTeratan¬ tea donum Capitis aenei Balbini
Imp., de quo nos in iudicio, quod de hoc Opufculo emifimus in Ephemerid. Roman.
anni 1772. n. XXXV. pag. 276., & in Epiftolae fragmento, inferto Epheme¬
rid. Florent, anni 1771. coi. S21. (12) Eius fchema exhibuit Tab.III.fub
n.XLVIII. ad Cap. XXIII. coi. 2111. Valerius Chimentcllius illuftrans Marmor Pifanum
de honoreBijfelli(Tom. VII. Antiq. Rom. Graevii') qui balnearem feliam putat,
& rurfus alferit Cap. XXVII. coi. 2130. Vid., quae adnotavimus Tom. III.
ClalT. VIII. Tab. XJLVII. Fig. II. pag. 87. XXXIX Candelabra
BarberiniaCO, Zeladianum C2>, aliaque ad Divae Agnetis extra Portam Nomentanam
adfervata OJ, Sarcophagus Veliternus quantivis pretii Sex. Varii Marcelli V),
Urna Tudertina (A egregii Etrufci operis, & altera Perufina V) ar¬ canis
ethnicorum fculpturis infignita, aliaque permulta, quae fciens praetereo,
quaeque iam eruditorum fcriptis lon¬ ge, lateque inclaruerunt. His omnibus
accedunt praeftan- tiora Hortorum Matthaeiorum Signa, quorum pleraque fupe-
rius etiam pro re nata defignavimus, Cereris nempe Peden¬ tis (7), &
ftantis (8), Fauni dormientis (9), & a Satyri pede (pinam extrahentis 0°),
armatae Amazonis (‘0, velatae.» Pudicitiae 02), OHaviani facrificands C'3),
Traiani Pe¬ dentis ('4), Commodi equo vecti (**), duo Hiftrionum (igil- (1)
Vid. Epiflolae noftrae fragmentum in Ephem. Flor, anni 1770. n. 15. coi. 230.
Alterius ex his Candelabris fchema habet Winckelmannius loc. cit. Vol. I. n.
30., agitque de eo Vol. II. Par. I. Cap. XII. n. i» pag. 36., & alibi. Vid.
adnot. feq. (2) Vid. articulum noftrum in Ephem. Florent, eiud. anni n. 45.
coi. 71 5., & feqq. Vid. Opuf- eulum, cui titulus: Difcorfo deW Abate
Gaetano MarinifopratreCandelabriacquijlatidalS.P. demente XIV- b> ftfa *77*•
PreJF° Aaoftino Piz- zorno. Tab. III. aeneae. Ex Diarii Pifani Tom. III. art.
V. pag. 177. (3) Ex V. 3 quae exftabant y IV. in Mufeum Clementinum Vaticanum
adfportata, quintum fuo loco reli&um ed:. De his multi Romanarum anti¬
quitatum Scriptores verba faciunt. (4) De hoc Sarcophago s qui a pluribus
editus, & illuftratus effc, vide Ephemerides Romanas ann. 1775. n. III.
pag. 17. (5) Vid. Epiftolam noftram in Ephem. Flor, an¬ ni 1771- n* 45h coi.
712.3 & feq. De hac Urna verba fecimus etiam in hoc I. Vol. ClalT. X. ad¬
not. ad Tab. CII. pag. 107.3 & Vol. III. ClalT. V.Tab.XXIV.Fig.I.pag.5-7.
la corum fculpturis in/ignito 3 in quibus fymbolice fa- cra quaedam revelatae
Religionis mvfieria adum¬ brantur 3 & Clementi XIV. P. O. M., ac fapien-
tijfimo ad incrementum Mufei Pontificii Vaticani ab Emerico Bologninio Ferufiae,
e?* Vmbriae Praefide humillime oblato Coniecturae loh. Bapt. FaJJerii Pifaur.
Regiae Academiae Londinenfis 3 Infii- tuti Bononienfis Socii. Romae 1773. apud
Benedi- Bum Francefium. (7) Matthaeiana monumenta ad Mufeum Vatica¬ num
ornandum comparata innuimus in EpiHolae no- ftrae articulo, inferto Ephem.
Flor, anni 1771.0.1- col. 6. Singula vero in his Voluminibus defignavi. mus.
Vide ergo Signum Cereris fedentis Tom. I. ClalT. II. Tab. Tab. XXXVI. pag. 21.
(8) Vid. ibid. Tab. XXX. pag. 24., & feq., & apud Maffeium Tab. CVIII.
coi. 100. (9) Ibid. ClalT. III. Tab. XXXIV. pag. 28. (10) Ibid. Tab. XL. pag. 32.
(11) Ibid. ClalT. IV. Tab. TX. pag. 53., apud Maffeium Tab. CIX. pag. 202., 8c
apud Montfau- conium Antiq. explic. Tom. IV. Par. I. Tab. XIV. n. 2. pag. 2.
(12)Ibid.ClalT.V.Tab.LXII.pag.$6.3 & apud Maffeium Tab. CV1I. pag. 99. (6)
Vid. eamdem Epiftolam noftram in cit. Ephem.
Flor.n.47.coi.741.3&feqq.3tumea,quae (13)Ibid.ClalT.VIII.Tab.LXXVII.pag.77*
innuimus Tom. III. horum Monum. ClalT. II. Tab. XII. Fig. II. pag. 22. Exftant
etiam De marmoreo fepulcrali Cinerario Ferufiae effoffo3 arcanis ethni¬ (14) Ibid.
Tab. LXXXV. pag. 84. (15) Ibid. Tab. XCIII. pag. 92., & apud Maf¬ feium
Tab. CIV. pag. 96. Notae funt Ficoronii ex- po« XL la (0, ac
truncus militis gladio cincti, galeamque pede dex- tero prementis W; tum
Protomae Iovis Serapidis G) Sile¬ ni (P, Plotinae W, & L. Veri(6); infuper
aenea capita Ne¬ ronis (7), & Treboniam Cg), lymplegma vel Ariae, &
Poeti, vel Portiae, & Bruti (9), St animalium collectioni accenfiti Aries
arae impolitus P°), Leo, St Aquila PO; praeterea ba- fes pompam Iliacam
referentes ('V, & anaglypha Coniuges IfidifacrilicantesC'S), VeturiamalloquentemCoriolanumP4),
natale Romuli, St Remi C‘j), & Nymphas fontium praeli- des (l6) exhibentia;
ac tandem Cippi, Urnae, & Infcriptio- nes bene multae, quas fuis locis
delignare fategimus C17). Cetera vero aliter diftracta, & praefertim Marci
Aur. Anto¬ nini praetextati Protomen a Gavino Hamiltonio Anglo comparatam (,s)
haud perfequi vacat, quum iam tantus Vatica¬ narum divitiarum fplendor in fui
nos modo rapuerit admira¬ tionem. Quare li tantae rerum antiquarum fupcllectili
ibi¬ demcoadtaeaddasceleberrima,iamtumibidemadfervata,
marmoreaSignaiacentiaCleopatrae,liveNymphaeadfon¬ tem dormientis ('A, Nili
C*°), St Tiberis amnium, tum cete- pofhdationes adverbiis Maffeium 3 &
Montfauco- (ii) Leo3& Aquila defiderantur in noltra hac
nium,quodhocSignumHadrianotribuerint. collectione.
(1)Ibid.Claff.X.Tab.XCIX.pag.100.3& (12)Tom.III.Claff.IV.Tab.XXV.Fig.I.
apudSponiumMifcell.erud.antiq.Se6t.IX.n.1. (2) Nunc reftauratur 3 ut in
integrum Signum evadat. Quare mirum videri non debet apud nos defiderari. (3)
Tom. II. Claff. I. Tab. I. Fig. II. pag. 3. (4) Ibid. Tab. VI. Fig. II. pag. 8.
(5) Ibid. ClafT. III. Tab. XV. Fig. II. pag. 34. (6) Ibid. Tab. XXIV. Fig. I.
pag. 40. (7) Ibid. Tab. XIII. Fig. II. pag. 32. (8) Ibid. Tab. XXXI. Fig. I.
pag. 46. Vid. Epi- ftolae noltrae fragmentum in Ephem. Flor. 1771. n. 52. coi.
822. (9) Ibid. Claff. V. Tab. XXXIV. Fig. I. pag.48. (10) Ibid. ClafT. X. Tab.
LXIX. pag. 92., & apudMontfauconiumAntiq.explic.Tom.II.Lib. III. Cap. I. n.
2. pag. 49. Tab. IX. n. 1. &II.pag.44. (13) Ibid. Tab. XXIV. pag. 41. (14)
Ibid. Claff.VII. Tab.XXXVII.Fig.I. pag.7 r (15) Ibid. Tab. ead. Fig. II. pag.
73* f 16} Ibid. Claff.X.SeCt.I. Tab.LIII. Fig.I.pag.95*. (18) Vid. Tom. II.
Claff. III. Tab. XXII. Fig. I. pag. 38. (19)Vid.Ioh.WinckelmanniumTraCtatuprac-
liminariadMonumentaantiquaanccdotaCap.IV. pag. XC. Vol. I. (20) Vid. Epiftolam
noltramin Ephemeridibus Jit- ter.Florent,anni1775".n.2.coi.22.3&feqq.,
ubi de huius Statuae reltauratione 3 & lingua per¬ peram crocodilo
affi£ta. XLI ra longe praeclariflima Apollinis Pythii, Laocoontis,
Anti¬ noi, Herculis cum Aiace (0, Antinoi, & Veneris, truncus Herculeus,
quod opus erat Apollonii Athenienfis, & Michae-
lisAngeliBonarotiifpedaculum,actandemvasingenspor¬ phyreticum,larvasfcenicas, arasfacrificiales
ab Agrippae Pantheo avedas, aliaque nonnulla, nae tu dixeris, erudite Ledor,
praeftantiora quaeque artis miracula heic Graecae, & Roma¬ nae
magnificentiae Genio templum parafTe, fibique aeternam afieruifle
incolumitatem. Sed quid non infuper Iperandum
aPIOVI.Pont.Opt.Max.,cuiusprovidentianuncregimur, & cuius dudu,
confilioque, dum Aerario Pontificio praeeflet,
tantumopusinchoatum,acperfectumeft?Ipfeenimlibera¬ lium artium amore incenfus
iam tantum opus amplificandum regio plane animo, & magnifico fumptu
fufcepit, iamque multa plane egregia antiquitatis cimelia, quae in lucem aufpi-
cato nunc e terrae finu prodierunt, fedulo conquilivit, atque
paravit,quibusauguftumhocMufarumdomiciliumprodigni¬ tate exornet. Huc nimirum
confluet Fauni Signum celeberri¬ mum ex rubro Aegyptio marmore, Hermae
Bacchandum, & Herculis lane elaboratiflimi, Antifthenis alter haud
vulgaris, tumDomitiaeAuguftaenonobviaProtome,olimComitis lofephi Fedii
deliciae, ac peritorum omnium admiratio. Huc item migrabit Mularum chorus,
&. Graeciae fapientum Her¬ mae, ipforum nominibus*, & lentendis
infcripti, aliique ve¬ terum tum Poetarum, tum Philofophorum plane fimiles,
quos Tiburtinus ager nuper eduxit!2). Huc etiam procedet Alpafiae Herma alter
hoc iplo anno detedus, aliaque e Ca-
ftrinoviruderibusfimulerumpentiamonumentaG).Hucle reci- CO quae ex
Winckelmannio adnotavimus mus Tom. II. ClafT. VII. Tab. LII.Fig. I. pag. 69.
& ad Tom. II. CiaIT. III. Tab. XXV. Fig. I. pag. (3) Vide Epiftolas
Caietani Torracae Centum- 41.,&adTom.III.Claff.V.Tab.XXXI.pag.60.
cellenfisMediciclariflimirelatasinTom.III.An- (2)VideAnthologiamRomanamTom.I.num.
thologiaeRomanaen.XXXIII.p.257.3n.XXXVIIf. XXXIV. pag. 269.3 quaeque nos etiam
adnotavi- pag. 297.3 n. XLI. pag. J27., & n. LII. pag. 409. f Vid.
xlii recipient & vas ex bafalte clegantiiTimum in Quirinali effof-
fum, & alterum ex alabaftro pretiofiffimum ad Augufti Mau- foleum recens
erutum, ceterique ibidem detecti & Livillae Germanici Caefaris filiae (0,
& Tiberii Caefaris Drufi Cae¬ laris filii (*), & Caii Caefaris.,
Tiberiique Caefaris, tum & alterius anonymi, Germanici Caelaris filiorum
emortuales ti¬ tuli, & Auguftae domus nova indubia monumenta G). Huc
infuper adducentur quatuor lymplegmata, Herculis facinora exprimentia, nempe
Geryonem Hilpaniae Regem tricorpo- reum ab ipfo bello fuperatum, Diomedem
Thracem quadrigis devictum, tripodem ab Apollinis Sacerdotis manibus vi ere¬
ptum,ScCerberumcanemtricipitemtriplicicatenaadfuperos retractum, quae nimirum
inter Oftiae rudera non ita pridem reperta funt. Huc tandem accedet &
Protome Perufina Anto¬ nini Caracallae W, & altera Lavinatium Sabinae
Hadriani uxo¬ ris, & Anaglyphum bubulum Ocriculanum, & Picena Falarien-
fa Monumenta W, & Mufivum Tulculanum Medulae caput referens (*), & alia
fexcenta tum ad Hortos Carpentes, tum in Quirinali, tum ad Curiam Innocentianam,
tum alibi de¬ tecta,quibusenarrandisdiemperderem.Necdeeruntaltero aeneorum
monumentorum Mufco perrara, atque felecta ci-
melia,praefertimqueeffolfaexactoannoadAventinumClu- nienfis Senatus confulti
aenea tabula, Graecaque numifinata anecdota Tigianis Armeniae Regis cum
Eratonis fororis vul¬ tu V), Octaviae Augufii fororis cum anadyomenes Veneris
ty- Vid. 8c quae nos adnotavimus noftro Tom. III. ClalT. X. Sefl. XIII. n. 66.
pag. 171. (0 Vide Epift. anonymatn CI. Viri Ioh. Ludov. Blanconii} Saxonici
Ele&oris a confiliis, &. Romae Oratoris laud. Tom. III. Anthol. Rom. n.
LI. p. 401. (2)Vid.EpiftolamalteramciufdemTom.IV. Anthol. Rom. n. I. pag. 2.
(S) Vid. Epift. tertiam eiufdem Joc. cit. n.II. p.9. (4) Vid. quae nos
adnotavimus Tom. II. horum Monum. ClalT. III. Tab. XXX. Fig. II. pag. 46. po
(S) Vide Opufculum 3cui titulus:Suile Citta Pi¬ cene Falera 3 e Tignio
Dijjertazione epijlolare delP Abute G.ufeppe Colucci ai Signori di Falerone.
Fermo 1777. in S. /w*Cap.IV.pag.jS. (7) Vid. Tacitum Annal. Lib. II. initio.
Part anter. legitur: BAdAETC. BAC1AE.QN. TITPANHC averfa vero parte: EPATft.
BACIAEI2C. T/TPA- NOT.AaEA3>H. XLIII po CO, Silani Syriae
Praefidis poft Quirinum, ubi infcripta an¬ ni nota novum ad coniebtandum aerae
Chriftianae principium lumen afferret (2), Titi,& Domitiani cum peculiari
Laodicen- fium epocha, Philippi lenioris, iuniorifque in Stecloris urbe
pcrcufla, cetera huiulmodi Graecis Coloniis accenlenda. Sed quo me abripit
tantarum lautitiarum ingens prorfus, ac mira
congeries?Quapropteriamediverticuloinviam. XII1. Singula hulquedum expofiuimus,
quae ad Hortos Caelimontanos Matthaeiorum pertinent; nec quidem de Hor¬ tis
Palatinis, quae ad ipfos olirn fpefitabant, ac pollea Spa-
diae,deinMagnaniaegentisiuribuscefferunt,iuvatquid¬
quamattingereG).NuncverodeeorumAedibusurbanis verba nobis facienda funt. Huius
gentis maiores avitas aedes habuerunt in regione Tranfliberina ad pontem
Caeftium, qui Infulam Lycaoniam Ianiculo iungit, quae adhuc exftant, qui-
bulquefidemconciliantgentilitiafiemmatahincin.deappidta,
&iplapontiscufiodiaMatthaeiisDucibusetiamnumconcredi¬ ta, Pontificia Sedevacante.
Multisinlcriptionibusornatas fiuiIIehasaedes,patetpraelertimexGruterio(4),RcinefioG),
Seldenio G), & Kirchmannio(?), qui earum nonnullas, ad¬ dita huius loci
defignatione, adducunt. Excitatis aedibus ur¬ banis, Tranftiberinas deferuiffe
verofimile eft. Certe quidem tam laxo lolo potiti funt, ut Infulam condiderint,
quae ex variis, iifque amplis, & elegantibus domibus coalefcit. De iis
fingillatim dicemus, at primum vetera aedificia, quae hunc
locumtenuerunt,ceteralqueviciniasperpendemus.Circus Flaminius quidem in regione
Urbis nona litus praelertim de¬ (0 Cum epigraphe OkTAOTIA; & averfa par¬ te
KftlnN. (2) Cum epigraphe: ANTIOXEliN.Enr. SIAA- NOY. AM. (3) Venuti Roma
moderna Tom. 11. pag. 395. (4) Iufcript. Romati. pag. 22. n. 3. > Sc 6.3
pag. fieri- 31. n. 11., pag. 32. n. 12., & pag. 86. n.4., 8c 5. (5)
Syntagma Infer, antiquar. Cl. IX. n. 67. pag. SII'j & Claff.XI.n. 105.,
&feqq.pag.645; (6) De Diis Syris Syntagm. II. Cap. I. pag. 220. (7) De
funeribus Romanor. Lib. III. pag. 355'. edit. Lugd. Batav. apud Hackios 1672.
f2 XLIV fcribendus venit, quem, fi Feftum, Liviique epitomato- rem
(') audiamus, exftruxit Flaminius Cenfor, qui etiam viam Flaminiam Roma
Ariminum ufque, five potius ad Rubico¬ nem amnem munivit, vel Flaminius alter
antiquior, Plutar- chotefteC),quipopuloRomanocampumlegavitprocer¬ taminibus
equeftribus obeundis. Celebratos hoc loco etiam ludos Tauricos Diis inferis
facros, vel ludos Apollinares poli: Cannenfem cladem inftitutos vulgo fertur C),
ac nundinas quinetiam habitas teftatur Tullius (4). Diu huius Circi reli¬ quiae
confervatae funt, & multae adhuc exftant. Flabetur Bulla Caeleftini III.
Rom. Pont., qua enumerantur, & con¬ firmantur bona Ecclcfiarum Sanctae
Mariae Domnae Roiae, &. S. Laurentii in Caltello aureo, quaeque data elt
Laterani annocidcxck.a.d.IV.nonasOctobrisindictioneX.,atque ibidem ita
deferibuntur Circi Flaminii veftigia tunc exfilten- tia: Idem Cajiellum aureum
cum utilitatibus fuis, videlicet parietibus altis, & antiquis in circuitu
pojitis, cum domibus, ocaminatis,eifdemqueparietibusdeforisundiquecopulatis-.
Hortum, qui ejl mxta idem Cajiellum cum utilibus fuis, & fuperioribus
Criptarum; Populum foras portam iam difti Ca- ficlli a parte Campitelli, &
regionis Sanfti Angeli ufque in
Burgum61.Cajiellumenimaureummedioaevo,&Pala¬ tium quoque dictus fuit Circus
Flaminius, ut cetera etiam vetcia ingentia aedificia a rudioribus infimae
latinitatis feri- ptonbus vocata laepe fuerunt. Hinc Ecclefiae Sanfti Lau¬
rentii, quae in eius ambitu comprehendebatur, nomen in ajidlo aureo, tum etiam
in Palatinis, corrupte vero Palla- Clm\ ac tandem TM claifura adhaefit, ut
inter alios animad¬ vertit Ioh. Vignolius (s). Hoc etiam adnotavit Iacobus Gri-
mal- (0 Lib. X. (2) Froblem. 6j. ad A“k• '4' Lib' ' (S) Liv. XXX. 38. Adnot. 5.
ad S. Leonis III. Tom. II. Libri Pontificalis. XLV maldiusO), qui
agens de Monafterio S. Laurentii in Palati¬ nis, dicebatur, inquit, in
Palatinis propter Circum (Flami¬ nium), quemignarePalatiumvocabant.ItaCircumNero¬
nisPalatiumappellant,&MontemS.Alicbaelishacdecauf- fa Palatiolum. De
Ecclelia S. Michaelis in Palatiolo vide FTancifcum M.TurrigiumC)latiusdifferentem.Etiamapud
Anaftafium Bibliothecarium in vita S. Petri Palatium Nero- nianum memoratur;
quemadmodum in Codice Vaticano <h), ubi quaedam ad Balilicam Sanctorum XII.
Apoltolorum fpe- ctantia habentur, Forum Traianum Traiani Palatium dici¬ tur,
ac alibi Palatium Antonianum dictae etiam funt Ther¬ mae Caracallae. Quare
Templum noftrum S. Lurentii in Pa¬ latinis, ac monafterium noviter reltauravit
Hadrianus I., & coniunxitcumaliomonafterioS.Stephaniiuxtaipfumpofi- to,
& in Baganda dicto, ibique Monachos ad pfallendum in
tituloSanbtiMarciordinavit(4).Necaliudinfuper,quam noftrum putandum forte eft
Templum S. Laurentii Palatini, cuius mentio eft in Bulla S. Leonis IX. (V,
licet Bullarii Vaticani editores V) ad S. Laurentii in Pifcibus revocaverint,
ac de eo dubius haeferit Eques Francifcus Victorius, dum IX. Templa S.
Laurentio facra in Urbe recenferetO. Heic etiam fitum erat Templum S. Mariae
Domnae Rofae, cuius mentio fupra occurrit, & habetur infuper in Ordine
Romano, quod¬ que cum ceteris in conftrubtione Monafterii S. Catharinae de
Funariis C) dirutum eft. Andreas Fulvius (?) aetate fua, Clemente fcilicet VII.
regnante, exftitiffe etiamnum huius Circi formam, & veterum fedilium figna
tradit, atque in (0 In Lib. Mf. de Canonicis Bajtlicae S. Petri Cap. II. (2)
Bella Cbiefa di S. Micbele Arcbangelo} e di San Magno Cap. VII. pag. 20. (3)
Sub n. 5560. (4) Vid. Florav. Martinellium Roma ex etbnica eius faera pag. 364.
(5) Tom. I. Bullar. Baftl. Vatican. pag. 26. (6) Ibid. adnot. (c). (7) Differt.
Pbilolog. pag. 85. (8) Ibid. pag. 371., & 374. ($0 Vrbis antiquit. Vid.
infer, p. XLVIII. adn. 2. XLVI eius cavea erectum laudatum Templum
S. Catharinae cogno¬ mento dc Funariis, quod ibi ob loci commoditatem, & a-
reae longitudinem funes intorqueri confueverint. Eiufdem Circi formam faeculo
XVI. depictam, quam tamen multa ex
parteingeniumfupplcverit,affertMontfauconius(0exLau¬ ro. 1orro iuxta Fulvii,
aliorumque fententiam Circi latitu¬ do fpatium occupavit, quod inter officinas,
five apothecas oblcuras, forumque Iudaeorum eft intcriectum. Huiufmodi quidem
apothecae olirn iunctae erant non Circo folum Fla¬ minio, fed aliis etiam
Circis. Numularium, nummorum fci- licet permutatorem,veleorumdemaeffimatorem, dcCirco
FlaminiohabesinveteriinferiptioneaVignolioadductaW}
VitriofficinaminibietiamfuilfedocetMartialis(?)dicens: Accipe dc Circo pocula
Flaminio. Habetur Pomarius dc Circo Alaximo ante pulvinar apud Rei-
nefiumO,&Sponium0),quinempeinternegotiantesmi¬ nutos, & faTOTTCAas
olera vendebat, non autem viridaria cole¬ bat, ut placuit Sponio. Siquidem
faepe occurrit in veterum inferiptionibus delignatus locus, ubi opifices
officinas fuas aperiebant, ut in noftra Infcriptionum fylloge obfervaVi- mus V).
Ad eas autem officinas, cum Card. Dominicus Gy- mnafius exacto faeculo Templum
S. Luciae a fundamentis una cum adiunctis aedibus, & monafferio renovaret,
efFoffae funt ingentes columnarum fpirae, & fcapi e Tiburtino lapide, ac
quadratae eximiae magnitudinis. Quare lutnmus Circus in he-
micyclumcurvabaturadplateamMarganamvulgodictamnon longe a Capitolio, ac
flectebatur ad Aedem S. Angeli in Fo¬ ro Pifcario; eius autem ima pars, ubi
Circi carceres habe- (0 exf/ic. Tom. III. Par. II. Lib. III. Cip. III. Tab.
CLIX. pag. 27S. (2) Infcript.felecl.pag.141.poftDiflertat.de Columna I/np.
Antonini Pii. ($) Epigraru. 75. Lib. XII. ban- (4) Syntagm. Infcript. antiq.
CluIT. XI. n. 7^. C5) MifcelL erud. antiq. Se61. VI. pag. 230. (6) Tom. III.
ClaflT. X. Secl. VI. n. 11. pag. 119.3 & leq. XLVII bantur,
pertingebat ad Aedem S. Nicolai ad Calcarias didi, & ad palatium Ducum
Caefariniorum. Certe quidem Templum Apollinis CO,quodaliiMulis,velHerculiCudodi(aerumdi¬
xerunt, Circo Flaminio adhaerebat; nec aliud fpatium obti- nuifle, quam quod
nunc tenet Aedes S. Nicolai, & adiun- 6lum Collegium Clericorum Rcg. de
Somafcha, docent ve- fligia fphaericae parietis, cui adneduntur Ionicae
columnae incendio corruptae, & ex veteri marmorato concinne refe- dae,
quorum lingula adhuc in Cavaedio eiuldem Collegii confpicua lunt. De Aede
altera Neptuno dicata, quae erat 'in Circo Flaminio, & cuius Aedituus erat
Abafcantius Aug. Lib. (2), cum nullae fint reliquiae praeter antiquae
inlcriptio- nismemoriam,haudpraedatpluribusdilferere.Ceterum condat, in ea
fuiffie multa tum Signa, tum Anaglypha, quq- rum nonnulla Neptunum, Thetim,
Achillem, Nymphafque marinas delphinis vedas referebant, & tamquam Scopae
o- pera praedicabantur (s). Anaglypha quidem nonnulla affixa etiam nunc funt
parietibus Aedium Matthaeiarum, Nymphas marinas d), & Pelei, & Thetidis
nuptias (s) exprimentia, quae forte ad hoc Templum pertinuerunt, & in hac
vicinia erui potuerunt. In iplo Circo Flaminio exditide etiam Si¬ gnum Achillis,
Cephidbdori opus, tradit Plinius (6): verum hoc, ceteraque huiulmodi vel
abfumplit temporum iniuria, veladhuccelatinvidatellus.QuidmemoreminfuperCirco
FlaminiopropinquasAedesMartis,Vulcani,Bellonae,Ca- doris, Pietatis, ipdufque
Iovis Statoris, quas Onuphrius Pan-
vinius(7)dudiolerecenfuit?QuapropterdedgnataCirciFla¬ (1) Le antichita Romane 3
opera di Glo. Rati- Jla Piraneft; Roma 1756. Tom. I. n. 94. pag. ig. (2)
Infcriptionem} quae exdabat in pratis Quin-
£tiisinvineaquadam3refertOnuphriusPanvi- nius de Ludis Circenfibus Cap. XVIII.
3 ubi de Circo Flaminio, pag. igg. edit. Parif. ann. 1601. & ex eo etiam
ceteri. * minii (3) Plin. JVatural. Hift. Lib. XXXVI. Cap. V. (4) Vid. Tom.
III. Claffi II. Tab. XII. Fig. I. pag. 21., & Tab. ead. Fig. II. pag. 22.
(5) Ibid.Claff.VIII.Tab.XXXII. pag.61. 3 & Tab. XXXIII. pag. 64. (6) Loc.
cit. (7) Loc. cit. XLVIII minii longitudine, a platea nempe Margana
ad Aedes Cac- farinias, ccterifque eidem adiacentibus aedificiis, apparet Ae¬
des Matthaeianas id loci nunc tenere, quod media fere pars Circi olim tenere
debuerat. Tertis quidem cft Pyrrhus Ligo- rius (0, atque etiam laudatus
Panvinius (2), paucos annos an¬ te harum Aedium conrtructionem, multam Circi
partem ad¬ huc integram exftitiffe, praefertim eo loci, ubi etiamnum e-
rigiturdomusaLudovicoMatthaeioexcitata,dequainfe¬
riuslatiusdicendumerit;cumibidem,utroqueetiamferipto- re afferente, multa
marmora effoffa fuerint, ac potiflimum Anaglyphum Circenfibus ludis infignitum,
quod non aliud, quam noftrum fuo loco adduclum (s), exiftimamus. Nec il¬
ludpraetereunduminCavaedioMatthaeianaenortraedomus parietibus affixos cerni
quatuor arcus femicirculares, foliis, rolifque diftinctos, quorum duo integri
adhuc funt, duo vero dimidia fere parte fccti (fragmentis hinc inde fparfis)
quof- que fupra Circi Flaminii carccrum fores olim exftitifie exifti- mat CO
Librode’CerchirComtnciavaqueflo mus Marganiae,ubiinhemicycliformamdefne¬ (il Flaminio)
dalla piazza de' Morgani3 e finiva appunto al fonte di Calcaram, abbracciando
tut- tclecafede'Mattel3eflendendofifinoalianuo- *i'a •via Capitolina 3
ripigliando in tutto qtiel giro j/joltealtrecafe. Daqueflolatode'MattelilCir¬
copoebiannifonoeraingranparte inpiedi;la parte piu intiera flava nel fto della
cafa di Lo- dovicoMattel3ilqualehacavatounaquantita di tr avertini dei Circo in
qttel luogo 3 e tr ovatovi tPali i Ce ui fregio in u» ran pt ina- gliato de'
putti 3 che fopra de' carri facevano i giuocbi Circenft, e nella cantitia
trovaronfi altri travertim 3 e videft alquauto dei canale 3 per do- ve pajfava
/'aequa, la quale ora chiamap it fon¬ te di Calcaram, forfe per la calce, che
hi fi macerava. (z) Loc. cit. pag. 129: Porta Carmentalis, fecundo murorum
Vrbis ambita, quos T. Tatias eam Romulo regnans exfiruxit, radicibus Capitolii
condita fuit, a qua llaud procul Circus Flaminius erat, ad eam partem vergens,
ubi nunc efi Vrbs Roma. Cusus longitudo protendebatur ab area do¬ bat 3 uf'que
ad novam viam Capitolinam 3 ubi car¬ ceres>& XIII. ojlia erant: latitudo
vero fuit ab AedibusLudoviciMatthaeittfqueadCalcariaefon- tern, ubi efl ojfctna
tin:loris ambiens eo circuitu apothecasobfcurasMatthaeiorum3&multasdiver-
forumprivatasdomus. CuiusfundamentiseTibur¬
tinolapide,quaeMatthaeiorum,&vicinisaedi¬
busfuppofitafunt,antealiquotanniserutis3mar¬ morea tabula pueros currilia
ludrica agitantes in- cifos continens reperta fuit. Adhuc vero exflat an¬
tiquus Circi euripus limpidijftmus tincioris ofpci- nam praeterfluens 3 qui
fons Calcariae a vicinis (quae ibidem coquebantur calcis fornacibus ) di¬ citur.
Eius Circi arena lateribus minutijpmis tranf- verfe flratis opus tefjellatum
fuprapofitum habebat. Vide&Fulvium l.ib.IV. cap.deCircoFlaminio, ubi ait:
Longitudo eius Circi ab Aedibus nunc D- Petri Margani3 (snS.SalvatoreinPenjiliufque
adAedesD.LudoviciMatthaeiiuxtaCalcara- num, ubi caput Circi. (3) Tom. III.
CiaIT. VIII. Tab. XLVII. Fig. II pag. 87. XLIX mat Carolus
Blanconius liberalium artium cultor eximius, idemque fcientiffimus, & Ludovici
Saxonicae Aulae a confiliis, & komae Oratoris, a quo Circi Caracallae
formam, & univerfam illuftrationem praeflolamur, meritiflimus frater; ratus
fcilicet hoc loci, vel non longe effodi eofdem iam potuif fe, & dein fedem
hanc, atque ufum nactos fuiffe. Quae in- fuper ad hunc Circum flmul pertineat,
reflat adhuc decur¬ rens aquae vena, quae habetur in crypta vinaria cuiufdam
domus Matthaeianis Aedibus propinquae (0. Abundare enim aquae copia Circum opus
erat, fi XXXVI. crocodilorum lpeftaculum ibidem edidit Auguflus (fi. Nec nifi
ad Cir¬ cumfpeffaffeverofimileeflaliquamquoqueaquaepartem, quae etiamnum
decurrit iuxta proximam, cui ab ulmo no¬ men efl, cloacam. XIV. Iam monuimus
Matthaeiorum Infulam in plures difpefci Aedes, quae tamen ad unam, eamdemque
gentem olim pertinebant. Antiquiores eae effe videntur, quae me¬ ridionalem
plagam, & plateam tefludinum, quod eae fontis crateri infculptae,
refpiciunt; in qua nimirum aquae Salo- niae, Gregorio XIII. Romano Pontifice,
in Urbem Mutii Matthaeiicurisdedubtaefonscernitur, quatuorvafibus,con-
chilioruminflar,exAfricanomarmore,totidemqueaeneis delphinorum fimulacris a
Thadaeo Landinio Florentino an¬ nocioidlxxxv.
conflatisinfigniterornatus(fi.Haequidem AedesaubloremhabentIacobum Matthaeium,quiproiifdem
condendis architectonica opera ufius efl Nanni Bigii, earutn- que parietes
diftingui voluit Thadaei Zuccherii pibturis, qui¬
busFuriiCamillifacinoraexprimebantur,licetquaeinfron¬ te erant, obdubta calce
paucis ab hinc annis inepte oblittera¬ tae (1)Vid.VenutiumanticaRomaPar.II.Cap.
pograpbia Lib.VII.pag.161.ater.edit.Venet. III. pag. 87. 1588., & Andream
Fulvium Anticbita di Roma (2) Dio Lib. LV. Lib. V. pag. g21. a ter. Venezia
1588. ($) Vid. Barthol. Marlianium Vrhis Romae To- L tae iam
fuerint, iis, quae funt ad latus, dumtaxat referva- tis. Duo etiam interiora
cubicula eiufdem pennicillo exorna¬ ta infuper fuerunt. Ante Templum SS.
Valentino, & Seba- ftiano dicatum furgunt Aedes, quas Iacobi Barotii a
Vignola opera condidit LVD.MATTHAEIVS. PETR ANT. F1LIVS. LVD. NEPOS ut supra
fores flat epigraphe conditorem ciens, quaeque ad Matthaeios Paganicae Duces
iam fpeclabant, multifque ve¬ terum monumentis inftru&ae erant. Nec alia,
quam quae heic fervabantur Signa, cenfenda funt, quae fub Caefaris AuguftiO),
& Aurelii Caefaris (2) nomine in Aedibus Ludovi-
ciMatthaeiihaberiait,acetiamediditlacobusMarcuccius; quorum alterum habetur
etiam inter Icones a Heronymo Fran- zinio editas (A. Hifce Aedibus aliae
adhaerent prope ulmi cloa¬ cam, quae Bartholomaeum Brecciolium architectum
agnofcunt. Hincfequunturaliaea LudovicoMatthaeio(fi PhilippoTi¬ tio credimus )
aedificatae anno cididlxiv. ante Divae Luciae
Templum,fedabAlexandroMatthaeioexftructac,fiearum foribus infcriptum lemma
attendamus, ut revera attendi de¬ bet (A, Bartholomaeo Amannatio, ut nonnullis
placet, vel Claudio Lippio, ut alii cenfent, formam aedificii praebente. Earum
interiora cubicula Francifci Caftcllii picturis diitin- guuntur. Has vero nunc
tenent Caietani Duces, qui fibi iplis compararunt, quemadmodum & Nigronios,
& Duratios, & Serbellonios dominos pro divertis temporibus eaedem an¬
tea agnoverant W. (0 Antiquar. Statuar. Vrbis Romae Libri IIT. Romae 1623. j
edidit lacobus Marchuccius in fol. Lib. III. Tab. 93. (2) Ibid. Tab. 94. (3)
Icones Statuar, antiquar. Vrbis Romae Hie- ronymi Franzini Bibliopolae ad*
Signum Fontis 0- pera. Romae 15S9. in 12. XV. Ve- (4) Q uare h°c Joco
corre&a volumus} quae a Titio decepti temere diximus Tom. III. CIa(T. VIII.
Tab. XLVII. Fig. I. pag. 87. (5) Vid. Defcrizione delle pitture, fculture 3 e
arcbitetture efpojle al pubblico in Roma, opera co- minciata dalPAbate Filippo
Titi &c. pag. 86. fino a 90.5 tum etiam Itinerario ijlruttiuo divifoinot-
to LI XV. Verum non id nos nunc agimus, ut has veluti appendices
Aedium Matthaeiarum defcribamus; Potiori namque iure ad fe nos avocant, quae R
magnificentiores, & fplendidiores firnt iuxta dextrum latus Ecclefiae,
& Mo- naflerii S. Catharinae de Funariis, quaeque Afdrubalem Mat- thaeium
Cyriaci fratrem auCtorem habent. Id docet infcri- ptio in cavaedio exfiftens,
quae ita fe habet: ASDRVBAL.MATTHAEIVS. MARCHIO.IOVII VETERVM.SIGNIS.TAMQVAM.SPOLIIS
EX. ANTIQVITATE.OMNIVM.VICTRICE.DETRACTIS DOMVM. ORNAVIT. ET. PRISCAE. VIRTVTIS.
INCITAM EN TVM POSTERIS.RELIQVIT. ANNO.DOMINI.cioiacxvi Carolus Madernius architectonicum
opus rexit, & interiora cubiculafuispennicillisexornarunt Francifcus Albanius,
Iohannes Lanfranchius, & Dominicus Zampierius. Pictae vero tabulae etiam
exftant hinc inde difpofitae, quae Cafparis Caelii, Chriftophori Roncallii,
Iacobi Trigae, Caroli Sara- cenii, Hieronymi Mutianii, Michaelis Angeli
Morigii, Gui- donis Renii, Ioh. Francifci Barbierii, Petri Paulli Gobbii, Petri
Berettinii, Michaelis Angeli Bonarotii, Valentini Galli, aliorumque opera
praedicantur. Alt nulla res & celebriores, &praeftantioresfecithas Aedes,quamveterummonumen¬
torum undique difperforum praeclara congeries. In cavae¬ dionamque, fcalis,acperiltylioligna,protomae,anagly¬
pha, cippi, aliaque huiufmodi occurrunt, quae fummatim innuere fat erit.
Cavaedium habet praefertim Signa Apolli¬ nis Sagittarii, & Herculis, tum
Romanorum Impp. Iulii Cae-
faris,Caligulae,Claudii,Neronis,Domitiani,aliaqueGla¬ diatorum. Inter Anaglypha
fpectandum praecipue venit fa- crificium Capitolinum, & Militum
Praetorianorum feditio. Hinc to Jiazioni, o olornate per ritrovare con facilita
tna &c. di Giufeppe Vafi n. 195. pag. 198. tutte le anticbe 3 e moderne
magnificenze di Ro- §2 LII Hinc fi exitum quaeras verfus Divae
Catharinae Templum, habebis Nymphas marinas a delphinis, ac tritonibus ve-
btas, Bacchi, & Ariadnae nuptias, & Mulas defundo Poe¬ tae famulantes,
quas marmore infculptas cernas. Si vero me¬ ridiem verfus egredi lubeat,
occurrent Amores Deorum vi¬ ctores, Polyphemus, Se Galathea, Sphinx fcopulo
iniidens, & Oedipum aenigma folventem aufcultans (0, tum Bacchi, &
Herculis uterque thronus marmoreis tabulis expreffi. Si ad
porticumretrocedas,&ibidemconditas,&DeumMithram, & Hylam a Nymphis
raptum anaglyptico opere exhiberi in¬ tueberis. Si fcalas albendas, Bacchans
occurret, dein Fortu¬ na, tum Iuppiter Signis expreffi; hinc parietes ornatos
con- fpicies Anaglyphis referentibus utramque venationem Com¬ modi, &
Philippi Impp., ac Pelei, & Thetidis nuptias; ac tandem ipfos fcalarum
gradus identidem di/tinctos offendes pulvinaribus, quae quaternario numero
inventa ad Curiam Hoftiliam & fuperius, & fuo loco monuimus. lam ventum
ad periftylium, quod aulam refpicit, atque heic pedem figens fuper aulae poftes
cerne viri incogniti Protomem, tum leor- fim Aefculapii Signum ad laevam, quod
medium habent co¬ lumnaeduaemarmoreae,quibusCybelisduoSigillafuper- ftant, tum
aliae fimiles e regione aditant duo pariter Cybelis Sigillafuftinentes.Hincduaealiaecolumnaeadpoftesdif-
pofitae, totidemque contra itantes capitulis caniftriformibus initructae; tum
iacens inferne ante Aefculapii Signum Sar¬ cophagus vindemiali opere
infignitus, ac muris appicta Ana- glypha, quae referunt tabulam Heliacam,
Priami occifionem, & lacrificium taurile lovi, & quatuor anni
tempeftates. Ex hoc loco Ipectare licet cavaedii parietibus inhaerentia hinc
inde cetera praeclara Anaglypha, quae nimirum rurfus ex- hi- (0 Hoc Anaglyphum
ab operis noftris omiflum eft, caruitque aeneo typo j quo ipfum Le&oribus
nothis exhiberemus. LIII
hibentPelei,&Thetidisnuptias,&Proferpinaeraptum, tum Venerem concha veftam,
pompam Iliacam, aliam Bachicam, Orpheumcantumulcentemanimantia, Meleagri, &
Atalantae fabulam, Bacchi, & Ariadnae nuptias, facrifi- cium Iovi, &
lunoni, Antilochum Patrocli mortem Achilli
nunciantem,tabulamvotivamAefculapio,Hygiae,Fortunae, hx. Baccho, aliaque bene
multa, quibus Icientes parcimus. Quare etiam memorare lingillatim negligemus
plures praecipue cippos, aliaque marmorea monumenta, quae in ambulacro fubdiali,
quo cavaedium veluti bipartitum cernitur, adlervan- tur.Aefculapii, &Hygiae,aliaqueiacentiaSileni,Flumi¬
nis,acSomniSignaheicIparlimdifpolitatantumindicafie litfatis.Sicelebrem, aclingularemprorfus
M. Tullii Ciceronis Protomen innuerimus in Aedium pinacotheca exlillen-
tem,nileritreliqui,quodexponamus;liquideminteriora
cubiculaomnicarentantiquitatisornamento.
XVI.Nequeetiamhaecipfatamegregiavetullatismo¬ numenta &illuftratoribus,&laudatoribuscaruerunt.Videas
liquidem praeftantiora Anaglypha adducta a Sponio, Mont-
fauconio,Bellorio,Aleandrio,Spenceio,Winckelmannio, aliilque; multalque veteres
Inlcriptiones fere ab iis omnibus editas, qui eas in unum collegerunt, quolque
fuperius cita¬ vimus, cum de Hortorum Caeliorum monumentis fermonem haberemus.
Nec tacuerunt exteri Scriptores, noltrique etiam Topographi, praefertimque
Ficoronius (0, Venutius 0>, Va- lius (s), & Titius (4) coadtam heic
tantam & monumentorum, & elegantiarum congeriem.Atdelideranduminfuper
erat, has Aedes, utpote quae 1'eorlim ab Hortis Muleum re¬
ferantlocupletiffimum,illuftratore,actantaefupelleftilisedi¬ tore haud carere.
Iam porro hanc lortem tulerant & lulti- (0 Lefingolarita diRoma moderna
Cap.VILp.65. (3) Loc. cit. n. 193. pag. 198. (2) Roma moderna Tom. II. pag.
358. (4) Loc. cit. pag. 86., e 461. nia- LIV nianearum Aedium
Tablinum (0, & Mufeum gentis Odefcal- chiae (*), & Antiquitates, ac
ornamenta alia Aedium Barberi- niarum(s), necqualemcumqueetiamdefideraverat defcri-
ptionem ipfum Strotianae domus Mufeum U); quibus nunc
baudinferioreseruntAedesMatthaeianae,eilqueadnexa venerandae vetuffatis
cimelia. XVII. Aff utinam & Horti, & Aedes Matthaeiorum, eifque
adiuncta monumenta eum nacla fuiffent illuftratorem, & editorem, qui
eorumdem praedandae, ac dignitati par eflet. Si exiguum quidem ingenium
nofixum, cui eadem concredita, perpendatur, dolendum inprimis elt eorumdem
exornationem, promulgationemque nobis potiffimum obtigifie, tumineaincidifle tempora,
inquibus variisdidrahebamur itudiis, & occupationibus longe quidem inter fe
diflitis, ut edita interim per nos opera latis offendunt. His acceffe- runt multarum
morarum interiecfa impedimenta, obquaenobis in medio veluti curfu didentis tum
mentis alacritas, tum piopofiti noflri unitas, quae ab affdua fyffematis, &
metho¬ diiecoidatione,&exfecutionependet,identidemminui,
tuibaiiquevidebatur.FluxeruntiamXlf., &liusanni, ex quibus hanc
provinciam lufcepimus, quam quidem per hoc tempus tot vicibus & affumpfimus,
& intermifimus, ut faepeiamexantlatoslaboresinffaurare,&.multosmoxinir¬
ritum ceffuros abfumere cogeremur. Non hoc tamen noffra culpa factum quis
credat, quibus operis ardor, & fedulitas (0 Galleria Giufliniaua dei
Marcbefe Vincett- z° GiuftMani Par. I. Tavole CL1I., e Par. II. Taveh CLXV'11.
iSji. infol. (2)M armi, Statue, Carnei, ed altro efflenti ”'&n
Appartamenti, e Galleria delPEccmo Sig. D. Livio Odefcalcbi Daca di Bracciano, Nipote
d’lnmcenzo PP. XI. in fol.,70z, (Trafponati gran parte in Aranquez ). Hinc
prodiit Mufeum Odefcalcbum,fveThefaurusantiquarumGemma¬ rum 6-c. Accejferunt
aerea Deorum, ac Dearum fit idola3 marmorea item anaglypha, mouumentaque alia
plura &c. (Illuftratore Henrico BrulaeiOj & Ni- °olao Galeottio) Tom.
II. Romae 1751. in fol. (3) Dominici Panaroli Mufeum Rarberinum. Ro¬ mae 1656.
in 4. Hieronymi Tetii Aedes Rarberi- nae ad Quirinalem. Romae typis Mafcardi
1642. in fol. A pag. 197. incipit recenfio veterum Pro- tomarum, & Signorum
ufqne ad pag. 220. (4) Defcrizionc dei Mufeo Strozzi 3 di Gio. M.
Crefcimbeni3fraleProfedegliArcadi. LV fit maxime ia deliciis,
quofque properatio ad finem tam¬ quam ex naturae incitamento urgeat vel in ipfa
rerum au- fpicatione. Nonhinc tamenexcufationempeterenobismens eft aut
ofcitantiae, aut negligentiae noftrae; fied id potifli- mum nunc monitum
voluimus, ut diverforum temporum, quibus noftrae per univerfum opus
difleminatae aflertiones refpondent, quaeomninoneceflariaeftet,ratiohaberetur•
Quare Lebtorum noftrorum humanitate confifi non aliud nunc exponerefatagemus, quamtotiusnoftrioperistexturam,
vel profpectum, quem quidem paucis expediemus. XVIII. Illuftrandae ingenti huic
veterum monumento¬ rum colledtioni manum iam admoverat Rodulphinus Venu- tius
Patritius, &. Academicus Etrufcus Cortonenlis, Nicolai Marcelli Marchionis,
& Philippi Praepofiti Liburnenfis Vi¬
rorumCll.frater,BenvenutiIofephiMarchionis,acubiculo Petri Leopoldi Magni Ducis
Etruriae, Socii, & Amici noftriobfuamvirtutem, acfuavitatemfpectatiliimipatruus,
Romanarum antiquitatum Praefes, ac Vir denique multis e-
ruditis,doctitqueeditisVoluminibuslongenotiftimus.At vix opus hoc aggreftus
fuerat, cum ecce mors ipfum peremit a.d.III.Kal.Aprilisannicididcclxiii.,necultraprimiVo¬
luminis Tabularum, quae Statuas comprehendunt, illuftrationem procellit. Fadtum
interim eft, ut onus in nos conla¬ tum fuerit adornandae quartae Bellorianae
editionis Vejiigii veteris Romae, & fex Tabularum anecdotarum elaborandae
Appendicis (0; quae licet ab imperita, ac iuvenili prorfus manu profectae tunc
forent, cum tamen aliquod approba¬ tionis fuffragium a doctis viris
obtinuiftent, in caufla fuerunt, cur oculi in nos conficerentur, & digni,
qui in Venutiani ope- (i) Haec omnia paraverat etiam ante nos Ioh. Bapt.
Piranefius initio Tom. I. Antiq. Roman. uf- que ab anno 1756., fed ut Opus omne
abfolveret, & una ederet univerfum, priorumVoluminum pu- blicationein
retardavit, & noftrae editioni tempo- ris principatum reliquit.
LVI operiscomplementumfuccederemus, infuperhaberemur. Qual'e ipiius
apographum, quod & emandatum, & aliqua e- tiam fui parte reformatum
fuerat a Contuccio, olim Kircheriani Mufei Praefecto, & deletae Loyolitarum
Societatis Alumno, mox vita functo, traditum nobis fuit, quod antequam iterum
expendei emus, umveilos archetypos monumentorum, quae tum in Hortis
Caelimontanis, tum in Aedibus urbanis iVlat- thaeioi um adfervabantur,
fingillatim invifendos, ac pene con¬ trectandosanobiseflecenfuimus.Verumutideafedulitate,
acfeiefecuiitateabfolveremus, quaenosvelabofcitantia,vel ab ingenii licentia
immunes faceret, focios nobis adiunximus Ioh. Baptiflam Vicecomitem Romanarum
Antiquitatum Prae- hdem meritiflimum, eumdemque doctiflimum, atque ipflus
filium Ennium Quirinum vix ex ephebis egreflum, ob miram vetcus eruditionis
peritiam, qua inter cetera difciplinarum ornamenta praecellebat, plurimi
aeftimandum, nunc vero in dies & fcientia, & fama magis inclarcfccntcm,
& PII Vi. P. O. M. a fecretiori cubiculo, qui mihi fcilicet praefto effent,
quaeque forent vel adnotanda, vel conftabilienda, difcuffis fententiis, 6t
omnibus naviter expenfis, una mecum decer¬ nerent. Multa fane Venutius
ftatuerat, multaque etiam pu¬ blica voce invaluerant, quae typis exprefla iam
apud vulgum fidem omnem obtinuerant. At nos veritatis unice folliciti, &
fymbola omnia, & vultuum lineamenta iuxta critices re¬ gulas, & ope
ceterorum monumentorum expendentes, mul¬ ta immutanda, atque aliter exponenda cenfuimus.
Hinc fa¬ cium eft, ut multae Statuarum illuflrationes, quas i. Volu¬ men
compleCti debebat, expunctae fuerint, eilque noftras subrogandas curaverimus.
Hinc etiam faftum, ut ceteras live
infciiptiones,fivenomenclaturas,quasnonnullisTabulis, ex quibus reliqua Volumina
compingi debebant, iam ipfe adle- LVII adleverat, eidem etiam
cenfurae, ac reformationi fubiecerimus. Quid hac in re a nobis geftum fuerit,
fupervacaneum erit nunc exponere, cum haec quidem illufirationes, &
adnotationes no- ftras legentibus patere facile poffint. Ac fane multa etiam ex
Venutii explicationibus fuperflua, vel nimis nota amputavi¬ mus, Graecum textum
adduftis ex Latina verfione Graecorum Scriptorum locis adiunximus, & omnia
in eum ordinem, quem nobis propofuimus, accurate redegimus. Nec etiam minorem
infumpfimus diligentiam, ut Scalptorum erratis, quae commode licebat, medicina
aliqua per nos fieret.• Mul¬ tae fane fabulae non omnino eleganter caelatae
occurrunt, quumnonomnesvelimmutare,velexpolireinnoftraefiet poteftate. Ceterum
id faltem curavimus, ut Caesarum, ceterorumque imagines fatis cognitae ad veram
vultus, quae in autographo haberetur, formam redigerentur, ceteraque omnia fuis
prototypis apprime refponderent. Nec alia fane
poftopusaScalptoribusomninoabfolutum,antequamnos hanc provinciam fufciperemus,
follicitudo nobis relinque¬ batur. XIX. Sed iam qui ordo a nobis fervatus
fuerit, innuamus. Numina quidem praecedere aequum erat, tum ut Divinitati, quae
his etiam indiciis a gentilitate petitis adfiruatur,
inprimislitaremus,tumutveterumethnicorum,quorum monumenta tractamus, facro
inhaereremus fyftemati. Quare Numinaipfa, quaeStatuisexpreffahabebamus,cumaliamaiorum
gentium, eademque felecta, insignia, & eximia cenferentur, alia vero minorum
gentium, eademque adfcriptitia, minufcularia, & putatitiadicerentur,infuasclafiesdi-*
ftribuerefiuduimus,utproindefuuscuiquehonorolimetiam redditus fervaretur. Hinc
Caeleftes Deos primae Claffi ad- fignavimus, Terreftres fecundae, Silveftres
tertiae, Semideos, h five LVIIl five Indigetes quartae, ac quintae
demum Deas Virtutes. Tum DiiseorumMiniftros,&Sacerdotesfubiunximus,quibusin
Clafle fexta factus eft locus. Sacerdotibus fuccedunt Magi- ftratus, ac proinde
ex temporum ratione Confules feptimam
Claflemobtinuerunt.HisfubnectunturImperatoresRoma¬ ni, quibus Claflis obtava
occupanda obtigit. Barbari Reges nonnifi pone eorumdem domitores collocandi
erant, atque hinc Clafle nona ipfos comprehendi opus fuit. Decima Mi- fcellanea
continet; undecima Statuas iacentes. Atque haec eit totius I. Voluminis, quod
CVI. Tabulis conflat, difpoll-
tio.Nonabfimilirationefecundumdigeftumeft,quodXC. Tabulas continet, quodque in
Protomis, Hermis, Clypcis, & nonnullis Anaglyphis fimplicioribus referendis
verfatur. Hinc Protomarum Deos exprimentium Claflls prima; tum Protoma- rum
Heroas, & Viros illuftres praefeferentium Claflis fecunda; dein earumdem
Imperatores, & Auguftas repraefentantium Claflis tertia; ac tandem Imperatores
Germanicos faeculi XV., Si XVI. exhibentium Claflis quarta. Sequitur Claflis
quinta, quae Capita incognita; fexta, quae Hermas, feu Terminos; septima, quae imagines
quadratis, & rotundis figuris inclufas; obtava, quae Anaglypha cum variis
homi¬ num, & mulierum imaginibus; nona, quae figuras anagly¬
pticaslingulares;decima,quaetrophaea,pulvinaria,capitula, bales, truncos, &
candelabra; ac tandem duodecima,
quaelarvasfcenicas,&ceteramonumentamifccllacontinet. Sed iam tertium
Volumen procedit, quod Anaglypha, Sarco¬ phagos, Cippos, & Infcriptiones
compleblitur, ac ex Tabulis aeneis LXXIV. coalefcit. Ordo Claflium etiam in hoc
ipfo Volumine lervatus eft, ut proinde prima comprehendat Deo¬ rum imagines;
fecunda Fabulas ad Deos pertinentes; tertia Bacchanalia; quarta Monumenta
Aegyptiaca; quinta Mo- numen- LIX numenta Graeca ante bellum
Troianum; fexta eadem poft ipfum bellum; feptima Monumenta Romana hiftorica;
odta- va ritus, mores, & artes veterum; nona Sarcophagos, & Urnas
fepulcrales; ac decima tandem veteres Infcriptiones, quaeinfuperordine, quemGruterius,ceteriqueinvexerunt,
difpofitae a nobis lunt, ac proinde in XIV. SeHiones di- geftae confpiciuntur. Eaedem
GCCXXXII. plus minus numerantur, & earum fere omnes ab aliis editae iam
fuerant. Neque nos eas dumtaxat, quas in Hortis, & Aedibus Matthaeiorum
deprehendimus, proferre fluduimus, fed infuper eas omnes huc revocavimus, quas
olim ibidem exftitilTe vel nosipficognoveramus,velexearumdemcolledoribusconflabat;
ne in hac noflra Monumentorum congerie quidquam deeffet,quodolim&celebres, &praellantesHortosnoftros
potiffimum effecerat. Indices etiam Infcriptionibus fubieci-
mus,quorumprimusScaligerexemplarpropofuitinGrute- riano thefauro. His tandem
fubiunximus generalem etiam omniumpotiorum, quaeIII.hifceVoluminibuscontinentur,
rerumIndicem,cuiuspraefidio,quodcumqueopuseffet,a LeHoribus nollris inveniri
poffet. XX. Haec elt univerfa Operis noffri compages. An
verofingulaprodignitatepraeftiterimus,nonnoffrumeftiudi- care. Id tantum
affirmare poffumus, omnes tum animi, tum fedulitatis nervos nos intendifle, ne
vel aliquam muneris noffri partem neglexiffie, vel a ratione, ac luce, quae
pecu¬ liares habentur faeculi XVIII. dotes, ac notae, quaeque fin- gulas
facultates attingere aequum eft, quidquam abfonum admiffife videremur.
Quapropter id nobis propofuimus, ne
inreplerumquedubia,&ancipitivelfomnia,velcommen¬ ta in fcenam produceremus.
Qui enim vel natura duce, vel cogitandi arte magiftra veritatem confeHari,
& rerum eviden- LX tiae infidere didicit, aegre fane fertur vel
ad incerta, vel ad cerebrofa. Saepe igitur contenti fuimus varias Antiquario¬
rum fententias proferre, & intactum fimul argumentum re¬
linquere,nevideremurnovamtantumopinionemincete¬ rarum acervum inducere, vel
coniedturas conieduris addere. Quid enim infuper congefia vel vacillans opinio,
vel levis coniectura, aut etiam audax paradoxum litterarum incre¬
mentoconducit?Pabulishilcequidemfuaviflimisfruantur, quibus in rc quaque
leviffima libi plaudere, etymologiis ab- firufiora quaeque definire, remotiorum
aetatum aenigmata folvere,fequiorumtemporumruditatesingerere,nugarum feries
oftentare, umbras pro corporibus amplexari, carbones pro unionibus vendere (qui
elt antiquariae facultatis abutus
longeeliminandus)volupeelt.Noscerte,quianimicaulla, & ultro delatae
occupationis occalione, huiufmodi ftudio vacavimus, haud fane operae noltrae
poenituit, qui nimirum folidas hiftoriae, chronologiae, veterum linguarum, ar¬
tium, ac rituum utilitates unice lpeckantes aliquam videmur & noftris notionibus,
& famae quinetiam accelfionem fecii- fe, tumampliflimaehuiusUrbis,veterumelegantiarumundi¬
que feracillimae, incolatum gratiorem nobis, & iucundiorem praeftitific.
Quare ab omni ingenii licentia, quae vel verita¬ tis criterio adverfaretur, vel
quae nullo tum rationis, tum auctoritatis valido fundamento niteretur, femper
abhorrere nobis folemne fuit; ac quidquid, vel omnibus tacentibus, vel omni
deficiente exemplo, a nobis proferendum fuit, nonnifi modefte, & fere cum
trepidatione propofuimus. Rati infuper ex monumentorum inter fe collatione,
quae vel rerum affinitate, velquacumquealiarationelibiinvicemrefpon- derent,
veram plerumque prodire pofle fignificationem, vel receptis fcriptorum
fententiis maius etiam polle robur accedere, LXI dere, id
praefertim curavimus, ut quae fimilia ia ceteris Mu- feis, & in iplis
Antiquariorum libris exftant monumenta, tamquam conflantis, & indubiae
veritatis vadimonia propo¬ neremus. Nihilenimmagis valetadiudiciumderealiqua
tum ob vetuftatem, tum ob obfcuritatem incerta quoquo
modoiufte,re&equeferendum,quamconflansmonumento¬ rum conformatio, &
eorumdem accurata comparatio. Haec fuit inftituti noftri ratio, cuius fane ope
fi quid dignum hac luce elicimus, iri totum veritatis, & certitudinis, quam
gerimus, notioni acceptumeftreferendum;finminus,haud fateri nos pudebit,
impares nos huiufmodi Audio fuifie, quod
aliorumgratia,nonnoftromarteexcoluifleingenueprofi- tentes aliquam faltem
veniam hoc iplo nomine confecuturos confidimus. Qui legis, feliciter vale.
INDEX TABULARUM Quae m hoc. Statuarum Volumine continentur. CLASSIS I. Chiae continet
deos caelestes. Tab. I. Iuppiter. pag. i. Tab. II. Apollo Citharoedus, pag. 3.
Tab.III. Apollo Citharoedus, pag. ead. Tab. IV. Apollo. pag. 4. Tab. V. Apollo
Pythius, pag. 5. Tab. VI. Apollo Sagittarius. pag. ead. Tab VII. Apollo, pag. (5.
Tab- VIII. Apollo, pag. 7. Tab. IX. Apollo, & Marsyas. pag. 8. Tab. X. Mars.
pag. ead. Tab. XI. Mercurius. pag. 9. Tab. XII. Bacchus. pag. 10. Tab. XIII. Bacchus
asino insidens, pag.ead. Tab. XIV. Bacchus,pag.u. Tab. XV. Amor. pag. 12. Tab.
XVI. Amor cum Herculis symbolis. pag. ead. Tab XVII. Amor canens. pag. 13. Tab.
XVIII. Venus, pag. 14. Tab. XIX. Amicitia, pag. 15. Tab. XX. Minerva. pag. ead.
CLASSIS II. Quae continet DEOS TERRESTRES. Tab. XXI. Cybele, pag. 17. Tab.
XXII. Cybele, pag. 18. Tab. XXIII. Cybele, pag. 19. Tab. XXIV. Cybele, pag.
ead. Tab. XXV. Ceres. pag. 20. Tab. XXVI. Ceres, pag. ead. Tab. XXVII. Ceres,
pag. 21. Tab. XXVIII. Ceres, pag. 2$. Tab. XXIX. Ceres. pag. 24.
Tab.XXX.Ceres.pag.ead. Tab. XXXI. Ceres, pag. 25. Tab. XXXII. Urania, pag. 26.
CLASSIS III. Quae continet DEOS SILVESTRES. Tab. XXXIII. Faunus, pag. 27. Tab.
XXXIV. Faunus. pag. 28. Tab. XXXV. Faunus, pag. 29. Tab. XXXVI. Faunus, pag.
ead. Tab- XXXVII. Faunus, pag. 30. Tab XXXVIII.Faunus,pag.32. Tab. XXXIX.
Faunus. pag. ead. Tab. XL. Faunus, & Satyrus, pag. ead. Tab. XLI- Silenus,
pag. $3. Tab. XLII. Silenus. pag. $4. Tab. XLIII. Silenus, pag.' ead. Tab.
XLIV. Diana, pag. 35. Tab. XLV. Diana, pag. 36. Tab. XLVI. Diana, pag 37. Tab.
XLVJI. Flora, pag. ead. Tab. XLVIII. Pomona, pag. 38. Tab.XLIX,Pomona,pag.39.
Tab. L. Pomona, pag. ead. Tab. LI. Nais. pag. 40. CLASSIS IV. Quae continet
DEOS INDIGETES. Tab. LII. Hercules, pag. 41. Tab. L111. Hercules, pag. 42.
Tab-LIV. Hercules, pag. 43. Tab LV. Bellerophon, pag. 44. Tab. LVI.
Aefculapius» pag. 47. Tab. LVII. Aefculapius. pagt 49. Tab. LVIH. Hygia, pag.
ead. Tab.LIX.Hygia,pag.ji. Tab. LX. Amazon. pag. 53. CLASSIS V. Quae continet
VIRTUTES DEAS. Tab. LXI. Pudicitia. pag. 56» Tab. LXII. Pudicitia, pag. ead.
Tab. LX III. Fortuna, pag. 58. Tab. LXIV. Fortuna, pag, 59.
Tab.LXV.Abundantia.pag.60. CLASSIS VI. Quae continet DEORUM SACERDOTES ET
MINISTROS. Tab.LXVI.Camilluspuer.pag.62. Tab. LXVII. Bacchans. pag. 63.
Tab.LXVIII.Bacchans.pag.6j. Tab. LXIX. Bacchans. pag. ead, Tab. LXX. Bacchans.
pag. 66. Tab. Tab. LXXI. Sacerdos Cereris facrificans. pag. 67.
CLASSIS VII. Quae continet LXIII Tab.XCIII. L. Aurelius Commodus. pag.ead. Tab.
XCIV. M. Aur. BaRianus Antoninus Caracalla. pag. 94.
Tab.XCV.P.LiciniusGallienus,pag.95. CONSULES. CLASSISIX. Quae continet Tab.
LXXII. L. lanius Brutus, pag. 69. Tab. LXX1II. ConfuI. pag. 71. CLASSIS VIII.
Quae continet IMPERATORES ETAUGUSTAS. REGES BARBAROS. Tab. XCVI. Mida Rex
Phrygiae, pag.96. Tab. XCVII. Ptolemaeus Rex Aegypti.p.97. Tab. LXXIV. C.
Julius Caefar. pag. 74. Tab. LXXV. C. Iulins Caefar. pag. 75. Tab. LXXVI.
Octavianus AuguRus. pag.76. Tab LXXVII. Octavianus AuguRus. pag 77.
TabLXXVIII.OctavianusAuguRus•pag.78. Tab.C*Gladiator,pag.102. Tab LXXIX. Livia.
pag, 79. Tab. LXXX. Caius Caligula, pag. 80. Tab. LXXXI. Tiberius Claudius, pag
81. Tab.LXXXII. Claudius Domitius Nero. p.82.
TabLXXXIII.ClaudiusDomitiusNero.p83. Tab. LXXXIV. Flavius Domitianus. pag.Sq.
Tab. LXXXV. Nerva Traianus Ulpius. p.ead. Tab. LXXXVI. Marciana AuguRa. pag.
85. Tab. LXXXVII. Sabina AuguRa. pag. 86. Tab. LXXXVIII. Antinous, pag. 87.
Tab. LXXXIX. Antoninus Pius. pag. 89. Tab. XC. M. Aurelius Antoninus. pag. 90.
Tab. XCI. Annia FauRina* pag. 91. Tab. XCII- L. Aurelius Commodus. pag. 92.
Tab. CI. Gladiator, pag. 104. Tab. CII Femina velata cum puero. p. ead. Tab.
CIII. Femina Rolata. pag. 109. CLASSIS XI. Qitae continet STATUAS IACENTES.
Tab. CIV. Fig. 1. Silenus, pag. 111. Tab. ead. Fig. 11. Flumen. pag. 11 2. Tab.
CV. Fig. 1., Sc 11. Amores quiefeen- tes. pag. 11 3. Tab.CVI.Fig.i., 11., &
m. Somni, & Mortis Genii, pag. 114. ERRATA CORRIGE. pag.xxxii.referre. pag.
42. TAB. XLIII. pag. 45 Florentia. ibid. SebaRianus Blanchius. pag. 63. Franc.
Ant. Gorium. P?g- 79- ibid. not. 2. cap. 102. pag. 88. Tubere. pag. 107. coi.
1. quos Etrufcis in ma¬ nibus funt. ibid. Enomao • ibid. coi. 2. onorabant.
pag. 109. PALLIATA. referri. TAB. LIII. Florentiae. Iofephus Blanchius. Ant.
Franc. Gorium. ferre. cap. 101. Tibure. qui Etrufcis in manibus funt, Oenomao.
honorabant. STOLATA. Curatore: Fragmenta vestigiis veteris Romae -- A D O
N E A. Adonidis mmen apud Ouidiutn. AEDIS HERCVLIS MVSARVM AEDIS. lOVIS
InporticihusOBauU. Injiaurau ah Hadriano * AEDIS. IVNONIS. In porticihus OBauU*
Aedes Palladis inforo T^erua* AEDES-OPIS 62 Aedes Telluris in forel^erud* 'vide
Templum* Aedium Paiamatummagnifcentia • Aedes Romanomm nohilium, Aid infacris
Aedihus* f Atnhulatio circa celUih^ 6.Aedium • A M P H I T H E A T R V M.
AnemoneflosapudGuidium, ' Apollo Sandalarius • AQVEDVCTIVM. AquaduBus Ajud
Claudia i AquaduBus Aqua Mania reflimti a Tratano 3 9,ah Alexandro Seuero,
ArcusfeulanusadPorticumOBauia• Arcus Germanico»& Drufo • AREA.APOLLINIS
cumara. a r e a. VALERIANA. *2 \ rCVS.MAXIMVS AREA. MERCVRII cumara« AREA. POLL
VCIS Traiani.CauediuminAedihus* 3t Area cumar4in Quirinali« 47
AlexanderSeuerusinfatirauit - 35 AqueduBus AquaMartia* 40 4^ 9.io
Armamentaria.Ij. s> AniariumDomitiorum• ihid* Atrium in Aedihus. 61 ATRIVM.
LIBERtATIS. s 1SJ AulaAdonidis• ihtd. AulaRegiainTheatro. 47 39 3* 20 57 57
BALINEVM. AMPELIDIS. BALNWM. CAESARIS. 47 BALNEVM. SVRAE* 31 Ba l n e a.
coTiNi. B ^9 < 23 57 balneaadJolemexpofta0 J BalneaVirorum,acMulierum• ihid*
77 BASILICA. AEMILI. 27 48 Basilica.LiGiNii. }9 15 tT BASILICA. VVLPIA. 79 IZ c
Capitolium. 20 40 CASTRA. MISENATIVM; * H 10 CaftraPeregrina, 1$ *69
CaflellumAquaManiacumtrofh*tii 39 \ Ciceronislocusillufratus• AREA.RADICARIA.
4S\fIRCVS.FLAMINIVS 7t ^7 Cir^ Circi CISTER.NAE. Cijierthe TUiand*
CLIVVr.yTcTORIAE Clajfiarij dimijji honejia mijjtone ac ciuitate donati • ihid*
7 i ihid» 19 1 5 j S7 5 HORREA: CANDELARIA. 40 HORREA. LOLLIANA 4 Horrea puhlica
> priuata ad uarm vfus• 6 HORTI. CELONIAE. FABIAE 44 Horti Gallieni, HORTI.
PALLANTIANI 40 ^• I Columnatio in Uterihmfionte &fo(lico
Column<&contraantas i O5 j DOMVS. CORNIFICIA *'— ^ Cornuafcena
CVRIA.IVLIA D DELVBRVM. I^INERBA E, Capu 6j INTELLVRE 57 In Tellure locus extra
Templutn Dicta Domitiani.* 47 27 51 Liciniana Baflica. Lollianiful Seuero.
Lollianustyui, tP*GentianusConful 1 6 6 Dipteros columnatio duplex^ DOMVS.
CILONIS Domus (lelU Confulis Domus interior 5 Domus Romanorumnohilium. "T.
E 4S 44 l^cclefiafmB<e MarU Ae^yptiaca oUmTemplumfortune njirilis.
5.MarUinPorticuolimlunonis• 9 S* T^icolai olim louis • ibid, MACELLVM; 49 24.S,StephaniadTiherimolimMatuu
&4 Macellum l^leronis • MAVSOLEVM. AVGVSTI MONVMENTA. MARIANA Muri Vrhis
inflauratl al Arcadia CST* Honorio. N N A V A L E M Piummus Alexandri Seueri
cum Cajiello Aft<e MartU* T^ummus T^eronis, O ilidl 85 39 Euripus in Circo
Ealius Clio, eiufijue muniafu l Seuero fapi^ium in porticilus. Eons Lolltanus.
Gallieni Ba(tlica,& Horti in Effuilijs GRAECOSTASIS. Gyn<eceum • n
HECATONSTYLVM.33. Hecatonftylum in Hojlilium feu \^uriamffojliliam corrupts 8 1
j G 10 6 i r MVTATORIVM. 47 IJ 20' 40 49 77 5 35 Orilejlra in Teatro» ^In
Amphitheatro, Palatium Licinianum • Perypteros* 47 5 S7 LAVACRVM.AGRIPPINAE 23
35 Telluris cumBaJfo. LVDVS.MAGNVS M *_ Marci Aprippto magnificentia 6
Per^ ^erijlylia duplicia in JeMus* TiBura amiqua infants •
Vimcothem. Pifcim* Pltn^ locus illufiratus. Porta Trigemtm ante Claudiufn i P O
M g VS. AEMILIA. 5* t 6 6i ^3 9 fundator Jmperij cognominatus • I c h n o g r a
p h i a m V t h i s i n i e mp l o P L c h - muli iocauit ihidi & I, 19 •
5* 19 ibid. i o z j ^orticus Metelli cum duabus Jedtbus» i o PORTICVS *
OCTAVIAE. E t HE- 9.10 Porttcus^pBduU i Ionicaeiufque ornamentA • Porticus
Pompeii flecatonjlylon i Porticus nohiles atiobilibuspiBurii 16 SVBVRA. 17
SVMI.GHORAGII 35 *9 5 10 S 70 1 1.2.19 6 $ 45 cogmminau • Porticusjimplex.
Pronaon Pfeudodijneros. R templvm.c6ncori5ia^ 39 F ortun* wirilis. 24 Matuu.
ibid. R E G lA. 53 Romuli templum injtauratum a Stipt* SiUtro i Rom*
^ejligiumfeu knographia ScenaTheatrii Septa Agrippina • 65 ibid. a 5 ibid* $
SEPTAaVLlA. 43.44 SEPTA^ TRIGABJA Septorum reliquU inVialata t Sepulcrurn
DOmitiorUm. ^Sepvikrurrt. GNi DOMITII w 45 CALVIN! 61 Sepukfum PhitomeUfeu
Lufcini* SEVERI. ET. ANTONINL AVG. )Sf.N. 19 SeptitHiusSeuerUsKejiitutorVrUs
& Rom*. i.2«i9 VlA.jTOVA 70 ibid* S 3 (jillknii 45 61 !Septi:^onium. -v..
StdtUa Apollinis in Vaiicdno. Statu* in nieflibulo*fact adium Staiud celkires
in Thottnis. Staiudt tV piBur* tfoffe adArcum SERAPAEVM Stattia Apollinis
Sandalarij » Vide tab. X V U T raiani. Fheatrum Bilbii THEAtRVM.MARCELLI -
THEAfRVM/POMPEH Theatri Pompeij reliqitU ad Cdmputn Flord in*dibulV rftiotumi
Thernid (iatuis exornatd. T hermd hyemdles i Troph*a Ttdiani iiulgo ^ar^ in in
Capitolio i Traianus inflaurauti AqudduBus Aqu* Marti*. Veflibula Regalia.
Vefligiumfeu Ichnographia Vrbis J 5 VICVS.$ANDALARIVSIoannis Cristophori
Amadutii. Giovanni Cristofano Amaduzzi. Amaduzzi. Keywords: Filopatridi, i
filopatridi. Alfabeto etrusco,
alphabetum etruscorum, alphabetum veterum etruscorum, grandonico-malabaricum
sive samscrudonicum. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Amaduzzi” – The
Swimming-Pool Library.
Grice ed Amafinio – Roma – filosofia
Italiano – Luigi Speranza. Filosofo italiano. Amafinio.
Amafinio (in latino: Gaius Amafinius o Caius Amafinius) è un filosofo italiano.
Visse probabilmente negli stessi anni di Cicerone, che lo cita in coppia con un
certo Catio. Dovrebbe, dunque, aver operato a Roma a partire da quando Cicerone
inizia ad occuparsi dell'epicureismo come un “trend” della cultura
romana. Amafinio e uno dei primi romani a redigere un'opera in latino per
far conoscere e diffondere la filosofia - e in particolare la fisica - di
Epicuro. Benché la sua opera avesse avuto successo, Cicerone la giudicò
il lavoro insufficiente soprattutto per quanto riguardava lo stile ma non
solo: «Opere rappresentative di questa filosofia, in latino si può dire
non ne esistano: o, se mai, sono assai poche. Ciò è dovuto alla difficoltà
della materia e al fatto che i nostri connazionali erano presi da ben altri
problemi, e ritenevano inoltre che quelle non fossero cose da piacere a gente
senza istruzione come erano loro. Mentre essi tacevano, venne fuori Gaio
Amafinio. Quando uscirono i suoi libri la gente ne rimase impressionata, e
accordò notevolissimo favore alla dottrina di cui egli era rappresentante, per
la facilità con cui si capiva, per l’attrazione esercitata dalle seducenti
lusinghe del piacere, e anche perché, dal momento che non le era offerto nulla
di meglio, prendeva quello che c’era. Ma quando i loro stessi autori ammettono
apertamente di non saper scrivere né con chiarezza, né con ordine, né con
gusto, né con eleganza, io rinuncio senza rammarico a una lettura così poco
attraente. Tanto, le teorie della loro scuola le sanno già tutti quelli che
abbiano un minimo di cultura. Così, visto che poi non si preoccupano nemmeno
loro del modo in cui scrivono, non vedo perché gli altri debbano andare a
leggerli: che si leggano tra di loro, con quelli che la pensano in quel modo.
Noi invece siamo dei parere che, qualunque cosa si scriva, si debba scrivere
per il pubblico colto: e se non riusciamo a mantenerci sul piano adeguato, non
dobbiamo per questo dimenticarcene. Ad Familiares, XV 19, 2. ^ H. H. Howe,
Amafinius, Lucretius and Cicero, in "American Journal of Philology",
Enciclopedia Italiana Treccani alla voce corrispondente. Cicerone, Academica. Cicerone,
Tusculanae Disputationes. Cicerone, Tusculanae disputationes. Klebs, Amafinius,
in RE, I, col. 1714. H. H. Howe, Amafinius, Lucretius and Cicero, in
"American Journal of Philology", Enciclopedia Italiana, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, Amafinius, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia
Britannica, Inc. V · D · M Epicureismo Portale Antica Roma Portale
Biografie Portale Ellenismo Portale Filosofia
Categorie: Filosofi romaniFilosofi del II secolo a.C.Filosofi del I secolo
a.C.Romani del II secolo a.C.Romani del I secolo a.C.Epicurei[altre] AMAFINIUS,
CAIUS. Amafinius was a Gardener. He was criticised by Cicero for his poor
understanding of the teachings of the First Gardener, thought, his inadequate
literary style, and for devoting his attention to relatively uneducated people.
At least in part this was because Amafinius chose to teach and write about the
philosophy of Epicurus in Latin, enabling him to reach a wider but often less
sophisticated audience.
The extent to which he genuinely misrepresented Epicureanism is
impossible to tell as no texts survive, but he does seem to have helped to make
the ideas of the school better known and appreciated.
Grice ed Ambrogio – SEBASTIANE –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice: “I
like the Italian philosopher, Ambrogio – he was born, of course, in Germany!
And he never wrote in Italian! But the fact that he got all his inspiration not
so much from God but from Cicerone’s Liber II De Officiis, makes him an
ineludible step in Lit. Hum. at Oxford!” -- Grice: I prefer the spelling
“Ambrogio,” or if not “Aurelio Ambrosius”To call him Ambrosisus is like calling
me Gree.” Grice: “Not to be confused with Ambrose and his orchestrasweet!”on
altruism. known as Ambrose of Milan. Roman church leader and theologian. While
bishop of Milan, he not only led the struggle against the Arian heresy and its
political manifestations, but offered new models for preaching, for Scriptural
exegesis, and for hymnody. His works also contributed to medieval Latin
philosophy. Ambrose’s appropriation of Neoplatonic doctrines was noteworthy in
itself, and it worked powerfully on and through Augustine. Ambrose’s commentary
on the account of creation in Genesis, his Hexaemeron, preserved for medieval
readers many pieces of ancient natural history and even some elements of
physical explanation. Perhaps most importantly, Ambrose engaged ancient
philosophical ethics in the search for moral lessons that marks his exegesis of
Scripture; he also reworked Cicero’s De officiis as a treatise on the virtues
and duties of Christian living. ambrogio: Sant'Ambrogio Nota disambigua.svg DisambiguazioneSe stai
cercando altri significati, vedi Sant'Ambrogio (disambigua). Nota
disambigua.svg Disambiguazione"Ambrogio da Milano" rimanda qui. Se
stai cercando lo scultore e architetto italiano, vedi Ambrogio Barocci.
Sant'Ambrogio di Milano AmbroseOfMilanMosaico di Sant'Ambrogio di Milano nel
sacello di San Vittore (378 ca.) annesso alla Basilica del Santo, probabile
ritratto del vescovo. Vescovo e Dottore della Chiesa
NascitaAugusta Treverorum (Treviri), forse 339-340 MorteMilano, 397 Venerato
daTutte le Chiese che ammettono il culto dei santi Santuario principaleBasilica
di Sant'Ambrogio, Milano Ricorrenza4 aprile (vetero-cattolici) 7 dicembre
(cattolici) 7 dicembre (ortodossi) Attributiapi, scudscio, bastone pastorale e
gabbiano Patrono diMilano, Alassio, prefetti, Lombardia, Rozzano, Monserrato,
Buccheri, Cerami, Vigevano, Castel del Rio, Sant'Ambrogio di Torino, vescovi,
Omegna, Carate Brianza, Caslino d’Erba Manuale Aurelio Ambrogio vescovo della
Chiesa cattolica AmbroseGiuLungaraTemplate-Bishop.svg Incarichi
ricopertiVescovo di Milano Natoincerto 339-340 a Treviri Ordinato
presbitero? Consacrato vescovo7 dicembre 374 Deceduto4 aprile 397 a
Milano Manuale Aurelio Ambrogio (in latino: Aurelius Ambrosius),
meglio conosciuto come sant'Ambrogio (Augusta Treverorum, incerto
339-340Milano, 4 aprile 397) funzionario, vescovo, teologo e santo romano, una
delle personalità più importanti nella Chiesa del IV secolo. È venerato come
santo da tutte le Chiese cristiane che prevedono il culto dei santi; in
particolare, la Chiesa cattolica lo annovera tra i quattro massimi dottori
della Chiesa d'Occidente, insieme a san Girolamo, sant'Agostino e san Gregorio
I papa. Conosciuto anche come Ambrogio di Treviri, per il luogo di
nascita, o più comunemente come Ambrogio di Milano, la città di cui assieme a
san Carlo Borromeo e san Galdino è patrono e della quale fu vescovo dal 374
fino alla morte, nella quale è presente la basilica a lui dedicata che ne
conserva le spoglie. Incarichi pubblici e nomina a vescovo di
Milano 1.3Episcopato 1.3.1Gli impegni pastorali 1.3.2Politica ecclesiastica
1.3.3Rapporti con la corte imperiale 2Pensiero e opere 2.1Esegesi 2.2Morale e
ascetismo 2.3Società e politica 2.4Antigiudaismo 2.4.1L'episodio di Callinicum
2.5Mariologia 3Milano e il rito ambrosiano 4Sant'Ambrogio e il canto liturgico
5Leggende su Sant'Ambrogio 6Opere 6.1Oratorie (esegetiche) 6.2Morali (ascetiche)
6.3Dogmatiche (sistematiche) 6.4Catechetiche 6.5Epistolario 6.6Innografia
6.7Altro 7Curiosità 8Note 9 10 11Altri progetti 12 Biografia Gioventù
Altare di Sant'Ambrogio, 824-859 ca., Ambrogio ordinato vescovo Aurelio
Ambrogio nacque ad Augusta Treverorum (l'odierna Treviri, nella
Renania-Palatinato, in Germania), nella Gallia Belgica, dove il padre
esercitava la carica di prefetto del pretorio delle Gallie, intorno al 339
circa da un'illustre famiglia romana di rango senatoriale, la gens Aurelia, cui
la famiglia materna apparteneva inoltre al ramo dei Simmaci (era dunque un
cugino dell'oratore Quinto Aurelio Simmaco). La famiglia di Ambrogio
risultava convertita al cristianesimo già da alcune generazioni (egli stesso
soleva citare con orgoglio la sua parente Santa Sotere, martire cristiana che
«ai consolati e alle prefetture dei parenti preferì la fede») e stesso una sua
sorella ed un suo fratello, Marcellina (consacratasi a Dio nelle mani di papa
Liberio nel 353) e Satiro di Milano, vennero poi venerati come santi.
Destinato alla carriera amministrativa sulle orme del padre, dopo la sua
prematura morte frequentò le migliori scuole di Roma, dove compì i tradizionali
studi del trivium e del quadrivium (imparò il greco e studiò diritto, letteratura
e retorica), partecipando poi attivamente alla vita pubblica dell'Urbe.
Incarichi pubblici e nomina a vescovo di Milano Dopo cinque anni di avvocatura
esercitati presso Sirmio (l'odierna Sremska Mitrovica, in Serbia),
nella Pannonia Inferiore, nel 370 fu incaricato quale governatore dell'Italia
Annonaria per la provincia romana Aemilia et Liguria, con sede a Milano, dove
divenne una figura di rilievo nella corte dell'imperatore Valentiniano I. La
sua abilità di funzionario nel dirimere pacificamente i forti contrasti tra
ariani e cattolici gli valse un largo apprezzamento da parte delle due
fazioni. Nel 374, alla morte del vescovo ariano Aussenzio di Milano, il
delicato equilibrio tra le due fazioni sembrò precipitare. Il biografo Paolino
racconta che Ambrogio, preoccupato di sedare il popolo in rivolta per la
designazione del nuovo vescovo, si recò in chiesa, dove all'improvviso si
sarebbe sentita la voce di un bambino urlare «Ambrogio vescovo!», a cui si unì
quella unanime della folla radunata nella chiesa. I milanesi volevano un
cattolico come nuovo vescovo. Ambrogio però rifiutò decisamente l'incarico,
sentendosi impreparato: come era in uso presso alcune famiglie cristiane
all'epoca, egli non aveva ancora ricevuto il battesimo, né aveva affrontato
studi di teologia. Paolino racconta che, al fine di dissuadere il
popolo di Milano dal farlo nominare vescovo, Ambrogio provò anche a macchiare
la buona fama che lo circondava, ordinando la tortura di alcuni imputati e
invitando in casa sua alcune prostitute; ma, dal momento che il popolo non
recedeva nella sua scelta, egli tentò addirittura la fuga. Quando venne
ritrovato, il popolo decise di risolvere la questione appellandosi all'autorità
dell'imperatore Flavio Valentiniano, cui Ambrogio era alle dipendenze. Fu
allora che accettò l'incarico, considerando che fosse questa la volontà di Dio
nei suoi confronti, e decise di farsi battezzare: nel giro di sette giorni
ricevette il battesimo nel battistero di Santo Stefano alle Fonti a Milano e,
il 7 dicembre 374, venne ordinato vescovo. Riferendosi alla sua elezione, egli
scriverà poco prima della morte: «Quale resistenza opposi per non essere
ordinato! Alla fine, poiché ero costretto, chiesi almeno che l'ordinazione
fosse ritardata. Ma non valse sollevare eccezioni, prevalse la violenza
fattami.» Nonostante, come scrisse più tardi, si sentisse «rapito a forza
dai tribunali e dalle insegne dell'amministrazione al sacerdozio», dopo la
nomina a vescovo, Ambrogio prese molto sul serio il suo incarico e si dedicò ad
approfonditi studi biblici e teologici. Episcopato Ambrogio con le
insegne episcopali Gli impegni pastorali Quando divenne vescovo (nel 374),
adottò uno stile di vita ascetico, elargì i suoi beni ai poveri, donando i suoi
possedimenti terrieri (eccetto il necessario per la sorella Marcellina).
Uomo di grande carità, tenne la sua porta sempre aperta, prodigandosi senza
tregua per il bene dei cittadini affidati alle sue cure. Ad esempio,
Sant'Ambrogio non esitò a spezzare i Vasi Sacri e ad usare il ricavo dalla
vendita per il riscatto di prigionieri. Di fronte alle critiche mosse
dagli ariani per il suo gesto, egli rispose che «è molto meglio per il Signore
salvare delle anime che dell'oro. Egli infatti mandò gli apostoli senza oro e
senza oro fondò le Chiese. [...] I sacramenti non richiedono oro, né acquisisce
valore per via dell'oro ciò che non si compra con l'oro» (De officiis) La
sua sapienza nella predicazione e il suo prestigio furono determinanti per la
conversione nel 386 al cristianesimo di Sant'Agostino, di fede manichea, che
era venuto a Milano per insegnare retorica. Ambrogio fece costruire varie
basiliche, di cui quattro ai lati della città, quasi a formare un quadrato
protettivo, probabilmente pensando alla forma di una croce. Esse corrispondono
alle attuali basilica di San Nazaro (sul decumano, presso la Porta Romana,
allora era la Basilica Apostolorum), alla basilica di San Simpliciano, detta
Basilica Virginum, ossia basilica delle vergini (sulla parte opposta), alla
basilica di Sant'Ambrogio (collocata a sud-ovest, era chiamata originariamente
Basilica Martyrum in quanto ospitava i corpi dei santi martiri Gervasio e
Protasio rinvenuti da Ambrogio stesso; accoglie oggi le spoglie del santo) e
alla basilica di San Dionigi (Basilica Prophetarum). Il ritrovamento dei
corpi dei santi martiri Gervasio e Protasio è narrato dallo stesso Ambrogio,
che ne attribuisce il merito ad un presagio, per il quale egli fece scavare la
terra davanti ai cancelli della basilica (oggi distrutta) dei santi Nabore e
Felice. Al ritrovamento dei corpi seguì la loro traslazione (secondo un rito
importato dalla Chiesa orientale) nella Basilica Martyrum; durante la
traslazione, si racconta (è lo stesso Ambrogio a riportarlo) che un cieco di
nome Severoriacquistò la vista. Il ritrovamento del corpo dei martiri da parte
del vescovo di Milano diede grande contributo alla causa dei cattolici nei
confronti degli ariani, che costituivano a Milano un gruppo nutrito e attivo, e
negavano la validità dell'operato di Ambrogio, di fede cattolica.
Ambrogio fu autore di diversi inni per la preghiera, compiendo fondamentali
riforme nel culto e nel canto sacro, che per primo introdusse nella liturgia
cristiana, e ancor oggi a Milano vi è una scuola che tramanda nei millenni
questo antico canto. Politica ecclesiastica L'importanza della sede
occupata da Ambrogio, teatro di numerosi contrasti religiosi e politici, e la
sua personale attitudine di uomo politico lo portarono a svolgere una forte
attività di politica ecclesiastica. Egli scrisse infatti opere di morale e
teologia in cui combatté a fondo gli errori dottrinali del suo tempo; fu
inoltre sostenitore del primato d'onore del vescovo di Roma, contro altri
vescovi (tra i quali Palladio) che lo ritenevano pari a loro. Si mostrò
in prima linea nella lotta all'arianesimo, che aveva trovato numerosi seguaci a
Milano e nella corte imperiale. Si scontrò per questo motivo con l'imperatrice
Giustina, di fede ariana e probabilmente influì sulla politica religiosa
dell'imperatore Graziano che, nel 380, inasprì le sanzioni per gli eretici e,
con l'editto di Tessalonica, dichiarò il cristianesimo religione di Stato. Il
momento di massima tensione si ebbe nel 385-386 quando, dopo la morte di
Graziano, gli ariani chiesero insistentemente con l'appoggio della corte
imperiale una basilica per praticare il loro culto. L'opposizione di
Ambrogio fu energica tanto che rimase famoso l'episodio in cui, assieme ai
fedeli cattolici, "occupò" la basilica destinata agli ariani finché
l'altra parte fu costretta a cedere. Fu in questa occasione, si racconta, che
Ambrogio introdusse l'usanza del canto antifonale e della preghiera cantata in
forma di inno, con lo scopo di non fare addormentare i fedeli che occupavano la
basilica. Fu inoltre determinante per la vittoria di Ambrogio nella
controversia con gli ariani il ritrovamento dei corpi dei santi Gervasio e
Protaso, che avvenne proprio nel 386 sotto la guida del vescovo di Milano, il
quale guadagnò in questo modo il consenso di gran parte dei fedeli della
città. Fu infine forte avversario del paganesimo "ufficiale"
romano, che dimostrava in quegli anni gli ultimi segni di vitalità; per questo
motivo si scontrò con il suo stesso cugino, il senatore Quinto Aurelio Simmaco,
che chiedeva il ripristino dell'altare e della statua della dea Vittoria
rimossi dalla Curia romana, sede del Senato, in seguito a un editto di Graziano
nel 382. Rapporti con la corte imperiale Sant'Ambrogio rifiuta
l'ingresso in chiesa all'imperatore, nel dipinto di Van Dyck. Molto
probabilmente questo episodio non avvenne mai: Ambrogio preferì non arrivare
allo scontro pubblico con l'imperatore, ma lo redarguì in privato. Il
potere politico e quello religioso al tempo erano strettamente legati: in
particolare l'imperatore, a cominciare daCostantino, possedeva una certa
autorità all'interno della Chiesa, nella quale il primato petrino non era
pienamente assodato e riconosciuto. A questo si aggiunsero la posizione di
Ambrogio, vescovo della città di residenza della corte imperiale, e la sua
precedente carriera come avvocato, amministratore e politico, che lo portarono
più volte a intervenire incisivamente nelle vicende politiche, ad avere stretti
rapporti con gli ambienti della corte e dell'aristocrazia romana, e talvolta a
ricoprire specifici incarichi diplomatici per conto degli imperatori. In
particolare, nonostante il convinto lealismo verso l'impero Romano e
l'influenza nella vita politica dell'impero, i suoi rapporti con le istituzioni
non furono sempre pacifici, soprattutto quando si trattò di difendere la causa
della Chiesa e dell'ortodossia religiosa. Gli storici bizantini gli
accreditarono questo atteggiamento come parrhesia (παρρησία), schiettezza e
verità di fronte ai potenti e al potere politico, che traspare a partire dal
suo rapporto epistolare con l'imperatore Teodosio. Essendo Ambrogio
precettore dell'imperatore Graziano, lo educò secondo i principi del
Cristianesimo. Egli predicava all'imperatore di rendere grazie a Dio per le
vittorie dell'esercito e lo appoggiò nella disputa contro il senatore Simmaco,
che chiedeva il ripristino dell'altare alla dea Vittoria fatto rimuovere dalla
Curia romana Chiese poi a Graziano di indire il concilio di Aquileia nel
settembre del 381 per condannare due vescovi eretici, secondo i dettami dei
vari concili ecumenici ed anche secondo l'opinione del Papa e dei vescovi
ortodossi. In questo concilio Ambrogio si pronunciò contro l'arianesimo.
Ambrogio influì anche sulla politica religiosa di Teodosio I. Nel 388, dopo che
un gruppo di cristiani aveva incendiato la sinagoga della città di Callinico,
l'imperatore decise di punire i responsabili e di obbligare il vescovo,
accusato di aver istigato i distruttori, a ricostruire il tempio a suo spese.
Ambrogio, informato della vicenda, si scagliò contro questo provvedimento,
minacciando di sospendere l'attività religiosa, tanto da indurre l'imperatore a
revocare le misure. Nel 390 criticò aspramente l'imperatore, che aveva
ordinato un massacro tra la popolazione di Tessalonica, rea di aver linciato il
capo del presidio romano della città: in tre ore di carneficina erano state
assassinate migliaia di persone, attirate nell'arena con il pretesto di
una corsa di cavalli. Ambrogio, venuto a conoscenza dell'accaduto, evitò
diplomaticamente una contrapposizione aperta con il potere imperiale (con il
pretesto di una malattia evitò l'incontro pubblico con Teodosio) ma, per via
epistolare, chiese in modo riservato ma deciso una «penitenza pubblica»
all'imperatore, che si era macchiato di un grave delitto pur dichiarandosi
cristiano, pena il rifiuto di celebrare i sacri riti in sua presenza («Non oso
offrire il sacrificio, se tu vorrai assistervi», Lettera 11). Teodosio ammise
pubblicamente l'eccesso e nella notte Natale di quell'anno, venne riammesso ai
sacramenti. Dopo questo episodio la politica religiosa dell'imperatore si
irrigidì notevolmente: tra il 391 e il 392 furono emanati una serie di decreti
(noti come decreti teodosiani) che attuavano in pieno l'editto di Tessalonica:
venne interdetto l'accesso ai templi pagani e ribadita la proibizione di
qualsiasi forma di culto, compresa l'adorazione delle statue; furono inoltre
inasprite le pene amministrative per i cristiani che si riconvertissero
nuovamente al paganesimo e nel decreto emanato nel 392 da Costantinopoli,
l'immolazione di vittime nei sacrifici e la consultazione delle viscere erano
equiparati al delitto di lesa maestà, punibile con la condanna a morte.
Nel 393 Milano fu coinvolta nella lotta per il potere tra l'imperatore Teodosio
I e l'usurpatore Flavio Eugenio. In aprile Eugenio varcò le Alpi e puntò alla
conquista della città, in quanto capitale d'Occidente. Ambrogio partì e andò
ritirarsi a Bologna. Durante un soggiorno temporaneo a Faenza scrisse una
lettera ad Eugenio. Poi accettò l'invito della comunità di Firenze, ove rimase
per circa un anno. La guerra per il controllo dell'impero fu vinta da Teodosio.
Nell'autunno del 394 Ambrogio fece ritorno a Milano. Alla sua morte, per
sua stessa volontà, fu sepolto all'interno della basilica che tuttora porta il
suo nome, fra le spogli dei martiri Gervasio e Protasio. Le sue spoglie,
rinvenute sotto l'altare nel 1864, furono trasferite in un'urna di argento e
cristallo posta nella cripta della basilica. Pensiero e opere
Rilievo gotico raffigurante Ambrogio. Tra gli attributi del santo c'è il miele,
simbolo della dolcezza delle prediche e degli scritti Fortemente legata
all'attività pastorale di Ambrogio fu la sua produzione letteraria, spesso
semplice frutto di una raccolta e di una rielaborazione delle sue omelie e che
quindi mantengono un tono simile al parlato. Per il suo stile dolce e
misurato del suo parlato e della sua prosa, Ambrogio venne definito «dolce come
il miele» e tra i suoi attributi compare perciò un alveare. Esegesi Oltre
la metà dei suoi scritti è dedicata all'esegesi biblica, che egli affronta
seguendo un'interpretazione prevalentemente allegorica e morale del testo sacro
(in particolare per quanto riguarda l'Antico Testamento): ad esempio, ama
ricercare nei patriarchi e nei personaggi biblici in generale figure di Cristo
o esempi di virtù morali. Fu proprio questo metodo di lettura della Bibbia ad
affascinare Sant'Agostino e a risultare determinante per la sua conversione
(come egli scrisse nelle Confessioni V, 14, 24). Secondo Gérard Nauroy,
«per Ambrogio l'esegesi è un modo fondamentale di pensare piuttosto che un
metodo o un genere: [...] ormai egli "parla la Bibbia", non più con
la giustapposizione di citazioni dagli stili più diversi, ma in un discorso
sintetico, eminentemente allusivo, "misterico" come la Parola
stessa». Per Ambrogio la lettura e l'approfondimento della conoscenza biblica
costituiscono un elemento fondamentale della vita cristiana: «Bevi dunque
tutt'e due i calici, dell'Antico e del Nuovo Testamento, perché in entrambi
bevi Cristo. [...] La Scrittura divina si beve, la Scrittura divina si divora,
quando il succo della parola eterna discende nelle vene della mente e
nelle energie dell'anima» (Ambrogio, Commento al Salmo I, 33) Tra le
opere esegetiche spiccano l'esauriente commento al Vangelo di Luca (Expositio
evangelii secundum Lucam) e l'Exameron (dal greco "sei giorni").
Quest'ultima opera, ispirata ampiamente all'omonimo Exameron di Basilio di
Cesarea, raccoglie, in sei libri, nove omelie riguardanti i primi capitoli
della Genesi dalla creazione del cielo fino alla creazione dell'uomo. Anche in
questo caso, il racconto della creazione è occasione di evidenziare
insegnamenti morali desunti dalla natura e dal comportamento degli animali e
dalle proprietà delle piante; in questo senso l'uomo appare ad Ambrogio
necessariamente legato con tutto il creato dal punto di vista non solo
biologico e fisico, ma anche morale e spirituale. Morale e ascetismo Un
altro gruppo significativo consiste nelle opere di argomento morale o ascetico,
tra le quali risalta il De officiis ministrorum (talvolta abbreviato in De
officiis), un trattato sulla vita cristiana rivolto in particolare al clero ma
destinato a tutti i fedeli. L'opera ricalca l'omonimo scritto di Cicerone, che
si proponeva come manuale di etica pratica indirizzato al figlio (cui è
dedicato) rivolto soprattutto a questioni politico-sociali. Ambrogio riprende
il titolo (indirizzando l'opera ai suoi "figli" in senso spirituale,
cioè il clero e il popolo di Milano), la struttura (il libro è ripartito in tre
libri, dedicati all'honestum, all'utile e al loro contrasto risolto
nell'identificazione tra i due) e alcuni elementi contenutistici (tra i quali i
principi della morale stoica, come il dominio della razionalità, l'indipendenza
dai piaceri e dalla vanità delle cose, la virtù come sommo bene). Questi
elementi sono rivisti con originalità in chiave cristiana: agli exempla tratti
dalla storia e dalla mitologia classica, Ambrogio sostituisce ad esempio storie
ed esempi tratti dalla Bibbia. In generale, è lo stesso orientamento del testo
a non essere più etico-filosofico ma prevalentemente religioso e spirituale,
come egli spiega fin dall'inizio: «Noi valutiamo il dovere secondo un principio
diverso da quello dei filosofi. Essi considerano beni quelli di questa vita,
noi addirittura danni» (De officiis, I, 9, 29). Allo stesso modo, le virtù
tradizionali vengono rilette cristianamente e accettate alla luce del Vangelo:
la fides (lealtà) diventa la fede in Cristo, la prudenza include la devozione
verso Dio, esempi di fortezza divengono i martiri. Alle virtù classiche si
aggiungono le virtù cristiane: la carità (che già esisteva nel mondo latino,
ora assume un significato più interiore e spirituale), l'umiltà, l'attenzione
verso i poveri, gli schiavi, le donne. Altre cinque opere sono dedicate
alla verginità, specialmente quella femminile (De virginibus, De viduis, De
virginitate, De institutione virginis e Exhortatio virginitatis). Ambrogio
esalta la verginità come massimo ideale di vita cristiana, sulla scia della
tradizione cristiana da San Paolo («colui che sposa la sua vergine fa bene e
chi non la sposa fa meglio», 1 Cor 7,38) fino al contemporaneo Girolamo, senza
tuttavia negare la validità della vita matrimoniale. La scelta della verginità
è ritenuta l'unica vera scelta di emancipazione per la donna dalla vita
coniugale, in cui si trova subordinata. Critica aspramente in questo senso il
fatto che il matrimonio costituisca solo un contratto economico e sociale, che
non lascia spazio alla scelta degli sposi e in particolare della donna:
«Davvero degna di compianto è la condizione che impone alla donna, per
sposarsi, di essere messa all'asta come una sorta di schiavo da vendere, perché
la compri chi offre il prezzo più alto» (De virginibus, I, 9, 56). Per questo
Ambrogio incoraggia i genitori ad accettare la scelta di verginità dei figli e
i figli a resistere alle difficoltà imposte dalla famiglia («Se vinci la
famiglia, vinci anche il mondo», De virginibus, I, 11, 63). Società e
politica Ambrogio assolve Teodosio dopo l'episodio di Tessalonica Nel
confronto con la società e gli ideali del mondo latino, Ambrogio accolse i
valori civili della romanità con l'intento di dare ad essi nuovo significato
all'interno della religione cristiana. Nel suo Esamerone esalta l'istituzione
repubblicana (di cui l'antica repubblica romana era secondo lui un ammirevole
esempio) prendendo spunto dalla spontanea organizzazione delle gru, che si
dividono il lavoro avvicendandosi nei turni di guardia: «Che c'è di più
bello del fatto che la fatica e l'onore comuni a tutti e il potere non sia
preteso da pochi, ma passi dall'uno all'altro senza eccezioni come per una
libera decisione? Questo è l'esercizio di un ufficio proprio di un'antica
repubblica, quale conviene in uno stato libero.» (Esamerone, VIII, 15,
51) Nella visione di Ambrogio inoltre potere e dell'autorità, intesi come
servizio («Libertà è anche il servire», Lettera 7), dovevano essere sottomessi
alle leggi di Dio. Prendendo ispirazione dal racconto della corona imperiale e
del morso di cavallo realizzati, secondo la tradizione, da Costantino con i
chiodi della croce di Gesù, nel discorso funebre di Teodosio egli elogiò la
sottomissione dell'imperatore a Cristo, dimostrata in primis dall'episodio di
Tessalonica: «Per quale motivo [ebbero] "una cosa santa sul
morso" se non perché frenasse l'arroganza degli imperatori, reprimesse la
dissolutezza dei tiranni che, come cavalli, nitrivano smaniosi di piaceri,
perché potevano impunemente commettere adulteri? Quali turpitudini conosciamo
dei Neroni e dei Caligola e di tutti gli altri che non ebbero "una cosa
santa sul morso"!» (In morte di Teodosio, 50) Di fronte al
dispotismo e alla dissolutezza che avevano caratterizzato il comportamento di
non pochi imperatori romani, Ambrog io vide nel cristianesimo una
possibilità per "redimere" il potere imperiale e renderlo giusto e
clemente. Nella sua idea, infatti, il cristianesimo avrebbe dovuto sostituire
il paganesimo nella società romana senza per questo negare e distruggere le
istituzione imperiali («Voi [pagani] chiedete pace per le vostre divinità agli
imperatori, noi per gli stessi imperatori chiediamo pace a Cristo», Lettera 73
a Valentiniano II), ma anzi dando ai valori romani la nuova linfa offerta dalla
morale cristiana. Ambrogio richiamò infine la società romana nella quale
era sempre più accentuato il divario tra ricchi e poveri; alla sperequazione
economica, Ambrogio contrapponeva infatti la morale del Vangelo e della
tradizione biblica. Così egli scrive nel Naboth: «La terra è stata creata
come un bene comune per tutti, per i ricchi e per i poveri: perché, o ricchi,
vi arrogate un diritto esclusivo sul suolo? [...] Tu [ricco] non dai del tuo al
povero [quando fai la carità], ma gli rendi il suo; infatti la proprietà
comune, che è stata data in uso a tutti, tu solo la usi.» (Naboth, 1,2;
12, 53) Antigiudaismo Magnifying glass icon mgx2.svg Antisemitismo §
Antigiudaismo teologico. Per Ambrogio era fondamentale la storia di Israele
come popolo eletto: da qui la grande presenza dell'Antico Testamento nel rito
ambrosiano, le numerosissime sue opere di commento agli episodi della storia
ebraica, la conservazione della sacralità del sabato, ecc. Tuttavia, come era
comune nel cristianesimo dei primi secoli, forte era anche la volontà di
mostrare l'originalità cristiana rispetto alla tradizione giudaica (che non
aveva riconosciuto Gesù come Messia) e di affermare l'indipendenza e le
prerogative della Chiesa nascente. Ad esempio, nell'Expositio Evangelii
secundum Lucam (4, 34), commentando un passo del vangelo di Luca in cui un uomo
invaso dallo spirito di un demonio impuro, grida: «Ah! Che c'è fra noi e te,
Gesù Nazareno? Sei venuto per rovinarci? So chi tu sei: il Santo di Dio»,
Ambrogio critica aspramente l'incredulità della gente circostante: «Chi è
colui che aveva nella sinagoga spirito immondo di demonio, se non la folla dei
giudei che, come stretta da spire serpentine e legata dai lacci del diavolo,
simulata la purità del corpo, profanava con le immondezze della mente
interiore? Ebbene: era nella sinagoga l'uomo che aveva lo spirito immondo;
perché lo Spirito Santo lo aveva ammesso. Era entrato infatti il diavolo dal
luogo da cui Cristo era uscito. Insieme, si mostra la natura del diavolo non
come ostinata, ma come opera ingiusta. Infatti quello che attraverso una natura
superiore professa il Signore, con le opere lo nega. E in questo appare la sua
malvagità [del demonio] e l'ostinazione dei giudei, poiché così [il demonio]
spandé tra la folla la cecità della mente furiosa; affinché la gente neghi,
colui che i demoni professano. O eredità dei discepoli peggiore del maestro!
Quello tenta il Signore con le parole, essi con l'agire: egli dice
"Buttati!" (Luc. IV, 9), questi sono assaliti perché [lo]
buttino.» L'episodio di Callinicum Le cronache storiche riportano un
episodio che può essere considerato rivelatore dell'atteggiamento di Ambrogio
nei riguardi degli ebrei. Nel 388, a Callinicum (Kallinikon, sul fiume Eufrate,
in Asia, l'attuale al-Raqqa), una folla di cristiani diede l'assalto alla
sinagoga e la bruciò. Il governatore romano condannò l'accaduto e, per
mantenere l'ordine pubblico, dispose affinché la sinagoga venisse ricostruita a
spese del vescovo. L'imperatore Teodosio I rese noto di condividere quanto
deciso dal suo funzionario. Ambrogio si oppose alla decisione
dell'imperatore e gli scrisse una lettera (Epistulae variae 40) per convincerlo
a ritirare l'ingiunzione di ricostruire la sinagoga a spese del vescovo: «Il
luogo che ospita l'incredulità giudaica sarà ricostruito con le spoglie della
Chiesa? Il patrimonio acquistato dai cristiani con la protezione di Cristo sarà
trasmesso ai templi degli increduli?... Questa iscrizione porranno i giudei sul
frontone della loro sinagoga:Tempio dell'empietà ricostruito col bottino dei
cristiani -... Il popolo giudeo introdurrà questa solennità fra i suoi giorni
festivi...» Citando dalla lettera di Ambrogio a Teodosio (Epistulae
variae 40,11): «Ma ti muove la ragione della disciplina. Che cosa dunque
è più importante, l'idea di disciplina [mantenimento dell'ordine pubblico] o il
motivo della religione?» Nell'epistola Ambrogio si attribuì la
responsabilità dell'incendio: «Io dichiaro di aver dato alle fiamme la
sinagoga, sì, sono stato io che ho dato l'incarico, perché non ci sia più
nessun luogo dove Cristo venga negato» Ambrogio si spinse ad affermare
che quell'incendio non era affatto un delitto e che se lui non aveva ancora
dato l'ordine di bruciare la sinagoga di Milano era solo per pigrizia e che
bruciare le sinagoghe era altresì un atto glorioso. Ambrogio non volle
salire sull'altare finché l'imperatore non abolì il decreto imperiale
riguardante la ricostruzione della sinagoga a spese del vescovo. Secondo la
visione del vescovo, nella questione della religione l'unico foro competente da
consultare doveva essere la Chiesa cattolica la quale, grazie ad Ambrogio,
divenne la religione statale e dominante. In questa impresa lo scopo era quello
di avvalorare l'indipendenza della Chiesa dallo Stato, affermando anche la
superiorità della Chiesa sullo Stato in quanto emanazione di una legge
superiore alla quale tutti devono sottostare. Mariologia Sebbene non si
possa parlare di una mariologia vera e propria (intesa come pensiero
sistematico), sono numerosi nell'opera di Ambrogio i riferimenti a Maria:
spesso, quando si presenta l'occasione, egli si rifà alla sua figura e al suo
esempio. La sua venerazione per Maria nasce soprattutto dal ruolo
attribuitole nella storia della salvezza. Maria è infatti madre di Cristo, e
dunque modello per tutti i credenti che, come lei, sono chiamati a
"generare" Cristo: «Vedi bene che Maria non aveva dubitato,
bensì creduto e perciò aveva conseguito il frutto della sua fede. «Beata tu che
hai creduto». Ma beati anche voi che avete udito e avete creduto: infatti, ogni
anima che crede, concepisce e genera il Verbo di Dio e ne comprende le
operazioni. Sia in ciascuno l’anima di Maria a magnificare il Signore, sia in
ciascuno lo spirito di Maria ad esultare in Dio: se, secondo la carne, una sola
è la madre di Cristo, secondo la fede tutte le anime generano Cristo»
(Esposizione del Vangelo secondo Luca, II, 19. 24-26) Ambrogio difende
strenuamente la verginità di Maria, soprattutto in relazione al mistero di
Cristo: egli infatti, proprio perché nato da vergine, non ha contratto il
peccato originale. Maria è anche la prima donna a cogliere i "frutti"
della venuta di Cristo: «Non c’è affatto da stupirsi che il Signore,
accingendosi a redimere il mondo, abbia iniziato la sua opera proprio da Maria:
se per mezzo di lei Dio preparava la salvezza a tutti gli uomini, ella doveva
essere la prima a cogliere dal Figlio il frutto della salvezza»
(Esposizione del vangelo secondo Luca, II, 17) Maria è inoltre modello di virtù
morali e cristiane, in primo luogo per le vergini («Nella vita di Maria
risplende la bellezza della sua castità e della sua esemplare virtù») ma anche
per tutti i fedeli; di lei vengono esaltate la sincerità (la verginità «di
mente»), l'umiltà, la prudenza, la laboriosità, l'ascesi. Milano e il
rito ambrosiano Sant'Ambrogio con in mano il flagello contro i nemici di
Milano, in un bassorilievo quattrocentesco Magnifying glass icon mgx2.svg Rito
ambrosiano. L'operato di Sant'Ambrogio a Milano ha lasciato segni profondi
nella diocesi della città. Già nel settembre del 600 papa Gregorio Magno
parlò del neoeletto vescovo di Milano, Deodato, non tanto come successore, bensì
come "vicario" di sant'Ambrogio (equiparandolo quasi ad un secondo
"vescovo di Roma"). Nell'anno 881 invece papa Giovanni VIII definì
per la prima volta la diocesi "ambrosiana", termine che è rimasto
ancora oggi per identificare non solo la Chiesa di Milano, ma talvolta anche la
stessa città. L'eredità di Ambrogio è delineata principalmente a partire
dalla sua attività pastorale: la predicazione della Parola di Dio coniugata
alla dottrina della Chiesa cattolica, l'attenzione ai problemi della giustizia
sociale, l'accoglienza verso le persone provenienti da popoli lontani, la
denuncia degli errori nella vita civile e politica. L'operato di Ambrogio
lasciò un segno profondo in particolare sulla liturgia. Egli introdusse nella
Chiesa occidentale molti elementi tratti dalle liturgie orientali, in
particolare canti e inni. Si attribuisce ad Ambrogio l'inno Te Deum laudamus,
ma la questione è controversa e negata anche da Luigi Biraghi. Le riforme
liturgiche furono mantenute nella diocesi di Milano anche dai successori e
costituirono il nucleo del Rito ambrosiano, sopravvissuto all'uniformazione dei
riti e alla costituzione dell'unico rito romano voluta da papa Gregorio I e dal
Concilio di Trento. In dialetto milanese Ambrogio viene chiamato sant
Ambroeus (grafia classica) o sant Ambrös (entrambi pronunciati
"sant'ambrœs"). Sant'Ambrogio affrescato da Masolino,
Battistero Castiglione Olona Alla sua figura è ispirato anche il premio
Ambrogino d'oro, che è il nome non ufficiale con cui sono comunemente chiamate
le onorificenze conferite dal comune di Milano. Sant'Ambrogio e il canto
liturgico Michael Pacher, Sant'Ambrogio, Monaco, Alte Pinakothek Con il
termine di ambrosiano non si definisce solo il rito della Chiesa Cattolica che
fa riferimento al santo, ma anche un preciso modo di cantare durante la
liturgia. Esso viene indicato con il nome di canto ambrosiano. Esso è
caratterizzato dal canto di inni, cioè di nuove composizioni poetiche in versi,
che vengono cantate da tutti i partecipanti al rito. A differenza di
quanto avveniva per i salmi, solitamente cantati da un solista o da un
gruppo di coristi, essi vengono invece cantati da tutti i partecipanti, in cori
alternati, normalmente tra donne e uomini, ma in altri casi tra giovani e
anziani o anche tra fanciulli e adulti. Alcuni di questi inni sono stati
sicuramente composti da Ambrogio. La certezza viene dal fatto che a menzionarli
è sant'Agostino, che fu discepolo di Sant'Ambrogio. Essi sono:
Aeterne rerum conditor (cf. Retractionum I,21); Iam surgit hora tertia (cf. De
natura et gratia 63,74); Deus creator omnium (ricordato nelle Confessioni e
citato complessivamente ben cinque volte dal vescovo di Ippona); Intende qui
regis Israel (cf. Sermo 372 4,3). Attraverso la liturgia della Chiesa cattolica
in generale e di quella ambrosiana in particolare, sono giunti fino a noi una
moltitudine di inni in stile ambrosiano. I ricercatori hanno cercato di trovare
dei criteri per indicare quelli che, con più certezza, sono stati composti da
Ambrogio. Nel 1862 Luigi Biraghi ne indicava tre: la conformità degli inni con
l'indole letteraria di Ambrogio, con il suo vocabolario e con il suo stile. Con
questi criteri egli arrivò a selezionare diciotto inni: Splendor paternae
gloriae (nell'aurora) Iam surgit hora tertia (per l'ora di terza domenicale)
Nunc sancte nobis Spiritus (per l'ora di terza feriale) Rector potens verax
Deus (per l'ora di sesta) Rerum, Deus, tenax vigor (per l'ora di nona) Deus
creator omnium (per l'ora dell'accensione) Iesu, corona virginum (inno della
verginità) Intende qui regis Israel (per il Natale del Signore) Inluminans
Altissimus (per le Epifanie del Signore) Agnes beatae virginis (per
sant'Agnese) Hic est dies verus Dei (per la Pasqua) Victor, Nabor, Felix, pii
(per i santi Vittore, Nabore e Felice) Grates tibi, Iesu, novas (per i santi
Gervasio e Protasio) Apostolorum passio (per i santi Pietro e Paolo)
Apostolorum supparem (per san Lorenzo) Amore Christi nobilis (per san Giovanni
Evangelista) Aeterna Christi munera (per i santi martiri) Aeterne rerum
conditor (al canto del gallo) Gli autori dell'edizione delle opere poetiche di
Ambrogio in un volume stampato nel 1994, che ha portato a compimento l'Opera
Omnia, in latino e in italiano, del vescovo di Milano, hanno ridotto questo
numero certo a tredici canti, escludendo quelli per le ore minori, per i
martiri e della verginità. L'esclusione va ascritta alla metrica di questi
testi. Ambrogio aveva una predilezione per il numero otto. I suoi inni sono
tutti di otto strofe con versi ottosillabici. Egli vedeva in questo numero la
risurrezione di Cristo, la novità cristiana e la vita eterna (octava dies,
l'ottavo giorno della settimana, cioè il nuovo giorno, in cui inizia l'era del
Cristo). Per questi studiosi appare improbabile che egli sia venuto meno a
questa preferenza e quindi quelli di due o di quattro strofe non vengono
attribuiti al vescovo milanese. Per questi storici inoltre non vi è
motivo di dubitare che l'autore della melodia sia lo stesso Ambrogio dato che
per loro natura questi inni nascono consostanziati alla musica. Il Migliavacca
nota come Ambrogio possedesse una conoscenza musicale approfondita. Le sue
opere rivelano, oltre a una perfetta conoscenza scolastica, anche una
particolare propensione musicale. Egli parla dell'arte musicale con cognizione
tecnica e non solo con estetica raffinatezza come il suo discepolo
Agostino. Leggende su Sant'Ambrogio Spoglie mortali di Ambrogio e
Gervasio, rivestite dei paramenti liturgici, nella cripta della Basilica di
Sant'Ambrogio a Milano. Su Sant'Ambrogio vi sono numerose leggende
miracolistiche: Mentre Ambrogio infante dormiva nella sua culla posta
temporaneamente nell'atrio del Pretorio, uno sciame di api si posò
improvvisamente sulla sua bocca, dalla quale e nella quale esse entravano ed
uscivano liberamente. Dopodiché lo sciame si levò in volo salendo in alto e
perdendosi alla vista degli astanti. Il padre, impressionato da tutto ciò,
avrebbe esclamato: «Se questo mio figlio vivrà, diverrà sicuramente un
grand'uomo!». Ambrogio, camminando per Milano, avrebbe trovato un fabbro che
non riusciva a piegare il morso di un cavallo: in quel morso Ambrogio riconobbe
uno dei chiodi con cui venne crocifisso Cristo. Dopo vari passaggi, un
"chiodo della crocifissione" è tuttora appeso nel Duomo di Milano, a
grande altezza, sopra l'altare maggiore. Nella piazza davanti alla basilica di
Sant'Ambrogio a Milano è presente una colonna, comunemente detta "la
colonna del diavolo". Si tratta di una colonna di epoca romana, qui
trasportata da altro luogo, che presenta due fori, oggetto di una leggenda
secondo la quale la colonna fu testimone di una lotta tra Sant'Ambrogio ed il
demonio. Il maligno, cercando di trafiggere il santo con le corna, finì invece
per conficcarle nella colonna. Dopo aver tentato a lungo di divincolarsi,
il demonio riuscì a liberarsi e, spaventato, fuggì. La tradizione popolare
vuole che i fori odorino di zolfo e che appoggiando l'orecchio alla pietra si
possano sentire i suoni dell'inferno. In realtà questa colonna veniva usata per
l'incoronazione degli imperatori germanici. A Parabiago, Ambrogio sarebbe
apparso il 21 febbraio 1339, durante la celebre battaglia: a dorso di un
cavallo e sguainando una spada, mise paura alla Compagnia di San Giorgio
capitanata da Lodrisio Visconti, permettendo alle truppe milanesi del fratello
Luchino e del nipote Azzone di vincere. A ricordo di tale leggenda fu edificata
a Parabiago la Chiesa di Sant'Ambrogio della Vittoria e a Milano, su un portone
bronzeo del Duomo, gli è stata dedicata una formella. Opere: “Divi Ambrosii
Episcopi Mediolanensis Omnia Opera”; “Oratorie (esegetiche)” “Exameron”; “De
paradiso”; “De Cain et Abel”; “De Noe”; “De Abraham”; “De Isaac et anima”; “De
bono mortis”; “De Iacob et vita beata”; “De Ioseph”; “De patriarchis”; “De fuga
saeculi”; “De interpellatione Iob et David Apologia”; “David”; “De Helia et
ieiunio”; “De Tobia”; “De Nabuthae historia; “Explanatio in XII Psalmos
Davidicos”; “Expositio in Psalmum CXVIII”; “Expositio in Lucam De excessu
fratris; “Satyri libri duo”; “De obitu Valentiniani consolation”; “De obitu
Theodosii oratio Morali (ascetiche); “De virginibus” o “Ad Marcellinam sororem
libri tres De viduis; “De perpetua virginitate Sanctae Mariae”; “Adhortatio
virginitatis o Exhortatio virginitatis”; “De officiis ministrorum Dogmatiche
(sistematiche): “De fide ad Gratianum Augustum libri quinque; “De Spiritu
Sancto ad Gratianum Augustum; “De incarnationis dominicae sacramento; “De
paenitentia Catechetiche; “De sacramentis libri sex; “De mysteriis De
sacramento regenerationis sive de philosophia; “Explanatio Symboli ad
initiandos Epistolario: “Epistulae Innografia Hymni Altro Sermo contra Auxentium
de basilicis tradendis”. Tituli Curiosità S.Ambrogio essendo patrono delle api,
rappresenta al meglio l'operosità non solo quella risaputa dei milanesi, di cui
è patrono festeggiato il 7 dicembre, ma di tutti coloro che si impegnano nel
lavoro, con combattività, spirito di sacrificio e di spirito di abnegazione.
Inoltre S.Ambrogio ha come secondo simbolo il gabbiano che è legato alla sensazione
di libertà e spazio immenso. Il gabbiano trova l'equilibrio e si alimenta di
ciò che trova nel rispetto della sua natura di predatore e onnivoro che non si
tira indietro a nulla per la propria sopravvivenza. Per le suddette simbologie,
e per tutte le altre che sia le api che i gabbiani rappresentano, S.Ambrogio è
ormai considerato da tempo il protettore delle startup innovative che vedono in
S.Ambrogio, guida sicura con la sua famosa frase di valore eterno: "Voi
pensate che i tempi sono cattivi, i tempi sono pesanti, i tempi sono difficili.
Vivete bene e muterete i tempi" Note
lastampa/vatican-insider/it//10/02/news/milano-studi-confermano-l-identita-di-sant-ambrogio-e-di-due-martiri-1.34049446
Johan Leemans, Peter Van Nuffelen e Shawn W. J. Keough, Episcopal Elections in
Late Antiquity, Walter de Gruyter, 28 luglio,
978-3-11-026860-7. Ambrogio,
Exorthatio virginitatis, 12, 82 Robert
Wilken, "The Spirit of Early Christian Thought" (Yale University
Press: New Haven, 2003), 218. Michael Walsh, ed. "Butler's Lives of
the Saints" (HarperCollins Publishers: New York, 1991), 407.
Paolino, Vita di Ambrogio, 6
Basilica Vetus e Battistero di Santo Stefano alle fonti, su
adottaunaguglia.duomomilano. 18 marzo.
Paolino, Vita di Ambrogio, 7-8
Indro Montanelli, Storia di Roma, Rizzoli, 1957 Ambrogio, Lettera fuori coll. 14 ai
Vercellesi, 65 Ambrogio, De officiis, I,
1, 4 Giacomo Biffi, Relazione al Meeting
di Rimini, 29-08-1997 C. Pasini, I Padri
della Chiesa. Il cristianesimo dalle origini e i primi sviluppi della fede a
Milano, op. cit., 169-170 Graziano avrebbe voluto convocare un concilio
numeroso, ma Ambrogio lo esortò a convocare un numero limitato di vescovi,
affermando che per appurare la verità ne bastavano pochi e che non era il caso
di incomodarne troppi, facendo loro affrontare un viaggio faticoso (Neil B.
McLynn, Ambrose of Milan: Church and Court in a Christian Capital, University
of California Press, 1994. 124–5.). Codex Theodosianus, 16.10.10 Codex Theodosianus, 16.7.4 Codex Theodosianus, 16.10.12.1 Guida della Basilica di S. Ambrogio: note
storiche sulla Basilica ambrosiana, Ferdinando Reggiori, Ernesto Brivio, Nuove
Edizioni Duomo, 198686. Gérard Nauroy,
L'Ecriture dans la pastorale d'Ambroise de Milan, in Le monde latin antique et
la Bible. J. Fontaine e C. Pietri, Parigi 1985. Citato in Pasini, I Padri della
Chiesa. Il cristianesimo delle origini e i primi sviluppi della fede a Milano,
op. cit. Per un'ampia descrizione
dell'episodio: Antonietta Mauro Todini, Aspetti della legislazione religiosa
del IV secolo, La Sapienza Editrice, Roma, 1990, pag. 3 e segg.; Thomas J.
Craughwell, Santi per ogni occasione, Gribaudi, 2003, pag.49; Lucio De
Giovanni, Chiesa e stato nel Codice Teodosiano, Tempi moderni, pag.120;
Giovanni De Bonfils, Roma e gli ebrei, Cacucci, 2002, pag. 186; Mariateresa
Amabile, Nefaria Secta. La normativa imperiale ‘de Iudaeis’ tra repressione,
protezione, controllo, I, Jovene, Napoli,.James Hastings, Encyclopedia of
Religion and Ethics, Kessinger Publishing, 2003, pag. 374 Walter Peruzzi, Il cattolicesimo reale,
Odradek, Roma, 2008 Ambrogio, De
virginibus, 2, 6-18, citato in L. Gambero, Testi mariani del primo millennio,
Città Nuova, 1990 Rito Ambrosiano: la centralità dell'opera di
Sant'Ambrogio per la Chiesa di Milano
Jacopo da Varazze, Leggenda Aurea, LVII. Un episodio analogo è riferito
anche a Santa Rita da Cascia, vedi: Alfredo Cattabiani, Santi d'Italia, Ed.
Rizzoli, Milano, 1993, 88-17-84233-8,
pag. 816 Per una narrazione della
leggenda e della costruzione della chiesa si veda: Don Gerolamo Raffaelli, La
vera historia della Vittoria qual ebbe Azio Visconti nell'anno della comune
salute 1339 nel dì XXI febbr. in Parabiago contro Lodrisio V Limonti, Milano,
anno MDCIX Don Claudio Cavalleri, Racconto istorico della celebre Vittoria
ottenuta da Luchino Visconti princ. di Milano per la miracolosa apparizione di
Santo Ambrogio, seguita il dì 21 febbr. l'anno 1339 in Parabiago, e dedicata al
March. D. Giambattista Morigia G. Richino Malerba, Milano, 1745 Alessandro
Giulini, La Chiesa e l'Abbazia Cistercense di S. Ambrogio della Vittoria in
Parabiago, Archivio Storico Lombardo, 1923, pagina 144 Ponzio di Cartagine, Vita di Cipriano; vita
di Ambrogio; vita di Agostino / Ponzio, Paolino, Possidio, Città Nuova, Milano,
1977 Tutte le opere di sant'Ambrogio, Ed. bilingue a cura della Biblioteca
Ambrosiana, Roma: Città nuova. Angelo Paredi, Ambrogio, FIR MilanoStoriaSec.
IV-V Hoepli collana Collezione Hoepli Angelo Ronzi, Sant'Ambrogio e Teodosio:
studio storico-filosofico, Visentini editore, Venezia. Enrico Cattaneo, Terra
di Sant'Ambrogio: la Chiesa milanese nel primo millennio; Annamaria Ambrosioni,
Maria Pia Alberzoni, Alfredo Lucioni, Ed. Vita e pensiero, Milano, 1989. Vita
di sant'Ambrogio: La prima biografia del patrono di Milano di Paolino di
Milano, Marco Maria Navoni, Edizioni San Paolo, 1996. 978-88-215-3306-8 Cesare Pasini, Ambrogio di
Milano. Azione e pensiero di un vescovo, Edizioni San Paolo, Cinisello B.
Vaccaro, Giuseppe Chiesi, Fabrizio Panzera, Terre del Ticino. Diocesi di
Lugano, Editrice La Scuola, Brescia, Piana, Ambrogio in Enciclopedia Biografica Universale, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia italiana Treccani, 2006, 434-442. Dario Fo,
Sant'Ambrogio e l'invenzione di Milano Einaudi Torino 2009 978-88-06-19486-4.
Raffaele Passarella, Ambrogio e la medicina. Le parole e i concetti, LED
Edizioni Universitarie, Milano 2009 978-88-7916-421-4 Cesare Pasini, I Padri
della Chiesa. Il cristianesimo dalle origini e i primi sviluppi della fede a
Milano., Busto Arsizio, Nomos Edizioni.
978-88-88145-46-4 Franco Cardini, 7 dicembre 374. Ambrogio vescovo di
Milano, in I giorni di Milano, Roma-Bari, 21-40. Sant'Ambrogio, in San Carlo
Borromeo, I Santi di Milano, Milano,
978-88-97618-03-4 Patrick Boucheron e Stéphane Gioanni, La memoria di
Ambrogio di Milano. Usi politici di una autorità patristica in Italia (secc.
V-XVIII), Paris-Roma, Publications de la Sorbonne-École française de Rome, (Histoire ancienne et médiévale, 133CEF,
Sant'Ambrogio, [Opere], apud inclytam Basileam, [Johann Froben], 1527. Sant AmbroeusTra storia e leggenda, Meravigli
edizioni (in collaborazione con Circolo Filologico Milanese), Milano, Satiro di Milano Santa Marcellina Agostino
di Ippona Basilica di Sant'Ambrogio Patristica Diocesi di Milano Rito
ambrosiano Paolino di Milano Chiesa dei Santi Ambrogio e Theodulo Altri
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Svizzera. Sant'Ambrogio, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica,
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Episcopale Italiana. Opere di
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LibriVox. su Sant'Ambrogio, su Les
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Robert Appleton Company. David M. Cheney, Sant'Ambrogio, in Catholic
Hierarchy. Sant'Ambrogio, su Santi,
beati e testimoni, santiebeati. Epistole di S.Ambrogio, su tertullian.org. Epistole di S.Ambrogio, su intratext.com.
Opera Omnia dal Migne Patrologia Latina con indici analitici, su documentacatholicaomnia.eu.
Cathechesi, su w2.vatican.va. di papa Benedetto XVI su Sant'Ambrogio in
occasione dell'udienza generale PredecessoreVescovo di
MilanoSuccessoreBishopCoA PioM.svg Aussenzio374-397San Simpliciano SoresiniV D
M Padri e dottori della Chiesa cattolica V D M Ambrogio di Milano Antica
Roma Antica Roma Biografie Biografie Cattolicesimo Cattolicesimo Milano Milano Categorie: Funzionari romaniVescovi
romani del IV secoloTeologi romani 397 4 aprile Treviri MilanoAmbrogio di
MilanoSanti romani del IV secoloCorrispondenti di Quinto Aurelio SimmacoDottori
della Chiesa cattolicaPadri della ChiesaSanti per nomeScrittori cristiani
antichiScrittori romaniTeologi cristianiVescovi e arcivescovi di MilanoSanti
della Chiesa ortodossa. Acta Sancti Sebastiani Martyris [Incertus] -- San
Sebastiano -- Sebastiano -- Ad Virginem
Devotam -- Apologia Altera Prophetae David
-- Apologia Prophetae David Ad Theodosium
Augustum -- Commentarius In Cantica
Canticorum -- De Abraham Libri Duo -- De
Benedictionibus Patriarcharum -- De Bono
Mortis -- De Cain Et Abel Libri Duo -- De Concordia
Matthaei Et Lucae In Genealogia Christi -- De Dignitatate
Conditionis Humanae Libellus. De Dignitate Sacerdotali. De Elia Et Jejunio
Liber Unus -- De Excessu Fratris Sui Satyri Libri
Duo -- De Excidio Urbis Hierosolymitanae Libri
Quinque -- De Fide Ad Gratianum Augustum Libri
Quinque -- De Fide Orthodoxa Contra
Arianos -- De Fuga Saeculi -- De Incarnationis Dominicae
Sacramento -- De Institutione Virginis Et Sanctae Mariae Virginitate
Perpetua -- De Interpellatione Job Et David Liber
Quatuor -- De Isaac Et Anima -- De Jocob Et Vita Beata
Libri Duo -- De Joseph Patriarca -- De Lapsu Virginis
Consecratae -- De Moribus Brachmanorum
[Incertus] -- De Mysteriis -- De Nabuthe Jezraelita
-- De Noe Et Arca -- De Noe Et Arca Liber Unus [Fragmentum]
-- De Obitu Theodosii Oratio -- De Obitu
Valentiniani Consolatio -- De Officiis Ministrorum Libri Tres -- De
Paradiso -- De Poenitentia Liber Unus -- De Poenitentia
Libri Duo -- De Sacramentis Liber Sex -- De Spiritu
Sancto Libellus -- De Spiritu Sancto Libri Tres -- De
Tobia Liber Unus -- De Trinitate. Alias In Symbolum
Apostolorum Tractatus -- De Viduis -- De Virginibus Ad
Marcellinam Sororem Sua Libri Tres -- De Virginitate -- De
XLII Mansionibus Filiorum Israel
Tractatus -- Enarrationes In XII Psalmos
Davidicos -- Epistola De Fide Ad Beatum Hieronymum
[Incertus] -- Epistolae Duae De Monacho Energumeno
[Incertus] -- Epistolae Ex Ambrosianarum Numero
Segregatae -- Epistolae Prima
Classis -- Epistolae Secunda
Classis -- Exameron Libri Sex -- Exhortatio
Virginitatis -- Exorcismus -- Expositio Evangelii Secundum
Lucam Libris X Comprehensa -- Expositio Super Septem Visiones
Libri Apocalypsis -- Historia De Excidio Hierosolymitanae Urbis
Anacephalaeosis --- Hymni -- Hymni Sancti Abrosio
Attributi [Incertus] -- In Epistolam Beati Pauli Ad
Colossenses -- In Epistolam Beati Pauli Ad Corinthios
Primam. In Epistolam Beati Pauli Ad Corinthios Secundam -- In
Epistolam Beati Pauli Ad Ephesios. In Epistolam Beati Pauli Ad
Galatas -- In Epistolam Beati Pauli Ad Philemonem . In
Epistolam Beati Pauli Ad Philippenses -- In Epistolam Beati Pauli Ad
Romanos -- In Epistolam Beati Pauli Ad Thessalonicenses Primam. In
Epistolam Beati Pauli Ad Thessalonicenses Secundam -- In Epistolam Beati Pauli Ad Timotheum
Primam . In Epistolam Beati Pauli Ad Timotheum
Secundam -- In Epistolam Beati Pauli Ad Titum -- In
Psalmum David CXVIII Expositio -- Liber De Vitiorum Virtutumque
Conflictu [Incertus] -- Libri Duo de Vocatione Gentium
[Incertus] -- Philosophorum Aliquot Epistolae
[Incertus] -- Precationes Duae Hactenius Ambrosio
Attributae -- Sermones Sancto Ambrosio Hactenus
Ascripti -- Sermones Tres -- Vita Ex Ejus Scriptis
Collecta [Editor] -- Vita Operaque -- Vita Operaque.
Selecta Vetera Testimonia -- Vita Sancti Ambrosii Mediolanensis Episcopi
[A Paulino Ejus Notario] -- De Abraham Libri Duo -- De
Bono Mortis -- De Cain et Abel Libri Duo -- De Isaac et Anima -- De
Mysteriis -- De Noe Et Arca. De Paradiso -- Epistola VIII --
Epistula ad Sororem -- Epistulae Variae -- Hexameron
Libri Sex. Hymni -- Vita -- La Penitenza -- La
Penitenza -- De Excessu Fratris Sui Satyri Libri Duo
[Schaff] -- De Fide Ad Gratianum Augustum Libri Quinque
[Schaff] -- De Mysteriis -- Mysteriis Liber Unus
[Schaff] -- De Officiis Ministrorum Libri Tres
[Schaff] -- De Poenitentia Libri Duo [Schaff] -- De
Spiritu Sancto Libri Tres [Schaff] -- De Viduis Liber Unus
[Schaff] -- De Virginibus Ad Marcellinam Sororem Sua Libri Tres
[Schaff] -- Epistola. Exposition Of The Christian
Faith -- On The Decease Of His Brother Saytrus -- On The
Duties Of The Clergy -- On The Holy Spirit --
Repentance -- Some Letters -- Some Letters [Schaff]. To Marcellina His
Sister Concerning Virgins. -- Treatise Concerning The Widows. IL
DIRITTO ROMANO Fu sopratutto col pacifico apostolato della scienza e della
virtù,chequeigrandi uomini, cuila Chiesagiustamentesaluta suoi padri, illuminarono
e vinsero il mondo pagano. Allo scetti cismo, frutto di astruse teorie
filosofiche, che distruggevano senza edificare, essi opposero le verità
cattoliche, profonde e s u blimi pei sapienti, chiare e popolari per la
moltitudine,pratiche per tutti;alla spaventosa depravazione prodotta e
mantenuta da una religione tutta materia e sensi,essi risposero coll'introdurre
della sfibrata e morente società romana una moltitudine di uomini e di donne, i
quali invece delle sterili declamazioni di Cicerone e di Seneca,offrivano sé
stessi,ad esempio di Gesù Cristo, ostie viventi di sacrificio per la Chiesa e
per l'umanità. I secolo IV segna appunto il massimo furore di quelle in cruente
battaglie. S. Atanasio, S. Basilio, i due S. Gregorii,
S.Girolamo,S.Agostino,S.Giovanni Grisostomodaunaparte; S. Antonio e le migliaja
di monaci e di sante vergini dall'al tra.Nel mezzo del secolo poi e nel mezzo
dell'Occidente com pare il grande Arcivescovo di Milano,S. Ambrogio,che rac
coglie la penna di S. Atanasio per trasmetterla a S. Agostino, e colla voce,
cogli scritti e cogli esempi propri e della santa sua sorella Marcellina
popola, non ideserti,ma le corrotte città latine di una legione di angeli
terreni. Sublime missione al certo,ma non unica,a cui laDivina Provvidenza destinava
il figlio del Prefetto delle Gallie, allora che inconsapevole de'suoi
destini,giungeva in Milano nel l'anno 373,per esercitarvi qual Consolare
l'autorità del Vicario d'Italia nella Liguria ed Emilia.Infatti nel congedare
il suo giovine amico,Petronio Probo Prefetto del pretorio e cristiano, gli
aveva detto:ricordatevi,mio figlio, di operarenon da giu dice, ma davescovo. L'opulentoesaggiosenatoreromano
con quelle parole manifestava, senza comprenderne la forza profetica, il vizio
radicale ed il maggior pericolo dell'impero romano,e quale avrebbe dovuto
esserne ilrimedio:la cristia nizzazione cioè veraceed intera del governo e
delle leggi. 437 (1)Paulin,in vit.Amb.n.5. A quest'opera tuttavia
richiedevasi non un greco od un barbaro,ma un nobile romane discendente
dall'antica razza conquistatrice;era conveniente non un uomo di guerra ne un
colto letterato,ma un giurisperito,che dalla magistratura dell'impero terreno
passasse alla magistratura dell'impero spi rituale.Tal fu Ambrogio,allorché nel
374 per mezzo di un prodigio fu eletto Vescovo di Milano. Se alcunofossestatoalloraammessodaDio
leggerenel futuro avrebbe ravvisato nel Consolare romano fuggente l'o noreela
responsabilità diVescovo,ilsecondo fraiquattro Dottori della Chiesa, che sono
rappresentati sostenere la cat tedra di S. Pietro in Vaticano; ma insieme
avrebbe meravi gliato contemplando da lungi la nuova società cristiana succe
dere all'impero pagano,e S. Ambrogio,che formata la mente ed il cuore del
grande Teodosio, ne congiunge la destra a tra verso isecoli con quella di Carlo
Magno. Si; è evidente che S. Ambrogio ritorna fra noi appunto nel momento del
maggior bisogno della Chiesa e della società, quando il paganesimo redivivo ha
consumato ormai presso tutte le nazioni cristiane l'apostasia dello Stato dalla
Chiesa e va lentamente scristianizzando tutti i codici e tutte le leggi dei
popoli civili.Non è pertanto meraviglia se dalla scoperta delle reliquie
santambrosiane la setta anti-cristiana intraveda una minaccia misteriosa a
quelle che essa chiama le gloriose conquiste dell'umanilà; mentre il popolo
veramente e sincera mente cattolico si commove ed esulta, come all'arrivo di
uno sperimentato e valente capitano. Nondimeno chi fu che sospettasse in
que'giorni questa importantissima missione religiosa ecivile del nuovo Ve scovo
di Milano? Gli uomini invero sono istrumenti e spet tatori quasi sempre
inconscii,dellemeraviglie di Dio.Ben po chi giungono a sorprenderne la mano
onnipotente e miseri cordiosa, allorchè in mezzo alle angoscie dei secoli più
trava gliati, quando lutto sembra avviarsi a rovina,getta silenziosa ed
inosservata la semente, che fruttificherà a suo tempo pace e prosperità alle
generazioni venture.Furono isecoli cristiani che riconobbero la lontana,ma
efficace opera di S. Ambrogio; ed è perciò con un trasalimento di gioja che
noi, dopo quin dici secoli, da quel 74, in cui Dio lo dono alla Chiesa ed alla
società, vediamo risvegliarsi l'eroe delle battaglie contro il paganesimo ed
affacciarsi dalla sua tomba a riguardare le il lusioni, le convulsioni ed i
terrori di questo secolo XIX, per errori e pericoli sociali tanto simile al
secolo IV. Alla domanda perciò che ispontanea si presenta alla mente di
ognuno,in questi giorni,in cui collo spirito della Chiesa, che è spirito di
preghiera, ci prepariamo ad onorare gli avanzi mortali del gran Santo, gran
Dottore e grande cittadino del secolo IV,vale a dire: perché ritorna ora fra
noi S. Ambrogio? non si può chiedere una risposta intera ed adeguata che ai
secoli avvenire.Essi ci mostreranno e spiegheranno laragione provvidenziale,
per cui le reliquie del santo Arcivescovo e dei due martiri milanesi
riapparvero in questi anni e non prima. Noi frattanto dal passato cercheremo di
pronosticare il futuro; e dalla influenza tutta santa e civilizzatrice, che il
C o n solare romano eletto Vescovo esercitò sul governo, sulle leggi e sulla
società del secolo IV,ciconforteremo a sperare che in modo eguale e maggiore
vorrà ora farci sentire la potenza di sua intercessione presso Dio in pro della
tribolata e perico Jonte società moderna; speranza e consolazioni ben
giuste,poi che nella Chiesa Cattolica anche le ossa dei santi profetano.
I. La divisione scientifica del Diritto in pubblico e privato era conosciuta,se
non di nome,certo di fatto,anche nel l'anticoGiureRomano;eilprimo era
fontedelsecondo,il quale sisvolgeva e modificava mano mano che si svolgevano e
modificavano le istituzioni politiche. Un popolo eminenlemente guerriero e
conquistatore,come era quello formato dai primi compagni e discendenti di
Romolo, non poteva a meno di dare alla propria legislazione un impronta
semplice,ma fiera e di spotica, spesse volte in aperta contraddizione
co'diritti di na tura. Per essa la patria era tutto, l'individuo nulla, la
famiglia un mezzo perdarguerrierialcampo, uominiprudentialforo lodata perció la
madre dei Gracchi, che invece dei giojelli m u liebri fa pompa de'suoi figli,
futuri tribuni della plebe; poi chè essa conciòrappresentavaladonna romana,qualelavo
leva il ferreo diritto repubblicano. Quella patria infatti, per cui tutti e
tutto si doveva sagrificare, non era che l'interesse e l'ambizione di poche
famiglie patrizie discendenti dall'antica razza conquistatrice: all'infuori dei
senatori e cavalieri non si conoscevacheplebe,efuoridiRoma tuttoilmondo,secondo
il diritto pubblico romano, non era abitato che da vinti o da nemici.Di qui
nacque e si perpetuò dai primi tempi di Roma quell'antagonismo fra senato e
plebe, che fu causa non ultima della caduta della repubblicae dell'intronizzazione
del dispotismo cesareo;diqui anche quella lotta continua con tutte le nazioni
confinanti coll'impero, lotta che fini colla inondazione dei barbari.
L'aspettocaratteristicoperò dell'anticoDirittoRomano come di tutte le primitive
legislazioni, è l'unione indissolubile dello Stato colla Religione.Essa
presiede a tutti gli atti pubblici e privati; non si intima guerra ne si
concede pace senza i feciali egliaruspici;senzaauspicj
nonsiradunanoassemblee;nonsi stringono trattati che sotto la protezione degli
dei, e la stessa proprietà privata è sotto la salvaguardia degli dei penati,
cui i primi romani non si dimenticavano mai di salutare all'ingresso
dellecase.La religione latina d'altra parteera essenzialmente nazionale,e si
informava a quello spirito di famiglia, che appare l'anima ditutte
leistituzioni romane;essa perciò rimaneva in carnatacollarepubblica,poichéRoma
derivavadaglideiein taccar la religione era intaccare Roma,ed essendo Roma il
mondo,era un dichiararsi nemici del genere umano.Più tardi, all'avvenimento
dell'impero,Augusto uni ilsommo pontificato alla soprema potenza civile e
militare e collocò l'altare della Vittoria nel senato,come testimonio e simbolo
dell'eterna al leanza fra lo Stato ed il paganesimo. Laonde,quandoaltempo
dell'abbrutito Tiberio,alcunipe scatori di Galilea predicarono una nuova
religione, che diceva doversi obbedienza prima a Dio che a Cesare - essere
glidei nazionaliidoliedemonii nostrapatriailcielo la terra luogo non di piaceri
ma di prova - gli uomini senza distin zione di sesso edi città,siailromano che
ilgreco,ilbarbaro, "loschiavo,tuttifratelli- figlidiun comun padreIddio-
idegradati nipoti diCincinnato siscossero,come all'annuncio di un nemico alle
porte,che minacciasse di rovesciare l'antica maestà di Roma.Il
cristianesimoinfatti non era un semplice culto religioso, una delle mille
superstizioni che dall'oriente si importavano alla capitale colle spoglie delle
vinte nazioni e che il fiero politeismo romano riceveva come arra di pace e
difusionedeipopoliassoggettati;ilcristianesimoeraun in tero sistema teorico e
pratico, che abbracciava tutto l'uomo e siimponeva a tutte le questioni
sociali,esigendo un'intera ri voluzione di idee, di costumi e di leggi, un
cambiamento ra dicale nel diritto pubblico e privato dell'impero.Appena pro
mulgata questa nuova dottrina aveva trovati assecli ferventi ed indomabili in
ogni classe e condizione dell'impero; accolto sopratutto con trasporto fra
quegli esseri, quanto spregiati al trettanto numerosi, quali erano nella
società romana ledonne e gli schiavi (1).Non ci meravigliamo pertanto che la
giuri sprudenza e la politica romana si trovassero bentosto nella necessità di
risolvere un quesito, il quale involgeva le sorti dell'impero e dell'umanità.
Se l'impero accoglieva il cristianesimo, questo che trasformava le donne ed i
fanciulli in eroi, avrebbe salvato l'impero dallo sfascelo all'interno,
all'esterno dai barbari, mansuefattidalvangelo;ma loStatoconciòcessavadiessere
ilsupremo Iddio;laChiesa assumeva con esso le parti dim a dre; lo schiavo, il
vinto, la donna dovevano esser rispettati; s'umiliava l'orgoglio;cadevano
Venere e Mercurio;regnava Cristo. Se per contrario volevasi sostenere
l'onnipotenza dello Stato, la divinità degli imperatori, l'eternità di Roma, la
nuova religione si doveva far sparire dalla faccia della terra.Da Ne rone a
Massenzio gli imperanti romani si decisero per questa seconda politica e ne
affidarono la cura al carnefice; il quale per tre secoli stancò uomini e belve,
e non riesci che a ren dere più splendido il trionfo del cristianesimo.
Costantino cambiò sistema e dopo aver bandito tolleranza,dichiarossi per
ilnuovo culto;seguitodalfiglioCostaozo,chefattosiperò da protettore giudice e
padrone della Chiesa, divenne il triste modellodituttiipersecutorifinoadoggi.Sopragiunse
Giu liano,col quale ilpaganesimo, domato ma non spento, tentò fe roce, sebbene
effimera, riscossa. Quando Ambrogio entrò Consolare a Milano,regnava Va
lentiniano I, successo al buon Gioviano. Scelto dall'esercito l'imperatore era
prode guerriero;accorse al Reno e all'onda sanguinosa dei barbari, che
scrosciava e trasbordava dalle frontiere, oppose, per allora, un argine di
ferro. Tuttavia se la spada valeva coi nemici non giovava per le
questioni interne, nè per arrestare la decomposizione sociale di quell'immane
gigante,cui ilcristianesimo tentava invano di risanguare con forti e pratiche
dottrine di virtù e sagrificio. La fede operava al certo nel segreto delle
coscienze una im portantissimarivoluzionemorale;ma nonostanteglisforzidi
Costantino, il mondo amministrativo si era tenuto in disparte dalla influenza e
dalle istituzioni cristiane.Infatti sotto Valen tiniano, già confessor della
fede avanti all'Apostata, il governo continuava colle massime e coi costumi
dell'antica Roma pa gana;l'imperatore proseguiva a chiamarsi divino ed eterno;
(1)Lactant.,Instit.lib. V,cap.18. aveva assunto i titoli e le
insegne di pontefice massimo; m a n teneva ai sacerdoti degli idoli privilegi e
sovvenzioni a carico dell'erario; mentre l'altare della Vittoria eretto nel
mezzo del senato,attestava la politica incerta ed equivoca del regnante
cristiano.Idue elementi opposti edinconciliabilierano invero tuttora di fronte
e disponevano di forze eguali; più popo
lareediffuso,massimeinoriente,ilcristianesimo;più po tente per ricchezze ed
aderenze,in ispecie in occidente e fra le famiglie aristocratiche, il
paganesimo, considerato da esse come simbolo e palladio dell'antica gloria
romana. Valenti niano I reputò pertanto abilità politica il mettere lo Stato
nel mezzo, come neutrale e paciere fra le due nemiche correnti. Enorme fallo
politico, che si ripete continuamente ogni volta che nella società scendono in
campo ad aperta battaglia i due eterni nemici, la materia e lo spirito,
l'errore e la verità, la città degli uomini e la città di Dio ! Dall'errore
nasce l'errore:un governo che esita e teme decidersi fra il cristianesimo e le
superstizioni gentilesche, per quanto spiritualizzate dal neoplatonismo,fra
Cristo e Satana,un tal governo non può reggersi che con una serie di ripieghi,
sovente contraddittorii; per esso il principe cristiano non porterà che colpi
troppo prudenti a quelle antiche istituzioni pagane, che rimanevano sempre
incarnate nel diritto civile dell'impero. Quante questioni giuridiche, di cui
ilprogresso introdotto dal cristianesimoreclamavauna
prontaeradicalesoluzione,re stavano perciòsenza una risposta.Eppure
necessitàstringeva, se l'impero voleva salvarsi ! La società era tuttora divisa
fra una minoranza di opu lenti, che si chiamavano liberi e cittadini,ed una
immensa maggioranza di uomini, cui il cristianesimo diceva fratelli dei superbi
padroni,ma che la Roma conquistatrice aveva classificati fra gli utensili
d'agricoltura ed industria e fra gli oggetti di commercio (1); gli schiavi
reclamavano in nome della natura e della religione idiritti dell'uomo e del
cristiano. Un'altra schiavitù legale era stata recentemente introdotta dal
fisco rapace,che in nome della divinitàdiRoma,padrona del mondo,non
solospogliava ma distruggeva;icoloni ed icu riali protestavano,io nome di una
assennata economia politica, per un mutamento radicale nei principii che
regolavano sia la proprietà,che l'esazione delle imposte. Il padre verso
ifigli, (1)Ulpian.Inst.I,tit.8. il padrone verso gli schiavi,
e perfino il creditore verso il d e bitore,anchedopolesaggiecostituzioni
diCostantino,con servavano diritti, che si assomigliavano troppo a quelli che
la ferrea mano dei decemviri aveva scolpiti nel bronzo;la carità cristiana, la
quale ne andava sbandendo dai costumi l'atroce esercizio, esigeva che il
legislatore sciogliesse i sudditi da quelle pastoje dell'antico servaggio,con
cui ilgiudice per rispetto ad una formulistica e sacrilega legalità conculcava
l'equità e la giustizia. Che più; il matrimonio fondamento della società e la
donna che ne è il cuore, erano sempre 'all'arbitrio di una legislazione,che
sanzionava,col divorzio e colla tutela perpetua, una incredibile corruzione di
costumi, massimo fra i pericoli dell'impero;or bene le vergini e martiri
cristiane volevano,che un sesso santificato dalla Vergine madre di Dio, fosse
ricollo cato nel posto assegnatogli dal Creatore e che il matrimonio, pei
cristiani elevato a Sacramento, fosse anche pei pagani cosa seria e rispettata.
Queste ed altre questioni,che travagliavano lasocietà ro mana
nelSecoloIV,sisarannoessepresentateallavastae profonda intelligenza ed al cuore
nobile e passionato del gio vine Consolare, in quel primo giorno che in Milano
prese pos sesso dell'importante sua carica? Le parole e le gesta del m a
gistrato divenuto Vescovo dimostrano, che S. Ambrogio le aveva comprese, e già
risolte in quella, che tutte le compen diava:la cristianizzazione del governo e
del diritto romano. S. Ambrogio vi si adoperò con quel tatto pratico
carat- teristico dellaRoma conquistatrice del mondo,che ora è pas sato nella
Roma capitale del cattolicismo.Cauto,prudente e piuttosto lento,l'antico romano
taceva, meditava ed operava a colpo sicuro; non guidandosi a vivaci teorie più
o meno ulo pistiche esso studiava ed aspettava, non preveniva gli avveni menti;e
perciò mentre le colte e filosofiche repubbliche greche sparivano fra l'olezzo
dei fiori ed il canto dei loro inimitabili poeti,il tardo romano si
impossessava dell'universo. Questa impronta si ravvisa negli scritti e più
nelle opere del grande Metropolita di Milano; perchè se ilcuore ardente di
Vescovo cattolico lo moveva a parlare al suo popolo,a scrivere lettere e
volumi, a portarsi alla corte e trattar cogli imperatori, la severa prudenza
del magistrato romano gli dava quella calma e quella saggezza, onde isuoi detti
ricevevansi come oracoli. Suo primo atto fu volgersi a Valentiniano
I, la cui indole buona ma violenta era stata esasperata da malattie e da cor
tigiani e satelliti sanguinarii, per cui si riempiva l'occidente di gemiti e di
lamenti.Cosa disse Ambrogio all'imperatore dagli storici contemporanei non ci è
riferito; ma la risposta del so vrano e più il mutamento totale di sua politica
dopo quel col loquio,ci dimostrano la prima vittoria sul dispotismo cesareo,
Valentiniano lodò la franca indipendenza del vescovo e ne volle pe'suoi peccati
conveniente rimedio (1).Cosa inaudita e fin allora creduta impossibile!La
divinità imperiale, cui la legisla zione romana,anche dell'età classica,asseriva
sciolta dalle leggi (princeps solulus a legibus),anzi legge vivente, e libero
senza ombra di ritegno a dichiarar lecito ciò che jeri era illecitoed ingiusto
(2), il dio di R o m a, riconosce d'aver errato; ed i s u d diti,senza essere
costretti,come era d'uso,a sgozzare e poi celebrar l'apoteosi
dell'imperatore,possono ormai fargliperve nireleloroquerelepermezzodei
Vescovi,rappresentanti la co mune madre, la S. Chiesa. Se ad alcuno però non
piace questo progresso,perché introdottodaVescoviepreti,riservipure
l'ammirazione per Ulpiano e Paolo, fra i più grandi giurecon sulti al certo
dell'epoca degli Antonini,iquali celebravano la clemenzaelasaggezza
diquelmostrochesichiamavaComodo! Un altro passo tuttavia rimaneva a fare: non
solo la per sona,ma la stessa dignità imperiale doveva ripudiare officialmente
il culto nazionale di Roma. Una cerimonia ridicola era stata introdotta da
Augusto e ripetevasi infallantemente ogni volta era assunto un nuovo principe
all'impero;lo stesso Co stantino non aveva osato di rinunciarvi.L'offerta però
del titolo e delle insegne di pontefice massimo, che il senato faceva
all'imperatore,inchiudeva un gravissimo significato, poichè era la conferma di
quel vecchio diritto pagano e teocratico, del quale igiureconsulti non ardivano
acora distruggere l'autorità tante volte secolare e che isenatori,in parte
ancora idolatri, facevano studiosamente rivivere appena se ne presentasse l'oc
casione.Rigettare quelle insegne era dunque sconfessare l'as soluta sovranità
dello Stato sopra i beni, sulla vita e, ciò che più importa ai despoti,sulle
anime e sulle coscienze dei sud diti. Quale fra i moderni vantatori di
liberalismo in simile circostanza ascolterebbe la voce della ragione e della
fede, par [ (1) Theodor. Hist. Eccl. Lib. IV,c. VI. (2) Digest. Const. Lib. I,
tit. 4. lante per bocca di
Ambrogio? Lo stato attuale d'Europa ce ne è testimonio.Ben diversamente pensava
però quel caro figlio spirituale di Ambrogio, come esso chiamava Graziano, il
primo che alla deputazione del senato rispose:sè essere cristiano. Ottenuta
questa seconda vittoria,se ne richiedeva una terza, perché il cristianesimo
potesse lusingarsi di vedere ilgoverno dei Cesari informatodisue
caritatevolidottrine.Ragion logica voleva che l'ara della Vittoria,simbolo delle
antiche superstizioni, sgombrasse il senato, molto più ora che l’imperatore,
associatosi Teodosio, aveva vinti i Goti, invirtùnondi Giovemadi Gesù Cristo. Ilregalealunno
d'Ambrogio,che primadipartirper la guerra, gli aveva chiesti consigli ed
istruzione a conferma della propria fede, mostrossi coerente. Un mattino
adunque i senatori entrando nella Curia,stupirono vedendo scomparsa l'ara e la
statua d'oro,tolte quella notte per ordine sovrano (1). Il colpo inaspettato
commosse la fazione pagana fino nell'ultime fibre: molti senatori tuttora
partitanti per i vieti riti di N u m a edeiFabii,siradunarono
inquietieminacciosiperstendere una querela all'imperatore. Ma ai fianchi di
Graziano vegliava Ambrogio,chegli parlòinnome deglialtrisenatori,delPonte fiMilaniaso,
dellasedecristiana.Invanopertanto ladeputazione instò; il giovine principe si
dichiarò irremovibile e neppur volle ammetterla all'udienza. Graziano era
allora nel fiore dell'età,nell'auge della gloria, gioconda speranza della
Chiesa e dell'impero: e invece per uno di que'misteriosi decreti della Divina
Provvidenza,che scon certano tutti gli umani ragionamenti e non lasciano luogo
che all'umiltà ed alla adorazione, l'imperatore viddesi abbandonato dalle sue
truppe e cadde vittima di infame tradimento.Il pa ganesimo erasi vendicato; e
risorgevano le speranze degli idolatri, i quali rappresentati da Aurelio
Simmaco Prefetto d i Roma e ricco sfondato, credettero di approfittarsi delle
circostanze e del favore della corte, per fare pressione sull'animo sbigot
titodel fanciulloValentinianoI e della superba, ma insieme debole, Giustina.
Statista e letterato, filosofo e scrittore, il discepolo d'Ausonio esauri tutte
le risorse del brillante suo in gegno e stese una supplica,vero capolavoro di
rettorica; se natore poi e pootefice, e caro al popolo,cui non lasciava m a n
carepanéecircesi,impiegò perilpoliteismo,alquale esso (1) Baanard, Vita
di S. Ambrogio, pag. 128. stesso non prestava più credenza, tutta
l'influenza della per sona e degli impieghi; e si riteneva sicuro della
riuscita. In fattigià stavasi preparando il decreto che ristabiliva l'ara della
Vittoria,allorchèS.Ambrogio sopragiunse dalleGallie,ove alla corte
dell'usurpatore Massimo aveva, con finezza di diplo matico consumato ed
intrepidezza di vescovo cattolico,patro cinata e vinta la causa del pupillo
imperiale. Benchè un rigoroso segreto presiedesse alla congiura dei senatori
pagani ed ai consigli del Concistoro imperiale,geloso dell'influenza del
Vescovo di Milano, tuttavia esso ne penetrò le macchinazioni; e presa la penna
scrisse, non più all'Eterno, Invincibile, Germanico, Partico e c c., ma a l
felicissimo e cristianissimo imperatore Valentiniano I I. In quella magnifica
lettera, incui isentimenti più elevatideiDottore e Ponteficecattolico si
alternano e vestono la forma della più commovente tene rezza paterna, si trova
già completamente tracciata la nuova politica cristiana, che fa i principi non
padroni dei popoli, sib bene ministri di Dio e suoi luogotenenti sulla terra.
Valenti niano perciò ode ricordarsi, che come tutti gli altri suoi sud diti,
egli stesso è soggetto al Re dei Re; che un altro potere è sorto nell'impero a
regolare le coscienze,al quale pertanto, cio è a i Vescovi, spetta il giudizio
in materia religiosa: i n c a s o contrario,come indegno della professione
cristiana,venendo l'imperatore alla chiesa,vi avrebbe trovato Ambrogio alla
porta ad impedirgliene l'ingresso. Bisogno cedere:S.Ambrogio ebbe
lasupplicadiSimmaco e riprese la penna. In quel giorno il profondo giurista, il
de stro avvocato,ilsaggio magistrato rivisse nello scritto del Vescovo e del
santo. Il Metropolita milanese non bada a contendere coll'avversario in
lenocinio di eleganze irreprensibil mente classiche: esso mira alla sostanza:
perciò non allegorie, non scappatoje, non esitazioni,non dottrine incerte
e,dirò, fosforescenti,tutto è massiccio;gli argomenti procedono ser rati, come
le legioni romane, e la verità che appare evidente, abbatte, frantuma e
disperde perfin la polvere degli annientati sofismi pagani.Simmaco s'appoggiava
a tre argomenti:Roma disonorata per l'abbandono degli dei;le vestali
reclamanti;la patria sfortunata e pericolante per la nuova politica cristiana
degli imperatori.S. Ambrogio prende questi tre sofismi,li spoglia delle vesti
affascinanti, li osserva, li analizza e li trova non altroche un accozzo
difrasireboanti,vuotedisenso.Che parla Simmaco della dea Vittoria? La vittoria
è un nome astratto: esso si realizza nel numero e nel valore delle legioni
romane:Scipionevinse sfondandolefittecoortidiAnnibale, non ardendo incenso alla
statua di Giove. Chiedono i pagani privilegiedentrateperisacerdotidegliidoli? Dunque
con fessano che senza essi non possono reggersi: ma noi, dice
S.Ambrogio,crescemmo fra leingiurie,le miserie,lemapnaje; e dei nostri
benifacciamo il tesoro dei poveri. Le vestali? O h ! quante immunità,privilegi
ed entrate per sette fanciulle pro fessanti continenza temporanea fra il lusso
e gli onori; il cri stianesimo invece ne presenta migliaja e migliaja, che si
conse crarono a perpetua verginità nel nascondimento e nelle pri vazioni.
Volete privilegi ed entrate alle vostre vergini? Le a b biano in misura eguale
anche la moltitudine quasi innumerabile delle cristiane:non è secondo giustizia
l'accordar preferenze: otutte,onessuna.Ilcristianesimocagione deidisastri del
l'impero e della recente carestia d'Italia? I cristiani nemici della patria? —
Avanti all'antica e sempre calunnia nuova il discendente degli Ambrogii, che
aveva testė salvato l'Italia e l'imperatore, credė di imporre silenzio
all'indegnazione del suo cuore romano: esso rispose con fina ironia,
riscontrando le allegazioni enfatiche ed immaginarie di Simmaco colla reale
prosperità di quell'anno, quale presentavasi agli occhi di tutti. Era un
seppellire l'elegante declamazione sotto il peso della più terribile delle
confutazioni, un meritato ridicolo. Ciò falto, S. Ambrogio non si arresta a
riguardare il prostrato nemico e piglia l'offensiva.Allo scetticismo pagano
confessatoda Sim maco,e che supplicava per una tolleranza,non solo pratica ma
teorica,dituttiiculti,essocontraponelachiaraevidenza della fede e le forti
convinzioni dei cristiani,Ritorce poi l'ar gomento; richiama la gloriosa ed
ancor recente memoria di quel tempo,in cui ipagani non ammettevano
l'indifferenza dello Stato per ogni culto,ma perseguitavano e massacravano; fa
osservare che non è giusto imporre ai senatori cristiani i riti pagani e
conclude dichiarando,che la natura stessa vuole ilprogresso:essere
ormaitempo,che letenebre cedano,al sole,l'errore allaverità.La causa fu
vinta:quel soffioche già spirò dal cenacolo nelgiorno di Pentecoste,portò via
l'ultimo avanzo del paganesimo officiale, il quale invano una terza volta
sipresenterà a Teodosio.L'alleanza secolare fra l'impero romano e l'idolatria è
rotta; non solo, m a sono abbandonate le illusioni di una politica anfibia e
contraddittoria, che voleva separato lo Stato dalla Chiesa, il corpo dall’anima
son gettate; da quel punto le basi del nuovo Diritto Pubblico della Chiesa
e delle genti cristiane. Graziano infatti, continuando l'opera di Costantino,
aveva dall'anno 379 al 382 pubblicati varii decreti, sia in favore della Chiesa
che contro gli eretici e manichei e contro gli apostati recidivi al
paganesimo:ci giunsero nelle raccolte di leggi c o m pilatepiùtardipercomando
diTeodosioilgiovine,econo sciuta sotto il nome di Codice Teodosiano.Frattanto
Teodosio il Grande promulgava in Costantinopoli (anno 380) quella sua
memorabile costituzione, in cui dichiarava la fede cristiana religione
dell'impero, e fra le varie sette che ne disputavano il nome, osservava,
intender esso quella sola, la quale profes. sata ed insegnatadalPontefice
Romano,allora Damaso,aveva con sé le note caratteristiche ed esclusive della
verità. Qual rivoluzione nei principii legali e nelle massime di
governodelDirittoromano!Ma nonbastavachel'imperatore facesse decreti,esso
stesso doveva conformare le proprie azioni alle dottrine, che andavano
informando la nuova legislazione. Se pertanto Giustina vuol favorire i suoi
ariani e intima sia loro ceduto un tempio dei cattolici, S. Ambrogio si offre
pronto a donare all'imperatore le proprie sostanze private, a sacrifi care
lavita stessa,non mai ilpatrimonio della Chiesa.Se anche il grande Teodosio,
illuso da una fantasmagoria di tolleranza religiosa, patrocinata ardentemente
dall'indifferentismo ed i m moralità dei cortigiani, vorrà costringere il
vescovo di Callinico a rifabbricare la distrutta sinagoga degli Ebrei, vedrà
giun gersi una lettera rispettosissima, ma conquidente del Vescovo di
Milano,nella quale l'equità,la giustizia, la fede cristiana ed anche i dettami
di una saggia politica impongono a Teodosio direvocareilmalconcepitodecreto.Teodosiosimostra
esi tante;ma Ambrogio insisteevince.Evincerà finoal punto di persuaderlo a
promulgare una legge, con che il troppo vio lento principe impone agli altri
giudici,e prima a sè stesso, di soprasedere ventiquattro ore dall'esecuzione
d'ogni sentenza capitale; non solo, ma in abito da penitente lo vedremo con
fessare ed espiare in faccia alla Chiesa ed all'impero le fatali conseguenze
della impetuosa sua ira contro i Tessalonicesi. Magnanimo principe, degno dell'ammirazione
di tutta la posterità! Esso fu grande quando sul campo di battaglia tre volte
sgomino le legioni degli usurpatori e due volte ruppe e disperse le immense
orde dei barbari; ma fu più grande allor chè nel vestibolo della Basilica
milanese riconobbe, esser nessuno,fuorché Dio,padrone della vita degli
uomini.Circadue centoquarant'anni prima un altro imperatore romano,sommo
unicamente perlibidinié crudeltà, avevaespressoildesiderio che il senato e Roma
stessa avesse una sola testa,onde poterla spiccare d'an colpo.A
quell'imperatore,cui Seneca fu maestro, if sénato e l'impero si prostravano e
ne placavano la divina cle menza con statue e sacrificii. Ora un altro principe
grande per'mente, per cuore e per braccio, è in ginocchio avanti ad un Vescovo
Cattolico, domandando penitenza per esser troppo trascorso nell'esercizio della
giustizia contro alcunisudditi. Chisceglieremo,Teodosio oNerone?A chidovrà
ascriversi il cambiamento totale nei principii che reggevano l'impero? I
fattirivelanoilloroautore:seipregiudiziimoderni impedi scono a'molte
intelligenze di leggerne il nome,è solo, come osserva uno scrittore francese
(1) di principii esso stesso tut. t'altro che cattolici, perchè il
cristianesimo è troppo poco stu diato e'meno compreso. S.Ambrogio,come
tuttiglialtripadridellaChiesa,si occupava delle questioni sociali e politiche
per lo più solo in direttamente: la sua cura cotidiana, il pensiero della sua
vita era la santificazione del suo gregge; e le sue azioni e i suoi scritti
tendevano unicamente a questo scopo.Ilsuo stesso libro degli Officii,
quell'opera scritta ad imitazione di Cicerone, la quale,come rappresentante dei
secoli cristiani,sebbene segni unqualcheregressonelleforme, locompensaconunimmenso
progresso, nelle idee non mira che ad offrire al suo clero saggi precetti di
santa vita.Ma si può egli sanar l'anima senza gio varealcorpo?Ecco
pertantoS.Ambrogio,por professando osservanza dei canoni,che intimavano a pruti
e vescovi una operosa residenza fra il popolo (2), togliersi da Milano, c o m
parire alla corte, intraprendere disastrosi viaggi,ogni volta lo richiedeva la
necessità della cosa pubblica. Teodosio gli affida i suoi due figli; e quando
il grande Arcivescovo stava per entrare nell'eternità,Stilicone,ilreggente
dell'impero,lo mando a scongiurare, che volesse pregar Dio per un po'd'altri
anni, poiché l'Italia, lui morendo, pericolava (3). III. (1) Il signor
Cousin citato da Troplong, De l'influence du christianisme sur le Droit civil
des Romains, pag. 368. 29 (2)Epist.LXXXV,n.2. (3)Paulin, Vit.Ambros.n.45.
Scuola Catt.Anno II.Vol.III.Quad.XVII. Non è perciò meraviglia, se negli
scritti e più nelle azioni del Consolare romano divenuto Vescovo cattolico
troviamo, sebbene quasi per incidente e per lo più solo in germe, accen nate e
risolte le principali questioni di diritto, la cui completa trasformazione
doveva esser l'opera dei secoli avvenire. La clemenza di Teodosio verso i
vinti, gli sforzi di lui per siste mare l'esazione delle imposte, cuiibarbari, glierrori
dell'impero e più l'interna corruzione dei costumi rendevano intollerabili,
dimostrano che l'influenza di S. Ambrogio si stendeva dovunque eravi un
ministero di carità da esercitare (1).Irrompono iGoti, mettono a ferro ed a
fuoco l'Illirico e ne conducono gli abi tanti inservitù?S.Ambrogio
spogliatosidituttoperredimerli, spezza e vende ivasi preziosi della Chiesa:essendochè
più preziose, dicealsuopopolo,sonoleanimeredentedaCristo,chenon l'oro e
l'argento consecrati al culto divino.Era lo scioglimento pratico per mezzo
della carità di quella questione della schia vitù,cui Ulpiano e Pomponio
dicevano di assoluto diritto delle genti (2) e che la nuova religione
professante la fratellanza universale degli uomini, voleva sbandita dalla
terra.Il cristia nesimo infatti ogni volta che vedea aperto ilcampo all'azione,
viene attuando gradualmente l'affrancamento degli schiavi,con quella prudenza
però che prepara prima la libertà delle anime e delle intelligenze, avanti di
procedere alla liberazione dei corpi;poichè questa,se troppo repentina ed
ispirata solo da passioni politiche,riesce in pratica egualmente fatale agli
schiavi stessi ed alle nazioni che la compiono:gli Stati Uniti d'Ame rica ne
vanno ora facendo l'esperienza. Era tuttavia principalmente nell'udienza
episcopale,che S. Ambrogio rivelava nelle sue sentenze ilmagistrato cristiano e
santo. Costantino, approvando ciò che di fatti già trovava nei costumi
cristiani, donò alle decisioni dei Vescovi il medesimo valore giuridico,che
ilsenso pratico degli antichi romani aveva ottenuto agli editti del pretore.
Con ciò lo stretto diritto civile consecratodalleleggi delle XII Tavole, ilqualegià
ritiravasi davanti al diritto di natura più ampiamente propugnato dai
giureconsulti dell'età classica, cessava totalmente, o meglio si trasformava in
quel codice,cui S. Agostino chiamava divina (1 ) Pare c c h i e lettere d el
santo versano su gli officii, che ei sovente assom e vasi di intercedere presso
l'imperatore per le vittime delle enormità fiscali. (2)... quae potestas
(servorum)juris gentiumest;(Ulpian,Insl.I, tit.8)e Pomponio conchiudeva che chi
cadeva nelle mani del nemico gli re stava per diritto delle genti suo
schiavo.(Tit.49. V. ff.De captivis). mente emanato per bocca dei principi
(1); e che fatto pubbli care da Giustiniano, mentre l'impero d’occidente era
distrutto e quello d'oriente minacciato,conserva all'antica Roma la gloria di
dominare eternamente,se non coll'armi,col migliore primato delle leggi. Di
fianco al diritto civile romano nasceva il diritto ca nonico. La proprietà è
resa universale: non vi sono più distinzioni di res mancipi o nec mancipi, di
dominio quiritario o per pre scrizione; non si possiede più secondo S. Ambrogio,
in forza della cittadinanza romana, la quale comunichi il diritto di proprietà
proveniente dalle conquiste;la fonte d'ogni diritto è Dio, di cui tutti gli
uomini sono figli; e che unico padrone della terra, ne dà l'uso a chi
legittimamente lo acquista (2). Scompajono egualmente le legillimae nuptiae
come contra posto alle justae nuptiae ed al concubinato legale:non si parla più
né di confarreazione, né di co -emptio, nè di usus per aqui stare alla donna
idiritti matronali e la successione,come figlia al marito: n o n v i è p e i
cristiani che il matrimonio Sacramento della Nuova Legge, simbolodell'unionedi Gesù
Cristocolla Chiesa:la legge ecclesiastica de determina gli impedimenti,ne
prescrive i riti; ed il marito e la moglie si trovano eguali nell'obbligo di
vicendevole fedeltà ed amore e nella santa emulazione del
bene.«Nessuno,predicava S.Ambrogio,silusinghiappoggian dosi alle leggi umane...
non è lecito al marito ciò che non è permesso alla donna (3).» Per misurare
ilprogresso introdotto dal cristianesimo,bisogna ricordare ciò che scriveva
Tertulliano: * al giorno d'oggi chi si sposa ha già concepito il progetto di
ripudiarsi e il divorzio è come un frutto del matrimonio (4 ). ” La
lettera(LX)delsantoarcivescovoscrittaadun talPe tronio ci introduce a
contemplare ilsegreto lavoro della Chiesa costituente gli impedimenti
dirimenti, per la sempre maggior santificazione della società matrimoniale,cui
invano avevan tentato di mettere in onore le Leggi Giulie e Pappia Poppea. S.
Ambrogio infatti dissuade con parole severe l'amico dal progetto di contrarre
colla nipote:cosa contraria,egli dice, alla legge divina (5). Si crede anzi che
la costituzione civile (1) Leges Romanorum divinitus per ora principum
emanarunt,cit.dell'Oza- ' nam.Ilquinto secolo,vol.1,pag.188. (5) L'impedimento
di consanguineità in linea collaterale è di natura eccle siaslica:S. Ambrogio
parla dellelogge divina considerata nelle sae dedazioni. (2) De Nabuthe
Jezraelita,cap.I,III,etalibipassim. (3)D:Abraham.Lib.I,n.26. (4) Apolog. $
6. pubblicata da Teodosio il grande circa ilmatrimonio fra i con
giunti(1),glifosseispiratadalsantosuo amico,consigliere e padre
spirituale.Isuccessori del grande imperatore spaven tati dall'opposizione che
l'impudicizia pubblica recava all'ese cuzione di simili leggi,si mostrarono
incerti e indietreggiarono; ma
l'impulsoeradatoeilcristianesimo,trionfandodell'immo ralità,si impose poi
pienamente anche alla legislazione. Il diritto di vita e di morte, che le leggi
delle XII Tavole concedevano al padre sul figlio, era già stato abolito durante
ilperiodo,in cui la filosofia stoica,piegandoalsoffio spi rato dal Golgota,
moderò tutta l'antica giurisprudenza (2). Costantino arrivò a decretare la pena
del parricidio contro il genitore che uccidesse il proprio figlio. M a quanto
cammino rimaneva tuttora a fare anche in questa materia per giungere a
stabilire un pieno accordo colle imprescrittibili leggi di na tura!Nonsoloilpadre
conservava,comegiudicedomestico, ildiritto diinfliggere pene,benché moderate
alfiglio;ma esse stesso dettava al magistrato lasentenza, che nei casi più
gravi era reclamata dalla disciplina paterna (3).Arroge che l'esere
dazionedimorava intattafralesuemani,senzachelacrea
zione,fattadaCostantino,delpeculio quasi-castrensee laparte concessa nella
eredità della madre, bastasse a sottrarre ilfiglio di famiglia ad una autorità,
che, sebben giusta, dee avere essa pure i proprii confini. Che più? Perseverava
ancora il barbaro diritto nei padri di vendere i propri figli: S. Girolamo (4)
ci ha conservati i lamenti di una misera vedova,cui ilmarito per supplire
all'ingordigia del fisco, dovette vendere i tro figliuoli; S. Ambrogio stesso
flagellando l'atroce crudeltà de
gliusuraj,introduceunpoveropadreche«usandodellaau
toritàconferitaglidallalegge,ma negataglidallanatura» per pagare l'usurajo, da
cui ebbe il pane, conduce all'asta i proprii figli; e con sanguinosa ironia
esclama: « o miei figli, pagate le spese della mia gola, soddisfate il prezzo
della mense paterna. Voi divenite il mio riscallo eil vostro servaggio ricom
pėra la libertà mia (5). » Quai diritti, buon Dio, e quali ese crabili cause li
facevano esercitare! Ben a ragione S. Ambrogio prosegue,narrando,chein uncaso
simile,all'usurajo,ilquale (1)Leg.5,C. Deincestisnuptiis. (2) Troplong, op.
cit. pag.264. (3) Lec. 3. C. lust. de patria potest. (4) In vito Paphnutii
(5)De Tobia,cap.VIII,n.20. voleva approfittarsi della legge ed ostava ai
funerali di un cre ditoreimpotente,avevaordinato:siprendessein casailca davere
in garanzia del proprio debito; e ve lo fece traspor tare dal popolo. Con
simile legislazione però chi avrebbe osato farsi mediatore per riconciliare
coll'inflessibile autorità pa terna un figlio, il quale aveva ardito menare in
isposa una donzella, non trasceltagli dal padre? Il diritto romano riguar dava
taleatto,comeunattentatocontro natura;poichéla nuora, secondo la legge,
diveniva figlia del capo di casa. Ma lacaritàcristianasilasciaguidare da
istintidivini:fra Je lettere di S. Ambrogio, la 83.a è appunto diretta a un tal
Si sinnio,onde persuaderlo non solo a perdonare ma a ricevere incasaun
talfiglioeduna talnuora;eviriusci.Sublime cat tolicità della Chiesa ! Dopo
undici secoli circa, fu riproposta ai padri del Concilio di Trento la scabrosa
questione del matri monio contratto dai figli di famiglia senza il consenso del
pa dre: e lo spirito del santo vescovo di Milano ricomparve nella
prudentissimarisoluzionedelSinodoEcumenico.Quella lettera a Sisinnio invero
rivela in S. Ambrogio un tatto pratico squi sito:ma insieme qual profonda
conoscenza del cuore umano, quanta delicatezza e soavità di sentimenti in quel
grande av vezzo a moderar l'animo degli imperanti e a stringer le redini dello
Stato;il miele,giusta l'enigma di Sansone,gocciava di nuovo dalla bocca del
leone. Le leggi che regolavano le successioni richiedevano pari menti
importantimodificazioni.L'antica legislazione era il ca polavoro
dell'aristocrazia; esaminando quella ferrea catena di eredi suoi, agnatizii,
gentilizii, in fine alla quale non manca vano mai le spalancate fauci del
fisco, non si può a meno di ammirare con un senso di sacro terrore quel vigore
di con cetto, quella intrepida inflessibilità di logica, con cui per conservare
i beni e di sacrifizii nelle famiglie, il legislatore romano non indietreggiava
davanti alle più inique violazioni dei di ritti di natura. L'equità pretoria vi
aveva già portato al certo qualche cambiamento coll'editto:unde liberi;ma
ohime!di qnanto poco accontentavasi la sapienza di Cajo e degli altri
giureconsulti della setta stoica (1)! Prima però cheGiustiniano si preparasse
una imperitura e giusta gloria con quelle leggi sulle successioni, che ancora (!)
A a e j u r i s i n i q u i t a t e s e d i c t o praetoris emendatae sunt.
Troplong. Che più? scrivendo al giudice Studio, il quale lo aveva
consultato sul modo di comportarsi,quando dovesse pronun ciar sentenze
capitali, il prudente ed amoroso vescovo gli in culca con ogni maniera di
ragioni l'esercizio dalla clemenza, che deve giungere, esso dice, fin dove vi è
giusta speranza di emenda del reo. Lungi però dalle moderne utopie, le quali in
nalzando a principio l'abolizione della pena capitale per qual siasi grande
malfattore, riescono in pratica a disarmare e con danpare gli innocenti,il
santo giurista pone per base la giustizia della pena di morte e raccomanda
all'amico la custodia delle leggi, « poichè mentre si leme la spada dei
giudici, si reprime e non si stimola il furore dei delilli (3). » La stessa
procedura criminale è lucidamente delineata nelle
duelettere(VeVI)aSiagriovescovo di Verona.S.Ambro gio lo rimprovera d'aver
troppo superficialmente ricevuto l'ac cusa contro la vergine Indicia; gli fa
osservare che nel suo processo trascurò quasi tutti gli argomenti che potevano
far prova giuridica in favore dell'accusata; mentre illegalmente aveva avuto
ricorso a testimoniaoze ed atti quanto obbrobriosi altrettanto insufficienti; e
gli descrive il modo da sè tenuto per riveder quella causa e cassarne
l'ingiusta sentenza.Leggendo quelle lettere scritte nel secolo
IV,l'animosicompiace riscon trando i medesimi principii tracciati dal nostro
santo, seguirsi 11) Ep. LXXXII cit.n.3. (2 ) Conf. L i b. V I. c a p. I V.
(3)Ep.XXX cit.n.9.VediancheBagnard,op.cit.pag.140eseg. al presente sono la
base di tutti i codici moderni, S. Ainbro gio l'aveva non solo preceduto, ma
superato con un giudizio, la cui equità sembra oltrepassare i confini di una
soverchia condiscendenza.Nella letteradifatti (LXXXII)al Vescovo Mar cello, pel
cui testamento eransi fratello e sorella a lui appellati, il santo ci descrive
collocate di fronte le due opposte influenze, che si disputavano allora ilcampo
delle leggi. La procedura ci vile avanti al magistrato ci appare da una parte
irta di inter minabili acontroversie,azioni,recriminazionimolteplici,istanze,
cavilli da curiale (1); » la procedura canonica del vescovo dal l'altra tien
l'occhio alla giustizia e non alle forme legali, e la stessa giustizia tempera
e corregge colla carità. Cosi S. A m b r o gio applicava al diritto civile
quella sua massima,che come ci attesta S. Agostino (2), soleva ripetere al suo
popolo: la let tera uccide, ma lo spirito vivifica. tuttora dalla S.
Congregazione del Concilio,quando trattansi certe questioni, le quali come
quella giudicata da S. Ambro gio, richiedono la più dilicata prudenza. Di tal
modo l'influenza del Consolare romano si stese su tutti irami della scienza e
pratica legale,donando loro la vita el'amore, che provengono dalla croce diGesù
Cristo. Non ci sarà perciò lecito di conchiudere,che il sommo Arcive scovo il
quale nelle immense occupazioni del suo apostolato quasi mondiale, trovò tempo
e mezzi da gettare le basi di un intera ristaurazione del diritto pubblico e
privato, deve essere salutato,come la personificazione del genio cristiano
nella se conda metà del secolo IV? S. Ambrogio infatti ben diverso dai grandi
uomini volgari dell'epoca moderna, non studiò gli er rori ed ipregiudizii
dell'età in cui visse se non per combat terli:gli avvenimenti stessi più
fortunosi non lo scossero: non segui ma trascinossi dietro uomini ed
istituzioni, informan doli del suo spirito di forza e di carità":esso
pertanto è a tutto rigor di storia,l'uomo del suo tempo. Ritorna quest'anno il
quindicesimo centenario, da che il Consolare fu eletto e consecrato Vescovo di
Milano.L'impero romano,di cui S.Ambrogio avanti di chiuder gli occhi alla vita
vidde le prime strette di morte,è sparito;ed ibarbari che lo distrussero,avendo
prestato orecchio più docileallelezioni la sciate dal santo,crearono le nazioni
cristiane.A qual punto però siamo noialpresente?Lasocietàprogredisceoretrocede?
Immense innovazionionoranoalcertolospiritoumano,che in questi ultimi tempi
percorse e scrutò tutti i regni della n a tura, sorprendendone preziosi
segreti:esso obbligo il fuoco a servire alle sue industrie, lo aggiogó al carro
e traverso la terra;diede leggi al fulmine e lo costrinse a trasmettere ad
immense distanze il proprio pensiero.Tuttavia nonostante que ste meraviglie,
quale è il diritto pubblico e privato d'Europa e del mondo in quest'anno 1874?
Diamo uno sguardo in giro: il Dio - stato b a r i alzato ovunque i suoi altari
e non vi è governo che non gli abbruci in censo e sacrifichi vittime: e quali
vittime ! Sono diverse le forme sotto cui si presenta ilredivivo paganesimo;ma
è in forza deimedesimi principii,che essoristaural'anticabattaglia, sperando
che il maggior progresso delle scienze fisiche e la maggior forza che ne
proviene ai governi,gli daranno di po IV. ter questa volta
abbattere l'indipendenza della Chiesa, ri durla a servaggio e prepararla alla
morte.Dietro al diritto pubblico vien necessariamente trasformandosi il diritto
privato; il matrimonio, qual fu consacrato e reso indissolubile dalla fede
cristiana, l'istruzione della gioventù, che deve sottrarsi all'er
rore,l'inviolabilità della proprietà sia privata che collettiva, e cento altre
conquiste dei secoli cristiani vanno ritirandosi in faccia ad altre conquiste,
per antifrasi dette moderne.Si grida progresso: ma basta gridarlo? Frattanto le
popolazioni moyon lamenti,simili a quelli che si udivano nel secolo
IV,reclamando contro isempre crescenti balzelli;una febbre di ricchezzadi vora
gli uomini creati pel cielo; e nello sfondo di un non lon tano orizzonte
vediamo avanzarsi il Comunismo, ultima fase del paganesimo,ilquale viene a
prender possesso del mondo in nome della logica e della Giustizia di Dio. È in
questi frangenti che ilvecchio campione del secolo IV si scosse nella tomba
de'suoi quindici secoli e volle rivedere lasuaMilano. Non spetta certamente
all'umana ignoranza di indovinare i di segni misteriosi dell'altissimo: Esso c
e li manifesterà come e quando crederà meglio.Ma è egli possibile che questo gi
gante di santità ritorni fra noi senza una missione degna di sua grandezza? Il
consolante dogma dell'intercessione dei santi ci dà diritto alle più soavi
speranze; poiché la S. Chiesa,e que sta nostra in ispecie,è la vigna già
lavorata da S. Ambrogio; e la sua visita perciò non può portare che frutti di
benedizione e di pace alla Chiesa ed alla società. AMBROSE (fourth century AD)
Originally from Trier, Ambrose is usually associated with Milan where he became
bishop in AD 374 and died in AD 397. He wrote a major work on ethics, On the
Duties of Priests, which relies heavily on the On Duties of Cicero. In it he
discusses Christian ethics with special reference to the clergy. (Nicene and
Post-Nicene Fathers series II, vol. X). Ambrogio. Keywords: Sebastiane; Ambrose
and his orchestra, male virgin, virgo, satyr, his brother satyr, san Sebastiano
l’eroe romano, l’eroe stoico – cicerone – uffizi – diritto romano – normativa
dell’impero, sebastiane, vita di sebastiane, nato a Milano – Derek Jarman,
Sebastiane – lingua latina -- -- Refs.:
Luigi Speranza, “Ambrogio e Grice” – The Swimming-Pool Library.
Grice ed Ambrosoli –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Varese). Filosofo italiano. Grice: “I
like Ambrosoli: ‘La filosofia è patrimonio dello spirito e non ha patria;
l’hanno, invece, le dottrine e le scuole.’ But then he dedicates his life to
Cattaneo – whose ‘patria’ informs his philosophy, as it does in Mazzini and in
each philosopher Ambrosoli provided an exegesis for! At Oxford we call such a
‘philosophical historian’!” -- Il Prof. Luigi Antonio Ambrosoli (Varese),
filosofo. È stato uno dei protagonisti della storiografia italiana del secondo
Novecento. Allievo di Federico Chabod negli anni della Seconda guerra mondiale,
si dedicò per tutta la vita alla ricerca storica, coniugandola con un costante
impegno civile per la sua Varese.
Laureato in Filosofia all'Università degli Studi di Milano, fu dapprima
docente di scuola secondaria, poi preside di scuola secondaria; successivamente
fu ordinario di Storia contemporanea presso l'Università degli Studi di
Ferrara, quindi presso l'Università degli Studi di Padova e infine preside
della Facoltà di Magistero presso l'Università degli Studi di Verona, dove fu
anche direttore dell'istituto di storia.
I suoi studi si orientarono particolarmente alla storia del Risorgimento
e, nell'ambito di questa, all'opera di Carlo Cattaneo, con esiti unanimemente
apprezzati sia per il rigore filologico che per l'acume interpretativo e la
ricerca storiografica. Parallelamente contribuì alla ricostruzione della storia
dei movimenti e dei partiti politici, con saggi dedicati al movimento cattolico
e al movimento operaio e socialista.
Grande fu il suo contributo allo studio del sistema educativo e delle
istituzioni scolastiche nell'Italia del XIX e XX secolo, con apporti
interpretativi che ancor oggi sono il riferimento per gli studiosi del
settore. Collaborò a "Il
Ponte" di Piero Calamandrei, "Belfagor" di Luigi Russo,
"Nuova Antologia", "Mondo Operaio", "L'Avanti!",
"Critica storica", "Storia in Lombardia". Fu anche fervido
sostenitore della nascita dell'Università degli Studi dell'Insubria. Altre Opere: “Varese e il Risorgimento”; “Il
primo movimento democratico in Italia” Roma, Edizioni 5 Lune); “La formazione
di Carlo Cattaneo, Milano-Napoli, Ricciardi); “Né aderire né sabotare 1915-1918,
Milano, Edizioni Avanti!); “La Federazione nazionale scuole medie dalle origini
al 1925, Firenze, La Nuova Italia, 1967 (premio Friuli-Venezia Giulia 1969 per
un'opera di storia sociale) I periodici operai e socialisti di Varese e storia,
Milano, Sugarco); “Libertà e religione nella riforma Gentile, Firenze,
Vallecchi); “La scuola in Italia, dal dopoguerra ad oggi, Bologna, Il Mulino,
La scuola alla Costituente, Brescia, Calzari Trebeschi-Paideia); “Educazione e
società tra rivoluzione e restaurazione, Verona, Libreria universitaria
editrice); “Giuseppe Mazzini, una vita per l'unità d'Italia, Manduria, Piero
Lacaita Editore); “Carlo Cattaneo e il federalismo, Roma, Istituto Poligrafico
dello Stato, 1999 Varese. Storia millenaria, Varese, Editore Macchione, Ha
curato per l'editore Mondadori i tre volumi degli scritti di Carlo Cattaneo e
per l'editore Bollati-Boringhieri i due volumi degli scritti del «Politecnico»
Onorificenze Commendatore dell'Ordine al merito della Repubblica
italiananastrino per uniforme ordinariaCommendatore dell'Ordine al merito della
Repubblica italiana «Su proposta della Presidenza del Consiglio dei Ministri» Luigi
Ambrosoli, ricerca storica e impegno civile, su va.camcom. 16 luglio. Sito web del Quirinale: dettaglio decorato, su
quirinale. Filosofia Storia Storia
Categorie: Insegnanti italiani del XX secoloStorici italiani Professore1919
2002 15 luglio 20 maggio Varese VareseFilosofi italiani del XX secolo. Ambrosoli.
Keywords: ambrosoli – cattaneo – Mazzini – insurrezione milanese – filosofia
romana – filosofia italiana – filosofia di varese – ‘La filosofia è patrimonio
dello spirito e non ha patria; l’hanno invece le dottrine e le scuole.” Refs.:
Luigi Speranza, “Grice ed Ambrosoli”.
Grice ed Ameinias – Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza
(Velia). Filosofo italiano. According to Diogene Laerzio, Ameinia was a
Pythagorian and the tutor of Parmenide of Velia. Upon his death, Parmenide
erectd a shrine to him.
Grice ed Amelio – Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza
(Firenze). Filosofo italiano. Amelio Gentiliano. Amelio was a follower of Plotinus, who used to
call him 'Amerius' -- suggesting indivisibility. He came from Etruria where he
studied with Lysimachus. Upon his arrival in Rome, he studied with Plotinus,
becoming a close friend of Porphyry in the process. He wrote a great deal. He
took copious notes of the lectures of Plotinus and wrote them up into a series
of volumes for the benefit of his adopted son Hostilianus Hesychius. He wrote
another series of volumes attacking the views of the gnostic Zostrianus, and he
also produced a book defending Plotinus against charges of plagiarising the
works of Numenius of Apamea. Given his output, there may be some truth in the
suggestion of Cassius Longinus that Amelius tended to write at greater length
than was necessary. He left Rome for Apamea.
Grice ed Ammicarto – Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza
(Velia). Filosofo italiano. Nothing is known about Ammicarto except for one
single reference to him by Proclus, in which Ammicarto is commended for his
skills in a style of dialectic associated with Parmenide di Velia.
Grice ed Amico –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Cosenza). Filosofo italiano. Grice: “I like
Amico; at the time when a philosopher’s duty was to watch the stars, he noticed
that instruments are unnecessary given Aristotle’s conception of concentric
orbits – His treatise was highly popular in Padova; therefore, he was killed –
I cannot imagine the same thing happen to Ayer at Oxford after the success of
his “Language, Truth, and Logic””! Insigne studioso di astronomia, brillante
nella conoscenza del latino, del greco e dell'ebraico, abbracciò la scuola di
pensiero dell'aristotelismo padovano del XVI secolo. Fu autore dell'operetta “De motibus corporum coelestium iuxta
principia peripatetica sine eccentricis set epicyclis” (Venezia, Pattavino e
Roffinelli). Frequenta lo studium dei domenicani e Padova sotto Vincenzo Maggi,
Passeri e Delfino. Per il resto della sua biografia si conosce ben poco se non
quanto trapela dalla sua maggiore opera. Dalla sua opera si traggono le uniche
scarne notizie relative alla sua vita, ovvero, come da lui stesso riportato
nell'opera, che fosse cosentino di nascita. Del filone del peripatismo
padovano. Membro dell'accademia di Cosenza. Amico fu il primo a mettere in
discussione il modello peripatetico tolemaico. L’assassinio d’Amico e provocato
dall'invidia della sua filosofia – impicato da un anonimo che compose
l'epitaffio: «IOAN. BAPTISTÆ AMICO Cosentino, qui cum omnes omnium liberalium
artium disciplinas miro ingenio, solerti industria, incredibili studio, Latine
Grece atque etiam Hebraice percurrisset feliciter, ipsa adolescentia suorumque
laborum & vigilarum cursu pene confecto, a sicario ignoto, literarum, ut
putatur, virtutisque, invidia, interfectus est [ammazzatto da sicario ignoto
per invidia delle sue lettere e virtù. --Monumentorum Italiae, quae hoc nostro
saeculo & a Christianis posita sunt, libri 4, pag.11). Assalito, derubato e
ucciso mentre camminava nei vicoli di Padova. Il processo contro ignoti che
seguì accerta che e scomparsa una borsa contenente le carte con rivoluzionarie
osservazioni. Subito dopo, l’Inquisizione istitusce un processo postumo per
eresia contro lui. Dell'Amico fa menzione Telesio nella sua orazione in morte,
ed il filosofo cosentino Aquino che lo define "così grande filosofo”. Cosenza
gli dedica, inaugurandolo, il Planetario della città che sorge a 224 metri
s.l.m. nel quartiere Gergeri del capoluogo bruzio. Note
Amico, Giovanni Battista, su Consortium of European Research
Libraries,//thesaurus.cerl.org/. 16 febbraio.
amico, giovan battista: d', su OPAC
Catalogo del servizio bibliotecario nazionale,//opac. Ioannis Baptistae
Amici Cosentini de Motibus corporum coelestiu iuxta principia peripatetica sine
eccentricis & epicyclis, su OPAC
Catalogo del servizio bibliotecario nazionale,//opac..Francesco Sacco,
Giovan Battista Amico, su Galleria dell'Accademia Cosentina, Consiglio
Nazionale delle Ricerche CNR. Concetta Bianca, DELFINO (Dolfin), Federico, su
Dizionario Biografico degli Italiani, Enciclopedia Italiana Treccani. Elda
Martellozzo Forin, Padova. Istituto per la Storia, Acta graduum academicorum
Gymnasii Patavini Padova, Antenore. 15 febbraio. Per il testo originale dell'epitaffio si veda
Lorenz Schrader, Monumentorum Italiae, quae hoc nostro saeculo & a
Christianis posita sunt, libri 4, Lucius Transylvanus, Le biografie degli
uomini illustri delle Calabrie raccolte Luigi Accattatis, Cosenza, Tip. Municipale,
Giovan Battista Amico, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Coriolano Martirano, L'arco di Ulisse. Vita ed
opera di Giovanni Battista Amici, Bruttium et scientia, Laruffa, Francesco
Sacco, Giovan Battista Amico, su Galleria dell'Accademia Cosentina, Consiglio
Nazionale delle Ricerche CNR. Luigi Accattatis, Le biografie degli uomini
illustri delle Calabrie, A. Forni, Mario Di Bono, Le sfere omocentriche di
Giovan Battista Amico nell'astronomia del Cinquecento, Centro di Studio sulla
Storia della tecnica. Franco Piperno, Da Eudosso di Cnido a Giovan Battista
D'Amico da Cosenza, su Università della Calabria, progetto "Divulgare la
Scienza Moderna attraverso l'antichità",//lcs.unical/.Noel Swerdlow,
Aristotelian Planetary Theory in the Renaissance: Giovanni Battista Amico's
homocentric spheres, su Journal for the History of Astronomy,http://articles.adsabs.harvard.edu/.
Astronomi e gli scienziati calabresi del XVI-XVII secolo G. BATTISTA D'AMICO,
in Provincia di Cosenza,//provincia.cs, Filosofi italiani Professore Cosenza
Padova Accademia cosentina. Ioannes Baptista Amicus Cosentinus. Giovan Battista
d’Amico. Giovan Battista Amici. Giovan Battista Amico. d’Amico. Amico. L’incipit
del nostro “Amico”. Gli anni ’30 del XVI secolo costituiscono una profonda
frattura in fisica tra il “prima” e il “dopo”. Gli studi condotti nei due
millenni precedenti vanno in direzione del geocentrismo, da Galileo in poi la
fisica procede verso soluzioni differenti e l’individuazione del sistema
eliocentrico ne e lo snodo fondamentale. Ma fino a quel momento, tutto ciò che
costituisce “il prima” parte da Eudosso, Aristotele e Tolomeo. Purbach tenta la
fusione tra Aristotele e Tolomeo. Osservando il cielo, si accorge degli errori
contenuti nella Tavola di Toomeo. Decide quindi di recarsi in Italia, per
consultare direttamente i manoscritti antichi nell’arduo tentativo di re-digere
della nuova tavola e più affidabili di quella di Tolomeo, allora d’uso comune
in tutta Italia. Purbach insegna a Padova. Prima affina la capacità di calcolo
computando una tavola dei seni per ogni minuto primo, quindi redige “Theoricae
novae planetarium”. Dal punto di vista tecnico, il testo contiene l’innovazione
di svuotare una sfera omocentrica e di aumentare lo spazio in modo tale da far
posto agli eccentrici e agli epicicli di Tolomeo. Mette a punto le sue nuove
tavola, completandone il controllo attraverso la discussione con i peripatetici
veneti ed il confronto con i manoscritti antichi raccolti nelle biblioteche
italiane. Ma qualche settimana prima di lasciare Vienna per Venezia, muore.
Purbach tenta la fusione tra il sistema del modo omocentrico e quello
matematico dell’epi-ciclo. Dopo di lui, vi e Amico, un cosentino, che rilevera
l’impresa. Pochi anni prima la
pubblicazione del capolavoro di Copernico, sia assiste a una fioritura di testi
dati alle stampe ove le speculazioni sulla sfera omocentrica sono sempre e
ancora in primo piano. Il campo della fisica sono ancora troppo giovani per
avere strumentazioni sofisticate e la fisica viene dedotta, assumendo, forse
presuntuosamente, il carattere di verità. Ma qualcosa si muove. La fisica e la
strumentazione progrediscono e gli filosofi stanno procedendo in un processo
senza soluzione di continuità che culminerà nel metodo. Nella diatriba si
inserisce Fracastoro. Voi certamente non ignorate che coloro che si professano
filosofi hanno sempre trovato grandi difficoltà nel rendere ragione dei moti apparenti
che presenta la fisica. Infatti si offrono loro due vie per spiegarli: l’una
procede mediante l’aiuto di quell’orbita che e detta omo-centrica, l’altra per
mezzo di quella che e chiamata eccentrica. Ciascuna di queste due vie ha i suoi
rischi, ciascuna ha i suoi scogli. Chi che fa uso dell’orbita omocentrica non
arriva a spiegare il fenomeno. Chi che fa uso dell’eccentrica sembra, per la
verità, spiegarlo meglio, ma l’opinione che si formano di questi corpi divini è
indegna e, per così dire, empia. Essi attribuiscono loro delle situazioni e
delle figure che non convengono alla natura dei cieli. Sappiamo che Eudosso e
Callippo, i quali tra gli antichi hanno tentato di spiegare i fenomeni per
mezzo dell’orbita omo-centricha, sono stati ingannati più volte in conseguenza
di questa difficoltà. Ipparco è uno dei
primi che preferirono ammettere l’orbita eccentrica piuttosto che restare
ingannati dai fenomeni. Tolomeo lo ha seguito e, subito dopo, quasi tutti gli
astronomi sono stati trascinati da Tolomeo nella stessa direzione. Ma contro
questi astronomi o, almeno, contro l’ipotesi degli eccentrici di cui facevano
uso, la filosofia tutta intera ha sollevato continue proteste. Ma che dico la
filosofia? È piuttosto la natura e le stesse orbite celesti che hanno
protestato senza tregua. Finora non è stato possibile rintracciare un solo
filosofo che acconsentisse ad affermare l’esistenza di queste sfere mostruose
in mezzo a corpi divini e perfetti”114. Ci si accorge, con decisione, l’ambito
della scienza entro il quale si muovo scienziati, astronomi, astrologi e medici
del tempo. La conoscenza maggiore dei classici ha portato una sorta di
involuzione del pensiero, rientrato nell’ottica di quanto già affermato in
passato, senza apportare grandi e significative migliorie. Da questo punto,
invece, pur rientrando nella materia nota a tutti, sarà proprio il giovane
cosentino a dare una ventata di innovazione in senso ovviamente relativo.
114 Girolamo Fracastoro, Homocentricorum, sive de stellis, liber unus, Venetiis
1535, presentazione. Amico è un filosofo cosentino ucciso in Padova. Della sua
biografia si conosce veramente poco: agli esigui dati certi si contrappongono
notizie fantasiose e di provenienza dubbia. Tra i primi a dare informazioni
sulla sua vita c’è Barrio. Vede la luce il suo poderoso lavoro sulla storia
delle città della Calabria, rigorosamente scritto in latino, alle stampe del De
antiquitate et situ Calabriae. Il risultato non soddisfa lo stesso autore, il
quale decide di emendare quella versione, ma la morte impedisce la prosecuzione
di revisione dell’opera. Quattromani inserisce nell’opera postille esplicative.
Per arrivare alla pubblicazione definitiva bisogna attendere sino a quando Aceti,
dopo un lungo e laborioso lavoro completa l’elaborato con aggiunte e note. Di
Amico si legge una sorta di epitaffio nel capitolo dedicato a gl’uomini di
Cosenza eccelsi per santità, dottrina e dignità. Per una disamina riguardo le
informazioni frutto più di fantasia di qualche erudito locale che di sostanza
di fonti cfr. Dalena, Firenze. Thomae Aceti, Accademici Consentini, et
Vaticanae Basilicae clerici beneficiati in Gabrielis Barrii Francicani De
Antiquitate & situ Calabriae Libros Quinque, Nunc primum ex autographo
restitutos ac per Capita distributos, Prolegomeni, Additiones, & Notae.
Quibus accesserunt animadversiones Sartorii Quattrimani Patricii Consentini,
Romae, ex Typographia S. Michaelis ad Ripam Sumtibus Hieronymi Mainardi, come
cita il frontespizio di una delle copie in possesso della Biblioteca Civica di
Cosenza (Fondo Salfi). “Vi fu anche Amico, che descrisse i moti dei corpi
celesti secondo i precetti dei peripatetici, cosa invano tentata per tanti
secoli dagli antichissimi filosofi e se non fosse stato colpito da morte
immatura avrebbe affrontato fatiche maggiori. Aceti, nelle note, aggiunge
l’epigrafe di Padova, addirittura meno lapidaria del conciso inciso di Barrio.
A Padova si legge di lui nel monumento delle epigrafi d’Italia: A Amico,
cosentino, il quale, avendo percorso felicemente le discipline tutte di tutte
le arti liberali con mirabile ingegno, solerte operosità, incredibile passione, ucciso da sicario ignoto. Ucciso, come si
ritiene, dalla invidia delle lettere e della virtù. Le virtù che ad altri
portarono premi e vita perenne, per costui solo furono causa di uccisione. Andreotti,
nella sua Storia dei Cosentini, cita il nostro nell’elenco dei componenti dell’Accademia
telesiana, presieduta dal grande filosofo bruzio. Vi fiore Amico, nato in
Cosenza – educato a Padova – conoscitore sveltissimo della filosofia e della
fisica. fScrisse costui seguendo la
teorica peripatetica, “De motu corporum coelestium”, descrivendo tutti i
movimenti de’ corpi celesti senza ricorrere, secondo che narra l’Aquino nel
discorso su Telesio, per spiegarli a quel movimento eccentrico ed all’epi-ciclo
inventato da Tolemeo, quando vuole conciliare la sua opinione della solidità
de’ cieli co’ moti de’ corpi celesti. Morì egli in Padova, ucciso -- e non appartenne alla citata Accademia, che
nell’epoca in cui per affari di famiglia dimora un anno in Cosenza. La sua
opera va così intitolata – Ioannis Baptistae Amici – De Motu Corporum
coelestium”. La notizia ricalca, con qualche elemento in più, quelle già
incontrate nell’opera del Barrio. Pochi dunque i ragguagli che si possono
ricavare. Abbastanza poco è noto sulla sua genesi. Nato a Cosenza, morto a
Padova, dove ha studiato, esperto nelle lingue colte, specializzato in metafisica
e fisica, ucciso da mano ignota, proprio per la sua capacità filosofica.
Capacità, questa che lo hanno portato a
essere membro della appena sorta accademia. Barrio, Antichità e luoghi della
Calabria, aggiunte e note di Aceti, osservazioni di Sartorio Quattromani, Roma,
trad. it. di Erasmo A. Mancuso, Brenner, Cosenza, presieduta dal ben più noto
filosofo Telesio, “illustre cosentino”. La sua presenza in Accademia è quasi
casuale, essendo rientrato nella città Bruzia solo quell’anno per affari di
famiglia. Al rientro nelle Venezie, trova la morte. Quali informazioni possiamo
estrapolare e spremere dalle fonti è veramente poca roba. Il gentilizio è di
origine incerta. Il cognome è variamente declinator: Amico, Amici o d’Amico, in
quanto nel latino medievale, nel titolo di un testo di utilizza il genitivo per
quanto concerne il cognome dell’autore. Pertanto si presume che ‘Amici’ sia
genitivo di ‘Amico’, mentre ‘Amici’ sia la mera ripetizione, e “d’Amico” la
traduzione italiana *del caso genitive* latino. Per questo motivo, in questa
sede si utilizza la forma più semplice. La famiglia ha una sua importanza nel
contesto della “città libera” di Cosenza, potendo permettersi, sia pur con enormi
sacrifici, il mantenimento di un proprio membro agli studi in una città, di
fama e retaggio culturale ottimi, ma così lontana. I sacrifici si posso ben
immaginare, mancando, nella crescita di Amico, il padre, essendo prematuramente
morto prima della sua nascita. L’assenza del capo famiglia, nel contesto del
XVI secolo, società di fatto a carattere patriarcale, non ha sicuramente
giovato nell’ambito dell’economia familiare, essendo assente proprio il fulcro
stesso dell’istituzione. Ciò nonostante si può supporre un sicuro benessere, in
quanto, anche in assenza del padre, un giovane rampollo di famiglia di ottimati
puo permettersi gli studi lontani da casa. Nulla si conosce riguardo la sua
formazione cosentina. Di certo, grazie a qualche insegnante, nel corso degli
studi del trivio, conosce filosofia. L’ambiente, dopotutto, è quello emerso dal
retaggio glorioso della Mégale Hellàs, ove gli studi della filosofia, della
scienza, della medicina e dell’astronomia erano, per così dire, all’ “avanguardia”.
E anche dopo lo iato medievale. L. Piovan, Amico, Telesio, Doria: documenti e
postille, in “Quaderni per la storia dell’Università di Padova”. Dreyer, Boquet
e Taton utilizzano la forma ‘Amici’, ma è presente anche la forma ‘De’ Amici’. È
a tutti noto che la città di Cosenza non sube mai vassallaggi tipici
dell’infeudazione. -- nuovi
impulsi e ritorni agli antichi studi erano senza dubbio all’attenzione della
koiné culturale cosentina. Ne è esempio lo stesso Barrio. Nella sua monumentale
opera, i riferimenti storici sono in primo piano, così anche è per Fiore e
Marafioti, nonché per lo stesso Quattromani. Una ricostruzione culturale
‘amiciana’, estremamente verosimile si deve a Piperno. Le arti del trivio,
grammatica, retorica e dialettica, portati a termine nella città brettia gli
avevano assicurato la conoscenza attiva e passiva delle tre lingue sapienziali,
aramaico, greco e latino. Dopo tutto questo, era partito alla volta del Veneto,
di Padova in particolare, per completare, in quello prestigioo studio à, gli
studi delle arti del quadrivio, geometria, aritmetica, astronomia e musica, in
vista di intraprendere poi, presumibilmente, un curriculum filosofico. In quei
tempi l’astronomia era insegnata in funzione della astrologia e questa a sua
volta svolgeva un ruolo ancillare a fronte della medicina, arte che pratica la
diagnostica delle malattie e ritma l’attività di cura secondo il variare delle
configurazioni degli astri nel cielo notturno; insomma la medicina era
profondamente intrecciata con il sapere astronomico in una sorta di
‘astroiatria’”. Sono conosciuti però i maestri con i quali Amico ebbe modo di
formarsi. È egli stesso a dichiararlo, nella dedica a Ridolfi, introduzione
alla sua opera. Questi sono tutti nomi che fanno parte del gotha scientifico-culturale
dell’ambiente universitario patavino e non solo. Tra i maestri Amico annovera
Delfino, Passeri, e Madio. Delfino è il più celebre insegnante di astronomia e
matematica. Tra i suoi allievi, divenuti a loro volta famosi, si ricordano, oltre
a Telesio e Amico, Contarini, Piccolomini e Fracastoro. Passeri ricopriva, in
quel lasso di tempo, la cattedra di filosofia naturale, è stato l’autore di un
commento al “De anima”. A lui si deve l’introduzione di Amico agli aspetti più
esoterici e raffinati dell’Aristotele autentico. Sull’ambiente culturale
cosentino del periodo cfr. L. De Rose, Cosenza “faro splendidissimo di
cultura”. L’Atene della Calabria e i Brettii raccontati da Barrio, in G. Masi,
Tra Calabria e Mezzogiorno. Studi storici in memoria di Tobia Cornacchioli,
ICSAIC, Pellegrini Editore, Cosenza. Piperno, Ioannis Baptistae Amici..., -- greco;
mentre il Madio o Maggi, che a sua volta aveva scritto un commento alla “Poetica”,
e già divenuto l’interprete più autorevole della tradizine peripatetica, a lui,
ritenuto il “massimo rappresentante peripatetico” si rivolge il Telesio per un
giudizio sulla propria opera. Quando Amico arriva a Padova, la sua vita si
dipana in due diverse settrici: da un lato la vita universitaria, con i suoi
lustri, gli studi i professori, dall’altro la realtà quotidiana, fatta di
privazioni (di affetti, di soldi), di solitudine. Non avendo fonti documentate
che diano certezze a qualunque ipotesi passibile di verosimiglianza, si deve
necessariamente concentrare l’attenzione sul percorso di studi dell’Amico,
percorso, forse, neanche compiuto sino in fondo, non essendo stata reperita in
alcun modo una pergamena a suo nome. La opera di Amico si incastona
nell’ambiente padovano, ricco di stimoli e personaggi, dimenticata dopo la
prematura scomparsa dell’autore, che tanta parte avrebbe avuto nella genesi
della scienza moderna. L’Università
patavina vive, ormai da tempo, la rifioritura della corrente peripatetica sia
per quanto concerne l’astronomia che per le altre scienze della natura – in
questo, Padova e il Veneto si contrappongono a Firenze e alla Toscana dove è
affermata, senza cesura, una adesione esclusiva al platonismo pitagorizzante.
Certo, altre città in Europa, coi loro Atenei, hanno già imboccato la strada
che riporta ad Aristotele. Si pensi, ad 122 Cfr. M. Di Bono, Le sfere
omocentriche..., cit., p. 53. 123 K. M. Pataturk, Opere inedite perché non
stampate, né scritte e neppure pensate, Valle Giulia, Roma. Piperno annota
tristi particolari di un immaginario quotidiano padovano del giovane cosentino,
ricostruito da Pataturk, non credibile e privo di fonti documentarie. L’autore,
il più autorevole tra gli storici ponterandoti dell’astronomia [Pataturk
n.d.A.], afferma che Amico, durante i lunghi e umidi inverni patavini, usasse
lasciar dormire in casa, accanto a sé, sul letto, schiena contro schiena, il
suo cane, un massiccio pastore della Sila Grande, che aveva condotto con sé
dalle Calabrie – come per proteggersi dalla emarginazione anomica che, ieri come
oggi, s’accompagna alla miseria di studente fuori sede squattrinato, in terra
veneta. Il particolare può apparire irrilevante, anzi fatuo; e trattandosi di
una fonte incerta perché irreperibile conviene lasciarlo cadere. Noi abbiamo
scelto di farne uso, perché questa confidenza tra il filosofo ed il cane e
considerata una prova per avvalorare una leggenda metropolitana che identifica
il cosentino con il castigliano Ruy Faleiro, l’astronomo che, su richiesta del
vicentino Pigafetta, aveva sciolto l’enigma del giorno perduto dai marinai
della spedizione di Magellano”. Cfr. F. Piperno, Le imprese di Pigafetta, www.
UNICAL/ variazioni sul tempo. Il nome di Amico (e in alcuna declinazione) non
appare negli Acta Graduum Academicorum Gymnasii Patavicini. Index nominum cum
aliis actibus praemissis, a cura di Elda Martellozzo Forin, Antenore, Padova. M.
Di Bono, Le sfere omocentriche... -- esempio, a Basilea, Norimberga, Praga,
Cracovia e la stessa Parigi. Ma, sebbene questi centri culturali abbiano
conseguito risultati ragguardevoli e anche maggiori, nessuno di essi può “stare
a confronto, sul piano della varietà di approcci, alla comprensione di
Aristotele che si manifesta a Padova e nel Veneto”127. L’Ateneo patavino è
campo fertile per l’educazione di astronomi (astrologi), medici e filosofi
naturali, nella limitrofa Venezia sorgono, dopo la scoperta della stampa, gli
impianti artigianali per l’editoria, che permette a tutti coloro che sono in
grado di leggere e ovviamente alle persone istruite “di entrare in contatto
diretto tanto con il pensiero dei classici quanto con l’elaborazione teoretica
allo stato nascente dei contemporanei – non a caso, sarà nella città lagunare
che verranno pubblicate, nel biennio 1536-37, le prime due edizioni
dell’Opusculum, malgrado che il suo giovane autore fosse, a tutti gli effetti,
un perfetto sconosciuto”128. Il ventiquattrenne cosentino approfitta del
particolare contesto storico e, convinto dagli amici Cipriano Pallavicini e
Giovan Battista Aurio, quasi certamente a proprie spese, presenta il suo lavoro
ai tipografi Giovanni Patavino e Venturino Roffinelli, i quali, appunto, lo propongono
in carta stampata. La ristampa del volumetto, con aggiunte e correzioni, è
tangibile prova dell’interesse che suscita l’argomento e di come è stato
affrontato dal giovane autore. La Repubblica marinara di Venezia interpreta
così il ruolo di collegamento tra le grandi civiltà mediterranee, latina,
bizantina e araba; divenendo, per dirla con De Bono, il centro di riferimento
obbligato tanto per i commerci librari quanto per i saperi astronomici. Schimitt,
L’aristotelismo nel Veneto e le origini della scienza moderna, in L. Olivieri,
“Aristotelismo veneto e scienza moderna”, Antenore, Padova. Piperno, Ioannis Baptistae
Amici.... Piovan, Giovanni Battista Amico. L’autore documenta come il filosofo
cosentino Bernardino Telesio, a Padova nel 1538, si assunse l’onere
dell’eredità debitoria di Giovan Battista Amico, saldando una pendenza di venti
scudi veneti a favore di un certo Giovanni Battista Doria, d’origine genovese e
ritenuto per pregiudizio dedito all’usura. L’entità della somma è tale da
supporre che Amico abbia impiegato i venti scudi per pagare il tipografo
veneziano che aveva stampato il suo Opusculum. Cfr. M. Di Bono, Le sfere omocentriche....
Resta insuperato il citato lavoro di Braudel riguardo l’importanza della
Serenissima quale coacervo di culture, orientale, mediterranea e del Nord
Europa. 91 Limitandoci qui solo ai testi d’astronomia editi a
Venezia o nel Veneto, vi sono molte editiones principes degli autori
dell’antichità: Arato, Manilio, Aristarco, Proclo, Macrobio, Igino, Marziano
Cappella e così via. L’Almagesto di Tolomeo viene stampato, una prima volta nel
1515, recuperando dall’epoca medievale, una vecchia traduzione dall’arabo in
latino a cura di Gerardo da Cremona; una seconda volta nel 1528, sempre nella
traduzione latina ma questa volta, ormai in pieno Rinascimento, dall’originale
greco, per opera di Luca Gaurico. L’editoria veneta degli inizi del secolo XVI
non trascura certo le opere astronomiche più recenti o contemporanee: vedono
infatti la luce i testi di Alcabizio, Purbach, Bate di Malines, Sacrobosco,
Regiomontano e così via131. L’aristotelismo veneto non è una nicchia per
accademici, ma una sorta di ideologia filosofica che impregna di sé tanto la
comunità dei colti quanto l’attività produttiva. Si ricordi che a Venezia
esisteva allora un artigianato altamente qualificato che costruiva le lenti per
i presbiti, usando le leggi dell’ottica geometrica riformulate dai peripatetici
arabi. Questa trasversalità rende l’Ateneo patavino una tappa prestigiosa per i
curricula dei più grandi filosofi naturali che insegnano astronomia; e di
conseguenza a Padova convergeranno molti tra i più dotati studenti di
astrologia, matematica e medicina, non solo dall’Italia ma da tutta
Europa. Cfr. M. Di Bono, Le sfere omocentriche..., cit.. L’astronomia del
De Motibus corporum coelestium iuxta principia peripatetica sine eccentrici et
epicicli di Amico Un anno dopo la stampa de Gli omocentrici di Fracastoro132,
Giovan Battista Amico pubblica il suo opuscolo su medesimo tema. Che i due
astronomi siano debitori alle teorie di Eudosso è lo stesso astronomo cosentino
a dichiararlo nei suoi scritti: “Tra gli antichi alcuni si sono sforzati di unire
l’astrologia alla filosofia naturale, altri, al contrario, hanno cercato di
separare queste due scienze. Infatti, Eudosso, Callippo e Aristotele hanno
cercato di ricondurre tutti i movimenti non uniformi, che i corpi celesti ci
presentano, a dei collegamenti tra le orbite omocentriche riconoscibili in
natura; Tolomeo, all’opposto, e coloro che hanno seguito il suo metodo hanno
voluto, andando contro la natura delle cose, ridurle ad eccentrici ed
epicicli”. “Gli astronomi attribuiscono i fenomeni che percepiamo, quando
osserviamo i corpi superiori, agli eccentrici e a quelle sferette che vengono
chiamate epicicli. Ma la loro riduzione di tutti questi effetti a tali cause è
pessima. D’altra parte, non ci si deve meravigliare se hanno errato in tale
riduzione, poiché, come afferma Aristotele nel primo libro degli Analitici
Secondi, ogni soluzione diventa difficile allorché coloro che hanno la pretesa
di averla trovata fanno uso di principi falsi. Dunque, se la natura non conosce
né eccentrici né epicicli, secondo la giusta espressione di Averroè, sarà bene
che anche noi rifiutiamo tali orbite. Noi lo faremo tanto più volentieri in
quanto gli astronomi attribuiscono agli epicicli e agli eccentrici certi
movimenti che chiamano inclinazioni, riflessioni o deviazioni, che non possono
convenire in alcun modo, almeno a mio parere, alla quinta essenza”133. “In
quest’opera, forse, non si troverà nulla di completo, ma riterrò di aver fatto
abbastanza se riuscirò a eccitare gli spiriti più illustri al desiderio di
rendere più chiara questa spiegazione” (Ep. ad card. Nicolaum Rodulphum). 132
Girolamo Fracastoro, Homocentricorum, sive de stellis, liber unus, Venetiis
1535. 133 Giovanni Battista D’Amico, De motibus corporum coelestium iuxta
principia peripatetica sine eccentris et epicicli, Venetiis 1536, cap. 1 e cap.
Frontespizio dell’esemplare conservato nella Biblioteca Nazionale di Napoli.
Prima edizione del De Motibus corporum coelestium iuxta principia peripatetica
sine eccentrici et epicyclis di G.B. D’Amico, Venezia 1536 94 Nella
dedica al Cardinale, il cosentino Amico avverte, con umiltà, l’intento dei suoi
studi, confessando, in pratica, la gratitudine che deve a chi lo ha preceduto:
i classici greci e latini e i trasmettitori arabi. Nei primi sei capitoli
dell’opuscolo, secondo la tradizione, egli compone un breve excursus delle
dottrine astronomiche di Eudosso, Callippo e Aristotele, concludendo che
l’osservazione millenaria della volta celeste non autorizza a pensare che la
natura sia costretta a muoversi per epicicli ed eccentrici. Dal settimo
capitolo inizia a declinare le proprie teorie riguardo l’assetto cosmico.
Amici, per primo, opera un vero e proprio pensiero critico riguardo le teorie
antiche, e sebbene rimanga entro lo stretto cerchio di esse, promuove nuove
formulazioni. Il cosentino dimostra dapprima che se vi sono due sfere
omocentriche contigue i rispettivi assi perpendicolari tra di loro e se i poli
della sfera esterna si muovono da una parte e dall’altra rispetto alla
posizione media; se accade tutto questo, allora si vede facilmente che la sfera
interna ora accelera ora ritarda. Subito dopo osserva che se i poli delle due
sfere formano, più in generale, un angolo di n° gradi e l’uno ruota in verso
contrario rispetto all’altro con velocità doppia, allora il movimento
complessivo sarà una oscillazione su un arco di 4n° (Fig. 33) – in questo
calcolo così elegante il nostro giovane Amico rivela quanto il suo talento
debba, nella sua formazione accademica,alla geometria alessandrina rielaborata
dagli arabi134. 134 F. Piperno, Ioannis Baptistae Amici..., cit. 95
Fig. 33 Introdotta questa innovazione nel sistema eudossiano, il giovane
astronomo può concludere che sono sufficienti quattro sfere per ricostruire i
movimenti apparenti del Sole; mentre per i sei pianeti – la Luna secondo la tradizione
viene considerata tale — ne occorrono di più. 96 Si evidenzia pertanto
una aggiunta di sfere che renda possibile la “salvezza dei fenomeni”, a
discapito di un complicazione che già è palese ai tempi di Aristotele, che
comporta un numero di sfere aumentato a ottantanove, come risulta evidente
nella tabella (3) seguente: Tabella 3 EUDOSSO Saturno 4 Giove 4 Marte 4
Venere 4 Mercurio 4 Sole 3 Luna 3 CALLIPPO 4 4 4 +1 =5 4 +1 =5 4 +1 =5 3 +2 =5
3 +2 =5 4 +3 =7 16 4 +3 =7 16 5 +4 =9 16 5 +4 =9 13 5 +4 =9 13 5 +4 =9 4 5
55 89 11 26 33 Di conseguenza, il subito solleva una obiezione
decisiva alla teoria tolemaica: la Luna di certo non si muove su un epiciclo
giacché, se così fosse, non potrebbe mostrare, osservata dalla Terra, la stessa
faccia, come invece a noi tutti capita di costatare — secondo la fisica
aristotelica un corpo che compia una rivoluzione attorno ad un centro deve
rivolgere a quest’ultimo sempre il medesimo lato (Fig. 34). cosentino passa ad
esaminare nel dettaglio l’orbita lunare; e 97 Fig. 34 Formulata
così l’obiezione, il giovane astronomo si affretta a generalizzarne la portata:
anche gli altri pianeti non possono muoversi su epicicli dal momento che i
pianeti, corpi intrisi di divina perfezione, devono dipanare i loro percorsi in
forme perfettamente analoghe e altrettanto pregne della succitata perfezione
sublime. Quattro sfere vengono quindi assegnate a ogni pianeta, in grado di
svolgere il ruolo previsto, nella teoria tolemaica, per gli epicicli. La sfera
più esterna, detta d’accesso, ha i suoi poli nel piano dell’orbita planetaria e
si muove da Nord a Sud con la stessa 98 velocità con la quale si
muoverebbe il corrispondente epiciclo tolemaico. La sfera successiva, più
interna, presenta dei poli che distano da quelli della prima di un quarto del
diametro dell’epiciclo. Codesta sfera adiacente si muove in direzione contraria
alla prima ma a velocità doppia. La terza sfera, ancora più interna, detta di
recesso, i cui poli giacciono sull’orbita planetaria, si muove da Sud a Nord.
Infine, la quarta sfera, la più interna, ha il suo asse a perpendicolo rispetto
al piano dell’orbita planetaria e ospita, incastonato, il pianeta su un suo
cerchio massimo. La composizione dei diversi movimenti delle quattro sfere dà
luogo, di solito, al moto progressivo annuale del pianeta, da Ovest verso Est;
come, di tanto in tanto a quello retrogrado, da Est verso Ovest. Solo la Luna,
per via della alta velocità della sua quarta sfera, presenterà unicamente il
moto progressivo,sia pure appesantito, di tempo in tempo, da un certo ritardo
(Fig. 35). Fig. 35. 99 Dopo avere così ricostruito
qualitativamente, senza l’uso degli epicicli, tanto la regressione dei pianeti
quanto il ritardo della Luna, il giovane astronomo affronta il problema ben più
intricato di dar conto della variazioni della durata del moto regressivo
planetario e del ritardo lunare. Questo insoluto è risolto con l’attribuzione a
ogni pianeta di altre tre sfere poste tra la sfera d’accesso e quella di
recesso già introdotte, in modo che venga opportunamente variato l’arco
percorso durante il moto retrogrado. Inoltre, per prevenire lo spostamento
della posizione planetaria verso latitudine più alte di quelle osservate,
introduce altre tre sfere – portando così a dieci il numero totale di sfere per
pianeta; e come se ancora non bastasse, per la Luna aggiunge una undicesima
sfera destinata a spiegare il moto ciclico della linea dei nodi lunari,
l’antico Saros dei babilonesi che si ripete ogni diciotto anni circa135.
Malgrado l’evidente complessità del sistema del mondo così costruito, il
cosentino si rende perfettamente conto che dieci sfere a pianeta non sono
ancora sufficienti a dar conto di tutti i movimenti celesti reperiti lungo i
millenni dagli astronomi; e aggiunge così altre sfere, portando alla fine a sedici
quelle relative a Saturno, Giove e Marte, mentre per Venere e Mercurio ne
basteranno, si fa per dire, solo tredici. L’astronomo inoltre ritiene, non
certo a torto, che per procedere a d una previsione numerica, attraverso il suo
sistema del mondo, delle posizioni e dei movimenti dei corpi celesti occorre
fissare con maggiore precisioni le inclinazioni reciproche degli assi delle
diverse sfere; e per far questo si richiedono ulteriori minuziose osservazioni
dei sei pianeti e del Sole. Quanto alle stelle fisse, quelle incastonate
nell’ottava sfera, bisogna che quest’ultima, oltre alla rotazione diurna sia
affetta anche da un altro movimento, chiamato trepidazione, che ricostruisca la
lenta precessione degli equinozi – il che, secondo la fisica aristotelica, può
avvenire solo dall’esterno ovvero deve esistere una nona sfera che trasmette
all’ottava il moto che emana dal motore immobile (Fig. 36). Fig. 36. Si noti
che Amico non confronta la sua teoria con le osservazioni astronomiche più
recenti, bensì ne fa di sue e si tratta di osservazioni del tutto innovative.
Il suo programma è quello di ritrovare tutti i risultati dell’astronomia
tolemaica usando il sistema omocentrico piuttosto che gli eccentrici e gli
epicicli. Non si pone il problema della correttezza sperimentale delle misure
ereditate dalla tradizione medievale. Inoltre l’astronomo cosentino non si
rende affatto conto che il suo sistema, pur intendendo fare salva la fisica
peripatetica, in realtà le va decisamente contro. La capacità che ha il sistema
omocentrico di ricostruire, sommando moti circolari, il movimento rettilineo
dei pianeti nella fase di retrogradazione, testimonia che tra cerchio 101
e retta non v’è quella differenza cosmologica affermata dalla fisica
peripatetica, secondo cui nel senso che il cerchio appartiene alla perfezione
del mondo sopralunare mentre la retta è partecipe del mondo sub lunare, della
imperfezione terrestre137. Bisogna aggiungere ancora che l’Amico è del tutto
consapevole delle obiezioni alle quali va incontro il sistema omocentrico. La
prima si riferisce al fenomeno della variazione del diametro e della luminosità
apparente dei sette pianeti; per esempio, la Luna si mostra più grande in
quadratura che alle sizigie, il Sole ha dimensioni maggiori d’inverno che in estate,
Marte presenta una luminosità variabile con la posizione sulla fascia
zodiacale. Questi fenomeni, infatti, sembravano indicare che la distanza Terra-
Pianeta fosse variabile; e questo era una obiezione fatale al sistema
omocentrico, che richiede appunto una simmetria sferica ovvero la conservazione
della distanza. Amici si confronta con questa questione e la risolve spiegando
come il fenomeno sia dovuto alla contingenza che l’etere frapposto. tra la
Terra ed il Pianeta osservato, non ha una densità uniforme. È necessario
indagare questa spiegazione in dettaglio, giacché, malgrado si sia rivelata
erronea, contiene un tratto essenziale della nuova fisica, quella basata
sull’esperimento e non sull’esperienza. Amici, a Padova ha confidenza con gli
artigiani degli opifici i veneziani – dove si lavorano le lenti per correggere
miopia e presbiopia – e sa che un oggetto guardato attraverso la lente appare
più grande in ragione diretta allo spessore della lente stessa. Egli, quindi
generalizza la verità di questo esperimento all’universo nella sua interezza,
ponendo alla teoria basi di “ottica empirica”. Di conseguenza i pianeti
osservati dalla terra, malgrado si tengano sempre alla stessa distanza, ci
appaiono più grandi quando, lungo lo zodiaco, si trovano in un punto nel quale
l’etere è più denso. Analogamente la Luna si mostrerà più grande alle
quadrature piuttosto che alle sizigie perché in queste ultime il suo forte
splendore dirada l’etere che la circonda, sicché noi la vediamo come attraverso
una lente più sottile che alle quadrature. L’altra obiezione è più di senso
comune ma non per questo meno significativa. Il sistema omocentrico, rivisitato
da Amici, resta notevolmente macchinoso. Esso, come mostrato nella tabella
numero 3, richiede un numero di sfere nettamente superiore tanto di quello
aristotelico quanto dei deferenti tanto degli epicicli tolemaici. Il giovane
astronomo, però, rigetta l’obiezione affermando che egli cerca di ricostruire
il cosmo così come realmente è, riproducendolo per similitudine su scala
ridotta; ed è meno interessato ad un modello che rende sì più facile i alcoli
ma comporta movimenti fisicamente inammissibili. Altrimenti detto, il
cosentino, pur destreggiandosi assai bene con la geometria solida, si riconosce
nella schiera degli “astronomi philosophi” intenti a conoscere la realtà del
mondo e non in quella degli “astronomi matematici” indaffarati a formulare
previsioni astronomiche quando non astrologiche, sulla base del computo.
L’Opusculum si presenta come un trattato moderno, nel senso che il criterio di
verità è assicurato dalla corrispondenza tra realtà fenomenica e proposizioni
della teoria, e non già, come nella teologia medievale, tra fenomeni e parole
della Sacra Scrittura o, andando ancora più a ritroso nel tempo, l’interdipendenza
tra teorie scientifiche e filosofico/religiose del mondo antico. Nel mondo
amiciano e del secolo della Rinascita Dio è una ipotesi di cui si può fare a
meno, e non si trova nell’opuscolo una benché minima citazione biblica. La
separazione tra scienza e fede, così tipica della modernità, afferma Piperno, è
stata già totalmente interiorizzata dall’astronomo cosentino. L’Opusculum di
Amici, come già detto, aveva vissuto una stampa e una ristampa a Venezia, poi, presso lo stesso editore. E ancora una
terza, postuma, questa volta a Parigi, a cura di Guillaume Postel, un
intellettuale cosmopolita qualche po’ enigmatico, in bilico tra profezie
millenaristiche e rigore scientifico – miscela non insolita per l’epoca. Tre
edizioni di rilievo europeo nel giro di pochi anni e poi uno stato di latenza,
quasi catalettico. Ssi pensi che il suo libro non sarà citato nella letteratura
astronomica fino a quando Dreyer, nella sua classica storia della cosmologia,
gli render. -- Amico non scompare del tutto dalle fonti letterarie. Il suo
nome, assieme a una sintesi dell’Opusculum appare in molti testi di storia
locale quando si ricomincia ad occuparsi di lui in quanto astronomo: cfr. M. Di
Bono, Le sfere omocentriche..., -- onore, dedicando all’astronomo nato a
Cosenza un intero paragrafo, volto alla rivalutazione della figura e dell’opera
di Amici. La ragione del lungo silenzio che avvolge per secoli il nome
dell’astronomo cosentino è dovuta al trionfo della fisica di Galileo in Italia.
Infatti, appena solo cinque anni dopo l’assassinio di Amico, usce dai torchi di
una tipografia di Norimberga, il “De Revolutionibus” di Copernico, canonico
della cattedrale di Frauenburg, ben più noto con il nome latinizzato. La diffusione
del De Revolutionibus e capillare in tutta Italia, e le copie del libro saranno
rieditate all’infinito è in atto la pacifica rivoluzione scientifica, meglio
nota come rivoluzione copernicana o di galileo. L’elaborazione dela fisica subisce
uno spiazzamento; lo scontro per l’egemonia teoretica non avverrà più tra
peripatetici e tolemaici, bensì tra questi ultimi ed i copernicani. Prima si
confrontavano due sistemi del modo, entrambi geo-centrici e geo-statici, che si
riferivano alla stessa fisica. Oa la competizione va svolgendosi tra il sistema
geo-centrico argomentato con la fisica aristotelica e quello elio-centrico
bisognoso di una nuova fisica. In questo quadro, Amico sembra avere imboccato
la giusta strada ma in direzione sbagliata. In effetti, il filosofo cosentino
ha posto la domanda decisiva per risolvere la crisi che agli inizi del XVI
secolo attanaglia il sapere astronomico: come riunificare l’aritmetica di
Euclide con la filosofia naturale o astronomia. La questione è quella giusta. Ma
la risposta – massaggiare il cuore ormai esausto d’ Aristotele – s’è rivelata
troppo macchinosa; e dunque erronea. Dreyer, A History of astronomy..., cit.
Oltre a questo testo che descrive a grandi linee il sistema amiciano, va ricordato
l’articolo di Swerdlow, Aristotelian Planetary Theory in the Renaissance: Amico’s
Homo-Centric Spheres, in “Journal of Astronomy”, e ancora l’importante saggio di Di Bono e i
lavori di F. Piperno, qui ampiamente citati. Nato a Thorn, sulle rive della
Vistola, terra incognita contesa tra l’Ordine dei Cavalieri Teutonici e il
Regno di Polonia; anche lui, come Amico, giunto a Padova, per studiare
astronomia e medicina. Mi piace ricordare che ben diciotto secoli prima
Aristarco di Samo ha messo in atto la teoria elio-centrica. Copernico, anche
lui, si è mosso, in qualche modo, guardando indietro: con l’abissale differenza
che i tempi sono ormai maturi. Sulle accuse di empietà mosse ad Aristarco cfr.
L. De Rose, Le ragioni dell’etica nei confronti della scienza. Tre esempi in
epoca antica, in F. Garritano, E. Sergio, Scienza ed etica, «Ou. Riflessioni e
provocazioni». Eppure, sarà proprio quella ricomposizione, cercata e non
trovata da Amico, a dar luogo alla scienza moderna e quindi alla modernità
tout-court – poco più di mezzo secolo dopo, per opera dei Galilei, toscano tutt’altro
che aristotelico, piuttosto intriso di neo platonismo. -- Giovan Battista,
astronomo talentato, è morto giovanissimo, ucciso forse senza una ragione,
prima di poter portare a compimento il suo destino, forse perché “caro agli
Dei”, come vuole la sapienza antica. Non è dato sapere quale sarebbe stata
l’evoluzione del pensiero di Amico, il suo destino intellettuale, il suo karma
scientifico, se fosse vissuto abbastanza, soltanto pochi anni ancora, da
imbattersi nel De Revolutionibus di Copernico. Le cose non sono andate così; e
un giovane dal destino incompiuto, ma dall’indiscutibile intelligenza ha potuto
solo tentare di dare un senso a teorie che valgono solo dal punto di vista
dell’osservatore. Questo è un mondo antico, come direbbe Leopardi spazzato via a
guisa di una mera illusione dalla rivoluzione astronomica prima e dalla mentalità
moderna dopo. F. Piperno, Ioannis Baptistae Amici..., cit. 146 G. Leopardi,
Storia dell’Astronomia, in F. Piperno (a cura di), Arcavacata, Centro
Editoriale UNICAL, Keywords: planteario di
Cosenza, pianeta, de motibus corporis coelestium iuxta principia peripatetica
sine eccentricis set epicyclis – motti de’ corpori celesti giusta i principi
peripatetici senza eccentrici ma con epicicli”. Refs.: Luigi Speranza, “Grice
ed Amico” – The Swimming-Pool Library.
Grice ed Amidei – il
leviatano – filosofia italiana – Luigi Speranza (Peccioli). Filosofo
italiano. Grice: “I like Amidei; he knew Beccaria well, and thinks, with H. L.
A. Hart, that debtors should not necessariliy go to jail, to which Beccaria
famously responded: ‘depends on what you mean by necessarily should’” -- Cosimo Amidei (Peccioli), filosofo. Frontespizio
del Discorso filosofico-politico sopra la carcere de' debitori di Cosimo
Amidei, ed. Harlem (Paris), 1771. Non si sa quasi nulla sulla biografia di
Cosimo Amidei. Figlio del dotore in giurisprudenza Domenico Amidei di Peccioli
(Pisa), si laureò in Giurisprudenza all'Pisa probabilmente nel 1746. Per le
modeste condizioni della famiglia nel 1739 aveva chiesto di essere ammesso al
Collegio di Sapienza, e aveva ottenuto un posto gratuito il 1º novembre 1741,.
Stando ad una lettera di Alessandro Verri al fratello Pietro, Amidei era un
magistrato fiorentino, "notaro criminale". Fra le poche cose certe vi è quella che
conobbe personalmente Cesare Beccaria, di cui era un ammiratore e con cui fu in
corrispondenza fin dal 1766. Altre opere: “Discorso filosofico-politico sopra
la carcere de debitori”; "La Chiesa, e la Repubblica dentro i loro limiti.
Concordia discors” -- dell'origine della potestà ecclesiastica
-- degli oggetti sopra de' quali si reggira la postestà ecclesiastica --
dell'origine della potestà politica -- del sovrano -- delle conseguenze --
delle cause della forza della potestà ecclesiastica ne' governi temporali. de'
limiti del sovrano o potestà politica -- dell'immunità, privilegj ed
esenzioni de' beni ecclesiastici -- de' priviolegij ed esenzione personali
degli ecclesiastici -- dell'asilo -- del matrimonio -- del celibato --
delle professioni religiose -- del giuramento -- de' benefizj
ecclesiastici -- della scomunica -- della proibizione de' libri -- della
religione, e della politica. “De' mezzi per diminuire i mendichi.” L'Amidei
è noto soprattutto quale autore del "Discorso filosofico-politico sopra la
carcere de' debitori" (1770). Ispirata direttamente dal paragrafo XXXIV
del "Dei delitti e delle pene" del Beccaria, l'opera è considerata
una delle più importanti espressioni del riformismo e dell'umanitarismo
settecentesco. L'opuscolo ebbe immediatamente successo: fu recensito con favore
dalle "Novelle letterarie" di Firenze, e dal "Journal
encyclopédique"; l'anno seguente ebbe una seconda edizione, con
osservazioni di Giambattista Vasco, uscita a Milano presso lo stampatore
Galeazzi, e ancora una edizione in testo bilingue italianofrancese. Il testo di
Amidei influì certamente sulla riforma leopoldina del 1776, che, per merito del
ministro Francesco Maria Gianni, abolì la carcerazione per debiti (ma occorre
ricordare come un'analoga riforma venisse promulgata anche in Russia). Nella
concezione relativistica delle leggi e nella critica alla legislazione romana
dell'illuminismo giuridico-politico toscano di quegli anni, l'opera di Amidei
si arricchisce di spunti egualitari rousseauiani (rarissimi ancora nel pensiero
illuministico toscano) dai quali Amidei ottiene la giustificazione teorica per
l'abolizione della pena detentiva dei debitori. Una nuova edizione dell'opera,
apparsa in Firenze nel 1783, è una prova dell'esistenza in vita di Cosimo
Amidei nel 1783; dopo di allora, infatti, non si hanno più notizie biografiche
certe su di lui. La Chiesa e la
Repubblica dentro i loro limiti All'Amidei è attribuita anche un'opera edita
poco prima il Discorso sopra la carcere de' debitori, "La Chiesa e la
Repubblica dentro i loro limiti". L'opera, pubblicata anonima nel 1768, è
stata attribuita a Cosimo Amidei a partire dal 1770, anno di pubblicazione del
Discorso filosofico-politico sopra la carcere de debitori. Finora mancano però
elementi sicuri per confermare tale attribuzione, attestata solo da alcuni
cataloghi di biblioteche e di cui non v'è notizia neppure nel "Dizionario
di opere anonime e pseudonime" di Gaetano Melzi. L'opera uscì anonima e
senza indicazione del luogo dell'edizione; dovrebbe trattarsi di Pavia o di
Firenze. Molti contemporanei ritennero che fosse Napoli, identificando
probabilmente l'edizione originale con una edizione ampliata, con falsa
indicazione di luogo Amsterdam, sequestrata presso lo stampatore Campo di Napoli;
si tratterebbe in realtà di una ristampa contraffatta dello scritto apparsa
nella città partenopea prima che fosse posta in vendita l'edizione proveniente
da Firenze, e che venne sequestrata per la "sediziosa proposizione"
dell'origine popolare della sovranità. Al suo apparire, infatti, per alcuni
spunti contrattualistici rousseauiani, l'opera richiamò l'attenzione
dell'autorità laica ed ecclesiastica e le vicissitudini di cui fu oggetto sono
ritenute importanti per ricostruire la fortuna di Jean-Jacques Rousseau in
Italia. A Roma, autore dell'opera fu ritenuto il Beccaria, e nel clima di
irrigidimento contro le correnti giurisdizionalistiche e illuministiche che
caratterizzò gli ultimi anni di pontificato di Clemente XIII, essa fu posta
all'Indice nel 1769. De' mezzi per
diminuire i mendichi Anche quest'opera, pubblicata anonima nel 1771 senza
indicazione di luogo, ma probabilmente a Firenze, è solo attribuita a Cosimo
Amidei; ma l'attribuzione risale già ai contemporanei,. L'autore sostiene, in
base a una concezione fisiocratica, che il grave problema possa essere risolto
solo per mezzo di una riforma fiscale.
Note Società storica pisana,
Bollettino storico pisano 1965300.
Società storica pisana, Bollettino storico pisano. Carteggio di Pietro e
Alessandro Verri. F. Nevati ed E. Greppi, Milano Beccaria, Scritti e lettere
inediti, E. Landry, Milano 1910289. Landry segnala quattro lettere dell'Amidei
al Beccaria, in Biblioteca Ambrosiana, Milano. Beccaria, B. 231). Frontespizio di Scritti e lettere inediti del
1910 Carteggio di Pietro e Alessandro
Verri, F. Nevati ed E. Greppi, III (agosto 1769settembre 1770) Milano
1911210 Novelle letterarie, 16 febbr.
1770, n. 7, coll. 103 s. Journal
encyclopédique, 1º giugno 1770314
"Discorso filosofico-politico sopra la carcere de' debitori",
Harlem, et se vend a Paris: chez Molini libraire rue de la Harpe, vis-a-vis la
rue de la Parcheminerie, 1771. F.
Venturi, Settecento riformatore, 2., Torino, Einaudi, 1976237-249 Archivo General de Símancas, Estado Legajo, lettera
di Bernardo Tanucci al marchese Domenico Grimaldi Portici v. Savio, "Dottrina ed azione dei
giurisdizionalisti del sec. XVIII", in Arch. Veneto, s. 5, LXII
(1958), 12 n. 2, 31 ss. vedi lettera citata del Tanucci al
Grimaldi Marco Lastri, Bibliotheca
georgica, ossia Catalogo ragionato degli scrittori di agricoltura, veterinaria,
agrimensura, meteorologia, economia pubblica, caccia, pesca ecc. spettanti
all'Italia, Firenze, 178745 Carteggio di
Pietro e Alessandro Verri. F. Nevati ed E. Greppi, III 17661797, Milano
1911. M. Rosa, AMIDEI, Cosimo, in
Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Altri progetti Collabora a
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Unlimited srl. V D M Illuministi
italiani Filosofia Categorie: Giuristi italiani del XVIII secoloFilosofi
italiani ProfessorePeccioli FirenzeIlluministiAmidei. AMUCO: not found. AMIDEI,
Cosimo. - Magistrato fiorentino, "notaro criminale", stando ad una
lettera di Alessandro Verri al fratello Pietro; dati biografici di lui sono
pressoché inesistenti, allo stato attuale della ricerca, se si esclude la
notizia di suoi rapporti con il Beccaria (che l'A. conobbe personalmente e del
quale fu ammiratore), desumibile da un gruppo di lettere dell'A., del 1766-68,
e qualche rapido cenno nella ricordata corrispondenza dei Veri. L'A. è
noto quale autore del Discorso filosofico-politico sopra la carcere de'
debitori, s. l. [ma Modena] che, ispirato direttamente dal paragrafo XXXIV del
Dei delitti e delle pene, fu recensito con favore dalle Novelle letterarie di
Firenze, 16 febbr. 1770, n. 7, coll. 103 s., e dal Journal encyclopédique,
L'opuscolo è un'interessante espressione del riformismo e dell'umanitarismo
settecentesco: esso nella concezione relativistica delle leggi e nella critica
alla legislazione romana (partecipe in questo del diffuso antiromanesimo del
tempo) si arricchisce di spunti egualitari rousseauiani, rarissimi ancora nel
pensiero giuridico-politico toscano di quegli anni, ed anzi proprio dal
pensiero di Rousseau ricava la giustificazione teorica per l'abolizione della
pena detentiva dei debitori (pp. 22-23 dell'ediz. del 1783). Non sfuggi
ai contemporanei questo contenuto sociale dello scritto di là dall'aspetto
giuridico della questione tanto che "persona illuminata" venne
richiesta di note al Discorso dell'Amidei. Apparve cosi, presso lo stampatore
Galeazzi di Milano, una seconda edizione dell'opuscolo, con osservazioni di
Giambattista Vasco che ripropose le sue già note concezioni economico-sociali:
Discorso filosofico-politico sopra la carcere de' debitori accresciuto di note
critiche dall'autore de' Contadini, s. n. t. (cfr. recensione in Europa
letteraria, I, 1, 1 sett. 1770, p. 101). L'anno seguente esso fu edito
ancora in testo bilingue, italiano e francese, Harlem et Paris 1771; ed influi
certamente sulla riforma leopoldina del 1776, che, per merito del ministro
Gianni, abolì la carcerazione per debiti (ma sarà da ricordare qui come anche
in Russia venisse promulgata un'analoga riforma). Nel 1783 a Firenze lo
stesso A. curò una nuova edizione dell'opuscolo, con aggiunte riguardanti
"un nuovo progetto di riforma della Legislazione":l'esigenza di
riforma nel campo della procedura penale si articola in un discorso più ampio,
di carattere amministrativo ed economico-sociale (sul diritto di proprietà).
Nelle critiche rivolte ai già aboliti sistemi dell'Abbondanza e della Grascia,
e nella polemica contro le primogeniture e i fidecommessi, già colpiti dalla
legge del 1747, dei quali viene reclamata la totale soppressione, è introdotto
ancora, a difesa di un libero sistema di economia, il motivo
umanitario-egualitario che informa tutto lo scritto (v. partic. p. 58). Il
Giornale enciclopedico di Milano, 1783, t IV, parte letter., 24 Ott., n. 17, p.
138, sottolineò il significato dell'opera dell'A., che resta a conferma
dell'eco profonda, in Italia e in Europa, di uno degli aspetti del pensiero del
Beccaria. All'A. è attribuita un'opera di poco precedente il Discorso, La
Chiesa e la Repubblica dentro i loro limiti, s. l. [ma Firenze] 1768; 2 ediz.
ampliata, Amsterdam [Firenze?] 1783. Finora mancano però dementi sicuri per
confermare una tale attribuzione, attestata solo da alcuni cataloghi di
biblioteche (e di cui non v'è notizia neppure nel Melzi, Diz. di opere anonime
e pseudonime). L'opera, particolarmente importante nell'ambito della
pubblicistica giurisdizionalistica del tempo (cfr. Passerin), contiene chiari
spunti contrattualistici rousseauiani, che l'autore non sviluppa però in senso
antiassolutistico: l'interesse è proiettato invece sui "diritti della
Sovranità [che] non si perdono per il non uso, per essere originalmente ne'
Popoli", sui diritti dei principi circa sacra e sui limiti che la potestà
civile può e deve porre ai privilegi, alle immunità e alle esenzioni della
potestà ecclesiastica. Ma gli spunti rousseauiani, pur moderati ed elaborati -
e talvolta avversari, come nelle pagine riguardanti il rafforzamento del
vincolo sociale operato dal cristianesimo, pp. 135, 151-152 - emergono
evidenti, tra l'altro, laddove si discute dei limiti al potere assoluto e si
giustifica, in nome dell'uguaglianza fra I sudditi, l'operato del duca di Parma
contro Roma (pp. 51-56), e soprattutto laddove si polemizza contro il sistema
dei concordati tra autorità statale e S. Sede (pp. 71-80) e contro il diritto
di asilo ecclesiastico (pp. 80-86). Un breve cenno, infine, al problema della
tolleranza religiosa non ha gran rilievo nell'insieme delle argomentazioni,
legate in gran parte, nonostante le suggestioni del nuovo pensiero di cui si
èdetto, a orientamenti tradizionali. La seconda edizione accentua, in alcuni
nuovi capitoli, la polemica circa il carattere civile, del contratto
matrimoniale e quella contro gli ordini monastici. Al suo apparire l'opera
richiamò, per gli spunti rousseauiani, l'attenzione dell'autorità laica ed
ecclesiastica e le vicende di cui fu oggetto costituiscono una pagina notevole
della fortuna di Rousseau in Italia. A Napoli, per la "sediziosa
proposizione" dell'origine popolare della sovranità (cfr. lettera dì B.
Tanucci) venne sequestrata presso lo stampatore D. Campo una ristampa
clandestina dello scritto (proveniente da Firenze) prima che fosse posta in
vendita); a Roma fu ritenuto autore dell'opera il Beccaria e nel clima di
massimo irrigidimento contro le correnti giurisdizionalistiche e
illuministiche, che caratterizzò gli ultimi anni di pontificato di Clemente
XIII, essa fu posta all'Indice nel 1769. preoccupazione e la diffidenza per
itemi rousseauiani dello scritto vennero ancora espresse, a proposito
dell'edizione del 1783, da Scipione de' Ricci in una lettera indirizzata al
granduca Pietro Leopoldo (cfr. Passerin). Fonti e Bibl.: Archivo Generai
de Siniancas, Estado Legajo 6102, lettera di B. Tanucci al marchese Grimaldi,
Portici (indica Firenze come luogo di stampa dell'opera; ma molti
contemporanei, cfr. Savio, considerarono napoletana l'ediz. del 1768,
identificandola con la ristampa); C. Beccaria, Scritti e lettere inediti, a
cura di E. Landry, Milano (segnala quattro
lettere dell'A. al Beccaria, in Biblioteca Ambrosiana, Milano, Beccaria, B.
231); Carteggio di Pietro e Alessandro Verri, a cura di F. Novati e E. Greppi,
III (ag. 1769-sett. 1770), Milano 1911, pp. 194-195, 210; Fr. H. Reusch, Der
Index der verbotenen Biicher, II, Bonn 1885, p. 934; E. Passerin, La politica
dei giansenisti in Italia nell'ultimo Settecento, in Quaderni di cultura e
storia sociale III (1954), pp. 269-270; F. Venturi, G. Vasco in Lombardia, in
Atti d. Ace. d. Scienze di Torino, classe di scienze mor. stor. e filol., XCI
(1956-57), pp. 41 ss. e nota; Illuministi italiani, Riformatori lombardi,
piemontesi e toscani, III, a cura di F. Venturi, Milano-Napoli (riporta un passo di lettera dell'A. al
Beccaria, da Firenze 6 luglio 1767, riguardante la traduzione del Morellet del
Dei delitti e delle pene),1044; P. Savio, Dottrina ed azione dei
giurisdizionalisti del sec.XVIII, in Arch. Veneto. Cosimo Amidei. Amidei.
Keywords: il leviatano; amidei — implicatura sovrana — implicatura
intersoggetiva — implicatura sovresoggetiva — implicatura sovre-umana —
implicatura sovrepersonale — hobbes — primo disegno — leviatano — carteggio con
Verri — carteggio con beccaria (paragrafo XXXIV — la strada verso l’utopia
giuridizzionalistica — la chiesa — the high church of england — Gianni abolisce
la carcerazione per debiti — tacitoRefs.: Luigi Speranza, “Grice ed Amidei”
– The Swimming-Pool Library.
Grice ed Anassilao – Roma – filosofia italiana (Roma). Filosofo
italiano. Anassilao was a Pythagorean who was expelled from the whole territory
of Italy by Ottaviano. Plinio Maggiore quotes his views on the use of hemlock,
which Anassilao believed could be rubbed on adolescent girls’s breasts to make
them permanently firm and on adolescent boys’s testicles to lower their libido.
Grice ed Anceschi –
senso – filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano).
Filosofo italiano. Grice: “I like Anceschi; he plays with the idea of dialogue
as a mirror (specchio) of ego and alter or ego and tu – I like that. He is the
Italian equivalent of John Holloway, I suppose.” Si laurea sotto Banfi, ricopre
l'insegnamento di Estetica nella Facoltà di Lettere e filosofia a Bologna.
L'interesse per la letteratura e le arti figurative si accompagnò sempre a
quello per la filosofia moderna anti-dommatica. Dopo la pubblicazione della sua
tesi di laurea autonomia naturale,
heteronomia artistica. “Autonomia ed eteronomia dell'arte” edita da Sansoni, le
sue ricerche sulla figura e il modello letterario antidealistici trovarono voce
negli interventi pubblicati su “Orfeo”e su “Corrente di vita giovanile” -- riviste
da lui stesso promosse. Sensibile ai nuovi orientamenti culturali, si
schierò a favore dell'ermetismo e della neo-avanguardia, affiancando
all'attività di teorico quella di critico militante: pubblicò i Saggi di
poetica e poesia. Con una scheda sullo Swedenborg e cura le antologie Lirici
nuovi, Linea lombarda. Sei poeti e Lirica del Novecento. Della voce “ermetismo”
fu autore nell'Enciclopedia del Novecento. Concentratosi sui modelli culturali
dimenticati dal Neoidealismo, si dedica ai temi del Barocco, dando alle stampe
Del Barocco e altre prove Barocco e Novecento. Con alcune prospettive
metodologiche. Non abbandona mai gli studi filosofici: “I presupposti
storici e teorici dell'estetica kantiana”; “Hume e i presupposti empirici dell'estetica
kantiana”; “Burke e l'estetica dell'empirismo inglese”; “Da Bacone a Kant.
Saggi di estetica”. In particolare in “Progetto di una sistematica
dell’estetica e dell'arte” delinea una teoria estetica intesa come fenomenologia
della forma naturale e artistica. Sui principi della fenomenologia critica basò
tutte le successive ricerche. Fonda “Il Verri” di cui fu direttore,
mentre diresse per Paravia la collana La tradizione del nuovo e Studi di
estetica, che raccoglie i risultati delle ricerche filosofiche che egli
condusse insieme con i suoi allievi. Per il suo impegno nel tener vivo il
fermento culturale di questi anni, gli sarà assegnata a Mestre la prima
edizione del prestigioso premio "Amelia" alla "tavola" di
Dino Boscarato. Centrali sono i temi della poetica (“Poetiche del Novecento in Italia”;
“Le poetiche del Barocco, 1963) e delle istituzioni letterarie (Le istituzioni
della poesia”; “Da Ungaretti a D'Annunzio”, Che cosa è la poesia?”. Altre
saggi: “Il caos, il metodo. Primi lineamenti di una nuova estetica
fenomenologica”; e Gli specchi della poesia. Riflessione, poesia, critica”.
Riceve dai Lincei il Feltrinelli per la Critica letteraria. Presidente
dell'Ente bolognese manifestazioni artistiche, dell'Accademia delle Scienze e
dell'Accademia Clementina di Bologna, socio corrispondente dell'Accademia
nazionale dei Lincei di Roma, donò la sua biblioteca (circa 30.000 stampati) e
il suo archivio personale (oltre 18.000 lettere e migliaia di autografi) al
Comune di Bologna; sono attualmente conservati presso la Biblioteca Comunale
dell'Archiginnasio. Premi Amelia 1965-2005, a cura della "Tavola
all'Amelia", prefazione di Sergio Perosa, Venezia-Mestre, 2006, 18-21. Lo stesso anno il premio è assegnato
anche "per le arti figurative", a Virgilio Guidi. Premi Feltrinelli 1950-, su lincei. 17
novembre. Università degli studi di
Bologna, Annuario dell'anno accademico 1995-1996 e 1996-1997, Bologna,
Compositori, 1998, 863–865. Il Verri Giuseppe Pontiggia Salvatore
Quasimodo Alessandro Montevecchi Luciano
Anceschi, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Luciano Anceschi, in Enciclopedia
Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Luciano Anceschi, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Luciano
Anceschi, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana. Opere di Luciano Anceschi,. Fondo Luciano AnceschiBiblioteca
dell'Archiginnasio di Bologna Approfondimento, su ibc.regione.emilia-romagna.
22 marzo 2005 5 maggio 2001). Studi di estetica, su unibo. 18 gennaio 15 gennaio ). V D M Vincitori del Premio
Feltrinelli Filosofia Filosofo del XX secoloCritici letterari italiani del XX
secoloAccademici italiani Professore1911 1995 20 febbraio 2 maggio Milano
BolognaVincitori del Premio FeltrinelliAccademici dei LinceiAutori del Gruppo
63BibliofiliDirettori di periodici italianiFondatori di riviste
italianePremiati con l'Archiginnasio d'oroProfessori dell'Università
commerciale Luigi BocconiProfessori dell'BolognaStudenti dell'Università degli
Studi di Milano. Sembra proprio che studiare una nozione letteraria voglia dire
rendersi conto di ciò che essa ha voluto significare; studiare l'ermetismo
vorrà dire vedere come l'ermetismo stesso, in quanto movimento letterario e
culturale, ha inteso presentarsi per se stesso nell'attenzione ai motivi di
coerenza, ma anche alle interne variazioni e differenze. Qualche considerazione
va fatta, per altro, in limine intorno al nome. È noto: l'uso della nozione di
ermetismo è frequente nel discorso della cultura per indicare quei movimenti,
quelle manifestazioni, quelle situazioni del pensiero e della letteratura, in
cui maniere oscure, ardue, chiuse e di comunicazione non diretta esigono, per
esser partecipate, e anche solo intese, il possesso di una chiave che pochi
sono in grado di adoperare. Il termine ha un'origine storica abbastanza ben
definita e che istituisce subito il destino dei suoi significati. Dal nome
di Ermes Trismegisto si disse ‛ermetica' una dottrina di tarda età
ellenistica in cui motivi oscuramente mistici di sincretismo
filosofico-religioso si fusero con ipotesi di fantastica alchimia, in un
tessuto linguistico segreto, ricco di allusioni, di difficile partecipazione.
Si consideri anche che a Ermes Trismegisto si attribuisce l'aver chiuso (si
disse, appunto, ‛ermeticamente') un'ampolla di vetro mediante la fusione dei
bordi delle aperture. Oscurità, chiusura, tono di rivelazione sacra, un insieme
di difficili connessioni tra mistica e alchimia, una presentazione immaginosa e
immediata di oggetti intellettuali e riflessivi: ecco alcuni caratteri degli
scrittori che per primi furono detti ‛ermetici'; ed ermetici, poi, vennero
chiamati talora quei movimenti di pensiero occulti, misteriosofici, iniziatici,
che spesso si posero in antitesi al pensiero dominante nel secolo, che costituiscono
una ormai ben definibile tradizione secolare, continua, e che talora affiorano
nella cultura essoterica con singolari sollecitazioni e insorgenze. Con
intenzioni inizialmente screditanti, ma il nome venne poi accettato da molti
scrittori, ermetismo si disse anche una tendenza della letteratura italiana tra
le due guerre, che, venuta dopo l'esperienza dei crepuscolari e gli esperimenti
dei futuristi, si distinse nettamente dal rondismo, come corrente dell'ultimo
gusto neoclassico, e da ogni genere di ritornante realismo; ed è ciò di cui qui
dobbiamo parlare. Ci sono opinioni molto diverse su questo movimento. C'è chi,
in una ben definita prospettiva letteraria militante, vede in esso il momento
più alto della poesia e del pensiero poetico del secolo nel nostro paese; e c'è
chi, movendo da un particolare orizzonte sistematico, accusa la ricerca
ermetica di ‛perdita della immediatezza' fino a vedervi intellettualismo e, al
limite, una distrazione di giochi verbali; c'è anche chi, secondo un'ispirazione
fortemente ideologica, vede in essa un pericoloso e condannabile momento di
evasione rispetto al dovere della partecipazione e dell'impegno. Solo
un'indagine diretta e particolare potrà definire il diritto e il torto di
considerazioni come queste; e, tuttavia, è difficile disconoscere che si trattò
di un movimento influente, complesso, articolato in diverse disposizioni
dottrinali e di poetica, con varie stratificazioni di momenti interni secondo
una tradizione breve e intensa. Il movimento ebbe vita difficile negli anni in
cui si manifestò, trovò una sua forza contro molti oppositori e reali
resistenze, giunse fino ad operare sul costume e a cadere in un nuovo Kitsch,
si dissolse alla fine della seconda guerra mondiale, ma lasciò
un'impronta viva, e anche un impulso nella cultura della poesia e della critica
che, da un lato, è continuato per anni nel lavoro degli epigoni, e che,
dall'altro, ha condizionato indubbiamente i modi in cui si manifestarono i
movimenti che seguirono. Quanto alle strutture della poesia, forse è riduttivo
il considerare l'ermetismo solo come una tendenza della letteratura italiana
contemporanea, che, riallacciandosi alle correnti simboliste non soltanto
francesi, anzi europee, intende la poesia come esercizio assoluto di linguaggio
che in tanto vale in quanto riesce a esprimere l'intuizione lirica nella sua
originaria purezza, escluso l'intervento di preoccupazioni didattiche,
moralistiche, dottrinali e speculative in una volontà attentamente coltivata e
resolutamente diretta al risalto di momenti di intensità e di innocenza; ma è
anche riduttivo parlare dell'ermetismo solo come dell'espressione di una
rivolta in cui si concreta l'appello orfico-cristiano, religioso, metafisico,
negatore della storia, di una storia che si appiattisce di fronte all'assoluto,
libero dalle strutture rettoriche, e inteso a propositi soprattutto di
rinnovazione radicale dell'uomo. Ritorneremo su queste differenze di pronunzia
e sul loro significato; ma, a questo punto, occorrerà ormai rendersi conto e giustificare
l'uso della nozione di ermetismo nel contesto della situazione letteraria
italiana tra le due guerre e nella individuazione del significato interno del
movimento. L'ermetismo va considerato come un movimento europeo o
italiano, o puramente ‛fiorentino'? Certo, ci furono aspetti, e li
considereremo, della poesia e della poetica d' Europa che si potrebbero dire
ermetici o che hanno avuto rapporti con ciò che diciamo ermetismo, anche tali
che senza di essi l'ermetismo non sarebbe stato possibile. Uno dei connotati
dell'ermetismo è certo quello di aver tenuto aperti i rapporti - se pure in
modo limitato secondo una lettura pregiudicata - con l'Europa in tempi
difficili; ma una situazione, un movimento di cultura che si siano collocati
sotto quel nome si ebbero solo in Italia; trovarono caratteri particolari e
individuati; determinarono una singolare, e un poco astratta, cultura della
poesia per certi aspetti di rara intensità e inquietudine. Il tentativo di
ridurre il movimento solo al gruppo dei ‛fiorentini' dà nel sofistico, o nel
riduttivo; non è certo facile tagliar con il coltello una situazione tanto
compatta quanto varia; molti fatti si diedero contemporaneamente nella
convergenza di letture e di interessi comuni; il ‛gruppo fiorentino' fu certo
autonomo per suoi caratteri, ma nella misura in cui portò certi motivi di una
generazione nuova in un contesto comune. In realtà, nella prima generazione
ermetica in Italia la prima voce fu quella di Giuseppe Ungaretti. Anceschi.
Anceschi. Keywords: senso, ermetismo ed implicatura, grado d’ermetismo
dell’implicatura, l’impossibilita dell’implicatura ermetica. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice ed Anceschi” – The Swimming-Pool Library.
Grice ed Andrea –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Ravello). Filosofo
italiano. Grice: “I like Andrea, in more than one way! Andrea made me realise how naïve Russell is
with his ‘logical atomism;’ back in Naples, the Accademia degli Investiganti
took thing really seriously. D’Andrea, a lawyer, like Hart, -- his claim to
fmae is having written an ‘apologia in difesa,’ which I would abbreviate as
just ‘in difesa’ of atomism – but my favourite is his unpublication,
“Degl’atomi e degl’atomisti”!” Grice: “In Naples, unlike Oxford – cf. Locke and
Boyle – it was understood that if you are an atomist you are, therefore, a
libertine!” -- Da una ricca famiglia,
studia a Napoli. Funzionario del viceré, il duca d'Arcos, a Chieti nel
giustizierato dell'Abruzzo citeriore. Frequenta villa Colonna, dove si
illustrano i fondamenti dell’atomismo. Fondatore del salotto degl’InVESTIGanti
alla sua villa Iambrenghi a Candela. Difende strenuamente l’atomismo nella “Apologia
in difesa degl’atomisti” e nella “Risposta a favore di Capoa”. Avvocato primario
del Regno di Napoli, viaggia e partecipa alla vita intellettuale e agli studi
in molti salotti filosofici italiani. Cortese, I ricordi di un filosofo
napoletano del Seicento, Napoli, L. Lubrano e C., Dogana della mena delle pecore
in Puglia Regno di Napoli. Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Accademia
della Crusca. Questo testo proviene in parte dalla relativa voce del progetto
Mille anni di scienza in Italia, opera del Museo Galileo. Istituto Museo di
Storia della Scienza di Firenze (home page), pubblicata sotto licenza il
rinnovamento culturale del Seicento a Napoli (in occasione del rinvenimento di
un manoscritto sconosciuto degli "Avvertimenti ai nipoti") di Stefano
Capone, sito della Biblioteca di Foggia, Salottieri. Nacque a Ravello (presso
Amalfi), dove la madre si era ritirata in seguito a difficoltà economiche, da
Diego, avvocato in Napoli, di buoni natali ma d'incerta fortuna, e da Lucrezia
Coppola, del seggio nobile di Montagna. L'infanzia non fu felice, per le
"gravissime ristrettezze" della famiglia (Avvertimenti ai nipoti, p.
60), né soddisfacenti gli studi, cui venne avviato fin troppo precocemente.
Compiuti sette anni, infatti, fu condotto a Napoli per apprendere la grammatica;
a nove fu collocato presso la scuola oratoriana dei gerolamini, ma già ad
undici frequentava lezioni di legge, addottorandosi poi nel marzo 1641, appena
entrato nel diciassettesimo anno di età. Egli stesso doveva sottolineare
più tardi, nei suoi celebri Avvertimenti, i gravilimiti di quell'affrettata
educazione. Nello scritto - che è insieme una sorta di testamento, una
autobiografia e il richiamo a un modello di cultura e di comportamenti valido
per tutto il ceto forense - ripercorreva le tappe della sua formazione,
descrivendola come un lineare progresso dalla "grossa ignoranza", cui
sembrava condannarlo l'arretratezza dell'insegnamento e delle professioni
giuridiche alle quali il padre l'aveva avviato, verso l'incontro con le
correnti di pensiero europee, la conquista delle nuove scienze e una concezione
elevata del ruolo dei giuristi nella società. In questo itinerario
intellettuale e civile, ben più dei suoi "direttori", di cui
lamentava anzi il "mancamento", avevano inciso altre esperienze, personali
o comunque estranee ai percorsi tradizionali. Per primo il rapporto con
Giovanni Andrea Di Paolo, il solo in città capace d'illustrare le dottrine
giuridiche con gli strumenti filologici e sistematici della scuola culta
(ibid., pp.86 s.); poi l'impegno, durato oltre un anno dopo la laurea, per
"studiar le materie continue e pei loro principi", abbandonando
l'impostazione praticistica dominante, che riduceva la giurisprudenza ad un
mero esercizio mnemonico o alla lettura disordinata dei decisionisti (ibid., p.
116). Completata così autonomamente la propria preparazione, cominciò a
seguire il padre nel foro e presentò di lì a poco due allegazioni, l'una per la
principessa di Casalmaggiore, l'altra per il principe di Pietraelcina, che gli
procurarono una certa notorietà ed alle quali rivendicava il merito di aver
introdotto nei tribunali napoletani "il nome di Cujacio e degli altri
eruditi", insieme con "l'uso di disputare gli articoli secondo i veri
principi della giurisprudenza". Frattanto a Napoli, avvicinandosi la metà
del secolo, con i profondi sconvolgimenti sociali e politici che la segnarono,
si definivano le linee di un'iniziativa culturale, promossa da ambienti
diversi, sia umanistici, sia tecnico-scientifici, che non restò senza
conseguenze sul pensiero civile, né trovò indifferenti, o soltanto passivi, i
giuristi e i forensi. Ministri e scrittori di cose legali se ne fecero anzi
protagonisti, cogliendovi con prontezza gli elementi di novità che potevano
dare consistenza e respiro a un discorso critico sul Mezzogiorno
spagnolo. Di tali sviluppi il D. fu testimone attento, interprete
informatissimo, in breve tempo autorevole sostenitore. Grazie ai consigli di
Ottavio Di Felice, "un vecchio assai erudito e molto affezionato della
nostra casa",colmò le proprie lacune nella conoscenza delle "buone
lettere"; ammesso poi a frequentare l'accademia di Camillo Colonna, dove
s'illustrava una nuova filosofia "non gran fatto molto dissimile da quella
che oggi chiamano atomista", vi apprese a respingere il conformismo della
dominante cultura ecclesiastica ed il tenace scolasticismo che la
caratterizzava. Fu l'incontro più fertile della sua giovinezza ed egli stesso
ne ribadì spesso il rapporto di continuità con le successive esperienze. Le
discussioni di casa Colonna costituirono, infatti, il segnale d'avvio di un
rinnovamento intellettuale a Napoli, presto dispiegatosi con l'arrivo da Roma
di Tommaso Cornelio e l'azione intrapresa da talune accademie, che spostarono
energicamente l'accento dai temi letterari o eruditi a quelli scientifici e
sperimentali. Superato, con la guida di Camillo Colonna, il limite di una
scarsa dimestichezza con l'arte retorica, tenne intanto con unanime applauso un
solenne discorso nella Congregazione degli avvocati di S. Ivone, istituita dai
teatini ai SS. Apostoli, e poco dopo, il 10 giugno 1646,la difese in
Collaterale, alla presenza del viceré duca d'Arcos, contro la pretesa dei
gesuiti di fondarne una nuova. Con questa arringa (Pro Congregatione Sancti
Ivonis, edita dal Comparato) egli guadagnò la causa e il favore del viceré, che
lo nominò ad interim fiscale di Chieti, dove si recò alla fine dello stesso
anno. Il periodo trascorso in Abruzzo, mentre a Napoli e in tutto il
Regno avevano luogo gravi sommosse, dette luogo a dicerie malevole sul suo
conto, che lo tormentarono per tutta la vita. Un tardo episodio del febbraio
1682, quando il principe Antonio di Sangro l'oltraggiò in pieno tribunale con
l'epiteto di "Masaniello", provocando persino un duello tra il proprio
campione, Cesare Mormile, e un nipote del D., Antonio della Marra, lo indusse a
scrivere una lunga Relazione de' servizii fatti... nella provincia di Abbruzzo
Citra(s.n. t., ma Napoli 1682), per replicare alle insinuazioni di aver
parteggiato allora per i popolari e per rivendicare invece il proprio lealismo
alle istituzioni regie, sola garanzia di stabilità e di arbitraggio tra i ceti,
e gli atti compiuti a difesa dell'ordine sociale e giuridico esistente, ivi
compreso quello feudale, che era parte integrante della realtà politica dello
Stato. Tuttavia le "seconde rivoluzioni", che portarono a
Napoli alla proclamazione della repubblica nell'ottobre 1647 ed impressero al
moto un carattere indipendentistico in un quadro politico più complesso e
convulso, lo posero ai margini del conflitto abruzzese, sicché dopo due mesi
trascorsi nel convento degli scolopi di Chieti, dove ebbe modo di leggere
Cicerone e Campanella, pervenuta infine l'attesa nomina del nuovo fiscale e
concluso l'affitto dell'arrendamento del sale nell'estate 1648,partì nel
settembre per Napoli, che raggiunse in novembre, dopo un breve passaggio da
Roma. Qui non solo riprese l'esercizio dell'avvocatura, con crescente
successo di prestigio e di entrate, ma si adoperò soprattutto per un
rinnovamento scientifico e culturale, di cui non a torto il Giannone lo
considerò protagonista e promotore principale (Istoria civile). Egli stesso
sottolineò in seguito efficacemente, in una pagina giustamente famosa
(Avvertimenti), il significato della svolta verificatasi a Napoli allora;
l'importanza centrale ch'ebbe la diffusione delle opere di Cartesio; il ruolo
essenziale di Tommaso Cornelio nel porre gli studiosi napoletani a contatto con
il pensiero europeo; l'ostilità che le nuove dottrine incontravano presso i
circoli tradizionalisti e la protezione ad esse accordata da taluni
aristocratici; infine il proposito che animava i moderni di modificare
l'assetto delle professioni, in particolare giuridiche, attraverso un confronto
più intenso con le varie scienze. Il momento era favorevole ad
un'iniziativa dei gruppi intellettuali. L'opera di restaurazione, condotta dal
viceré di Oñate secondo un disegno assolutistico volto a consolidare l'autorità
delle istituzioni regie, prospettava un rinnovato compromesso tra monarchia e
ceti privilegiati, deprimeva le aspirazioni della nobiltà più riottosa,
maturate nei trascorsi disordini, offriva spazi nuovi e maggiori di presenza
politica e di affermazione sociale ai forensi ed ai magistrati. Il D. affiancò
prontamente l'azione del viceré e dalla sua paterna cura per il
"ristoramento" degli studi ottenne un avanzamento universitario per
Gian Camillo Cacace e l'attribuzione a Tommaso Cornelio, nel 1653, della
cattedra ripristinata di matematica. Nel frattempo svolgeva una parte
considerevole nella breve rinascita degli Oziosi, tra i quali recitò diverse
orazioni, in particolare a favore della "novella maniera di
filosofare" e per un rapporto più stretto della giurisprudenza con
"tutte le altre scienze". La grande peste del 1656, lacerando
drammaticamente la vita della città, pose fine d'un colpo agli esperimenti e
alle iniziative che si conducevano a Napoli e che vennero poi ripresi, dopo il
flagello, con lentezza e difficoltà. Rientrandovi dopo il periodo del
"contagio", trascorso nei feudi del principe di Cassano, il D.
dovette rinunciare per qualche tempo agli ambiziosi progetti di politica
culturale, cui ritornò solo dopo alcuni anni impiegati nell'esercizio
dell'attività forense per una clientela sempre più consistente ed altolocata. Si
pose infatti in primo piano nelle vicende intellettuali della capitale a
partire dal 1663, quando con numerosi scienziati, medici, filosofi, come
Tommaso Cornelio, Lucantonio Porzio, Leonardo Di Capua, Giovanni Caramuel e
molti altri, dette vita, al primo nucleo degli Investiganti, che prese a
riunirsi in casa di Andrea Concublet, marchese di Arena. Gli orientamenti
dell'Accademia sono noti, così come la molteplicità ed eterogeneità dei motivi
che vi si agitavano: dal probabilismo allo sperimentalismo, allo storicismo.
Altrettanto celebre è l'episodio che ne riassunse simbolicamente il programma e
gli inizi: la visita compiuta nell'ottobre 1664, sotto la guida del D., da
oltre cinquanta accademici, tra cui numerosi nobili e prelati di rango, al
cratere di Agnano, per controllare la fondatezza degli antichi miti,
raccogliere materiali da sottoporre all'indagine chimica, far esperimento
diretto delle caratteristiche naturali del sito. Tra gli Investiganti il D.
ebbe infatti un ruolo cospicuo. Preziosa cerniera tra i novatori e il
mecenatismo di una parte almeno della maggiore aristocrazia, non pose nulla in
istampa direttamente legato a quell'esperienza, ma di alcune opere fu
consigliere ascoltato, di altre fu promotore o dedicatario, intervenne infine
sui temi che si dibattevano non soltanto come suggeritore o patrono di opere e
di iniziative, o come veicolo d'idee, d'interessi e di libri. Agli argomenti
centrali del nuovo sapere - l'atomismo, le leggi del moto, il rapporto tra
elementi fisici ed "incorporei" e, sullo sfondo, tra metafisica ed
esperienza - dedicò in vecchiaia alcuni lavori, quando l'Accademia era da tempo
ormai spenta, ma non cessate le dispute da essa animate, né l'eco che avevano
suscitato negli ambienti napoletani, messi in fermento dalle energiche
controffensive dei gruppi conservatori. Nei manoscritti filosofici del D.
- affidati, come altre sue opere, a una tradizione testuale non sempre chiarita
- possono riconoscersi oggi tre lavori distinti. Il primo è un'Apologiain difesa
degli atomisti (Napoli, Bibl. Oratoriana dei gerolamini, ms. XXVIII.4.1;
esemplare mutilo con correz. autografe), databile al 1685 e prodotto perciò in
un periodo difficile nella biografia dell'autore e in una fase particolarmente
vivace della dialettica politica e culturale napoletana. Il secondo, la
Risposta a favore del sig. Lionardo di Capoa contro le lettere apologetiche del
p. De Benedictis gesuita, tradizionalmente assegnato al 1697, ma elaborato a
partire dal 1695, risale anch'esso a un momento cruciale, coincidente con la
disputa sul S. Uffizio e la conclusione del processo contro gli
"ateisti" (l'esemplare migliore è quello della Bibl. naz. di Napoli,
ms. I D 4, alle cui cc. 286-317 corrisponde il frammento autografo della Bibl.
Oratoriana dei gerolamini, ms. XXVIII.4.1; da segnalare anche la copia della
Bibl. Angelica di Roma, ms. 1340, fatta eseguire per il card. Passionei dal
pronipote del D., Giulio Cesare, nel 1752). Vi è inoltre una seconda stesura
della Risposta, preparata tra il 1697 e il 1698 (se ne conoscono due diverse
redazioni: Napoli, Bibl. naz., ms. IX A 66; e ms. Brancacc. I C 8).
Scritti di replica o di polemica contro il profilarsi, in momenti di acuto
conflitto, anche politico, di una rivincita della cultura "dei
chiostri" sulle istanze del sapere moderno, le opere del D. non
disegnavano un compiuto sistema, né seguivano fonti univoche d'ispirazione.
Adombravano una sorta di filosofia del particolare e del concreto, che si
nutriva di salde radici umanistiche e galileiane, proprie della tradizione
napoletana, innestandovi gli insegnamenti di Cartesio e Gassendi, talvolta di
Spinoza e di altri ancora, secondo un'impostazione che può apparire eclettica o
incline al frammento, ma che rispondeva piuttosto al proposito di rivendicare
il lascito trasmesso dai novatori al pensiero meridionale, il segno da loro
impresso sulla vita morale e civile attraverso lo sforzo d'iscriverla nei
circuiti del "secolo della filosofia", di aprirla, nel modo più largo
possibile, al movimento intellettuale europeo, d'includere infine nel suo
orizzonte i numerosi motivi che lo percorrevano, cogliendone i nodi essenziali
e gli aspetti capaci di stimolare più fresche energie. Perciò, guidate dalla
consapevolezza dei vasti riflessi della battaglia teorica in corso, esse riaffermavano,
contro il dogmatismo ed il verbalismo scolastico imperversante, il metodo
sperimentale, l'intuizione della materia e l'ipotesi atomistica, l'indagine
storica come criterio di verifica delle autorità. Comunque l'impresa cui
il D. dovette maggiormente la sua fama di studioso e il successo presso le
corti di Napoli e di Madrid furono le scritture composte nel 1667 e nel 1676
per respingere le pretese di Luigi XIV alla successione spagnola e contestare
le tesi della pubblicistica che lo sosteneva. Sin dal 1663 il re di
Francia aveva reclamato i Paesi Bassi alla moglie Maria Teresa in base al
diritto di devoluzione. La contesa si era infiammata via via tanto sul piano
politico-diplomatico quanto su quello giuridico e dottrinale. I rapporti tra le
corone si avviavano a rottura aperta quando, sul finire del 1666, il vicerè
Pietro d'Aragona incaricò il D. di controbattere gli argomenti francesi. Il 28
febbr. 1667 questi sottoscrisse solennemente, alla presenza del viceré una
Dissertatio de successione Ducatus Brabantiae (copia a Napoli, Bibl. oratoriana
dei gerolamini, ms. XXVIII. 3. 16), che venne subito inviata a Madrid. Tuttavia
l'incalzare degli avvenimenti, con l'invasione francese delle Fiandre, seguita
nel maggio, e il moltiplicarsi di trattati e libelli per il Re Sole, assieme al
ruolo ufficioso rivestito nella polemica, imposero al D. di ritornare sulla
materia, sicché nell'estate scrisse febbrilmente una nuova Risposta al Trattato
delle ragioni della Regina Christianissima sopra il Ducato di Brabante, con
altri Stati della Fiandra (Napoli 1667), che traeva spunto da un Traité
anonimo, ma di carattere ufficiale, comparso a Parigi nel maggio dello stesso
anno. La medesima Risposta, ritoccata, venne poi ristampata a Napoli con un
Discorso e un Discorso aggiunto, di argomento storico-erudito, una appendice
contenente la Copia di una lettera... nella quale si dà giudizio della
Dichiarazione... del Re Christianissimo, redatta su incarico del viceré de los
Velez come replica al manifesto di Luigi XIV per la guerra di Messina e già
circolante sotto la data di Roma, 28 genn. 1676, e con altre due lettere di
minore interesse (il libro cominciò a stamparsi nell'aprile 1676 e fu diffuso
nel marzo 1677, come risulta dalla corrispondenza da Napoli di D. Ronchi; Roma,
Arch. Doria Pamphili, fasc. 18.89, 18.90 e 18.91). Strettamente legati
all'occasione politica, gli scritti del D. ne seguirono le circostanze e gli
svolgimenti, ma segnarono anche un passaggio di grande rilievo nella cultura
napoletana del secondo Seicento. Se i due Discorsi, infatti, si avvicinavano in
qualche modo al genere dei "bella diplomatica" che impegnava allora
la migliore giurisprudenza europea, la Risposta confutava le rivendicazioni
francesi in termini ben più avanzati delle consuete dispute avvocatesche,
affrontando il tema della successione nel Brabante alla luce di una ricerca
storica e di una meditazione sulle dottrine di Grozio, che la conduceva a
individuare nel diritto di natura e delle genti le regole proprie al suo
carattere giuspubblicistico. In tal modo rompeva l'isolamento del pensiero
giuridico meridionale, lo apriva al confronto con le correnti d'Oltralpe,
indicava un metodo storico per l'analisi degli ordinamenti e delle istituzioni
che consentiva di determinare la natura privatistica o pubblicistica degli
istituti, i loro rispettivi confini ed i fondamenti giuridici delle relazioni
internazionali. Non è dunque un caso se con quest'opera maturò nel D. un
orientamento non solo giurisprudenziale, ma più largamente civile, fondato, in
politica interna, sulla prospettiva di un accordo di governo tra il ceto
intellettuale ed i viceré; sul lealismo spagnolo, in politica estera, giacché
quell'impero restava, anche nel suo declino e col suo "genio tardo",
atto a conservare più che ad innovare un puntello insostituibile per la pace e
la stabilità dell'Europa, condizione per ogni sia pur relativa autonomia del
Regno meridionale. Con la polemica sulla successione del Brabante prendeva
forza, in sostanza, il difficile tentativo, condotto dal D. con cautele e
prudenza, di collegare la battaglia culturale dei novatori alla riflessione e
all'azione politica. Da allora infatti, nutrita dalla lezione di Machiavelli e
dalle dottrine correnti della ragion di Stato, ma con l'aggiunta di un robusto realismo,
che ne costituisce il tratto più caratteristico e originale, la sua attenzione
si concentrò per circa un ventennio sulla scena internazionale, dove si
decideva lo stesso destino del Regno di Napoli. Il rapporto tra gli Stati, la
debolezza e l'immobilismo del sistema spagnolo, e di quello meridionale al suo
interno, il dinamismo francese, infine l'emergere, da Napoli poco decifrabile,
di altre potenze, divennero così l'argomento principale del suo nutrito
carteggio col principe Doria, ed insieme lo sfondo di alcuni interventi forensi
e di altri suoi scritti giuridico-politici (le une e gli altri editi ora da
Mazzacane). La familiarità col principe risaliva al 1673, quando
dall'ottobre all'aprile 1675 il D. soggiornò presso di lui a Genova, Pegli e
Torriglia, a conclusione di un periodo di viaggi guidati da curiosità
intellettuali, non meno che da motivi di salute. Afflitto da serie crisi di
ansietà e di apprensione, manifestatesi sin dal 1668 ed aggravatesi l'anno dopo
con la morte del padre, forte di una solida situazione finanziaria,
assicuratagli dalla funzione diavvocato primario del Regno, abbandonò la città
poco più tardi, mentre precipitava una crisi nei rapporti politici degli
intellettuali napoletani. Infatti se alla sua intesa col viceré d'Aragona si
dovette l'avanzamento negli uffici del fratello Gennaro nel 1668 e l'incarico a
lui, l'anno successivo, di difendere la "piazza" del popolo contro la
nobiltà, tra la fine del 1669 e i primi mesi del 1670 il clima parve
profondamente mutare, con la chiusura dell'Accademia degli Investiganti e la
partenza da Napoli di alcuni suoi esponenti. Viaggiò per vari anni, con
soggiorni più o meno lunghi in diversi centri italiani, raccogliendo consensi e
amicizie, approfondendo gli studi scientifici e matematici, partecipando con
vivacità alla vita intellettuale deicircoli che frequentava di volta in volta,
come dimostrano le importanti lettere a Lucantonio Porzio (Napoli, Soc.
napoletana di storia patria, ms. XX.B.24) e a Francesco Redi (Firenze, Bibl. Mediceo-Laurenziana,
ms. Laur. Red. 219). Rientrò a Napoli nell'aprile 1675. Le cronache della
capitale, le relazioni degli agenti stranieri, le stesse lettere, spesso
settimanali, al principe Doria consentono di seguire minutamente le sue
attività professionali e la sua azione civile negli anni successivi. Tuttavia,
nell'intreccio contraddittorio di una realtà arretrata, ma vitalissima,
nell'accavallarsi di episodi maggiori o anche minimi, nel complicato scomporsi
e ricomporsi dei vari "partiti", esse non si prestano a facili
interpretazioni e non sono state interpretate uniformemente dalla storiografia.
Del resto, qualsiasi lettura degli ultimi anni del D. è collegata con un
giudizio sull'intera vita morale del Mezzogiorno durante il declino dell'impero
spagnolo e nel profilarsi di una generale "crisi della coscienza
europea". Perciò i dettagli di un'aneddotica spesso pettegola, le
sfaccettature di un carattere umano incline alla melanconia, altero, ruvido ed
anche "bizzarro", non possono esaurire il senso della sua presenza,
vigile e critica, nella realtà napoletana di fine Seicento, il suo ruolo di
maestro e guida intellettuale, di capostipite anzi di una genealogia spirituale
che, attraverso il Biscardi e l'Argento, sarebbe giunta fino a Giannone.
Il governo del Velez segnò il momento di più consistente raccordo con la
politica dei viceré e le aspirazioni egemoniche del ceto forense. Ne sono
testimonianza eloquente, tra le altre, le scritture già ricordate sulle pretese
del re di Francia, cui si aggiunse nel 1682 una Risposta al libro de' Francesi
sopra li pretesi diritti del Re Cristianissimo sopra il Regno di Napoli et di
Sicilia (Napoli, Bibl. naz., ms. XI.C. 25). A questa rapida
"informazione" - una replica al Dupuy cui continuò a lavorare anche
senza portarla a compimento - vanno aggiunte le difese in giudizio, sollecitate
dal viceré, del marchese de Viso nel 1675, e dei Brancato e del Guaschi a
partire dal 1679. Nello stesso anno rifiutò, con Carlo Cito, la designazione
per la "piazza" del popolo, e l'episodio dimostra la volontà, e la
possibilità tuttora attuale, di mantenere un'autonomia di partito per gli
intellettuali e i forensi. L'ascesa impetuosa di funzionari e ministri,
profilatasi da lungo tempo e consolidatasi con l'assolutismo amministrativo del
Carpio, spostando definitivamente il peso politico delle due anime del ceto
civile, forense e togata, in favore di quest'ultima, divideva i rispettivi
interessi e disegni e riduceva le possibilità, per la prima, di porsi con forza
propria come centro di mediazione nella dinamica sociale e politica del
viceregno. Perciò il D., emarginato e forse anche deluso dagli ambienti di
palazzo (già nell'increscioso incidente del 1682 non si registrò né l'appoggio
del Velez, né una risoluta solidarietà dei colleghi), si dedicò con rinnovata
energia ai propri studi, per rianimare il gruppo disperso dei novatori dinanzi
al ritorno in forze dello schieramento cattolico e del più oscuro spirito
controriformistico. Alla fine del 1684 morì il Cornelio e quella scomparsa
sembrò segnare la conclusione di un intero ciclo della cultura napoletana,
sicché assunse un significato evidente il carico preso dal D. per rivendicare
il valore del suo insegnamento e la persistente vitalità della sua lezione.
Egli infatti non solo sorvegliò l'edizione delle sue opere inedite, apparsa poi
a Napoli sul finire del 1688, ma fece celebrare, nella primavera del 1685, un
solenne funerale per il maestro, che ebbe il tono di un appello e di una
perentoria riaffermazione di fedeltà ai principi della nuova scienza. Nello
stesso anno stese anche la già ricordata Apologia in difesa degli atomisti e
ricevette, tra ottobre e novembre, le visite di J. Mabillon e di G. Burnet, che
rappresentarono un alto riconoscimento, da parte dell'Europa dotta, del suo
prestigio internazionale e del rilievo degli studiosi napoletani nell'ambito
del sapere moderno. Furono tuttavia episodi che non lo scossero da una
sorta di doloroso isolamento, in cui si inserirono meditazioni religiose sempre
più fitte, d'intonazione etica rigorista, da leggersi comunque in rapporto con
alcune scritture, di difficile datazione, dirette a inserirsi nei grandi
dibattiti europei di filologia biblica (Napoli, Bibl. Oratoriana dei
gerolamini, ms.). Di peso più concreto fu invece la nomina, ottenuta dal viceré
conte di Santo Stefano, per la carica di giudice di Vicaria, della quale prese
possesso il 10 maggio 1688. Egli tornava così sulla scena pubblica, ma
attraverso un reclutamento nella burocrazia - sia pur mitigato dalla maggior
comprensione del Santo Stefano, rispetto al Carpio, per le ragioni culturali
dei novatori - che costituiva di fatto un'ammissione del sopravvento degli
uffici sull'avvocatura da parte di chi, come lui, lo aveva sempre avversato, ed
ancora sarebbe tornato a negarlo negli Avvertimenti. Seguì nel luglio
1689 la promozione a consigliere nel Sacro Regio Consiglio, e poi a fiscale
della Sommaria, dove s'insediò il 5 apr. 1690: tutti spostamenti che
s'intrecciarono con i tortuosi percorsi, e gli intrighi, dei circoli ministeriali
di quella vera e propria "Repubblica dei togati", che era ormai
diventato il Regno di Napoli per sua profonda struttura. Le funzioni di
governo e le competenze finanziarie dell'organismo di cui entrava a far parte
richiesero il suo impegno su questioni economiche di scottante attualità, che
egli affrontò con uno spirito di cui è difficile sottovalutare l'originalità e
l'importanza. Dalle allegazioni (sono note quella dell'ottobre 1690 sul
problema dei pedaggi e dei passi, intitolata Iura pro Regio Fisco…, e l'altra,
Ad interpretationem regiarum litterarum quibus fuit declaratum officia quae
sunt de regalibus, in sostegno del carattere pubblico degli uffici; entrambe in
N. Ageta, Adnotationes pro Regio Aerario, II, Neapoli 1692, pp. 180-96 e 299-328)
e dai suoi ripetuti interventi in Collaterale, nel corso del 1691 (Arch. di
Stato di Napoli, Collaterale. Notamenti, voll. 75 ss.), emerge infatti un
complesso di temi e valutazioni, nei quali prendeva forma una acuta analisi
dell'inferiorità meridionale, capace di coglierne la sostanza economica, ed un
coerente piano di parziali riforme. La linea prospettata dal D., spesso
ripresa e ampliata nelle lettere al Doria, non può avvicinarsi alla
contemporanea cultura mercantilistica. Essa tuttavia conteneva il richiamo,
d'ispirazione pragmatica più che teorica, alle esperienze europee più avanzate
(olandesi ed inglesi), la denuncia della venalità degli uffici come causa prima
delle disfunzioni del sistema spagnolo e della questione beneficiaria come uno
dei lacci più pericolosi che soffocassero il Regno, infine l'indicazione di
misure concrete sui problemi della moneta, degli uffici, dei passi. Ma la sua
perorazione per la libertà dei commerci e le proposte di riforma corrispondenti
si arenarono subito, nonostante l'intesa col viceré, per la ferma opposizione
del baronaggio. Durante il 1692 si fece perciò più rara la sua presenza nei
diversi consessi ministeriali. Nel 1693 fu sostituito in Sommaria e fu
giubilato nel 1695, mentre risiedeva a Procida, donde dava vita a un rilancio
della sua azione culturale. Di tale intenzione erano state già segno la
collaborazione prestata al Valletta per una scrittura, compiuta in quegli anni,
relativa al conflitto accesissimo sulla giurisdizione del S. Uffizio e la stampa
della Disputatio an fratres (Napoli 1694), un testo capitale della scienza
giuridica di fine Seicento, in cui, con matura sensibilità storica, egli poneva
la consuetudine e l'interpretazione giurisprudenziale a fondamento del diritto
del Regno e dei suoi svolgimenti. Risalgono inoltre allo stesso periodo alcune
scritture e lettere sullo stato politico d'Europa e d'Italia (cfr. l'ediz.
Mazzacane). Le opere dell'ultimo biennio valsero a confermare il suo
ruolo eminente tra le avanguardie intellettuali napoletane, sicché non
sorprende la visita resagli a Procida dal Santo Stefano a metà dicembre 1695
per concordare un'azione contro l'offensiva curiale e gesuitica in atto, che si
esprimeva sul piano e politico e culturale con la controversia del S. Uffizio,
il processo agli ateisti, i libelli polemici tra cui spiccavano per ampiezza di
argomentazioni le Lettere apologetiche del padre De Benedictis, pubblicate a
Napoli nel 1694 sotto lo pseudonimo di Aletino. Ad esse il D. replicò con le
Risposte già ricordate, ma nel frattempo nuovi equilibri si profilavano a
Napoli. Altri temi più direttamente incisivi che non gli appelli per la
moderna filosofia, si offrivano a costituire il cemento ideologico capace di
saldare alleanze diverse tra i ceti e di rimescolarne gli schieramenti. Nella
svolta di fine Seicento, dinanzi all'atto di accusa rivolto dagli ambienti
cattolici alla nuova cultura e ai suoi progetti di rinnovamento, dinanzi ad un
tentativo d'imporre il prepotere ecclesiastico, il ministero togato serrava le
fila, si attestava sull'intransigente difesa della giurisdizione regia,
assumendola in proprio, senza demandarne la definizione a intellettuali
appartati, sia pure di grande prestigio, come il D'Andrea. La sua lezione
investigante non poteva più rappresentare la base per un'intesa tra monarchia,
viceré e magistrati, stabilitasi invece attorno al giurisdizionalismo, e
difatti egli venne del tutto ignorato nelle iniziative del duca di Medina
Coeli. Perciò gli Avvertimenti ai nipoti, completati nel 1696 e destinati a una
straordinaria fortuna, assunsero spesso il tono di una apologia retrospettiva,
pagarono il prezzo della contraddizione tra un modello ancora proposto e il
realistico riconoscimento dei cambiamenti avvenuti. Il primato dell'avvocatura
come alto magistero per il giurista moderno, argomentato con frequenti tinte
neostoiche, e come via regia per acquistare ricchezza e potere, vi si
accompagnava all'ambigua ammissione del risalto sociale e politico conseguito
dal ministero, ispirando una ricognizione minuta sulle vicende del ceto forense
negli ultimi cinquant'anni, che rimane esemplare per profondità ed acutezza di
analisi, ma che non può nascondere il fallimento del tentativo di fissare le
direttrici ideali per i nuovi gruppi dirigenti.Gli Avvertimenti furono
terminati l'anno prima del ritiro a Candela, nei feudi lucani del principe
Doria, dove il D. si ridusse per un impulso di solitudine e per curarsi lo
stato fisico declinante. Morì a Candela (Foggia) il 10 sett. 1698, di una
febbre terzana contratta a Melfi nell'estate. La sua operosità non era venuta
meno neppure negli ultimi mesi. Aveva infatti compiuto da poco un Discorso
politico intorno alla futura successione della monarchia di Spagna (edito di
recente dal Mastellone), che è il suo estremo messaggio agli intellettuali
napoletani nella "cupa" finis Hispaniae. Fonti e Bibl.: Fonte
principale sono le notizie autobiogr. sparse negli Avvertimenti ai nipoti,
pubbl. a cura di N. Cortese, I ricordi di un avvocato napoletano del Seicento.
F. D.,Napoli 1923, con intr., note e append. bibliografica ricche di
riferimenti ai documenti ined. e alle testimonianze più antiche. Per le date di
nascita e di morte si sono tuttavia preferite quelle indicate da L.
Giustiniani, Memorie istor. d. scrittori legali del Regno di Napoli, I,Napoli
1787. pp. 57, 65, confermate rispettivamente dai Registri battesimali della
chiesa madre in Ravello e dai documenti dell'Arch. Doria-Pamphili in Roma,
fasc. 19.8. Circa l'età in cui iniziarono i primi studi, si è adottato l'uso
moderno di considerare l'anno di vita compiuto, anziché quello iniziato. Si è
inoltre collocata la laurea nel marzo 1641, seguendo [G. L. Torrese],
Diligentissima Neapolitanorum doctorum nunc viventium nomenclatura, Neapoli
1653, p. 99, e G. Corrado, Nomenclatura doctorum Neapolitanorum viventium,
Neapoli 1678, p. 21; la documentazione archivistica dell'Arch. di Stato di
Napoli, Coll. dei Dottori, lacunosa, ne dà conferma almeno e silentio. L'elenco
delle opere edite e inedite e delle lettere finora rinvenute è fornito da A.
Mazzacane, I misteri de' Prencipi. Lettere e scritti politici di F. D., Napoli
1986. Tuttavia, manca ancora una soddisfacente ricostituzione dei testi,
avviata, per le opere filosofiche, da A. Quondam, Minima Dandreiana. Prima
ricognizione sul testo delle"Risposte di F. D. a B. Aletino", in Riv.
stor. ital.,LXXXII (1970), pp. 887-916 (ma v. anche A. Borrelli,
L'"Apologia in difesa degli atomisti" di F. D.,in Filologia e
critica, VI [1981], pp. 259-80). Per il carteggio, due lettere al Redi sono
pubblicate e commentate da G. Tellini, Tre corrispondenti di F. Redi, in
Filologia e crit.,I (1976), pp. 401-53; numerose altre allo stesso sono
studiate da A. Borrelli, F. D. nella corrispondenza ined. con F. Redi, ibid.,
VII (1982) pp. 161-97; quelle al Doria (ora pubbl. da Mazzacane) sono in buona
parte citate ed utilizzate da R. Colapietra, L'amabile fierezza di F. D. Il
Seicento napoletano nel carteggio con G. A. Doria, Milano 1981, il quale
riassume anche precedenti lavori propri, annota e discute in maniera completa
la letteratura disponibile, antica e recente. Di essa perciò ci si limita a
ricordare soltanto le monografie e le raccolte di saggi che hanno maggiormente
animato, negli ultimi tempi, il dibattito storiografico sull'autore e sul
secondo Seicento meridionale, rinviando agli indici per la precisazione delle
pagine di diretto interesse: B. De Giovanni, Filosofia e diritto in F. D.
Contributo alla storia del previchismo, Milano 1958; Id., La vita intellettuale
a Napoli tra la metà del Seicento e la restaurazione del Regno, in Storia di
Napoli, VI, 1, Napoli 1970; N. Badaloni, Introduzione a Giambattista Vico,
Milano 1961; S. Mastellone, Pensiero politico e vita culturale a Napoli nella
seconda metà del Seicento, Messina-Firenze 1965; Id., F. D. politico e giurista
(1648-1698). L'ascesa del ceto civile, Firenze 1969 (alle pp. 183-99 il
Discorso politico intorno alla futura successione della monarchia di Spagna);
L. Marini, Il Mezzogiorno d'Italia di fronte a Vienna ed a Roma, Bologna 1970;
V. I. Comparato, G. Valletta. Un intellettuale napoletano della fine del
Seicento, Napoli 1970; Id., Uffici e società a Napoli (1600-1647). Aspetti
dell'ideologia del magistrato nell'età moderna, Firenze 1974; Id., Retorica
forense e ideol. nel giovane D.,in Boll. del Centro di studi vichiani, VI
(1976), pp. 41-75 (alle pp. 62 ss. l'allegaz. Pro Congr. S. Ivonis); R. Ajello,
Arcana juris. Diritto e politica nel Settecento italiano, Napoli 1976; Id.,
Cartesianismo e culturaoltremontana al tempo dell'"Istoria civile",
in Pietro Giannone e il suo tempo, a cura di R. Aiello, Napoli 1980; P. L.
Rovito, Respublica dei togati. Giuristi e società nella Napoli del Seicento,
Napoli 1991; G. Galasso, Napoli spagnola dopo Masaniello, Firenze 1982. ANDREA
(Francesco ’)nacquenellaCittàdiRavellonellaCoſta d’Amalfi il di 2.4. Febbraio
dell’anno '1625. non già‘nel 162.4. o 1_óz7. come altri fi avvisarono. I suoi
genitori furono Die go e Lucrezia Coppola della ſtessa Città', e nobile del
sedile di Mon 58 -A N Montagna giusta l’avviso del nosiro autore'
(r). Il Padre, che_ se ne stava in Napoli addetto all’ esercizio del foro,
appena ch’ ebbe oltrepassata l’infanzia lo se quivi condurre (a), e di~ anni
10..-affidollo alla educazione de’ PP. dell' Oratorio. F in da quesia tenera
età incominciò a dar saggio de' suoi vivaci talenti, ritenendo con iſtupore
quanto legger segli facea, e quanto anche da’dotti sentiva, onde il nome gli
diedero di maeslro di me moria. La sua educazione però, esser dovea tuttaltra
da quella, che gliene diede poi il padre ne’ primi anni di 'sua giovanezza.
Egli accorgendosì della vivacità del figli0,non volle metterlo sot to la
disciplina degli oggigiorno espulsi Gesuiti per applicarlo ben toſto allo
ſtudio della giurisprudenza, anche sul sospetto, che quel li conoscendo i
talenti del giova‘netto persuaso lo avrebbero a ve flire le loro lane,e privar
con ciò la sua casa degli avanzamenti, ' che avrebbe potuto sperare dalla sua
riuscita,p Dell’etàdianni12.‘adunquemandollo adiſtudiargiurisprudenza,nien— te
iſtrutto di quegli altri ſtudi necessari a ben intendere questa scienza. Buon
per lui ch’ebbe_a maestro il tanto celebre Giannandrea di Pao lo,ottimo oratore
dique’ tempi, e stato già discepolo di Alessandro...Turamino Sartese (3):
giacchè a dir del nostro autore (4) corse ri ‘schio di esser discepolo di Gio.
Domenico Coscia Calabrese, sopranno mato Casciana, uomo grosso d’ingegno, e
ſtato già maesiro di Diego suopadre. Fe (i) L0 attesia esso Francesco
nell’introduzione de’ suoi avvertimenti. (2)-Eglì ſtesso lo dice ne’ suoi
avvertimenti, ove parla della casa Rovito. (3) Nicolò Toppi bibliot. napal.
pag. 8. Giangiuseppe Origlia [sud. diNapol. r. a. p. '50. e Pietro Giannone
jlor. civ. del Reg. di Napo!. [ib. 34.:0.8. Q. r. in fin. scrivono,'che quiz/Zi
ancorchè Senese d’ origine su Napoletana. Ma-si sono ingannati a partito. Non
pochi monumenti abbiamo da potergli reflituir la sua patria. Nel 1604.
trovandosi in Ferrara scrisse una lettera al Cardinale Cammillo Borghese in cui
scrive: e Neapoli per Tbyr-renum in pan-iam adveäiur-c Nel-1592. dimessosi
dalla carica.di uditor di Rota nel {oro di Firenze, venne in Napoli, ed occupò
la cattedra di diritto civi le,come appare-dalla letteravindirizzäta a D. Gio.
Zunica Vicerè diNa 'poli, impressa nel libro de exaequariane legarorum,
pubblicato nel i593. e dall’altra scritta dall'autore a Lorenzo Usimbardo., che
fece precedere‘al suo opuscolo sulla L. non puro D.dejimfifri.
Neap.1595.in4.enel1594. per morte del Colombino‘passò alla primaria, e tutte le
opere, che pose qui a luce le dedicò' a’personaggí del suo paese; tal è quella
sana a Giro lamo Cerretano, e Francese* Accarisio patrizj Sanesi, che precede
al suo,opuscolo ad L. fruit—im‘, S. Papiníanur D. quem. dorperat. impresso nel
1600. E* da leggersianche l’accuratissimo Lorenzo Meho in praes. op”. Tura
míni,ëdir.&nen/ir1-770. (4) Ne'suoiavvertimenti. 1 ñ n, o AN
'gç Fece gli intendereildotto GianandreadiPaolo,quantoeglieramal fondato ne’
primi ſtud;,e qual bisogno avesse,per ben. coltivare i suoi talenti nello
apprendere la scienza del diritto.Siffatti avverti menti però dispiacendo
all’ambizioso genitore, bramandojl più preſto di vederlo esercitato nel foro,
nell’età di anni 17. con di spensa volle addottorarlo nell’una enell’altra
legge per fargli intraprendere bentoſto un. tal esercizro. Egli non però
l’accorto giovanetto volle secondare i desider) paterni. N o n interruppe per
ciò dopo la laurea dottorale le sue' affiduc applicazioni nella let tura degli
autori latini e greci, tanto prosatori,che poeti. S'in vaghi non poco delle
opere di Virgilio, e di Omero, ed anche de’più scelti poeti toscani, per cui
avendoci acquiſtata una partico lar passione, com’c’ dice, non potè però
giammai vedersi da tan- ’ to a comPorre un *ver/b con'qualchc suo
dispiacimento. Queſta ' insinuazione gliela diede peraltro anche il dotto
Ottavio di Felice, avendogli fatto comprendere similmente quanto
fossenecessariol'ac— quiſto della geografia e cronologia,senza di cui e’tratto
non avreb be un maggior profitto dalla ſtoria, e che ſtato sarebbe ancor per
lui molto vanta gioso apprendere qualche cosa di moral filosofia. Colla guida
de’ su odati valentnomint giunto all’età di anni zo. in cominciò la carriera
del foro, *e ad iſtudiare gli articoli', che oc correano-nelle cause del padre.
La prima scrittura,ch' e‘ mandò a ſtampa fu-sull’ articolo eccitato in un
litigio del, principe di Ca salmaggiore,se l’interesse ~di più anni pote'a-
eccedere il doppio della sorte principale. Lo spirito di novità con cui mane‘
iol-lo, piacque non poco alConsigliere Arias de Mesa stato diggi catte 'dratìco
di Salamanca. La seconda in una causa d’ importanza del Principe d’Aquino col
Duca dell’Acerenza per la vendita diGiu gliano, e in risposta di quella fatta
da Giulio Caracciolo. M a poichè incominciò a veder da lungi. lavaſtità delle
scienze, cad iscorgere qualeabilità ancor naturale richiedeasiñameritare ilnome
dioratore,‘moſtrossìsul rincipio Corantoritenuto.diarringarc‘ nelle ruote, che
su nella risoluzron di volersi di ’nuovo,rinchiudeñ re,-se animato non lo
avessero i dotti, e poſtogli avanti gli occhi
lasuaabilitàesapere.Undiqueſtisuil celebre Cammillo Colonna Signore di somme
cognizioni, dandogli de’savsi) precetti, e la notizia insieme di scelti
scrittori aformarsi un buÒno e diverso ſti— -le degli altri del foro. Ho ammise
i-ndi nella sua letteraria accade-l mia-,che radunava in ogni settimana‘,
perfarlo esercitare sì nello* scrivere, che nel parlare alla, presenza' di
uomini colti. Queſto c sercizio confessa il noſtro autore che gli su di sommo
aiuto, e che.perciò.vedeasinon poco obbligafo aqucſto gran protectorde’gtovani.
Indi siascrissealla congregazione S.lvonc.,ove,recitò_una.suaart-?l 2.
zio 60 AN zione in lode di quella is’tituzione; ed avendone
riportati univerá sali applausi,incominciò pian piano ad incoragirsi,e a
deporre quel timore,chel’aveafinallorasorpreso.Quindi trattenendosiunamat tina*
nel Collaterale,in cui doveasi trattare la tanto famigerata cau sa tralla
succennata congregazione,ei PP.Gesuiri, iquali pretendeano -fondarne altra, ed’
essendo ſtato chiamato dal Vicerè Duca d’Arcos il difensore di essa congregazione,
non vi' si trovò per allora. Niu no de’ tanti avvocati della medesima,che vi s1
erano radunati vol le esporsi al cimento, ed il solo noſtro Francesco di anni
ar. non già. zz. secondo vuole il Giannone (1) si addossò eſtemporaneamente
l’in carico,e parlando colla più sop‘rafflna elo uenza, e sodezza di ra— gione,ancorchè
avesse dovuto rintuzzare [avversario Francesco Pra to,che parlato avea in
favella Spagnuola’,ne riportò a suo favore siuna compiuta decisione. Queſto dir
solea il noſtro autore, esser ſtato un de’ più segnalati punti di sua vita, e
il primo passo alla gran fama, che andò dipoi sempreppiù acquistando., Volle il
Vicerè crearlo fiscale nella Regia Udienza di Chieti, che vi an ‘dò poiverso lafinedel1646.caricach’e
liaccettòmalvolentieri,eche dispiacque e ualmente aglialtriperve ersi
allontanato dal foro un giovanedi
rffattaesettazione.Egliperòdilàadueannivisireſti tui,'e dopo di ave 1
procacciata della gran vfama nel suo eserci zio insieme‘ con D.
Michele-Pignatelli Preside -e governador delle
-armióinambedue’le‘provinciedegli'Abruzzi intempi sìmemo rabili di popolari
rivoluzioni (z). Seguendo quelle provincie l’esem pio della capitale, quel
savio Cavaliere’non trovò più abile Sog getto, che ll giovane'd’ Andrea,onde
valersi in fiff‘atte circoſtanf ze a sedare ilfurore dell’insano popolaccio.
Tanto nell’eseguire le incombenze del Pignatelli, quanto i nuovi ritrovati da
lui, a ben riuscir nell’impresa in vari paesi tumultuati, moſtrò maisem pre una
gran saviezza,ed una più che invecchiata prudenza-Chi unque volesse
soddisfarsene legga la sua scrittura(ch’ io notcrò nel n. 7.) che conservasi
tuttavia *dall’amabile odierno Marchese di Pe scopagano Sig. D. Diego d’Andrea
Regio Consigliere di S. Chiara, -e del nuovo Tribunale dell’ Udienza dell’Esercito,
Marina,Caſtel lidiquestaCittà,edell’Alcaida‘to,ilqualgentilmenteme lapassò
nelle mani, ond’io tratte avessi lesuccennate notizie. Sa (1) Giannone [lor.
civil. del Reg”. di Napo!. [ih-38. cap. 54’431. edizd723. (z) E’ norabìle, che
tra i rubelli eranvi in Napoli Vincenzo, e Francesco d’Andrea di altra famiglia
ignobile,edessendo ſtatocreatodalpopoloCon
figlierediS.ChiaraessoFrancesco,mandataindilañnon degliuffiziali s a m dallo
flessoinsuriflo popolo, si credette da taluni, ehegil noſtro Fi -scale d'
Andrea fosse stato il promosso,- qual equivoco su smentito da esso --Miehele
Pignatelli'. O 4. u 1"A N.ci Sarebbe ritornato'in Napoli fin da Luglio
1648. se un ordine della Camera non l’avesse dovuto trattenere sino a Settembre
dello ſtesso anno. In qual tempo ripigliò l’esercizio del noſtro foro, e sparse
ditanto intalminiſtcroilgrido-disuararacapacitàedeloquenza,ch’ ebbero ad
appellarlo ilcomun maeſtro,e il principe degli oratori (r).,Il Conte di Ognatte
avendo, dinuovo mandato il Pignatelli nelle ſtesse Provincie, ed avendogli data
la facoltà di eliggersi que’ mi niſtri.perUditori,che iù—abilie dotti gli
sembrassero, eglisulle rime fe'scelta del no r0 d’Andrea: ma `per quante
fossero~ state e preghiere fattegli da quel Cavaliere, non volle avvedutamente
interrompere altra volta il corso dell’avvocheria per non essergli, com’
e’disse,nè di utile, nè di decoro. Nell’anno 1656. accaduta in Napoli quella
fiera peſtilenza, sotto il governo del Conte di Caſtrillo, cedescrittaci da
parecchi noſtri ſto rici (2.), volle il Principe di.Cassano seco condnrlo ne'
suoi stati nella Calabria Citeriore. Indi cessato il contagio fatto rrtorno in
N a poli, trovò quasichè tutti morti -i professori del noſtro foro. Per la
scarsezza adunque di queſti, e più,per la sua 'abilità;'se gli ac crebbe
ditanto il numero de’clientoli,che tempo non reſtavaglia riſtora'rsi dalle
tante gravi applicazioni,asegno che incomincio ad infaſtidirsidi sua
professione, e a contrarre delle varie indisposizio - uelle di,Antonio Gomez,e
di Domenico Bracati:il primo inqui q sito di capital delitto, l’altro di
menomato. zelo verso del suo So _vrano. L’uomo quanto ‘eradotto, altrettanto
ancor fortunato. Egli ebbe a perorarle,laprima aVanti del-Vicerè Cardinal
d’Aragona,l’al tra avanti del VisitatorCasati, uom coſtui rigidissimo
pe’diritti del suo Sovrano; e nulladim`eno~ne riporto compiute vittorie, ed
alla gran gloria,chevenne adacquiſtarsiconsiffatti patrocini,ne,otten ne ancor
delle buone' somme, che' a larga mano gli diedero i rei. Circa queſti tempi
essendosene` morto Diego suo‘genitore,edavanza te più le sue
indispofizroni,risolvette' nel 1669.‘di fare 'un viaggio per la noſtra Italia
(3), a ffi n di ricuperare la quasi cadente dlhîi sa.-~ t — ` -î- 11-.... (i)
Vedi il dotto Caſtelli adjeéiio”. 'ad Cart-aber” part. l. say-'l, n.34. et 35.
Francesco Maradei prati:.` universal. proceflur execufi-vi cap. a. n. 64.1).
64. (z) Vedi il.P. D. Carlo Francesco Riaco:Jil giudizio `di Napoli
csi/'sussidi‘ \ ni ed acciacchi sulla propria salute. ñ " f- Le prime
cause, che difese dopo il ritorno dalla (Calabria, siiron passato conteggio
cet.,ln Perugia [658. in 3. e il.Ragguaglio della mirato losa protezione di S.
F rancesco Saverio *ver-fit la Città e il Regno di Napoli ì
nelcontagiodel1656.d’incertoautore,ma senzafallo_Gesuita,inNapo— - ii, e in
Gratz nel 1660. e di nua-vo Napoli.x743. inps. Parrino teatro de' Vic”) di
Napoli t.2. Pag. 191. edi-z: [77_ (3) Vedi il noflro, autore negli avvertimenti
a’suot mp0” 5. i. l. O ' '6:- AN lute. Egli girò per lo spazio di anni quattro,
e luogo non vi.su j ove giugnesse,ch’ esatti non avesse i piu alti applausi
esegni di ri spetto e venerazione. lo tralascio a far parola di que’ favolosi
rac conti e del m o d o, 0nd’ egli viaggiato avesse per diverse parti dell’
italia; poichè ſtiam pur nella certezza d’ essersi fatto dappertutto
conoscere,e dappertutto ancora esige atteſtatì diſtima ediammi razione. ln var}
tribunali a preghiere de’ più grandi del. luogo, eb be a sar sentire la sua
eloquenza, e donde partiva lasciava negli animi di tutti segni di affezione.
Grandi furono gli onori, ch’ egli esigettc in Firenze (i) e in Perugia, che in
occasion di sua par tenza composero i Perugini la seghente raccolta intitolatas
Affet ti ossequiosì delle Muse di Perugia nella Partenza del Signor Francesco
d’ Andrea Napoletano; In Perugia 1672.. in 4. Nell’ anno 1672.. alle cantinue
preghiere de’ suoi illuſtri clientoli, e dello ſtes’s’o Vicerè, come si dice,
ebbe a ritornare in vqueſta Ca pitale, e ripigliare per la terza volta l’esercizio
del foro. Ella è coſtante tradizione,ch’vogni qualvoltadovea
perorare,radunavansi i più dotti di queſta noſtra Metropoli, e con essi gli
eſteri anco ra (z). Il celebre Giovanni.Mabillon (3) calato in italia nel 1685.
col carattere d’ Inviato del Re di Francia per visitare le noſtre bi blioteche
ed -antichità,dice di averlo ascoltato non seme! in Mist fn principîs Satriani
magna cum eloquentiae flumine et fulmine Perorantem (4), ancorchè perallora-
fosse già di anni 60. Dice Pietro Giannone (5).,,ch’ egli fosse stato il primo
a sar risonare il nome di Cujacio,~-e di altri eruditi scrittori nelle sue
aringhe. Autorità che' venne abbracciata dal Giannelli (á),e dal Grimaldi (7)
avvisandoqueſt’ultimo,`che‘fosseſtato ilprimainn-adattaredelle
operedelfamoso'anacio(8);Ma sÎingannaronosull’autoritàdellostes... lb‘7 y.-:l_.
(i) Vedi le opere di Franc-,eseqRedi rom. 2. pag. rzt. e rom. 4. pag, 63. (z)
Vedi Tommaso- Burner lnglese nel *viaggio d’Italia, l'autore dell’epi/iol. de
”He ín/Zímendfl academ., ad Lam. Prism” Venet. 1709.7. 21. e la vita, che ne
scrisse Biagio Majoli A'vitabile impressa nelle ”ire degli Arcadí ì] ~~iilvh to
1- p ' (3) E’ troppo noto nella 'repubblica delle lettere queſto erudítislimo
scrittore ~nato ‘in S. Pierremont nella Diocesi di Reims nel 163‘2‘. 'ed
_entrato nella Cangregazionej di S. Mauro l’afluò- tanta gloria colle sue opere.
Vedi. h Cei-f. biblioteque -hi/Ìarique army”: du.Am/mm' de 'la Congregalìon a':
S'.Maw., Ruinart ‘vita Mobil!. ‘ (4) Mabillon im' Ita/ir. p. to;.‘~ - (5)
Giannone islar. civil. [ib.;8. cap. 4. ', › ì -ñ ñ (ó) Giannelli editi-azione
'al figlio. Grimaldi isl_aría del/_e leggi {Magi/Ira” del Reg. di
Nflp.t.x.p.106. (8) Vedi le notizie:siam/ae degli A m d: mom', tom.- a. p. 14.
a z-r. z” -‘ ñ ó**Lt-ñ.: ax- LA N 63 so nostro Francesco
avendo volutodarsi un talvanto negliavverti mentiassuoiscrivendo:Iofuiil
rima,chefecisentirene’no/Ìn" tribunaliil”urnediCujacio,e
eglialtrierudiri.Ma chiunque rivolgesse inostri scrittori legali,che gli
fioriron d’ innanzi, vi rat troverebbe spesso nelle opere loro i nomi'di tutti
quegli autori,che surseroda Andrea Alciati fino algranCuiacio(I).Se questi
sivalea— no nc’ loroscrittì delle autorità -di tutti que’ dotti interpreti,parte
Italiani,veparteOltramontani,come puòcredersi, cheperorando ne’ tribunali
sentir non facessero anche iloro nomi. Questa gloria,
chevolledarsiilnostrod’Andrea,nonsapreicomescrbarcela..i Che da’ suoi tempi
incominciata fosse.un epoca più felice,per un cet. tomodo
introdottodalui.nelloscrivere,eadisputargliarticoli, nongià‘secondoil
ocogustode’precedentisecoli,ma iustale regole della ragion civile,e delle
nostre municipali leggi,e sì quel vanto che merita assolutamente il nostro
autore. La storia e la cri tica,mezzi valevoli a ben intender le leggi, per
quanto potè l’in trodusse,-siccome'osserviamovnelle prime
allega'zioni‘,ch"e’scrisse, e raccolte poi dal Moccia, e dal Staibano. e ì.
- Egli s’impe nò,che.la giurisprudenza s’inse nasse anche con miglior metodo e’
erudizionc nella noſtra Univer lfà.'Si adoprò similmen te, che la cattedra di
matematica si occupasse da Tommaso Cor ' nelio gran filosofo e medico’ di quel
tempo, ch’egli venir fece da Roma
nel1649.,quegliſtessoche*introdussepoitranoilevopere del celebre* Renato des
Cartes,e volle-annoverarsi trai primi suoi ascoltatori. F e riſtabilire la.cattedra-
di lingua greca con darsi al dot to Gregorio Messeri verso il1687.. come anche
indusse Gio. Batiſta Cacace ad insegnare la rettorica, nel tempo -ſtesso ch'
egli era pro fessore d’ iſtituzioni -civili,'mancandovi una-tal cattedra nella
Uni vcrsità degli ſtud), ch’ indi fu eretta, e conferita ad Antonio Orlan dino.
Fece ancor risorgere ñl’accademia degli Oziosi (a),e fu uno de’ fondatori delle
accademie degli Oscuri.(3) de’ Razzi (4.), ‘de gl'I/zveſtiganri (5), e venne
asgritt’o alla generale adunanza ‘d’Ar.:,..aaca ‘(t) Osserva il mio leggitore
le opeíe di Francescantonio d’Adamo, di Vince zo_ Alfani, di Domenico de
Rubeis, cet-’per res’tar‘ persuaso- di quel che i è da me afferiro. - '.. v (z)
Nell'anno 1611.‘ Gio. Batìſta Manzo Marchese di Villa' iſtitui‘ una tal a c c a
d e m i a.‘ Vedi Giulio Cesare Capacciomisura / f i e r e . e d g b be il`suo
principio addì 3. Maggio ne’chiolii’i di S. Maria delle Grazie... presso S.
Agnello. Vedi Tommaso Coílo memoriale de’succejji del Regno p di Napo/ì, in
detto anno, 16”. g‘ (3) Nel M79. su eretta l’accademia degli Oscar!. (4) Nell’
anno ſtesso surseì'quell’ altra accademia sotto nome de’ Razzi. (5) Quella
celebre adunanza iſtituìta anche nel 1679. venne protetta da D. - Ao
~› e cadiacolnomedi'Lariscasafl’o. \* -'- ‘Egli adunque ambiva ‘di
riformare il guſto del foro. e della cattedra” e fe de’ sforzi a riuscirci.-Per
quanto potè moſtrossi protettore de’ letterati, co’ quali piacevagli molto il
conversare. Ebbe dell’ a micizia con Lucanconio Porzio, Luca Tozzi, Cammillo
Pelle grino, Carlo Buragna, Grana-alfonso Borrelli, Nicolò Amenta, Giambatiſta
Capucci, Daniel'lo Spinola, Michele Gentile e, D o menico Scutari, Pietro
Lizzaldi Gesuita, Sebastiano Bartoli, Fran cesco Redi, Antonio Magliabechi,
Giammario Crescimbeni, Giu seppe del Pa a, Gabriello Fasano, Tommaso` Cornelio,
Lionardo deCapua,e altriassaisiìmi;.moltide’quali,chescrìfferodelleope re, non
lasciarono di`fargliquelle dovute lodi-nelle medesime, e parte gliele
dedicarono ancora, come il Cornelio l’ opdka de eine, cumpulsione Platania:. ll
Crescimbeni colmollo di lodi nella‘ifla ria del a 'volgarpmſta, e il Redi Co’
seguenti versi nel suo Bacco 6.1. AN i”Tosì‘ana:;L- -. ì ñ. ^‘_ E se ben Ciccio
d’Andrea l Con amabilefierezza, \.ñ‘. Con terribile doleezàay, -. ‘~ Tra gran
mani d’eloquenza Nella propria mia[presenza › _...i` _. Inalzarundi‘*voeva.~9 ñ
y-, -..\ - ' Il Conte di. S. Stefano Vicerè di Napoli lo relesse Giudice di
Vicaria vverso, il 1688. e‘quì debbo notare un errore in cui sono incòrsi v,..,‘h
—tutti AndreaConcubletMarchesed’Arena,dcflinandolapropriasuacasa.Ve di Giannone
lib. 40. rap, 5. Lionardo di Capua; parer: ragion. 8. Carlo Suv sauna in
Buragnae vita. Lucantonio Porzio in opnseus. de mom graùium,et ` deìorig.
semi-nn. Giannalfonso Borrelli nell’ api/i. dedie. al, suo libro da, mazionibu:
naturalibus a gra-visure pendentióu:. Gl’iſtirutoti furono T o m m a so
Cornelio, Lionardo, di Capua, il nostro d’Andrea, e il dilui germano‘ fratello
Gennaro, nat-o addì. 4.‘ AgoſtosideL 1637.-e morto nel 1717c~di an ni 80. da
Reggente di Collaterale, e Delegato della giurisdizione. (i)Gimmaelogiaccademicipart.1.nell’elogiodi.PietroEmiliaGuaseo.A
sti dell’ ush ed autorità della ragion civile lió. l. tap. l. p. 4L‘infin-
Gianno neIibÌ38.mp4... [ib.39.up.1,[ib.40.rap.8.Staibanor.2.resolat.185. Celano
`delle notizie del bello, dell’ antico e curia/ò della Città di Napoli, x. 3.
giornata V. p. 92. Fabroni 'vitae Ita/or. t. 3. p. 332. Ariani comment., dc
chris iuriseonfl Napo!. p. 26. ` Quel (PA-versa acido Asprino, ` ì,~~“ Che
nonfl) s’è tigre/70,0 -vina, ’
EinaNapolise!-óea- p ‘ Del superi-bo Fasano in; compagnia cet.
nèaltrimentiparecchi-altriscrittori. tutti coloro che ne han fatta parola
avvisandosi, che il Re Car lo II.` innalzollo al grado di avvocato fiscale del
Real patrimo— nio; qual carica essendogli troppo odiosa, commutar la volle con
quella di Consigliere: ma da’libri delle discendenze del S. C. ri levasi, ch’
egli ebbe la commessa delle cause del Consiglier Ste— fano Padilla nel dì zo.
Settembre del 1689. e nel 1691. passò avvocato fiscale, e le sue cause furon
commesse al Consigliere D. Pietro Messones con decreto die 6. mensir sulii.
1691. Dopo anni 9. in circa di esercizio miniſteriale,ne reſtò talmente
annoiato, che rinunciar volle la toga, e cercar un pò d’ ozio filosofico,
avendo menata sua vita da circa anni 50. tralle noiose cure del foro, e in una
piucchè assidua applicazione. A tal fine si ritirò nella noſtra
Mergellina,eproprionelladiluimasseria,checomprossi erdue. zooo. ove fin dal
primo giorno assalito dalle frequenti viiredegli amici e clientoli, si avvide
ben toſto, che non avrebbe soddisfat to il suo desiderio; quindi se passaggio
nell’ Isola‘di Procida, lusin gandosi ch’ivi trovato avesse quel tanto suo
bramato intento: ma non gli riuscì nemmeno tal sua risoluzione, frequentata
venendo nel modo iſtesio la dilui abitazione da numerosa folla- di litiganti a
chiedergli qualche suo savio regolamento, ed inquietato piuc~ che mai veniva
dalle visite de’sav) viaggiatori Europei,che calava no nella noſtra dotta
Italia per riverire un uomo, la cui fama erasi diggià sparsa per tutto l’orbe
letterario.Fu coſtretto perciò por tarsi in Candela terra in Capitanata, ove
venne. a morte addì IQ Settembre verso le ore z:. dell’anno 1698- e di sua età
settanta treesimo, e mesi,e non già come altri scrissero di anni.7t. Il Vescovo
di.Melfi si adoprò nella miglior maniera, onde rendere gli ultimi uffizi alla
sua memoriaznè mancò persona,che fatta gli avesseorazion funebre,laquale è
ſtata da me lettamanoscritta,e non s0 se fosse ſtata benanche impressa. Il
titolo èqueſto: In obi tuDominiFranci/ZideAndreaRegiiConsiliarii,acinRegiaCa
mera Fisci Petroni elegiacum carmen,et oratio nabita ab UJ.D. s0.Bapti/Za
Patetta. Ora altro non resiami,che dare a’leggitori un elenco delle tante 'sue
opere,ed i motivi 0nd’ ebbe a scrivere alcune delle medesime. E’ celebre nelle
iſtorie la controversia mossa da’ Franzesi nell’ anno 1666. sopra il Ducato di
Brabante, ed altri ſtati della Fiandra contro i Spagnuóli. Per affar sì serio
vennegl’impoflo dal Vicerè D. Pietro d’Aragona sul principio del 1667. di
scrivere in difesa del lor Sovrano Carlo Il. Egli l’Andrea eseguì bentoſto un
tal comando, eaddì2.8. FebbraiodelloAſtess’annoglipresentòunasua dotta
scrittura, col titolo: '. 1.Dijkrtatiodesucceffione DucatusBraáantiae.QuaMenditurmul-
- Tom!. vI lam 4 66 AN lam Córislianiflîmae Reginae ad ejusdem
_Dueatur la ereditata-m spem fieri;per Consuetua'inem illms pravmciae,quaefilias
primi Îlori *vom: ad parenti-”n berediratem exclnsir liberi:, quam-ui:
mn/?ulisorti;exsZ-Cimdo;quodea,tanquani rivarorumci-vinm propria, ni/Îil
commune habent, eum sucçe zone_ Publica tori”: Principal”. Volle intanto il
Vicerè, che m dllUl presenza sotto scritta l’avesse, affinchè sr'egiata del suo
nome, impoſta avesse in Europa una più alta e maggiore autorità,e così
manoscritta inviol la in [spagna. Ella non su mandata a ſtampa per non dar
nuovo motivo a’ Franzesi di dire, che i noſtri fossero ſtati iprimi a pro vocar
li al cimento, non avendo pubblicata alcuna delle scritture, ch’ in i in poi
produsse-ro. M a nel mese di Maggio, come siebbe avviso,che il ñRe
Criſtianiſtimo era giunto co’ suoi eserciti nelle frontiere della Fiandra, e
che n"el medesimo tempo avea fatto pub blicare di suo ordine una scrittura
inlingua spa nuolasi), coi tito tolo: Traffado delos Deree/ms de la Reyna C
riflianiflimn fi)er *vario: E/Zador dela Monarquia de Españ'a; toſtochè l’ebbe
nelle mani ilVicerè D. Pietrantonio d’Aragona l’inviò alnoſtro autore con
ordine di rispondervi,nel mentre ilRedi Francia entratone’ paesi bassi avea
incominciato ad usarvi tutti gli atti della ostilità. L’ Andrea vi fece la
desiderata ris`poſta,e su una delle più celebri scritture, che vedute si
fossero in tal occasione. Eccone il titolo: z. Ri/jdo/Za al trattato delle
ragioni della Regina Cbri/liani/Iìma/b pra il Ducato del Brabante, con altri
fiati della Fiandra, nella qualesidimoslral'ingin/lizia dellaguerra mossa dalRe
diFran cia Per la conquisha di quelle Provincie; non o/lanti le ragioni, eee
_fifim pubblicateinsitonome,PerlaPretesasueeeflioneafavor della Regina
Cbri/lianijsima. In Napoli Anno 166'”;- infl Fu ripro dotta con un nuovo
discorso, ed alcune lettere' nel 1676. in4. Nel mentre che ilnoser d’Andrea
ſtava mandando a ſtampa lasur riserita rispoſta,comparve altra conftttazione
alla ſtessa scrittura de’ Franzesi,scritta da un dotto miniſtro in franzese, ed
essendone ve nuta una sola c0 ia in queſta Capitale, su da un eruditissimo mi.
niſtro volta in lingua Spagnuola, e mandata di nuovo a ſtampa, e finalmente
tradotta in italiano. Intanto un certo Aubery avvo— cato della Corte del
Parlamento di Parigi diede fuori un libro: Des _ju/les Pretentions du Roi sur
l’Empire.Paris 1667. a cui si dice dal Giannone (2.),che l’Andrea data-vi
aVesse altrarispoáia, —e (I) Vedi l'informazione al ieggitore di esso d'Andrea
'impressa nella risposla al` trattato delle ragioni cet. Giannone ci!. [ib. 39.
cap. i. (a) Vedi Giannone lio. 39. cap. i. As N 67 e'd impressa
nello ſtesso anno 1667. in 4. (I).. x 3- Disputatio a” flames influida no/Zri
Regnisucco-dan!, eum frati-i deeedenti non sunt eonjum‘îi ex eo latere, ande ea
oàvenerunt. A d intelleéium Con/lirationis Regni m‘ de [iiceeflionibus, de sue
cessionenobilium.Neap.apudParrinum,etMarian-11694.in Ei la è ſtata riſtampata
molte volte.Nel 1717. ex typogr. Simoni/ma; e nel 1769. Avendo in queſta dilui
opera consutato Andrea d’lfier nia, videli dopo la sua morte un certo Dottor
Gio. Bernardino Manieri dar fuori propugnaeulnm Winiense, come nei dicoſtui ar
ticolo t'ratterò più a lungo.. 4. In un opera del Cardinal de Luca (z)trovasi
una sua scrittura:sii per sèererariorum APO/Zolieorum /uPPreflione.. 5.
Consultariones in muffa sanno”. Majoratus s0. BaPti/Zae. Tro— vansi presso
Gio.Torre (3). ì ó.RejÌmnsajm‘is’flipersuceeffionesaltata-ia,etquando babe”;la
cum, neene. Si hanno presso lo stesso Torre (4). 7. Relazione de’jèr-vizj fatti
nel tempo., ea’e/ercitö il Po/Zo di avvocatofi/ealenella
rovineiadiAbbruzzeCitra,eParticolar mente di tutto ciò‘, e e da lui si operò in
ser-vizio di LM. menz tre din-arena le rivoluzioni Popolari; cominciate in
Napoli nel di 7.diLuglio 1647.ete/Zinteneldi‘6.diAprile164.8.in Le altre sue
opere rimaſte inedite,sono: Varie lezioni intorno allafilosofia dellescuole, e
del moderno gu flo introdotto nell’arte difilosofare.Furonrecitaredaluinell’ac
cademia degli Oziosi, e quantunque i suoi. sentimenti sembrassero flrani per
allora, furon dipoi abbracciati e 'coltivati, Trattato degli atomi con varie
lezioni filosofiche. Voiqarizzamento dell’erica d’Ari/Zotile. ‘ ' Difesa della
filo/olio di Leonardo di Capa/t, contro l’Aletino indi— rizza/z al Principe di
Feroleto. Queſt’ opera, ch’ avrebbefi dovuta mettere a luce, giacchè in essa
l’autore fe pompa dei suo sapere, e varie furono le inchieſte de’letterati, non
so perchè trascurato lo avessero i suoi eredi. Infatti il nofiro dotto Nicolò
Amenta (5) scrisse:non ba gnam', consomma mio piacere, e con profitiarne ‘ non
(1) Alle altre scritture de’ Franzesi, non vi mancarono ‘altri dottíopposirori,
che leggersi possono nel Diario Europeo rom.XV. X V L e XVIII. e men tovate
vengono dall’erudito Struvio Syntagm. [Ji/Zar.Germ. dafl'ertat.” S.” (7.)De
Lucatraéi.deoffieiis.Romae1682. ' ñ. (3) Jo. Torre traff. de susiefliom in
Majoraxibmflet. Lugduni Ani/fln 1688.1.: (4)*Idem ma‘.deprimogenitìs Italia: eap.39.5.7.e9.ct”11.40.5.6.Lugdu-
l m › (5) Amenta nella Vita dì Lianarda di Caploa pag-.54. ` 53 AN non poco, ho letto, e riletto: nè jb
perchè il dilui fratello,il Tagguarde'vole per tanti capi, Regçente del
Collateral Consiglia, Gennaro d’Andrea,non l’/7a fatto Pubblicare Per 'via
delle [Zam pe, quantunque ne [/rabbia i0fatto pregare. In tretomi in foglio
ella conservavasi nella celebre libreria diGiuseppe Valletta (1). ln un de’
Codici Magliabechiani in Firenze (z) evvi una lettera- di esso Francesco de’
2.3. Agosio 1685. con cui gli chiede notizia di var) libri, che consultar dovea
per tal suo lavoro. Disror/b della nobil famiglia della Marra.,. Discor/n sopra
la /uc‘reflirme di?pagna in morte quando filC-'Có’dsldel
ReCarloII.d'Au/lriagia}disperatod'a-verprole.Lo scrissestan— do in Candela
colla data’ del di 15. Aprile 1608. Zisa/jime, ojjiano avvertimenti a’suoi
nipoti, D. Gia. e D. Andrea, per farlor
divvisare,eneasoslenerelacasanellagrandezza,in
cuiegli,eilReqqentesuofratellol’a'vean Palla,unicomezzo era l’avvor/;eria.
Quelli avvertimenti, ch‘ egli scrisse nell’ età di an ni 71. non sono ſtati
impressi per aver incontrato l’oſtacolo di alcuni personaggi, ch’ebbero a
scorno il sar vedere la di loro ori gine da qualche professore del noſtro soro.
Son tante però le copie a penna siſtentino in queſto nostro Regno, e fuori, ch’
è riuscito vano il loro impegno. Si vuole ch’ egli avesse compilata quella
s’toria di alcune famiglie no bili del nosiro Regno, che altri però
attribuiscono al Presidente Gaetano Argento.Ma imoderni noslri critici la
vogliono a ragion tuttagdi esso d’ Andrea ’scorgendovi in essa un metodo tutto
suo proprio, poichè l’Arge’nto quanto dotto, altrettanto un pò scarso nell’ordine
delle scritture. Lasciò finalmente più volumi di allegazioni, come dice ne’
suoi avi vertimenti, mapochediqueſte sonoſtate conservatedaalcuniscrit t-ori,ed
inseritenellediloroopere,come dalStaibano,Silva,Ma radei, e Sorge (3). ANELLO
(Gabriella) mandò'a ſtampa: De judieiornm civiliflm
ordineadNeapolisTribunaliumnormam,necnonpro-w'nriarum, [cz-,Fumane,qua e:
Curiarum infimarum Regni aélitandi i” aligui Imc minima 'varietas,
advertitur,Pro Clerieorum PraHicorum in ÌBÌÌÌQEÌIti”,6tF.P.juvemsisusa, con/*cripta:bre-w,Foggiaeſtu
dio/ae ju'UC’ÎIH-ls'l dieatus. Anno 1-780. in 8. ANGELIS (Baldaffarre de)
dicesi giureconsulto Napoletano‘, edeb be a nascere nella decadenza del secolo
XVI. come rilevafi dal ''.. le (l) Vedi i giornali rie’letterati Venez. t. 24.
pag. 89. (z) Sognare Vlsl. Francesco d'Andrea cet. 133. (3) Smge in'sua
pale/ira iuris t.z. allega:.7. Parlando del
DiCapua,ilVolubile,aiprincipiidel1683, dice che vent'anni prima a Napoli era
fiorita l'Accademia degli Investiganti; un semplice calcolo ci riporta adunque
all'anno 1663. Le parole del Volubile sono anche confermate, nello stesso
luogo,da Cesare di Capua (73). Io credo,adunque, di non errare affermando che
questa Accademia fu fondata nel 1663 e che il Buragna fu tra i fondatori
principali, pur non potendo, però, frequentarla a lungo, perchè alla fine di
quello stesso anno dovette allontanarsi col padre da Napoli. E, del resto,
l'Accademia non fa che dar nome e sede ad una associazione di uomini già uniti
da anni in un'intima comunanzadistudi, diintelletti,diaspirazioni.Andrea Con
cublet, uomo amante degli studi e delle dotte compagnie, è il fondatore, dirò,
materiale dell'Accademia, a cui assicurò (72) Non premessa al Parere dello
stesso, come da alcuni fu scritto, per la già notata confusione fra le opere
del Di Capua. Cfr. le n.6 e 61 di questo capitolo. (73) Nelle citate Lezioni la
lettera del Volubile è preceduta da una prefazione di Cesare di Capua, che ci
informa essere state queste Lezioni del padre suo, ancor vivente in quel tempo,
recitate appunto nelle riunioni degli Investiganti; e anche il Di Capua,
scrivendo nello stesso 1683, parla della Accademia come di cosa anteriore di
venti anni. Non vi può esser quindi dubbio. -76 V la vita con
la sua munificenza é la sede col suo palazzo; ma,virtualmente,l'Accademia
esisteva già(74). Fra gli Investiganti, col Di Capua, col Cornelio, col Buragna,
col Borelli, coi fratelli D'Andrea, troviamo G. B. Capucci, Camillo Pellegrino
(75), il dotto vescovo Giovanni Caramuele, Sebastiano Bartoli, L. A. Porzio e
qualche altro. Dal Volubile sappiamo che l'Accademia aveva per impresa un cane
bracco col motto lucreziano: « Vestigia lustrat »; motto e impresa che ben
rendono, insieme col titolo, la fi sonomia, gli scopi, gli ideali degli
Investiganti. E, invero, gli Investiganti non vanno confusi con gli
Addormentati, gli Insensati, con tutte quelle migliaia di in coscienti
perditempo che avevano formate le tante Accademie di quel secolo. L'Accademia
degli Investiganti si collega direttamente a quella del Cimento, fondata sette
anni prima a Firenze, e ne trapianta a Napoli l'opera e le idee; essa,
attraverso il Borelli e il Cornelio, mette capo a Galileo. Il Susanna stesso ci
dice che il titolo era stato scelto appunto ad indicare come gli Investiganti
si proponessero di percorrere le nuove vie scientifiche e filosofiche,
procedendo con la ri cerca e l'esperimento, simboleggiati nel cane bracco e nel
motto. In mezzo ai cultori della scolastica e della casistica, (74) Anima degli
Investiganti, anche per la sua grande attività, fu Leonardo di Capua; non è
però esatto dire, come il CARINI, (op. luog. cit.), che l'Accademia fu fondata
dal Di Capua; i contemporanei riconoscono, concordi, nel Concublet il
fondatore, tanto è vero che, scomparso lui, l'Accademia morì. Così erra
l'ORIGLIA, nell'op. cit., vol. II, p. 89 affer mando che il Vicerè Oñate favori
l'Accademia degli Investiganti, perchè, come abbiamo veduto, il viceregno
dell'Oñate durò sino al 1653 e gli Investiganti si costituirono in Accademia
dieci anni dopo. Secondo il D'AFFLITTO, uno dei principali fondatori del
l'Accademia fu F. D’Andrea. Questo illustre storico che nell'Apparato
delle antichità di Capua iniziò la via, che poi il Muratori percorse con passo
gigantesco, morì nel 1663;percuil'essereilsuonon fraquellidegliInvestiganti,èuna
nuova confermadiquantofu,piùsopra,stabilito:checioèl'Accademia era già
costituita nel 1663, - 78 che ancora abbondavano a Napoli, gli
Investiganti sorgevano a rappresentare nuove idee, nuove cose e nuovi tempi; ed
è perciò che è una gloria pel Nostro l'esserne stato uno dei fondatori, mentre,
nello stesso tempo, è documento della sua grande cultura scientifica e della
modernità del suo in telletto. (76) Dell'influsso esercitato dagli Investiganti
contro il vaneggiare della grande turba dei poetastri seguaci del Marino,
abbiamo, fra le altre, una prova nelle parole dell'abate DE ANGELIS,
contemporaneo, nella citata Vita di Antonio Caraccio, luog. cit., p. I, p. 145.
Scrive il De Angelis: « In poco conto erano in quel tempo per tutto il regno di
Napoli.... la vaghezza e la purità dello scrivere italiano.... tenute. Per lo
contrario erano intesi i componimenti di coloro che dal proprio sregolato
capriccio e r a n d e t t a t i, c o n improprie metafor e.... e c c. ».
Aggiunge poi che il Caraccio si tolse da questa cattiva schiera di poeti per i
consigli e gli esempi degli Accademici Investijanti «uomini per universale
consentimento an noverati tra i maggiori e più ce'ebri letterati dell'età
presente e della passata»;efraimaggioridi siannoverailNostro.InfattiL’Imperio
vendicato del Caraccio non si può dire, in generale, infetto di cattivo gusto
secentistico, al contrario di altri scritti anteriori dello stesso poeta.
Senonchè il Cornelio, il Di Capua e il Buragna erano, oltre che scienziati e
filosofi, uomini di lettere e gli ultimi due, insieme con qualche altro, anche
poeti. E come nelle scienze, così nelle lettere, gli Investiganti rappresentano
un profondo distacco da tutto ciò che è comune, anzi volgare; essi, voltando le
spalle al marinismo, proclamano la necessità di una nuova poesia più conforme
al buon gusto e alle patrie tradizioni poetiche. Fra gli Investiganti non c'è
nessun m a rinista; essi ritornano al Petrarca e lo spogliano degli ele menti secentistici
che vi s'eran sovrapposti e intorno eserci tano un influsso salutare, che fu da
parecchi, della genera zione che sorgeva, sentito (76). E poichè il Di Capua,
in questo tempo,aveva per sempre abbandonate le muse,dob biamo ritenere che il
Nostro, il maggior poeta fra gli Inve stiganti, in questa Accademia, in cui
portò un contributo notevole di profondi studi scientifici, abbia esercitato
un preponderante influsso letterario, che corrisponde a quello
esercitato dallo Schettini nell'Accademia Cosentina (77). Il nome del Nostro si
lega, dunque, a tutta una rivo luzione intellettuale, che abbraccia la scienza,
la filosofia, la letteratura, e che certo deve essere meglio studiata e valu
tata. Se avessimo le opere scientifiche e filosofiche del B u ragna, potremmo
considerare tutti e tre i lati del prisma; ma non abbiamo che alcuni dei suoi
versi,iquali però ba stano a dlarci testimonianza delle idealità poetiche di
questa Accademia,della quale sono ifrutti migliori. Ma ci riman gono altri
scritti scientifici, come quelli del Di Capua, già citati, e, con nuove
ricerche, sarà possibile collocare gli I n vestiganti nell'importante posto che
loro spetta, fra gli acca demici di questo secolo. Quanto durò l'Accademia !
Per meglio fissare alcune circostanze della vita del Buragna, dobbiamo cercare
di ri spondere a questa domanda, almeno approssimativamente. Il Susanna scrive
che la vita di questa Accademia fu breve (78) (77) Nell'esaminare le rime del
Buragna, meglio vedremo delinearsi questa verità. In fondo gli Investiganti
sono precursori dell'Arcadia, tanto è vero, che fra essi colui che più visse,
il Di Capua, fu poi Arcade. Ma ognuno sa che vi furono due Arcadie e che la
prima aveva in sè ideali poetici nobilissimi. (78) Come al solito, le vaghe
espressioni del Susanna sono malfide per stabilire una cronologia con
sufficiente esattezza. Egli ci spiega come il Nostro, anche durante la sua
dimora a Lecce, e cioè, come fu già detto, dal 1663 al 1667, potesse continuare
a prender parto ai lavori degli In vestiganti, tuttochè lontano da Napoli;
infatti ora permesso di inviare per iscritto le proprie idee sciontifiche e
filosofiche. Dice il Susanna, (e cito il brano perchè getta un po' di luce sui
procedimenti di questa A c cademia ): «Licebat absentibus, ex Academiae
institutis, sua mittere de Philosophicis rebus cogitata, quae recitarentur in
congressu et per expo rimenta ad veritatis expenderentur trutinam. Moris quippe
erat altera hebdomadae die ibi dicere quae quisque sentiret; altera, voro,
insequentis heb d o m a d a e experimentis dicta exercer e ». Susanna. Il
metodo rispondeva agli scopi, ma vi era il difetto, comune a tante Accademie,
anche gloriose, di voler creare una discussione che era fine a sè stessa e di
cui, spesso, non v'era bisogno. -79 e ciò ripetono coloro che
ho citato; anzi il Caravelli (79), in un accenno, scrive: « Disgraziatamente la
coraggiosa ed importante Accademia morì quasi sul nascere ». D'altra parte lo
stesso Susanna viene a parlare dell'Accademia soltanto a proposito del ritorno
del Nostro da Lecce, dicendo che egli fu accolto dai soci festosamente e prese
parte alle riunioni degli Investiganti,cheperò, dopononmolto,cessarono.E così
altri contemporanei, pur notando la breve esistenza dell'Acca demia, non ci
parlano di una vita addirittura effimera; anche l'opera esplicata dagli
Investiganti presuppone una certa d u rata della società. E se il Nostro prese
parte ai convegni in casa del Concublet, dopo il 1667, e cioè dopo essersi
defini tivamente stabilito a Napoli, e se, d'altra parte, l'Accademia non ebbe
lunga vita, la fine degli Investiganti dovrà cadere. Ma io credo che
l'Accademia abbia continuato a vivere fino a quest'ultimo anno; me ne foruisce
una prova abbastanza convincente la valutazione delle cause per cui l'Accademia
stessa finì. Il Susanna scrive che ciò avvenne per essere Andrea Concublet venuto
a mancare (80); e così, su per giù, gli altri (81). Ora, tenendo legittimamente
per sicure le notizie dei contemporanei, noi sappiamo che nel 1670 il Concublet
era ancora nell'Italia meridionale; in fatti appunto in questo anno G. Alfonso
Borelli stampava (CARAVELLI, op. luog. cit., p. 178. (8 0 ) Però, (ed appare
anche dalle parole del Volubile ), si tratta d i partenza e non di morte del
Concublet, come credette il CARINI, nell'op. cit., p. 523. Il Volubile non ci
dà alcuna notizia sulla durata dell'Ac cademia. (81) Qualcuno accenna ad
ostilità dei Vicerè verso gli Investiganti; e, anzi, il CARAVELLI, al medesimo
luogo dell'op. cit., fa terminare l'esi stenza dell'Accademia per soppressione
ordinata dal governo. « Fosse, scrive, invidia o sospetto, o innato spirito del
male, la dottissima e tran quilla adunanza fu messa in mala voce e, dopo
qualche scissura e qualche atto violento, ne fu ordinata la soppressione
dall'imbestialito governo vi ceregnale ». Senonchè, per vero dire, e non per
tenerezza verso l'infausto governo dei Viceré, questa notizia non risulta da alcun
documento deltempo, 80 Intalmodo ilBuragna accresce valasuadottrinaelasua
fama, ma s'avvicinava rapidamente per lui anche il momento dirinnovareildolore,giàprovatodiecianniprima;ildo
lore di staccarsi ancora da tutta quella operosa vita di pen siero, da tutte le
più care abitudini intellettuali e le più n o bili amicizie, per ricominciare
il pellegrinaggio nella provincia. L'ora della giustizia era scoccata per
Giovan Battista Buragna, dopo lunghi dolori. Per quanto fitta fosse la tela di
calunnie, di cui parla il Susanna, per quanto i Vicerè. È l'opera: De
motionibus naturalibus a gravitate pendentibus. Reggio 1670, non del tutto
ignota agli studiosi. L'Accademia ci fornisce ancora una prova della
impossibilità che il Buragna sia rimasto a Cosenza sino al 1665. (Cfr. la nota
48 di questo capitolo). L'Accademia verrebbe a protrarre la sua vita oltre i
limiti cho le notizie del Volubile e del Di Capua consentono. -una sua
opera scientifica (82), dedicandola al Concublet, parlando, anzi, nella dedica,
degli Investiganti e della impor tante opera loro; ed è troppo noto il
significato di queste dediche a mecenati intelligenti e generosi, perchè debba
di lungarmi a dimostrare che ciò prova la presenza dello stesso Concublet a
Napoli. Non si può, quindi, di molto errare fissando dal 1663 al 1670 la durata
di questa Accademia, che racchiuse la più eletta. Francesco D’Andrea. Andrea.
Keywords: investiganti, salotto degl’investiganti, villa Iambrenghi, Candela,
investigare, vestigio, motto: investigare, sequere, segno – segno, di sequere,
non sequitur, sequitur, il cane, che tipo di cane e il meglio investigante –
l’atomismo – vestigio, Boezio, vestigio, segno, nota – latinismo, Cicerone su
vestigio, nota, segno, notificare, segnare, segnificare, significare,
vestigare, investigare, interpretare il segno, seguere il segno, segno non
sequitur, segno e consequenza, sequenza logica, segno e sequenza, etimologia di
‘vestigare’ – cfr. tedesco ‘steigen,’ anglo-sassone stagan, greco stechos --. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice ed Andrea” – The Swimming-Pool Library.
Grice ed Andria –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Massafra). Filosofo
italiano. Grice: “I like Andria; of course he brings more problems than
solutions but that’s philosophy even if his philosophical credentials are
obscure! “He did write a philosophical chemistry and a philosophical
agriculture, but that’s because at Naples there were only two faculties: law
and philosophy – he also wrote a ‘medicina filosofica’ – Grice: “Andria’s
theory of life – as he calls it – osservazione generalie sulla teoria della
vita’ – owes a lot to Aldini and Haller-- Mainly he elaborates and refines Haller, if
you believe it – it’s all Italian to me, so it’s eccitbabilita, sensibilita, ed
irritabilita. “Andria goes on to define this eccitabilita in terms of the
‘fluido elettrico’ con ‘sende nel cervello e nei nervi’ – which galvanism
smacks of Aldini. Grice: “Andria classifies ‘vita vegetale’ o delle piante, and
‘vita animale’ – Note that ‘social life’ is understood by ‘eucarioti’ of higher
order, in terms of reproduction (of life – hence re-productum). A fronte de'
profondi misteri dell'immensa, ed eterna meccanica, colla quale l’Autor del
tutto à voluto che sian le cose disposte ed ordinate, la forza dell'umano
intendimen to si trova per l'ordinario talmente oppressa dalla propria
picciolezza ed imbecillità, che o totalmente impossibile le riesce di penetrarvi
dentro, o appena l'è concesso di conoscerne le più esterne apparenze; o pur
finalmente, sembrandole di esser riuscita nel suo disegno, realmente non fa
altro, che delirare e perdersi dietro la brevità e l'inezia delle sue
idee.» (N. Andria, Osservazioni generali sulla teoria della vita, 1804).Tre
anni dopo la sua morte il suo nome apparve nella Biografia degli uomini
illustri del Regno di Napoli il suo primo profilo bio-bibliografico Gennaro
Terracina. Studiò nella città partenopea giurisprudenza, pubblicando nel 1769
un Discorso politico sulla servitù. Decise, poi, di proseguire i suoi studi
applicandosi alla medicina. Allievo di Domenico Cotugno e Giuseppe Vairo, a
soli 23 anni aprì a Napoli una scuola privata; a 27 concorse con il Cirillo per
l'ottenimento della cattedra di medicina pratica, poi conferita a
quest'ultimo. La sua attività di cattedratico, svoltasi tra Sette e
Ottocento, nel contesto di un particolare periodo storico, fu principalmente di
ricerca e didattica presso l'Università Regia degli Studi di Napoli, dove
ricoprì vari insegnamenti dalla storia naturale, alla medicina teoretica e
pratica, all'agricoltura. Pubblicò diverse opere ad uso degli studenti di
medicina ed apprezzate altresì in varie parti d'Europa. Nel 1808 Nicola
Andria prese a dettare lezioni di medicina teoretica; di patologia e di
nosologia. Malato ed ormai cieco, fu congedato agli inizi del 1814, insignito
del titolo di cavaliere da Gioacchino Murat (cognato di Napoleone), e il 9
dicembre morì di tifo a Napoli, dove fu seppellito nella chiesa di Santa Sofia,
insieme al collega Antonio Sementini. Nicola Andria ha subìto per più di
un secolo una "congiura filosofica" perché medico e perché di
Massafra, da cui gli epiteti spesso riferiti, nei pochi profili apparsi, alle
sue origini provinciali; tuttavia, egli fu decano a Napoli ed ebbe amicizia e
consuetudine epistolare con i nomi più noti ed importanti del panorama
scientifico europeo dell'epoca. Non esistono studi sull'autore, eccezion fatta
per alcuni contributi arenatisi agli anni ottanta del secolo scorso. Nicola
Andria fu socio fondatore e membro del Real Istituto d'Incoraggiamento e del
Comitato Centrale di Vaccinazione, oltreché di molte altre Accademie italiane
ed estere. A Massafra, città natale del medico filosofo, com'egli stesso si
definisce, portano il suo nome ben tre vie (Via Niccolò [sic] Andria,
Lungovalle Niccolò [sic] Andria e Vico Casa di Niccolò [sic] Andria) e una
Scuola Media. Il 10 settembre 1997, in occasione del 250esimo anniversario
della nascita, a Massafra è stato fatto un annullo filantelico speciale e una
cartolina commemorativa. Pensiero «Non vi è una materia in Natura che
abbia per sua qualità intrinseca la vita, e meriti perciò di esser chiamata
vivente. Né la vita è un fenomeno semplice, che a una sola materia appartenga,
e nasca da una sola forza. Molte son le materie, e queste fra loro
diversissime, che concorrono alla formazione di una macchina, in cui la vita
risiede, le quali materie intanto, trovandosi separate, niuna vita producono»
(N. Andria, Osservazioni generali sulla teoria della vita, 1804) Il contesto
storico in cui Andria vive fa da “cerniera” ai due secoli più importanti della
storia della scienza e della civiltà: il Settecento e l'Ottocento hanno
“gestato” l'umanità contemporanea, provocato le guerre e portato l'uomo sulla
Luna. Andria vive a Napoli, per certi versi quasi “fulcro” e “convoglio”
delle principali idee e scoperte dell'epoca; la sua particolare sensibilità di
scienziato di formazione filosofica lo porta ad assorbirne il carattere
rivoluzionario e ad “anticipare” i tempi. La sua condizione di provinciale
in-urbato, tuttavia, lo “veste” di una semplicità ed umiltà di cuore, la quale
si esprime nelle lodi del creato e dell'uomo, «congegni perfettissimi» di
straordinaria bellezza. Oggi, questo significa “ri-orientare” la ricerca
scientifica verso un fine che non sia l'“utile” economico (politico, militare),
ma ricerca del vero e del bello nella tutela e nella salvaguardia di tutta
l'umanità. Dagli anni cinquanta dell'Ottocento la circolazione delle idee
andriane (di “freno vitalistico” al meccanicismo più sterile) si arena sulla
sponda di un “nuovo lido”: quel meccanicismo biologico che dell'anima e del
pensiero ha fatto solo un aggregato chimico di molecole. L'eco dell'appello di
Nicola Andria, così instancabilmente perpetrato, in ricerca come in didattica,
si perde; si perde alle soglie di una svolta importante, la stessa che avrebbe
prodotto la Grande Guerra, il delirio dei nazionalismi, la credenza che debba
sopravvivere il più abominevole degli uomini, dove “fortezza” vale
essenzialmente in-umanità, dis-umanità, non-umanità. «Il filosofo [...]
in tutto questo giro di cose, ravvisando le tracce della sapienza infinita di
un Dio, è obbligato ad esclamare: quanto ammirabili, o Signore, sono le opere
tue!» (B. Vulpes, in N. Andria, Elementi di Chimica Filosofica). Opere: “Discorso
politico sulla servitù” (Napoli, Campo); “Piano di un corso di chimica pratica”
(Napoli); “Trattato delle acque minerali” (Napoli: Manfredi); “Lettera
sull'aria fissa” (Napoli); “Elementi di
chimica filosofica” (Napoli: Manfredi) -- Delle forze e delle materie di cui si
occupa la chimica -- Del fuoco, sti che nederivano --- Delle principali
combinazioni dell’ossigeno ede'composti chene risultano -- INTRODUZIONE alla
Chimica – Dell’unione delle altre materie fi. nora non iscomposte, e de’
corpi,che quindisene otten -- Della cristallizzazione -- ne,edellasublimazione
-- Della fusione. X zir X piùsolidi basamenti del globo terraqueo, che indi ne
sorgono -- Dell'ossigenazione, & quindi della combustione e dell'atmosfera
terrestre.-- Della congiunzionedelleterre,ede? -- Della soluzione. --- Degl’altri generi di
combinazioni – Dell’operazioni chimiche -- Della distillazione, dell'evaporazio
-- Della fermentazione, e della putrefazion. “Elementi di Fisiologia, Napoli,
V. Manfredi); “Materia Medica” (Napoli, V. Manfredi, “Elementi di Medicina
Teoretica” Napoli, V. Manfredi); “Istituzioni di Medicina Pratica, Napoli, V.
Mandredi); “Prospetto generale dell'istituzione di agricoltura”; “Osservazioni
generali sulla teoria della vita, Napoli, V. Manfredi); “Riflessioni su di un
caso singolarissimo di gravidanza fuori dell'utero”; “Elementi di Medicina”. A
partire da V. Cuoco, vari studi sono stati editi a proposito della Rivoluzione
napoletana del 1799, la quale diede vita alla Repubblica partenopea, preparata
dal triennio giacobino sin dal 1796. Per
l'internazionalità del suo pensiero si vedano gli studi di M. A. Duca in Il
pensiero scientifico di Nicola Andria, Massafra, A. Dellisanti,, 95-9
Melania Anna Duca, Il pensiero scientifico di Nicola Andria, Antonio
Dellisanti Editore, Massafra Melania
Anna Duca, Nicola Andria: Epistolario (1775-1794). Lettere a Canterzani, Haller
e Spallanzani, Antonio Dellisanti Editore, Massafra. Melania Anna Duca, Nicola
Andria et les origines de la psychiatrie moderne. Une contribution
historiographique, in «Psychofenia», n. 23,
Melania Anna Duca, Troubles de l'alimentation, hypocondrie et mesmérisme
en Nicola Andria, in «Psychofenia», n. 24,
Altri progetti Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene
immagini o altri file su Niccolò Andria
Sito dedicato al medico e filosofo Nicola Andria, su nicolaandria. 21
ottobre 15 maggio ). Felice Mondella,
«ANDRIA (D'Andria), Nicola», in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 3,
Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1961. iFilosofi italiani del XVIII
secoloFilosofi italiani Professore Massafra Napoli. Francesco Nicola Maria
Andria. Andria. Uno de' fenomeni piùs orprendenti, che nell'immensa università
delle cose continuamente si ammiran, è senza dubbio la vita, o sia quel
l'assortimento di circostanze particolari che à luogo negli esseri organizzati,
e che decide del la loro individuale esistenza. La qual cosa fa, che riesca un
tal fenomeno per noi anche il più importante, non solo per l'interesse che la
no stra curiosità ne prende, come di un affare che tanto da vicino ci riguarda,
ed è tutto nostro privativô;ma dippiùperl'impegno,incuina turalmente ci dee
mettere,di ravvisarne le prin cipali molle, ed i mezzi percið di farlo corre re
alla lunga, e con passi meno stentati è più sicuri. Disgraziatamente però è
accaduto per conto della vita quello che à soluto sempre avvenire trattandosi
de'gran fenoineni della natura,tutte le volte che si è dall'uomo concepito l'
ardito disegno di rischiararli, o d'interpetrarli in qua lunque modo. A fronte
de profondi misteri del l'immmensa ed eterna meccanica, colla quale a2
l'Au. / 582663 |Autordeltuto à volutoche sian le cose di sposte ed
ordinate, la forza dell'umano intendi mento si trova per l'ordinario talmente
oppres sa dalla propria picciolezza ed imbecillità,che o totaliñente
impossibile 'le riesce di penetrarvi dentro tutto si è abbandonato all'
osservazione ed all'indagamento de solifatti. Col favore di un metodo cosi
servile, che è pur.quello di cui la Natura si compiace, è permesso alle volte
di giugnere allo scuoprimento di qualche picciola.
edisolataverità,laqualeincanto senzal'aju. to di altre innumerevoli, all'
intendimento u m a notuttaviaignoteenascoste sarà. tana dal render piena e
perfetta ogni nostra cox poscenza. Nelle cose qui da noi rammentate; e che da
ogni uomo anche di niuna esperienza son fa cilmente ammesse econosciute,sembra
esser con tenuta la ragione, perchè nella cognizione del, appena fes 4 1%
è concesso di conoscerne le più esterne apparenze; o pur finalmente j sem
brandole di esser riuscita nel suo disegno, real. mente non fa altro,che
deliraré e perdersi die tro la brevità e l'inezia delle sue idee.Se qual che
volta diversamente è avvenuto; è stato appunto, quando diffidando l'uomo di
sèmedesi sempre lon dine Ma pur bisognerà convenire,che fra
le dif ficoltà, onde1'umana ragione trovasicontinuar mente inceppata,ed in
mezzo delle tenebre,che l' avvolgono e rendono i passi suoi sempre vam cillanti
ed inceni,qualche verità di primo or 5 fenomeno della vitatanto picciolo
avvanzamena to si sia finora fatto, quanto ognun sa; non ostante l'importanza
del medesimo, e la forza colla quale, come si è già osservato, à dovuto
richiamar sempre a sè l'attenzione e l'indagine umana. Ne fanno testimonianza
le tante cose, che in tutte l'epoche della Medicina se ne sono dette ed.i tanti
sistemi che se ne sono imma ginati.Iquali,adireilvero altroapparato per
lopiùnonanno chediunapesanteerus dizione,quella cioè che ordinariamente pud tro
varsi nella storia delle idee e de'pensierialtrui, ricavati non dalla natura,ma
dal fondo di un'im maginazione,spesse fiatę riscaldata,e mal pre venuta. E se
ammirazione qualche võlta pare che tai sistemi si abbian conciliato, cid solo
va inteso per parte di coloro, che senza conoscer l'arte ben difficile di saper
non sapere, e privi perciò di ogni criterio, tutto ammettono ed in gojano,contenti
della sola apparenza, o di qual che picciolo inal concertato artifizio.
dine alle volte si rinviene,che una facile e ge sterale osservazione fa
saltare agli occhi della maggior parte,o che gratuitamente si trova dal la
Provvidenza accordata per intrinseco ed essen ziale appannaggio dell'umano
intendimento.In una tal rubrica dee principalmente quell'assioma registrarsi di
logica universale, in cui è stabili to secondolediverseinnumerevoli circostan.
ze,che possono aver luogo nella grande,e nel laminuta
esempreugualmentesorprendente meccanica della Natura. Ne inutile sarà ora di
osservare,che una tal cosa sembra trovarsi prin cipalmente verificata nel gran
fenomeno della vi ta, ove gli Uomini fin dal principio an dovuto conoscere ed
ammettere una forza,che unicamen te ne decide.Del che ne abbiamo un argomento
non equivoco nel privilegio,col quale un tal fe nomeno à solo meritato di esser
nel comun lin guaggio annunziatocon una parola,ladi cui eti mologia vien
precisamente in quell'altra voce che in Natura niun fenomeno vi sia senza
una forza che lo produce, e che il principio perciò di ogni movimento, o azione,
o fenome no che si voglia dire,in una forza consiste.Se non che questa forza
medesima può esser sem plice o composta, intrinseca o altronde ricerca ta
con 71 contenuta,che per immemorabile universal con: senso altro
che forza non à soluto mai indie care (a). Questa semplicissima osservazione,
che è pur vera e grande e da ogni ragion sostenuta, sembra la più atta a
somministrare un solo pune to di appoggio, onde alcuno possa spingersi in
un'analisi profonda delle cose della vita; e in tal modo potrà ben procacciarsi
di che ragione, volmente contentare la sua curiosità,e,ciò che importa molto di
più, soddisfare quella cocente natural sollecitudine,che ognuno à di render la
propria esistenza,per quanto all'Uom permes
so,piùdurevoleemenoinfelice,Almenocosi sembrando al nostro corto intendimento,prendes
rem volentieri una tal traccia per ordinare l'ana lisidellavita
eportarlaperoratantoinnan zi,quanto dalle nostre deboli forze, e dallo sta to
attuale delle nostre cognizioni potrà esser permesso. E mentre questo, e non
altro, sarà (a) "Vita" viene da "vis", come anche
"virtus", "vir","virilitas", le quali parole
tutte fignificano forza: o ciocchè nella forza consiste, o la contiene
Nella..considerazione mo difare,ilprincipalsegno dellenostremife che qui
ci proponia ilnostroprincipalfine ciifaremundoveredi non andarci divagando in
altre cose aliene dal medesimo, o poco atte a raggiugnerlo.Eviterem soprattutto
le citazioni; ed ogni esame di opi nioni diverse ed il rischio perciò di
attribuir ad alcuno ciò che ad altri appartiene e di andar nuovendo picciole ed
inutili gelosie. Contenti di prender dal sacro deposito della Scienza ciò che
al nostro bisogno potrà esser bastante, la --scerem ad ogni depositario poi la
cura di riven dicar il suo, tutte le volte che lo crederà o p portuno al
proprio interesse · Per noi, l'avrem certamente a singolar fortuna quando ci
venisse accordata la sola scarsa lode,.che neppur a coa loro sinega,chenon
potendo per naturale inet titudine alcun vantaggio recare,se ne dimostra no
almeno premurosi ed invogliati. Della qual nostra buona volontà ci lusinghiamo
che ottima testimonianza ce ne potrà principalmente venire da Giovani che alle
nostre lezioni an sempre assistito, o da chiunque altro che non isdegna di
trovar tuttavia buono per il suo uso ciò che per mezzo nostro l'è potuto in
qualunque modo pervenire. sarà sarà l'assioma di sopra stabilito,
dal quale si potrà per avventura losviluppo ottenere di con seguenze importanti,
che disposte con metodo dalla natura istessa suggerito, ci potran forse a quel
termine condurre, che formerà ora l'og geito principale di ogni nostra ricerca.
Se la vita dunque in una forza consiste 3 che continuamente si esercita
bisognerà neces sariamente supporre attaccataed inerente una tal forza alla
macchina che vive, Questa qualunque facoltà che negli esseri organizzati
risiede per vivere, si è voluto in questi ultimi tempi ecci tabilità
chiamare.In vece di una tal parola,non saressimo ripugnanti, che quella ancor
si usasse di vitalità,e d'irritabilità universale,e di for za nervosa,o altra
qualunque di simil calibro; le quali ancorchè si sia preteso che possan cose
diverse designare, in ultima analisi perd real mente non sono intese,che
adichiarare il prin cipio generale della vita considerato dadiversi lati, o
sotto forme diverse. Fra 'l' espressioni o r qui accennate noi intanto
riterremo laprima, si perché si trova bastante per esprimer ciò che accade,si
perchè troviam un tal nome già qua si universalmente ammesso.COM 9 b >?
Vi sarà anche per foi un altro motivo, quello cioè di potersi tal Osserv.
lità 1 + 10 cosa in questo modo rappresentare, qual da noi si
crederà più opportuna, senza esser obbligati di ammetterne qualunque altra
corrispondente al le altrui idee. Una definizione, che venga a tempo, toglierà
sempre ogni equivoco,che nel le diverse maniere di immaginare può aver luo go,
ogni volta che con una sola voce sia venu to il talento di annunziarle. E ' un
fatto costante che durante la vita si sentano dagli esseri organizzati le
impressioni, che molti agenti son capaci di farvi, ed alle quali si risponde
sempre con del movimento, o con un particolar senso che si risveglia. L'ec
citabilità è quella su di cui cade l'operazione di ogni natural agente. Questi
agenti medesimi si an poi voluto chiamare stimoli,e il prodotto della di loro
operazione eccitamento. Il quale non dichiarandosi altrimente che per mezzo del
moto,edelsenso,possonoben quindiqueste due cose rappresentare le forme
principali del medesimo.Sembra dunque che per la vita vi bi sogni l'eccitabilità
da una parte onde viene il senso ed il moto,e dall'altra il concorso de'sti.
moli onde l'eccitabilità si mette in azione.Sena za eccitabilità l'operazion
de'stimoli è inutile, e niuna vita produce, e senza stimoli l'eccitabi
Tutti gli stimoli poi, per ragion della di loro intrinseca particolar
natura lità non è richiamata'a qualunque azione, ed alle ordinarie forine
di eccitamento. si sono divisi in esterni, ed interni. Nella classe de primi
l'aria va messa, ed ilcalorico,e laluce,ed il cibo,ed il sangue, ed ogni altra
material cosa, quam li da noi si sono considerate sempre come gli stia moli
della vita,econ tal frase le abbiamo an che indicate tutte le volte che ci è
toccato d'in terpetrarle. Di questi stimoli intanto mentre che gli esterni
molte volte bastano a risvegliare un giro di eccitamento e di vira comune niera
di operare, e diversa m a 9 a tutti gli esseri orginizzati, non bastano poi
senza il concorso degli interni a costituire una vita per feita, com ' è quella
dell'uomo, fra tutti gli al tri esseri che vivono il primo certamente ed il più
nobile. gli organ può operare. Per interni al contrario s'intendono i movimenti
dell' animo e quindi ogni morale azione, che non lascia pur in una maniera
dichiarata di rimbombare sugli organi del corpo, Corrisponde tutto ciò
perfettamente a quello, che gli antichi delle sei cose, c o m u nemente
dettenon naturali,intendevano,le che fisicamente su Quan b2 Quando
l'affare è precisamente considerato me' termioi finora proposti, niuna
conseguenza potrà dedursi onde favorir dichiaratamente lo
statoattivo,opassivodellavita.Ogni quistio ne diventerà perciò inutile,e sarà
dissipato si. milmente lo scandalo, che alcuna delle opinioni accennate
potrebbe recare a chi non ama occu parsi delle cose profondamente. Trattandosi
di opposti,facilmente possono diuna medesima co sa intendersi, quando questa si
consideri sotto i vari suoi aspetti,o in circostanzediverse.La vita a senso
nostro può ben rappresentare uno stato passivo guardata per un lato,e nel tempo
stesso uno stato pienamente attivo guardata per 1'altro.L'eccitabilità,o
siailgerme immedias to della vita relativamente ai stimoli de' quali nulla può
valere, è assolutamente pas siva.Ma addiviene di botto attiva dietro l'azio ne
de' stimoli medesimi, ricavando dal suo pro prio fondo quell'energia ed
attività,che spiega nell' eccitamento.Si potrebbe da alcuno chiamar: reazione
quella dell'eccitabilità.Ma questa reaa. zione medesima non è a buon conto che
una lità dunque è passiva relativamente ai stimoli, vera azione qualunque abbia
potuto essere il motivo, ed il modo di risvegliarsi. L'eccitabi senza,
atti attiva relativamente all' eccitamento ed a tutto il resto che
ne può venire.Con una tale inter petrazione possono dunque benissimo restar con
ciliate le due idee opposte, le quali si trovano ugualmente vere, allogandosi
ognuna nella sua propria nicchia. Nè converrà dimenticarsi in questa spezie
d'indagine,che non essendovi azio ne in Natura, che non sia il prodotto di
un'al tra, per l'intelligenza della prima basterà cono scere ed ammettere
quella, che inimediatainente laprecede,eneformaperciòlacagione imme diata.
Perchè altrimente per uscir d'imbarazzo', e finirla presto, Essendo una verità
di fatto l' eccitabilità; ossialafacoltà cheàlamacchinaviventedi e muoversi,
non lo sarà meno il doversi quella trovar. sempre inerente alla maça si
potrebbe da principio ricor rere alla suprema volontà dell'Autor del tutto, ove
senza contrasto alcuno incomincia la serie
alternadicagioniedeffetti,chel'immensa ca tena rinchiude delle cose del Mondo.
Ma in tal modo bisognerebbe pur convenire,che invece di sciogliereilnodo
nonsifarebbealtrocheru vidamente tagliarlo,e distruggere così ogni fi lo,nel
quale è unicamente raccapezzatol'ordi ne delle cose. poter sentire chig
di ravvisarvi distintamente l'uomo os e l'uomo arterioso, e l'uomo
muscolare ed il nervoso, china suddetta in tutto il corso della vita. a
tutti i peza non che può nascere il dubbio, che una tal fa coltà risiegga
ugualmente applicata a tutti i zi della macchina vivente,o pure alcuno ve ne
sia onde si propaghi, e venga agli altri comu nicata. Vi sono de' Fisiologi che
nella costitu zione della macchina animale vi ravvisano tante parti, che con un
singolar andamento dimostra no di esser molto fra loro diverse Se, quantunque
poi tutte intese alla formazione di quelli uno, che l'intera macchina
rappresenta e cosi di tutto il resto. Corri sponde tutto questo apparato di
nuove parole, o per Si an voluto insignire col nome particolare di sistemi, ed
è quindi insorto il sistema irrigatore, il sistema assorbente, il nervoso, il
muscolare, il cellula re, e ogni qualunque altro che il bisogno potrà
richiedere. Vi è stato chi segnando con mag gior precisione i contini diversi
di cotai siste mi, per rilevare in tal modo l insigne differen za che fra i
medesimi sembra passare,e la gran parte che ciascuno di essi nella costituzione
del corpo prende, non à avuto difficoltà nella con siderazione, che à voluto
fare della macchina umana seo, Noi intanto non sapressimo cosi
facilmente intendere quanto la particolar considerazione de' pezzi della
macchina animale, principalmente di versi fra loro per la diversità delle
forme,o di altre circostanze non essenzialiallaparticolar na tura della di loro
pasta originale, possa contri buire a far ravvisare l'eccitabilità nel suo
unico e vero e general aspetto. Sembra la medesima esser qualche cosa di cale
importanza, alleforme,oadaltreminoricircostanzeappar tenga,ma bensi
direttamente alla pasta già ram e per dir meglio di parole usate con
nuova regoa la, a ciò che da altri con tuono più semplice ediungustopiùantico
manelfondosignifi. cante lo stesso, si è derto sostanza cellulare
vasi,enervi,emuscoli',eossa nel farne la particolare storia, e stabilire colla
medesima i fondamenti della Fisiologia. Prima di passare ad altri argomentinon
sa ràsuperfluo soggiugneranche qualchecosasul flo gisto,affinchèintalmodo
iprincipiantis'istruisca no di una dottrina,la quale ne'tempi precedenti
haavutotantoluogo intutteleteoriechimiche. E'anzi a tutti noto di essersi
introdotto qua si universalmente l'uso di questa vocabolo an cora nelle altre
Scienze. I Chimici, dopo di Sthal, pretendevano generalmente che dovesse
X 68 X in X 69 X intendersiper flogisto quella talcosa,che ata
caccandosi a'corpi producesse in qualunque modo il principio della loro
infiammabilità.si altri. buivanoin oltre al medesimo moltissimi altri fenomeni.
Siccome nella combustione si raduna una grandissima quantità di fuoco, di cui
prima non eravi alcun vestigio,cosi Sthal sorpetto che in questa operazione si
sprigionasse quel fuoco, il quale trovavasi nascosto nel corpo infiammabile.
Questo fuoco nascosto in modo da non dar segno della sua presenza costituiva il
flogisto. E quindi si ravvisaa primo colpo d'occhio, che il fogi sto fosse
indentico col calorico aderente. M a la natura de'fenomeni richiedeva che
quello com stituisse un ente di suo genere, trasfersisi tutto intero da uno in
un altro corpo. Quindi bisognò immaginare una materia,o sia una base, alla
quale il fuoco, o sia il calorico, si at taccasse ed in certo modo addivenisse
fisso, cosi composto acquistasse un'adesione colle para ti de' corpi
infiammabili. Nella prima edi zionediquestenostreistruzionicisiamo indu striati
di esporre questa teoria, sostenendola con tutte le nostre forze; e per lo
spazio di quasi cinque lustri ce ne siamo serviti nel ri schiarare tutti gli
argomenti chimici. Ed in ve ro colla sua applicazione vedevamo che i feno meni
non restavano spiegati con molta infelici tà. Questo è stato ancora conosciuto
da ruta ti i Chimici di gran nome, che fiorirono dopo di Sthal, onde la teoria
del flogisto si era qua potesse affinchè E3 si > X 70 X
siresa universale fino a'tempi presenti.Non può
negarsiperd,chenonmaiiltlogistocosi inimaginato siabbiapotuto apertamente
diinostra re; e dal fin qui detto si deduce la sua ipotetica composizione.Cid
non ostante era una teoria comoda, ed avea il suo luogo per mancanza di una
migliore.Il progresso però della Chimica pneumatica, il quale a tempi nostri è
addivenu to grandissimo, non solo l'haresa sempre più dubbia, ed inetta alla
spiegazione de'fenomeni; ma (quello che magiormente importa ) ne le
hasostituitaun'altra meno ipotetica,e più corri spondente
aifenomeni.Eglièvero,cheifau tori dell'antica teoria abbiano fatto grandissimi
sforzi per conciliare tutte le nuove teorie col flogisto; ma ora senza
difficoltà può dimostrarsi che questi sforzisiano stati infelici,come biso
gnosi sempre di nuove finzioni, o di false in terpretazioni. Keywords: chimica
filosofica, implicatura bio-chimica, biologia filosofica, teoria della vita,
vita, virtu, virilita – l’implicatura flogistica – Grice: what science?
Palmistry? What deliverance? Phlogiston theory? Rhetorical questions: he means
No and No. Or non rhetorical and they are formidable obstacles to his
constructive realism about which he could care less!--. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice ed Andria” – The Swimming-Pool Library.
Grice ed Angeli –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Venezia). Filosofo italiana. Grice: “I
like Angeli – I’m glad he dropped the ‘degl’angeli” – but then I would because
he is into the infinite (insert infinity symbol here) as so am I – mainly in my
elucidation of that Anglo-Saxonism of Indo-European origin (Latin, ‘mentatum,’
‘mentitum,’ ‘mentitura,’ dicitura) – ‘mean’ – I refer to a self-referential
clause to solve the problem, but then I also refer to Plato on geometry and the
idea of a ‘de facto’ versus ‘de iure’ instantiation of a ‘regressus ad
infinitum’ – So Angeli is bound to charm me!” Frate dell'Ordine dei gesuati,
nel 1668, con la soppressione dell'Ordine voluta da papa Clemente IX divenne
prete secolare. Delfino e fedele allievo di Bonaventura Cavalieri, insegna a Padova.
Fu l'unica voce autorevole di fine Seicento che continuò a difendere la teoria
degli infinitesimi, in palese conflitto con i gesuiti. Si dedica allo studio della geometria,
continuando le ricerche di Cavalieri eTorricelli. Passa quindi alla meccanica,
su cui spesso si trova in conflitto con Borelli e con Riccioli. Opere: “Della gravità dell'aria e fluidi,
esercitata principalmente nei loro omogenei” (Padova, Cadorin); “Problemata
geometrica sexaginta” (Venezia, La Noù); “De infinitorum spiralium spatiorum
mensural” (Venezia, La Noù); “Accessionis ad steriometriam, et mecanicam”
(Venezia, Noù); “De infinitis parabolis, de infinitisque solidis ex variis
rotationibus ipsarum, partiumque earundem genitis” (Venezia, Noù);
“Miscellaneum geometricum” (Venezia, Noù). Note
Fonte: M. Gliozzi, Dizionario Biografico degli Italiani, riferimenti in. Mario Gliozzi, «ANGELI, Stefano degli», in
Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 3, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, 1961. Àngeli, Stefano degli, in
TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Amir
Alexander, Infinitamente piccoli. La teoria matematica alla base del mondo
moderno, Torino, Codice edizioni, 353.Kirsti Andersen, "Cavalieri's method
of indivisibles." Arch. Hist. Exact Sci. 31 (1985), no. 4, 291-367 Stefano degli Angeli, su TreccaniEnciclopedie
on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Stefano degli Angeli, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Stefano degli Angeli, su MacTutor, University of St
Andrews, Scotland. Opere di Stefano
degli Angeli / Stefano degli Angeli (altra versione), su openMLOL, Horizons
Unlimited srl. Pietro Magrini, Sulla
vita e sulle opere del Padre Stefano degli Angeli matematico Veneziano del sec.
XVII memoria di Pietro Magrini, letta all'Ateneo Veneto 10 Luglio 1862:
Estratta dal Giornale Arcadico; tomo 45 della nuova serie, Tip. delle belle arti,
1866. Filosofia Matematica Matematica
Categorie: Matematici italiani del XVII secoloFilosofi italiani Professore1623
1697 23 settembreMorti l'11 ottobre Venezia Padova. Stefano
d'Angeli, veneziano, lettore nello studio di Padova, provinciale veneto della
sua religione de' gesuati, che fu soppressa, e discepolo di Cavalieri, di cui
scrisse, 'Herculem geometricum alterum Bonaventuram sc. Cavalerium, cui
devotione i habitu sui conjunitillimus eiusque sub disciplinis tyrocinium in
geometria ad novem dumtaxatmenses, ipso a vivis mei mortali angore, qui tunc ad
eram, o geometrarum omnium luctus, aciactura sublatum, posui auspican tillinum,
orc: Siren de celebre Cavalieri colle molte opere, che manda alla luce, e
spezialmente per la sua geometria degl'indivisibili, l'origine della utilissima
analisi degl'infinitamente piccoli, come Itall'oinne fanno menzione i Chi
ariss. Giornalisti. Ma sono opere dell'Angeli: "Problemata", "De
infinitis parabolis", "Miscellaneum hyperbolicum, o parabolicum";
"Miscellaneum geometricum", "De infinitorum spiralium spatiorum
mensura". Le Considerazioni sopra la forza di alcune ragioni
Fisico-matematiche addotte da Riccioli nella sua "Astronomia
Riformata" *contro il sistema copernicano*; le seconde *contro il moto
diurno della terra piegato da Manfredi nelle risposte alle prime riflessioni di
Stefano de Angeli; le terze e le quarte sopra la lettura di Borelli sopra la
confermazione di una sentenza dello stesso prodotta da Zerilli, ecc;
"Della gravità dell'aria, e de'audi"; "Dialoghi due";ed
altri tre gli stampo. The concept of infinitesimal was beset by
controversy from its beginnings. The idea makes an early appearance in the
mathematics of the Greek atomist philosopher Democritus c. 450 B.C.E., only to
be banished c. 350 B.C.E. by Eudoxus in what was to become official “Euclidean”
mathematics. We have noted their reappearance as indivisibles in the sixteenth
and seventeenth centuries: in this form they were systematically employed by
Kepler, Galileo's student Cavalieri, the Bernoulli clan, and a number of other
mathematicians. It was Galileo's pupil and colleague Bonaventura Cavalieri
(1598–1647) who refined the use of indivisibles into a reliable mathematical
tool (see Boyer [1959]); indeed the “method of indivisibles” remains associated
with his name to the present day. Cavalieri nowhere explains precisely what he
understands by the word “indivisible”, but it is apparent that he conceived of
a surface as composed of a multitude of equispaced parallel lines and of a volume
as composed of equispaced parallel planes, these being termed the indivisibles
of the surface and the volume respectively. While Cavalieri recognized that
these “multitudes” of indivisibles must be unboundedly large, indeed was
prepared to regard them as being actually infinite, he avoided following
Galileo into ensnarement in the coils of infinity by grasping that, for the
“method of indivisibles” to work, the precise “number” of indivisibles involved
did not matter. Indeed, the essence of Cavalieri's method was the establishing
of a correspondence between the indivisibles of two “similar” configurations,
and in the cases Cavalieri considers it is evident that the correspondence is
suggested on solely geometric grounds, rendering it quite independent of
number. The very statement of Cavalieri's principle embodies this idea: if
plane figures are included between a pair of parallel lines, and if their
intercepts on any line parallel to the including lines are in a fixed ratio,
then the areas of the figures are in the same ratio. (An analogous principle
holds for solids.) Cavalieri's method is in essence that of reduction of
dimension: solids are reduced to planes with comparable areas and planes to
lines with comparable lengths. While this method suffices for the computation
of areas or volumes, it cannot be applied to rectify curves, since the
reduction in this case would be to points, and no meaning can be attached to
the “ratio” of two points. For rectification a curve has, it was later
realized, to be regarded as the sum, not of indivisibles, that is, points, but
rather of infinitesimal straight lines, its microsegments. La prima opera
alquanto diffusa, ch'egli c o m pose e pubblicò in Venezia nel 1658, ha per
titolo: Problemata geometrica sexaginta circa conos, sphae ras, superficies
conicas,sphaericasque praecipue ver santia. In questo volume sono svolte con
tutto il rigore della scuola dottrine,che in tali materie fan no continuazione
a quelle di Archimede e di A p o l lonio Pergeo. Frequentissime occasioni gli
si pre sentano di usare la teoria degl'indivisibili,e fra que ste è la
tesi,dove dimostra che il conoide parabo lico è la metà del cilindro ad esso
circoscritto. Il grande Newton nella sua Arithmetica Univer salis si occupa
anch'egli a lungo di questa propor zione, perchè la prende come suo tipo ad
insegnare la maniera, con cui l'analisi algebrica debba asse starsi alla
risoluzione delle questioni geometriche; ed è in questo luogo ch'egli stabilisce
le regole, che poi servirono a tutti gli analisti di norma in così fatti
esercizii. L'inglese geometra, dopo tutte le opportune considerazioni, arriva a
darci riphaeria subtendatur ab ipsis. pe per satemi il termine, confermò
ed ampliò con più s o lenne espressione nella molto profonda sua opera di
recente pubblicazione, che versa sui Porismi di Euclide. E d eccovi esperte
tutte le riflessioni che m'indussero e m ' incoraggiarono a passare a rasse gna
i lavori dell'uorno che mi proposi oggi di farvi ricordato. In mezzo ai tanti
curiosi problemi di questo li bro trovai degno di menzione quello così
annunziato: Datis tribus lineis invenire semicirculum cuius risoluzione del
problema una equazione del terzo la Quello che alcun poco potè
turbarmi nell'esame di questa opera si fu la qualche importanza, che il nostro
degli Angeli sembrava attribuire al così detto paradosso geometrico, perchè
abbagliò lo stesso Galileo, ed è che il centro di un cerchio è eguale alla sua
circonferenza. Questo giuoco di parole,che come vedesi non presenta alcun senso
se non as surdo, era un fatale intoppo nel quale si urtava quasi sempre nell'
uso del calcolo degl' indivisibili, ed eccovene l'origine. ! 20
grado,dicui,come è notissimo,non puòfarsila co struzione se non per mezzo delle
coniche sezioni. La sola riga ed il compasso non possono qui essere usate allo
scopo, se non nel caso, in cui due delle date rette sieno eguali,poichè in
allora l'equazione cubica può comodamente venire abbassata al grado secondo. Il
degli Angeli scioglie i due casi, senza la face dell'algebra,che allora non era
accesa,l'uno per locum planum, secondo illinguaggio scolastico, e l'altro per
locum solidum. Le sue costruzioni sono elegantissime,e mostrano chiaro che
istintivamente anche gli antichi avevano un -segreto oracolo di a n a lisi, che
domesticamento consultavano,ma non fa cevano vedere al volgo. Vi risovvenga, o
Signori, di quei due solidi d e scritti da me poco fa, cioè di un emisfero e di
un cilindro incavato da un cono rovescio,cilindro che lo circonda, dei quali
così facilmente si appalesa. l'equivalenza. Or bene: questa equivalenza si de
duce col provare, che tagliati dovunque idue corpi con un medesimo piano
segante parallelo.colla base comune d'entrambi, il circolo nato
nell'emisfero eguaglia a puntino la zona circolare spettante al
cilindro incavato. E siccome ciò ha luogo per ogni piano segante immaginabile,
dicevasi con molta fretta che ciò doveva effettuarsi anche nel piano tangente
alla sommità della superficie sferica; il che, come si vede, presentava da una
parte un centro (cioè il punto di contatto) e dall'altra una circonferenza,
cioè lo spigolo nudo del cilindro terminato; dunque per la presa analogia,il
centro, cioè quel punto di contatto, doveva essere eguale a quella circonfe
renza. Noi lo accorderemo di buona voglia, se sono così teneri di questa inezia,
poichè sotto il riguardo di superficie (e qui si tratta di superficie soltanto)
così il centro come la circonferenza si possono egua gliare,perchè sono
entrambi eguali a zero; ma que sto strano vaniloquio non può insorgere a
pretesa, se non in quei casi speciali, ove si richiama ad uno stato anteriore
di rapporto, e non può certo aver modo di entrare quando sitrattassediun qua
lunque cerchio isolato in un piano. Bastava riflet tere che il ragionamento
dimostrativo non era ri volto che a' piani seganti; dunque il piano tangente
non v'entrava se non ad indicare il limite dove il rapporto di eguaglianza
andava a cessare.La man canza di un linguaggio ben formato, e che ci fu dopo
dalla teoria dei limiti perfezionato, impedì forse la spiegazione chiara del
sofisma per parte Questa menda del nostro autoreriflessa sopradi lui dallo
splendore di un gran nome,è a dismisura can cellata dai tanti lavori di gran
lena ch'ei porse nel seguito. Tale è il suo Miscellaneum hyperbolicum 21
di tri cotanto valenti e degnissimi di rispetto. geome pubblicato
nel 1659, e dedicato agli Illustrissimi Cinquanta del Senato di Bologna in
contrasegno di gratitudine per quella illustre città; nella quale sua opera
tratta profondamente dei centri di gra vità dell'iperbola, delle sue parti e di
alcuni so lidi, dei quali nessuno fino allora aveva parlato. Insegna a quadrare
la parabola in doppia manie ra ed a guidare le tangenti a tutta la famiglia pa
rabolica. Sulla parabola inoltre e sui co noidi di essa risolve curiosi
problemi spettanti ai massimi, inscrit tibili ed ai minimi circoscrivibili. In
questo suo li bro l'autore ambisce di pretendere alla priorità sul la Faille e
sul Guldino medesimo, il quale nella rinomata sua opera Centro -barica, così
confessa la sua mancanza in questo proposito: deest hoc loco hyperbolae ejusque
partium centri gravitatis investi gatio. L'opera uscita dalla sua penna nel
1660 è m e ritevole di ricordanza,tanto per la persona alla quale viene
dedicata, quanto e molto più per la materia che l'autore vi ha svolta. È stato
umiliato quel lavoro all'eminentissimo cardinale Gregorio Barbarigo, Patrizio
Veneto, ve scovo allora di Bergamo, e che in seguito, come tutti sanno, fu
vescovo di Padova e morì nel 1697, cioè l'anno medesimo della morte del nostro
degli Angeli, ed il quale vescovo fu poi annoverato fra i beati dal suo
concittadino Carlo Rezzonico,Papa sotto il nome di Clemente XIII. La dedica, o
Si gnori, era degnissima,poichè sappiamo dalla storia della vita del Barbarigo.ch'egli
era dottissimo nelle cose matematiche, e per ciò sembra che a buon di
22 Parlando della materia del trattato,che s'inti tola De
infinitorum spiralium spatiorum mensura, ella valse a collocarlo in un gran
posto fra i geo metri del suo tempo: e quel soggetto fu poi anche ampliato
coll'aggiunta ch'ei vifeced'un altro trat tato, detto De spiralibus inversis,
stampato in P a dova nel 1667. Fine a quell'epoca gli antichi a v e vano assai
beve conosciuto ed usato le proprietà, gli spazi, le tangenti della Spirale di
Conone o di Archimede,ma di poco o nullasieravarcatoque sto termine. Il degli
Angeli ci racconta egli stesso di essere stato parecchie volte stimolato a
scandagliare più a fondo in questo mare,quando trovavasi in Roma. E quelli che
così eccitavanlo erano un Michelangelo Ricci,da lui chiamato il Corifeo
degl'italiani geo metri, al che fece eco pienamente anche il Montu cla; poi un
Francesco Slusio, riputato geometra fran cese, ed infine un matematico inglese
di fama, Ric cardo Albio. Essendo egli allora troppo giovane ri cusò di
affrontare cotali gravi ricerche, confessando modestamente il carico non
trovarsi adattato agli omeri suoi. Ma più tardi,essendo in Venezia, e ri
svegliatosi in lui colle nuove forze acquistate a n che il coraggio, intraprese
lo studio delle infinite specie di spirali, e fu allora riverito per la novità
dell'argomento e per la profondità della trattazione. Dopo di lui altri valenti
coltivarono questo campo e lo trovarono ancora fecondo. Se non che la glo ria
di esaurire in tutta la sua estensione un tale argomento era riservata al più
moderno chiarissimo 23 ritto e senza lusinghe il degli Angeli lo
invocasse col nome di Geometrarum Mecenas peritissimus. matematico
Varignon,inuna bellissimasua memoria, citata spesso e spesso indicata a modello
ai giovani studiosi, la quale si trova inserita nelle Memorie dell'Accademia
delle Scienze di Parigi per l'anno 1704. Tuttavolta a non iscemare di un punto
il meritodelVeneziano,tornaopportuno ilriflettere che quella Memoria straniera
comparve 44 anni più tardi, e di quegli anni di abbondanza, nei quali ľ analisi
ardita aveva tanta sua ala distesa. Copiusi problemi di tutte le specie
riguardanti le aree delle figure piane ed i volumi dei solidi non che i loro
centri di gravità, si contengono tanto nella seconda parte di questo libro
delle Coclee, quanto nel Miscellaneum Geometricum prodotto nel 24 Alle
ora accennate due opere va unita per m e rito d'interessanti investigazioni
quella del 1661 De infinitarum Cochlearum mensuris ac centris gra
vitatis,dedicata a Leopoldo II dei Medici,granduca di Toscana, quegli sotto i
cui validiauspiciisi for m ò e crebbe l'Accademia del Cimento. In questo dotto
lavoro descrive la forma delle infinite coclee sìstrette
esìallargate,chesigeneranopermezzo di triangoli, di rettangoli, di
semicerchi,ed altre fi gure piane scorrenti con duplice moto, l'uno circo lare
e l'altro progressivo, con diverso rapporto di velocità; ed assegna col metodo
degl'indivisibili i volumi di questi solidi strani ed apparentemente
intrattabili. Si propone in tale memoria l'autore di continuare e di estendere
la strada tracciata ed i n cominciata assai pregevolmente dal Torricelli, m a
ehe questo celebre uomo per cagione di morte la sciava ad altri da
percorrere. quanto ancora nell'opera pubblicata nel 1662, cioè
nell'anno primo in cui era entrato nella Pa tavina Università e che si
intitola: Accessio ad Ste reometriam et Mechanicam in qua traduntur m e n s u
rae et centra gravitatis quamplurium solidorum. Idea un nuovo genere d'in
vestigazioni nell'opera intitolata de Superficie U n gulae, a cui si unisce una
seconda parte, che tratta de quartis liliorum parabolicorum et cycloidalium.
Ciò che porgesse a lui il destro di mettersi a trat tare questi argomenti lo
racconta egli nella sua pre fazione. E comparso in Roma un opuscolo de cycloide
et de figura sinuum, che vantava per autore un Onorato Fabri Gesuita, sotto
ilpseudonimodiAntimoFabio:ilbuondegli An geli s'invaghì di quest'opera ed
indovinò che nella figura dei seni ivi celebrata latitabat non spernendum
geometricum mysterium. E svelò a quanto pare pel primo ilmistero,dicendo che
quella curva che noi chiamiamo sinusoide, altro non era che la sezione obbliqua
d'un cilindro tagliato diagonalmente con un piano condotto pel raggio del
quadrante base e sviluppata in un piano. Quantunque quell'Onorato Fabri non sia
un nome molto onorato nella storia della scienza, poichè fu quest'uomo mai
sempre av verso al Galileo e combattè ostinatamente tutte le belle scoperte dei
giorni suoi, ilnostro matematico fa di lui qualche caso rispetto al citato
libretto. Per altro è facile indovinare ch' ei lo faceva con una piccola dose
di spirito di partito, giacchè sco priva nel Fabri un grande settátore del
metodo del Cavalieri. E tanto anzi il Fabri lo usava con in 3 26
Quell'opuscolo per tanto del Fabri diede occa sione al degli Angeli di
combinare problemi di tutte le specie intorno alle unghie cilindriche,ai loro
cen tri di gravità, ai solidi da esse con varia maniera di movimento
ingenerati. Raddoppiata la superficie svolta in piano dell'unghia cilindrica in
tre modi diversi, egli costruisce una simmetrica figura, ch'ei chiama un giglio
ungulare, dal quale poi altri gigli germogliano con altri ideati movimenti, e
di tutta questa fantastica famiglia di figure aventi tutte per elemento
l'unghia cilindrica, valuta secon do il solido le aree, i punti di equilibrio,
i vari conoidi derivanti da quelle: e le stesse combinazioni, e gli stessi
oggetti si propone nei suoi studi sulla semicicloide. Queste descritte, ed
altre molte di eguale va lore, sono le opere geometriche del professore degli
Angeli, opere il dobbiamo pur dire con ricresci m e n t o, le quali al pari di
quelle di altri illustri suoi contemporanei non vengono più lette. La ragione
di questo abbandono non è a mio credere soltanto il Fu quel secolo uno dei più
brillanti e privile giati,sì per la moltitudine degli uomini di genio su
periore, e si per la grandezza dei trovati. Sembra che la natura abbia voluto
in quei giorni di deca temperanza,che ilnostro autore a suo riguardo così
si esprime: ut ad indivisibilium arenam percurrendam fraeno potius quam
calcaribus indigere videatur. progresso della scienza ed il lasso del tempo,
che corre da quelli a'nostri anni, poichè le verità m a tematiche non sono
soggette aprescrizione di tempo; la causa più vera e profondamente
morale. 27 denza delle lettere mostrare quanto ella era capace di
produrre per largo compenso alla dignità del l'uomo. L'Italia prima del sapere
maestra, dopo la barbarie dell'età di mezzo diede in questo se colo
potentissimi e rinomati ingegni,un Luca Vale rio, un Galileo, un Torricelli, un
Viviani, un C a valieri,un Pucci e moltissimi altri.Ma l'Europa produceva in
quel tempo in altri climi il Nepero inventore del nuovo calcolo logaritmico, il
Guldino scopritore di un nuovo cammino nello studio delle curve, il Keplero che
tutti sanno, il Roberval; poi il Pascal, il Cartesio, il Newton; poi l'Huygens
e la portentosa famiglia dei Bernouilli, e quel mira colo del Leibnizio, di cui
tante si onora l'umano intelletto. E come la comunione espansiva di que ste
straniere intelligenze fece salire a passi gigan teschi il sapere e lo unificava,
è ben da credere che il tributo, che a questo cumulo di ricchezza l'Italia
poteva recare, avrebbe certo accresciuto il tesoro della scienza o di molto
accelerato ilsuo an damento nella matematica pura, come l'Accademia del Cimento
fece già a pro' delle naturali scienze. Ma gl'italiani, rispettate alcune
eccezioni,si tene vano in disparte nel purismo sintetico, ed offerivano
solitari sagrifizi alla greca sapienza, benchè con at tività e maestria nuove
ricchezze portassero a que gli altari ed a quei templi vetusti.E mentre sde gnavano
di dare ad altri la mano nella grande in vestigazione della verità, ebbero
talvolta a provare qualche umiliante disinganno;come avvenne fra gli altri al
Viviani nel suo vantato Ænigma geometri eum, che ben presto fu spiegato in più
modi ed in più luoghi dagli oltramontani analisti. Attenutisi
troppo scrupolosamente al linguaggio ed alle forma lità degli antichi, e non
avendo voluto adottare quel calcolo algebrico, che tanto facilitava agli altri
le dotte ricerche, si vennero a chiudere le porte per arrivare fino ai nepoti,
e non rimasero le faticose ed ottime loro opere che come venerabili m o n u
manti di storica scienza, che visitati non vengono se non da pochi pazienti
eruditi. Mi si perdoni questa digressione, che per in tendimento aveva di mettere
le produzioni del mio encomiato Stefano degli Angeli nell'aspetto sotto il
quale è lecito oggi di riguardarle, e passiamo a par lare delle polemiche sue
scritture. 28 È notissima nella storia della scienza la lunga lotta, che
si riscaldò fra lui ed il Padre Giambat tista Riccioli Gesuita, uomo
rispettabilissimo per la multiforme sua dottrina letteraria e scientifica, e so
prattutto riputatissimo astronomo.Questo dotto pro fessore, che in compagnia
del P. Grimaldi suo al lievo, giovò non poco colle sue esperienze a conser mare
le leggi dei gravi cadenti scoperte dal fioren tino Filosofo, ebbe poi a
macchiare inescusabilmen te il suo nome coll'essere divenuto uno dei più
pertinaci combattenti, che mai facesse battaglia al grande Italiano sulla sua
tesi del moto diurno della Terra. Ma il sapiente Riccioli non si teneva
contento ai soliti plateali sofismi stiracchiati fuori dalle sagre carte
dagl'ignoranti; egli invece si sbracciò a con trastare in sul serio quel
movimento del globo con argomenti fisico -matematici. Oltre alla tante volte
addotta difficoltà di concepire la rotazione della terra a cagione
della forza centrifuga, che dovrebbe ge nerarsi, a detta degli avversarii, in
tutti i corpi terrestri nel moto circolare diurno,per cui la massa del globo ben
presto verrebbe disfatta, argomento che si abbatte colla dimostrazione consueta
che la velocità della terra dovrebbe essere 17 volte m a g giore dell'attuale
perchè la forza centrifuga potesse eguagliare soltanto la gravità dei corpi, il
Padre Riccioli aveva coniato un argomento fisico -m a t e m a tico tutto di suo
gusto,al quale credeva che nes sun uomo di scienza potesse rispondere.
Immaginatevi, ei diceva, che un grave siasi la sciato cadere dalla cima di una
torreelevata,tanto che il corpo debba impiegare p. es. cinque minuti secondi
per battere il suolo nella caduta. Dividendo quest'altezza in cinque parti nel
rapporto dei tempi parzialidiquesta caduta con moto uniformemente ac
celerato,cioè 1, 3, 5, 7, 9, figuratevi che il grave abbia ricevuto l'impulso
da occidente in oriente a principio, c o m e voi pretendete, e troverete
naturale ch'esso debba descrivere una curva. Ora il calcolo mi dimostra che le
parti od archi di questa traiet toria rispondenti ai varii tempi summentovati
sono pressochè eguali. Laonde le velocità del Il professore degli Angeli
nell'anno 1663, quando 29 questi varii tempi, rappresentate da quegli
archi, dovranno essere eguali,cioè nell'ultimo tempo come nel primo; dunque il
corpo cadente dovrebbe bat tere la terra colla stessa forza come nel primo i
stante così anche nell'ultimo, lo che è contrario all'esperienza, e perciò
questo vostro sognato moto della terra non può esistere. in corpo
già da sei anni si trovava all'Università di Padova, si propose di
abbattere tutti gli argomenti dell'a stronomo Gesuita, e ciò fece trionfalmente
in va rie riprese colle sue prime, seconde, terze e quarte considerazioni sopra
la forza degli argomenti fisico matematici del P. Riccioli contro il moto
diurno della Terra,stampate in Padova. La confutazione sparsa per quei suoi
quattro opuscoli riuscì un poco lunga e forse prolissa, poichè la compose alla
forma di conversazioni fra un certo Conte Lescysky, un si gnore Offreddi ed il
Matematico di Padova, ch'era egli stesso. La lentezza dei ragionamenti e delle
d e duzioni dipendeva naturalmente dalla forma in dia logo dell'opera, poichè
metteva il personaggio prin cipale nella necessità di togliere le più piccole
dif ficoltà ed obiezioni degli altri due interlocutori. Ma la sostanza delle
ragioni del Matematico di Padova si ristringeva a mostrare che il Padre Ric cioli,
per altri conti commendevole,siera mostrato con sua vergogna in questo affare,
atteso lo spirito di partito, assai inesperto nelle leggi più comuni della
Meccanica.Mostrò cioè d'ignorare che nell'urto dei corpi contro un ostacolo
irremovibile, come il piano sottoposto alla torre, dipendere doveva la forza
della percossa non tanto dalla velocità asso Juta, di cui è il corpo animato,
ma ancora dalla di rezione con cui la percossa discende. La velocità accordata
pure che sia eguale nell'ultimo tempo come nel primo, non è poi egualmente
inclinata nel corso della traiettoria nei varii tempi rispetto alla
verticale.Decomposta in fatti la velocità assoluta in in una verticale e l'
altra orizzontale, soltanto la 30 Ad ogni modo questa lunga
controversia fu tutta col vantaggio del nostro concittadino, ed ebbe nella sua
schiera tutti i veri scienziati d'allora, e non solo per questo conflitto, m a
per la più possente ragione, ch' egli fu per carattere uno dei più caldi
sostenitori del progresso in tutti i rami delle scienze fisico-matematiche. Ed
invero nell'anno 1671 faceva di pubblica ragione in Padova due lunghi dialoghi
fisico-m a t e matici; e tre altri che avevano per titolo Della gravità
dell'aria e dei flui di esercitata principalmente nei loro omogenei: nei quali
con amene conversazioni fra quegli stessi in 31 prima doveva operare
nell'urtare; e siccome le in clinazioni della velocità nei varii tempi erano
diverse, diverse pure dovevano risultare le componenti v e r ticali; e queste
appunto si trovano, con facile di mostrazione, nello stesso rapporto crescente,
come se non esistesse l'impulso orizzontale; e per ciò si conchiude che il moto
della Terra per nulla si o p pone all'esperienza, e può ben anche con essa sus
sistere. Rilevata così l'impotenza del grande Achille del Riccioli si usarono
dall'autore tutti gli ar gomenti indiretti, che potevansi per allora mettere
innanzi. Là prova diretta del movimento rotatorio della terra, come ben sapete,
signori, era riservata ai giorni nostri; chè ce la diede quel preclaro ingegno
del sig.Faucault, per mezzo del pendolo da lui idea to, e poi da quel suo
giroscopio, che rende sen sibile il fenomeno fra le pareti d' un gabinetto di
fisica. terlocutori di sopra nominati, si svolgono tutte le leggi
dell'idrostatica e si sciolgono le minute diffi coltà di certi paradossi, già
noti in quella materia, e dei quali in allora ben pochi precettori davano una
chiara spiegazione. Non pretende il nostro autore, com'egli asserisce con
modestia nella introduzione, che queste súe composizioni contengano cose del
tutto nuove e non tocche dagli altri; m a essergli stato di eccitamento a
scrivere il desiderio di gio vare ai nobilissimi scolari di quel sapientissimo
s t u dio:i quali, diceva il nostro professore,camminando al dottorato pei
ponti delle dottrine peripatetiche e delle formalità, poco o nulla vedevano
della filoso fia sperimentale. La quale dichiarazione serve farci conoscere ad
un tempo e lo stato delle p u b bliche istituzioni d ' allora, e gl'
intendimenti del n o stro degli Angeli sul vero scopo degli studii pegli uomini
socievoli. Ma non è a credere ch'egli con tato zelo del sapere calcasse
unicamente le sole aride ed ardue vie della severa matesi e delle scienze.
Abbiamo invece ogni motivo per ritenere ch'egli nella clas sica letteratura
fosse molto perito, egli che per molti anni della sua fresca età n ' era stato
precettore fra i suoi: egli che con tanta sveltezza di dicitura usò mai sempre
familiarmente la lingua del Lazio. Ed inoltre nelle lunghe dedicatorie epistole,
rivolte ai più distinti personaggi dello stato e della chiesa, lo troviamo come
uomo familiarissimo degli ameni stu di spargere sali ed argutissime mitologiche
allusioni, e questo con frequente uso ed anche abuso a se conda del gusto del
secolo. Il Bresciano dottissimo 32 A coronare il monumento,che
oggi m'ingegnai d'innalzare in questo letterario ricinto al nostro c o n
cittadino Stefano degli Angeli, non mi rimane che porvi sopra
un'ultimaghirlandadifiori,cioèdifare ricordanza delle qualità dell'animo suo. E
qui sarò breve poichè l'affare è assai vecchio. Questo sacer dote così esaltato
e venerato dai suoi confratelli per più di trenta anni, così accarezzato e
tenuto per familiare ed amico da tanti nobili e famosi per sonaggi, la intera
vita del quale non respirò che osservanza scrupolosa dei proprii doveri, e fu
inces santemente modellata alla ricerca e diffusione del vero, non poteva
essere dotato che di bella indole e di soavi costumi. E mi basta ad
accertarmene per tutte la testimonianza del più volte citato sto rico
contemporaneo della Patavina Università, Carlo Patino, che col degli Angeli
viveva domesticamente, ed il quale al suo riguardo si esprime con queste parole:
Singularem Stephani comitatem, m o r u m » que suavitatem experiuntur quicumque
illam d e » siderant, adeo facilis est omnibus, benignus et » beneficus. In
ejus gloriam dictum sit nullum a » m e inventum, qui vel levissime de ejus
dictis » factisque conquereretur ». 33 E qui darò termine alle mie
illustrazioni sulla vita e sulle opere Mazzuchelli ricorda la corrispondenza
che regnava fra il degli Augeli ed ilcelebre antonio Magliabechi, in assai
scritti di argomenti scientifico-letterari, e questo legame col fiorentino
filologo serve bastan temente a dichiararlo non istraniero al consorzio dei
dotti contemporanei di tutte le classi. di questo insigne matematico
e filosofo veneziano. Il desiderio di togliere da ob blio ingiusto e di
mettere in piena luce i diritti a fama non peritura di quest'uomo il nome del
quale così stretto si lega ad uno de' trovati più belli dell'italiano ingegno,
m'infuse costanza, e dolce mi sembrò la fatica nella lettura di opere,che at
tualmente pei modi mutati sono poco leggibili. So che potrebbe taluno
ricantarmi essere ilnostro pre sente così fervido d'interesse nella scienza e
nelle sue applicazioni al materiale benessere della vita da impedirci di
guardare addietro nei secoli che f u rono. Ma io penso che sia non ultimo
fragl'inte ressi del progresso e di quelli che lo promuovono, il celebrare con
sagro zelo la memoria ed il bene fatto dai trapassati. Imperocchè con questo g
e n e roso operare tramanderemo un buon esempio ai n e poti, a quei
nepoti 34 « che questo tempo chiameranno antico », di non mancare di
gratitudine ai primi informatori del bello,dell'utile e del vero.Così
impediremo loro di gettare addosso un guardo compassionevole sui nostri
prodigiosi lavori, che ora vagheggiamo con giusto orgoglio, m a i quali per
fermo, secondo mento delle mondane cose,si contenteranno in al lora di venire
conservati e posti in opera come materiali alla costruzione di nuovi e più
amati edi fizii.
Stefano degli Angeli. Angeli. Keywords: implicatura stereometrica – parabola
infinita – Grice’s infinity – regressus ad infinitum, i cinque solidi platonici
– la scatologia di Platone – il cerchio infinito – concetto limite, ottimalita
– fisica e metafisica, fisica e aritmetica – aritmetica e geomtria – il moto
diurno della terra, il sistema di galileo – antropocentrismo, ferita
narcissista. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Angeli” – The
Swimming-Pool Library.
Grice ed Angiulli – la
dialettica della dialettica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Castellana). Filosofo
italiano. Grice: “I like Angiulli; especially since he brought some grice to
the mill, as he crossed the pond to read “System of Logic,” but his heart is in
Berlin -- he loved that monumental ‘aula
magna’ where Hegel taught. “Once a Hegelian, always a Hegelian.” He loved
Feuerbach because he multiplied dialectic – la dialettica della dialettica –
Garin loved this!” If there is a hashtag
here is #metafisicacritica, since Angiulli oddly concludes with a synthesis:
metaphysics (which includes the view that ‘la natura delle cose e la
fenomenalita’) should be part of what he calls the ‘ricerca’ (and which Lakatos
translated as ‘research’) --.” Grice: “I love the fact that Angiulli, seeing
that Mill was so erudite yet never attended Oxford, thought that Oxford was
perhaps ‘acccidental’” – Grice: “Another thing I love about Angiulli is that he
can quote direct from greek, as in his note on nature spawning itself, without
(a) the need to translate or (b) provide the boring stuffy academic source!” Importante
esponente del positivism. Inizialmente
allievo di Bertrando Spaventa, uno degli interpreti del pensiero hegeliano in
Italia, successivamente Angiulli si allontanò dalla scuola hegeliana napoletana
dopo un soggiorno biennale di studi in Germania nonché in Francia e in
Inghilterra, dove conobbe la sua futura sposa: Mary della nobile famiglia dei
Romano di Patù, nipote di Liborio Romano. Aderì al positivismo, ma rifiutò
l'agnosticismo di Herbert Spencer, mentre ritenne possibile giustificare la
"religione dell'umanità" (di Auguste Comte) in base alle scienze
positive. Iniziò la sua carriera
d'insegnante di filosofia nel liceo "Vittorio Emanuele" di Napoli. In
seguito divenne professore di antropologia e pedagogia nell'Bologna e dal 1876
ordinario di pedagogia in quella di Napoli, dove fu anche incaricato
dell'insegnamento di etica e di filosofia teoretica. Fu più volte assessore alla pubblica
istruzione nel Comune di Napoli dal 1884 e candidato senza successo al
parlamento nazionale. Angiulli era ritenuto un progressista vicino al
socialismo che egli invece contestava come dimostra la sua corrispondenza
epistolare con Marx che aveva avuto modo di conoscere in Germania. Massone, fu affiliato Maestro nella Loggia
Fede italica di Napoli. Il pensiero pedagogico Angiulli riteneva che ci si
dovesse adoperare per una riforma dell'istruzione in senso popolare e nazionale
inserendo questo progetto nell'ambito di un rinnovamento dell'intera società
che solo tramite l'educazione sarebbe riuscita a mantenere nel tempo le proprie
caratteristiche. Occorreva dunque una fusione fra cultura, sistemi educativi e
la politica sociale realizzando così il programma del pensiero positivista che,
secondo Angiulli, ha un valore soprattutto pedagogico, di una pedagogia
scientifica, secondo i dettami positivisti, ma anche letteraria e
liberale. La pedagogia quindi non potrà
non tener conto dell'antropologia che dimostra l'importanza della famiglia come
nucleo fondante della società e della sociologia che stabilisce il collegamento
tra educazione e una politica laica e liberale.
È nella famiglia, secondo Angiulli, che avviene la prima forma di
pedagogia dove il padre rappresenta l'autorità e la madre il temperamento,
tramite l'affetto, dei comportamenti infantili: elementi questi essenziali
destilla formazione armonica di un cittadino in grado di esprimere solidarietà
sociale e volontà di progredire resistendo a quelle pressioni clericali che
caratterizzavano i primi anni della nascita dello stato unitario italiano. I grandi progressi
compiuti in questo secolo in ordine alle scienze p o sitive hanno avuto il loro
riverbero nelle industrie e in tutto ciò che si po trebbe dire scienza pratica,
la quale ha fatto dei passi giganteschi. È stato questo che ha contribuito a
infiltrare nell'animo di tutti, nonchè un senso pratico della vita assai più
raffinato, la tendenza al sacrificio di ogni più nobile cosa di fronte
all'interesse. Data una tale costituzione psicologica, parecchi problemi son
sôrti nel campo teorico. Si èdetto:– A che la Poesia, a che l'Arte? Il tempo
delle finzioni, delle illusioni e dei sogni è passato; ora si cerca ciò che ha
un'utilità più o meno immediata, la realtà ci s'im pone. Il terreno delle
emozioni si va sempre più restringendo e l'intelligenza pervade tutto.— Il
grido Non piùPoesia si è accompagnato col grido Non più Metafisica (Nicht mehr
Metaphysik ), ed abbiamo ancora nelle orecchie gli anatemi lanciati non solo
contro la Metafisica,ma anche contro la Filo sofia in genere. Il puro specialista
in fatto di scienza si ascriveva ad onore il dispregio per ciò che fosse
Metafisica. Questo stato però si può dire che sia durato poco,e da tutte parti
re centemente è surta una reazione benefica contro la corrente antifilosofica.
Ma se ci è un certo accordo quanto ad ammettere la Filosofia,regnano ipiù
grandi dispareri per ciò che concerne i limiti da dover assegnare a tale disciplina.
La maggior parte dei scienziati, per esempio, ha compreso che ciascuna delle
loro scienze speciali ha per iscopo precipuo la scoverta di leggi sempre più
generali, di leggi che raccolgano sotto il loro dominio il maggior numero di
fenomeni. Generalizzando sempre,si arriva a certi principii che offrono
sinteticamente la genesi di quasi tutti i fatti primitivamente raccolti e
descritti dagli scienziati;esponendo e discutendo tali principii, sidiceche si
fa la Filosofia di quella data scienza. Per codesti specialisti quindi non ci
sarebbe una sola Filosofia, o meglio, la Filosofia come scienza a parte, ma
ciascuna scienza avrebbe la sua. E pur volendo ammettere,notarono al cani, la
Filosofia quale scienza a sè, ad essa non rimarrebbe altro compito che quello
di volgere intorno alla Dottrina della Conoscenza. Ci furono altri che
proclamarono un sogno la sintesi cosmica, per modo che tutti i sistemi
metafisici passati e futuri non avrebbero per loro che il valore di aspirazioni
dell'anima, di espressioni di amore per l'Ideale. Codeste opinioni sono
sostenute da filosofi di molto merito, nè si creda che non siano giustificate
in nessuna guisa; ciascuna invece contiene una parte di verità; il difetto
sta nell'aver esagerato troppo l'importanza di co desta parte e nell'aver
escluso gli altri elementi. Quelli, per esempio, che hanno visto nella
Metafisica nient'altro che ilromanzo dell'anima,non hanno tutti i torti,
giacchè se in ogni lavoro scientifico quasi quasi si trova la nota della
sensibilità, molto più si rinviene questa nella Metafisica che è un lavoro
d'insieme. Le condizioni della conoscenza non sono sempre in uno stato di semplicità
ideale, ma si vanno sempre complicando,e l'oggetto della ricerca non appare con
una nettezza definita, nè l'intendimento è comparabile ad uno specchio terso.
L'uomo non ha abbastanza facoltà per quest'opera di creazione,perchè scovrire è
creare. L'immaginazione entra in
giuoco,muo vendo dal fondo stesso del temperamento, di cui quest'immaginazione
è un riassunto. Ogni spirito di scienziato ha dunque un certo fare originale,
sub biettivo,anche nell'ordine delle conoscenze più lontane dalla complessità
della vita. Che avverrà in ordine alle conoscenze più viventi e più complesse,
e fra queste in ordine alla più complessa di tutte, come quella che riflette
l'uomo e il mondo, vale a dire alla Metafisica? I sostenitori dell'opinione che
la Metafisica debba considerarsi come un romanzo dell'anima,ragionano a questo
modo. Costruire un sistema è com piere, per mezzo di un'ipotesi esplicativa, la
somma delle conoscenze esatte fornite dall'esperienza. Noi possediamo
sull'universo e sull'uomo una certa quantità di nozioni positive, noi le
coordiniamo e completiamo per via di una teoria generale,allo stesso modo che
un geometra disegna una circonferenza intera secondo il semplice frammento di
un cerchio. E queste nozioni posi tive, materia indispensabile della nostra
ipotesi,ci sono apportate dall'espe rienza in due modi distinti. Da una parte
il filosofo conosce i risultati ge nerali delle scienze sperimentali nel tempo
in cui egli lavora, e vi conforma la sua immaginazione d'inventore d'idee;
dall'altra parte questo filosofo ha subìto, almeno nella sua infanzia e nella
sua giovinezza, le influenze infini tamente multiple e complesse della sua
famiglia, dei suoi amici, della sua città,della sua regione. La sua vita
sentimentale e morale ha preceduto ed accompagnato la sua vita intellettuale.
Questa seconda iniziazione si unisce alla prima in modo che la scoverta d'una
dottrina si trova essere insieme un romanzo dello spirito ed un romanzo del
cuore. Coloro che limitano l'obbietto della Filosofia solo alla dottrina della
co noscenza, neanche sono completamente nel falso. Se l'oggetto della Filosofia
come sintesi cosmica è la ricerca della genesi dei principii fondamentali di
ciascuna scienza speciale, è chiaro che per gradi si risale, generalizzando
sempre, dal dominio di ogni scienza speciale a quello della Filosofia. Le con
dizioni della scienza moderna son tali che il puro specialista quasi quasi si
potrebbe dire che non è un vero scienziato.I legami fra le varie scienze sono
oggi così stretti,che s'impongono alla considerazione di tutti.Ed ipro blemi un
tempo di esclusiva pertinenza della Filosofia entrano ora nel d o minio delle
scienze speciali. Identificando l'oggetto della Metafisica con la realtà
immanente dell'esperienza e identificando il metodo di studiarlo coi
procedimenti della scienza positiva, essa o non deve esistere, o si converte
nella Fisica, intesa come scienza prima ed universale, in quanto tocca il problema
cosmico, il problema dei principii fondamentali ed universali, pro blema che
emerge da sè dalle scienze speciali, senza alcun lavorio partico lare. La
Filosofia però è la continuazione delle scienze positive,costituendo la loro
unità, il loro tutto, ma non è che un lavoro di compilazione. Come còmpito
speciale ed originale della Metafisica non rimane alla fin delle fini che la
Dottrina della Conoscenza. L'obbietto del saggio dell'Angiulli è appunto quello di esaminare i titoli che la
Filosofia pud presentare per essere riconosciuta come scienza separata che ha
un còmpito proprio. È stato per questa ragione che mi è sembrato opportuno
dilungarmi prima un pochino nel delineare come stanno le cose attualmente.
Prima e contemporaneamente alla pubblicazione del libro dell'Angiulli, parecchi
altri hanno mostrato come la Metafisica fosse da considerarsi quale scienza con
un obbietto ben definito. E si può dire che tutte le scuole filo sofiche
contemporanee siano d'accordo su questi punti, che il vero oggetto del nostro
sapere è la sintesi dello scibile, la ricostruzione ragionata del mondo analiticamente
conosciuto,che la veduta metafisica deve essere sug gerita principalmente dai
risultati delle scienze sperimentali, e di queste essere la migliore
spiegazione possibile, e che non ha valore quella tratta zione metafisica, alla
quale non sia fatto precedere un accurato esame del potere conoscitivo
umano,una critica cioè della conoscenza. Gli Idealisti però non consentono che
la Metafisica sia dichiarata una scienza positiva, perchè, a differenza di
queste, essa ha un doppio intento: ha per oggetto materiale il pensiero, che
differisce dagli obbietti delle altre scienze, e per oggetto formale lo studio
delle relazioni supreme onde i singoli fatti si col legano fra loro.Le
cognizioni proprie della Metafisica,secondo costoro,si ottengono bensì mercè
l'osservazione, purchè questa sia psicologica, razi nale, anzichè solo
empirica. Poi il procedimento della Metafisica nell'addurre la ragione delle
conoscenze, non è quello delle discipline positive; queste debbono limitarsi
all'esperimento ed all'induzione, laddove quella, oltre tali metodi, deve
seguire speciali criteri suggeriti dalla critica della conoscenza, Ora
comincio col domandare: A quale delle categorie di pensatori ac
cennatepiùsuappartiene l’Angiulli? A nessuna: per lui oltre la Filosofia di
ciascuna scienza, c'è la Filosofia il cui obbietto è la sintesi cosmica e del
sapere. Egli ritiene che i progressi delle scienze positive non hanno fatto
pernientemutarel'obbietto dell'antica Metafisica –Sintesi cosmica (Cosmologia),
Sintesi del sapere (Dottrina e Critica della Conoscenza) e Valore
dell'esistenza (Etica) -- ma hanno solamente portato una rivoluzione in ciòche
riguarda il metodo da seguire nella soluzione del problema metafisico. Angiulli
qualifica la sua Metafisica come scientifica e progressiva,dichiaran dola
scienza e non meno positiva delle altre. Se tale quesito fosse stato for mulato
da un dommatico spiritualista o materialista che fosse, ci sarebbe da
meravigliarsi poco, e la cosaavrebbepocoopunto importanza; ma il tenta tivo di
una metafisica scientifica fatto da un partigiano così illustre del metodo
sperimentale, è cosa degna di ogni considerazione. per distinguere
l'apparenza dalla realtà. Finalmente l'ordinamento delle parti nelle singole
scienze è parziale, invece la disposizione di esse nella Meta
fisicaètotale:quelleordinanocose,fatti;questa,oltrelecose,devedisporre
ancheleidee,eordinarel'essereeilconoscere.Conchi one, la Metafisica e una
scienza razionale, non positiva. Lasciando da parte ora le sottigliezze
metafisiche che non fanno progredire d'un passo la scienza, dirò che tra i
filosofi contemporanei quegli che molto si è occupato del problema metafisico è
stato il Fouillée. Mentre la scienza pura e semplice, egli dice, non bada che
ad oggetti particolari, fac e n d o astrazione dalla mente che li conosce, come
d'altro canto la psicologià non si occupa che dei fatti mentali, facendo del
pari astrazione da ciò che si co nosce per via dei poteri mentali, è solamente
la metafisica che si occupa della relazione, del nesso esistente tra gli
obbietti e la mente; e la vera realtà sta appunto in tale relazione, in tale
corrispondenza. Però, a senso suo, tutte le altrescienze, compresala Psicologia,
sarebbero dachiamarsipro priamente scienze astratte, mentre solo la Metafisica
sarebbe da dirsi concreta. Insomma, l'oggetto della metafisica volgerebbe
intorno alla reazione di tutto il nostro organismo mentale (conoscenza,
volizione, sentimento) di fronte al Mondo.IlFouillée delrestoaccennasolamente aivariproblemimetafisici,
ma non ne svolge, nè alcuno ne approfondisce, vuoi in fatto di cosmologia, vuoi
in fatto di psicologia, non forma, direi,un trattato dei problemi metafisici,
in modo che ti si dia la genesi delle idee filosofiche odierne positive. Tale
merito era riservato, si pud dirlo con orgoglio,all'Angiulli,m e rito tanto
maggiore, per le difficoltà che offriva il soggetto. La parte vera mente importante
ed originale del suo saggio è di non aver solamente proclamata l'esistenza di
una metafisica positiva e progressiva, di non averne solamente ideato il
disegno, m a di aver eseguito questo, di aver gettato le basi di una Cosmologia
e di una Psicologia quale oggi si può avere dal Positivismo ragionato. I
partigiani dell'esperienza o non devono ammettere una Metafisica, o, se devono
ammetterla, non possono accettare che quella,di ciamo pure, abbozzata
dall'Angiulli. Esporrò ora a grandi tratti i con cetti fondamentali dell'autore.
Se gli oggetti della realtà conoscibile sono studiati dalle diverse scienze
positive, rimane sempre da studiare l'insieme degli oggetti e le scienze stesse
e quindi i rapporti, le connessioni esistenti tra gli oggetti particolarmente
studiati dalle scienze, e tra le scienze stesse; campo codesto riservato alla
Filosofia. Il dimostrare che è impossibile la formazione di una sintesi cosmica
è già una ricerca filosofica. Ma veramente l'analisi degli oggetti cosmici è
inseparabile dalla sintesi in cui essi ottengono il loro vero valore. E le
scienze stesse si volgono a raggruppare più fatti sotto una nozione o una legge
generale,o più nozioni e più leggi sotto una nozione od una legge ancora più
alta.Ma in questa opera giungono a toccare un limite che di mostra la loro
insufficienza. Gli ultimi sostegni e gli ultimi legami dei loro concetti
sorpassano i confini delle loro indagini; perciò non possono trovare nella
propria sfera la soluzione compiuta anche dei problemi speciali. La filosofia
comprende quella parte di ogni scienza che s'innalza a principii e ad
ideeuniversali, quellaparte chericonducequesteideeequestiprincipii ad una unità
superiore. È parte di ogni scienza ed è una scienza a sé. Ed il Girard,dimostrando
che la Filosofia non è un'opera aggiunta alle scienze, sibbene una loro parte
integrante, distingue itna Filosofia delle scienze particolari, una Filosofia
dei diversi gruppi di scienze, ed una Filo sofia centrale che è la loro sintesi
ultima e definitiva. L'Angiulli con ra gione insiste molto su questo, appunto
perchè rimanga ben chiarito il con cetto che dobbiamo formarci della Filosofia,
e del suo compito nella cultura e nella vita. Le scienze, egli dice, per sè
sole scoprono verità che diremo astronomiche, fisiche, chimiche; la Filosofia
scopre verità cosmiche. Solo quando le verità attinentisi ai fenomeni
meccanici, fisici, chimici, biologici, sociologici si collegano in un
principio, in un rapporto comune, si ha una verità cosmica. Quando il Lagrange
con la sua splendida applicazione del principio delle velocità virtuali a tutti
i fenomeni meccanici, fuse in un tutto orga nico i diversi rami della meccanica
che erano stati fino allora studiati sepa ratamente, ottenne una conquista
scientifica di un grado superiore. Quando ilGrove el'Helmholtz,mostrandocheivarimodidelmovimento
pos sono essere trasformati l'uno nell'altro, apparecchiarono una base comune
allo studio del calore, della luce,dell'elettricità e del moto
sensibile,conquista rono una verità,la quale,sebbene tocchi già la sfera della
filosofia,non esce ancora dai cancelli di una scienza speciale. M a quando il
principio delle v e locità virtuali e il principio della correlazione delle
forze furono dimostrati entrambi corollari del principio della persistenza
della forza, conseguenze necessarie di un medesimo assioma, allora la verità
conquistata appartenne all'ordine filosofico. Cosi anche quando Von Baer
sostenne che l'evoluzione di un organismo vivente è un progressivo passaggio
dall'omogeneità della struttura alla eterogeneità, egli scoprì una verità
biologica;ma quando Spencer applicò questa medesima formola all'evoluzione del
sistema solare, della terra,della vita,dell'intelligenza,della società,egli
conquistò una ve rità filosofica, una verità non semplicemente applicabile ad
un ordine di fe nomeni, ma a tutti gli ordini. Dopo averfissatocodestipunti, ilimitidellaFilosofiasembranobencir
coscritti, nè vi dovrebbe esser luogo a discutere,se,poniamo,una data teoria
sia da considerarsi come teoria filosofica,ovvero tale che non esca dai confini
delle scienze speciali. Pure non è così, come si vedrà più giù, quando mi
fermerò un po' sulla teoria darwiniana. L'Autore passa subito a fare
l'applicazione dei principii su esposti. Svolge dapprima il concetto largo che
bisogna formarsi dell'esperienza, ag. giungendovi l'elemento sociale e storico,
entrambi tanto importanti; passa poi a delineare la dottrina della conoscenza,
mostrando giustamente come sia impossibile trattare un tal soggetto, senza
prima far precedere delle note paramente psicologiche. E poichè la Filosofia, se
èsintesi del conoscereè anche sintesi dell'essere, Angiulli, nella parte III “
del suo libro si occupa della dottrinadell'evoluzione cosmica. Quivisono
raccolti i più recenti risultati scientifici, ed è notevole che l'Angiulli
è perfettamente al corrente di ogni novità in ordine alle scienze della natura.
Io non scenderò a partico larità; mi fermerd solo un momento su cið che
concerne la Biologia, tanto per offrire un esempio della difficoltà che si
prova a giudicare se una data teoria scientifica possa aspirare all'onore di
essere detta filosofica. Porrò prima il quesito: Qual'è l'importanza che nella
sintesi cosmica, qualesipuòformareoggi, ha ladottrina darwiniana? A
questoriguardo regna ancora un po' di confusione: c'è chi vorrebbe vedere
nell'idea darwi. niana la legge del mondo,e quindi nel darwinismo una dottrina
filosofica, e c'è chi pensa proprio il contrario. Giova premettere che non va
confuso il Trasformismo col Darwinismo: il primo certamente racchiude un pensiero
generale che rasenta almeno il dominio della filosofia; dar ragione di tutto il
mondo organico per via di trasformazioni graduali e consecutive è certa mente
un'idea che raccoglie il massimo numero di fatti particolari organici e nello
stesso tempo tenta di darne la spiegazione; tanto più se si pensa che un tempo
tutto lo studio del mondo organico si riduceva a fare un in ventario più o meno
ordinato degli esseri organizzati. Ma il Trasformismo è benaltra cosa del Darwinismo:
questo in fin dei conti non è che una forma particolare di quello. Il
Darwinismo è nient'altro che una teoria generale,la quale non esce dai cancelli
di una scienza speciale. Ed infatti: raccoglie esso il massimo numero di fatti
che si osser. vano nel mondo organico? Tenta, dico tenta e non a caso, di
risolvere il massimo numero di problemi organici? La sua formola è tanto
generale da dare la spiegazione della genesi dei fatti più importanti in
Biologia? Pone esso tutti i problemi di origine? L'idea del trasformismo era
già vecchia; C. Darwin non ha fatto che togliere da tale veduta tutto ciò che
poteva sembrare estraneo alla scienza. Ed è stata l'impronta scientifica da lui
data a tal genere di studi che ha fatto sì che le scienze ausiliarie
concorressero a controllare i risultati già per altra via ottenuti. M a la
selezione naturale non spiega tutti i fenomeni organici e molto meno connette
questi coi fenomeni fisico-chimici.Di qui il bisogno che si è sentito di fare
l'integrazione, come si è detto, della teoria darwiniana: si è completata, si è
perfezionata, aggiungendovi molti altri elementi che l'hanno trasformata tutta.
Essa, ridotta ad una teoria pretta mente scientifica, non offre
quell'universalità propria di una teoria filosofica. È per questo che
l'integrazione non concerne elementi accessori,ma riguarda la sostanzialità di
essa. Per il Darwin, invero, dalla carestia dipenderebbe la variazione,
mentrechè si è notato che il primo fondamento della varia zione risiede
nell'opera della nutrizione, la quale riesce ad un accrescimento della sostanza
vivente, per quel processo naturale onde essa, col concorso favorevole dei
mezzi dell'ambiente esterno, accoglie in sè nello stadio evo lutivo più di
quello che non perda. Dall'abbondanza dei mezzi nutritive -- Cfr. MORSELLI, Lesioni
di Antropologia L'Uomo secondo la Teoria dell'Evoluzione, Dispense -- come
ha notato il Rolph, dalla prosperità, non dalla miseria, dipende la variazione,
l'accrescimento della materia organizzata. Questo accrescimento, segnando in
pari tempo una conquista di nuovi caratteri ed una divisione di attività e di
attinenze, si porge come svolgimento, come progresso. Giova notare anche qui
che la prima storia della vita comincia dal rispecchiare le condizioni
dell'ambiente ove essa si svolge. Innanzi alla lotta coi rivali l'essere
organizato deve, di contro alla varietà degli agenti esterni, conquistare il
suo posto. La legge della concorrenza non può essere il primo sostegno
dell'evoluzione biologica:èsolounepisodiodiquesta.La leggemalthusiana deve
essere mantenuta in confini più giusti, poichè il rapporto della ripro duzione
di fronte ai mezzi dell'esistenza, cangia, si trasforma col perfezio namento
degli organismi. Chi voglia persuadersi di primo acchito come siano essenziali
gli ele menti introdotti nell'integrazione fatta della teoria darwiniana, non
ha che a volgere uno sguardo a ciò che tanto lucidamente ha scritto l'Angiulli
nella parte biologica della sua sintesi cosmica. Egli, guardando sempre le cose
da un punto di vista generale, cerca sempre di connettere e di scovrire i
rapporti esistenti fra le cose, mentre il Darwin, puro scienziato, non vi
presenta che serie di osservazioni con le rispettive dichiarazioni, senza mai
tentare di unificare.L'Angiulli,peresempio,vidicechebisogna ricon durre i
principii e le leggi esplicatrici della derivazione delle specie all'effi cacia
delle funzioni stesse della vita nutrizione e riproduzione adat tamento e
trasmissione ereditaria. La legge dell'evoluzione biologica sarebbe la stessa
della Fisiologia, dilargata nello spazio e nel tempo. A base del l'evoluzione
biologica rimane quella virtù della variazione che scaturisce dalla complessità
e dall'indefinitezza della composizione della materia orga nizzata. Cosi
l'ultimo principio esplicativo delle forme e delle proprietà degli esseri
viventi si trova in un cangiamento chimico. La trasmissione ereditaria si
risolve in una semplice partecipazione di proprietà chimiche. Si è sentito il
bisogno di ricorrere ad altri ausiliari per la dichiarazione del mondo organico,
facendo sempre l'applicazione del principio posto, che bisogna spiegare la
derivazione delle specie mediante l'efficacia delle fun zioni stesse della
vita. Così anche la sensibilità e la motilità, se sono fun zioni integranti
della vita, debbono avere un'efficacia trasformatrice degl’organismi. Senza gli
stimoli della irritabilità, dice Virchow, non vi ha lavoro organico, nessuna
assimilazione di materia formativa, nessuno svolgimento. Inoltre, come le
attività e i rapporti della vita si accrescono e si moltiplicano, si accrescono
e si moltiplicano del pari i fattori della varia zione.Ed a misura che i singoli
fattori si elevano, nello svolgimento della vita, ad una forma più alta,
acquistano un'efficacia trasformatrice sempre maggiore. Perd dobbiamo
attribuire col Virchow alle forme più elevate della sensibilità e della
motilità, al pensiero ed all'azione volitiva una m a g giore efficacia trasformatrice
e perfettiva degli organismi concreti. Coi fatti della sensibilità e del
movimento è congiunta nella sostanza organica la disposizione a riprodurli, che
fu detta memoria, ed è il fonda mento dell'abito, senza di cui sarebbe
impossibile la variazione degli esseri viventi. In tale proprietà va
implicato quel processo di coordinazione o ag gruppamento degli effetti
dell'esperienza che altri ha considerato come nota speciale dell'intelligenza.
All'occasione di un sol termine di una relazione di un gruppo, dato da una
sperienza presente, si riproducono anche gli altri termini non dati,ma con esso
congiunti.Ora,l'anticipazione immaginativa è una condizione essenziale dei
progressi della variazione perfettiva. La varia zione non avviene soltanto come
effetto di azioni o di stimoli presenti, per manenti,ma avviene anche in
anticipazione di azioni non presenti;non vi è un adattamento a relazioni
attuali, ma benanche un adattamento a rela zioni future e previste. L'interna
attività della rappresentazione anticipativa è sufficiente per sè a produrre
una certa modificazione della struttura orga nica in anticipazione della funzione.Così
si ristabilisce una specie di finalità negl'intimi svolgimenti della vita,
rilevando l'efficacia dell'attività intellet tiva come fattore della
trasformazione delle specie. Oltre all'adattazione per opera dell'immaginazione
anticipativa, vi ha un'adattazione più specialmente intellettuale, perchè
riguarda circostanze nuove e non previste,e non si riconosce in un abito già
formato. Questa specie di adattazione selettiva o raziocinativa si appalesa
gradatamente nella serie degli organismi, comin ciando dai più bassi, m a senza
di essa sarebbe inesplicabile l'acquisto di molti istinti el inesplicabile il
progresso della vita animale. La varia zione, per esser progressiva e
perfettiva, non può essere accidentale, abban donata alla pura lotta esterna
degli organismi, ma deve essere promossa da una funzione coordinatrice ed
anticipatrice delle relazioni dell'esistenza. Ora domando: Dopo un'integrazione
di tal fatta, la quale si potrebbe chiamare la filosofia della trasformazione
delle specie, perchè riunisce sotto un unico principio, giusto o falso che sia,
tutti i vari elementi che concor. rono alla derivazione delle specie organiche,
che cosa è divenuta la teoria darwiniana vera e propria, quale uscì dalla mente
del suo autore? Niente altro, mi pare, che un caso particolare della grande
legge della variazione organica. Già Darwin stesso confessa che egli rifugge
dall'occuparsi dei problemid'origine,equindi di quellid'ordine
generale;eppure,chivuol fare la filosofia della natura organica non può fare a
meno di trattare la que. stione della genesi della vita, come di penetrare
nella natura intima dei fenomeni implicati in essa,quali la nutrizione,la
crescenza,la riproduzione, lasensibilità,lamotilità,lavariabilità.E
l'Angiulli,chehaintesodi porgere le linee principali di una sintesi biologica,
ha trattato a modo suo tutte codeste questioni. Potrà essere discutibile la
soluzione data del problema, ma questo va sempre messo col tentativo della
discussione. Alla teoria darwiniana manca per questo ogni individualità
propria, e può entrare nei sistemi filosofici più diversi; individualità e
precisione che Qui espongo semplicemente l'integrazione della teoria darwiniana
offertaci dal l'Angiulli, non ne faccio la critica, perchè ciò non
risponderebbe allo scopo che mi son proposto più sopradimostrare come il Darwinismo
sia una pura teoria scientifica, non filosofica. Dirò solo che sarebbe oltremodo
necessario precisare sia l'immaginazione anticipativa organica che
l'adattazione raziocinativa. le vengono impartite dall'integrazione fattane,
la quale racchiude un pensiero filosofico. Il concetto della selezione è per se
stesso abbastanza elastico,e si presta alle più disparate interpretazioni, ond'è
che per vedere un concetto filosofico in essa,la si è più o meno piegata alle
proprie idee. La selezione, si è detto, è il fatto stesso della variazione
prodotta dal complesso delle attinenze e delle condizioni interne ed esterne
dell'essere vivente: è un'espressione a b breviativa di tutte le condizioni
interne ed esterne di esistenza: non è la causa della variazione, ma è
l'espressione di essa.La selezione, si è anche detto, non deve circoscriversi a
significare l'accumulazione di quelle varia zioni che sono utili nella lotta
coi competitori, ma deve essere intesa in un senso più generale, cioè come
quell'aspetto della variazione che rende l'or ganismo atto a sopravvivere,come
espressione metaforica del fatto che ogni equilibrio di forze meglio adatto a
sopravvivere, sopravvive. Intesa a questo modo,rispondo io,la selezione
naturale diviene un con cetto astratto, una forma vuota,e non più una legge
concreta e produttiva, o,meglio,esplicativa dei fenomeni. Se essa non ci si
presenta come un con cetto definito e preciso, si può lasciarla impunemente da
parte. Ma è poi vero che nella mente del Darwin la selezione naturale
significasse ciò che vogliono alcuni filosofi d'oggi? A me non pare: per lui
era la legge dell'e voluzione organica. Aggiustarla ora in varie guise prova
sempre più l'inde terminatezza delle vedute darwiniane, rileva la poca esattezza
da parte di chi sconvolge le idee, ed in ogni caso è reso sempre più certo il
fatto che la teoria darwiniana vera e propria è perfettamente estranea alla
Filosofia. L'ultima parte dell'opera dell'Angiulli riguarda l'etica; vi si
trova la giustificazione completa del titolo La Filosofia e la Scuola. Dirò
solo che codesta parte non è inferiore alle altre da qualunque punto di vista
si voglia considerare. Ora non mi è concesso discuterla; spero di farlo in
altra occasione,ma non concluderò senza affermare che questo dell'Angiulli è
fra i lavori filosofici dell'ultimo decennio, di cui maggiormente possa
onorarsi il pensiero italiano. sono, come l'Ente, altro che umane
astrazioni. Noi non conosciamo il pensiero se non come un'attività, una
funzione dell'umano organismo. Però lo spirito assoluto, e tutte le altre entità
metafisiche sono una produzione di questa umana attività, un fenomeno
psicologico. Vale dunque solol'opposito diciò che affermavaHegel:in luogo cioè
di essere la natura e la materia una manife stazione del pensiero, egli è il
pensiero una m a n i fesiazione della natura e della materia. Oltre alla
materia non vi ha altro principio. Il materialismo ed il naturalismo è dunque
ad un tempo la conse guenza e la confutazione dell'eghelianismo.Questa specie
di dialettica della dialettica egheliana è un fatto storico,ilcui maggiore
autore fu il Feuerbach, 12 M W L'io assoluto dell'Hegel, cioè il pensiero
e lo spirito assoluto, affermato c o m e principio e verità di tutte le
cose,non è altro che la massima di Pro tagora spogliata del carattere
d'individualismo. Se Protagora esprimeva esagerato un fatto reale, H e gel
esprime esagerata un'astrazione spiritualistica, che non è meno relativa del
relativismo sofistico. Feuerbach tornaall'uomo concreto.L'uomo èan cora per
luiilcentro della filosofia,ma nè più co m e l'individuo arbitrario dei
sofisti, nè più come l'universale astratto dell'Hegel, si bene come tutto
l'uomo,come sensibilità e come società. Di con tro all'idealismo si riafferma
il realism. Solo Però l'astrazione è produzione di nuovi concelli solo in
quanto è trasformazione di precedenti.Anche per la psicologia moderna vale ciò
che vale per la geologia modern a; le funzioni ed i prodotti psicologici sono
spiegabili con le stesse forze fisiche e fisiologi che,con
l'aggiuntadelfattoredeltempo.L'eredità. psicologica è un altro fatto accertato
dalla scienza moderna e capace di recare molta luce in siffatte quistioni. Noi
non facciamo che continuare le atti iudini e le conquiste del passato.
Ilprogresso è l'educazione dell'umanità;la civiltà è un risultato d'esperienza,
e non un miracolo di rivelazioni. Ma con tutte queste aggiunte e modificazioni
dell'empirismo voi, si dirà,non potrete mai elevarvi sopra la sfera del
sensibile;ossia le cause che voi potete ricercare non possono essere che altri
fatti primitivi;eleleggichevoipotetescoprirenon pos sonoessere altro,che le relazioni
costanti dei fatti. Precisamente questo: così l'uomo moderno ha in sè stesso il
suo punto di appoggio, e la storia ha in sè stessa la sua legge, senza bisogno
di entità teologiche o metafisiche che la dirigano, come la natura ha in sè
stessa l'energia ed il principio della sua esistenza e della sua spiegazione.
La natura fondamento della natura, ecco il grande principio della cultura
ccidentale (ουδένάνευφύσιοςγίγνεται,γίγνεται 27.12.çúcevēxo.oto.). Allora ricadetenel
positivismo schiell. No, perch è se il positivist a r i l i c n e come. Opere: “La filosofia
e la ricerca positiva: quistioni di filosofia contemporanea”; L'idealismo
assoluto confutato dal materialismo. L'idealismo ed il materialismo nel corso
della storia della filosofia. La filosofia greca. La filosofia naturale dei
romani antichi. La fondazione della scienza positiva. Il medio evo. Il
risorgimento italiano. La filosofia moderna. Il secolo XVIII. Il criticismo di
Kant in Italia. La filosofia speculativa. La ricerca scientifica. La critica
filosofica e la scienza positiva. La filosofia positiva -- il positivismo
filosofico in Italia. Che cosa manca al positivismo filosofico. Gli altri
sistemi contemporanei. Vacherot, Renan, Taine, Comte, Mill, Littré. La
filosofia come ricerca positiva.– V.La filosofia e la storia. “Gl’hegeliani e i
positivisti in Italia e altri scritti inediti”(Savorelli); Pubblicazione
dell'Accademia toscana di scienze e lettere "La Colombaria". Gli
hegeliani e i positivisti in Italia. Positivismo e socialismo. Problemi di
etica; Evoluzione, educazione e società. Il prof. Haeckel e la pena di morte.
Dal carteggio di Andrea Angiulli". Collezione "Studi". “La pedagogia lo stato
e la famiglia”; Natura complessa della quistione sociale. Riguardalari or
ganizzazione della cultura nei diversi strati della socie tà. Problema
dell'educazione. Antinomie dei sistemi pedagogici. Una Pedagogia scientifica è
resa impossibile dalle dottrine della teologia e dell'ontologismo. La teoria
dell'educazione presuppone la legge dello svolgimento nel campo della biologia
e della sociologia. L'attuazione di un sistema scientifico dell'educazione
nazionale presuppone la costituzione dello Stato libero, il trionfo libertà e
di ordine. Appartiene agli uffici dello Stato. L'istruzione scientifica. La
scuola laica. L'eliminazione del catechismo non rende la scuola antireligiosa.
Non vi ha conflitti tra la scienza e la religione in generale. La perfezione
religiosa deriva dai progressi della scienza. La scienza la religione e la
morale. La scienza e l'arte. La scienza e la quistione economica. La scienza e
la quistione politica. Difficoltà per l'attuazione del l'istruzione
scientifica. La riorganizzazione delle scuole normali. Le condizioni dei
maestri elementari. Insufficienza dell'azione diretta dello Stato. La famiglia.
L'opera della madre. Il punto culminante del problema. L'istruzione richiesta
nella donna per compiere il suo ufficio di sposa, di madre, di educatrice.
Insufficienza dell'istruzione per migliorare il carattere e la condotta umana.
Una dottrina di H. Spencer. Il Lewes.Verità della politica scientifica.
L'educazione è un dovere nazionale. È un principio di VIII parziale
di questa dottrina. È anche vero che l'istruzione determina gli affetti e
conferisce al perfezionamento morale e pratico. Il Luys. Il Littré. Il nostro
discorso rimane saldo ad ogni modo. Ammesso come vero che la condotta sia
determinata dalle associazioni del sentimento, rimarrà vero che solo dalla
conoscenza delle leggi onde si formano coteste associazioni, cio è solo
dall'istruzione scientifica dipenderanno in ultima analisi gl'indirizzi
dell'operare, il miglioramento morale dell'individuo e della razza. “La filosofia e la
scuola” La quistione fondamentale della filosofia. Rapporti tra le scienze
e la filosofia rispetto alla conoscenza della realtà. L'unità dell'oggetto e
del processo conoscitivo. La filosofia non è una pura somma de' risultamenti
delle scienze. Le scienze generano la filosofia. La moltiplicazione delle
scienze agevola l'opera della filosofia. Tre modi d'intendere quest'opera della
filosofla riguardo alle scienze. La filosofia è una ricerca progressiva, e può
scoprire verità di un ordine superiore. Il *fondamento esplicativo* delle
scoperte scientifiche è dato dalla filosofia. Influenza reciproca della scienza
e della filosofia nel corso della storia. La filosofia come dottrina generale
della conoscenza e della scienza. Medesimezza di natura tra la conoscenza
comune, la scienza e la filosofia. Relazione storica della logica o dialettica
e delle scienza. Classificazione della scienza. Dottrina del Comte. Rapporto
delle scienza astratta e della scienza concreta. Un concetto della filosofia
più compiuto di quello del Comte. La dottrina dello Spencer. Gli stadi
dell'evoluzione cosmica e la clas sificazione della scienza. Il posto della psicologia
filosofica nella classificazione della scienza. Bain, Spencer. La ricerca
*meta-fisica* come *compimento indispensabile* della scienza e della dottrina
della scienze. Lacuna del Comte. Il lato *logico* o dialettico ed il lato
*cosmo*-logico della meta-fisica. La ricerca delle origini e degli elementi
generativi dei fatti è una nota caratteristica della scienza e della filosofia.
Contraddizione del Comte. Il Littré. L'inconoscibile dello Spencer. Il lato
metafisico dell'etica. La religione dell'umanità e dell'inconoscibile. Sistema
e speculazione. IV. Il problema della critica. Ladottrina del Kant si muove
sopra un supposto *non*-critico. Gli elementi della conoscenza. Il molteplice.
I problemi della filosofia, della sensibilità. Le forme dello
spazio e del tempo. Le categorie del l'intelletto. L'attività sintetica
originaria della mente. La funzione sopra-individuale della conoscenza. Critica
della dottrina kantiana. Il neo kantiani e i vetero-kantiani. I neo-criticisti
e i vetero-criticisti. La critica e la psicologia filosofica. Il Liebmann, il
Riehl, il Goering, il CARNERI. Il positivismo francese. John S.Mill. I Spencer,
Lewes. La critica dell'esperienza e la dottrina della conoscenza. Il falso
supposto dualistico della vecchia critica. L'unità dell'io è un'illusione
metafisica. La genesi della coscienza. L'embriologia mentale. Le facoltà
psichiche sono una derivazione dell'esperienza. Gli elementi dell'esperienza
debbono ricercarsi col soccorso dell'esperienza stessa. Le esperienze
incoscienti. Le leggi della vita e le leggi dell'esperienza. Il senso e
l'intelletto. La sensazione e la coscienza. L'attività trasformatrice
dell'esperienza. L'esperienza ereditaria e l'esperienza individuale.
L'esperienza abbraccia tutt'i lati della mente. La legge dell'esperienza e la
legge dell'associazione. L'esperienza individuale e l' ESPERIENZA sociale e
COLLETTIVA esperienza collettiva. L'esperienza storica. La psicologia
sperimentale e la dottrina della conoscenza. Le leggi della sensazione e del
pensiero. L'elemento a priori della conoscenza è un prodotto dell'esperienza
stessa. Trasformazione dei gradi più bassi della conoscenza mediante le
attività più elevate della mente. La genesi dei concetti e delle categorie. Le
note della necessità e dell'universalità della conoscenza. Il principio della
regolarità nell'ordine della realtà. Il realismo sperimentale. Le proprietà del
reale. Lo spazio ed il tempo. Il fatto, la legge e la causa. La metafisica. La
dottrina dell'evoluzione cosmica. Il problema intorno alla concezione del
mondo. Sguardo storico della dottrina dell'evoluzione cosmica. I fattori della
dottrina scientifica dell'evoluzione. Gli elementi primitivi della materia e
della forza. La sostanza e il divenire. Due lati di un unico problema.
Interpretazione più esatta del processo di evoluzione. L'evoluzione biologica.
L'origine della vita e della mente. Le pro prietà capitali dell'essere vivente.
La nutrizione, la riproduzione, la sensibilità, la motilità. L'origine delle
specie viventi spiegabile mediante l'azione delle attività fondamentali della
vita. La dottrina del Darwin. Estensione del principio della lotta per
l'esistenza. La selezione è il *risultato* non la causa della variazione.
L'efficacia dell'elemento psichico. L'*evoluzione sociale*. La legge
dell'associazione nel seno della biologia. *Formazione della società etnica*.
Struttura e funzioni dell'*organismo sociale*. Esagerazione dell'analogia
biologica. La dottrina del Comte e dello Spencer. Dallo studio degl'individui
non si può ricavare l'esplicazione del fatto sociologico. I fattori che
determinano la differenza specifica e qualitativa del fatto sociologico. Il
consentimento volontario e la creazione di prodottiche debbono essere appresi.
Rapporti tra i prodotti della cultura nello svolgimento progressivo della vita
sociale. La dottrina dell'Etica. La sociologia mette capo al problema
dell'etica. La dottrina del l'etica compie il concetto della filosofia.
Nell'etica si accoglie un problema di un significato cosmico. L'etica e la
religione. La dottrina dell'evoluzione è il fondamento più saldo e perfetto
dell'etica, ed è il fondamento di una nuova religione. La religione nella sua
forma primitiva è una scienza nascente. Gli elementi costitutivi della
religione. Il lato pratico, il lato estetico. La legge morale e la legge
dell'ordine cosmico. Il fatto morale è il *prodotto* no n il presupposto
dell'evoluzione. L'ottimismo e il pessimismo. Il concetto d'evoluzione e la
nuova dottrina del migliorismo. La base biologica sociale storica dell'etica.
Il fattore dell'ideale nell'etica e la quistione della libertà umana. La
libertà è un prodotto sociale e storico. L'educazione rinnovatrice
dell'esistenza sociale è una funzione dell'etica. L'educazione nel suo metodo e
nel suo contenuto scientifico. Opinione dello Spencer. Le materie
dell'istruzione designate dai fini della vita. Il loro ordinamento conforme
allaclassificazione delle cognizioni scientifiche. Il fine dell'istruzione non
si raggiunge se non si porge una intima connessione tra i diversi rami degli
studi. Questa connessione è l'opera della filosofia. La filosofia nei diversi
gradi della scuola. Gl’insegnamenti della scuola primaria debbono essere
animati da uno spirito filosofico per raggiungere la loro efficacia educativa.
Lo studio della filosofia nella scuola media. Trasformazione di questa scuola
secondo i bisogni della cultura moderna. Lo studio della psicologia nella
scuola media. La teorica della conoscenza. Lo studio della filosofia
all'università. Efficacia pratica e sociale di questo studio. Curiosità Al
professore è stata intitolata, la Società Ginnastica Angiulli di Bari. Garin,
Dizionario Biografico degli Italiani, riferimenti in. Andrea Angiulli, La filosofia e la ricerca
positiva, Napoli, tip. Ghio, Gnocchini, L'Italia dei Liberi Muratori, Erasmo
ed., Roma, Volpicelli, La Pedagogia: storia e problemi, maestri e metodi,
sociologia e psicologia dell'educazione e dell'insegnamento, ed. Piccin,
Espinas, La Philosophie expérimentale en Italie. Origines-Etat actuel, Paris, Alterocca,
Sulla vita e sulle opere di A. A.,Milano, Colozza, A. A., in Diz. illustrato di
Pedagogia, Milano, Ferrari, Il Liceo Vittorio Emanuele II di Napoli,
all'esposizione universale di Parigi, La cattedra di filosofia, Napoli, Orestano,
A. A., Roma, Gentile, La filosofia in Italia, I Positivisti. V. A. A., in
"La Critica", (e in "Le
origini della filosofia contemporanea in Italia", II, Messina, G. Flores
D'Arcais, Studi sul positivismo pedagogico italiano, Padova, Spirito e F.
Valentini, Il pensiero pedagogico del positivismo, Firenze, Tisato, Positivismo
pedagogico italiano, II, Torino, Savorelli,
Positivismo a Napoli. La metafisica critica di A. A., Napoli, G. Oldrini,
Idealismo italiano tra Napoli e l'Europa, Milano, Donzelli, Origini e declino
del positivismo. Saggio su Auguste Comte in Italia, Napoli, Cavallera, A. A. e
la fondazione della pedagogia scientifica, Lecce, Positivismo Pedagogia
Famiglia Eugenio Garin, Andrea Angiulli,
in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Opere di Andrea Angiulli,. Andrea
Angiulli, in L'Unificazione, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Filosofia
Istruzione Istruzione Filosofo del XIX
secolo Pedagogisti italiani Castellana Grotte Napoli Massoni Professori
dell'Bologna Professori dell'Università degli Studi di Napoli Federico II.
Angiulli. Keywords: la dialettica della dialettica; l’antisignano del
positivismo filosofico – metafisica critica – l’organismo sociale, il fatto
sociale, la collettivita, il fatto collettivo, il fatto sociale – la societa,
la collettivita, la collettivita etnica, la razza. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice ed Angiulli” – The Swimming-Pool Library.
Grice ed Anioco – Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza
(Metaponto). Filosofo italiano. A Pythagorean according to Giamblico
Grice ed Annunzio –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Pescara). Filosofo italiano. Grice: “I
will call him a philosopher.” D’Annunzio
e il fascismo è una storia italiana. I Contemporanea. L’Illuminismo
oscuro Il rapporto tra il vate e il fascismo è molto più complesso e
burrascoso di quanto si pensi: un poeta buono nell'infondere emozioni e a
forgiare l’immaginario collettivo, ma che poco ha a che spartire con Mussolini
e la dottrina fascista. Difficile trovare un personaggio più divisivo di
Annunzio. O lo si ama o lo si odia. Chi lo ama, solitamente, sa vagamente
perché. Chi lo odia, il più delle volte, non ha idea della ragione. Pochi si
addentrano nel personaggio, nelle opere, nella biografia, nella sua filosofia,
e finiscono per apprezzarlo per le sue magnificenze e contraddizioni, senza
amarlo né odiarlo. L’uomo presenta slanci superbi e difetti inemendabili, che
si elidono e restituiscono l’immagine di una persona straordinaria.
Propaganda Filippo Tommaso Marinetti. Come si seducono le donne Manuale di
seduzione futurista. Coraggio, coraggio, coraggio: ecco l’afrodisiaco supremo
della donna! Una celebre contraddizione di Annunzio fu l'adesione al fascismo.
La questione viene spesso relegata a una semplicistica organicità del vate al
regime e alla sua dottrina politica, cosa che lo rende – come se interventismo,
erotomania, morosità, dissolutezza e tossicodipendenza non bastassero – inviso
e disprezzato dai più. Dire che Annunzio fosse un antifascista sarebbe
un’esagerazione fuori luogo, dire però che fosse un fascista fatto e finito è
altrettanto un errore, perché ben poco condivideva di quella dottrina e certo
non fu amico di Mussolini. Il personaggio e le sue scelte sono figli di quel
tempo complesso, e della lacerante crisi che l’Italia vive. Proiettiamoci
allora con l'anima in quegli anni terribili. Cartolina disegnata da
E. Anichini per il centenario dantesco. Si vede l’Italia tra Dante e Annunzio,
in una specie di simbolico passaggio di consegne. Il vate, nella mano destra un
fascio curiosamente capovolto, è rappresentato come la più illustre personalità
d’Italia: colui che, come Dante unifica linguisticamente lo Stivale, lo unifica
con la forza della parola e delle mani. È una cartolina pubblicata per conto
dei fascisti, in cui di Mussolini non si fa la minima menzione. Per tutti, se
un duce ci è non può che essere Annunzio. È finita la Grande
Guerra e l’Italia è sull’orlo di un altro conflitto, una guerra civile. I
reduci sono delusi e arrabbiati, sia i cosiddetti interventisti democratici –
quelli che intendeno portare il popolo in armi alla liberazione dei compatrioti
sotto dominio straniero –, sia gli interventisti nazionalisti – coloro che
auspicano che l’Italia, sconfiggendo lo storico rivale dispotico e arrogante,
potesse sedere al tavolo delle grandi potenze – si trovano a stringere un pugno
di mosche: alle trattative per la pace l’Italia ottiene ben poco ed è trattata
con sufficienza. Tre anni di combattimenti, 600 mila caduti e la vittoria sul
campo non garantiscono quanto era stato promesso nel Patto di Londra -- è la
vittoria mutilata. I nazionalisti insorgono. Annunzio ha occupato Fiume e la
tiene fino a quando lo stesso governo italiano bombarda la città mettendo fine
all’avventura della Reggenza Italiana del Carnaro. Come se non bastasse, in
Italia scoppiano scioperi e rivolte. Gl'operai si ribellano, occupano le
fabbriche, erigono barricate. Scioperano gli agrari, i sindacati si mobilitano,
le piazze sono in tumulto, il Partito Socialista si agguerrisce: si compie il
biennio rosso, che culminerà, almeno simbolicamente, nel Congresso di Livorno,
quando la corrente massimalista del Partito Socialista secede, dando vita al
Partito Comunista. I fascisti seminano violenza in tutta la Val Padana e anche
oltre. Si scagliano contro i socialisti e le loro sezioni, contro gl'operai, i
contadini, i comuni amministrati dalla sinistra. Sono il primo antidoto
repressivo al biennio rosso. Obiettivo prestabilito: i rossi, la canaglia
bolscevica, i pacifisti traditori. Uniti nella lotta, socialisti, comunisti e
anarchici fronteggiano un nemico comune, le squadre di camicie nere.
La classe dirigente liberale è impotente, il parlamento litigioso e
inconcludente, i politici non hanno consenso: le trattative di pace sono state
condotte con scarsa convinzione e l’amministrazione pubblica è allo sbando. La
gestione dell’ordine pubblico è quasi inesistente, tanto che frange
dell’esercito, delle forze dell’ordine e alcuni prefetti iniziano a
simpatizzare coi fascisti: almeno loro riescono a garantire un minimo di
ordine, seppure in maniera inadeguata a uno stato di diritto. Qui si incastra
una doppia illusione. Da un lato, parte della borghesia industriale e agraria
foraggia i fascisti in funzione anti-rivoltosa, contro i propri stessi
lavoratori indisciplinati. Dall’altro, la classe politica *liberale* ritiene
che queste squadre di *incolti picchiatori* siano utili a mantenere ordine e a
prevenire una possibile rivoluzione socialista, e che spariranno a breve come
tutti i fenomeni pittoreschi, capeggiate come sono da cinici opportunisti,
violenti agitatori e da un parolaio magico. Gl'uni e gl'altri credono di
potersi servire di questo movimento finché lo si farà durare, per i propri
comodi. Annunzio legge nella Capponcina -- è noto per le opere
letterarie, i saggi filosofici decadentisti, le avventure amorose e per il suo
gusto nel bel vivere. La guerra, Fiume e le folle sono di là da venire. A
questa età, Mussolini si appresta a diventare capo del governo. In tutto ciò
Annunzio *è l’italiano più famoso all’estero* e più influente in patria. La
parola del Poeta non è quella di uno scrittore o un politico normale. Annunzio
è un *eroe di guerra*, è l’artefice dell’Impresa di Fiume. Occupa le prime
pagine dei giornali di tutto il mondo -- è uno scrittore acclamato, il più
tradotto, il più amato e il più odiato. Ha un seguito enorme, migliaia di
sostenitori appassionati, reduci di guerra e ammiratori comuni, e centinaia di
legionari fiumani legati a lui da giuramento -- è un uomo che può raccogliere
attorno a sé migliaia di fedeli, persone che tra le altre cose conoscono le
armi. È un uomo pericoloso. Quando arringa, unisce; quando dileggia, divide. È
bipartisan il Vate, piace a tutti e non appartiene a nessuno -- è inserito fino
al collo nell’ALTA SOCIETÀ, piace agl'ARISTOCRATICI -- è un fervente patriota,
beniamino di tanti nazionalisti. Ha incassato la stima di Lenin e in alcuni
momenti pare davvero un rivoluzionario, per questo lo osservano diversi
proletari. Lo vorrebbero con loro anche molti fascisti. Ma Annunzio non
ricambia il favore ai demagoghi che credono di aderire alla realtà e non
aderiscono se non alla loro camicia sordida. È un ottimo momento, ma il Vate
temporeggia. Stanco, disilluso, disgustato dalla politica e dal governo
*liberale* che gli ha tirato addosso le granate, a lui che, *monarchico* e
patriota, vanta sette medaglie al valore. Si è ritirato nella villa di Gardone,
sul Lago di Garda, e sostiene che non c’è oggi *in Italia* nessun
movimento politico sincero, condotto da un’idea chiara e diretta. Perciò è
necessario che noi facciamo parte di *noi stessi*, immuni da ogni mescolanza e
contagio. Annunzio osserva il caos in cui l’Italia versa e decide di non
gettarsi nella mischia. Lui ha già combattuto, non è questo il suo terreno.
Spera in fondo che un giorno non lontano tutta Italia lo richieda a gran voce
come paciere, novello *dittatore romano* che scongiura la guerra civile. Ha
tutte le carte in tavola ma non le sfrutta. Dice di sé. Mi auguro di essere la
persona alla quale un giorno si penserà dicendo: Avanti! Non resta che
lui! I fascisti credono sia arrivata la loro ora, ma manca un vero
condottiero. Mussolini è l’ideologo, l’*inventore* del movimento, ben lontano
dal diventare il *duce degli italiani*. Colui che in questo momento viene
acclamato come *duce dalla gioventù* è Annunzio, il condottiero che deve portare
al potere *la giovane Italia* nata nelle trincee, scalzando la pletora di
politici vecchi e mercanteggianti che hanno vinto la guerra non per merito loro
e hanno svenduto la patria allo straniero. Annunzio ha il carisma, il seguito,
la statura culturale per trascinare i giovani e i reduci a Roma, compiendo
quella rivoluzione italiana che *nulla ha a che fare con la rivoluzione
bolscevica*. Ci sperano i suoi seguaci, meno lo agogna lui. Annunzio è però
anche un cialtrone, un oratore capace di trascinare le folle nei momenti bui ma
del tutto inadeguato alla politica intesa come mediazione e governo quotidiano.
Ciononostante vanno in molti a bussare alla sua porta. Contemporanea
Nicola Maiale In Fiamme Violenza politica in Italia dalla belle époque alla marcia
su Roma. Mussolini sigla il patto di pacificazione coi socialisti, che prevede
la rinuncia bilaterale alla violenza e la *costituzionalizzazione* del
movimento fascista, e all’interno dello stesso movimento le polveri esplodono.
"Chi ha tradito, tradirà" si legge sui manifesti affissi dagli stessi
fascisti a Bologna. L’ovvia implicatura è al tradimento del Mussolini
socialista. La massa fascista, le squadre e i rispettivi ras, ripudiano la
guida di Mussolini, che ricambia con le dimissioni (rigettate) e affermando che
quello che era un movimento ideale si è trasformato in una banda armata al
servizio del capitale. Mussolini è politicamente fuori gioco e i ras invocano
il duce che è tornato da Fiume da pochi mesi. Dino Grandi e Italo Balbo si
incaricano dell’ambasciata a Gardone per offrirgli la guida del fascismo.
Annunzio rifiuta nettamente, senza rispetto, e i due se ne vanno sdegnati.
Anche Gramsci compie il pellegrinaggio! Non si sa quale sia la proposta perché
Annunzio rifiuta di incontrarlo poiché, dice, non posso lasciarmi imporre
i colloqui. Forse Gramsci vuole trascinare il poeta nel Partito
Comunista, più probabilmente proporgli di unire i suoi legionari alla
resistenza antifascista. Perché si sa che Annunzio non ama i fascisti, seppure
con una certa ambiguità, e il disprezzo è ancor più motivato dai toni che in
quel momento Mussolini assume nei riguardi del Vate, quando smette la riverenza
e dice apertamente che le iniziative politiche di Annunzio sono irrilevanti,
che egli è inaffidabile e capriccioso, inservibile e intrattabile. Non ha tutti
i torti. Annunzio sarà anche stato l’eroe di guerra, il condottiero che prende
Fiume in armi e la tiene per un anno e mezzo, ma è pur sempre un poeta, un
dandy *narcisista* e *dissoluto*, uomo adatto alle arringhe, a infondere
emozioni e volontà, a forgiare l’immaginario collettivo, ma di cosa sia la
politica non ne ha idea e non vuole saperne nulla, disgustato com’è da tutto e
tutti, desideroso solo di crogiolarsi nella sua solitudine e tornare ad essere quel
che era, un operaio della parola, come ama sempre definirsi. I due
personaggi appaiono quanto mai diversi. In questa immagine si ritraggono un
Mussolini primo *deputato* fascista, *sguardo severo* e *abbigliamento scuro*,
minaccioso nell’espressione, e un Annunzio in uniforme, gli occhi persi nel
vuoto, indubbiamente più affascinante, ma *meno granitico*. Nel periodo
precedente la marcia su Roma Annunzio mostra particolare ostilità al fascismo.
Dopo il fallito tentativo di Gramsci, sono ricevuti i capi della CGIL e persino
Čičerin, commissario sovietico agli Affari esteri, tutti per attrarlo
nell’orbita antifascista. Ma le parole faticano a trasformarsi in fatti. Di
agire stivali sul terreno non se ne parla. Si fa vivo addirittura Nitti, il
Cagoja, l’odiato primo ministro dei tempi fiumani, che gli scrive:
bisogna unire tutte le forze per finire questo regime di stupidità e di
violenza, per riportare l’Italia ai suoi ideali di democrazia, di libertà e di
lavoro. Non m’importa di me. Tu vedi il pericolo e puoi agire sulla *gioventù*,
infiammandola e riportandola al buon sentiero. Francesco Saverio Nitti Il
momento di Annunzio è giunto, può mettere finalmente d’accordo le forze in
lotta e prendere le redini di un paese nel caos. Viene organizzato un incontro
tra Nitti, D’Annunzio e Mussolini. Due giorni prima il poeta cade da una
finestra della stanza della musica, dal primo piano del Vittoriale. Sul volo
dell’arcangelo, come lo chiama, vede fatta molta *dietrologia* e qui la storia
fatta con i “se” potrebbe sbizzarrirsi. Chissà cosa sarebbe successo se si
fossero incontrati e Annunzio avesse espresso la sua terzietà e l’opposizione
rispetto a un governo fascista. Fatto è che l’incontro viene annullato. Il
poeta non lo sa ancora, ma è definitivamente uscito di scena. La
foto ritrae Mussolini come tutti lo conoscono. Non veste ancora l’uniforme ma
già fa mostra di tutto il suo stile: attorniato da *camicie nere*, posa con lo
sguardo arcigno, la mascella prominente e le mani sui fianchi. Pittoresco e
quasi ridicolo all’apparenza, conquista nonostante ciò le folle, armato della
retorica altisonante e aggressiva, trionfale e accattivante, che ha in parte
imparato da Annunzio. Mussolini va a trovarlo ma non viene ricevuto. Si
incontrano ugualmente ma senza risultati tangibili. Ormai i tempi sono maturi,
i fascisti vogliono il potere e vanno a prenderselo. Ricorre l’anniversario
della vittoria e Annunzio è invitato nella capitale per presenziare le
celebrazioni, per questo la marcia su Roma viene anticipata di una settimana.
Mussolini teme che il Vate possa effettivamente convogliare alcune correnti in
favore del governo e compromettere l’iniziativa fascista. Le squadre
imperversano per le strade di Roma. Vittorio Emanuele III rifiuta di firmare lo
stato d’assedio e convoca Mussolini. Annunzio è ormai un relitto della
politica. L’uomo che poteva fare non ha fatto, colui che aveva forze vive,
uomini, consenso e autorevolezza, non aveva né l’idea né l’ambizione.
Obnubilato dalla sua stessa grandezza, si è rimpicciolito fino all’inutilità.
Forse l’aveva proprio cercata questa inutilità, non gli interessava praticare
la politica quanto ritrovare se stesso e la sua arte, in solitudine, se è vero
che confidò a un amico pochi mesi prima. "Ho voluto ri-entrare nel silenzio,
ho voluto essere un capo senza partigiani, un *condottiero senza seguaci*, un
*maestro senza discepoli*. Gabriele D’Annunzio Mesi dopo, uno che per
vivere la Grande Guerra ha falsificato la carta d’identità e si è qualificato
come giornalista, che aiuta l’esercito italiano in Veneto nel servizio
ambulanze, uno scrittore di nome Ernest Hemingway, scrive di Mussolini come del
più grande bluff d’Europa. Aggiunge che sorgerà una nuova opposizione,
anzi si sta già formando, e sarà guidata da quel rodomonte vecchio e calvo,
forse un po’ matto, ma profondamente sincero e divinamente coraggioso che è
Annunzio. Purtroppo per l’Italia, cui nei successivi anni non verranno
risparmiate sofferenze e costrizioni, la previsione di Hemingway non si rivela
esatta. Un’opposizione è effettivamente incarnata dal Comandante, ma rimane
silente, sepolta nelle mura del Vittoriale e dell’incombente vecchiaia.
Comunismo d'annunzio fascismo fiume Gabriele D'Annunzio Italia Mussolini prima
guerra mondiale seconda guerra mondiale Socialismo socialisti italiani. La
costituzione più bella del mondo. Quella sì, fu davvero “la più bella
costituzione del mondo” e non per modo di dire. Per i contenuti, lo stile, la
prosa, l’idealità che sprigionava. La Carta del Carnaro non fu scritta da pur
insigni costituzionalisti e rivista da politici, come la nostra costituzione.
Fu scritta da un grande sindacalista e rivista da un grande poeta-soldato.
Parlo di Alceste De Ambris e di Gabriele d’Annunzio. Fu animata dal confluire
di tre grandi energie: l’amor patrio, lo slancio poetico e lo spirito
sindacalista rivoluzionario. All’articolo 2 della parte generale, scritta da De
Ambris sono condensate tutte le parole chiave della carta: democrazia --
diretta, sociale, organica, fondata sulle autonomie, sul lavoro produttivo e
sulla sovranità collettiva di tutti i cittadini. È d’Annunzio a parlare nella
sua stesura della volontà popolare, del fato latino, e d'evocare il Carnaro di
Alighieri, l'estremo confine della civiltà romana, e il culto della lingua. È d'Annunzio
a sostituire 'repubblica' con quella più classica 'reggenza' -- intesa
come governo del popolo. Fu Annunzio a richiamarsi ai produttori e agl'ottimi.
E fu Annunzio a indicare nella bellezza della vita, del lavoro e della virtus,
la credenza religiosa collocata sopra tutte le altre, che guida lo Stato.
La forte impronta sociale e popolare della carta non impede il culto
aristocratico dell’eccellenza e la tutela delle arti e delle discipline più
nobili, del corpo e dell'anima. Nella carta è garantita ogni
libertà dei cittadini, il voto universale -- è poi ribadita la
funzione sociale della proprietà privata ed era disegnato l’assetto delle
corporazioni di arti e mestieri. Nove corporazioni raccoglievano i lavoratori
nelle loro articolazioni (terra; mare, operai, impiegati, liberi
professionisti, intellettuali); la decima corporazione era enigmaticamente
riservata alla forze misteriosa del popolo in travaglio e in ascendimento, al
genio ignoto, all’uomo novissimo, a colui che fatica senza fatica
-- è risolto il dilemma tra parlamentarismo e presidenzialismo,
riconoscendo centralità al lavoro e sovranità al popolo dei produttori
-- è introdotta la figura di un comandante, inteso come il dictator
romano, con pieni poteri ma limitati a un breve arco di tempo. Elementi
costitutivi della carta sono l’auto-decisione del popolo, la possibilità di
indire referendum, la tutela dei sacri confini nazionali e della civiltà
italiana-latina-romana, l’istruzione e l’educazione del popolo come il più alto
dei doveri della repubblica, la musica riconosciuta nella costituzione come
un’istituzione religiosa e sociale. Nel linguaggio d’oggi dovremmo dire che
sovranismo, amor patrio e populismo furono i cardini ideali della carta del
Carnaro. La fusione tra poesia, trincee e sindacalismo è il suo timbro
originale. Veniva poi costituita una Lega di Fiume che une in un solo fascio la
forze sparsa di ogni. Cerca l’adesione della Russia Bolscevica ma si rivolge
anche ai paesi islamici. Annunzio esalta il risveglio dell’Islam, auspice
Italia, dispensatrice di diritto e giustizia. Memorabili i discorsi fiumani
d'Annunzio che prepararono il terremo alla reggenza del Carnaro e al suo
statuto. Da L’orazion piccola in vista del Carnaro a l’Hic manebimus optime. E
a Fiume vi rimane davvero. La carta del Carnaro non è il sogno
proibito di una città-utopia separata dalla storia e non è nemmeno il
frutto di un’avventura velleitaria d'un eroe disoccupato a caccia di emozioni,
come l’ha sbrigativamente liquidata Emilio Gentile -- èinvece la visione
più lucida e ardita della politica e della società di combattenti che la guerra
la fano sul serio. Così De Ambris sintetizzò la carta ad Annunzio. Diamo al
mondo l’esempio di una costituzione aristotelico-vichiana-nietzscheiana che in
sé accolge ogni libertà e ogni audacia di Platone, facendo rivivere la più
nobile e gloriosa tradizione della nostra stirpe italica. Esempio perfetto di
rivoluzione conservatrice.Annunzio. Keywords: Alighieri, quarnaro, reggenza,
non repubblica, musica, dictator romano, commandante, il fiume, il fiumenismo,
sindacalismo, utopia, dystopia, revoluzione conservatrice, implicatura
fiumenista, la filosofia in d’annunzio, la carta di carnaro, aristotele, vico,
Nietzsche. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Annunzio” – The Swimming-Pool
Library.
Grice ed Antemio – Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Antemio
is one of the last of the western Roman emperors. He studied philosophy and
became acquainted with a number of members of the Accademia. He was made
emperor, but died five years later when trying to defend Rome from attack.
Grice ed Antimedon – Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano.
According to Giamblico di Calcide (“Vita di Pitagora”), Antimedon was a
Pythagorian.
Grice ed Antimedes – Roma –filosofia
italiana – Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo
italiano. According to Giamblico di Calcide (“Vita di Pitagora”), Antimenes was
a Pythagorian.
Grice ed Antipater – Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Antipater
taught philosophy and was responsible for introducing CATONE Minore to the
Porch. He wrote a book on physics in which he portrays the whole world as a
single living rational being – with its intelligence located in the aether.
Grice ed Antiseri –
solidali – filosofia italiana – Luigi Speranza (Foligno). Filosofo
italiano. Grice: “Antiseri makes a distinction between what you CAN say and
what you MUST ‘tacere’ (i. e. left implicit). Not exactly what I was thinking
when I made the explicit/implicit distinction, but similarly! His point is that
for Vitters, questions of the mystic – which Antiseri compares to Bonaventura!
-- -- ‘la logica di un mistico y la mistica di un logico’! genial – I was
thinking more along the lines that ‘You’ve just committed a social gaffe’ is
best left implicit (“She is a windbag’) – our of manners, etiquette, and what I
call the principle of conversational gentility!” – “So I find the ‘must’ too
strong, and change it for a ‘may’ – but in Antiseri’s case, the point is
conceptual: you just CANNOT make the mysitic explicit, and there is a need (his
word) to keep whatever the mystic is Unexpressed.” Grice: “I like Antiseri, and
he indeed quotes me, not only because he MUST, as in his history of
contemporary philosophy, but because he LIKES it (cf. Italian piacere) – as
surprised I was when I see that when discussing the future of metaphysics
within analytic philosophy he relies on my Third-Programme for the BBC!” Grice:
“Antiseri reminds me of myself, when he discusses ‘senso commone’ and
‘filosofia anallitica’ and ‘linguaggio ordinario’ – that’s why I used to joke,
when lecturing in the New World – and at Welleseley, no less! – about the
“Oxford School of Ordinary Language Philosophy”! Grice: “While Antiseri invests
a lot to make logic of Austin, he has to because he has posited himself as
giving ‘lezione di filosofia del linguaggio’!” Grice: “Most importantly, his
key words, such as solidarity, are very much along the lines that base my
‘ethics of conversation’ which is Kantian in spirit --.” Grice: “Antiseri has
to fight how to deal with this Kantianism along utilitarian lines, as when he
confronts ‘horizontal’ to ‘vertifical’ (i. e. bad) subsidiarity – where a
principle of subsidiarity – or respect for ‘il bene commone – gets balanced
with the principle of solidarity. A Calvinist approach, to some!” – Antiseri:
“It is amusing that Antiseri is forced to defend the relevance of the Romans,
where that is taken for granted at Lit. Hum. Oxford!” -- Dario Antiseri
(Foligno), filosofo. Originario della città umbra di Spello, si laurea in
filosofia nel 1963 presso l'Perugia; ha poi proseguito i suoi studi presso
varie università europee sui temi legati alla logica matematica,
all'epistemologia ed alla filosofia del linguaggio. Divenuto libero docente nel 1968 ha iniziato
l'insegnamento presso l'Università "La Sapienza" di Roma e l'Siena. È
inoltre membro dell'Advisory Board del Centro Studi Tocqueville-Acton. Dal 1975 al 1986 è stato ordinario di
filosofia del linguaggio presso l'Padova mentre, dal 1986 al 2009, ha assunto
la cattedra di "Metodologia delle scienze sociali" alla LUISS di Roma
per poi ricoprire l'incarico di preside della Facoltà di Scienze politiche
della stessa Università tra il 1994 ed il 1998. Nel febbraio del 2002 è stato
insignito, assieme a Giovanni Reale, di una laurea honoris causa presso
l'Università Statale di Mosca. Collabora stabilmente con il quotidiano
Avvenire. Dario Antiseri ha pubblicato
testi didattici di filosofia oltre a testi di divulgazione filosofica e di
autori stranieri, in particolare ha contribuito a far conoscere in Italia il
pensiero di Karl Popper. Critiche Il
pensiero del professor Antiseri è da tempo sottoposto a critiche sia
all'interno della Chiesa sia all'interno del mondo intellettuale liberale. A
tal proposito sono interessanti le critiche recentemente mosse al pensiero
dell'intellettuale da Assuntina Morresi sul giornale on-line L'occidentale e
l'articolo del 2005 su "espressonline" di Sandro Magister in cui
l'opera di Antiseri viene definita "apologia del relativismo". Altrettanto interessante è il commento al
relativismo di Antiseri apparso sul web nel blog di Fabrizio Falconi, e quello
di Litta Modignani pubblicato sul sito Critica liberale. Opere:
“Perché la metafisica è necessaria per la scienza e dannosa per la fede”
(Brescia, Queriniana); Epistemologia e
metodica della ricerca in psicologia, Padova, Liviana Editrice); C'è ancora
spazio per la fede?, Milano, Rusconi); “Il filo della ragione, Roma, Donzelli);
“Liberi perché fallibili, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Trattato di
metodologia delle scienze sociali, POMBA Università); “Come lavora uno storico,
Roma, Armando); “Liberali. Quelli veri e quelli falsi, Soveria Mannelli, Rubbettino);
“L'università italiana. Com'è e come potrebbe essere, Soveria Mannelli,
Rubbettino); “Tre idee per un'Italia civile, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Credere
dopo la filosofia del secolo XX, Roma, Armando); “Didattica della storia:
epistemologia contemporanea, Roma, Armando, Karl Popper, Soveria Mannelli,
Rubbettino); “L'agonia dei partiti politici, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Epistemologia
e didattica delle scienze, Roma, Armando); “La medicina basata sulle evidenze,
Edizioni Memoria); “La Vienna di Popper, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Quale
ragione?, Milano, Cortina); “Teoria unificata del metodo, POMBA); “Cattolicesimo,
Liberalismo, Globalizzazione, Soveria Mannelli, Rubbettino, Karl Popper. Protagonista del secolo XX,
Soveria Mannelli, Rubbettino); “Cristiano perché relativista, relativista
perché cristiano. Per un razionalismo della contingenza, Soveria Mannelli,
Rubbettino); “Epistemologia, clinica medica e la "questione" delle
medicine "eretiche", Soveria Mannelli, Rubbettino); “Principi
liberali, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Idee fuori dal coro, Roma, Di Renzo);
“Ragioni della razionalità [ 1], Soveria Mannelli, Rubbettino); “Cattolici a
difesa del mercato, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Come leggere Kierkegaard,
Milano, Bompiani); “Come leggere Pascal, Milano, Bompiani, Credere. Perché la
fede non può essere messa all'asta, Roma, Armando); “Epistemologia, ermeneutica
e scienze sociali, Roma, Luiss University Press, Introduzione alla metodologia
della ricerca, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Prefazione a Joseph Agassi, La
filosofia e l'individuo, Roma, Di Renzo); “Ragioni della razionalità [2],
Soveria Mannelli, Rubbettino); Relativismo, nichilismo, individualismo.
Fisiologia o patologia dell'Europa?, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Teorie
della razionalità e scienze sociali, Roma, Luiss University Press); “L'ermeneutica
è scienza?, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Liberali e solidali. La tradizione
del liberalismo cattolico, Soveria Mannelli, Rubbettino); “La «via aurea» del
cattolicesimo liberale, Soveria Mannelli, Rubbettino); “La società aperta» di
Karl Popper, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Von Hayek visto da Dario Antiseri,
Roma, Luiss University Press); “Dario Antiseri e Gianni Vattimo. Ragione
filosofica e fede religiosa nell'era postmoderna, Soveria Mannelli, Rubbettino);
“Libertà. Un manifesto per credenti e non credenti, Milano, Bompiani); “Dialogo
sulla diagnosi. Un filosofo e un medico a confronto, Roma, Armando); “L'attualità
del pensiero francescano. Risposte dal passato a domande del presente, Soveria
Mannelli, Rubbettino); “In cammino attraverso le parole, Roma, Luiss University
Press); “Contro Rothbard. Elogio dell'ermeneutica, Soveria Mannelli, Rubbettino);
“Liberali d'Italia, Soveria Mannelli, Rubbettino, Note
Questioni disputate, su chiesa.espresso.repubblica. Marx, un falso profeta sconfitto dalla
storia, su lanuovabq. Contro Popper,
Bruno Lai, Armando Editore, Vedi L'impegno dei cattolici in politica si misura
sui valori non negoziabili Archiviato il 21 gennaio in. di Assuntina Morresi, l'Occidentale, 12
giugno. Vedi Questioni disputate. Un
filosofo cattolico fa l'apologia del relativismo di Sandro Magister,
chiesa.espressoonline, 3 novembre 2005.
Vedi Il relativismo inevitabile? Risposta a Dario Antiseri, Il blog di
Fabrizio Falconi, 1º gennaio. Vedi La
falsa "laicità" che piace al Corriere Archiviato il 30 aprile in. di Alessandro Litta Modignani, Fondazione
critica liberale, 29 maggio. Giuseppe
Franco, Per una biografia intellettuale. In dialogo con Dario Antiseri, in
Giuseppe Franco, Sentieri aperti della ragione. Verità, metodo, scienza.
Scritti in onore di Dario Antiseri nel suo 70º compleanno, Pensa Editore, Lecce, 23–43.
Relativismo. Citazionio su Dario Antiseri Sito ufficiale, su docenti.luiss. Dario Antiseri, su TreccaniEnciclopedie on
line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Dario Antiseri, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana. Opere di Dario
Antiseri,. Registrazioni di Dario
Antiseri, su RadioRadicale, Radio Radicale.
Tocqueville-Acton Centro Studi e Ricerche, su tocqueville-acton.org. Filosofia
Filosofo del XX secoloFilosofi italiani del XXI secoloInsegnanti italiani del
XX secoloInsegnanti italiani Professore1940 9 gennaio FolignoProfessori della
SapienzaRoma. In un saggio in "Roma", Antiseri studia e spiega 'Se e
perché studiare ancora il mondo romano.' Non posso qui ripetere tutte le
argomentazioni, cui rimando volentieri, ma il succo del discorso sta in questi
due punti. Primo. Niente avviene al di fuori di una tradizione culturale. Le
stesse rivoluzioni sono tali rispetto a una determinata linea di svolgimento,
che ne costituisce il presupposto; perciò i grandi rivoluzionari sono stati
tutti buoni conoscitori del passato. Secondo. La nostra tradizione culturale
italiana è quella latina. Non c’è possibilità di auto-identificazione e di
innovazione se la si ignora. Quindi lo studio di quell’ antico è una condizione
di fatto della nostra civiltà italiana. Se ci fermassimo al primo punto,
dovremmo considerare di buon auspicio per le nostre sorti la ripresa, che si
sta verificando, di interesse per il passato, da quello immediato e locale al
più lontano nel tempo e nello spazio. Visto più da vicino, questo interesse non
collima col secondo punto. Non solo questo passato italiano è romano, ma è
selettivo. Accomuna l’archeologia industriale ai graffiti preistorici, la
cultura materiale e i valori. La selettività di per sé contraddice al
*momento* romano *antico* correttamente inteso. Anzi gli toglie la
staticità del *classico*, cioè del modello unico, esemplare perfetto e
irripetibile (quindi fuori della storia) e lo ricolloca nella dinamica
dell’evoluzione umana, lega la unica Roma all'Italia d'oggi. Questa elettività
diventa filosofica, quando considera il romano *antico* -- in sue fasi
monarchica, repubblicana ed imperiale -- un momento come un altro, senza
speciali incidenze sulla storia. Peggio, quando si configura in qualche modo
come una ri-edizione della tesi della priorità vetero-italica, palaeo-italica,
o archaeo-italica, sulla civiltà classica. Peggio ancora, se pre-dilige il
*passato* eroico dell'Omero romano, Virgilio, quale che sia come tale, come un
tutto indifferenziato, solo perché diverso. Si rischia di tornare così alla
cultura dei sassi, che Leopardi rimprovera ai romani del suo tempo (lettera al
de Sinner, cioè all’antiquaria di settecentesca memoria (cioè senza storia e
senza lingua). Se nell’interesse verso *il romano antico* non ha per noi un
posto preminente i tre *momenti* del romano antico -- regno, repubblica,
principato -- questo è segno di perdita di storicità vichiana, gentiliana, o
croceana, di oscuramento di valori, di restringimento di orizzonti. Quel
momento del romano antinco non è importante solo perché ha aperto vie,
costruito ponti, tracciato città, su cui ancora insistiamo, ma perché ha dato un
impulso decisivo a un complesso filosofico, di idee, mentalità, istituzioni,
che costituiscono ancora i nostri parametri abituali e la nostra cultura di
italiani. Gli altri momenti forti, da cui si può volta a volta, non senza
ragione, far partire la nostra riflessione storica, il rinascimento
toscano, l’Unità d’Italia mazziniana, si sono misurati con questa
tradizione romana antica, l’hanno arricchita o combattuta, mai ignorata. Se
riteniamo naturale ancor oggi rifarci alla nostra genesi civile romana, dobbiamo
subito porci il problema se si debbano studiare Roma e se non sia riduttivo
assumere come punto di partenza *solo Roma*, cioè studiare la civiltà *latina*,
del Lazio. Non si tratta di rinnovare la vecchia questione dell’originalità
romana, che una volta costituiva un passaggio obbligato per ogni storia della
letteratura latina. Quel problema rispondeva a diverse contingenze storiche e
teoriche. Il suo ambiente culturale era Roma, dove il nazionalismo rispecchiava
se stesso nella superiorità di Roma rispetto ai barbari. Il sostegno teorico
era offerto dal mito del classicismo romano, cioè del modello a-storico e
perfetto, attingibile solo dagli eletti. Nelle ultime fasi della sua storia, la
tesi trova forti resistenze in Italia per la convergenza di due motivazioni
diverse. Da una parte il nostro nazionalismo, culminato nella grande guerra,
dall’altro la nuova estetica simbolista di d'Annunzio, che insegna a fare
filosofia in se stessa. Oggi quei condizionamenti storici e quei presupposti
teorici sembrano molto lontani. Del resto, a parte le punte polemiche, già la
ricerca aveva portato a una revisione di fatto di questi atteggiamenti. La
contrapposizione poi di una *romanolatria* è più pensabile come ideologia
politica. Il mondo romani costituisce una unità, ma non tanto in senso
sincronico, quanto in senso diacronico. Roma si dispone in successione, in una
unità dinamica. Roma è fatto antico e non solo a livello dotto. Non è un
fenomeno solo neoterico, ma anche delle origini e della fine. Roma accentua la
tradizione per raccoglierne l’eredità e stabilire così il suo diritto
successorio alla leadership mondiale. E’ corretto che i moderni pongano il
problema in modo non diverso dagli antichi romani. Di qui discende anche la
legittimazione a fare di Roma un possibile punto di partenza della riflessione
storica. Se la civiltà romana è tradizionale, nell’atto
stesso di arricchire, trasformar, e diffonder una tradizione, studiare
Roma è universale. Rimane ai romani antichi il merito di molte creazioni,
e di averle trasmesse al futuro. Il concetto dell’uomo e della comunità,
la storiografia, la scuola, la retorica rimangono quelle ereditate da Roma.
L’asse culturale si conserva intatto. Si può senza difficoltà riconoscere che
l’eredità romana, dal diritto alla lingua, non ha finito di operare. Si pensi
per esempio alla lingua italiana, che, pur diversa com’è ormai dalla latina,
conserva di quella i caratteri costitutivi e le energie generative. La stessa
evoluzione del 'volgare' si è svolta e si sta svolgendo secondo modalità sempre
latine. Un fatto significativo rimane il latino medioevale, che non è più il
latino classico ed è una lingua di dottrina, però è una lingua viva, perché
usata nella comunicazione reale. La sua peculiarità consiste nel non dipendere da
matrice italica nazionalista. Usano il latino medioevale le genti che si
riconoscono in un’unica cultura. Così quella lingua diventa propria anche dei
non-neolatini e coopera alla formazione di una nuova unità, l’Europa, ben
diversa, anche geograficamente, dall’Impero. L’Europa è una formazione
post-romana, con materiali latini. Questa è un’importante ragione oggi per lo
studio anche del solo latino. Quasi come uno slogan si potrebbe dire che Roma
ha generato l’Occidente (una civiltà), l'Italia, e l’Europa (una storia).
Entrambe le prospettive sono sprovincializzanti. Non c’è niente di più
istruttivo che consultare i volumi dell’Année Philologique, che non solo si
fanno di anno in anno più grossi, ma vedono allargare la partecipazione agli
studi classici a paesi sempre più lontani e che sembrerebbero estranei a questa
tradizione: dagli stati dell’Est alle nazioni in via di sviluppo. Segno che
questa cultura non è neanche solo nazionale o europea o occidentale, ma ci
appartiene come uomini senza esaurirci. Questi concetti sono generalmente
ammessi e non hanno perciò bisogno di particolare documentazione. Ne discendono
però alcune conseguenze sui modi corretti dell’atteggiamento odierno verso il
mondo romano. Anzitutto si rifiuta l’ideologizzazione, specie politica. È
invece oggetto di studio questo atteggiamento nel passato, specie recente
(Fascismo, Nazismo: cfr. specialmente la rivista Quaderni di storia). Fa ancora
ideologia (postuma e alla rovescia) chi osserva da una parte sola quest’uso
politico del classico in passato (in genere considerandolo al servizio del
potere o della classe dominante). In realtà l’ideologia del classicismo è
sempre reversibile, fornisce insieme Bruto e Cesare, come è avvenuto a cavallo
fra Sette e Ottocento. Ma in genere le ricerche hanno un respiro più ampio,
volte come sono a indagare la presenza degli studi classici filosofici nella
cultura moderna, quindi la partecipazione degli antichisti latinista e la loro
relazione con gli orientamenti e movimenti coevi: è molto di più non solo della
ideologia, ma anche della diretta influenza dei classici sui moderni. Rifiuto
dell’ideologia e studio della presenza dei classici e del classicismo nel mondo
moderno presuppongono senso vivo della storicità, ossia della continuità
antico-moderna, che vuol dire due cose insieme: un legame che ci unisce agli
antichi e l’alterità che, senza contraddirlo, ci distanzia. Di qui il rifiuto
anche dell’esemplarità e del presentismo. L’esemplarità fa del romano un
modello perfetto, imitabile ma irraggiungibile; questa concezione, oggi
improponibile, in altri tempi ha avuto una sua funzione attivizzante (come
nell’Umanesimo). Le conseguenze del mutato atteggiamento sono evidenti. Non si
definisce più un’età aurea, non si parla più di declino, ma di trapasso.
Decadenza romana o tarda antichità? intitolava H. Marrou un suo piccolo libro
(ed. it. Jaca Book, Milano). Il tardo antico richiama molta attenzione. I
convegni comensi, indetti in occasione del XIX centenario della morte di Plinio
il Vecchio (e oggi disponibili negli Atti in tre volumi), si sono spinti molto
oltre l’età dello scrittore celebrato, studiando la tecnica, la città,
l’economia (vedi i titoli: Plinio il Vecchio sotto il profilo storico e
letterario: Tecnologia, economia e società nel mondo romano; La Città antica
come fatto di cultura). Rinunciando infatti all’ideale della esemplarità, il
concetto di «classico» (nel senso di romano) esce dalla sola categoria del
bello e del perfetto una volta per tutte e si arricchisce di valori e di
problemi esistenziali. Si supera anche l’antinomia classico = forza contro
debolezza, anacronisticamente riproposto dalla edizione italiana di un libro
composto da W. Otto mezzo secolo prima (Spirito classico, La Nuova Italia,
Firenze). Si esplorano province nuove (i papiri di Ercolano e l’epicureismo
campano). Qualche volta si registrano scoperte notevoli (dopo Menandro,
Callimaco, Cornelio Gallo, Rutilio Namaziano, la Seconda Centuria del Poliziano
ecc.). Si ricuperano, nella loro umanità e nel loro valore documentario, autori
e movimenti minori: il Favorino di Arelate di A. Barigazzi (Le Monnier,
Firenze), le Questioni neoteriche (che comprendono i novelli) di E. Castorina
(La Nuova Italia, Firenze). Anche nella filologia nostrana nasce l’interesse
verso i rapporti fra Roma e la cultura d'Etruria (G. Scarpat, Il pensiero
religioso di Seneca e l’ambiente d'Etruria, Paideia, Brescia nuova ed. F.
Arnaldi, La crisi morale dell’età argentea, « Vichiana ». Estesa e
polidisciplinare è la bibliografia sui rapporti tra Roma ed Etruria. Sono meno
frequenti le monografie, ma non mancano le sintesi come quella celebre di P.
Grimal, Le siècle des Scipions. Rome au temps des guerres puniques, Aubier,
Paris -- Paideia, Brescia). Intensa è l’attività traduttoria dell’editoria
italiana: va da A. D. Leeman, Orationis ratio. Teoria e pratica stilistica
degli oratori storici e filosofi latini. Il Mulino, Bologna a R. Syme, Tacito
(che è un grande affresco dell’età tacitiana), Paideia, Brescia di P Boyancé,
Lucrezio e l’epicureismo, Paideia, Brescia, ancora a R. Syme, La rivoluzione
romana, Einaudi Torino, da M. Pohlenz, La stoa, La Nuova Italia, Firenze, a W.
Jaeger. Paideia, La Nuova ltalia, Firenze, a H.I. Marrou, Storia
dell’educazione nell’antichità, Studium Roma. Ho citato un po’ a caso fra i
titoli più famosi. La stessa ampiezza di questa produzione, con la eterogeneità
dei suoi titoli, testimonia la lontananza attuale da un ideale ristretto di
esemplarità. Di recente si è verificato, invece, un breve successo dell’
atteggiamento antitetico, cioè del presentismo, più rilevabile a livello di
letteratura scolastica che scientifica, forse nel tentativo di rendere
accettabile l’antico a un determinato pubblico, facendone vedere l’analogia col
moderno. Il procedimento però è rischioso. Proiettando sull’antico la luce del
moderno, tende a ritrovare in quello un doppio del presente, quindi ne rende
inutile lo studio e impedisce di vedere i legami storici, cioè le fondamenta
lontane del moderno, che legano e insieme differenziano, distinguendo nella
continuità. Già il Rostagni avvertiva questo pericolo, riflettendo sul suo
stesso lavoro (Aristotele e l’aristotelismo nella storia dell’estetica antica,
« Studi ital. di filologia classica » ora in Scritti minori I, Aesthetica,
Bottega d’Erasmo, Torino, spec. p. 235): eppure è noto quanto egli fosse
guidato da un certo crocianesimo, andando alla ricerca di un’estetica
dell’intuizione presso i classici. Il pericolo oggi si ripresenta leggendo i
classici alla luce di altre ideologie attualizzanti. Legittimo è invece
studiare nell’antico temi e problemi, che sentiamo vivi, ma sempre con
coscienza storica, ossia proprio per scoprirne la formazione lontana: pace-.
libertà, progresso, lavoro, scienza. L’atteggiamento corretto sarà dunque di
porsi davanti all’antico senza cessare di essere moderni e (poiché quell’antico
è greco-romano, cioè la nostra origine culturale) senza negare il debito e
senza cancellare l’intervallo: dunque alterità più legame storico. Questo
comporta anche l’uso di strumenti ermeneutici nuovi e la modernizzazione dei
tradizionali. Di alcuni impieghi di tecniche recenti danno qui sotto saggio i
contributi di V. Cremona e di G. Proverbio: sono appena esempi, cui altro
sarebbe da aggiungere. Così, molto vivace è oggi la narratologia; e è il
Convegno internazionale «Letterature classiche e narratologia» a cura dell’Istituto
di Filologia Latina dell’Università di Perugia.. Gli strumenti tradizionali a
loro volta hanno compiuto i progressi di tutte le tecniche; per la filologia in
senso stretto danno informazioni il saggio e il materiale approntati da L.
Castagna. Mezzi vecchi e nuovi si intrecciano per conseguire risultati più
fini: A. Grillo ha messo la narratologia a servizio della critica testuale per
risolvere alcuni problemi di lezione dell’Ilias Latina in Critica del testo.
Imitazione e narratologia. Ricerche sull’Ilias latina e la tradizione epica
classica, Bibliot. del Saggiatore, Le Monnier, Firenze. E’ facile constatare la
differenza da una meccanica applicazione di criteri lachmanniani (almeno come
vengono volgarmente intesi). E si veda quale cammino si è percorso dalla
ricerca grezza e materiale delle fonti (la famigerata critica dei «fontanieri»)
alla più sofisticata tecnica allusiva e alla memoria poetica. A loro volta
quelle che un tempo venivano chiamate discipline ausiliarie (archeologia,
topografia, epigrafia ecc.) non solo si sono giovate dei progressi delle
tecniche applicate, ma hanno esteso il loro campo ben al di là del mondo
greco-romano, abbisognando quindi per competenza di un discorso riservato (come
del resto la storia generale, intrecciata al diritto e all’economia, oltre che
a queste stesse discipline e alla cultura materiale, nella prospettiva di una
storiografia totale). Non si possono infine dimenticare alcuni graditi incontri
o addirittura ritorni. La linguistica, sorta fuori e in opposizione alle lingue
classiche, è salita man mano dalla frase al testo e ha ricuperato concetti
della grammatica nata dal greco e dal latino. La logica e la critica letteraria
hanno riscoperto la retorica classica senza la mediazione della filologia
greco-latina, incontrandosi e quasi confondendosi con questo genere di studi.
Della retorica, affermatasi a Roma come tecnica politica e poi diventata
cultura, paideia e letteratura, si ripete oggi mutato nomine la dicotomia, da
una parte nei mass media e nella pubblicità, dall’altra nella critica
letteraria. Gli antichisti cooperano da parte loro a questo riavvicinamento:
gli Elementi di retorica di H. Lausberg, ed. it. Il Mulino. Bologna, si
presentano come un moderno manuale di linguistica; quella di E. Cizek, Structures
et idéologie dans «Les Vies des Douze Césars» de Suétone, Editura Academiei e
Les Belles Lettres, Bucuresti Paris è insieme un’analisi strutturalistica e
retorica (studia la sovrasignificazione fornita, al di là dei concetti, dalla
loro distribuzione). In questa prospettiva molte analisi letterarie su testi
moderni rivelano una straordinaria possibilità di impiego di strumenti
antichi. Dario
Antiseri. Antiseri. Keywords: solidali -- antiseri
— implicatura solidale — il concetto di solidale -- liberali d’italia – il
principio del liberalismo – la mistica di Gentile e il liberalismo di Croce —
Grice — metaphysics in Pears 3rd programme — Grice p.331 — ‘violazione
consapevole della massima’ — flouting the maxim — la scuola di Oxford di
filosofia analitica del linguaggio ordinario — Austin, Grice, … gruppo di
giocco – Grice sa benissimo che la massima e violabile intenzionalmente e
comunicativamente — Fidanza — il mistico — la logica di un mistico -- Roma – la
relevanza della filosofia del mondo romano antico -- — La mistica fascisdta di
Gentile —Refs.:
Luigi Speranza, “Grice ed Antiseri” – The Swimming-Pool Library.
Grice ed Antonini –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Viterbo).
Filosofo italiano. Grice: “I like Antonini, or Cinesio – you see, one problem
of these Italians – but cf. Occam – by sticking to the first-name is that a
researcher in the longitudinal history of philosophy has to check references to
Aegeius viterbensis and Aegidius Cinesio! It was only recently that he was
found to be one of the Antoninis! His place in the longitudinal history of
philosophy is that famous pendulum between Plato and Aristotle – so after
Aquinas’s Aristotle, Egidio – an almost Tuscan man! – finds Plato more pleasing
– especially his philosophy of love in the symposium, the references to
Ganymede as representing ‘amore,’ and he has the cheek to display all this
hardly scholastic erudition (more of a renaissance thing) in his commentary of
Lombardo’s sentences! Delightful – my favourite is his reference to Ganymede,
for here we have the treatment of a subject (Zeus) of another subject as an
object – and that’s just only one reading of Zeus’s intention --.” Grice: “In any case, the sacrificial status
of Ganymede is recognised in the Platonic tradition – as the manipulative use
of a subject by another subject who is subjected as an object, rather --.” Antonini:
Essential Italian philosopher. Antonini (n. Viterbo), filosofo. Egidio da
Viterbo «Sono gli uomini che devono
essere trasformati dalla religione, non la religione dagli uomini»
(Egidio da Viterbo, prolusione al Quinto Concilio Lateranense) Egidio Antonini
da Viterbo, O.E.S.A. cardinale di Santa Romana Chiesa Egidio 2Egidio da
Viterbo, affresco XVII secolo (part.), Sala Regia, Palazzo dei Priori, Viterbo
Stemma egidio Incarichi ricopertiPriore generale dell'Ordine di
Sant'Agostino, Cardinale presbitero di San Bartolomeo all'Isola, Cardinale
presbitero di San Matteo in Merulana, Vescovo di Viterbo e Tuscania, Patriarca
titolare di Costantinopoli, Cardinale presbitero di San Marcello, Amministratore
apostolico di Zara, Amministratore apostolico di Lanciano. Ordinato
presbiteroin data sconosciuta Nominato vescovo2 dicembre 1523 da papa Clemente
VII Consacrato vescovo10 gennaio 1524 dall'arcivescovo Gabriele Mascioli
Foschi, O.E.S.A. Elevato patriarca8 agosto 1524 da papa Clemente VII Creato
cardinale1º luglio 1517 da papa Leone X Deceduto12 novembre 1532 a Roma
Manuale Egidio Antonini da Viterbo, o semplicemente Egidio da Viterbo
(Viterbo), filosofo. Apparteneva all'Ordine degli Agostiniani. Nacque a
Viterbo, da Lorenzo Antonini e Maria del Testa, in un giorno imprecisato tra
l'estate e l'autunno del 1469Pur essendo i genitori di origini modeste, fecero compiere
ad Egidio studi approfonditi presso il convento agostiniano viterbese della
Santissima Trinità. Forse influenzato dalla predicazione di Mariano da
Genazzano, presente a Viterbo nel 1485, tre anni dopo, nel 1488, all'éta di
diciotto anni, entrò nell'Ordine degli Agostiniani, presso il medesimo convento
per esservi ordinato sacerdote. Sotto il priorato di Giovanni Parentezza,
studiò filosofia, teologia e lingue antiche (greco, ebraico, arabo, aramaico,
persiano) e si perfezionò, cominciando anche ad insegnare, presso le case del
suo ordine ad Amelia, Padova, Firenze, Roma, Viterbo ed in Istria. A Padova
incontrò più volte Pico della Mirandola, con il quale discusse di astrologia e
cabalismo, ma, soprattutto, in quella città curò nel 1493 l'editio princeps di
tre commenti aristotelici di Egidio Romano, con notazioni contrarie ai
peripatetici e ad Averroè. Alcuni anni più tardi conobbe a Firenze l'umanista
Marsilio Ficino, di cui fu allievo e successivamente amico, e con il quale si
perfezionò notevolmente nello studio delle dottrine neoplatoniche, specialmente
in rapporto alla loro assoluta compatibilità con i principi del Cristianesimo.
Nella primavera del 1497 il cardinale Riario, protettore degli Agostiniani, che
aveva per lui grande stima, lo richiamò a Roma dove, dopo una duplice e
complessa prova, conseguì il magisterium in teologia. Oratore di
straordinaria efficacia, particolarmente apprezzato in quegli anni da papa
Alessandro VI, quindi dai suoi successori, paragonato da taluni a Demostene, fu
in contatto con i maggiori intellettuali del tempo; oltre alla fitta
corrispondenza con Marsilio Ficino, va ricordata la frequentazione che ebbe a
Napoli con Giovanni Pontano (che gli dedicò il dialogo Ægidius) e con gli
intellettuali della sua Accademia. Nel giugno 1506 papa Giulio II gli
affidò la guida dell'Ordine agostiniano come Vicario apostolico; l'anno
successivo (1507) il capitolo generale dell'Ordine lo confermò alla sua guida
come Priore Generale, incarico che mantenne per molti anni, durante i quali
riformò profondamente l'Ordine stesso, riportandolo agli antichi fasti con il
pieno recupero della regola di S.Agostino. Durante quegli anni fu uno dei più
stretti collaboratori di Giulio II, che accompagnò nella sua missione contro
Bologna e dal quale fu inviato come nunzio apostolico a Venezia e Napoli per
ottenere l'adesione di quegli stati alla crociata progettata dal pontefice:
venne anche inviato nella città ribelle di Perugia e ad Urbino. Il 3 maggio
1512 il papa gli conferì il prestigioso incarico di tenere l'orazione
inaugurale del Quinto Concilio Lateranense: Egidio pronunciò così una celebre,
accorata allocuzione in cui parlò con determinata onestà dei mali della Chiesa,
suscitando viva emozione nei presenti, molti dei quali lodarono lo stampo
ciceroniano dell'orazione. Morto Giulio II, anche il suo successore Leone
Xappartenente alla potente famiglia fiorentina dei Medicicontinuò la stretta
collaborazione con Egidio, che impiegò in importanti missioni diplomatiche,
come quella del 1516 in Germania, quando ottenne una difficile pacificazione
tra Massimiliano I e la Repubblica di Venezia. Il papa innalzò Egidio alla
dignità cardinalizia nel concistoro del 1º luglio 1517 creandolo cardinale
prete con titolo di San Bartolomeo all'Isola; quasi subito il porporato
viterbese optò per il titolo di San Matteo in Merulana, antica chiesa
agostiniana; molti anni più tardi, poco prima di morire, avrebbe infine optato
per il titolo di San Marcello. Nel 1518 Leone X lo nominò cardinale protettore
dell'Ordine degli Eremitani di Sant'Agostino e, nello stesso anno, lo inviò
come legato pontificio in Spagna per una complessa missione nella quale avrebbe
dovuto impegnare Carlo V alla crociata contro i turchi. In quel periodo fu
anche governatore di diverse città dello Stato Pontificio. Occorre altresì ricordare
come a meno di quattro mesi dalla sua nomina a cardinale e quando Egidio era
ancora Priore Generale degli Agostiniani, un monaco agostiniano tedesco, Martin
Lutero, affisse sulle porte della Schlosskirche di Wittenberg le notissime 95
tesi che avrebbero dato inizio alla riforma protestante. Dopo la scomparsa
di Leone X ed il breve pontificato di Adriano VI, il 18 novembre 1523 fu eletto
papa, con l'appoggio di Egidio, un altro Medici, Clemente VII, che, pochi
giorni dopo l'elezione, il 2 dicembre, conferì al cardinale viterbese la nomina
a vescovo proprio della diocesi di Viterbo: l'anno successivo Egidio venne
nominato patriarca latino di Costantinopoli e amministratore apostolico
dell'arcidiocesi di Zara. Purtroppo in quegli anni le indecisioni e gli errori
politici di Clemente VII crearono problemi gravissimi al governo della Chiesa:
il papa finì per schierarsi con i francesi, ma prima la sconfitta di Francesco
I a Pavia, poi le incertezze della lega di Cognac aprirono le porte alla
discesa in Italia di Carlo V con i suoi lanzichenecchi, culminata nel terribile
Sacco di Roma (1527), durante il quale venne distrutta -tra l'altro- tutta la
ricchissima biblioteca di Egidio nel Convento di Sant'Agostino. Il porporato si
trovava allora nelle Marche e, per soccorrere il papa, assediato in Castel
Sant'Angelo, organizzò -impiegando anche il proprio denaro- una spedizione
armata, che non ebbe però fortuna per i molti ostacoli frapposti dai signori
locali. Dopo quei dolorosi momenti la salute di Egidio andò peggiorando: questo
fatto non gli impedì, peraltro, di tenere, durante il concistoro pubblico una
famosa ed appassionata orazione sulla necessità di riformare la Chiesa dopo lo
scisma luterano. Clemente VII dichiarò la sua disponibilità, ma sarà solo il
suo successore, Paolo III, conterraneo di Egidio, a convocare l'importante
Concilio di Trento, che segnerà, con la controriforma, la prima importante
reazione della Chiesa al protestantesimo. Poco prima di morire il cardinale fu
nominato arcivescovo di Lanciano; amministrò la diocesi lancianese a titolo di
commenda per sette mesi, fino alla morte. Morì a Roma il 12 novembre 1532
e venne sepolto nella chiesa di Sant'Agostino, dove lo ricorda una
semplicissima lapide sul pavimento della navata centrale, a cornu evangelii
rispetto all'altar maggiore. Filosofia, Ebraismo, Cabala Egidio da
Viterbopartic. di affresco XVIII secolo, Sala del Cenacolo, Convento Santissima
Trinità, Viterbo Egidio deve certamente essere considerato uno dei maggiori
filosofi di quei secoli. Il suo primo impegno importante fu quando, studente a
Padova, curò nel 1493 la pubblicazione con commento di tre opere del filosofo e
vescovo agostiniano Egidio Romano, vissuto tra il XIII ed il XIV secolo: elaborò
così un'autentica avversione nei confronti della filosofia di Aristotele e
dell'averroismo, contro i quali ritenne che l'unico possibile antidoto fosse,
specie dopo l'incontro con Marsilio Ficino ed in perfetta armonia con
Sant'Agostino, il neoplatonismo, inteso come «pia philosophia», cioè nella sua
piena compatibilità con i valori cristiani. Uomo dottissimo, volle leggere
tutte le opere che studiava nelle lingue originali in cui erano state scritte,
per meglio comprenderne il vero significato: acquisì in tal modo una
straordinaria conoscenza, oltre che del latino e del greco antico di cui aveva
padronanza assoluta, dell'aramaico, per il Talmud e varie parti della Bibbia,
dell'arabo, per il Corano e le opere di Averroè, e dell'ebraico, per la Torah.
Ebbe una fitta corrispondenza con l'umanista tedesco Johannes Reuchlin,
finissimo conoscitore dell'ebraismo, con il quale si intrattenne a lungo sia su
temi relativi all'Antico Testamento sia sulla cabala (in ebraico Qaballáh),
argomento da lui già affrontato con Pico della Mirandola, che trattava dei
misteriosi simbolismi, parte dei quali nascosti nei numeri e nelle lettere
stesse dell'alfabeto ebraico, che potevano avvicinare l'uomo a Dio. Le
problematiche della letteratura ebraica e della cabala occuparono gran parte
dei suoi ultimi anni di vita, quando tentò ripetutamente di ricondurre in
ambito cristiano tutte le altre culture, dedicandosi in particolare ad
approfonditi studi e ricerche sullo Zohar. Lo scrittore e l'oratore
Raffaello:La disputa del Sacramento (affresco, Roma, Stanze Vaticane)
Egidio da Viterbo in preghiera, particolare di pala d'altare, chiesa Santissima
Trinità, Viterbo Rimane ben poco della cospicua produzione letteraria di
Egidio, sia a causa della perdita della sua biblioteca durante il Sacco di
Roma, sia perché lui stesso, per modestia, non volle dare alle stampe molte
delle sue opere. Tratta quasi tutti i campi della filosofia alla letteratura,
dall'astrologia alla storia, dalla poesia alla geografia, dalla teologia
all'arte: a quest'ultimo proposito si ritiene che il programma iconografico per
gli affreschi di Raffaello della Disputa del Sacramento e della Scuola di Atene
nella Stanza della Segnatura sia stato largamente ispirato dalla sua opera, con
la probabile mediazione di Tommaso Fedra Inghirami. Da notare come Antonini
preferisce di solito ritirarsi in luoghi tranquilli, come l'Eremo di Lecceto,
presso Siena, o la sua città natale, Viterbo, o, ancora più spesso, due rifugi
nei dintorni di quest'ultima: un Convento nell'Isola Martana, sul Lago di
Bolsena, ed un Eremo nella selva del Monte Cimino. Meritano comunque menzione
tre ecloghe latine di stampo virgiliano (Paramellus et Aegon, -- Paramello e
Egone -- in Resurrectione Domini – la risurrezione del Signore -- e De Ortu
Domini – L’orto di Dio --, sei madrigali dedicati alla famiglia Colonna ed una favola silvestre dello stesso periodo (“Cyminia”,
in volgare italiano viterbese. La a sua maggiore opera filosofica è costituita
dai “Commentaria sententiarum ad mentem et animum Platonis” (I comentari dei
sentenze sull’anima di Platone”, brevemente detta Sententiae ad mentem
Platonis, che presenta l’ostilità all'aristotelismo e la necessità di
sostituirlo, l'anima e la dignità umana; “Historia XX saeculorum” racconta le
vicende di Alessandro VI a Leone X, attinsero a piene mani vari storici, da
Gregorovius a Pastor, anche se il loro giudizio complessivo sulla Historia è
perplesso, se non addirittura negativo. Tra altre opere meritano anche menzione
il “Libellus de litteris sanctis”, sul significato recondito delle lettere
dell'alfabeto romano, e la Scechina che guarda in la cabala. Il campo nel
quale Egidio riuscì comunque a dare il meglio è quello della retorica o
dialettica colloquenza filosofica, divenendo uno dei migliori oratori di quei
decenni, forse il migliore in assoluto, con giudizi sempre entusiastici da
parte di tutti quelli che ebbero modo di ascoltarlo. In realtà egli era
veramente dotato di un'eloquenza drammaticamente coinvolgente, capace di
suscitare grandi emozioni negli uditori, sia che fossero ricchi principi, sia
che si trattasse di poveri popolani; lo aiutava probabilmente lo stesso aspetto
fisico, ascetico, con il viso pallido e scavato e la barba fluente. Tra le
orazioni conservate vanno ricordate: quella nel certamen che lo vide trionfare
su tre filosofi peripatetici e conseguire il magisterium. Altre opere: “De
aurea aetate” (o De Ecclesiae incremento), tenuta in San Pietro su incarico di
Giulio II per onorare re Manuele I del Portogallo che aveva scoperto nuove
terre e riportato una grande vittoria navale, lavoro dottissimo e ricco di
riferimenti cabalistici; l'orazione delConcilio Lateranensegrande onore
concessogli dal papache provocò indicibile emozione negli astanti e fece
definire l'agostiniano viterbese il nuovo Cicerone; è in quest'ultima orazione
la celebre sentenza di Egidio. “Sono gli uomini che devono essere trasformati
dalla religione, non la religione dagli uomini”. Va infine ricordata l'orazione
tenuta in occasione di un concistoro, sulla necessità di riformare la Chiesa,
che viene da molti considerata come il vero preludio al celebre Concilio di
Trento, convocato da Paolo III. Genealogia episcopale Arcivescovo
Gabriele Mascioli Foschi, O.E.S.A. Cardinale Egidio Antonini da Viterbo,
O.E.S.A. Note Notizie molto precise sul
suo luogo di nascita e sul suo esatto cognome sono reperibili nel lavoro di
Giuseppe Signorelli, Il cardinale Egidio da Viterbo etc.,Libreria Editrice
Fiorentina, Firenze, 1929. L'opera dello storico viterbese, con una ricchissima
documentazione bibliografica, costituisce un indispensabile fondamento
monografico per lo studio di questo porporato; in particolare Signorelli
precisa, con riferimento a numerosi manoscritti, perché debba essere ritenuta
Viterbo la città natale di Egidio ed in base a quali errori diversi storici
abbiano, sbagliando, ritenuto Canisio il suo cognome:il cognome esatto è
Antonini. Quanto sostenuto dal
Signorelli è pienamente confermato da G.Ernst,Egidio da Viterbo, in Dizionario
Biografico degli Italiani, Treccani, 1993, in quella che è probabilmente la più
completa monografia su Egidio reperibile on-line, con notevole. Pur essendo acclarato il cognome Antonini,
appare peraltro corretto chiamarlo semplicemente EGIDIO da VITERBO: Ægidius
Viterbiensis o Viterbii è il nome con cui viene indicato nella bolla papale di
nomina cardinalizia relativa al concistoro è il nome che compare nelle bolle da
lui sottoscritte ed è, infine, il semplice nome che compare sulla sua lapide
sepolcrale nella Chiesa di S. Agostino in Roma; sempre Egidio da Viterbo sono
intitolate le principali monografie a lui dedicate da Signorelli, Ernst, Massa,
O'Malley ecc.. Va infine ricordato come lo stesso Comune di Viterbo abbia
chiamato Via Egidio da Viterbo la strada a lui dedicata parecchi anni fa nel
centro storico cittadino e con la medesima intitolazione Egidio da Viterbo vi
siano altre istituzioni viterbesi.
L'epoca della nascita è indicata ancora dal Signorelli (op.cit.), che
cita vari documenti del periodo. Si veda
in proposito Lettera a Mannio Capenati, agosto 1504 citata in: Francis X.
Martin, Friar..., cit., Appendice III, pag. 346
De materia coeli; De intellectu possibili; Egidii Romani commentaria in
VIII libros Physicorum Aristotelis
Egidio non ricambiò mai la simpatia di papa Borgia, anzi il suo giudizio
sul pontificato di Alessandro VI fu terribile, con parole di inusitata durezza;
si veda Cesare Pinzi, Storia della Città di Viterbo, Viterbo, Agnesotti,
1913. Lo dice espressamente il
Signorelli, op. cit., capo II, pag 5. Per
la precisione fino al 25 febbraio 1518, giorno in cui depose l'incarico davanti
al Capitolo generale dell'Ordine, consegnandolo nelle mani dell'amico Gabriele
Di Volta, nominato due giorni prima con breve di Leone X proprio su proposta di
Egidio; v. G. Signorelli, op. cit., Capo VI, pag. 68. Lo sottolinea bene Ernst (op.cit.). L'episodio che vide Egidio alla testa di un
esercito è ricordato in un intero capitolo (Da Vescovo a Duce) nella monografia
del Signorelli, op.cit., capo VIII. Papa
Paolo III, era nato come Alessandro Farnese nella cittadina di Canino, situata
ad una trentina di chilometri da Viterbo.
La lapide, fatta collocare dal Priore Generale Gabriele Veneto, reca la
seguente iscrizione: D.O.M. AEGIDIO VITERBIENSI CARDINALIGABRIEL VENETUS
GENERALISMDXXXVI (v.S.Vismara,Una grande figura religiosa del
Rinascimento:Egidio da Viterbo su Biblioteca e società
in//bibliotecaviterbo/biblioteca-e-societa/index.php?fasc=12; il volumetto
contiene gli Atti di un interessante Convegno di studi su Egidio da Viterbo,
nel anniversario della morte). Occorre notare come la lapide originale,
praticamente distrutta dal tempo, sia stata sostituita nel 1982, a cura
dell'Ist. Stor. Agostiniano con una nuova lapide che riporta, integralmente,
l'iscrizione. Il background intellettuale e la relativa fonte egidiana dei due
affreschi della Stanza della Segnatura sono stati promossi dallo storico
gesuita Pfeiffer (Heinrich Pfeiffer, Die Predig des Egidio da Viterbo über das
goldene Zeitalter und die Stanza della Segnatura, in: Schmoll gen. Eisenwerth, Marcell Restle,
Herbert Weiermann, Festschrift Luitpold Dussler, Monaco-Berlino, Deutscher Kunstverlag,
Id., La Stanza della Segnatura sullo sfondo delle idee di Egidio da Viterbo,
Colloqui del Sodalizio, Zur Ikonographie von Raffaels Disputa: Egidio da
Viterbo und die christlich-platonische Konzeption der Stanza della Segnatura,
Roma, Università Gregoriana Editrice) ripreso da Ernst, op.cit., e da G.Polo,
Egidio da Viterbo e Raffaello, in Biblioteca e Società, cit., pagg. 21-22. Il
ruolo di Fedra Inghirami quale mediatore tra Egidio e Raffaello è stato
inizialmente ipotizzato da Paul Künzle, Raffaels Denkmal für Fedra Inghirami
auf dem letzen Arazzo, in: Mélanges Eugène Tisserant, VI, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica
Vaticana, e si ritrova in: Christiane L. Joost-Gaugier, Raphael's Stanza della
Segnatura: Meaning and Invention, Cambridge, Cambridge University Press, 2002.
Per una sintesi si veda: Ingrid D. Rowland, The Intellectual Background of the
School of Athens: Tracking Divine Wisdom in the Rome of Julius II, in: Marcia
HallRaphael's School of Athens, Cambridge, Cambridge University Press, Biblioteca apostolica vaticana, Ms Vat.lat.
6525 Il più autorevole di questi
manoscritti è certamente quello autografo esistente presso la Biblioteca
Nazionale di Napoli (Mss.lat.,IX,B,14).
Tutti i giudizi degli storici sono ben riportati dal Signorelli, Riprendendo
il Signorelli, descrive bene le sue grandi doti oratorie Sandro Vismara, Biblioteca
e società, ATTI del Convegno...,op.cit.,pag.11.
Proprio a questa orazione si sarebbe ispirato Raffaello per due
affreschi della Stanza della Segnatura, cioè la Disputa del Sacramento e la
Scuola di Atene (v.Pfeiffer e Polo, ocitt..)
S.Vismara,op.cit.. Il testo
latino recita letteralmente: Homines per sacra immutari fas est, non sacra per
homines. Egidio da Viterbo,
"Ecloghe", Jacopo Rubini, Sette Città,. Rafael Lazcano, Episcopologio
agustiniano. Agustiniana. Guadarrama (Madrid), Hubert Jedin, Riforma Cattolica
o Controriforma, Morcelliana, Brescia, Francis X. Martin, The problem of Giles
of Viterbo: a Historiographical Survey, "Augustiniana", Francis X. Martin, Friar, Reformer, and
Renaissance Scholar: Life and Work of Giles of Viterbo Villanova, Augustinian
Press, John W. O'Malley, Giles of Viterbo on Church and Reform: a Study on
Renaissance Thought, Leiden, Brill, 1968 Heinrich Pfeiffer, Le Sententiae ad
mentem Platonis e due prediche di Egidio da Viterbo, in: Marcello Fagiolo, Roma
e l'antico nell'arte e nella cultura del Cinquecento, Roma, Istituto della
Enciclopedia italiana, Cesare Pinzi, Storia della Città di Viterbo, IV, Agnesotti, Viterbo, François Secret,
Notes sur Egidio da Viterbo, "Augustiniana", Giuseppe Signorelli, Il cardinale Egidio da
Viterbo agostiniano, umanista e riformatore, Libreria Editrice Fiorentina,
Firenze, Viterbo Ordine di Sant'Agostino Umanesimo Cabala ebraica
TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Egidio da Viterbo, in Enciclopedia Italiana,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Egidio da Viterbo, su sapere, De Agostini. Egidio da Viterbo, su
Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Egidio da Viterbo, in Dizionario biografico
degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Egidio da Viterbo, su
ALCUIN, Ratisbona. Egidio da Viterbo, su Find a Grave. Opere di Egidio da
Viterbo,. Egidio da Viterbo, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company.
David M. Cheney, Egidio da Viterbo, in Catholic Hierarchy. Biblioteca e società, ATTI del Convegno di
Studi su Egidio da Viterbo nel 450º anniversario della morte, su
bibliotecaviterbo. Rassegna bibliografica [collegamento interrotto], su
bibliotecaviterbo. ÆGIDIUS OF VITERBO, Jewish Encyclopedia (la voce contiene,
peraltro, alcune inesattezze) Salvador Miranda, VITERBO, O.E.S.A., Egidio da,
su fiu.eduThe Cardinals of the Holy Roman Church, Florida International
University. Articolo della rivista Theological Studies (O'Malley) dedicato al
pensiero riformistico di Egidio da Viterbo, su bc.edu. PredecessorePriore
generale dell'Ordine di Sant'AgostinoSuccessore13.escudo.oar.png Agostino da
Terni, O.E.S.A Gabriele da Venezia, O.E.S.APredecessoreCardinale presbitero di
San Bartolomeo all'Isola Successore Cardinal CoA PioM. Domenico
GiacobazziPredecessoreCardinale presbitero di San Matteo in
MerulanaSuccessoreCardinalCoA PioM.svg Cristoforo Numai, O.F.M.Obs. Charles de
Hémard de DenonvillePredecessoreVescovo di Viterbo e Tuscania SuccessoreBishopCoA
PioM.svg Ottaviano Riario2 dicembre 152312 novembre 1532Niccolò Ridolfi
(amministratore apostolico)PredecessorePatriarca titolare di Costantinopoli Successore
PrimateNonCardinal PioM.svg Marco Corner Francesco de PisauroPredecessoreCardinale
presbitero di San MarcelloSuccessoreCardinalCoA PioM.svg Enrique Cardona y
Enríquez9 maggio 153012 novembre 1532Marino GrimaniPredecessoreAmministratore
apostolico di Zara SuccessoreArchbishopPallium PioM.svg Francesco Pesaro (arcivescovo
metropolita) Cornelio Pesaro (arcivescovo metropolita)PredecessoreAmministratore
apostolico di LancianoSuccessoreBishopCoA PioM.svg Angelo Maccafani (vescovo)10
aprile12 novembre 1532 Michele Fortini, O.P. (vescovo) Filosofi italiani del
XVI secoloCardinali italiani Professore Viterbo RomaAgostiniani italiani Cabalisti
italianiCardinali nominati da Leone XPatriarchi latini di
CostantinopoliEbraisti italiani. Raptus GANYMEDIS. Ubi ea de AMORE tractavimus,
quae aeterna sunt, nunc ad ea accedimus, quae ad mortales usque proveniunt.
Utrumque enim in symposio disputatum est a Platone, et quod magnus deus AMOR
est, quod ad aeternitatem pertinet, et quod medicus est curatorque mortalium,
quod vergit adtempus. Quam quidem sententiam plerique eorum contempserunt,
quisibi sapientes videntur, quique rationem sensilibus, non sensilia ratione dimetiuntur.Rati
ex aeterna causa res novas absque medio provenire non posse, ne aeterna,
stabilis, immotaque res, de ea enim causa praecipue loquuntur, quae firma
immota semper est, quasi quae novam rem pariat. Iam a priore statu mota
videatur, eademque et immota et mota esset, quod veri nulla potest ratione.
Sane divinus ille Amor ex aliquo semper effertur inaliquid,quod si quamanatex
aliocogitetur Amor,aeternaprogressione fluit a Parente ac Filio. Sin vero ut
vergit in aliquid prospi-ciatur, aut qua in id vergit, quod amatur, velut a
patre proles, atque eaprogressio perpetua est, aut qua in id rapitur, quod ex
Amore ut, velut inmunera, quae hominibus divinitus tribuuntur. Qui quidem
divini AMORIS adventus, tam aeternus non est, quam homines, quibus illa
donantur.Mortales sunt, aeterni non sunt; neque accessus ille, illaque curatio
quic-quam in Deo collocat novi nisi ex nostra quadam cogitatione. Sed id
innobis oritur, quod ad aliquid est, in nobisque non eo in amore mutation ut,
quemadmodum orientem solem spectantibus, dexter est antarcticus polus, articus
sinister, quibus rursus occidentem spectantibus contrariaratio ut, efficiturque
et dexter arcticus et sinister antarcticus, ac quam-quam immoti semper poli
sint, qui tamen dexter erat sinister efficitur,non caeli parte, sed spectatoris
corpore commutato. Ita sane ut, cumad bonas hominum mentes, cum ad morbos
animorum curandos, ille loquntur V; locuntur N pariat]
percipiat V sint] sunt ac. V Utrumque … est] Symp. NV ; Symp. N medicus … mortalium] Symp.
N V accedit amor. Ita ad aegrum se conert, ut agitationem ac motum,
nonamor ille divinus, sed solus aegri animus patiatur. Nam cum gemini AMORES, geminaeque
sint Veneres, sicut Platoni placet, uterquesi processerit, urorenoscorripit. Sedalterperturbationum,
morborum, malorum omnium causa est; alter sedationes, salutem, bonaque plane
omnia elar-gitur.HincMenonillePlatonicusait, mortals non nisi divino gurore correptos
bonos eri. Quae quidem sententia oraculo consentit, quo praedicatum est, caeli
regnum vim pati atque a violentis mortalibus rapi. Utenim malus furor in era
humanam sortem rapit mentem, ita divinus spiritu vehementi, supra hominum vires
in caelum usque correptam men-tem vehit. HIC ILLE RAPTVS DIVINVS EST QVEM SVPERIOR
FABVLA IN PHYRGIO PVERO COGITARI VOLEVAT QVEM IN CÆLVM AD DIVINAS DAPES NON SVO
CONSILIO PROTECTVM SED DIVINO POTIVS RAPTV ADVECTUM PRODEBAT – RAPTVMQVE AMAVIT
NON NISI AB AMATORE – VT HOMINVM AD DIVINA RAPIENDORUM POTESTAS NON NISI IN
DIVINVM ET AMOREM REFERATVR. Nam Plato cum tres furors ostendisset: Musarum, Bacchi,
Apollinis, quartum etiam Veneris adiecitomnium maximum, sacratissimum,
divinissimum. Aeterna vero de causa novi aliquid procisciquid prohibet, a libera
praecipue atque immota omnino. Quippe quae idcirco non mutata usque iudicatur,
quod quae aeterna voluntate in tempore se acturam statuit, eastatuto tempore fecit.
Quare tantum abest ut mutata dicenda sit, quod in tempore quicquamegerit, ut mutatautique
dicenda esset, si quod constituit, in tempore non egisset. Adde quod non
ponimus spiritum illic esse, ubi prius non uerit, sed alia ratione esse quam uerit.
Atque ita ad nos in tempore dicimus procisciillum cum divino aliquot coniungitur
munere, quo prius nobis non coniungebatur. Callistoetenim, et amanti deo miscetur
prius, et deinde ab eodem in caelum rapta est. Quibus quidem in rebus, non
divinum AMOREM sed illam mutatam esse voluerunt, cumprius divina AMICITIA ac
deinceps etiam caeli sede a divino AMORE donata est nactaque. Spiritus munus
est quippe quem non aquis mergi sed superaquas erri scriptum est. Aquae etenim
multae, Solomone teste, extinguere non possunt charitatem, quae una more olei
virginum prudentum obrui in undas non potest, sublime tutumque supernatat. Ita
quos sanctus [amor in marg. V animus] animis ac. V
Quare] quarum ac. V esse] etiam V esse] esset
V etenim om. V Salamone N V cum placet] Symp.
N N V Menon … eri] Men. N N V puero] asteriscus N Nam divinissimum]
Ion N V ; Phaedr. Ion N caeli rapi] Mt. Aquae … charitatem]
Cant.] ille AMOR inhabitat, nihil mali metuunt, nullos adversos re ormidant
ventos, nulla malorum tempestate iactantur. Quam quidem rem et prius Homerus et
postea Maro posteris prodiderunt. Arctos Oceani metuentes aequore tingi, quod
hii, quos divinus AMOR corripit, agitari ortasse quandoque nonnihil possint,
mergi ullis tempestatibus non possint. Iam verode AMORIS processibus quaesitum saepe
est, duonesint, anunus. Alii duos aciunt, quod aeterna res eadem rei non
aeternae esse non debeat. Aliiunum dumtaxatessecontendunt,quia duo sunt ad aliquid
in spiritu:alterum re, alterum ratione. Quod vero ratione, non re ponimus,
nihil erum constituat oportet. Res ex re oritur, non ex solius principio rationis.
Nos medium malentes, modo quodam unum, modo alio duos processus esse volumus,
omnis enim progressio inter duos iaceat terminosnecesse est, ut Daedali volatus
e Cretensi coepit carcere, Calcidicaque levis tandem super adstitit arce. Aquam
etiam, quam in horto voluptatis esse docet Moses, vel ex onte unde manat, uel
ex alveis in quos manat,spectare possumus. Si ex onte, unam, si ex alveis,
plures esse dicendumest. Ita erme et AMORIS divini processus. Si ontem unde
fluit adspicias, unus dumtaxat erit immortalis aeternusque, sicut unum esse
principiumostendimus unde manat. Sin vero ea spectes, in quae tendit, quia alterum
est aeternum, alterum temporarium, ut spiritus divinus et HUMANUM genus, id circo
duosesse progressus asseverandum est. In onte enim si quid est quod sit ad aliquid
in processu spiritus, unum dum taxatest. In unibus vero non unum, sed duo
reperiuntur, quorum alterum in spirituaeternum, alterum in hominibus temporarium
residet. De aeterno quidem Hesiodus disseruit, qui etiam Aristotele teste, erram
et ante eam Chaos, hoc est vacuum, ut
idem interpretatur quod ii concedant oportet, qui mundum volunt conditum fuisse,
ut etiam consensit interpresAverroes ante haec vero, utpote rebus antiquiorem AMOREM
constituit,cuius postea partes uere, super aquas erri, et ut alii melius, rudi
mundi et silvae et materiae incubare. AMOREM itaqueis vates aeternum essececinit,
quem temporarium quoque universa ecit antiquitas,cum Iovem tra-xisse nxerunt ad
Danaes, ad Laedae, ad Alcmenae consuetudinem. Nec aliud plane per divinos
amores, per amatas Deo puellas, et (si ss esset ii N re ponimus]
reponimus V onte V spiritum V concedunt
V Almenae N V Arctos … tingi] Virg. N V omnis …
est] Phy.;. Phy;.Phy. N N V Aristotele … Chaos]. Phy. N N V Arctos
… tingi] Geo..Calcidicaque … arce] Aen..dicere) per Iovis adulteria
intellexere, nisi AMORIS divini adventum in homines, cum ex innumerabili pene
mortalium turba ad interitum, adineros, ad miseriam properante, quidam
seliguntur Deo cari, quibus et verum agnoscere, pedem retrahere, caelum contempta
terra conscendere datum est. Dat siquidem Plato in Euthyphrone Divino AMORI,
quicquidin mortalibus vel studiosi, vel sancti reperitur. Omne enim Diis AMICVM
sanctum, diis vero NON AMICVM PROPHANVM arbitrabatur. Quicquid itaque spei,
quicquid salutis, quicquid recti in hominibus esse potest, exmunere deorum esse
voluit, cum ALCIBIADES ad bene, recteque agendum censuit non sufficere mortales.
Id quoque vestigatione dignum putavere, ancum AMORIS Divini muneribus, quae donantur
hominibus, ipse etiam Divinus AMOR Deus, ac ipse a nobis spiritus una cum
muneribus possideatur. Plato in “Symposio” illud Hesiodi, quod prius adduximus,
commemoravit, antiquissimum deorum esse AMOREM ut spiritum ostenderet Deum esse
maximum, turbas novorum Deorum ipsa aeternitate antecedentem. Antiquissimum
vero et primum intelligimus non modo qua deos alios anteit, verum etiam qua
divina in nobis antecedit dona. Primum namque donorum omnium AMORE facit
Aristoteles in Rhetoricis, quare nisi prius mortalibus AMOR detur, nunquam
divina munera tribuuntur de iis, inquam, muneribus, quae AMICITIAM nobis
conciliant divinam. Deum praeterea Aristoteles in maximo caeli circulo esse
vult, ea dumtaxat nisus ratione, quod simplices incorporeaeque substantiae eo
in loco sunt, sicuti in loco esse possunt, ubi actiones exercent. Quodsi id
agit AMOR ille divinus in nobis, ut ex impiis pii, ex iniustis iusti, ex
hostibus AMICI efficiamur, non potest idem ipse AMOR non esse innobis. Iungimur
quoque non modo muneribus cum illa suscipimus, sedipsi etiam Deo, quem probetum
nosse tum AMARE incipimus. Notitia enim AMORque Dei, quae praecipua a Deo
munera generi humano tribuuntur, ut Deo et propius iungamur et iunctissime
haereamus efficiunt. Atqui sicut Apostolo placet, quicunque haeret deo, ut unus
cum Deo spiritus evadat, oportet. Fit denique in nobis dato munere ad aliquid, quo
non modo dona suscepta, verum etiam dantem AMOREM aspicimus. Quamobrem efficitur,
ut AMOR ille, qui deus est, alia quam prius ratione possideatur a nobis.
Possidetur autem cum sese nobis insinuat, cum in udit se animo, cum sinui
penetralibusque amatae mentis illabi- ut] et V nixus V ille
sl. N suscepimus V ut] et V prius in marg.V
autem] etiam V .– Dat … reperitur] Eut. N V ; Eutyphrone N
Plato … Amorem] Symp. N N V] tur.Quod si parum id persuaserimus, non potest
Apostoli oraculum non persuadere, qui Dei AMOREM in discipulorum cordibus
praedicat diffusum per spiritum, inquit, sanctum, qui datus est nobis. Quo
quidem loco incredibile immortalium munus ostenditur, quo non modo divina dona,
verum etiam Deus ipse donorum dator sese et dat et exhibet animae humanae. Ex
iis vero, quae dicta sunt, dubitatio exoriri potest, sienim AMOR est donorum primum,
nullo nos donari munere sequitur, nisi prius AMOREM spiritumque suscipiamus.
Cum tamen non nullos constet improbos Spiritus divini dona suscepisse, spiritum
tamen minime suscepisse. ria nomina intelligenda sunt nobis, quae saepe a rismegisto
et a Platone in medium afferri consuevere. Deum namque apellitare soliti sunt
patrem, verum, bonum. Patrem quidem nominant illamut causam, a qua pro ecti
sumus. Verum, ut id quod summum intelligimus. Bonum, ut id quod ut beatisimus
adamamus. aria itaque divina nominasunt, tres etiam rationes quibus in nobis est
Deus. Quaenim Pater ac causa rerum est, omnibus inest rebus. Ea namque, quae sunt,
similitudinem servant eorum, unde sunt, atque hoc pacto in rebus est Deus. Esentia,
potestate, praesentia, quemadmodum publica senatus decretal censuerunt. Ego
omnia impleo, dicebat oraculum. Quam quidem rem divinarum rerum consultissimus
Maro in rusticis carminibus scriptamreliquit. Ab Iove, inquit, principium
musae. Iovis omnia plena. Ubi et sententiam et sententiae causam elegantissime
posuit scribens, Iovis esse plena omnia, atque ideo ab eo principium musae facere.
Qui locus longe altius agit, quam prima carminis ronte videatur, voluit enim
Iovis plena esse omnia, quoniam Musae principium, atque ortus a Iove ipso est.
Filias enim Iovis Homerus Musas ecit. Musas etiam caelestesque deos una cum
rebus omnibus a principio conditos a Deo fuisse constat. Quare id circo docet
omnia esse plena Deo, quod Musae rerumque omnium pater est et causa ac principium
Deus. Primamque rationem describit, qua Deus rebus inest, eiusque rei causam
ostendit, quod Musae rerum quesit et pateret principium. Didicitex imaeo Deum esse
non modo Musae, sed et rerum patrem, ubi insignis illa Platonis sententia est, actarum
rerum patrem invenire difficile est, effari autem nulliunquam as est. Quod enim
sit Deus, magno tandem negotio coniicimus, quid autem sit nullo studio, nullo
labore in terris animadvertimus. rimegisto illam] illi N
intelligmus beatissimus] beatissimus V inquit sl. N ac]
et V advertimus V Ab plena] Virg. NV Didicit …
est] im.NNV At esse ubique Deum Academia semper voluit, utpostea, non
semel Plotinus testatus est, cuius quidem doctrinam ad Maronis interpretamenta necessariam
esse, vel Servius atetur. Altera ratio, qua inest nobis Deus,est cognitionis
et mentis, quod quidem divinum munus ii soli possident, qui sunt mentis
rationisque participes. Iungitur namque Deo mens dum contemplatur Deum, utque
divinas quasdam speculatur imagines, quibus aciem dirigit in divinam lucem;
atque hoc pacto in contemplante estDeus per similitudines atque imagines quasdam,
quibus modo quodam coniungimur Deo. Tertia ratio est cum inest nobis deus non
modo tamquam verum cognoscentibus, sed tanquam bonum summum adamantibus. Illud
cognitionis, hoc amoris est opus. Id menti convenit, hoc daturaffectui. Quarum
quidem rerum illud est interstitium, quod rei speciemaltera, altera non
speciem, sed rem ipsam assequitur. Species enim lapidis, teste Aristotele, in
animo est, non lapis, cumcontra bonumipsum ac malum, non in rerum imaginibus, sed
in ipsissintrebus. Quaretertius hic nodus quoiungimurdeo, tanto est superiorepraestantior,quantoaurum,
atque homo auri hominisque imagines antecellit. Licet intelligentia qua-dam nos
ratione iungat Deo, ita tamen iungit, ut scientiae et mathematicae solent, quae
aciunt necessaria quadam consecutione, ut cognitas res et coelum cognoscamus,
non tamen praestant, ut etiam intellecta possi-deamus. At amor, qui
similitudinibus imaginibusque contentus esse nonsolet, ad res ipsas, quas
optat, se recipit, nec unquam nisi pulchro poti-tus conquiescit. Cognitio
quidem rerum similitudines ad cognoscentem vehit, amor vero amantem ipsum ad
rem pulchram rapit. Iarbam quem novit Dido, non admisit, quem amavit Aeneam
virum cepit, non enimilli colloquia, non convivia, non munera, non consuetudo
sat uit, quinpotius nunquam destitit, donec “speluncam Dido, dux et troianus
eandem devenirent, ubiarctissimo connubiivinculoiungerentur. Atquehocest quod
in Republica Plato monet, AMORIS nexum multo esse mathematicis artiorem, cum
disciplinarum necessitas similitudini mentem iungat, AMORIS vincula pulchro
ipsi devinciant. Adde quod velut Maro AMORIS retinacula ut arctissima esse
demonstraret, matrimonii illa et nuptia- vel sed V ii ipsi ac.
V atque N altera om. NV sint sl. V nodus] modus
ac. V potitur V Iarbam] Hyarbam N V
mathamaticis V denunciant V esse est] Enn. VI lib. cap. et
lib. cap. N N V hoc artiorem]. Reip. N NV speluncam … devenirent] Aen. Rumiugosigni
cavit. Idem quoque hicidem quo de agimus Spiritus effecit in AMATORIIS canticis,
commercia namque humanarum animarum et inmortalis Dei, quae caritate amoreque
conciliantur, non aptiori nomine appellate sunt, quamc onnubii atque nuptiarum.
Quam obrem liberis, qui mores canit et castos et divinos, ab Ieronimo, Origene,
aliisque senatus principibus VIRIS Epitalamii titulo inscriptus est, haud alio
plane consilio, quam ut cum amoris nodum cogitemus, efficacissimum arbitremur. Est
itaque in rebus Deus maximus primo quidem modo sicut causa iniis, quae vel
proveniunt vel oriuntur ex causa. Est rursus in eo animante, quirationisest particeps,
quadam et specierum similitudine et intelligentiae luce. Et denique in hoc ipso
per sanctos caritatis amorisque complexus. Primum quidem naturae opus est,
alterum studii, tertium AMICITIAE. Primum dat nobis essentiam, sequens
cognitionem, postremum gratiam atque benevolentiam. Deus siquidem in primo et
intellectum et mentem praebet homini, in secundo dei species et enigmata, in
postremo AMORIS bene ciodatseipsum. Iam itaque constarepalam potest, quaemunera
AMORIS ea sint, quae cum exhibentur hominibus, efficiunt ut auctor quo-que ipse
exhibeatur. Licet enim, qua pater et causa rebus insit omnibus,praecipuum tamen
inhabitandi munus, quod ad amorem pertinet, nullis cum muneribus praestatur
hominibus, nisi ea AMORIS, gratiae, amicitiaesint. Extat oraculum clarissimum,
quo AMORIS hoc divinissimum significatum est munus: “ad eum,” inquit, “veniemus,
in quo, et nobis domicilium faciemus. Hoc idem in Platonico Symposio indicat, quod
in AMORIS ortu enia Poro miscetur, ut aperte AMORIS vis intelligatur, cuius
inaestimabili et bonitate et beneficio et, ut non speciei, non similitudini,
sedipsi Deo anima copuletur. O beatum munus! O felices AMORIS VIRES, O Fortunatos
HOMINES, ubi divinus ille flagrat AMOR, ubi suas Deus exercet nuptias, ubi
amatae sponsae commiscetur, ubi tanquam in thalamo cubat suo. Quidfasces, quid
imperia, quid utiles hominibus voluptates prosunt? Qui si unum hunc AMOREM non
possident, male omnia atqueexilio possident. Qui ut parentem et causam colunt
deum, parum sese aellureevehunt, caelum que lunae dum taxat aspiciunt, quam
terrae naturam sapere volunt et Aristoteles et Averroes, proindeque torpentes
acgelidi AMORIS munera acesque non sentiunt. Qui vero contemplantur atque]
ac V costare V quoque quo V inestimabili V;
inextimabili N N ac a V Hoc copuletur Symp. N V ad
aciemus Io. ut verum in Mercurii orbem oculos attollunt, unde artium et
discipli-narum munera tribui generi humano abulantur. Qui etsi amoris flam-mas
nondum concipiunt, quoniam tamen orbis ille venereo iunctus est, nec sua stella
a Veneris stella procul unquam migrat, atque utraque semper circum flammeum
ardentemque micat solem, idcirco ab intelligen-tia, modo recta piaque sit, ad
amoris ignes acilis patet aditus. Qui autemetiam Mercurii somnia virgamque
apertis oculis transiliunt, quasi vene-reae columbae pennis, nisi ad Veneris se
flammas caelumque recipiunt,quo qui tandem convolant, non in concertatione
similitudinum dimicant vel laborant, sed in pace in id ipsum dormiunt laeti
atque requie-scunt. Has pennas optabat olim vates: “quis,” inquit, “dabit mihi
pennasut columbae, quibus simul volabo, et requiescam!” Huc se venturum isetiam
ut poterat sperabat, geminas qui forte columbas aspiciens, quaetum caelo venere
volantes, maternas agnovit aves. In hoc denique AMORIS caelumtertiumraptusilleest,quiamoremabsquerebusaliissatisesse,res
alias absque amore nihil esse arbitrabatur. Non itaque cum vatici-niis, non cum
prophetia, non cum miraculis semper datur deus. Quaeomnia, ut idem testatur, si
habeam, unum AMOREM non habeam, nihilomninosum. Quod vero sit donorum primum acitutaliquasempercum
donis AMOR detur; si -- prior testo con note – apparato critico – Antonini. Ubi
ea de AMORE tractavimus, quae aeterna sunt, nunc ad ea accedimus, quaead mortals
usque proveniunt. Utrum queenim in Symposio disputatum est a Platone, et quod
magnus deus amor est, quod ad aeternitatem pertinet, et quod medicus est
curatorque mortalium, quod vergit adtempus. Quam quidem sententiam plerique
eorum contempserunt, quisibi sapientes videntur, quique rationem sensilibus,
non sensilia ratione dimetiuntur. Rati ex aeterna causa res novas absque medio provenire
non posse, ne aeterna, stabilis, immotaque res, de ea enim causa
praecipueloquuntur, quae rma immota semper est, quasi quae novam rem pariat.Iam
a priore statu mota videatur, eademque et immota et mota esset,quod eri nulla
potest ratione. Sane divinus ille AMOR ex aliquo semper effertur inaliquid, quod
si qua manatex aliocogitetur AMOR, aeternaprogressione fluit a Parente ac Filio.
Sin vero ut vergit in aliquid prospi-ciatur, aut qua in id vergit, quod amatur,
velut a patre proles, atque eaprogressio perpetua est, aut qua in id rapitur,
quod ex Amore ut, velut inmunera, quae hominibus divinitus tribuuntur. Qui
quidem divini AMORIS adventus, tam aeternus non est, quam homines, quibus illa
donantur. Mortales sunt, aeterni non sunt; neque accessus ille, illaque curatio
quic-quam in Deo collocat novi nisi ex nostra quadam cogitatione. Sed id
innobis oritur, quod ad aliquid est, in nobisque non eo in amore mutation ut,
quem ad modum orientem solem spectantibus, dexter est antarcticus polus,
articus sinister, quibus rursus occidentem spectantibus contrariaratio et,
efficiturque et dexter arcticus et sinister antarcticus, ac quamquam immoti semper
poli sint, qui tamen dexter erat sinister efficitur,non caeli parte, sed
spectatoris corpore commutato. Ita sane ut, cumad bonas hominum mentes, cum ad
morbos animorum curandos, ille accedit amor. Ita ad aegrum se confert, ut
agitationem ac motum, nonamor ille divinus, sed solus aegri animus patiatur.
Nam cum geminiAmores,geminaequesintVeneres,sicutPlatoniplacet,
uterquesiprocesserit, urorenoscorripit.Sedalterperturbationum, morborum,
malorum omnium causa est; alter sedationes, salutem, bonaque plane omnia elargitur.
Hinc Menon ille Platonicus ait, mortales non nisi divino urore correptos bonos feri.
Quae quidem sententia oraculo consentit, quo prae-dicatum est, caeli regnum vim
pati atque a violentis mortalibus rapi. Utenim malus uror in ra humanam sortem
rapit mentem, ita divinus spiritu vehementi, supra hominum vires in caelum
usque correptam mentem vehit. HIC ILLE RAPTVS DIVINVS EST QVEM SVPERIOR FABVLA
IN PHYRGIO PVUERO COGITARI VOLEBAT QVEM IN CÆLVM AD DIVINAS DAPES NON SVO
CONSILIO PROTECTVM SED DIVINO POTIVS RAPTV ADVECTVM PRODEBAT – RAPTVMQVE AMAVIT
NON NISI AB AMATORE VT HOMINVM AD DIVINA RAPIENDORVM POTESTAS NON NISI IN
DIVINVM AMOREM REFERATVR. Nam Plato cum tres furoresostendisset: Musarum, Bacchi,
Apollinis,quartumetiam Venerisadiecitomnium maximum, sacratissimum,
divinissimum. Aeterna vero de causa novi aliquid procisci quid prohibet,
alibera praecipue atque immota omnino. Quippe quae idcirco non mutata usque iudicatur,
quod quae aeterna voluntate in tempore se facturam statuit, eastatuto tempore fecit.
Quare tantum abest ut mutata dicenda sit, quod intempore quicquamegerit, ut mutat
autique dicenda esset, siquod constituit, in tempore non egisset. Adde quod non
ponimus spiritum illic esse,ubi prius non uerit, sed alia ratione esse quam
uerit. Atque ita ad nos in temporedicimus procisciillumcumdivinoaliquoconiungiturmunere,
quopriusnobisnonconiungebatur.Callistoetenim,etamantideomisce-tur prius, et
deinde ab eodem in caelum rapta est. Quibus quidem inrebus, non divinum amorem,
sed illam mutatam esse voluerunt, cumprius divina amicitia ac deinceps etiam
caeli sede a divino amore donata est nactaque. Spiritusmunus est quippe quem
nonaquis mergi sed superaquas erri scriptum est. Aquae etenim multae, Solomone
teste, extin-guere non possunt charitatem, quae una more olei virginum
prudentumobrui in undas non potest, sublime tutumque supernatat. Ita quos
sanc-tus ille Amor inhabitat, nihil mali metuunt, nullos adversos reformidant
ventos, nulla malorum tempestate iactantur. Quam quidem rem et priusHomerus et
postea Maro posteris prodiderunt: “Arctos Oceani metuen-tes aequore tingi, quod
hii, quos divinus amor corripit, agitari ortasse quandoque nonnihil possint,
mergi ullis tempestatibus non possint. Iam vero de AMORIS processibus quaesitumsaepe
est, duonesint,anunus.Aliiduos aciunt, quod aeterna res eadem rei non aeternae
esse non debeat. Aliiunum dumtaxatesse contendunt, qui aduosuntad aliquid in spiritu:
alterum re, alterum ratione. Quod vero ratione, non re ponimus, nihil rerum
constituat oportet. Res ex re oritur, non ex solius principio ratio-nis. Nos
medium malentes, modo quodam unum, modo alio duos pro-cessus esse volumus,
omnis enim progressio inter duos iaceat terminosnecesse est, ut Daedali volatus
e Cretensi coepit carcere, Calcidica que levis tandem super adstitit arce. Aquam
etiam, quam in horto voluptatis esse docet Moses, vel ex onte unde manat, uel
ex alveis in quos manat,spectare possumus. Si ex onte, unam, si ex alveis,
plures esse dicendumest. Ita erme et amoris divini processus. Si ontem unde
fluit adspicias,unus dumtaxat erit immortalis aeternusque, sicut unum esse
principium ostendimus unde manat. Sin vero ea spectes, in quae tendit, quia
alterum est aeternum, alterum temporarium, ut spiritus divinus, et
huma-numgenus, id circoduosesse progressusasseverandumest. In onteenimsi quid est
quodsitad aliquidin processu spiritus, unum dumtaxatest. In nibus vero non
unum, sed duo reperiuntur, quorum alterum in spirituaeternum, alterum in
hominibus temporarium residet. De aeterno quidem Hesiodus disseruit, qui etiam
Aristotele teste, erram et ante eam Chaos, hoc est vacuum, ut idem
interpretatur, quod ii concedant oportet, qui mundum volunt conditum fuisse, ut
etiam consensit interpres Averroes ante haec vero, utpote rebus antiquiorem
Amorem constituit,cuius postea partes uere, super aquas erri, et ut alii
melius, rudi mundi et silvae et materiae incubare. AMOREM ita queis vates
aeternum essececinit,quemtemporariumquoque universa ecit antiquitas,cum Iovem traxis
senxerunt ad Danaes, ad Laedae, ad Alcmenae consuetudinem. Nec aliud plane per
divinos amores, per amatas Deo puellas, et si as essetdicere per Iovis adulteria
intellexere, nisi AMORIS divini adventum
inhomines, cum ex innumerabili pene mortalium turba ad interitum, adineros, ad
miseriam properante, quidam seliguntur Deo cari, quibus et verumagnoscere, pedemretrahere,
caelum contemptaterraconscendere datum est. Dat siquidem Plato in Euthyphrone
Divino Amori, quicquidin mortalibus vel studiosi, vel sancti reperitur. Omne
enim Diis AMICUM sanctum, diis vero NON AMICUM PROPHANUM arbitrabatur. Quicquid
itaque spei, quicquid salutis, quicquid recti in hominibus esse potest,
exmunere deorum esse voluit, cum ALCIBIADES ad bene, recteque agendum censuit
non sufficere mortales. Id quoque vestigatione dignum putavere, ancum AMORIS Divini
muneribus, quaedonantur hominibus, ipseetiam Divinus AMOR Deus, ac ipse a nobis
Spiritus una cum muneribus possideatur. Plato in “Symposio” illud Hesiodi, quod
prius adduximus, commemoravit, antiquissimum Deorum esse AMOREM, ut Spiritum
ostenderet Deum esse maximum, turbas novorum Deorum ipsa aeternitate antecedentem.
Antiquissimum vero et primum intelligimus non modoqua deos alios anteit, verum
etiam qua divina in nobis antecedit dona.Primum namque donorum omnium AMOREM
facit Aristoteles in “Rhetoricis”, quare nisi prius mortalibus amor detur,
nunquam divina munera tribuuntur de iis, inquam, muneribus, quae amicitiam
nobis conciliantdivinam. Deum praeterea Aristoteles in maximo caeli circulo
esse vult,ea dumtaxat nisus ratione, quod simplices incorporeaeque
substantiaeeo in loco sunt, sicuti in loco esse possunt, ubi actiones exercent.
Quodsi id agit Amor ille divinus in nobis, ut ex impiis pii, ex iniustis iusti,
ex hostibus amici efficiamur, non potest idem ipse Amor non esse innobis.
Iungimur quoque non modo muneribus cum illa suscipimus, sedipsi etiam Deo, quem
probe tum nosse tum amare incipimus; notitiaenim AMORque Dei, quae praecipua a
Deo munera generi humano tri-buuntur, ut Deo et propius iungamur et iunctissime
haereamus efficiunt. Atqui sicut Apostolo placet, quicunque haeret deo, ut unus
cum Deospiritus evadat, oportet. Fit denique in nobis dato munere ad
aliquid,quo non modo dona suscepta, verum etiam dantem AMOREM aspicimus. Quam obrem
efficitur, ut AMOR ille, qui Deus est, alia quam priusratione possideatur a
nobis. Possidetur autem cum sese nobis insinuat, cum inudit se animo, cum sinui
penetralibusque amatae mentis illabitur. Quod si parum id persuaserimus, non potest
Apostoli oraculum non persuadere, qui Dei amorem in discipulorum cordibus
praedicat diffu-sum “per Spiritum,” inquit, Sanctum, qui datus est nobis. Quo
quidem loco incredibile immortalium munus ostenditur, quo non modo divina dona,
verum etiam Deus ipse donorum dator sese et dat et exhibet animae humanae. Ex
iis vero, quae dicta sunt, dubitatio exoriri potest, sienimA AMORES tdonorumprimum,
nullonos donarimunere sequitur, nisiprius AMOREM Spiritumque suscipiamus. Cum
tamen nonnullos con-stet improbos Spiritus divini dona suscepisse, Spiritum
tamen minime suscepisse. ria nomina intelligenda sunt nobis, quae saepe a risme-gisto
et a Platone in medium afferri consuevere. Deum namque apelli-tare soliti sunt
Patrem, Verum, Bonum. Patrem quidem nominant illamut causam, a qua protecti
sumus; Verum, ut id quod summum intelli-gimus; Bonum, ut id quod ut beati simus
adamamus. ria itaque divina nominasunt, tres etiam rationes quibus in nobis est
Deus; quaenimPaterac causa rerum est, omnibus inest rebus. Ea namque, quae sunt,
simili-tudinem servant eorum, unde unt, atque hoc pacto in rebus est
Deus:essentia, potestate, praesentia, quemadmodum publica senatus decretacensuerunt.
Ego omnia impleo,” dicebat oraculum. Quam quidem rem divinarum rerum
consultissimus Maro in rusticis carminibus scriptamreliquit: “Ab Iove,” inquit,
“principium Musae; Iovis omnia plena”; ubiet sententiam et sententiae causam
elegantissime posuit scribens, Iovisesse plena omnia, atque ideo ab eo
principium Musae acere. Qui locuslonge altius agit, quam prima carminis fronte videatur,
voluit enim Iovis plena esse omnia, quoniam Musae principium, atque ortus a
Iove ipsoest. Filias enim Iovis Homerus Musas fecit. Musas etiam
caelestesquedeos una cum rebus omnibus a principio conditos a Deo fuisse constat.
Quare idcirco docet omnia esse plena Deo, quod Musae rerum-que omnium pater est
et causa ac principium Deus. Primamque rationem describit, qua Deus rebus
inest, eiusque rei causam ostendit, quod Musae rerum quesitet pateret principium.
Didicitex imaeo Deum essenon modo Musae, sed et rerum patrem, ubi insignis illa
Platonis sententia est, actarum rerum patrem invenire difficile est, effari autem
nulliunquam as est.” Quod enim sit Deus, magno tandem negotio coniicimus, quid
autem sit nullo studio, nullo labore in terris animadvertimus. At esse
ubiqueDeum Academia semper voluit, utpostea, non semel Plotinus testatus est,
cuius quidem doctrinam ad Maronis interpretamenta necessariam esse, vel Servius
atetur. Altera ratio, qua inest nobis Deus, est cognitionis et mentis, quod
quidem divinum munus ii soli possident, qui sunt mentis rationisque participes.
Iungitur namque Deo mens dumcontemplatur Deum, utque divinas quasdam speculatur
imagines, quibus aciem dirigit in divinam lucem; atque hoc pacto in
contemplante est Deus per similitudines atque imagines quasdam, quibus modo
quodam coniungimur Deo. Tertia ratio est cum inest nobis deus non modo tamquam
verum cognoscentibus, sed tanquam bonum summum adamanti-bus. Illud cognitionis,
hoc amoris est opus. Id menti convenit, hoc daturaffectui. Quarum quidem rerum
illud est interstitium, quod rei speciem altera, altera non speciem, sed rem
ipsam assequitur. Species enim lapidis, teste Aristotele, in animo est, non lapis,
cumcontra bonumipsum ac malum, noninrerumimaginibus, sedinipsissintrebus. Quaretertius
hic nodus quoiungimur deo, tanto es tsuperiorep raestantior, quantoaurum, atque
homo auri hominisque imagines antecellit. Licet intelligentia quadam nos
ratione iungat Deo, ita tamen iungit, ut scientiae et mathemati-cae solent,
quae aciunt necessaria quadam consecutione, ut cognitas res et coelum
cognoscamus, non tamen praestant, ut etiam intellecta possi-deamus. At amor,
qui similitudinibus imaginibusque contentus esse nonsolet, ad res ipsas, quas
optat, se recipit, nec unquam nisi pulchro poti-tus conquiescit. Cognitio
quidem rerum similitudines ad cognoscentem vehit, amor vero amantem ipsum ad
rem pulchram rapit. Iarbam quem novit Dido, non admisit, quem amavit Aeneam
virum cepit, non enimilli colloquia, non convivia, non munera, non consuetudo
sat uit, quinpotius nunquam destitit, donec “speluncam Dido, dux et Troianus
ean-dem devenirent, ubi arctissimo connubiivinculoiungerentur. Atque hoc est
quod in Republica Plato monet, AMORIS nexum multo esse mathematicis artiorem,
cum disciplinarum necessitas similitudini mentem iun-gat, amoris vincula
pulchro ipsi devinciant. Adde quod velut Maro amo-ris retinacula ut arctissima
esse demonstraret, matrimonii illa et nuptiarum iugo signi cavit. Idem quoque hicidemquodeagimus
Spiritus effecit in AMATORIIS canticis, commercia namque humanarum animarum
etinmortalis Dei, quae caritate amoreque conciliantur, non aptiori
nomineappellatasunt,quamconnubiiatquenuptiarum.Quamobremliberis,qui AMORES canit et castos et divinos, ab
Ieronimo, Origene, aliisque senatus principibus VIRIS Epitalamii titulo inscriptus
est, haud alio plane consilio, quam ut cum amoris nodum cogitemus, efficacissimum
arbitremur.Est itaque in rebus Deus maximus primo quidem modo sicut causa
iniis, quae vel proveniunt vel oriuntur ex causa. Est rursus in eo animante, qui
rationis est particeps,quadamet specierum similitudine et intelligentiae luce.
Et denique in hoc ipso per sanctos caritatis amorisque complexus. Primum quidem
naturae opus est, alterum studii, tertium AMICITIAE. Primum dat nobis
essentiam, sequens cognitionem, postremum gratiamatque benevolentiam. Deus
siquidem in primo et intellectum et mentem praebet homini, in secundo dei
species et enigmata, in postremo amo-risbeneficiodatse ipsum. Iamitaqueconstarepalampotest,
quaemunera AMORES ea sint, quae cum exhibentur hominibus, efficiunt ut auctor
quo-que ipse exhibeatur. Licet enim, qua pater et causa rebus insit
omnibus,praecipuum tamen inhabitandi munus, quod ad amorem pertinet, nullis cum
muneribus praestatur hominibus, nisi ea amoris, gratiae, amicitiaesint. Extat
oraculum clarissimum, quo amoris hoc divinissimum significatum est munus: “ad eum,”
inquit, “veniemus, in quo, et nobis domicilium aciemus.”HocideminPlatonico Symposioindicat,
quodinAmorisortu Penia Poro miscetur, ut aperte Amoris vis intelligatur, cuius
inaestimabili et bonitate et benficio et, ut non speciei, non similitudini,
sedipsi Deo anima copuletur. O beatum munus! O felices AMORIS VIRES, O
fortunatos HOMINES, ubi divinus ille flagrat Amor, ubi suas Deus exer-cet
nuptias, ubi amatae sponsae commiscetur, ubi tanquam in thalamocubat suo! Quid asces,
quid imperia, quid utiles hominibus voluptates prosunt? Qui si unum hunc Amorem
non possident, male omnia atqueexilio possident. Qui ut parentem et causam
colunt deum, parum sese
aellureevehunt,caelumquelunaedumtaxataspiciunt,quamerraenatu-ram sapere
volunt et Aristoteles et Averroes, proindeque torpentes acgelidi Amoris munera acesque
non sentiunt. Qui vero contemplantur ut verum in Mercurii orbem
oculos attollunt, unde artium et discipli-narum munera tribui generi humano fabulantur.
Qui etsi amoris flam-mas nondum concipiunt, quoniam tamen orbis ille venereo
iunctus est,nec sua stella a Veneris stella procul unquam migrat, atque utraque
semper circum flammeum ardentemque micat solem, idcirco ab intelligen-tia, modo
recta piaque sit, ad AMORIS ignes facilis patet aditus. Qui autemetiam Mercurii
somnia virgamque apertis oculis transiliunt, quasi vene-reae columbae pennis,
nisi ad Veneris se flammas caelumque recipiunt,quo qui tandem convolant, non in
concertatione similitudinum dimi- cant vel laborant, sed in pace in id ipsum
dormiunt laeti atque requie-scunt. Has pennas optabat olim vates: “quis,”
inquit, “dabit mihi pennasut columbae, quibus simul volabo, et requiescam!” Huc
se venturum isetiam (ut poterat) sperabat, “geminas qui orte columbas
aspiciens, quaetum caelo venere volantes, maternas agnovit aves.” In hoc
denique AMORIS caelumtertiumraptusilleest, qui AMOREM absquerebusaliissatisesse,res
alias absque amore nihil esse arbitrabatur. Non itaque cum vatici-niis, non cum
prophetia, non cum miraculis semper datur Deus. Quaeomnia, ut idem testatur, si
habeam, unum Amorem non habeam, nihilomninosum.Quodverositdonorumprimum acitutaliqua
semper cum donisAMOR detur. Simplicitertamenexactequedari non dicitur, nisi dum
munera tertii sunt generis et divina cum AMICITIA tribuuntur. Egidio Antonini. Antonini.
Keywords: Ganimede, amore, amare, amatore, amante, amatum, significatum. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice ed Antonini” – The Swimming-Pool Library.
Grice ed Antonino – imperare – filosofia italiaa –
Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. – marc’aurelio: antonino -- Grice: “Some call him Aurelio, but I call
him Antonino, since the first time his thing was published in Latin, his thing
was under ‘M. Antonini,’ no clue about the Aurelius!” -- Grice: “I once
suggested to Strawson that he should write a dissertation on a comparison of
Barberini’s and Xylander’s translation of Marcus Aurelius; you see, he was a
Roman who philosophised in Greek; and he was translated to Latin only in the
1550s; and into Italian a century later! Sir Peter responded: “I guess you want
me to detect all the misimplicata!’ ‘Misimpiegato,’ I replied!” Solo il
presente ci è tolto, dato che solo questo abbiamo.» (Marco Aurelio, Pensieri)
Marco Aurelio Antonino Augusto (in latino: Marcus Aurelius Antoninus Augustus;
nelle epigrafi: IMP·CAES·M·AVREL·ANTONINVS·AVG. Meglio conosciuto semplicemente
come Marco Aurelio, è stato un imperatore, filosofo e scrittore romano. Su
indicazione dell'imperatore Adriano, fu adottato dal futuro suocero e zio
acquisito Antonino Pio che lo nominò erede al trono imperiale. Nato come
Marco Annio Catilio Severo divenne Marco Annio Vero, che era il nome di suo
padre, al momento del matrimonio con la propria cugina Faustina, figlia d’Antonino,
e assunse quindi il nome di Marco Aurelio Cesare, figlio dell'Augusto (Marcus
Aurelius Caesar Augusti filius) durante l'impero di Antonino stesso. Antonino e
imperatore sino alla sua morte, avvenuta per malattia a Sirmio secondo
Tertulliano o presso Vindobona. Mantenne la coreggenza dell'impero assieme a
Lucio Vero, suo fratello adottivo nonché suo genero, anch'egli adottato da
Antonino Pio. Morto Lucio Vero, associa al trono suo figlio Commodo. È
considerato dalla storiografia tradizionale come un sovrano illuminato, il
quinto dei cosiddetti "buoni imperatori" menzionati da Edward Gibbon.
Il suo regno fu tuttavia funestato da conflitti bellici (guerre partiche e
marcomanniche), da carestie e pestilenze. Marco Aurelio è ricordato anche come
importante filosofo stoico, autore dei Colloqui con sé stesso, “Τὰ εἰς ἑαυτόν” nell'originale.
Alcuni imperatori successivi utilizzarono il nome "Marco Aurelio" per
accreditare un inesistente legame familiare con lui. Busto dell'imperatore
Marco Aurelio (Musei Capitolini, Roma). Nome originale Imperator Caesar Marcus
Aurelius Antoninus Augustus Tribunicia potestas 9 anni (da solo), 6 con Lucio
Vero, 4 con Commodo e 15 con Antonino Pio per un totale di 34 volte: la prima
volta dal 1º dicembre del 147, rinnovata annualmente al 10 dicembre di ogni
anno. Cognomina ex virtute Armeniacus nel 164, Medicus e Parthicus Maximus, Germanicus,
Sarmaticus. Titoli: Pater Patriae, Salutatio imperatoria10 volte:[1] I (al
momento della assunzione del potere imperiale). Morte17 marzo 180 Sirmio o
Vindobona (attuale Vienna) PredecessoreAntonino Pio SuccessoreCommodo
ConiugeFaustina minore FigliDomizia Faustina Aurelia Tito Aurelio Antonino Tito
Elio Aurelio Lucilla Annia Aurelia Galeria Faustina Tito Elio Antonino Fadilla
Annia Cornificia Faustina minore Commodo Tito Aurelio Fulvio Antonino Marco
Annio Vero Cesare Vibia Aurelia Sabina Adriano Un altro figlio di cui non si
conosce il nome nato dopo Tito Elio Antonino GensAnnia DinastiaAntonini
PadreMarco Annio Vero adottivo: Antonino Pio MadreDomizia Lucilla Consolato3
volte: nel 140, 145 e 161. Le principali fonti per la vita e il ruolo di Marco
Aurelio sono frammentarie e spesso inaffidabili. Il gruppo più importante è
rappresentato dalle biografie contenute nella Historia Augusta, composte in
epoca successiva al IV secolo.[34] Le biografie derivate principalmente da
fonti ormai perdute (come Mario Massimo), ma anche da Eutropio e Aurelio
Vittore, ovvero quelle di Marco Aurelio, Adriano, Antonino Pio e Lucio Vero,
sono ritenute accurate e affidabili. Di Frontone, maestro di retorica di Marco
e di vari funzionari di Antonino Pio, si conservano una serie di manoscritti
irregolari. Nei Colloqui con sé stesso Marco offre una finestra sulla sua vita
interiore, ma gran parte dei libri risultano senza riferimenti cronologici e
con pochi accenni al mondo esterno. La più attendibile fra le fonti del periodo
è Cassio Dione, Egli scrisse una storia di Roma dalla sua fondazione al 229,
chiamata Historia romana.[36] Altre fonti letterarie e giuridiche, come gli
scritti del medico Galeno, le orazioni di Elio Aristide e le costituzioni
imperiali dello stesso Marco Aurelio forniscono ulteriori informazioni sul
contesto storico e sociale in cui visse l'imperatore. Epigrafi e monete possono
integrarle, così come i numerosi reperti archeologici. La sua famiglia e di
origine romana, ma stabilita da tempo a Ucubi (Colonia Claritas Iulia Ucubi), una
piccola cittadina. Essa salì alla ribalta alla fine del I secolo, quando il suo
bisnonno, Marco Annio Vero, fu senatore e forse pretore. Il nonno, anch'egli di
nome Marco Annio Vero, fu elevato al rango di patrizio. Il terzo Marco Annio
Vero, cioè suo padre, sposa Domizia Lucilla. Lucilla maggiore, la di lei nonna
materna, eredita una grande fortuna, tra cui una fabbrica di mattoni (figlina)
a Roma, attività alquanto redditizia in un'epoca in cui la città era
interessata da una notevole espansione edilizia. La famiglia della madre e di
rango consolare, mentre quella del padre vanta addirittura una discendenza da
Numa Pompilio. Busto di Marco Aurelio giovane uomo, Museo Archeologico
Nazionale di Napoli, collezione Farnese. Il busto (fino al collo) è un rifacimento
moderno. Nacque da Vero e Lucilla il sesto giorno prima delle calende di
maggio, l'anno del secondo consolato di suo nonno Marco Annio Vero,
corrispondente all'anno 874 dalla fondazione di Roma. La sorella, Annia
Cornificia Faustina, nacque probabilmente nel 122 o nel 123. Il padre Annio
Vero muore giovane, durante la sua pretura, quando Marco ha solo tre anni.
Anche se difficilmente può averlo conosciuto, scrisse nelle sue Meditazioni che
ha imparato modestia e virilità dal ricordo di suo padre e dalla sua
reputazione postuma. Lucilla non si risposa più. La madre di Marco, come da
usanza della nobilitas, trascorse poco tempo col figlio, affidandolo alle cure
delle domestiche. Ciononostante, Marco accredita a sua madre l'insegnamento
della pietà religiosa, la semplicità nella dieta e come evitare le vie dei
ricchi. Nelle sue lettere Marco fa frequente e affettuoso riferimento alla
madre, manifestandole la sua gratitudine, nonostante mia madre fosse condannata
a morire giovane, trascorse i suoi ultimi anni di vita con me. Dopo la morte
del padre, anda a stare dal nonno paterno Marco Annio Vero. Ma anche Lucio Catilio
Severo, descritto come il bisnonno materno di Marco (probabilmente il patrigno
o padre adottivo di Lucilla maggiore), partecipa alla sua istruzione. Crebbe
nella casa dei suoi genitori, sul Celio, dove era nato, in un quartiere che
avrebbe affettuosamente ricordato come il mio Celio. E una zona esclusiva, con
pochi edifici pubblici e molte domus nobiliari fra cui il palazzo del nonno,
adiacente al Laterano, dove Marco avrebbe trascorso gran parte della sua
infanzia. Marco era riconoscente al nonno per avergli insegnato a tener lontano
il brutto carattere, ma era anche grato agli eventi che gli evitarono di vivere
nella stessa casa con la concubina presa dal nonno dopo la morte della moglie,
Rupilia Faustina. Evidentemente questa donna o qualcuno del suo seguito potevano
costituire una tentazione per Marco. La sua istruzione avvenne in casa, in
linea con le tendenze aristocratiche del tempo. Uno dei suoi maestri, Diogneto,
si dimostrò particolarmente influente, introducendo Marco a una visione
filosofica della vita e insegnandogli l'uso della ragione. Per volere di
Diogneto, prese a praticare le abitudini proprie dei filosofi e a utilizzarne
l'abbigliamento, come il ruvido mantello greco. Altri tutores, Trosio Apro, Tuticio
Proculo edAlessandro di Cotieno, descritto come un importante letterato (il
principale studioso omerico del suo tempo), continuarono a occuparsi della sua
istruzione. Deve ad Alessandro la sua formazione nello stile letterario,
rilevabile in molti passi dei Colloqui con sé stesso. Adriano, convalescente
nella sua villa di Tivoli dopo aver rischiato di morire per un'emorragia,
scelse Lucio Ceionio Commodo (conosciuto poi come Lucio Elio Cesare) come suo
successore, adottandolo contro la volontà delle persone a lui vicine. Lucio
però si ammalò e morì, costringendo il princeps Adriano a indicare un nuovo
successore, quando la scelta cadde su Aurelio Antonino, il genero di Marco
Annio Vero che il giorno successivo, dopo essere stato attentamente esaminato,
fu accettato dal Senato e adottato col nome di Tito Elio Cesare Antonino. A sua
volta, come da disposizioni dello stesso princeps, Antonino adotta Marco, allora
diciassettenne, e il giovane Lucio Commodo, figlio dello scomparso Lucio Elio
Vero. Da questo momento Marco muta il suo nome in Marco Elio Aurelio Vero e
Lucio in Lucio Elio Aurelio Commodo. Rimase sconcertato quando seppe che
Adriano lo aveva adottato come nipote. Solo con riluttanza passò dalla casa di
sua madre sul Celio a quella privata di Adriano, che si ritiene non fosse
ancora la casa di Tiberio, come veniva chiamata la residenza imperiale sul
Palatino). Adriano chiese in Senato che Marco fosse esentato dalla legge che
richiedeva il venticinquesimo anno compiuto per il candidato alla carica di
questore. Il Senato acconsentì e Marco divenne prima questore, ricevette quindi
l'imperium proconsulare maius e il consolato. L'adozione facilitò il percorso
della sua ascesa sociale: egli sarebbe verosimilmente divenuto prima triumvir
monetalis (responsabile delle emissioni monetali imperiali) e in seguito
tribunus militum in una legione. Marco probabilmente avrebbe preferito viaggiare
e approfondire gli studi. Il suo biografo attesta che il suo carattere rimase
inalterato: mostrava ancora lo stesso rispetto per i rapporti come aveva quando
era un cittadino comune ed era così parsimonioso e attento dei suoi beni come
lo era stato quando viveva in una abitazione privata. La salute di Adriano
peggiorò al punto da fargli desiderare la morte, tentando anche il suicidio,
impeditogli dal successore Antonino. L'imperatore, gravemente malato, lasciò
Roma per la sua residenza estiva, una villa a Baiae, località balneare sulla
costa campana, ove morì infine di edema polmonare. La successione di Antonino
era ormai stabilita e non presentava appigli per eventuali colpi di mano. Per
il suo comportamento, rispettoso dell'ordine senatorio e delle nuove regole,
Antonino fu insignito dell'appellativo "Pio". Governo con Antonino
Pio (139-161) L'adozione (Monumento dei Parti, oggi presso il Museo di
Efeso di Vienna): Antonino Pio (al centro) con Lucio Vero di sette anni (a
destra) e Marco Aurelio di diciassette anni (a sinistra, alle spalle).
All'estrema destra, sembra esserci Adriano. Magnifying glass icon mgx2.svgEtà
antonina. Subito dopo la morte di Adriano, Antonino pregò la moglie Faustina di
accertarsi se Marco fosse disposto a modificare i suoi precedenti accordi
matrimoniali. Marco acconsentì a sciogliere la promessa fatta a Ceionia Fabia e
a fidanzarsi con Faustina minore, la loro giovane e bella figlia, inizialmente
promessa a Lucio. Ricopre il suo primo consolato nel 140, con Antonino come
collega. In qualità di erede designato, fu quindi nominato princeps iuventutis,
il comandante dell'ordine equestre. Assunse il titolo di Cesare,[69] divenendo
Marco Elio Aurelio Vero Cesare, ma in seguito si schermì dal prendere troppo
sul serio l'incarico. Su invito del Senato, Marco venne inserito
contemporaneamente nei principali collegi sacerdotali, tra i quali figuravano i
pontifices, gli augures, i quindecemviri sacris faciundis e i septemviri
epulones. Antonino gli chiese di prendere la residenza nella Domus Tiberiana,
uno dei palazzi imperiali sul Palatino. Marco avrebbe avuto difficoltà a
conciliare la vita di corte con le sue aspirazioni filosofiche, anche se ammirò
sempre e profondamente Antonino come un uomo giusto, esempio di condotta
integerrima. Marco si convinse che la vita serena a corte doveva essere un
obiettivo raggiungibile, dove la vita è possibile, allora è possibile vivere
una vita giusta, la vita è possibile in un palazzo, per cui è possibile vivere
la vita proprio in un palazzo affermò, trovandolo comunque di difficile
attuazione. Nei Colloqui con sé stesso Marco sembrava criticarsi per aver
abusato della vita di corte di fronte alla società. Come questore, Marco sembra
abbia ricoperto un ruolo amministrativo secondario: i compiti erano la lettura
delle lettere imperiali al Senato, quando Antonino era assente, e più in
generale quello di essere una sorta di segretario privato del princeps. I suoi
compiti come console furono invece più significativi, presiedendo le riunioni
che avevano un ruolo importante nelle funzioni amministrative del corpo
statale. Si sentiva assorbito dal lavoro d'ufficio e se ne lamentò con il suo
tutore Frontone: Sono senza fiato a causa di dover dettare quasi trenta
lettere. Egli era stato, nelle parole del suo biografo, preparato per governare
lo Stato. Marco venne nominato console per la seconda volta, a soli
ventiquattro anni. Una lettera di Frontone esortava Marco a dormire molto in
modo che potrai entrare in Senato con un buon colorito e leggere il discorso
con una voce forte. Marco si era lamentato di una malattia in una lettera
precedente: Per quanto riguarda la mia forza essa è migliorata, sto cominciando
a guarire e non vi è alcuna traccia di dolore nel mio petto, ma riguardo
l'ulcera sto facendo un trattamento e faccio attenzione a non fare nulla che
interferisca con esso. Marco era di salute cagionevole: lo storico romano
Cassio Dione, scrivendo dei suoi ultimi anni, lo elogiò per essersi comportato
a dovere, nonostante le numerose malattie. Matrimonio con Faustina Busto
di Faustina Minore, Louvre, Parigi. Nell'aprile del 145 Marco sposò la
quattordicenne Faustina, come era stato programmato. Secondo il diritto romano,
per far sì che il matrimonio potesse aver luogo, fu necessario che Antonino
liberasse ufficialmente uno dei due figli dalla sua autorità paterna; in caso
contrario Marco, in quanto figlio adottivo di Antonino, avrebbe sposato sua
sorella. Poco si sa della cerimonia stessa. Vennero coniate delle monete con le
immagini degli sposi e di Antonino, che avrebbe officiato la cerimonia come
pontifex maximus. Nelle lettere rimanenti Marco non fa esplicito riferimento al
matrimonio, durato trentun anni, e accenna solo raramente a Faustina. Dopo aver
indossato la toga virilis nel 136 iniziò probabilmente la sua formazione
oratoria. Aveva tre maestri di greco, tra cui Erode Attico, e uno di latino,
Marco Cornelio Frontone, che Marco ricorda spesso come suo maestro di stile e
di vita nei Colloqui con sé stesso. Frontone e Attico erano gli oratori più
stimati dell'epoca, ma divennero suoi precettori solo dopo la sua adozione da
parte di Antonino. La preponderanza dei tutores greci indica l'importanza di
quella lingua per l'aristocrazia di Roma. Questa era l'età della seconda sofistica,
una rinascita della letteratura greca. Sebbene istruito a Roma, Marco userà il
greco per scrivere i suoi pensieri più profondi nei Colloqui con sé stesso. Erode
era un uomo molto ricco e discusso, forse il più ricco d'Oriente e mal
sopportava gli stoici, ma era un abile oratore e sofista; Marco, che sarebbe
diventato proprio uno stoico, non lo ricorda affatto nei suoi Colloqui,
nonostante si fossero incontrati molte volte nel corso dei decenni successivi. Quinto
Giunio Rustico in un disegno riportato nel Crabbes Historical Dictionary. Busto
di Erode Attico in marmo, risalente al II secolo d.C. e conservato al Museo del
Louvre di Parigi. Frontone godeva di grande reputazione: nel mondo
consapevolmente antiquato della letteratura latina era considerato, come
oratore, secondo solo a Cicerone, una fama che oggi, in base ai pochi frammenti
rimasti, può lasciare meravigliati. Non correva una gran simpatia fra Frontone
ed Erode; eppure i due seppero in ultimo far scorrere una vena di reciproca
cortesia e gentilezza, grazie anche a Marco. Frontone non divenne insegnante a
tempo pieno di Marco e continuò la sua carriera di avvocato. Una causa famosa
lo portò in contrasto con Erode, che era il principale accusatore di Tiberio
Claudio Demostrato, un notabile ateniese difeso proprio da Frontone. L'esito
del processo è ignoto, ma Marco riuscì a far riconciliare i due. All'età di
venticinque anni Marco cominciò a disamorarsi degli studi in giurisprudenza,
mostrando segnali di un diffuso malessere. Era stanco dei suoi esercizi e di
prendere posizione in dibattiti immaginari. In ogni caso, l'istruzione formale
di Marco era ormai finita. Aveva mantenuto con i suoi insegnanti buoni rapporti
e continuava a seguirli con devozione, anche se la lunga istruzione ebbe
negative influenze sulla sua salute.[89] Quando Marco era giovane Frontone lo
aveva messo in guardia contro lo studio della filosofia, disapprovando come una
deviazione giovanile le sue lezioni con Apollonio di Calcide. Pur se Apollonio
potrebbe aver introdotto Marco alla filosofia stoica, sarebbe stato Quinto
Giunio Rustico, il vero successore di Seneca, ad aver esercitato la maggior
influenza sul ragazzo. Marco s'ispirò anche ad Epitteto di Ierapoli, le cui
letture fu proprio Rustico a suggerire. Nascite e morti nella famiglia. Il 30
novembre 147 Faustina diede alla luce una bambina di nome Domizia Faustina
Aurelia. Era solo la prima di almeno quattordici figli (tra cui due coppie di
gemelli) che Faustina avrebbe partorito nei successivi ventitré anni.[92] Il
giorno successivo, 1º dicembre, Antonino Pio attribuì a Marco il potere
tribunizio, mentre l'imperium, cioè l'autorità sugli eserciti e sulle province
imperiali, potrebbe essergli già stato conferito. Il potere tribunizio
conferiva a Marco il diritto di proporre un provvedimento con prelazione sul
Senato e sullo stesso Antonino. Questi poteri gli furono rinnovati, insieme ad
Antonino, il 10 dicembre.La prima menzione di Domizia nelle lettere di Marco ne
rivela la salute malferma.[94] Lui e Faustina furono molto occupati nella cura
della bambina, che sarebbe morta poi. Nacquero a Faustina due gemelli,
celebrati da una moneta con cornucopie incrociate sotto i busti dei due bambini
e la scritta "felicità dei tempi" (temporum felicitas). Essi però non
sopravvissero a lungo. Tito Aurelio Antonino e T. Elio Aurelio, questi i nomi
ricavati dagli epitaffi, morirono molto presto (entro la fine del 149) e furono
sepolti nel mausoleo di Adriano. Lo stesso Marco scrisse: Uno prega: «che io
non debba perdere mio figlio!»; ma tu devi pregare: «che io non tema di
perderlo! Marco Aurelio: aureo FAUSTINA MINOR RIC III FAVSTINA AVGVSTA, busto
con drappeggio FECVNDITA-TI AVGVSTAE, la Fecunditas (fertilità) seduta, con un
bambino sulle ginocchia e altri due in piedi AV (7,37 g); 161 circa Il 7 marzo
del 150 nacque una bambina, Annia Aurelia Galeria Lucilla, cui seguì Annia
Aurelia Galeria Faustina, che sembra sia nata non più tardi del 153 (un altro
figlio, Tito Elio Antonino, viene citato dalle fonti nel 152). Una moneta celebra
la fertilità dell'Augusta (FECVNDITAS), raffigurando due bambine e un bambino
(Lucilla, Faustina e Antonino, appunto). Il maschio non sopravvisse a lungo,
considerando che sulle monete del 156 erano raffigurate solo le due femmine.
Egli potrebbe essere morto nel 152, lo stesso anno in cui mancò la sorella di
Marco, Cornificia.[92][96] Un settimo figlio nacque e morì poco dopo tra
la fine del 157 e gli inizi del 158, come risulta da una lettera di Marco,
datata 28 marzo del 158. Nel 159 e 160 Faustina diede alla luce altre due
figlie: Fadilla e Cornificia, che portavano i nomi delle defunte sorelle di
Faustina e di Marco.[99] Altri figli nacquero in seguito, oltre a Commodo e al
gemello di questi, Fulvio Antonino. Si trattava di Marco Annio Vero Cesare,
Vibia Aurelia Sabina e Adriano, che morì anche lui giovanissimo. Lucio divenne
questore all'età di ventitré anni, due anni prima dell'età legale (Marco aveva
ricoperto lo stesso incarico a soli diciassette anni).[63] Nel 154 ottenne il
consolato all'età di venticinque, sette anni prima dell'età legale. Lucio non
aveva altri titoli onorifici, tranne quello di figlio dell'Augusto. Aveva una
personalità molto diversa da Marco: amava l'attività sportiva di ogni genere,
in particolare la caccia e la lotta, e aveva evidente piacere ad assistere ai
giochi circensi e alle lotte dei gladiatori. Non si sposò fino al 164. Antonino
Pio non condivideva i suoi stessi interessi: desiderava mantenere Lucio in
famiglia, ma non era sicuro di potergli dare gloria e potere. Come si nota
dalle statue di questo periodo, Marco cominciò a portare la barba (oltre ai
tipici capelli arricciati dell'età antonina), proseguendo la moda iniziata da
Adriano,[102] seguita da Antonino e che durò a lungo, sostituendo il
tradizionale aspetto dell'uomo romano, completamente sbarbato. Nel 156 Antonino
Pio compì settanta anni. Godeva ancora di un discreto stato di salute, seppure
avesse difficoltà a stare eretto senza utilizzare dei sostegni. Il ruolo di
Marco andò via via crescendo, in particolare quando il prefetto del pretorio
Gavio Massimo, che per quasi vent'anni era risultato di fondamentale importanza
con i suoi consigli su come governare, morì tra il 156 e il 157. Il suo
successore, Gavio Tattio Massimo, sembra non avesse lo stesso peso politico
presso il princeps e poi non durò a lungo.[104] Nel 161 Marco e Lucio furono
designati consoli insieme, forse perché il padre adottivo sentiva avvicinarsi
la fine che infatti giunse nei primi mesi dello stesso anno. Secondo i racconti
della Historia Augusta l'imperatore, che si trovava nella sua tenuta di Lorium,
due giorni prima di morire aveva fatto indigestione, vomitò e fu colto da
febbre. Aggravatosi il giorno successivo, il 7 marzo 161, convocò il consiglio
imperiale (compresi i prefetti del pretorio Furio Vittorino e Sesto Cornelio
Repentino) e passò tutti i suoi poteri a Marco, ordinando che la statua d'oro
della Fortuna, che era nella camera da letto degli imperatori, fosse portata da
Marco. Diede quindi la parola d'ordine al tribuno di guardia, «equanimità», poi
si girò, come per andare a dormire, e morì. Dopo la morte di Antonino Pio,
Marco Aurelio era di fatto unico princeps dell'Impero. Il Senato gli avrebbe
presto concesso il titolo di Augusto e di imperator, oltre a quello di Pontifex
Maximus, sacerdote a capo dei culti ufficiali della religione romana. Sembra
che Marco dimostrasse, almeno inizialmente, tutta la sua riluttanza a farsi
carico del potere imperiale, poiché il suo biografo scrive che fu
"costretto dal Senato ad assumere la direzione della Res publica dopo la
morte di Pio". Egli deve aver avuto una vera e propria paura del potere
imperiale (horror imperii), considerando la sua predilezione per la vita
filosofica, ma sapeva, da stoico qual era, quello che doveva fare e come farlo.
Anche se nei Colloqui con sé stesso non sembra mostrare affetto personale per
Adriano, Marco lo rispettò molto e presumibilmente ritenne suo dovere metterne
in atto i piani di successione. E così, anche se il Senato voleva confermare
solo lui, egli rifiutò di entrare in carica senza che Lucio ricevesse gli
stessi onori: alla fine il Senato fu costretto ad accettare e insignì Lucio
Vero del titolo di Augustus. Marco divenne, nella titolatura ufficiale,
Imperatore Cesare Marco Aurelio Antonino Augusto mentre Lucio, assumendo il
nome di famiglia di Marco, Vero, e rinunciando al suo cognomen di Commodo,
divenne Imperatore Cesare Lucio Aurelio Vero Augusto. Per la prima volta Roma
veniva governata da due imperatori contemporaneamente.[109] Fin dalla sua
ascesa al principato, Marco ottenne dal Senato che Lucio Vero gli fosse
associato su un piano di parità (diarchia),[62][69] con gli stessi titoli, ad
eccezione del pontificato massimo che non si poteva condividere. La formula era
innovativa: per la prima volta alla testa dell'impero vi era una collegialità e
una parità totale tra i due principes. In teoria i due fratelli ebbero gli
stessi poteri, in realtà Marco conservò una preminenza che Vero mai contestò. Le
ragioni pratiche di questa collegialità, voluta da Adriano forse per onorare la
memoria di Lucio Elio, adottandone il figlio, e al tempo stesso lasciare
l'impero a Marco Aurelio di cui aveva capito le grandi qualità, non sono
completamente chiare. A dispetto della loro uguaglianza nominale, Marco ebbe
maggior auctoritas di Lucio Vero. Fu console una volta di più, avendo condiviso
la carica già con Antonino Pio, e fu il solo a divenire Pontifex Maximus. E
questo fu chiaro a tutti. L'imperatore più anziano deteneva un comando
superiore al fratello più giovane: Vero obbedì a Marco... come il tenente
obbedisce a un proconsole o un governatore obbedisce all'imperatore. Subito
dopo la conferma del Senato, gli imperatori procedettero alla cerimonia di
insediamento presso i Castra Praetoria, l'accampamento della guardia
pretoriana. Lucio affrontò le truppe schierate, che acclamarono la coppia di
imperatores. Poi, come ogni nuovo imperatore, da Claudio in poi, Lucio promise
alle truppe un donativo speciale, che fu il doppio di quelli passati: 20.000
sesterzi (5.000 denari) pro capite ai pretoriani, e in proporzione agli altri
militari dell'esercito. In cambio della donazione, pari a diversi anni di
stipendium, le truppe giurarono fedeltà ai due imperatori. La cerimonia non del
tutto necessaria, considerando che l'ascesa di Marco era stata pacifica e
incontrastata, costituì comunque una valida assicurazione contro possibili rivolte
da parte dei militari. In seguito a questi eventi sembra che la moneta
d'argento, il denario, cominciò un lento processo di svalutazione, che portò
sia alla riduzione del suo peso che del suo titolo (% di argento presente nella
lega), che passò dall'89% dell'epoca di Traiano al 79%. Il funerale di Antonino
fu celebrato in modo che lo spirito potesse ascendere agli dèi, come era
tradizione. Il corpo venne posto su una pira. Lucio e Marco divinizzarono il
padre adottivo attraverso un sacerdozio preposto al suo culto, con il consenso
del Senato. Secondo le sue ultime volontà, il patrimonio di Antonino non passò
direttamente a Marco, ma a Faustina, che in quel momento era incinta di tre
mesi. Durante la gravidanza sognò di dare vita a due serpenti, uno più
agguerrito rispetto all'altro. A Lanuvium nacquero infatti due gemelli: Tito
Aurelio Fulvio Antonino e Commodo, che poi sarebbe succeduto al padre come
imperatore. A parte il fatto che i gemelli erano nati lo stesso giorno di
Caligola, i presagi sembra fossero favorevoli, e gli astrologi trassero auspici
positivi per i due neonati. Le nascite furono celebrate sulla monetazione
imperiale. Statua equestre di Marco Aurelio (Equus Marci Aurelii Antonini), in
bronzo, situata al Campidoglio (copia moderna non fedele dell'originale che si
trova ai Musei capitolini) Subito dopo l'adozione, Marco promise come sposa a
Lucio la figlia undicenne, Lucilla, nonostante fosse formalmente suo zio. Alle
celebrazioni dell'evento, furono donate delle somme per i bambini poveri, come
aveva fatto in precedenza Antonino Pio quando volle commemorare la moglie
scomparsa. I sovrani divennero popolari tra la gente di Roma. Gli imperatori
concessero piena libertà di parola, come dimostra il fatto che un noto
commediografo, un certo Marullus, poté criticarli senza subire ritorsioni. In
ogni altro momento, sotto qualsiasi altro imperatore, sarebbe stato
giustiziato. Ma era un periodo di pace e di clemenza e il biografo riporta che
Nessuno rimpiangeva i modi miti di Pio. Marco Aurelio sostituì vari funzionari
dell'impero: Sesto Cecilio Crescenzio Volusiano, responsabile della
corrispondenza imperiale, con Tito Vario Clemente, un provinciale, originario
del Norico, che aveva prestato servizio militare nella guerra in Mauretania e
in seguito aveva servito come Procurator Augusti in cinque differenti province.
Costituiva l'uomo adatto per affrontare un periodo di emergenza militare. Lucio
Volusio Meciano, che era stato uno degli insegnanti di Marco Aurelio, era
governatore della prefettura d'Egitto. Marco lo nominò senatore, poi prefetto
della tesoreria (Praefectus aerarii Saturni) e poco dopo ottenne anche il
consolato. Il figlio adottivo di Frontone, Gaio Aufidio Vittorino, padre dei
futuri consoli di età severiana Gaio Aufidio Vittorino e Marco Aufidio
Frontone, venne nominato governatore della Germania superiore. Non appena la
notizia dell'ascesa imperiale dei suoi allievi lo raggiunse, Frontone lasciò la
sua casa di Cirta e il 28 marzo rientrò nella sua residenza romana. Inviò una
nota al liberto imperiale Charilas, chiedendo di potersi mettere in contatto
con gli imperatori poiché, disse in seguito, non aveva osato scrivere direttamente
agli imperatori. L'insegnante si dimostrò immensamente orgoglioso dei suoi
allievi. Egli, ripensando al discorso tenuto per l'ascesa al consolato del 143,
elogiò Marco con queste parole: C'era allora una straordinaria capacità
naturale in te, perfezionata ora in eccellenza, il grano che cresceva è ora un
raccolto maturo. Lucio era invece meno stimato dallo stesso precettore, i suoi
interessi erano di livello inferiore. Annia Lucilla, figlia di Marco e moglie
di Lucio Vero Il primo periodo di regno procedette senza intoppi, così che
Marco Aurelio poté dedicarsi alla filosofia e alla ricerca dell'affetto
popolare. Ben presto, però, nuove preoccupazioni avrebbero significato la fine
della Felicitas temporum, che il conio del 161 aveva con disinvoltura
proclamato. Nell'autunno del 161, il Tevere esondò dalle sue sponde, devastando
alcune comunità italiche e gran parte di Roma. Annegarono molti animali,
lasciando la città in preda alla carestia. «Marco e Lucio affrontarono
personalmente questi disastri» e le comunità italiche colpite dalla carestia
furono aiutate, permettendo loro di rifornirsi del grano della capitale. In
altri tempi di carestia, gli imperatori avevano tenuto le comunità italiche
fuori dai granai romani. Gli insegnamenti di Frontone continuarono nei primi
anni di regno di Marco. Frontone riteneva che, visto il ruolo ricoperto da
Marco, le lezioni fossero più importanti oggi di quanto non fossero mai state
prima. Riteneva che Marco desiderasse riacquistare l'eloquenza di una volta,
eloquenza per la quale aveva per un certo periodo di tempo perso interesse. Frontone
ricordò nuovamente al suo allievo l'antitesi tra il suo ruolo e le sue
aspirazioni filosofiche: Supponiamo, Cesare, che tu possa raggiungere la
saggezza di Cleante e Zenone, eppure, contro la tua volontà, tu non possa
comunque avere la mantella di lana del filosofo. I primi giorni di regno
di Marco furono i più felici della vita di Frontone: il suo allievo era amato
dal popolo di Roma, era un ottimo imperatore, uno studente appassionato, e,
forse più importante, eloquente come lui voleva. Marco diede prova di grande
abilità retorica nel suo discorso al Senato dopo un terremoto avvenuto a
Cizico. Aveva trasmesso il dramma del disastro, e il senato era stato
intimorito: improvvisamente la mente degli ascoltatori era più violentemente
agitata durante il discorso, che la città durante il terremoto". E
Frontone ne fu enormemente soddisfatto. Politica interna: l'amministrazione
dello stato In politica interna, Marco Aurelio si comportò, come già Augusto,
Nerva e Traiano, da princeps senatus, cioè "primo tra i senatori" e
non da monarca assoluto, rivelandosi rispettoso delle prerogative del Senato,
consentendogli di discutere e di decidere sui principali affari di Stato, come
le dichiarazioni di guerra alle popolazioni ostili o le stipule dei trattati,
come anche sulle nomine alle magistrature.[131] Avviò anche una politica
tendente a valorizzare le altre categorie sociali: ai provinciali fu reso
possibile raggiungere le più alte cariche dell'amministrazione statale. Né
ricchezza, né illustri antenati influenzarono il giudizio di Marco, ma solo il
merito personale. Egli concesse cariche a persone che riconosceva come illustri
eruditi e filosofi, senza guardare alla loro condizione di nascita. L'assetto
amministrativo introdotto da Augusto quasi centocinquant'anni prima, che fino a
quel momento aveva preservato l'Impero anche quando si erano succeduti
imperatori dissoluti come Caligola e Nerone, oppure in occasione della guerra
civile del 69, era imponente e la sua classe dirigente cominciava ad acquisire
piena consapevolezza del proprio potere. Marco istituì l'anagrafe: ogni
cittadino romano aveva l'obbligo di registrare i propri figli entro trenta
giorni dalla loro nascita; colpì l'usura, regolarizzò le vendite pubbliche e
distrusse tutti i libelli diffamatori che circolavano su molte persone.[135]
Proibì i processi pubblici prima che fossero raccolte prove certe, garantì ai
senatori l'antica immunità dalle condanne capitali, a meno che ci fossero prove
certe e una condanna ufficiale. Impiegò il denaro non in splendide
architetture, ma in opere di ricostruzione estremamente necessarie, o in
migliorie della rete stradale, da cui dipendeva la difesa dell'impero e il
progresso del commercio, o in fortezze, accampamenti e città.Egli non amava
particolarmente i giochi gladiatorii e gli spettacoli cruenti del circo, ma li
indiceva e li frequentava solo se non poteva esimersi; più tardi formò unità
militari ausiliarie di gladiatori a supporto delle legioni del nord, ma dovette
richiamarli per il malcontento del popolo che, nonostante le economie
necessarie a causa della guerra, reclamava il suo divertimento. Non riuscì a
realizzare i suoi ideali stoici di eguaglianza e libertà perché l'esigenza di
controllare le finanze locali portò alla formazione di una classe burocratica
che presto volle arrogarsi diritti e privilegi e che si costituì quale classe
chiusa. Marco Aurelio Pontefice Massimo Trascorse, inoltre, molto
tempo del suo regno a difendere le frontiere. Tra le altre leggi proibì la
tortura per i cittadini eminenti, prima e dopo la condanna, poi per tutti i
cittadini liberi, come era stato in epoca repubblicana. Restò valida per gli
schiavi, ma solo se non si trovavano altre prove. Venne comunque proibito di
vendere uno schiavo per utilizzarlo nei combattimenti contro le belve. Nei
processi da lui presieduti cercò sempre la massima giustizia ed equità per
tutti, anche quando doveva emettere una condanna secondo le leggi.[142] Marco e
Lucio stabilirono ad esempio la non punibilità di un figlio che avesse ucciso
un genitore in un momento di follia, materializzando così un primo concetto di
infermità mentale. Come molti imperatori, Marco trascorse la maggior parte del
suo tempo ad affrontare questioni di diritto come petizioni e controversie,
prendendosi molta cura nella teoria e nella pratica della legislazione.
Avvocati di professione lo definirono un «imperatore versato nella legge» e,
come sosteneva il grande Emilio Papiniano, «molto prudente e coscienziosamente
giusto». Egli mostrò uno spiccato interesse in tre aree del diritto:
l'affrancamento degli schiavi, la tutela degli orfani e dei minori, e la scelta
dei consiglieri cittadini (decuriones). Rivalutò la moneta da lui svalutata, ma
due anni dopo tornò sui suoi passi a causa della grave crisi militare che
l'impero stava affrontando a causa delle guerre marcomanniche. E mentre il
fratello Lucio era impegnato in Oriente contro i Parti, Marco era impegnato a
Roma in questioni familiari. La prozia Vibia Matidia era morta e sul suo
testamento pendeva una disputa legale, dato che il suo ingente patrimonio aveva
attratto l'attenzione di molte persone. Alcuni dei suoi clientes erano riusciti
a farsi includere nel suo testamento attraverso vari codicilli. Tuttavia, le
sue volontà non potevano essere riconosciute come valide, poiché in contrasto
con la lex Falcidia: Matidia aveva infatti assegnato più di tre quarti del suo
patrimonio non alla propria familia ma a gente estranea, fra cui un gran numero
di suoi clientes. Marco si trovò così in una posizione imbarazzante, dato che
Matidia non aveva mai confermato la validità dei documenti, anche se sul letto
di morte alcuni dei sedicenti eredi avevano colto l'opportunità per farli
convalidare. Frontone esortò Marco a portare avanti le rivendicazioni della
famiglia ma quest'ultimo, studiato attentamente il caso, preferì che fosse il
fratello a prendere la decisione finale. Benché a Roma vigessero la tortura e
la pena di morte, applicate con facilità soprattutto nei confronti di schiavi e
stranieri, la normativa di molti imperatori "illuminati" cercò di
ridurre il numero di reati punibili con pene severe, come in passato aveva già
fatto Tito. Per Marco anche gli schiavi andavano trattati come persone, seppure
subordinate, e non come oggetti, evitando quindi ogni crudeltà e rispettandone
la dignità, a differenza dei cristiani che spesso non si pronunciavano a favore
della classe servile. Alcuni critici tuttavia temevano che il movimento
filosofico-giuridico legato alla politica di affrancamento degli Antonini, se
non fosse stato profondamente ancorato al sistema economico romano, basato
principalmente sulla schiavitù, avrebbe portato all'abolizione de facto
dell'istituto servile entro un secolo, ed avrebbe comportato gravi ripercussioni
economiche. Marco mostrò un grande interessamento affinché a ogni schiavo fosse
data la possibilità di riguadagnare la propria libertà, qualora il padrone
avesse espresso la propria disponibilità a restituirgliela. Si racconta,
infatti, che in una causa di manomissione, portata alla sua attenzione
dall'amico Aufidio Vittorino, e citata in seguito dai giuristi come un
precedente decisivo, egli favorì uno schiavo. Coerente con lo stoicismo,
filosofia contraria alla schiavitù, emanò numerose norme favorevoli alla classe
servile, estendendo le leggi già promulgate dai suoi predecessori, a partire da
Traiano, e ribadendo per esempio il concetto di diritto di asilo per gli
schiavi fuggitivi (che potevano essere puniti e uccisi in ogni modo dal
padrone) garantendo loro l'immunità finché si trovassero presso qualsiasi
tempio o qualsiasi statua dell'imperatore. Sul letto di morte, Antonino Pio
aveva espresso la sua collera nei confronti di alcuni re clienti, che il Birley
interpreta fossero quelli posti lungo i confini orientali. Il cambio al vertice
dell'Impero romano sembra infatti abbia incoraggiato Vologese IV di Partia ad
aggredire, nella seconda metà del 161, il Regno d'Armenia, alleato dell'Impero
romano, nominando un re fantoccio a lui gradito, Pacoro III, un arsacide come
lui. L'Impero dei Parti, sconfitto e parzialmente sottomesso da Traiano quasi
cinquant'anni prima, era così tornato a rinnovare i suoi attacchi alle province
orientali romane dagli antichi territori dell'Impero persiano.[154][156]
Il governatore della Cappadocia, Marco Sedazio Severiano, convinto che avrebbe
potuto sconfiggere i Parti facilmente, condusse una delle sue legioni in
Armenia, ma a Elegia fu sconfitto e preferì suicidarsi, mentre l'intera legione
veniva completamente distrutta. E mentre tutto ciò accadeva in Oriente, nuove
minacce si profilavano lungo le frontiere settentrionali della Britannia e del
limes germanico-retico, dove i Catti dei monti Taunus erano penetrati negli
Agri Decumates. Sembra che Marco non fosse pronto ad affrontare simili
problematiche poiché, come ricorda il suo biografo, non aveva potuto maturare
un'adeguata esperienza militare, avendo trascorso l'intero periodo del regno di
Antonino Pio in Italia e non nelle province, al contrario dei suoi
predecessori, come Traiano o Adriano. Scena di guerra tra Romani e Parti, sul
Monumento dei Parti a Efeso, celebrativo delle vittorie di Lucio Vero e Marco
Aurelio contro Vologese IV. Poco dopo giunse la notizia che anche l'esercito
del governatore provinciale della Siria era stato sconfitto dai Parti e che si
stava ritirando disordinatamente. Era quindi necessario intervenire con grande
rapidità, anche nella scelta dei migliori ufficiali da inviare lungo quel
settore dell'Impero così strategicamente importante. Marco pose a capo della
spedizione (expeditio parthica) il fratello Lucio perché, come suggerisce
Cassio Dione, era robusto e più giovane del fratello Marco, più adatto
all'attività militare. Birley suggerisce che Marco volesse spingere Lucio ad
abbandonare la vita dissoluta che conduceva e a capire i suoi doveri. In ogni
caso, il Senato diede il suo assenso, e nell'estate del 162 Lucio partì,
lasciando Marco Aurelio a Roma, perché la città ha chiesto la presenza di un
imperatore. Era però necessario affiancare a Lucio un adeguato staff militare
(comitatus), ampio e ricco di esperienza, e che comprendesse anche uno dei due
prefetti del pretorio: il prescelto fu Tito Furio Vittorino. I rinforzi vennero
inviati da numerose province imperiali fino alla frontiera partica. Frattanto
Marco si ritirò per quattro giorni a Alsium, una nota località turistica sulle
coste dell'Etruria, ma le numerose preoccupazioni gli impedirono di rilassarsi.
Egli scrisse allora all'amico Frontone, dicendogli che avrebbe evitato di
descrivergli nei particolari quello che stava facendo a Alsium, perché sapeva
che sarebbe stato rimproverato. Frontone rispose ironicamente e lo incoraggiò a
riposare, prendendo esempio dai suoi predecessori: Antonino era stato un
appassionato di palaestra, di pesca e di teatro, Marco trascorreva invece gran
parte delle sue notti insonni a risolvere questioni giudiziarie. Dai loro
scambi epistolari sappiamo che Marco non riuscì a mettere in pratica i consigli
di Frontone poiché ho doveri che incombono su di me che difficilmente possono
essere delegati e rimandati, adducendo la sua devozione al dovere. Conclude
informandosi della salute dell'amico e salutandolo addio mio ottimo maestro,
uomo dal cuore buono. Frontone rispose qualche tempo dopo, inviando all'amico
una selezione di letture e, per rimediare al suo disagio per lo svolgimento
della guerra contro i Parti, una lunga e meditata lettera, piena di riferimenti
storici, indicata, nelle edizioni moderne sulle opere di Frontone, De bello
Parthico (Sulla guerra partica). Frontone scrive che, anche se in passato Roma
aveva subito pesanti sconfitte, alla fine i Romani avevano sempre prevalso sui
loro nemici: Sempre e ovunque Marte ha cambiato le nostre difficoltà in
successi e i nostri terrori in trionfi.[164] Il teatro delle
campagne militari orientali di Lucio Vero Intanto Lucio, partito dall'Italia e
giunto dopo un lungo viaggio in Siria, fece di Antiochia il suo "quartier
generale", trascorrendo gli inverni a Laodicea e le estati a Daphne. Durante
la guerra, nel periodo autunnale/invernale del 163 o del 164, Lucio andò a
Efeso per sposarsi con Lucilla, secondo quanto stabilito da Marco, nonostante
circolassero voci sulle sue amanti, in particolare su una certa Panthea, donna
di umili origini. Lucilla aveva circa quindici anni e venne accompagnata dalla
madre Faustina, insieme a uno zio di Lucio, Marco Vettuleno Civica Barbaro,
nominato per l'occasione comes Augusti. Marco che avrebbe voluto accompagnare
la figlia fino a Smirne, in realtà non andò oltre Brindisi. Una volta tornato a
Roma, inviò istruzioni specifiche ai governatori provinciali affinché non
preparassero alcun ricevimento ufficiale. La capitale armena Artaxata, venne
presa nel 163 e alla fine di quello stesso anno Lucio assunse il titolo di
Armeniacus, pur non avendo mai partecipato direttamente alle operazioni
militari, mentre Marco si rifiutò di accettare l'appellativo fino all'anno
successivo. Al contrario, quando Lucio venne acclamato imperator, anche Marco
accettò la sua seconda salutatio imperatoria. Le armate romane si attestarono
stabilmente in Armenia e l'ex console di origine emesana, Gaio Giulio Soemo,
venne incoronato re tributario d'Armenia, con l'assenso di Marco. Vide le
armate romane entrare vittoriose in Mesopotamia, dove posero sul trono il re
vassallo Manno. Avidio Cassio raggiunse le metropoli gemelle della Mesopotamia:
Seleucia, sulla riva destra del Tigri, e Ctesifonte su quella sinistra.
Entrambe le città vennero occupate e date alle fiamme. Cassio, nonostante la
penuria di rifornimenti e i primi effetti della peste contratta a Seleucia,
riuscì a riportare indietro e in buon ordine la sua armata vittoriosa. Lucio
venne così acclamato Parthicus Maximus, mentre insieme a Marco venne salutato nuovamente
imperator, ottenendo la sua seconda acclamazione imperiale. Ancora Avidio
Cassio invase il paese dei Medi, al di là del Tigri, permettendo a Lucio di
fregiarsi del titolo vittorioso di Medicus, mentre Marco otteneva la IV
salutatio imperatoria e il titolo di Parthicus Maximus. I Parti si ritirarono
nei loro territori, a oriente della Mesopotamia. Marco sapeva di dover
ascrivere il maggior merito della vittoria finale allo staff militare del
fratello Lucio. Tra i comandanti romani si distinse Gaio Avidio Cassio, legatus
legionis della III Gallica, una delle legioni siriane. Al ritorno dalla
campagna, a Lucio venne tributato un trionfo (12 ottobre del 166). La parata
risultò insolita perché comprendeva i due imperatori, i loro figli e le figlie
nubili, come una grande festa di famiglia. Nell'occasione Marco elevò i due
figli, Commodo di cinque anni e Marco Annio Vero di tre al rango di Cesare (il
gemello di Commodo, Fulvio Antonino, era morto l'anno precedente).[176]
Scambi commerciali con l'Oriente Magnifying glass icon mgx2.svgRelazioni
diplomatiche sino-romane. Proprio durante la guerra partica Marco potrebbe aver
favorito l'apertura di nuove vie commerciali con l'Estremo Oriente. Si ricorda,
infatti, negli annali del "Celeste impero", un'ambasceria inviata
presso l'Imperatore cinese della dinastia Han, Huandi (nel 166), nella quale i
Cinesi chiamarono l'imperatore romano col nome di Ngan-touen o Antoun. Ciò
sembra confermare che tale ambasceria (forse composta da soli mercanti), sia
giunta in Estremo Oriente proprio durante il regno di Marco Aurelio o del suo
predecessore, Antonino Pio, in quanto Antoun equivarrebbe in lingua cinese al
nome latino della famiglia imperiale degli "Anto[u]n-ini". Statua di
Marco Aurelio in uniforme militare (Museo del Louvre, Parigi). Marcomanni
e Sarmati nel 178 Il figlio adottivo di Frontone, Gaio Aufidio Vittorino, venne
inviato, dal 162 al 166, a governare la provincia della Germania superiore, ove
si trasferì con l'intera famiglia (a parte un figlio che rimase a Roma con i
nonni). La situazione lungo la frontiera settentrionale si presentava
estremamente difficile. Una postazione lungo gli Agri Decumati era stata
distrutta e sembra che molte delle popolazioni dell'Europa centrale e
settentrionale fossero in fermento. Regnava, inoltre, molta corruzione tra gli
ufficiali romani: Vittorino fu costretto, infatti, a chiedere le dimissioni di
un legatus legionis che aveva preso tangenti e numerosi governatori esperti
vennero sostituiti da amici e parenti della famiglia imperiale. Le tribù germaniche
e altri popoli nomadi avevano iniziato le prime incursioni lungo i confini
settentrionali romani, in particolare in Gallia e sul Danubio. Questo nuovo
slancio verso occidente era causato dalle pressioni che subivano a loro volta
dalle tribù germaniche più orientali e settentrionali. Una prima invasione di
Catti nella Germania superiore era stata respinta nel 162. Molto più pericolosa
fu l'invasione del 166, quando i Marcomanni della Boemia, clienti dell'impero
romano dal 19 (ma ribelli sotto Domiziano, che vi scatenò contro un'offensiva),
attraversarono il Danubio, insieme a Longobardi e altre tribù germaniche.
Contemporaneamente, i Sarmati Iazigi attaccarono i territori compresi tra il Danubio
e il fiume Tibisco. Secondo la Historia Augusta, conclusa la guerra partica,
scoppiava così quella contro i Marcomanni, una coalizione di natura militare,
composta da una decina di popolazioni germaniche e sarmatiche (dai Marcomanni
propriamente detti della Moravia, ai Quadi della Slovacchia, dalle popolazioni
vandaliche dell'area carpatica, agli Iazigi della piana del Tibisco, fino ai
Buri di stirpe suebica del Banato). Era la naturale conseguenza di una serie di
forti agitazioni interne e dei continui flussi migratori che avevano ormai
modificato gli equilibri con il vicino Impero romano. Questi popoli erano alla
ricerca di nuovi territori dove insediarsi, sia in conseguenza della forte
spinta che subivano da altre popolazioni, sia per il continuo aumento
demografico della Germania Magna. Erano, inoltre, attratti dalle ricchezze e
dalla vita agiata del mondo romano. In quel periodo la frontiera danubiana non
poteva contare su buona parte dei suoi effettivi, sia perché molte legioni
avevano dovuto destinare consistenti distaccamenti alla guerra partica, sia
perché la grave epidemia di peste aveva falcidiato numerosi reparti. Tale
epidemia avrebbe causato una catastrofe demografica prolungatasi per oltre un
ventennio e paragonabile a quella causata dalla peste nera. Nel 166/167 avvenne
il primo scontro lungo il limes pannonicus ad opera di poche bande di predoni
longobardi e osii che, grazie al sollecito intervento delle truppe di confine,
furono prontamente respinte. La pace stipulata con le limitrofe popolazioni
germaniche a nord del Danubio fu gestita direttamente dagli stessi imperatori,
Marco e Lucio, ormai diffidenti nei confronti dei barbari aggressori, recatisi
pertanto fino alla lontana fortezza legionaria di Carnunto (nel 168).[184]
Al ritorno dalla campagna partica l'esercito portò con sé una terribile pestilenza,
in seguito conosciuta come la "peste antonina" o "peste di
Galeno", che si diffuse a partire dalle fine del 165 per quasi un
ventennio, mietendo milioni di vittime e riducendo drasticamente la popolazione
dell'Impero romano. Qualche anno dopo la malattia, una pandemia che oggi si
ritiene potesse invece essere vaiolo o morbillo,[185] avrebbe finito per
reclamare la vita dei due imperatori stessi. La malattia scoppiò di nuovo, nove
anni più tardi, secondo Dione, e causò fino a 2.000 morti al giorno a Roma,
infettando fino a un quarto dell'intera popolazione. I decessi totali sono
stati stimati in cinque milioni. La colonna di Marco Aurelio o colonna
antonina, fatta costruire dal figlio Commodo Dopo che la morte colse Lucio agli
inizi del 169 (secondo la Historia Augusta in seguito ad un attacco apoplettico
che lo colpì non molto distante da Aquileia,[187] mentre autori moderni
sostengono che il decesso, forse causato dalla stessa peste, sopraggiunse
mentre era impegnato in nuove manovre militari lungo il limes danubiano),
Antonino si trova ad affrontare da solo i barbari ribelli e con decisione,
piuttosto che imporre nuove tasse ai provinciali, organizzò una vendita
all'asta nel Foro di Traiano degli oggetti preziosi appartenenti al patrimonio
imperiale, tra cui coppe d'oro e di cristallo, vasellame regale, vesti di seta,
trapunte d'oro appartenuti anche all'augusta moglie, oltre a una raccolta di
gemme trovata in un forziere di Adriano. In quell'anno Marco diede alla figlia
Lucilla, rimasta vedova di Vero, un nuovo marito, il fedele Claudio Pompeiano,
un militare esperto e affidabile, premiato in seguito con il consolato, nel
173. Marco avrebbe voluto associarlo al trono, al posto dello scomparso Lucio
Vero, conferendogli perlomeno il titolo di Cesare, ma egli rifiutò sempre la
porpora imperiale. Frattanto lungo il fronte settentrionale, i Romani subirono
un paio di pesanti sconfitte contro le popolazioni di Quadi e Marcomanni le
quali, una volta penetrate lungo la via dell'ambra e attraversate le Alpi,
devastarono Opitergium (Oderzo) e assediarono Aquileia, il cuore della Venetia,
la principale città romana del nord-est dell'Italia. Questo evento provocò
un'enorme impressione: era dai tempi di Mario che una popolazione barbara non
assediava dei centri del nord Italia.[192] Contemporaneamente la
popolazione dei Costoboci, proveniente dalla zona dei Carpazi orientali, aveva
invaso la Mesia e la Macedonia, spingendosi fino in Grecia, dove riuscì a
saccheggiare il santuario di Eleusi. Dopo una lunga lotta, Marco riuscì a
respingere gli invasori. Numerosi barbari germanici vennero allora stabiliti
nelle regioni di frontiera come la Dacia, le due Pannonie, le due Germanie e la
stessa Italia. E sebbene ciò non costituisse una novità, Marco si adoperò per
creare sulla riva sinistra del Danubio, tra l'odierna Repubblica Ceca e
l'Ungheria, due nuove province di frontiera chiamate Sarmazia e Marcomannia.
Quelli che erano stati insediati a Ravenna si ribellarono e riuscirono a
impadronirsi della città. Per questo motivo, Marco non portò mai più nessun
altro barbaro in Italia, e mise al bando quelli che qui si erano
stabili ti in precedenza. Marco fu così costretto a combattere una lunga
ed estenuante guerra contro le popolazioni barbariche del Nord, prima
respingendole e "ripulendo" i territori della Gallia Cisalpina, del
Norico e della Rezia, poi contrattaccando con una massiccia offensiva in
territorio germanico e sarmatico, in scontri prolungatisi per diversi anni. L'imperatore,
in seguito a questi conflitti, poté fregiarsi dei cognomina Germanicus (172) e
Sarmaticus (175), ma contestualmente abbandonò ufficialmente i titoli
Armeniaco, Medico e Partico, che non volle più tenere dopo la morte di Lucio
Vero, giacché andava a quest'ultimo il merito del loro conseguimento;[195]
tuttavia egli, per via dell'impegno profuso lungo il fronte pannonico, non
riuscirà più a far ritorno a Roma. Dione e gli altri biografi raccontano
anche alcuni episodi particolari della guerra, come il cosiddetto miracolo
della pioggia, rappresentato anche nella scena XVI sulla colonna di Marco
Aurelio.[196] I Romani, circondati dai Quadi in territorio nemico, si salvarono
a stento da un possibile nuovo disastro. L'evento fu utilizzato dagli apologeti
cristiani per sostenere che non sarebbero state le preghiere dell'imperatore a
ottenere la pioggia in favore dei soldati romani assetati, ma quelle di alcuni
legionari di fede cristiana.[197] Sempre nel 172-173 scoppiò una violenta
rivolta in Egitto, guidata dal sacerdote Isidoro, che arrivò a minacciare la
stessa città di Alessandria. L'intervento di Gaio Avidio Cassio e le discordie
interne ai rivoltosi portarono alla fine del conflitto entro breve
tempo[198]. Rivolta di Cassio (175) Magnifying glass icon mgx2.svgAvidio
Cassio § La ribellione. Nel 175, mentre preparava una nuova campagna contro le
popolazioni della piana del Tibisco, l'imperatore fu raggiunto dalla notizia
che il governatore della Siria, Avidio Cassio, uno dei migliori comandanti
militari romani, alla falsa notizia della sua morte, si era autoproclamato
imperatore. Secondo quanto ci tramandano sia Cassio Dione che la Historia
Augusta, Avidio Cassio accettò la porpora imperiale per volere di Faustina,
poiché la stessa credeva che Marco stesse per morire e temeva che l'impero
potesse cadere nelle mani di qualcun altro, visto che Commodo era ancora troppo
giovane. Cassio venne acclamato imperator dalla Legio III Gallica mentre la
gran parte delle province orientali, escluse Cappadocia e Bitinia, si
schieravano a fianco dei ribelli. All'inizio Marco cercò di tenere
segreta la notizia dell'usurpazione, ma quando fu costretto a renderla
pubblica, di fronte all'agitazione dei soldati si rivolse loro con un discorso
(adlocutio) rivelando di voler evitare inutili spargimenti di sangue tra
Romani. Ma dopo soli tre mesi, quando la notizia della morte di Marco si rivelò
ufficialmente falsa, il Senato romano proclamò Cassio hostis publicus, nemico
dello stato e del popolo romano e Avidio fu ucciso dai suoi stessi soldati. La
testa dell'usurpatore fu portata a Marco, come testimonianza dell'uccisione, ma
l'imperatore, che avrebbe voluto dimostrargli il suo perdono e salvarlo, non
esultò, al contrario esclamò: Mi è stata tolta un'occasione di clemenza: la
clemenza, infatti, dà soprattutto prestigio all'imperatore romano agli occhi
dei popoli. Io però risparmierò i suoi figli, il genero e la moglie, lasciando
metà del patrimonio paterno ai figli di Avidio Cassio, e donando una grande
quantità di oro, di argento e di gemme alla figlia.[200] Viaggio in
Oriente (175-176) Marco Aurelio: aureo[201] MARCUS AURELIUS RIC III 357-159422M
ANTONINVS AVG GERM SARM, testa laureata con corazza e paludamentumTR P XXX IMP
VIII COS III, la Felicitas con caduceo e scettro AV (7,33 g). Nell'ultimo
decennio di regno, mentre si trovava lungo i confini settentrionali imperiali,
Marco scrisse i Colloqui con sé stesso, tornando di rado a Roma. Insieme alla
moglie Faustina, al figlio Commodo, al seguito composto dai comites del
consilium principis e a un ingente esercito, Marco visitò le province orientali
nel 175-176.[202] Partito da Sirmio nel luglio del 175, dopo essere passato per
Bisanzio, Nicomedia, Prusias ad Hypium e per Ancyra, giunse a Tarso, sostando
in Cilicia dove, secondo Dione, molti si erano schierati dalla parte di Avidio.
Poco dopo aver passato la località di Tanya, Faustina morì in circostanze poco
chiare in un villaggio di nome Halala, sito in Cappadocia ai piedi dei Monti
Tauri. Cassio Dione riporta alcune versioni sulla morte dell'Augusta: una prima
ipotizza il suicidio, motivato dall'aver stretto accordi per la successione con
Avidio Cassio; una seconda chiama in causa la gotta; una terza vedrebbe
Faustina morire di parto dopo un'ennesima gravidanza all'età di quarantacinque
anni. Dopo la morte venne divinizzata ufficialmente con degne cerimonie a Roma,
per volere del Senato. L'Augusta, che aveva spesso accompagnato il marito in
guerra, era stata la prima delle imperatrici romane a essere insignita del
titolo di mater castrorum.[204] Halala, il villaggio dove era morta, venne
rinominato "Faustinopolis". In suo onore furono istituiti collegi di
sacerdotesse e create le puellae Faustinianae, in ricordo dell'istituzione
benefica sorta in memoria della madre, la moglie di Antonino Pio, istituzione
che si occupava di fanciulle orfane della penisola italica.[204] Le fonti
antiche, in contrasto coi Ricordi di Marco Aurelio, spesso accusarono Faustina
di dissolutezza e di aver ripetutamente tradito il marito, con marinai e
gladiatori, tanto che da una di queste relazioni sarebbe nato Commodo, secondo
una diceria riportata dal biografo della Historia Augusta. Dopo questa ennesima
disgrazia famigliare, il princeps ripartì per la Siria, forse fermandosi a
visitare la città di Antiochia (che si era schierata con Cassio), perdonandone
i suoi abitanti, e qui potrebbe avervi svernato, incontrando alcuni personaggi locali
come il patriarca Giuda I. Riprese, quindi, il suo viaggio per giungere
nell'estate nel 176 in Egitto, dove ricevette una delegazione dei Parti. Nel viaggio
di ritorno dall'Oriente, dopo essersi imbarcato per l'Asia Minore, passò per
Efeso, poi Smirne (dove incontrò Elio Aristide) e, da ultimo, Atene, dove il
filosofo cinico Zenone aveva fondato la scuola stoica, sotto il famoso portico
dipinto, dichiarandosi "protettore della filosofia". Istituì quattro
cattedre permanenti di studio, finanziandole, una per ogni principale scuola
filosofica: platonici, aristotelici, epicurei e stoici.[209] In Grecia prese
parte anche ai riti dei misteri eleusini.Durante il tragitto lungo l'Asia
Minore e la tappa a Atene si rivolsero a Marco Aurelio e a Commodo anche alcuni
padri apologisti cristiani. Decise di associare al trono imperiale il figlio
Commodo, l'unico maschio superstite tra i suoi figli (dopo la morte del giovane
Marco Vero Cesare e quella di alcuni nipoti), nominandolo Augusto e
concedendogli la tribunicia potestas e l'imperium, benché avesse nei confronti
del figlio alcune perplessità. Marco celebrò, quindi, il matrimonio di Commodo
con Bruzia Crispina. A Roma, si dedicò ad amministrare la giustizia, cercando
di riparare a torti e abusi del passato; dispose la celebrazione di giochi
circensi, mettendo però un limite di spesa a quelli gladiatorii. Marco, che
aveva battuto le popolazioni germaniche e sarmatiche a nord del medio corso del
Danubio, ottenne per decreto del Senato romano il trionfo insieme al figlio
Commodo, da poco nominato Augusto. In suo onore venne eretta una statua
equestre, tuttora custodita nel Palazzo dei Conservatori. Offensiva finale in Marcomannia
e Sarmatia (177-180) L'impero romano alla fine del regno di Marco
Aurelio, nel 180 L'apparente tregua sottoscritta con le popolazioni germaniche,
in particolare Marcomanni, Quadi e Iazigi, durò però solo un paio d'anni, fino
al 177. Il 3 agosto del 178 Marco fu infatti costretto a marciare ancora una
volta verso la frontiera danubiana, a seguito di una nuova sollevazione dei
Marcomanni. Non sarebbe mai più tornato a Roma. Egli fece della fortezza
legionaria di Brigetio il suo nuovo quartier generale e da qui condusse
l'ultima campagna nella primavera successiva del 179, che aveva come obiettivo
quello di occupare stabilmente parte della Germania Magna (Marcomannia) e della
Sarmatia.[219] Si racconta infatti che: «I Quadi essendo poco disposti a
sopportare la presenza di forti romani costruiti nel loro territorio tentarono
di migrare tutti insieme verso le terre dei Semnoni. Ma Marco Aurelio Antonino
che ebbe queste informazioni in anticipo della loro intenzione di partire per
altri territori, decise di chiudere loro tutte le vie di fuga, impedendo la
loro partenza.» (Cassio Dione, 72, 20.2.) Dopo una vittoria decisiva nel
178, il piano per annettere la Moravia e la Slovacchia occidentale
(Marcomannia), per porre fine una volta per tutte alle incursioni germaniche,
sembrava avviato al successo, ma venne abbandonato dopo che Marco Aurelio si
ammalò gravemente nel 180, forse anch'egli colpito dalla peste che affliggeva
l'impero da anni. La sua salute, da sempre fragile e in costante declino,
sembra lo costringesse a fare uso anche di oppio per alleviare il dolore
persistente che lo affliggeva da anni allo stomaco, rimedio prescritto dallo
stesso Galeno. Eugène Delacroix, Ultime parole dell'imperatore Marco Aurelio,
una rappresentazione moderna della morte di Marco: l'imperatore, al centro,
siede a letto, circondato da amici e dignitari, e stringe il braccio di Commodo
(a destra), vestito di rosso, sbarbato e abbigliato in maniera
orientaleggiante, con orecchini e una corona, e che appare distante e poco
interessato. «Uomo, sei stato cittadino in questa grande città: che ti importa
se per cinque anni o per cento? Quel che è secondo le leggi ha per ognuno pari
valore. Che c'è di grave allora se dalla città ti espelle non un tiranno o un
giudice ingiusto, ma la natura che ti ci aveva introdotto? (...) A stabilire
che il dramma è completo infatti è chi allora fu responsabile della
composizione, ora del dissolvimento; tu invece non sei responsabile né dell'una
né dell'altro. Quindi parti sereno: chi ti congeda è sereno.» (Marco
Aurelio, 12.36.) Marco Aurelio muore nella città-accampamento di Vindobona
(Vienna).[19] Secondo invece quanto riferisce Tertulliano, uno storico e
apologeta cristiano suo contemporaneo, sarebbe invece deceduto sul fronte
sarmatico, non molto distante da Sirmio (odierna Sremska Mitrovica, nell'attuale
Serbia),[20] che fungeva da quartier generale invernale delle sue truppe, in
vista dell'ultimo assalto. Il Birley ritiene infatti che Marco potrebbe essere
morto a Bononia sul Danubio (che per assonanza ricorda la località di
Vindobona), venti miglia a nord di Sirmio. Iniziando a stare male, chiamò
Commodo al capezzale e gli chiese per prima cosa di concludere onorevolmente la
guerra, affinché non sembrasse che lui avesse "tradito" la Res
publica. Il figlio promise che se ne sarebbe fatto carico, ma che gli interessava
prima di tutto la salute del padre. Chiese pertanto di poter aspettare pochi
giorni prima di partire. Marco, sentendo che i suoi giorni erano alla fine e il
dovere compiuto, accettò da stoico una morte onorevole, astenendosi dal
mangiare e bere, e aggravando così la malattia per permettergli di morire il
più rapidamente possibile. Il sesto giorno, chiamati gli amici e deridendo le
cose umane disse loro: perché piangete per me e non pensate piuttosto alla
pestilenza e alla morte comune? Se vi allontanerete da me, vi dico,
precedendovi, statemi bene. Mentre anche i soldati si disperavano per lui, alla
domanda su a chi affidasse il figlio, rispose ai subordinati: a voi, se ne sarà
degno, e agli dèi immortali. Nel settimo giorno si aggravò e ammise brevemente
solo il figlio alla sua presenza, ma quasi subito lo mandò via, per non
contagiarlo. Uscito Commodo, coprì il capo come se volesse dormire, come il
padre Antonino Pio, e quella notte morì.[224] Cassio Dione aggiunge che la
morte avvenne "non a causa della malattia per cui stava ancora soffrendo,
ma a causa dei medici che, come ho chiaramente sentito, volevano favorire
l'ascesa di Commodo", anche se secondo il Birley, "è inutile avanzare
ipotesi". Officiato il funerale, venne cremato, e fu immediatamente
divinizzato, mentre le sue ceneri furono portate a Roma e deposte nel mausoleo
di Adriano, che divenne così il sepolcro di famiglia da Adriano a Commodo e,
forse, anche per alcuni imperatori successivi, finché il sacco visigoto della
città lo danneggiò gravemente. Le sue campagne vittoriose contro Germani e
Sarmati furono commemorate con la costruzione della Colonna Aureliana e di un
tempio. Marco Aurelio aveva stabilito che a succedergli fosse il figlio
Commodo, che già aveva nominato Cesare nel 166 e poi Augusto (co-imperatore). Questa
decisione, che mise di fatto fine alla serie dei cosiddetti "imperatori
adottivi", venne fortemente criticata dagli storici successivi, poiché
Commodo non solo era estraneo alla politica e all'ambiente militare, ma fu
inoltre descritto, già in giovane età, come estremamente egoista e con gravi
problemi psichici, appassionato in maniera eccessiva di giochi gladiatorii (a
cui lui stesso prendeva parte), passione ereditata dalla madre. Marco
Aurelio riteneva, a torto, che il figlio avrebbe abbandonato quel genere di
vita così poco adatto a un princeps, assumendosi le necessarie responsabilità
nel governare un Impero come quello romano, ma così non fu. A conclusione del
principato di Marco Aurelio, Cassio Dione scrisse un elogio all'imperatore, pur
descrivendo il passaggio a Commodo con dolore e rammarico. Marco non ebbe la
fortuna che meritava, perché non era fisicamente forte e poiché dovette affrontare,
per la durata del suo regno, numerose difficoltà. Proprio per questo motivo lo
ammiro maggiormente, in quanto egli, in mezzo a difficoltà insolite e
straordinarie, non solo sopravvisse ma salvò l'impero. Solo una cosa lo rese
infelice, il fatto che, dopo aver dato l'educazione migliore possibile al
figlio, questi deluse le sue aspettative. Questa materia deve essere il nostro
prossimo argomento, dato che da quel periodo dei Romani deriva oggi la nostra
storia, decaduta da un regno d'oro a uno di ferro e ruggine.» (Cassio
Dione, 72, 36.3-4.) Carattere e pensiero filosofico Magnifying glass icon
mgx2.svgColloqui con sé stesso, Pensiero di Marco Aurelio e Letteratura greca
alto imperiale. Statua equestre di Marco Aurelio (Roma, Musei capitolini)
Marco Aurelio fu l'ultimo grande esponente dello Stoicismo. Marco scrisse i
Colloqui con sé stesso, come esercizio per il proprio orientamento e
auto-miglioramento. Il titolo è stata un'aggiunta postuma, originariamente
Marco intitolò l'opera “A se stesso”, ma non si sa se avesse intenzione di
renderla pubblica. Il saggio è considerato uno dei capolavori filosofici di
tutti i tempi. Sii come il promontorio contro cui si infrangono incessantemente
i flutti: resta immobile e intorno ad esso si placa il ribollire delle acque.
«Me sventurato, mi è capitato questo». Niente affatto! Semmai: «Me fortunato,
perché anche se mi è capitato questo resisto senza provar dolore, senza farmi
spezzare dal presente e senza temere il futuro». Infatti una cosa simile
sarebbe potuta accadere a tutti, ma non tutti avrebbero saputo resistere senza
cedere al dolore. Allora perché vedere in quello una sfortuna anziché in questo
una fortuna?» (Marco Aurelio, 4.49.) Politica religiosa e atteggiamento
nei confronti dei cristiani Magnifying glass icon mgx2.svgPersecuzione dei
cristiani sotto Marco Aurelio. Sebbene Marco abbia da sempre seguito la linea
indulgente degli imperatori Adriano e Antonino Pio, che continuò nei confronti
dei culti ammessi, è elencato tra gli imperatori persecutori dei cristiani.
Molti disordini si verificarono sotto il regno di Marco Aurelio, segnato da
epidemie, carestie e invasioni e più volte le folle diedero la caccia ai
cristiani, ritenuti responsabili di tutto (per aver causato la collera degli
dèi, avendoli negati), e i martiri furono numerosi. Marco Aurelio,
personalmente, non mostrò esplicito disprezzo per i cristiani, né li considerò
un vero pericolo, ma piuttosto dei fanatici.[229][230] Monetazione
imperiale del periodo Magnifying glass icon mgx2.svgMonetazione degli Antonini.
Il prototipo di statua equestre è senza alcun dubbio la statua equestre di
Marco Aurelio. In precedenza l’opera bronzea si trovava nella piazza del
Campidoglio a Roma, prima di essere sostituita da una copia e trasferita
nell’adiacente Palazzo dei Conservatori. Historia Augusta, Cassio Dione,
Aurelio Vittore, De Caesaribus, 16. Tertulliano, 25. Grant
1996,27. Testo per esteso dell'epigrafe:
Imperator Caesar Marcus Aurelius Antoninus Augustus. Il luogo della morte è incerto tra Sirmio o
Vindobona: Tertulliano, 25: (LA) «[...] cum M. Aurelio apud Sirmium rei
publicae exempto die sexto decimo Kalendarum Aprilium [...]» «essendo
stato Marco Aurelio strappato allo Stato a Sirmio il 17 marzo.» Aurelio
Vittore, De Caesaribus, 16.14: (LA) «Ita anno imperii octavo decimoque aevi
validior Vendobonae interiit, maximo gemitu mortalium omnium» «Il
diciottesimo anno del suo governo, tra grandi lamenti, il più forte e più
grande di tutti gli uomini morì a Vindobona» Riportato invece così in
Aurelio Vittore, Epitome de Caesaribus, 16.12 (compendio, più tardo, della
stessa opera di Vittore, attribuita a lui stesso, ma con molta incertezza):
(LA) «Ipse vitae anno quinquagesimo nono apud Bendobonam morbo consumptus
est» «Egli stesso, nel cinquantanovesimo anno della sua vita, venne
consumato da una malattia a Vindobona.»
Historia Augusta, Marcus Aurelius, 1.9; McLynn 2009,24. Cassio
Dione, 69, 21.1. Asse della zecca di
Roma antica (del 151-152), RIC, III, 1308a (Antoninus Pius); BMCRE,1917; Cohen,
Cassio Dione, 72, 11.3-5. Machiavelli
1531, I.10. Gibbon 1776-1789, capitolo
I: Estensione e forza militare dell'Impero nel secolo degli Antonini; in
particolare I.78, in cui l'autore descrive il buon governo degli imperatori
adottivi; inoltre,273 nota 4 del testo disponibile su Google libri, in cui usa
l'espressione "good emperors". Cassio Dione, 72, 14.3-4. Il
libro completo, che parla dell'epidemia avvenuta sotto Marco Aurelio, è andato
perduto; questa nuova epidemia fu la più grave che lo storico avesse mai visto,
a quanto narra nella "vita di Marco Aurelio". Historia Augusta, Marcus Aurelius, 12.13,
17.1-2 e 22.1-8. Renan 1937. Tra questi vi furono: Marco Aurelio Probo
(CIL XI, 1178), Marco Aurelio Mario (imperatore nelle Gallie), Marco Aurelio
Caro e Marco Aurelio Carino (CIL VIII, 10956), oltre a due imperatori suoi
omonimi, Caracalla (AE 1911, 56) ed Eliogabalo (il cui nome imperiale ufficiale
era "Marco Aurelio Antonino"; CIL VI, 40677 e AE 1990, 469) e che
furono i primi, pur non appartenendo alla dinastia antonina, ad usare il suo
nome. Questi ultimi due, in particolare, come già il padre di Caracalla,
Settimio Severo, che aveva riabilitato la memoria di Commodo, divinizzandolo e
rimuovendo la damnatio memoriae imposta dal Senato, e dato al figlio il nome di
Marco Aurelio, cercavano un collegamento diretto con gli Antonini al fine di
nobilitare le loro origini africane e asiatiche, quindi provinciali. Inoltre,
una delle mogli di Eliogabalo era una nipote di Marco Aurelio stesso, Annia
Faustina. Il nome Marco Aurelio divenne, quindi, un nome di famiglia dei Severi
e, come «Cesare», «Augusto» e, più tardi, «Flavio», venne utilizzato come
prenome imperiale da molti altri. Birley 1990,317-318. Birley 1990,269 ss. Birley 1990,316. Birley 1990,313-319. CIL II, Birley 1990,31. Historia Augusta, Marcus Aurelius, Birley
1990,32-34. McLynn 2009,14. Birley
1990,34. Historia Augusta, Marcus Aurelius, 1.5. Historia Augusta, Marcus Aurelius, 1. Poiché suo fratello Marco Annio Libone è
stato console nel 128 e difficilmente potrebbe essere stato pretore più tardi
del 126, Annio Vero deve essere stato a sua volta pretore prima di questa data,
verosimilmente, appunto, nel 124. Birley
1990,34-35; Marco Aurelio, 1.2 Birley
1990,36-37; Tacito, Dialogus de oratoribus, 28-29; Marco Aurelio, 5.4. Marco Aurelio, 1.3. Birley 1990,40; Marco Aurelio, 1.17.7. Birley 1990,35; Historia Augusta, Marcus
Aurelius, 2.1; Marco Aurelio, 1.14.
Birley 1990,39; Marco Aurelio, 1.1.
Marco Aurelio, 1.17; Birley 1990,39.
Marco Aurelio, 1.4. Marco Aurelio,
1.6. Norelli,75 Marco Aurelio, 1.6;
Birley 1990,43. Marco Aurelio, 1.10 e
1.12; Birley 1990,46. Birley
1990,51-52. Guido Clemente 2008,629-630. Birley 1990,55 ss. Guido Clemente
2008,630. Birley 1990,69. Birley 1987,38-42. Birley, Cassio Dione, 69, 22.4; Historia
Augusta, Hadrianus, 25.5-6 Cassio Dione,
69, 22.1-4; Historia Augusta, Hadrianus, 24.8-13. Birley 1990,63-66; Grant 1996,12. Birley 1990,63. Mazzarino
1973,328. Marco Aurelio, 6.30:
"Bada di non cesarizzarti, di non impregnarti con la porpora: succede
infatti". Historia Augusta, Marcus
Aurelius, 6.5; Birley 1990,67-68. Marco
Aurelio, 1.16. Marco Aurelio,
5.16. Birley 1990,68. Marco
Aurelio, 8.9. Historia Augusta, Marcus
Aurelius, 2.4 e 3.6. Birley 1990,108. Frontone, Ad Marcum Caesarem 4.8 (trad. da
Haines 1.184 ss.). Cassio Dione, 71,
36.3. Grant 1996,24. Birley 1990,110-111. Marco Aurelio, 1.11. Historia Augusta, Marcus Aurelius, 2.4;
Cameron 1967,347. Aulo Gellio, 9, 2.1–7
e 19.12; Birley 1990,76-78. Birley
1990,65-67; molti critici moderni hanno avuto dubbi per l'ammirazione dei
contemporanei. Filologi di fama espressero numerose critiche: Barthold Georg
Niebuhr, lo descrisse "frivolo", Samuel Adrian Naber lo trovò
"disprezzabile" (Champlin 1980, capp. 1-2); altri lo hanno definito
"pedante e noioso", scrivendo che le sue lettere non offrono né
l'analisi politica di un Cicerone né l'introspezione di un Plinio (Mellor 1982
commentando Champlin 1980); una ricerca prosopografica degli anni '80 ha
riabilitato, almeno in parte, la sua reputazione, cfr. ad esempio, sempre
Mellor 1982 su Champlin 1980. Birley
1990,88 ss. Birley 1990,78. Birley 1990,113. Birley 1990,114 ss. Birley 1990,83 ss.; Marco Aurelio, 1.8. Marco ricorda Epitteto come una guida
spirituale, facendo spesso riferimento alle sue Diatribe e al Manuale come ad
esempio in Marco Aurelio, 11.34, dove lo cita e ne commenta alcune
massime. Birley 1990,336-339.
Birley 1990,126 ss. Champlin
1980,174 n. 12. Frontone, Ad Marcum Caesarem
4.11 (trad. da Haines 1.202 ss.). Birley 1990,130-132. Marco Aurelio, 9.40. RIC, III 682
(Aurelius); MIR, 18, 13-2a; Calicó, 2055 (moneta illustrata); BMCRE,399 note. Inscriptiones Graecae ad Res Romanas
pertinentes, 4.1399, tradotta da Birley 1990,140. Birley 1990,205 e 339. Historia Augusta, Lucius Verus, 2.9-11 e
3.4-7; Birley 1990,132-133. Forse in
omaggio ai filosofi greci o a causa di una cicatrice (cfr. Melani, Fontanella e
Cecconi,58). Bianchi Bandinelli e
Torelli 1976, scheda 131 (ritratti di Adriano).
Birley 1990,137-138. Birley 1990,140. Cassio Dione, 71, 33.4-5. Historia Augusta, Antoninus Pius, 12.4-8. Birley 1990,142; Historia Augusta, Pertinax,
13.1 e 15.8 Birley 1990,142-143.
Historia Augusta, Lucius Verus, 4.2.
Historia Augusta, Marcus Aurelius, 15-16. Historia Augusta, Lucius Verus, 3.8; Birley
2000,156 Historia Augusta, Marcus
Aurelius, 7.9. Savio 2001,331. Historia Augusta, Marcus Aurelius, 7.10-11;
Historia Augusta, Antoninus Pius, 12.8; Birley 1990,144-145. Historia Augusta, Marcus Aurelius, 19.1-2;
Birley 1990,145. Historia Augusta,
Commodus, 1.2. Birley 1990,145-147.
Birley cita Mattingly 1940, Marcus Aurelius and Lucius Verus, nos. 155
ss.; 949 ss. Cassio Dione, 71.1, 3;
73.4.4–5. Historia Augusta, Marcus
Aurelius, 8.1. Birley 1990,150.
Historia Augusta, Marcus Aurelius, 8.8; Birley 1990,151 cita Eck 1995,65
ss. Vittorino minore fu console assieme
al nipote di Marco Aurelio, Tiberio Claudio Severo Proculo nel 200 (AE 1996,
1163 e CIL III, 8237). Birley cita Frontone, Ad Verum Imperator 1.3.2 (trad.
da Haines 1.298 ss.). Frontone, Ad
Antoninum Imperator 4.2.3 (trad. da Haines 1.302 ss.). Birley 1990,148
ss. Historia Augusta, Marcus Aurelius,
8.4-5. Birley 1987,278. Birley
1990,158 ss. Historia Augusta, Marcus
Aurelius, 8-10 e 12. Historia Augusta, Marcus Aurelius, 10. Pulleyblank 1999. Historia Augusta, Marcus Aurelius, 9.
Historia Augusta, Marcus Aurelius, 11.
La grandiosa colonna di Marco Aurelio di fronte a Palazzo Chigi (alta 42
m) fu eretta per ricordare proprio le vittorie sul fronte germanico-sarmatico
del Danubio. La colonna era sormontata da una statua dell'Imperatore, dove ora
è posta quella di san Paolo, così come accadde per la colonna di Traiano, dove
venne posizionata una statua di san Pietro in sostituzione di quella
dell'Optimus princeps), in Coarelli 2008,42-43.
Historia Augusta, Marcus Aurelius, 17 e 23. Renan, Eusebio, 5.1.77. Codice Giustinianeo, Digesto, 1, 18, 13. Codice Giustinianeo, Digesto, XVIII,
1,42. Historia Augusta, Marcus Aurelius,
24.1-3. Codice Giustinianeo, Digesto,
XLVIII, 9, 9, 2. Codice Giustinianeo,
Digesto, XXXI, 67.10: «Item Marcus imperator […] et ideo princeps providentissimus
et iuris religiosissimus cum fideicommissi verba cessare animadverteret, eum
sermonem pro fideicommisso rescripsit accipiendum». Birley 1990,165 ss.; Millar 1993,6 e ss. Vedi
anche Millar 1967,9-19 Frontone, Ad
Antoninum Imperator 2.1-2 (trad. da Haines 2.94); Birley 1990,164; Champlin
1980,134. Historia Augusta, 24.1-3. Svetonio, Titus, 8 e 9. Casadei e Mattarelli 2009,107-108. Bloch 1947.
Renan 1937,336-337. Birley
1990,170-172. Historia Augusta,
Antoninus Pius, 12.7; Birley 1990,148. Birley 1990,149. Mazzarino 1973,335 ss. Frontone, De Feriis Alsiensibus 4 (trad. da
Haines 2.19); Frontone, De bello Parthico 1-2 (trad. da Haines 2.21-23); e 10
(trad. da Haines 2.31); Guido Clemente 2008,633. Luciano di Samosata, Alessandro, 27. Cassio Dione, 71, 2.1; Luciano di Samosata,
21; 24-25 Cassio Dione, 71, 2.1. Historia Augusta, Marcus Aurelius, 8.9. Birley 1990,151-154. Birley 1990,154-155. Champlin 1980,134; Frontone, De Feriis
Alsiensibus 4 (trad. da Haines 2.19); Birley 1990,156-157. Frontone, De bello Parthico 10 (trad. da
Haines 2.31); Birley 2000,150-164; Birley 1990,157. Historia Augusta, Lucius Verus, 9; Historia Augusta,
Marcus Aurelius, 9.4; Birley 1990,159.
Historia Augusta, Marcus Aurelius, 9.4-6; Historia Augusta, Lucius
Verus, 7.7; Birley 1990,162. Birley 2000,163. Historia Augusta, Marcus Aurelius, 9.1;
Historia Augusta, Lucius Verus, 7.1-2; Frontone, Ad Verum Imperator 2.3 (trad.
da Haines 2.133); Birley 1990,159; Mattingly 1940, Marcus Aurelius and Lucius
Verus, 233 e ss.. Birley 2000,162.
Farrokh 2007,165; RIC, III, Antoninus Pius to Commodus, n. 511-513255 e
n. 1370-1375322. Birley 1990,163. Mattingly 1940, Marcus Aurelius and Lucius
Verus, nos. 261ff.; 300 ff. Birley 1990,174. ILS 1098; Birley 1990,179-180; Mattingly
1940, Marcus Aurelius and Lucius Verus,401 ss.. Birley 2000,164. Birley 1990,183. Birley 1990,180; Pulleyblank 1999; Mazzarino
1973,338 ss.. Frontone, De nepote amisso
2 (trad. da Haines 2.222); Frontone, Ad Verum Imperator 2.9-10 (trad. da Haines
2.232 ss.) Birley 1990,164-165.
Lucio Dasumio Tullio Tusco, un lontano parente di Adriano, fu inviato in
Pannonia superiore, per sostituire l'esperto Marco Nonio Macrino. La Pannonia
inferiore venne affidata al poco conosciuto Tiberio Aterio Saturnino. M.
Servilio Fabiano Massimo venne trasferito dalla Mesia inferiore a quella
Superiore quando Iallio Basso si era recato ad Antiochia di Siria da Lucio
Vero. La Mesia inferiore venne allora affidata al figlio, Marco Ponzio Leliano.
La Dacia venne divisa in tre distretti, governati da un senatore pretoriano e
da due procuratori. La pace non poteva durare a lungo, la Pannonia inferiore
disponeva di una sola legione, ad Aquinco. Cfr. Alföldy 1977, Moesia
Inferior,232 ss.; Moesia Superior,234 ss.; Pannonia Superior,236 ss.; Dacia,
245 ss.; Pannonia Inferior,251. Birley
1990,189. Southern 2001,203-206. Ruffolo 2004,84. Birley 1990,
194-197. Stathakopoulos 2004,95. Birley 1990,186-187. Historia Augusta, Marcus Aurelius, 14.8;
Historia Augusta, Lucius Verus, 9.11.
Historia Augusta, Marcus Aurelius, 17.4.
Cassio Dione, 72-2, 3; 73-4,5 e 20,1; 74-3, 1,2. Birley 1990,207; Alföldy 1977, Moesia
Inferior,232 ss.; Moesia Superior,234 ss.; Pannonia Superior,236 ss.; Dacia,245
ss.; Pannonia Inferior,251. Questa
invasione avvenne secondo Birley 1990,184-186, 194-196 e 207-208 ed altri studiosi
moderni (Brizzi e Sigurani 2010,393-394 e 398) nel 170. Birley 1990,208-213. Guido Clemente 2008,635. Kneissl 1969,206-207. Infatti i cognomina
Armeniaco, Medico e Partico sono assenti nella documentazione di carattere
ufficiale posteriori al 172, come ad esempio i diplomi militari: nello
specifico si veda, ad esempio, AE 1990, 1023 o AE 1987, 843 (entrambi del 179). Historia Augusta, Marcus Aurelius, 24.4. Tertulliano, 5, 6. Michael Grant, The Antonines. The Roman
Empire in Transition, Routledge, 1994,50.
Birley 1990,230-231. Cassio
Dione, 72, 27-29; Historia Augusta, Marcus Aurelius, 26.10-12. RIC, Marcus Aurelius, 357 corr. (no P P);
MIR,18, 322-2/35; Calicó, 2017; BMCRE,674. Astarita 1983,155-162. Birley 1990,239-240. Historia Augusta,
Marcus Aurelius, 26.3-9. Historia
Augusta, Marcus Aurelius, 19.1-8 e 26.3-9.
Ammiano, Historia Augusta, Marcus Aurelius, Cassio Dione, 71, 1.1. Birley 1990,243-244. IG II2 3620
Historia Augusta, Marcus Aurelius, 27.1.
Historia Augusta, Commodus, 12.4.
Historia Augusta, Marcus Aurelius, 27.5.
Historia Augusta, Marcus Aurelius, 27.11-12. Historia Augusta, Marcus Aurelius, 27.8;
Cassio Dione, 71.31.1 Historia Augusta,
Marcus Aurelius, 27.6. Historia Augusta,
Commodus, 12.5; Historia Augusta, Marcus Aurelius, Historia Augusta, Commodus,
12.6. Birley 1990,259-261. Guido Clemente 2008,636. Cassio Dione, 72, 36; Grimal 2004,228. Birley 1990,264. citato in Antonio de Guevara, Vita, gesti,
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Istituto centrale per i beni sonori ed audiovisivi.Rachana Kamtekar, Marcus
Aurelius, in Edward N. Zalta, Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for
the Study of Language and Information, Stanford. Predecessore: Antonino
Pio161–180 (con Lucio Vero, dal 177 con Commodo)Commodo Predecessore Console
romanoSuccessoreConsul et lictores.png Gaio Bruttio Presente Lucio Fulvio
Rustico II140 Marco Peduceo Stloga PriscinoI con Imperatore Cesare Tito Elio
Adriano Antonino Augusto Pio IIcon Imperatore Cesare Tito Elio Adriano Antonino
Augusto Pio IIIcon Tito Enio SeveroTito Statilio Massimo145 Gneo Claudio Severo
Arabiano II con Lucio Edio Rufo Lolliano Avitocon Imperatore Cesare Tito Elio
Adriano Antonino Augusto Pio IVcon Sesto Erucio Claro II Appio Annio Atilio
Bradua161Quinto Giunio Rustico IIIII con Tito Clodio Vibio Varocon Lucio Elio
Aurelio Commodo IIcon Lucio Tizio Plauzio AquilinoMarco Aurelio Campagne
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marzoNati a Roma Morti a Sirmio Aforisti romani Dinastia antoniniana Consoli
imperiali romani Stoici Annii Auguri Sepolti a Castel Sant'Angelo Marco Aurelio
Persone legate ai Misteri eleusini. Italian philosopherone of the most
important onesVide his letters to his tutor Frontino -- Marcus Aurelius, Roman
emperor (from 161) and philosopher. Author of twelve books of Meditations
(Greek title, To Himself), Marcus Aurelius is principally interesting in the
history of Stoic philosophy (of which he was a diligent student) for his
ethical self-portrait. Except for the first book, detailing his gratitude to
his family, friends, and teachers, the aphorisms are arranged in no order; many
were written in camp during military campaigns. They reflect both the Old Stoa
and the more eclectic views of Posidonius, with whom he holds that involvement
in public affairs is a moral duty. Marcus, in accord with Stoicism, considers
immortality doubtful; happiness lies in patient acceptance of the will of the
panentheistic Stoic God, the material soul of a material universe. Anger, like
all emotions, is forbidden the Stoic emperor: he exhorts himself to compassion
for the weak and evil among his subjects. “Do not be turned into ‘Caesar,’ or
dyed by the purple: for that happens”. “It is the privilege of a human being to
love even those who stumble”. Sayings like these, rather than technical
arguments, give the book its place in literary history. Ab avo meo Vero didici
placidis esse moribus et iram abstinens. Ex estimatione parentis mei cius recordatione
ad verecundiam et VIRO dignos mores usus sum. Matre in studio pietatis erga
deos isberalitate gimitatus. Præterea in abstinendo anno perpetrandis modo sed
et cogitandis flagitiis. Tum in frugalitate victus, ab opulentia comitante luxu
remotissima. A pro-avo id habui ut ne in publicos ludos comcarem sed bonis præceptoribus
domimex uterer, intellige regnullis hac in re parcendum sumptib. Ab educatore,
ne auriga Praginus, aut Venetus, neuc palmularius aut scutarius fierem. Ab
eodem tolerare labores, esse contentus parvo, operari, non immiscere mc multis
negociis, haud facile calumniam admittere, didici. A Diogneto, tudium in res inanes
non conferre, fidem abrogare iisque de incantationibus, de monug
pfligationib. acid genusalii reb pitigiatores et impostores referent. Nec animi
causa coturnices alere, aut fi milium rerum studio et cupiditate teneri. Ite
libere dicta ferre æquo animo, PHILOSOPHIAE ME ADDICERE, audire primo Bacchiu, deinde
Tandasidem ac Marcianum, scriber dialogos puerili etate grabatu, pellem, aliağ ad
greca disciplinam pertinentia, usurpare. RUSTICI monitu in ea deveni
cogitatione, mores meos correctione ac cultu opus habere. Non esse imitandos sophistas,
non esse instituendas de contemplationibus scriptiones ne que oratiunculas
adhortatorias declamandum neq speciem VIRI exercitiis dediti, ac laboriosi
ostentandam. Ad hæc rhetorica, poetica ed atrologia abstinendum, domincuesticu,
negaliis huius modi rebutendum. Epistolas scribendas simpliciter, quomodo
ipsius ad matrem meam est epistola Sinueſſam missa. In super placabilitatem este
et in alloquio facilitatem exhibendam iis qui stomachu nobis moverint, aut aliquid
deliquerít, simulatqii redire adofficium volint. Diligenter etiam legendum, nec
omnino considerationem accuratam satis putandum, ne æceleriter adsentiendum
loquacite LOQUACITER CONVERSANTIBUS. Commentarios Epicteti legendos, quorum et
e domo sua mihi copiam fecit. Apollonius medocuit ut libertatem secta rer,
certamg constantiam, negalio un quam, ne minimum quidem, quam ad rectam
rationem respicerem ac semper mei similis essem in gravibus doloribus a
missione prolis, morbis diuturnis. Uc quem in vivo exemplo evidenter
contemplarer, posse eundem et durissimum esse et remissum quam maxime. Tum
etiam ut in percipienda doctrina menon morosum præberem sed circumspicerem de
homine qui palam experientiam et in tradendis scientijs facultatem mia nimum
suorum bonorum putaret. Præterea modum beneficia utiis videntur ab amicis
accipiendi ne vel accepta ea nos viliores redderent vel stupidem ne gligerenturato
permitterent. In Sexto de præhemdi comitatem et exemplum domo ad arbitrium
patris familias institute, vivem di secundum naturam, gravitatem nion simulatam,
ing consulendo amicorum commodis sagacitatem, facilitatem erga privatos, mores
omnibus accomodatos. Quo fiebat, ut eius consuetudo omni adulatione suavior
ipseos codem tempore in summa apud cos quibus cum agebat veneratione esset.
Porro autem expedicam viam acrationem inveniendi et disponendi præcepta ad usum
vitæ necessaria. item quod nequc iræ neo alius cuius animi commotio nis ullum
indicium dabat, sed simul et quam maxime affectibus vacuus et humanissimi erat
ingenii. In codem honc stam famam finciactatione. Multa rumorerum scientiam
citra ostentationem. Alexandrum Grammaticum obseruabam ab increpationibus sibi
tempera re, neque ignominiose castigare si quis barbarum, lolocum, aut absonum
quippiam protulisset sed civiliter id modo o dicendum fuerat, pronunciare.
Perinde ac si respondens vel suam sententiam interponeret, aut rationem re ipsa
non verbo cum altero conferret. Aut omni no alia quadam solerti et occulta correctione
idem efficiebat. A FRONTONE didici ut scirem quæ consequeretur tyranidem
invidia quæ varietas simulatione. Et quod omnino qui nobis patria icidicunt in
humaniores quodammodo fint reliquis. Ab Alexando Platonico, ne crebro neve nil
necessitate coactus cuiquam dicerem scriberemúeme esse occupatum ne ve
identidem impendetia negocia prætendendo debita familiaribus officia
detrectare, A CATULO, ne parvi facerem li quid amicus conquereretur, etiam et
nulla id ab eo fieretratione. Sed anniterer eum in pristinam gratiam rcducere. Item
ut summa animi contentione præceptorum laudem prædicarem. Uti de Domitio et Athenodoto
traditum est. Ut yliberos vere diligere. A fratre meo SEVERO amore familiarić
et ucritatis iustitiæ. Per eundem cognovi Thrasea, Helvidium, CATONEM, Dionem,
BRUTUM. Idem mihi autor fuit ut animo conciperem formam reipublicam in qua
æquis legibus codemý iure omnia administrarent, ac regni, cui nihil cf afet
libertate subditorum antiquius. Eun dem observans curis esse vacuum, constantiam
in honore PHILOSOPHIAE habendo, beneficentiam et liberalitatem perpetuam servare,
bene sperare ac de amicorum in amore certo libipolliceri, aq bus animo elſet
factus alieno idiis non occultum ferre. Nec amicis eius opus esse ut de ipsius
voluntate coniectura facerent sed eam apertam elle. Maximus adhortatus me est,
ut suo exemplo me ipsum regerem, neq ulla in re præcipitarem, animo bono cùm
aliis in calibus, tum in morbis essem. Ut moribus ut erer temperatis, blandis,
ac gravibus ut quæ instituissem expedite necma gnacum molestia perficere.
Dicebat libi verba facienti aut a genti quic quam nemine non fidem habuisse ex
animi ipsum sententia loqui vel agree. Nullius rei admiratione se obstupuisse
nunquam aut seſsi nasse, aut cunctatum fuisse, nec trepidasse neq mæstitiæ, neo
gaudii nimium fuisse, neqz iracundum neq suspiciosum sed beneficum, placabilem,
veracm, magis có Itantia erroris secura o erratorum correc ioné præ se tulille.
Neminem fuisse, afe 1 abipfo conteptum, aut ipso pstantiorem putaret.
Liberaliter quoß facetum fuisse. Patris notavi humanitatem et inijs quæ semel
essent accuratem deliberata, pmansionem vanægloriæ et eorumque putant, ne que
sunt tim honoru contemptu, tudium laborum, assiduitatem. Libenter audiebat cos,
qaliqd reip. utile poterant adducere. In tribuendo unicuip dignitate suu firmiter
pſeuerabat, pitusubi intendendum et ſet, ubi remittedum. AMORES ADOESCENTU
lorum coercebat, utilitati publicæ, oes cogitationes intendebat. Amicis sec uncce
nan dı, autiter faciendi necessitate remittebat etque necessitate aliqua
impediti cum non conitati fuerant, cunde fempirfum inveniebant.In consiliis
accurateqd conducere possetīqrebat, ac conftanter, nec ob uiis quibusg
cogitationik. contento fine consultandi faciebat.Amicitiam conservabat, neq vel
satietaté amicorum capiebat, ne ad eosparandos furore aliquo ferebat. In
oib.reb. ola sua i se repogta habebat, læto vultu. Longe futura puidebat. Arq
et minima antem pparabat, idý citra tumultum. Acclamationes, oems adulationem
compescebat. Quæ ad magistratum erant necessaria, semper custodiebat, sumptus
procura bat, ncq detrectabat dcijsreb, causam dicere. Deos citra superstitionem
cole þat, homines ne demerebatur, ncquc auram popularem captabat. In omnib, his
sobrius, costans, nusquam ineptus, aut novitatis studiosus. Has porrò res, quæ ad
vitę commoditatem aliquid conducunt, quas fortuna suppeditat, liberaliter,
fimulý sincfastu tractabat, ita ut & liadeffent, haud solicite iis
uteretur, nec defidcraret, li deeflent.Nemo fuit, quieum aut sophistam, aut
vernam, aut hominem de schola esse diceret. Sed VIRUM MATURUM, absolutum,
adulatione superiorem, qui et seipsum regere, et ali ospoflet, Iam PHILOSOPHIAM
VERAM profitentes in honore habens, reliquis nihil exprobravit. Cæterum in consuctudi
ne familiari commodus gratiosuso extra fastidium erat. Corpus suum moderate curabat,
non ut qui vitæ CUPIDUS, aut cuiforme elegantia curæ esset, non tamen interim
negligenter. Itag suæ diligentiæ causa paucissimis medicorum pharmacis et fomentis
opus habuit. Id in co praeclarissimum fuit, quod facultate alicuius rei
præditis concedebat abso invidia, utoratoriæ, historiæ, legum, consuetudinum,
aliorum gid genus. Quin etiam ut gloriam iis rebusquibus excellebant,
adipiscerentur, operam suam ipsis navabat. Eccum ageret omnia secundum
instituta maiorum, ne hoc ipsum quidem studebat consequi, ut videretur a
maioribus accepta obserualle. Ad hæc non erat vagus aut levis sed locise et
negociis iisdem soleba timmorari. Post intentissimos capitis dolores, recens at
que alaçer ad consueta opera redibat. Praeterea pauca ad modum habebat arcana
et hæc quoq tantum derebus publicis. Prudens porroerat, moderatus cum in
spectaculis exhibendis, tumin operum extructionibus congiariis et aliis huius modi
negotiis. Guippe vir ed ex usu foret potius, quam quem gloria fa &tum sequeretur,
reputans. Non utebatur alieno tempore balneis, non erat ædificandi CUPIDUS, non
de ciborum, non vestium texturæ aut infacturæ, non formæ corporis elegantia
anxius. Comitatus ei e prædio qui eum ab inferiori casa deduceret. Inter
Lanuvinos plerum Tusculano publicano utebatur, etiam deprecante. Omnino in eius
moribus nihil in erat in humanum, nihil in verecundum, nihil procax, ne quod
dicitur ad sudorem usque. Sed omnia ita apta
et concinna ut li per otium cogitata fuissent, compositem, placidem,
firmiter et sibi in vicem convenienter. Ac commodari posset ei id quod de Socrate
memoratur, quod et abstinere potuerit,et frui reb.istis, quibus et carere ple
rio per infirmitatem & in fruendo continere se nequeunt: at temperare fibi
ab utroque uitio pofle et sobrium permanere, id VERO VIRI eft animo integroinui
conspræditi: quod ille in morbo maximi præstitit.A diis bonos avos, bonos
parentes, bonam sororem, bonos praeceptores, familiares, necessarios, amicos
bonos accepi feren omnia bona: tum g in nullum eorum quicquam deliqui, quam
quam ita affectus, ut, si occasio incidisset, utiq aliquid tale admisissem verum
beneficio deorum evenit, neresita caderent, ut hoc in me depræhenderetur. Id
quoque iis acceptum refero, quod non diutius apud concubinam avisum educatus,
quodad PUBERTATEM CASTUS perveni, neque ante eam VIR sum factus sed tempus
expectavi. Quod principi et patri subditus fui, qui erat omnem mihi superbiam
excussurus, oftenfurúsque pofle eum qui in aula vivat et ftipatoribus carere
& vestibus pictis et facibus, ftatuisý certi generis, reliquo ğluxu: Sed licercei
proximum privato homini habitum ſumere: imò verò eum splendorem eos, qui
principes rempub.gerere velint, demissio, res segnioresg efficere. Itemque eum
fratrem sum nactus, qui moribus fuis me ad curam mei ipsius habendam posset
excitate, honore autemet amore in me suo
delectare. Quod hberi mi hi neque indole, neque corpore pravinati sunt.
Quodmagnos in rhetorica, poetica, reliquisg studijs progressus non feci, qme
fortassis planem detinuissét, si me feliciter pficeresenlitlem. Quod mature cos
a quibus sum enu tritus in dignitate constitui, quod mihi videbantur cupere,
quodg id iuvenib. Adhuc praestiti, neo diu cas future spela cavi. Quod
Apollonium, RUSTICUM, Maximum cognovi. Quod perspicueat ą sæpe numero naturalem
vitam cum ani momeo reputavi, qualisnam ea esset: nimirum quodad deos attineret
& co rum munera, cogitationcsoninde conceptas, nihil iam obstarc, quin aut
secundum naturam viverem, aut non. Atque boc quidem fore mca culpa, qui deûm
monitus,actantùm non præcepta non obferuaffem. Quòd in cali uita mcum corpus
tandiu durauit.Quòdncquecú Benedicta,nc cumThcodoto rem ha bui, fed &
pofteàamore cócitus, rcctæ rationi parui. QuòdRuſtico fæpiusin dignatus,nihil
prætercà admiferim, cu ius mepæniterepotuiſſet. Quòd ma ter, cum esset adhuciu
venis moritura, reliquos tamen vitæ suæ annos mocum exegit. Quod quotiescung
pauperi ali cui, aut alias indigenti opitulari statuissem, nunquam audivi,
pecuniam mihi non esse, unde id facere et quod mininum quam usu ucnit, ut
alterius ope indigerem. Quod uxorem ita obsequentem, mei AMANTEM ac limplicem habui.
Quod alumni quibus liberos meos credere idonei non defuere. Quod in somnis cum alia
mihi remedia funtdata tum contra sanguinis ex creationem ac contra vertiginem, hocg
Caietę. Sicut Chrękę cuğanimü ad PHILOSOPHIA
adiunxič ſem, nó incidi in sophistam aliquem aut scriptore vel a SYLLOGISMOS dissoluere
doceret aut meteora traderet. Olahực deorum auxilio, forcuna indigent. Hec in
Quadis ad Granuam. Solobatis sibi prædicere, erit ut incidam in curiosum,
ingratum, contumeliosum dolosum, invidum,
DISSOCIABILEM. Omnia hęcijs euenc runt ignoratione bonorum et malorum. Ego
vero, quinaturam boni perspectam habeo, quòdhoncstum fit, & mali, quod
turpc, ipfamg eius qui peccat natura, quod mihi lit cognata non quia ciul dem
carnis efs aut feminis sed mentis et divinem particulæ particeps a nullo cocum
lædi pollum. Nequccnimiamo V turpitudinem aliquam quisquam con ijciec. Ei porrò
quod mihi cognatum est, negira scipossum, neque insensus esse: ute nim unus
alterum iuvaret in suo opere, eo nati sumus, ut manus, ut pedes, ut palpebræ,
ut superiorum inferiorum o dentium ordines. quare contra natura est, ut in
vicem nobis repugnemus: atqui succensere at a versari se invicem, idquidem est
repugnare. Quidquid ego sum, idomne constat caruncula, animula et mente.
Proinde missos fac libros, neß stude, non enim licet. Quin tu, ut mox vitam cum
morte commutaturus,cor pussperne, quod est tabus, ossicula et reticulí
muliebris instar plexus nervorum, venarum arteriarum. Animaquog considera,
qualis ea sit. SPIRITUS nimirum, ne que is idem semper, sed qui in horasali us
efflatur, alius ſorbetur. Restat tertia pars, principatum obtinens. Proindelic
tecum reputa. Senex es? Ne patere hanc principem partem ulcerius feruire, necß
alieno impetu raptari, neq fatú uel præ sensi niquem fer, vel im pedes
subterfuge. Res decorum plenæ sunt prudentiæ. Fortuitæ aut non carent natura,
complexude corum quæ a prudentia administratur. Inde omnia fluunt:necessitas
etiam accedit, et totius universi cuius tu pars es utilitas. Porrò autem quòd
natura univerſi fert, quod quem ad eam facit conservandam, id bonum est unicui
vis univerli particulæ. Conseruant autem mundum, quemadmodum elementorum, ita
& exipsis concretarum rerum mutations.Hec sufficiant tibi, ac sem per
præceptorum locum habcant. Librorum vero Gitim proijce, ne murmurans moriare
sed vere placatus, at ex animo gratiam diis agens. A Emento quandiu hactenus ea
diftuleris, ac quoties prorogato tibi à diis tempore, co non ususlis. Certe
aliqua do te animadvertere oportet, cuius mundi pars sis et a quo mundi gubernatore
de fluxcris. Tum finem præscripti tibi temporis futurum. Quodquidem tempus G
ocio sus intra parietes consumpseris, elabet, nequeredibit unquam tibi
defuncto. Singulis horis animo in id incumbe ut fortiter, quemadmodum ROMANO ET
VIRO CONVENIT id quod præ manibus est, per agas, accurata & non fi &ta
gravitate, humanitate, liberalitate, iustictia g adhi bitis.Interea animum tuum
ab omnib aliis cogitationib. abduc: quodita fict, si unum quodlibet negotium,
eorum quæ in vita tua exequenda cibi fintpo stremum elfe iudicans, ita
conficias, ut ne quid vanitatis, affectuum a conglio avertentium, simulationis,
AMORE SUI, aut earum rerum quæ fato quodam ei negotio adiunctæ sunt improbationis
admittat. Cernis, quam pauca Gint ea, quorum có pos vitam felicem ac diuinæ
similem ui uerc homo potest? nam ea qui adferuarit, ab eo dijnihilultrà
exigunt. Ignominia te ipsum affice anime, contemnete ipsum inquam ut enim
honore te ipsum afficias, non tibi præterea tempus suppetet. Vita enim unicuiqueid
præbet. Quæ tibi propemodum iam exacta eſt. Nonigitur te ipsum venerare sed
felicitatem tuam aliorum in animis reposita habe. Non patere ab ijs quæ
extrinfecus accidunt, te circúagi,ſed otium tibipa raut boni aliquid
addiſcas,ac uagari de fine.Eft & alter declinandus error: nó. nulli enim
actibus uitæ ſuæ'confecti de lirant,quòdfcopum nullum habent,ad qué omnes ſuos
conatus & cogitatio nes dirigant. Haud temere quisquam repertus est infelix
ea de causa quod non inquireret quid aliorum animis accideret. Qui ucrò luiiplius
animi motib. non obsequitur, necessario miser est. Horum semper oportet
recordari, quæ sit uniuerli natura, quæ mea, quomodóque hæc ad illam lit affecta,
qualis pars ca cuius totius Git: adhæc neminem esse qui obstet, quo minus semper
ea, quæ naturæ cuius tu pars es Gintconfentanca et agas et dicas. THEOPHRASTUS
in comparatione peccatorum, ubi ostendit communiorem ea inter se conferendi
rationem, PHILOSOPHICE, inquit, ea quæ per cupiditatem conmittuntur peccata,
graviora esse iis quem periram. Et enim iratus videtur cum dolore quodam et
occulte correptus animo a recta ratio ne divertere. Qui vero per cupiditatem
peccat, victus a voluptate, intemperantior altero censetur, magilý EFFEMINATUS.
Recte igitur et ut PHILOSOPHO diagnum erat. In maiori esse culpa pronunciavit
cui voluptas, quam cui dolor peccandi fuisset causa: ac omnino hic ante læsus,
& propter doloré iratus, ille sponte sua ad delinquendum cupiditatis
explendæ causa fertur. Omnia tibi ita et agenda sunt et dicenda et cogitanda,
ut Giam nunc vitam in exitu esse arbitreris. Cæterum e vivis discedere, si
quidem dii sunt, nihil habet incommode. Neque enim ii te aliquo malo sunt
affecturi. Sin autem, vuel non sunt dii, uc!res humanas non curant, quid atti
nebatui vere in mundo deum, ac prouidenti z uacuo? Enim vero et sunt dii et
rerum humanarum curam gerunt et ut ne homo in ea, quæ re vera sunt mala, incideret,
id quidem in eius potestate posuerunt. In reliquis rebusliquid mali inesset,
utique & hinc ei prospexissent, ne omni noin malum incideret. Quod uerò
hominem deteriorem non efficit, quonam id modo uitam eius poflet
redderepeiorem? Et quidem um niuerli natura nunquam neg perigno rationem,ncg
fciens quidem, non ua lens autem cauere autemědare illa, tan tum errorem
admiſerit,neque imbecil licatis,nequeinſcitiæ caula, ut bona & mala bonis
malisque hominibus promiscuem et ex æquo accidant. Atqui mors et uita, honor et
ignominia, dolor et voluptas, opes et paupertas, omnibus hæc uniuersa eadem
ratione hominibus cum bonis tum malis contingunt, ſuntg neque honesta, neque
turpia: ergo neque bona quidem, neque mala. Quam celeriter omnia aboletur, in
müdo quidem corpora, in quo autem etiam corum memoria. Omnia quæ sub sensum
cadut, ac præsertim ea, quæ vel voluptate alliciu ut, vel dolore terrent, vel
faste suo clara sunt, quam vilia sunt ca omnia et contemptione digna, quam
sordida, obnoxia interitui et mortua? Intelligentiæ est, indagare quidnam
sintii, quorum opiniones et voces gloria. Quidnam estmors? Certe si quis ea per
se intueatur, cogitatio neg omnia ab ea separet, quæ ciinesse videntur, isi am
nihil aliud existimabic esse mortem, quam opus naturæ. At vero PUER EST, qui
nature aliquod opus formidat. Et quidem mors non opus solum est naturæ sed et
prodest ei. Qoónam modo Deus hominem attingis et qua hominis parte?preterea
quomodo affe citur eo tactu pars illa? Nihil miserius cít eo, qui omnia
circulando scrutatur, et quod aiunt ea etiam quæ ſunt infra terram rimatur, coniecturağ
ea quæ in aliorum animis eueniant inquirit, neg ſentit ſufficere,utſuu quiſq
quiin ipſo ineſt genium obferuet, eumlegitimè colat.Colitur autem, fi quis
ſeiplum ab animi perturbationib.à vanitate,ab in dignatione eorum caufa quæ à
diis aut hominibus aguntur concepta,uacuum conseruet. Quæ enim dijagút,
virtutis causa honorem quæ ab hominibus, cognationis nomine AMOREM merentur:
nonnunquam etiam miserationem, ratione ignorationis eorum quæ bona aut mala
ſunt. qui sane defectus non uilior eſt eo, quo ne inter album et nigrum discernere
poſsimus, impediunt. Quodf tria annorum millia tibi vivenda forent, insuperg
triginta alia, tamen recordandum tibi est, neminem aliam ab ea quam vivit uitam
deponere, negaliam dep nere quam eam quam vivit. Itagidem est longissimum
spatium cum eo quod est brevissimum. nam quod praesens eſt, id omnibus idem est,
quanquã id quod perijt, non fitidem, atqid quodamitti temporis punctum eſſe apparet. Ete nimncß
præteritum aliquis,neß futu rum quicquã amittere poteft:qui enim id ei
adimatur, quod ne habet quidem. Duo itag hæc memoria sunt tenenda, unum, omnia
ab æterno eſſe ciufdé for mæ, atq circulo reuolui,nequedifferre quicquam,
eadémne cétum aliquis, aut ducentis annis, an uerò infinito videat tempore.
Alterum, quodis qui diutif sime uixit, & is qui celerrimem moritur, tantundem
amittunt: eo enim tantum priuantur, quod præsens est, quando id etiam solùm
habent: quod autem non habet, neid ne deperditur quidem, Universa elle ſita in
opinione. Quod patet ex his quæ cum Monimo Cynico sunt disputata. Perſpicua
autem eft c ius quod dictum eſt utilitas, fi quis ea tenus eius fuauitatem
admittat, quate nus ueritati congruit. Anima hominis contumelia se ipsam multis
modis afficit. Primo, quum quantum in se ipsa Gitum eſt,abſceſſus quidam, &
qua fulcus mundi fit. Abscedit autem à natura, quando ea quæ fiunt, iniquo fere
animo: cuius quidem naturæ una in par e reliquæ singulorum naturæ omnes
continentur. Deinde, quum hominem aliquem auerlatur, aut lædendi causa
adversatur: hoc est iratorum. Tertiò, quum uoluptati aut dolori ſuccum bit.
Quartò, quum fimulat, fidéquc aliquid autfacit aut loquitur. Quin to, quum
fiquam actionem aut cona. tum ad nullum certum scopum diri git,fed fruftrà
quicquam,nulláque con fequentia agit: quum oporteat etiam minima quæg ad certum
finem referri. Finis autem animantiratis eprædi to propoftus eft utrationem
atque Le gem ciuitatis uetuſtiſsimæ fequatur. Humanæ quidem uitæ tempus,momë
tum eft, natura fluxa,fenſus obſcurus: totius corporis temperamétum putrc
fcitfacilè,animauaga eſt, fortuna quæ fit, difficile eſt colligere, famaincerta
eſt. Atque ut ſummam rei dicam, o mnia quæ ad corpus pertinent, fluuij naturam
habent, quæ ad animā,inſom nij & fumi:uita bellum eſt, & peregri natio,
fama poſt mortem,obliuio eft. b4 Quid
ergo eſt quòd tutò hominem por fit deducere? PHILOSOPHIA. Ea verò in hoc consiſtit,
ut genium quiin te est, incontaminatum conferues, atqz illesum, la voluptatibus
et doloribus superiore: ut nihil fruſtrà, nihilfictè aut falſò agas: nihil
cures, agátne quicquam alius, aut omittat.Præterea, ut ea quæ accidūt, fa tóue
eueniunt, ita accipias, tanquã inde miſſa,unde tu quoqueneris.Poftremò,
utplacıdo morté animoexpectes,quip penihil aliud,quàm diffolutionem ele métorum
eorum,ex quibus unūquod libet animal concretum eſt. Iam Gipfis elementis nihil
mali euenit continenti bus iſtis mutationibus, quibus ipfain ter ſe alia identidem
in alia uertuntur, quænam causa est, cur de mutatione universi corporis, dissolutionéque
fini ſtrum quicquam suspicari debeamus? Cum ea fecúdum naturam fiat. nihil vero
malum est, quodnatura cuenit. Hæc Carnunti disputata. qonhoc tantum est
considerandum, singulis diebus vitam cossumi, parcég eius ſubinde
minorérelinqui: fed & hoc cogitandum,getſiquis diutius lit uictu
rus,incertum tamen eſt,lítne fuppedita tura eadem intelligentia ad cognoſcen
das res et contemplationem cuiusfiniseft peritia rerü diuinarű at humanarum,
Etenim & delirare ceperithomo,fpira bit quidé nihilominus, nutrietur, imagi
nabitur, appetet, reliquasgid genus facultates retinebit: ca vero vis, qua se i
plo uti queat, rationes officii subduce re accuratas, quæ animo pręcepitin or
dinem collocare, de coipſo an iam tem pus fit uitam relinquendi delibcrare, ac
fi quæ alia sunt, ad quæ obcunda ratione probè exercitata opuseft, ea inquã uis
iam antem extincta est. Feftinandum eſti gitur,nonidcò ſolú, quòd fubinde moc b
s ti propiores fimus, fed &quia
rerum in telligentia nos ante exitum uitæ deſti tuit.Id quoß observandum, ca
quę appendicis quafi loco adhæréthis quæ na tura fiunt,haberenonnihil gratiæ
& o blectationis.Viquum panis pinlitur,ui demusquaſdam particulaseius
rumpi: quod ipſum etli quodãmodo accidit præter inſtitutú piſtoriæ artis, habet
ta mennónihil decoris,appetitumg cibi ſuo quodammodo excitat. Ficus quog quú
maximè maturæſunt, fati scut, itém Oliuis maturissimis quiddam putredi
niproximum,pulcritudinem peculiaré addunt. Iam ſpicas deorſum le flecten tes,
leonis ſupercilium, fpumam apro rú ex ore effluentem,multa eiuſmodi alia fiquis
ſeorſim confideret,intelliget ca ctGlongèabſuntà pulchritudine,tas men quia
rebus naturalibus inhærent, & eas conſequuntur,co &ornatum his adferre,
& delectare. Quam obrem qui attentiùs ea quæin rerum natura fi untmente
contemplatus fuerit, nihil pon eleganter eſſe factum putabit, e tiam corum quæ
appendicis loco res naturales conſequuntur. Itaque ue ros belluarum rictus haud
minori cum uoluptate afpiciet, quàm quos picto res & figuli effingunt:
uetulæ etiam & ſenis maturam ætatem, puerorúmque amori aptum florem caſtis
oculis in tuebitur: multaque alia cernet, non a. pud omnes fidem inuenientia
sed apud eos folùm, qui naturam, ciúſque opera rectè intelligit. HIPPOCRATES
quummultos sanasset morbo, ipſemor bo deceffit. Chaldæi multis finem vitæ
prædixerunt: post ipsos etiam fatum arripuit, Alexander, Pompeius, & C. Cesar,
quum totas urbes toties deleuiſ ſent, commiſſó queprælio multa cqui. tum
peditúmque millia cecidissent, i pli quoque tandem uita exceſſerunt. HERACLETUS,
multa de natura rerum et incendio finem univerfo allaturo quum disputasset, ipse
intercutc aqua distentus, ftercore bubulo oblitus mortem obijt. DEMOCRITUM
pediculi, SOCRATES CICUTA absumplit. Quorſum hæc? Ingressus es vitam,
navigasti, uc et us cs: discede. Quod fi abcundum esti n aliam vitam, equidem
neibi quido erit quicquam dijs uacuum:lin omnissensus adiinet, non iam præterea
dolores ac uoluptates ferēdæ, nec ferviendum vaſi tantò deteriori. Quinimo quod
servit, id supererit, nimirum mens et genius: cum uas illud terra fit, &
tabus.Proinde reli quum uitæ tépusne abſume de alijs co gitando, nifi ad commune
aliquod co modum id referatur: alioquin enim in terim ab alio negotio
detineberis.Nam cogitare,quid hic uelille agat, quamob rem, quid loquatur, quid
cogitet, quid moliatur automnino de alijs effe folici tum, id uerò efficitur
euagemur,neque obferuemus eam quæ principatú in no bis obtinet partem.Itaq;in
ſerie cogita tionú declinanda eſt uanitas, omniúş maximè curiofitas, &
malitia.Adſuefa cere teipfum debes, ut de his tantùm re bus cogites, de quibus
fi quis te fubitò interroget quid nunc mediteris, confe ftim liberè pofsis
refpondere, hocaut boc:nimirum ut ftatim conſtet,cogita tiones tuas eſſe
ſimplices,placidas,con fentaneas animali fociato alijs, ac negligenti earum quæ
ad uoluptatéoble & ationemúefaciant cogitationum,ua cuo contentionis,
inuidiæ, fufpitionis, aliorúmue, quæ ſi te animoagitaffefaf fus eſſes,pudore
ſuffundi oportuiſſet. Virad hunc modum compoſitus, non eft cur diutiusexpectet
nomen eius, qui in optimorum Gii numero. Est enim fa cerdos quasi et administer
deum, uti turg eo, quod in ipso tamquam sacrario est positum. Id autem hominem
præstat purum a voluptatibus, inviolatum à do Ioribus, intactum A LIBIDINE
inſciumo mnis malitiem, certatorem maximi certaminis (ne scilicet ullus cum
affectus de ijciat altem tinctum iustitia, ex animo contentum ijs quæ eveniunt,
fató vedesti nata ipsi sunt, non sæpe, ncg niſi magna & publica necessitate
urgente, de alio rum dictis, factis, aut cogitationibus meditantem. Solis enim
iis quæ in ipso sunt ad agendum intentuseſt, ac quæ à fato universi ipsi sunt
deſtinata, continenter conſiderat. Nam illa cenſet honeſta & pulcra: quæ
uerò fibi obtigerunt, cabo Dacſſe perſuaſum habet: quippe uniufs cuius factű
& constat aliunde, & fecü aliud adfert.Meminit etiam oia ratione
prædica eſſe interſe cognata, eſſeſ,ho minis naturæ cóueniens, ut omniūho minú
curā gerat: exiſtimationem auté non ab omnibus hominibus petédam, sed ijs
tantùm, qui naturæ conuenienter vivunt. Qui uerò aliter uiuunt, hi quales ſe
domi & extra ædes,noctu at que interdiu gerant,ac quibus fc homi nibus
admiſccant, perpetuò memoria tenet: ab his igitur laudariſe nihil cu rat, quum
ij ne fibi quidem ipfis pro. bentur. Ne inuitus accedas ad agen dum, neque
cotus humaniimmemor, neque non bene cogitata re, neque pa tere te retrahi:nein
cogitationibustuis aftutiam ſecteris,nequeuerbolusfis,ne que multa negocia
ſuſcipias. Enimue ro Deus qui in te ineſt, præfit'tibi,ma ſculo animanti, ſeni,
ciui,Romano, ac principi, qui ſeita comparauerit, ut ad abitum inſtructus
expecter quando re ceptui ex hac uita canat. Neiuramen toindigeas, néue hominis
alicuius teſti monio, Hilari eſto uultu, ac qui exter " A nominiſterio
poſsit carere., eám quam alij ſuppeditent quietc. Rectú elle expe dit te, nó
quilapſus ſe erigat. Si quid in uita humanainuenis potius iuſtitia,uc ritate,
temperantia, fortitudine,autfi quid aliud melius eſt, quàm animum tuum eſſe
ſeipſo contentum, quatenus præſtat ut fecundum rectam rationem agas: ſi, inquam,
in fato, & ijs quæ abfo tuo delectu tibi ſunt deſtinata inucnis aliquid his
quæ dixi præſtabilius, caut fruaris toto animo incumbe.Sin co qui in te eft
collocatus genio nihil præftan tius inuenis, qui & appetitus fibijpfi
fubiecit, & uifa examinat, &à perſua fionibus ſenſuum ut dicebat
Socrates scipsum abduxit, féque Dco ſubmißt et pro hominibus procurat: fi hoc
inferiora omnia, & uiliora de prehendis, nulli alteri rei locum con cede,
nefemel ad eam inclinans, poft hac proprium illum tuum bonum præ ferre omnibus
rebus nequeas. Nes fas enim eft ullam aliam diuera generis rem bono
rationcprædito, & effe &tri ci opponi: ut laudem popularem, principatum,
divitias, voluptatum perceptionem: hæc omnia,quel parùm te iis accómodare uiſum
fuerit,confeftim præualent et à recta uia abducunt. Tu uerò, inquam,
fimpliciter ac liberè id quod eſt meliuselige,eiginhære:me lius autem eſt id
quod conducit. At hocipſú fi ea ratione fitutile, quatenus métem habes, serva: lin
quatenus es ani mal,repudia, & iudicium integrum reti ne. Id modo cura, ne
quid, p tuo como do amplectaris, quòd pofsit aliquando tecompelleread fallendum
fidem,pro dendam uerecundiam, odium alicuius, fufpitiones, imprecandum,
ſimulandú, appetendúmue aliquid, quod parietes & uelamenta degideret.
Etenim quimé tiacgenio fuo, & facris uirtutis eius pri mas defert, is
tragediam nullam exci tat,nongemet,nó ſolitudinis,nófrequé tiæ hominum
indigebit: plerung uiuet nekappetés quicquā, neqfugiens.diú ne aparuo téporis
{patio incluſa cor pori animautatur, nihil omnino cura bit:nam etli continuo
migrandum fit,i. ta facile diffoluétur ut fi ad aliam quan dam functionem
uerecundè ac decen ter obeundam ſe conferat. Id unum fi per uniuerſam uitam
obſerues,ut cogi caciones tuæ ſíper lint de ijs rebus quæ ad ſocietatem ciuilem
nato animali, ei que rationis compoti cóueniant, nihil unquam in
animodeprauatú, nihil puc rulentum, nihil contaminatú,nihilſug. gillatú
invenies Ncą uerò fatum uitá imperfectam adhuc abrūpit, quemadmo dum dici
poſſet de tragãdo fabula no. dum peracta diſccdéte.)præterea nihil feruile,
nihilfucatum,nihil alligatum, nihil abſciſſum, nihil obnoxium,nihil occulcum.
Venerare facultatem cogita trice: in co.n.ſuntoía, ut pars cui prin cipatum
obtinés nihil unquam animo concipiat quod fit naturæ inconueni ens, aut conſtitutionianimalis
ratione præditi.Illiusautem conſtitutionis eſt munus,ut à temeritate alieni,
coétui hu mano adiuncti, dijsý obſequentes li mus. Proinde omnibus proie &
is, hæc modo pauca comprchende, acmemo ria tene, gunufquifq tantùm, id quod
præſens eittemporis punctum uiuit: reliquum uitæ aut iam exactum,autin in certo
politum est. Exiguū ſanè tempus quod uiuit quil:perexiguus etiãter ræ, in quo
uiuitur,angulus:etia longiſsi ma poſt obicú fama, cxiguum cft, quæ &ipſaper
ſucceſsionem cóſeruaturho múculorum mox moriturorum, acne ſe quidem ipfos
cognoſcentium, nedů cum,quiiampridem fato conceſsit. Ad dendum his quæ
commemoraui præce ptis unum, nempe eius quæquouis tem pore animo noftro
cogitanda accidit rei, definitionem ſeu deſcriptioné effe faciendam,quo
tecúipſe differerepof fis, quęnam lit eiusnuda &abomnibus alijs ſeparata
natura, ac qualis: tú quod proprium eius nomen, quæ item appel laciones eorum,
è quibus ipfa confiata eſt, & in quæ diſſoluet. Nihil enim per indeaninum
magnitudine extollit, ac uia & uerè poſſe lingula,quæ in hacui. ta nobis
occurrunt, examinare, atß eo modo ſemper intueri,utunà deprehen datur, cuinam
uniuerli parti unuquod. que uſui ſit, quo in precio habendúra tione cum iplius.uniucra,
cú hominis, 14 qui ded quiciuis cſt ſupremæ ciuitatis, ac cuius quaſi domus
lunt reliquæ ciuitates. Quid eft, quibusex elementis concres tum. & quandiu
fert natura cius ut per maneat id, quòd modò cogitatione ani momco
attulit?quaporrò uirtuteadid uſus cric?ſcilicetmanſuetudine, ortitu dine,
ueritate, fide, ſimplicitatc, ea qua totus ex me aprus fum, cęteris?de lingu
lis ergo dicédum. Hoc divinitus venit, hoc faci connexio, casus $ aut fortuna
attulit,hoc pfectum eſt à cognato mco & focio,ignaro quidem quænam effet
cius natura: ego autem & noui, & cofc cundum legem ſocietatis naturalem
u toræquo animo,iuſté,limulgin mc dijs rebus coniecturam facio ut unicui que
ſuum ut dignum eſt tribuam. Sirea &am rationem fequens, id quodinſtat agas
diligéter,firmiter,æquo animo,nc quc inftituto negotio alia admiſccas, ſcd cuum
geniumGincerum conſerues, perinde ac fi iam is dimittendus tibieſ let, atqita
ſi perſeucres nihil expectás, nihil fugiens,fed eo quod ſecúdum na turam agis,
& heroica in dictis factiſas ueritate cótérus, bene uiues. Nemo aut eſt,
quihocimpedire poſsit.Quéadmo dum mediciad ſubita malacuranda,in promptu ſua
inſtrumenta habent, at ferramenta: fictu ad res diuinashuman nalý præcepta
inſtructa habe,atos para ta:omniaş etiam minimaita age,ut mc mineris hæc duo
genera interfe eflc có nexa. Neg enim rem ullam humanárc ctè perfeceris,niſi
ſimulcam ad deosre feras:neq contrà. Non erra amplius. Non eniin commentarios
leges tuos, neque priscorum ROMANORUM et græcorum acta, excerptas ex libris,
quæ tibijpfi in ſenectute utenda repoſuiſti. Itaqad fi nem propera,uanaló (pes
miſlas faciés, tibiipfi opem fer, fiquidé(dum licet )tui rationem habesullam.
Neſciunt quàm multa fignificet uocabulum furari, ſerc re, emere,quieſcere,
uidere quid sit agendum. Quorum hocnon oculis cernitur, ſed alio uiſu.Corporis
ſuntſenſus, ani miappetitus, mentis praecepta. Imaginari aliquid, & uiſum
concipere,nobis cu pecoribus eſt communc.Moueriappe titus explendi cauſa,id
quidé & belluis contingit et ANDROGYNIS et Phalaridi et NERONI. Porrò
mentem ducé habere ad ea quæ apparent eſſe officij, corum etiá eſt, qui deos
eſſe negant, qui patria deſerunt, qui fimulac fores clauſere,ni hil non turpe
perpetrant. Si igitur reli qua his quæ dixinius omnibus funtcó munia,reliquum
ſanè eft aliquid, quòd proprium lit uiri boni: nempe æquo a nimo ferre ca
quęaccidunt,fatog eie ueniút, in pectore collocatum genium non commouere, neg
turba uiſorum perturbare,ſed quietum ſeruare, cique decenter tanquam Deo
obſequi: nihil à ueritate alienum loqui,nihil præteriu ftitiam agere. Quòd fi
nemohominum credat eum fimpliciter, uerecundè, ac tranquillo animo uiuere,
tamdnneque ſuccenſebit cuiquam, nez deflecter à femita ad finem uitæ ducente:ad
quem finem uenire debet homo purus, quie tus, ac diffolutu facilis, & qui
nulla ui coactus ultrò ſuo ſc faro accommodauerit. VAE in nobis ineſt pars prī
cipatum tenens, ea di ſecun dum natura fe habeat, ita ad ea quæ accidunt
comparata cit,ut quouis tépore facile ad id quod poſsibile eft &conceditur
ſe adiungat. Neg.n. materiã aliquä fibi ppria ſubic ctá habet, fed ut cum
exceptione qua dam'ad ea fertur, quę propofita ſunt,ita id quod offertur ei,
pro materia sua accipit. Quemadmodúignis, quiijs quæ inciduntpręualet,à quibus
exiguus ly chnus fuiffet extinctus: at copiofiori gnis ſtatim ea quæ ipG
iniecta lunt, Gibi accommodat,ato conſumir,atg ex ijs ipfis augetur.Nihil
agendú fruſtrà,ne aliter, quàm ſecundum contemplatio nem, qua artisdefectus
compleatur.Se ceflus uulgò quærunt hominibus,rura, litto ra,montes: tu quoq ſoles
maximè cadeliderare. Atqui id planèeft rudiữ & & abiectæ ſortis hominum. Tibi qua cúq
uiſum fuerit hora licet in teipſum recedere:nuſquam enim neg tranquil lior, nec
maioris otii ſeceſsus homini datur, quàm adanimum ſuum: præſer cim ei qui intus
ea habet, in quæ aſpici ens,ftatim ſummam animi tranquillita tem reperit:bene
nimirumomnibus in tus compofitis.Cótinenter igitur te eò recipe,ac teipfum
renoua. Breuia auté fint quædam, & elementorú uicem ob tinentia, quæ
tibiſtatim occurrant, om nig te molcftia liberent, & remittent nihil
indignè ferentem corum ad quæ reuerteris. Quid enim fersindignè?nú
hominüimprobitatem?Reputa tecü,i ta eſle ſtatuendum,ratione prędita ani..
mantia unum effe alterius caulanatum: tum æquanimitatem parté cflciuftitiæ:
item non ſua cos peccare uolütate:quá multi exercitisinimicitijs, odijs, ſuſpi
tionibus, confoſsi perierunt,ac in cine remreda & ifunt:ita &
deſinetádem. At molcftú tibi eft fatum tuum? in mētem reuoca quomodo uniuerfi
partes difti xerit uel prouidentia,uel atomiillę,uel quodcungillud fuit, ex quo demóftra tum
eft,múduminſtar ciuitatis effe. At quæ corpus attingūt,ca te afficiūt?cogi ta
intellectú, cu femel feipfum college rit,ſuamý uim perfpexerit non permi ſceri
Spiritui leniter aut aſperè moto: præterea quæ de uoluptate & dolore auditu
perceperis,repete, atqillis adfé tire. Sed forlitan gloriola teſolicitúte
net?refpice quá celerrimè omnia obli uione delcantur,quod fit chaos infiniti
utrinæ æui,quá inanis famæfonus, quã ta inconftantia &incertitudo opinio
num humanarum, quàm arcto includā tur hæc omnia loco. Quippe punctum eſt
terra,at huius iplius quàm perexi guus angulus habitai? quot uerò ſunt in ca
ipſa, aut quales illi, qui.tefint lau daturi?Proindememento in hanc (quã
demonſtraui,particulam tui recedere; idó præcipue cura,ne cupiditate traha
ris,fedliber mane,relợita intuere,ut VIRUM UT HOMINEM UT CIVEM UT ANIMAL
MORTALE conucnit. Cæterum ex his quæ tibi infpicienti quàm maximèin promptu
cffe debcãt, duo funt:alterú,gresipfæ animā non contingut, ſed extra eam fic
matæ perſiſtunt.Perturbationes tátùm ex internis opinionib.naſcunt. Alterú,
goía hæc quæ cernis, statim mutabun tur, nec crunt amplius perpetuog.com gita,
quoriam eorú mutationib.ipfe in terfueris.Mundus quidérerum in uari as fubinde
formas mutatio eſt, uita in o pinione confiftit. Si intelligentia eſſe pręditu,hominibusnobis
inter nos eſt comune, erit &ratio, ob quam illud no bis adeft cómunis: ſin
hæc, etiam ratio quæ præcipit quid agendum fit,quido mittendum, communis eric
omnium: proinde &lcx. Quód Gita habet,ciues ſumus: crgo ciuitatis alicuius
partici pes. Quo reliquit, múdú ciuitatis loco esse: cuius.n. alius civitatis
dicere possimus comunionem esse humano generi? utruita ex hac comuni civitate
nobis eſſe capacib, intelligentiæ, utiratione, & legi, datú est, an
aliunde? Utenim ter renæ mihià cesra aliqua particulæ sunt tributæ &
humorab alio quodā elemento, ités ſpiritus,calor, & ignca natura, ſuis
fingula à fótib. admcderiuataſūt, puso nihil enim eſt,quod non alicunde &uc niat,
& aliquò abcat.) ita & intelligétia nobis aliunde data eſt. Mors,
perinde acuita,arcanum cftnaturæ opus, ex ijſ dem elemétis in eadé confufio
& mix tio.Deniq non est eares, cuius pudere aliquem debeat: neque enim eſt
contra caufas animalis mente donati, ncg có tra eius ſtructuræ rationem. Hæcita,
hiſq de caufis fiút neceffariò. Quod qui fieri nolit,perinde faciat, acli ficum
ar borem fucco uelit carere. Omnino au tem memineris,intra breuiſsimum tem lo
pòſt, ne nomen quidem ucftrum ſu pererit. Tolle opinionem, fimul etiam de
accepto damno abolebitur cogita tio:hacý ſublata, ipſum etiam danum non crit. Quod
hominéſeipfo deterio rem efficere nó poteft, id neg uită eius pciorem reddit,ncg
lædit,nec extrin Tecus, neg intrīſecus. Natura utilitatis hoc neccſſariò fccit,
ut quicquid acci dat,iufte accidat: quod, fi diligenter observes, ita haberc
inuenies: atq hocdi co,non tantùm caufarum consequentia ita fieri, fed etiam
ratione iuſtitiæ, & ab aliquo, g tribuat unicuip dignita te ſuū. Itaq,uti
coepiſti,obferuare hoc perge, & quicquid facies, hoc modo a
ge,adhibitabonitate, quo modo uerè bonus intelligitur:idgin omnibus tuis
obſerua actionibus. Nonita tibi fentić dum eſt, quemadmodú is quiiniuriá fa cit,
uel iple fétit,uelte cxiſtimare uult: ſed resipfæ quid uerè lint,perſpice.Sem
per hçc duoin promptu habenda ſunt: alterú,utea tãtùm agas, quod ratio cius
partis, quæregnum in te, & poteſtatem obtinetlegislatoris,te hortat, idý
pros pter hominum utilitaté. Alterum, ut fi quis adfit, qui te corrigere, &
ab aliqua opinionc deducereuelit, ſententiamu tes:modò ut ea mutatio fidé
mereatur iuſtitiæ autpublicę utilitatis,aliúſuchu iufmodi cauſa,
nóuoluptatisgloriæúc gratia facta eſſe. Ratione præditus es: cur ca non uteris?
quid enim prætcrca deſideras, ca ſuum obeuntc officium? Scis te, utparté,
interiturű in co, quod te produxit universo: imò potius facta mutationc allumcris
ad mcntem cam quæcſtreliquarum origo.Multa thuris grana eidem aræ impolita,
unum altes ro priusignicorripit, ſed nihil intereſt. Intra decimum diem, Deus
uideberis ijs,qui te nuncbeſtiam & fimiam putát: fiquidem ad præcepta
&ueneratione métis reflectas,ne & cogites uitam tibi in immenſos annos
prorogatum iri. Mors imminet, ergo dum vivis et licet,bonus ut sis cura.Quantum
otij lu cratur, quinon uidet quid proximus di catsagat, aut cogitet, ſed tantùm
quid ipfe agat, curato ut hoc iuftú fit & fas. At quifecundum Agathonem
fortèbo numno circunfpicit nigrosmores, fed propofitamlineam recto,non uago cur
fu tenet. Quifamæ poftmortem cupidi tate ducitur,non cogitat quenlibetco Tum,
quiipfius mentionem fint facturi, mox ipfum etiam moriturum: deinde itidem eum
quihuic ſuccedit, idő.co uſcs, dum omnis memoria per attoni.
tosinanifama,extinctoſý homines p pagatu aboleatur. Quinetiam fingeim mortales
fore eos, qui tui recordentur, immortalemg tuifutură memoriam.. quid ergoid
adte,ne dicam,mortuum? quid ueluiuo tibilaus proderit?nifi ra tionecuiuſdam
difpenfationis: omitte enim nunc naturæ munus, huic tempo ri non conucnicns et
de quo fuo loco erit differendum. Omne quod pul chrum eſt,ex ſeipſo tale cſt,
atquc in ſc ipſo abſoluitur,nullámque ſui partem habetlaudem. Ideoid quod
laudatur, co ipfoncß peius fit, neq melius. Idý ctiam deijs intelligiuolo,
quęcómuni ori nominc pulcraaut bona dicuntur, ut quæ ex materia fiunt,
&artis opera. Id autem quod rcuera bonum eft, noa magis alia quadam re opus
adid, ut fit bonum, habet, quàm lex, ueritas, cran quillitas animi,uerecundia:quid
horú uelli laudetur bonum fit, uel uitupera tione corrumpitur? Smaragdus quidem
niſ laudetur, debonitate sua aliquid a mittit? quid aurum, ebur, purpura, cul
ter, floſculus, arbuscula? Si permanent animi, quomodo cosab æterno capit aer:
& quomodo terra abęuo uſquchu matorum corpora recipit? Quemad modum hîc
corpora quum aliquádiu in terra delituere,mutantur,diſsipatag fpacium alijs
cadaueribus præbent:fic animæ in aérem ſubuectę,quum aliquá diu
ibiperftiterunt,mutantur, fundun turg, &ad menté omnium aliarum ge nitricem
adiungunt, eağ ratione alijs aduentantibus locum cedunt. Hocrea fpóderi poteſt,
pofito animas eſſc cor poribus ſuperſtites. Neq uerò tantùm multitudo
ſepultorum eo modo cor porum confideranda eſt: ſed & corum quæ quotidie
comeduntur à nobis, & beftijs animalium et fic quodammo do ſepeliuntur
magno numero, acni hilominus fuppedicat ſpatium alijs, p pter corum in
fanguinem, aërem, calo remgmutationem. Ratio autem ucri tatis conſtat,
ſimateria & caufæ inqui rantur.Non eſt uagandum,fed in omni appetitu
iuſticię ratio habenda:omnig in cogitatione,certitudinis.Quicquid tibi,ô
Naturarerum, conuenit, id omne mihiconuenit,nihilſ mihi uelimmatu rum
eſt,ueltardú, quod tibi ſit tépeſti uum:oéid fructum meum puto, quod tuæ
ferunthoræ.Ex tcfunt, &in una to omnia, ac in te unam omnia redeunt, Quidam
dixit, ô chara Cecropis urbs. ego autem de tccur non dicam, ô cha ra Dei urbs?
Pauca age, inquit, fi tibi tranquillitas animi curæ eſt. Nihil co plus cnofert,
quàm ea quæ neceffe eft, agere, & quæ ratio animalis ad ciui lem ſocietatem
nati, ac quo ca modo dcligit. Id enim non modò rede a gendo, fed &
paucaagendo animi tran quillitatem parit. Nam ex his, quæ plurima &agimus
& loquimur,fi quis ca quæ non ſunt neceffaria tollat, is &maiori otio Pombaur,
& pauciores per turbationes experietur. Itaque lingu. lis in rebus
circunfpiciendum, ne quid non neceſſarium agamus: acnon mo dò actioncs, fed
& cogitationes inuti les funt uitandæ. ita cnim fict, ut nea. &tiones
quidem fuperuacaneæ conſe quantur.Facpericulum,ut tibiboniui uita quadret:eius
inquam,qui fato fibi deſtinata æquo fert animo, contentus eſtiuſtis ſuis
actibus, & placidoftatu:ui diſti illa,hæc quoqueintuere.Non per
turbatcipfum, fed fimplex efto.Si quis U MAwy peccat, fibijpfi peccat. Tibili
quidbom ni obtigit, ab initio tibiid fato tuo fuit deſtinatum. Omnino autem
breuis quum sit uita, curandum ut præſens tempus lucreris rectam rationem &
iu ftitiam ſequutus: ac in remiſsionibus animi ſobrius fis. Aut compofitus eſt
certo ordine mundus, aut cófuſo quæ ram rerum temerè mixtarum, mundus tamen. An
quum in te ipſo poſsitor dolocum habere, uniuerſum nullo or dine conſtare
dicemus? præſertim om nibus in co rebus ita digeſtis, diffufis, atque inter fe
affectis. Mores nigri uocantur mores effæminati, duri, fe ri, pecorum aut
infantium fimiles, ſto lidi,fucati,fcurriles,cauponarij,tyran nici. Si
peregrinus in mūdo habetur, quæin mundo funt, non cognofcit: haud minus
peregrinus erit, qui ea quæ fiunt:non cognofcit: exul, quiciuilem rationem
fugit: cæcus, quiintelligen tiæ oculos clauſos habet: pauper, qui alio indiget,
nequein fe habet omnia quæ ad uitam conducunt. Abſceſſus,ſiuculcus mundi-eſt,
qui ſe à communis naturæ ratione feiungit,in dignè ferendo ea quæ
cueniunt:(caeń quæ te produxitnatura, omnia pfert.) fruſtum à ciuitate
amputatum, quiſu am animam à communi & unica om nium ratione præditorum
méte reſcin dit. Alius line toga philoſophatur,ali us abfg libro,alius
feminudus,panes ſe non haberè,& tamen ingſtere rectæ rationi
dictitans,alius ſe diſciplinis ſuis non alere, & tamen perfeuerare profi
tens.Tu artem quam didiciſti,dilige, in cağacquieſce. Reliquam vitæ partem: ita
exige, ut q ex animo dijs omnia tua commiſeris,negullius te hominisuel ſeruum
uel tyrannum conſtituas. CóGidera ſuerbigratia) quęVeſpaſia nitēpore euenerint:
inuenies homines tum nuptias contraxiſſe, liberos aluiſ ſeægrotaſſe,diem ſuum
obijffe, bellige raſſe,feſtos dies egiſſe, negociatos fuif ſe,agricultură
exercuiſſe,adulatosfuif ſc,præfractos ſe geſsiſle, suspicionibus indulgfie, inſidias
feciſſe,quoſdami uo tis mortem uocaſſe,alios quiritatos de præſentererum ſtatu,amalle,
theſauros d TU collegiſſe,conſulatus et regna expetiif fe.Nonne corum omnium
uitaiå aboli ta eſt?Rurfus ad ætatem Traiani defcé. de: invenies eadem omnia,
atque cius quo ætatis hominesmortuoseſſe,eo dem modo ſi etiam reliquas ætates
et gentes totas conlideres, uidebis quàm multicú ad ſummú cótendiſſent,paulò
poſt ceciderint, & in elementa reſoluti fint.Præſertim uerò hi memoria
recole di ſunt,quos ipfe cognouiſti uana affc Etantes, cum agere fecundum id ad
quod natura erant facti, cizinhærere, &eo contenti effc ceflarent.Id quoque
opuseftmeminiffe,in unaquauis actio necantum uerfandum,quantum digni tas cius
& modus permitcunt:ita fiet,ut non diutius quum par litreb.exiguisim
moratus, nullú faſtidiú cótrahas. Vlita ta quondā uocabula, nuncinterpreta
tionis loco funt: ita et corum quifuerút olim celeberrimi, nunc quodammodo ſunt
glossæ, ut Camillus, Cæso,Volcſus, Leonnatus, cum paulò post SCIPIO, CATO, inde
AUGUSTUS, ADRIANUS, ANTONINUS. Ist hus: omnia enim hæc euanida ſunt, & mox
in fabulam abeunt: mox obliuio. nc oí a obruuntur.Ato hocdicodeijs, qui ad
miraculü ufo clari erant: relig enim fimulato animam efflarunt, obscuri, &
ignoti facti ſunt. Quáquá quid eſt omnino,cuius fit memoria lempiter ħa? Omnia
füntinanía. Quid eftigitur, in qd Geſtudio incúbendú? Vnicú hoć, ut
cogitationes antiuftæ, actiones ſo cietatem humanam refpiciant, ratio te punő
fallat,itag lis alo affcctus,ut quæ cúqaccidút,catanğneceſſaria,nota,ab codé
principio & fonte promanantia, approbes. Vltrò te fato ſubmitte, pate regid
teijs quæ ei uiſum fuerit rebus destinare:oia in diéfunt, cum id recordat alicuius,
túid, cius fit mentio. Nunquá nó con dera, oía permutationes fieri, neq
uniuerſi naturæ quicquã eſſe ulita tius,ĝres mutare, & innouare. Omnia em
quæ in natura ſubliſtűt,femina qua G ſunt corum, quæ cxillisſunt naſcitus ra;
eftautem nimium rudis hominis exi Ntimare ea cătùm ſemina cfTe, quæ in cer ram
aut matricem deijciuntur. IM lam morieris,neque in pofterumeris is
quinunces,fimplex, perturbationu uacuus,nihilſuſpicans extrinfecus tibi poffe
damni afferri, omnib. benignus, prudentiam in eo tantum utiuſtè agas poſiram
cenſens. Intuere aliorum principem partem, acquænam fugiant,quæ ſequanturpru
dentes. Tuum quidem malum non eſt in al terius animo pofitú,neg in conuerlio
neulla aut mutatione cæli. Vbi ergo? in opinione demalistua. Nihiligitur malum
eſleiudica, & omniabenehabc bunt.Quòd li corpus, quod animo tuo eft
proximum,fecetur,uratur,ſuppure tur,putreſcat,tamen ea pars, quæ iudi care de
his debet, quietaGt:hoceft,exi ftimet nihil effe neque bonum,neque malum,quod
exæquo poteft bono at que malo accidere:nam quod'ei qui ſe cundum naturam
uiuit, exæquo acci dit, id neque fecundum, neque contra naturam eft, Aſsiduè
tecum cogita,mundum eſſe animal quoddam unum,unam naturā, uno animo præditum,
quomodo om nia ad eius fenfum unicum rcferantur, omnia ab co unico appetitu
mouétea gantur, ac omnes res omnium rerum caufæ aliqua ex parte fint,tum quis
ca rum inter fe contextus & ordo. Animula es, quæ cadauer geſtat: ut
Epictetus dicebat. His qin mutatione funt, nihil eſtma lum: utnequebonum
quicquã his qui è mutatione exiftunt. Aeuum, fluctus quidam eſtrapidus carum
quefiunt rerü:fimulcnim unum quodß & apparet &præterit, &aliud
ſubſequitur, moxitem aliud ſuccedet. Omne quod nobis accidit, ita conſue tum
eſt, & notum, ut roſa uere, fructus æftate. Eadem eſtratio morbi, mortis,
calumniæ, inſdiarum, omniumg eorü, quæ ſtultis uel gaudium, uel triſtitiam
afferunt. Quæ ſubſequuntur ſubinde, ca præcedentibus rite ſuccedunt.Non enim
numerus tantum certus eft eorü, àfolaneceſsitate dependens:fed & có
fentanca corum inter ſe colligatio. ac quemadmodum certo ordine resinter fe
ſunt coaptatæ, ita quæ fiunt,non ſuc ccfsionem nudam,fed mirabilemctiam quandam
inter fe coniun &tionem etne ceſsitudinem oftendunt. Dictum Hera cleti
ſemper eſtmemoria tenédum:ter ræmortem fcilicer eſſe aquam,aquæ ac rem,aêrisigné,idý
uiciſsim. Eius quo quc exemplum recolendum,quineſcie bet quorſum iter duceret,
Et quod cum rationc quæ uniuerſum admini ſtrat, continenter conſuetudinem ha
bentes, tamen ab ea diſcrepant: itag in quæ quotidie incidunt, ca noua ipfis
& peregrina uidentur. Non tanquam ſi dormiremus, agendum nobis eſt & lo
quendum: in fomnis enim tantum uide murnobissgere aut dicere. Nequeimi tádi
ſunt nobis pueri, qà parentib.fuis * hucé,nudè, Gicutaccepimus,Quéadmo dulias
tibi Dcorūdiceret, moriendum tibi aut cras, aut ad diētertiú: nojā ma
gnopètertiú dié craftino pferres,nifi a nimielies oio abiectiſsimi.quátú emeſt
interuallum? Eodēmodoiudicanon in magno effe fouédú difcrimine,poſtmil lenos
acaonos, anuçrò çras decedas. Crebrò reputa, quàm multi medici fint mortui, qui
ſæpenumero ægrotos inſpi cientes ſupercilia contraxerint: quot Mathematici, qui
alijs exitú è uita præ dicédo ſeiactauerint:quotphilofophi, quide morte &
immortalitate multa alleruiſſent:quotre bellica laudati, qui multos occiderant:
quot tyranni, qui magna cum inſolentia tanquamimmor tales poteſtate luauſi
crant:quot urbes mortuę(utita dică)ſunt,Helico, Pom peij,Herculanú,& aliæ
innumeræ.Col lige etiam,quos tuipſc noftiunum poſt alium,cuius funus curaffet
mortuos:Et quod heri fuit piſcis,cras critfalfamen tum, aut cinis. Momentancum
itagté pus à natura eſſe conſtitutum, conſide randum eft æquoſ animo è uita
abeun dum:perinde ac Goliua maturitaté co ſecuca G decidat,arboréqipfam tulit
ac genuit,collaudet, & gratiasagat. Simi lis elle debespromontorij, adquod
al fiduè fluctus alliduntur: ipſum autem perfiftit,utcunque undęæftuantes cir
cùm ferátur.Diceret aliquis: infęlicem mé,cuiboçacciderit:quinimòfelicem t me,
quihunc cafum fine dolore perfe ram, & nec præſentibus frangar, necfu tura
extimeſcam.Nam unicuiqtaleąd potuit accidere: at non cuiuſuis craç,li ne dolore
cum caſum excipere. Curigi tur illud potius infortunio, quam hoc felicitati
adſcribis? autcuridinfelicita tem hominis appellas,in quo nihil mali palla eſt
hominis natura? an uerò dam num tibi humanæ naturæ uideri poteſt id, quod non
eſt contra uoluntatem naturæ çius? Quid ergo? Numcaſus ifte ef ficere poterit,
quominusfis iuſtus, magnaminus,temperans,prudens, circum fpectus,tutus ab
errore,uerecundus, li ber?autadimereomnino quicquam co rum,quçhominis naturę
funt propria? Proinde quoțies inciderit quicquam, quod ad dolorem te prouocet,
recor dare huius præcepti,non illud informado nium eſſe appellandum,fedfelicitati
tri buendum, quòd id fortiter feran Eft quidem ignobile,præſenstamen ad
contemnendam mortem auxilium, memoria repeterc eos, qui uitam inlon giſsimum extraxerc
tempus. Quid enim hi 57 1 hi amplius consecuti sunt, quàmij, qui immaturamorte
ſuntabrepti? Vtique ipfi etiam defuncti iacent, Cadicianus,
Fabius,Iulianus,Lepidus, alijſ corum fimiles, q cúmultosex tulissent, ipfidein
de elati sunt. Omninoeņexiguū eſt ſpa çium, időper quotlabores,inter quos,
&quali in corpuſculo exigendum? Ne igiturmortem prore difficili accipe. In
tuere cius quod retro eſtæui uaſtiratë, & eius quod reſtat,immenſam longitu
dinem:in tanto tempore quid præſtat is qui tres ætatcs, ci qui uixit triduum?
Semper breuiorem uiamingrederc: brevissima autem est ea, quamnatura præ
ſcripſit. Itag in omni & fermone & a. & ioncidfectare, quòd
eſtrosiſsimum. Hocpropoſitum laboribus,militia, çura rei familiaris, &
folicitudi neliberat. Anè cum grauatim à fom no ſurgis, in promptu tibi
ſitcogitare,tead humanum opusfaciendum ſurgere.lca que ergo dices) grauatè
acccdo ad agé da ea, quorum cauſa natusſum, ac pro ter quæ in huncueni mundum?
scilicet in hocfactus, ut decumbesin lectome ipsum calefaciam? Atquihoc iucundi
dius eft. Ergónead uoluptatem natus es, nonad agendum?nonuides plantu las,
palierculos, formicas,arcaneas, a pes, lingula hæc luo intenta officio: tu uerò
ea quæ funt hominis obire recu ſas, nc ad id te confers, quod naturæ tuæ
conuenit? At uerò quiete opus eſt. Sane: fed & huic,modü ftatuit natura,
pinde,utedédi,bibédig: atqui tu ultra modú &laq gfatis é, pcedis:n reb.uc
rò agedis intro moduſubliſtis. Fit hoc cò, qateipſum nó diligis:alioqn eń &
natura tua, cius voluntate diligeres.Et cnim alij qui ſuas artes amāt, operibus
fuis ita incumbunt, ut neque balneorü nog cibi curá habeant. Tu naturm tua non
tanti facis, quanti aut tornator, aut histrio suam artem, quanti avarus argentum,
&inanis gloriæ cupidus glo riolam. Hi enim quarum rerum ftudio tenentur,dum
eas augere poſsint, cibų &fomnum poftponunt. At tibi actio nes ad
ſocietatem ſpectanteshumanam uiliores uidentur', 'minorig opera di gnæ?Quàm
facile eft omnem cogitatio nem quæ animo aut perturbationem af ferat,aut
nóconueniat, reijcere, & delc re, ſtatimg effc in fumma animi tran
quillitate? Omnem fermonem & actionemque fit fecundum naturam, dignam te
iudi. ca:nca te auertat ab ijs reprehenfioare fermones aliorum ca consequentes.
Sed fi quid fa & o dictúue pulchrumeft,idte neindignum putes. Alij cnim
aliam ra fionem,alios appetitus fequuntur:ad quos tibi non eit refpiciendum,fed
re Cta via cò pergendum,quò &tua,& comunis omnium ducitnatura: utriuf
que autem una eademg eſtuia per ca quæ funt fecundumnaturam progre: dior,donec
morte finiam: expirans qui dem eam, quá inſpiro quotidie animā, cadens uerò in
terram, ex qua &femen meum pater, & fanguinem mater,&lac nutrix
collegit: quæmeterratot iam an nos'quotidie alit cibo ac potu, quamc calcantem
fert, ac totmodisipla abu tentem. Auſteritatem tuam ut admirêturno est. Sit
fanè, at multa alia ad quæ tc non eflenatura aptum, dicere non po tes.Eaigitur
profert, quętota funtin te: integritatem, grauitatem,laborum tole rantiam,
uoluptatum abftinentiam,ani mum ſua ſorte contentum, pauca defi derantem,placidum,liberum,
àcurioſi tate & nugis alienum, altitudine prædi tum.Nonſentis,quam multa
poſsisprę ftare, de quibusnulla eſt excufatio na turæ ad ea non aptæ: &
taméadhucfpó te tua inferius manes. Quid? Ante natura parum bene in ſtructa
cogit indigna ri,cúctari, adulari, corpuſculum tuum incuſare, tuam ſortem
improbare,leuć eſſe, animouagari:nonmehercle,fed his omnibus iampridem ut
liberareris malis,in tua fuit poteſtate.Hoc tantum erat uitij, quod tardioris
ingenij, ac qui non facilè affequeretur ea quæ traderé tur,exiſtimari poteras:
Sed & hoc exer citationeerat corrigendum,neſubinde cogitares de tua
tarditate, néue ca de lectateris. Eorum qui bene alijs faciút,triaſune
genera:primum corum, quiſtatim exhi bito beneficio, ſtatim etiam quam ſint
meriti gratiam reputant. Alterum co rum, quiid quidem non faciunt,ta conſcij
quid fecerint,debitorem ſeiam habere cogitant.Tertij quodammodò ne hocipfum
quidem quod fecere,no runt:uiti ſimiles, quæ uuam cum protu lit, ut femel ſuum
deditfructum, nihil præterea quærit. Equus ficucurrit, canis fi uenatus
eſt,apis fi mel fecit,fatis eſt. Homo auté l benè fecit,non reuocatur, ſed ad
ali ud negocium tranſit, quemadmodum uitis,ut rurſum fuo tempore uuam producat.
In his nc igitur eſſe debent, quæ aliquomodo fine conſequentiaid
faciunt?equidem.ſed hocipſum debet confequi. Propriū cnim est inquit animalis
lege sociati, ut sentiatle et societatis causa egisse &ut velit omninoid eû
qui ſocietatis eft ciuſdem, sentire. Verum clt quod dicis: quod autem nunc dici
tur, excipe. Proptereà ex eorum numc ro eris,quorüantè feci mentionem. Hi enim
uerifimilitudine quadam proba bili abducuntur. Quòdh intelligereuis quidná
litid, quod diximus, netimcas, ne obid actio aliqua ſocietati hominü inferuiés
tibi Gt omittêda.Athenienlių erathocuotu:plue,pluuiã ò chare lu piterin agros
& cáposAthenienſes de mitte. Enimuerò aut nihil eft optandū, aut omnino
fimpliciter, & liberalitcr. Quod dicimus Aeſculapium huice quitationé, illi
lotioné in frigida,alteri utnudispedib.ambulet, iniúxiſſe:nihil aliud eft cú
dicim°, natura uniuerfi huic hoimorbú, defectú autamiſsionémen
brialicui'impofuit.Náutilliccum dici mus iniunxiſſe,intelligit.AEſculapium HUO
O unam rem ad alterāordinafic, uerbigra tia,camrem reſpectum habere ad fanita
té:ica hicidqunicuiqaccidec, rationé babet & rcfpectumad fatū.Ita enim hęc
nobis accidere & cógruere dicimus, ut opificesquadratoslapides in muris aut
Pyramidibus extruendis congruere a lerunt, quippe certa cos collocation ne
inter ſe componétes. Omnino enim una quædam eſt harmonia: atg ut uni uerG huius
corpus ex omnib.corporib. eſt compactum, ita ex omnib.caufis Fa tum ſuprema
cauſa conſtat.Id quod di co,etiam rudiſsimi intelligút homiues: dicút enim,hocſors
cius tulit,hoceica ratimpolitú.Accipiamusergo hæcita, utilla quæ Acſculapius
impofuit: nā & in illis multa ſunt aſpera, quæ tamen fpc ſanitatis
ferimus.Tibi crgò corú quęcó munis naturatibiiniúxerit perfectio,fi milis
ſanitati iudicet:atqita æquo ſuſci peanimo oía quæ fiút(ctiāli gd durius
uidcat. ) quoniã adidducunt, quod ra tioncmúdić fanicas,népeadfelicitaté.
Nihileſ accidiſſet tibi, nifi in réuniuer Gita ect:ncq cnim una quæuis natura i
quicquam fert,ſed id modò, quod re fpcctum
adid quod ab ea adminiſtratur, habcat. Quare duæ ſunt rationes,cur ea que
tibicueniunt, çquodebeas animoferre. Vna, quiaſors tua ficferebat, & tibi
de ſtinata erant ab antiquiſsimacauſa fata li habentiaad te certum reſpectum.Al
teras quòd ca faciunt adprofectum, & perfe &tionem, ac permanentiam
eius, quòduniuerfo praecſt. Totum enim muti latur,fi etianminimam partem conti
nuitatis & coherentieutmembrorum, ita etiamcaufarum difcindas. Id autem
quantum intc eft,facis, quotiesea quæ tibi obtigerút,moleſtèfers,ac quodam modo
tollis. Faftidire,animumdeſpondere,ac de terrerinódebes, fi nó ubiq tibi fuccef
ſusrefpondet,fecundum recta præcep ta agere fingula cupienti:ſed fruſtratus
conatu,cum redintegrare, & æquo ani mopleraq humanaferre: neque debet te
eius,ad quod redis,poenitere.Nequc tibi eſt ad philofophiam tanquam ad
pædagogum redeundum:Sed utſolent qui ex oculis laborant,ad ſpongiam & ouum,
alij ad cataplaſma &perfufioné confugere.Ita enim nó opuserit tibi o.
ſtendi,utrectęrationiobedias:ſed in ca ipſe acquieſces. Memento philofophiam ca
tantum poſcere, quæ natura etiam tua exigit: tu aút aliud quippiam
uolebas.Vtrum uc rò horum blandius'eft an nonhocpa eto dccipit uoluptas? Vide
gratior no gt magnamitas, libertas, simplicitas,æ quanimitas, fanctitas? Quid
enim ipſa prudentia Git acceptius,ubicùm animo tuoreputes facultatem quæ
ſcientiam certam, & certis conſequentijs nixam habet,nuſquamlabi, &
ubiq ſucceſſum habere? Res quidem ipfæ in tanta quodam modo uerſantur obfcuritate,
ut philo fophorú plerifcb & ijs no ignobilibus, omnino pcipipoſſe nihil
uifum fit:Stoi ci tamé poflc percipi, ſed planè difficul ter,cenſucrunt.Eft
omnis noſtra aſſé lo talis, utfalli & mutati poſsit:quis c nim ſenó pofle
errare dixerit? Trasfer itag cogitationes ad ipfas res fubice & as,acuide quàm breues, uilesø Gne, quæ
ctiam à cinædo, fcorto,autprædo ne poſsint teneri.Inde tranG ad mores corum,
quibuscum uitam degis, inter quos uix eſt etiam gratiofifsimum per ferrc,ne
dicam, quod uix ſeipſum quis perpeti pofsit. Tanta igitur in caligigine,
sordibus, tātoo rerum, temporis, motuumý, & rerum quæ mouentur flu xu, non
uideo quid lit effe in honore, aut obferuantia hominum. Contrà præ ftat feipfum
confirmare, acmortemræ quo animo expectare,ncqmoram indi gnè ferre, fed in his
modo acquieſcere duobus: uno, quòd nihil mihi accidet, quod nó fitſecundum
naturam uniuer fi:alterum, quòd licet mihi, nihil agere quod contra Deum
geniumg fit meú demo em ad hocme cópellere poteft. Subinde hoc
teipſuminterroga: quam adrem nunc utoranimo meo? at & exa mina teipfum:ea
pars, quam principem uocant, quomodo núc habet?cuiusaío prçditus ſum? num
pueri, num ADOESCENTIS, num mulierculæ, num tyranni, num iumenti,num feræ? Qualia
fint illa, quæ uulgò bona ha bentur, etiam hinc euidens fiat.Sienim animo
concipias ca quæ ſunt reipfa bo na, utprudentia, ut temperantia,utiu fticia,ut
fortitudo,hisiam antè reputa tis, nihil porrò audies nominari bonú, quod nófub
hæc referatur. Quæ uerò uulgus hominum bona putat,ca qui an tè mente
conceperunt,fimulatq nomi nari audiút,perfacilè accipiút,perinde ut liquidà
Comico appolice di& ú eft. Hæc eſt fere uulgi de differentia bo norum
opinatio:alioquin enim haud co peruentum eſſet, ut uera bona auer
ſarent,diuitiarū aút, voluptatis aut glo riæ métionéita admitterét, utſcitè ato
urbanè dicta.Progredere ergò,acinter roga,(intne in honore habendaet in bo nis
ducenda hæc, quæ fi animo tuoima ginatus fueris,aptè quis dicere poſsit, cum
quiiſta poſsideat,propterhác co piam ncubi quidem cacec habere. Ex forma &
materia conſto: ho. rum uerò neutrum in nihil uertetur, ut neque ex nihilo
extitit. Ergo om nis mci pars permutationem redigetur in aliquam mundi partem,
atqhæcrur fus in aliam uniuerli portioné tranſibir, ido ad infinitum uſ.
Huiufmodi auté mutatione & ipfe extici, & parétes mei, ide in infinitum
uſo retrò eunti licet dicere:quãquam certis alioquin circui tibusmundusadminiftratur.
Ratio et rationalis ars, facultates funt abiipfæ ſufficientes,fuisg operib.
Progrediunturàſuo principio, acper gunt ad finem propoſitum:habent a &
tiones earum à uiæ cuiinGftuntilleno men apud gręcos, utfine netoptásons:nos
rectas effectiones dicere poſſumus.Ho rum nihil de homine dicipoteſt,neque enim
ei conucnit, ea ratione, qua homo eft: Non hæchomo,ncgiplius natura
profitetur:non eſt ca in humana natura perfectio.Proindein externis rebusnc
quaquam erit finis homini cóftitutus, nepid bonum, quod finem illumabfol
uit:Alioquin hominis partes non fuif ſét,ut eosdeſpiceret,nem laudedignus,
quiſeita parat,utillis non indigeat:no que qui illis rebus abſtinct, bonus dici
mercrctur, fiquidem cæ bona ellent Nunc uerò tanto quiſ melioreſt, quá to
magisſeipſum ab illis rebusabſtinet. Talis erit intellectus tuus, qualia ſunt
ca,de quibus ſubinde cogitas: nam à ui bis fcu cogitationibus illis animus im
buitur.Inficeigitur eum adliduitatehu iuſmodi cogitationum, qualesſunt:ubi
cunqueuiuere,ibietiam bene uiuere li cet:uiuere autem licet in aula, ergo etiã
bene uïvere licet in aula. ltem alicuius rei caufa fingula ſunt facta cui ucrò
gra tia unúquodgfa & ú eft,adid fert, ado aút fert in eo finis eius é
poſitus: ubi ue ro finis,ibi ét bonú unicuiq. Ergo finis animanti ratione
prędito ppolituseft, focictas, natos cnim nos effe ad eājiam pridem eft
demonſtratum. An uerò non euidens eſt, deteriora præstantiorum, rurſumýex his
unum alterius caufa esse. Præftantuerò inani mis animata,atq inter hæcipfa, ca
quæ rationem habent. Ioſani eſt,ſectari impoſsibilia. At fic ri non
poteft,quinmaliſuomore agāt. Nihil cuiquam accidit,nifi ita Natu rá deſtinarit.
Id quod alius iniquè fert, e bas wal
wide ولا bus alteri accidit, qui fiue ignorationc cius caſus,ſineut
magnanimitatem oftédat, cóftantiā tuetur,atqillæſus manet.Ini quú cſtigitur
admittere,utinſcitia et o pinio prudētiäſupent. Etenim res ipfæ
animúnequaqattingunt, non intrātad eu,ncg mouere, ncq uertere poffunt.
Solusipſe ſeipſum ciet, ac quale iudicia umtulerit, talia ea quæ accidere,
fiunt. Alia róeſumma nobis eſt necefsitu. do cũ hoíe cóftituta,quaeibenefacere,
eumý ferre iubemur:cú aúcimpedire conant noſtras actiones, nó magis ad nos
attinet, ộ Sol, uétus:beſtiæ. Ato hi qdé impedire effectú aliquãdo pofsint:
animi uero appetitioné, & affectum no qucunt,quiahæcexceptioné habét, &
conuerlionem.Ná omneid quodimpe dimento fuit effectioni,id animus ad ca quæ
præcellerút,cóuertit, atßcomo do id, quod instituto operi, uiccoßinitę
obftitit,ei iam confert aliquid. Id quodin múdo eft præftantiſsimū, cole. Eit
aútid, qd oíbusreb.utitur,oía gubernat. Similiterid quoßhonora, q in te elt
primú: nimirú illi alteri cogna tum, cesa üles DO Pe quatum,quòd & cæteris
quæ in teſuntom nibus utitur, & tuam uitam regit. Quod civitati nullum
affert detri mentum,idnc ciui quidé nocet. Hæcre gula recoléda tibič, quotieſcúq
telæ ſum aliquâ eſſe cogitas.Sin ciuitas dam no affecta cft, ei qui
ítulit,ſuccéferenó debes. Quid neglectú eft?Sæpenumero códdera, ệ celeriter oía
quæ & funt & fi unt, abripiãtur & cuanefcát. Etenim &
ipfęnaturę amnisinſtarin adſiduo funt fluxu, & cffectiones
cótinétib.mutatio nibus obnoxiæ, & cauſarúinfinitæ ſunt uices:denią
nihilferè perſiat, aut ſui fi mile durat.lā & pręteriti, & uenturiçuí
infinita é, in qua oſaabolentur,uaftitas, Quî ergo ſtultitiæ nó damnet, qin hoc
tā cxiguo téporis articulo ſupbit,appe tit,autmoleſtia fe affectú quiritaf.
Universæ rerum naturam recordare, cuiusmini. mã parté tenes: totius zui,cui'
breue & mométaneútibi éattributúſpacium:fa ti, cuius perexigua ad te portio
ptinet. Peccatalius qs aduerſummc uiderit, ſuā habet affectioné, ſuum a
&um. Ego in præſentia id habeo, quod me habere i t c & C a & 1 uult
cómunis natura: agogid qd'age remeiubetmea natura. Pars animitui princeps
neinucrtatur ullo uelleui uel alpero carnis motu, neg admittat per fuafones
quçinmembrisoriuntur, Sed circumſcribatcas. Quòd fi ex ratione alterius
conſenſusad intelligentiam ef ferútur,nimirum quatennsea cum cor pore copulata
eft, tum quidem ſenſui, cum is a natura proficiſcatur, reluctan dum non eft:
opinioniautem mali aut. boniadfentiremensnon debet. Viuendum eſt cum dijs.Vitam
ucrò cum dijs agit, qui continenterijs ſuum animum oftendit probātem ea quę
ipli fatum tribuit, agentemg ea quægenio placerent: quem lupiterſuæ quandam
particulā naturæ unicuiæ prælidé, du coşdedit, nimirú mente atæ rationé.
Neiraſcaris ei qui hircú olet, autcui aia fætet; nihil, n.ad teidcmaliredibit,
Alæ iplius, & osita ſunt affecta,utne ceflc ùthæcmala conſequi, Rationc,inquis,
præditus eſt homo, ac fi scrutari uclit, intelligere poteſt quainre delinquat.Benereshabet.
Proinde tu, qui & ipfe præditus es ratione, mentem eiustuæ mentis motu
cxcita, doce, commonefac: li enim obtempe rat tibi, fanabis eum, negira
opuserit. Nonita hic uiuendú eſt tibi,ut Tra gedo autſcorto qui egrediés uiuere
co gitat. Quòd li tibinon cóccditur,tunc uita excedere, ita quidé,ut qnihil
mali patiatur,acfumiinitar abeat, Quid hoc rei eſſeputas? Dum uerò nihilme tale
abducit,liber permaneo,neq mequif quam prohibet agere,ut uolo, uolo au. tem,ut
naturæ animantis ratione predi ti, & ad certum nati conuenit, Mens quæ
mundum gubernat, ſocic tatisrationcm habuit:itag & inferiora
præftantiorumcaufa effecit,& pręſtan tiorum unum alteri ſubdidit. Videt, ut
ſubiecerit, cóiunxerit,ac unicuiq ſecu dú dignitaté ſuú tribuerit,ea quęlunt
pręſtátiſsima,mutuo cófenfu deuíxerit. Quomodo uſus es hactenus dijs, pa
rentibus, fratrib. uxore, liberis, docto ribus, alumnis,amicis,familiaribus, fa
mulis? an in huncuſquediem in nemi nem horrcū uerbóuefuiſti iniurius! Reminiſcere
étą ſupaueris, actolc raueris: tum fabulam uitæ tibiiam pera tam,teş tuo
miniſterio defunctum ef ſe. Quàm multa uidiſti pulcra? quot uo luptates
quotdolores deſpexiſti? quot peruerfis hominib. æquúte præbuiſti? Quamobré
animi artis & diſciplinæ uacuiarte & fcientia præditum confun dunt?
quem uerò animum arte & ſcien tia præditum uocas?cum,qui principi um &
finem cognoſcet,et mentem, quç per uniuerfam rerum natură penetrat, acper omnes
fæculorum curſus defini tos atq; ftatosmundum gubernat. lãiá cinis eris,
&oſſa nuda, nihil öter nomé(liquidéid ſupererit) tui reſtabit. Noméautnihil
eftõſonitus. Atea quæ magniin uita precij habent,uana ſunt, putrida, cxigua,
atą inſtar catellorum mordicantiŭ, aut pucrorü inquietorů, quimodò rident,mox
plorant. Cæterű fides,pudor,iufticia, & ueritas. Climatib. tcrræ cæld
petiere relictis. Quid ergò reſtat, te hîc detineat? fen Gliane tam fluxa, torý
mutationib. cxpofita?an ſenſus, obſcuri, & qui facilè decipiantur?animula
ipſa, quæ cft ex halatio à ſanguine? gloria inter huiuf modi homines, inanis
illa? Quid ergo aliud operiris,niſiuelextinctionem,uel translationem,idý æquo
animo?Quid interim dum eam occafio adducit,tibi fuffi ciet? Quid aliud, quàm
deos uene rari &collaudare,hominibus beneface re,eos &ferre, & ijs
abftinere:quæ cx tra tuæ carunculæ & animulæ ſunt po fata fines,ea
meminiſſenex poſſeſsióis, nco poteſtatis tuæ eſſe? Semper potcs uti
ſecundisſucceſsibus, Gredtæ uiæ in Giſtere uis,duo hæc obferuare, quæ di uinæ
menti communia funtcum homi nis, omnisg ratione præditi aſalis ani mo: unum,
non poſle te ab alio impedi ri:alterum,iniuſta uoluntate & actione | bonum
eſſe collocatum, cumý ad fino efle appetitionesdirigendas: Si hocneg mca
fitmalicia,ncqactio eſtàmeaproficiſcensmalicia:nequcco munitatidāno eſt, quid
folicitus deco ſum?querò dānúě cómunis focictatis? Non debemus nos
cogitationib.om ninoabripiédos præbere, fed opitulari quátum eius fieri poteſt,
& dignum eſt, etiam li in medio lit defectus:ncqueid pro damno ducere.ca
enim cófuetudo mala eſt. Sed quemadmodū ſenex di ſcedens rhombum alumni
poſcebat, memorrhombú cffc.ita etiam hic: quo niam bonú aliquid fiatin roſtris.
Heus homo,oblitus es, adhæc lint? lanè: Sed ca,in quibushiſtudiú
ponát.Propterea tu quoqs ſtultus es fa & us? Aliquando uteung relictus,factusſum
felix. Felici tas auteſt, utbonam tibiipfifortem uendices: id eft,boni motus
ani mi,bonæ appetitiones,bonæ actiones. Aturauniuerfi ſuo guberna tori obedies
eft, acbene có polita: quæ uerò cam guber nat mens,nulláin ſeipſa ha betmalè
agendicauſam: quippenihilei ineft uitij,nc peccat,nc ab ea quic quam læditur:
omnia uerò fecundum cam fiuntatßperficiuntur. Nullo ponein diſcrimine,algenſne,
an calens, dormiturićsan ſomni fatur, malian benè audiens,moriens an aliud quid
agens id facias, quod te decet: quando mors etiã una eft carum a & tio num,
quæ ad uitam referuntur. Sufficit igitur ea etiam imminente, id quodin
ſtat,benè collocare. Intrò refpice.Nullius rei nequepro pria qualitas,neqid
quod cidebetur, te fallat. Omnia quæſubiccta ſunt,celerrimè mutantur, &
autin halitum refoluun tur, fiquidem fit compacta corum ſub ftantia,aut
diſsipantur. Mens uniuerli gubernatrixſcit quó ſe habeat, quid agat, & quá
habeatma teriam ſubiectam. Vlcilcédi ratio optima eſt,ne ſimilis fias cius, qui
iniuriam fecit. Unohocte oblecta, inguno hocac. Quieſce, ut ab una ſocietatis
humanæ tuendęcauſa ſuſcepta actione,ad aliam tranfeas, dei memor. Princeps
hominis pars eſt ea, quæſe ipfam excitat atą cict, feğz talem, qualem
vult,efficit,præſtatý ut ea quæ eue niunt talia, qualiaipſa uult, fibi uidean
tur. 04 Omnia fecundú naturā uniuerG fiúc: negenim poſſunt fieri fecundú ali
ali quam,ſiue extrinfecus circumdantem, fiue incluſam,fiue foris ſuſpenſam.
Vniuerſum aut confufio quædam eſt, & cótextus fortuitus rerum iterum àſé
diuellendarum & diſsipandarú: aut unitionc ordine, & prudétia conſtat.
Si prius illud uerum eſt, quid eft,curcu pia inani huic colluuiei &
mixeuræim. morari? quid aliud expetendum,quàm ut in terram utcungredigar? quid
per turbor?quicquid egero,tamen difsipa tio mc corripiet. Sin altero mó res ha
bet, uencroreú, animoſ conftári ſum, & gubernantimundum confido. Cum te
rerum præſentium ſtatus nó nihil perturbat,celeriterad teredi,neg ultràquàm
neceſſe é, à modoeius quá inftituiſti cantilenæ difcede. Nam co fa cilius
harmoniam tueberis, ſi continen ter ad eam reuertaris. Sitibi Amul
&nouerca, & mater effet, illam quidem coleres, &tamen crebrò ad
matrem te recipercs. Eadem eſtribi ratio aulę & PHILOSOPHIæ. Quarc ad hanc
sæpe numero revertere, & in hacac quiefce, quæ efficit,ut &res aulicæ
tibi tolerabiles uidcantur, & tu duminijs ucrſaris,ferri queas. Quid
cogitandum est de cibis & id genus rebus? hoc eſſe piſcis ca dauer, illud
auis, aut porci: item Fa lernum, ſuccum eflc exiguum uuulz purpuram capillos
elle ouiculæ, modi. co teſtudinis fanguine imbutos: tum coitum,inteſtini parui
affrictioné, mu ciğ excretionem non fine cóuulấone. Cogitationes hæ præclarę
ſunt: nam ré ipfam attingunt,acpertranſeüt, ut qua lis cafit,cerni poſsit.His
per omnem ui tam utendum eft:aclicubiresquàmma ximè uidetur comprobatu
digna,tegu mentis cſt nudanda, ut & eius in cófpe dum ueniat uilitas,&
id,quo fe oftenta bat, ei adimai. Etenim fucus impoſtor eſt callidiſsimus,ac
tummaximèin frau dem inducit,cum quis maximèfe res ſe rias & dignas
tractare putat. Videigit, quid de Xenocrate ipſo Crates dicat: Pleraq,
inquit,corum, quæ uulgus ad miratur, fi fub habitu aunatura conti nerent, ad
latiſsimè patentia genera ré uocabat,utlapides,ut ligna,ficus, uites,
oleas.Quęſubarctiorib.aliquanto, ad animata,utgreges,arméta.Si qua paulò plº
haberćt gratiæ,hęcad eareducebac a cópræhédútur fub ala róe prędita,nó quidé
uniuerſali,ſed quatenus artes tra ctat, aut alias facultates: aut ipſa per fc.
au L fcæſtimabat, ut:quidnam cſſct,poſside remultamancipia.Qui uerò animūra ••
tione præditum cû omnibus ſuis facul tatibus,ciuilis coetus ſtudio uenerat, reliquarum
is rerum nullam curat. Sed omnibus poſtpoſitisſuum animum ita affectum,atgita
fe mouentem, ut ratio ni & ciuili ſocietati cögruit,conſeruat: ijs quiſunt
eiufdem generis, utiden præftent,auxilio eſt. Quædam iam fiút, quædā mox
exiſtent, quin &cius quod fic, pars iam nuncaliqua euanuit. flu xus, &
alterationes continenter mundű renouất: quemadmodum infinitum æ uum temporis
adſiduolapſu nouü ſub indereddit.In hocita @ flumine quifná ca quæ præterferút,
ac quibusinfiftere nonpoſsit, honore aliquo dignetur?is quidem perinde lit,acli
quis unum de præteruolátibus paſſerculis diligerein cipiat,atisiamè conſpectu
cius abica rit.Itafe & uita uniufcuiufque hominis habet,ut halitus a
fanguine ſublatus,& aër inſpiratus. Quale.n.eft quod femel animāattrahimus,
& efflamus,id quod identidemfacimus,tale ctiam eſt, quòd f ac ad all a. ba omnem
reſpirádi facultatem, quam hc ri aut nudius tertius nati accepimus, eò reddimus
unde accepimus.Quod uege tamurmoreſtirpium,reſpiramusmore pecudú, & ferarú,
quòduitsafficimur, quòd appetitionis cauſa mouemur, q congregamur, quòd
nutrimur,omnia hæcnonmaioriſunt in pretio ponéda, quàm quòd excernimus
cibirecremé ta. Quid igitur honore dignü est? num plauſus?nequaquá. Ergo nelaus
quidé populi,quænihil eft aliud quãplauſus 1 nguarú.Sublata igit etiâ gloriola,
quid reſtat, quod ſuſpiciamus & ueneremur? Equidéhoccenſeo, ut quemadmodú fa
ciiinſtructiś à natura fumus,ita mouca mur.Eò nos etiam diligentia opificum,
&artes ducût. Ois.n. ars huc collimat, utid quod paratú eft,aptü fit &
idoneu adopus, cuius operis cauſa paratú eft. Idé querit uinitor,idé qui pullos
equo rum domat,idé qui canes educat. Ergo &inſtitutio primęætatis &
doctrina co contédunt:isý finiseſt,quem expetere debeas. Húc córecutus,nihileft
in alijs rebus quod ſis tibi quæliturus. Quòd fi pergas ES pergas alia eciã
expetere, nec liber cris, neg tibi ſufficies ipſe, negeris affectuú uacuus:neceſſariò.n.inuidebis,æmula
beris,liniſtra ſuſpicaberisdehis, quiilla tibi adimere poſsúc,infidiaberis ijs,
qui? id quodmagni fit à tepoſsidét.Oino.n. necesse est cu esse aio pturbato,
qiſta de fiderat:fępe etiá deos incufare. Quiuc rò mente ſuam reuereturato
colitis & fibi ip, probabitur, & cum cætu homi num bencei conueniet,
cúmque dijs conſentier,id eft,laudabit quæcunque ij diftribuunt &
ordinauerunt. Infrà, ſuper, atque circum te motus ſunt elc métorum. Motus uerò
uirtutisin eorú nullo eft,fed diuiniore quadá, & adin telligendum
difficili'uia procedit. Vide quid aganthomines. Eos qui eodem cú iplis
uiuúttépore, laudare nolūt:ipfi uerò à pofteritate laudari magnü exiſti mant:nimirúabijs
quos ne uiderunt, neq uidebūtunqua.Id uerò haud mul tò aliud eft, quàm ſi
dolerét, non à prio ris etiá ætatishominib. felaudatos esse. Non, li quid
allegintelligétia tua neqs, id daullopoile apprehendi homine exiſti 0 co ert as
f 2ti ma: Sed quicquid homo poreft, quic quid ei conuenit, id &
tibiconcediiu dica.ln palæſtra fi quis unguibus aduer farium
laniauit,autcapiteincuſſo ferijt, nonindignamur, ncq;offendinjur,nco inſidiarum
fufpectum habemus: caue mus quidem nobis abeo,non ut abho ſte, ncquc Gniſtrum
quid de eo ſuſpica mur,tantùm placidè cum declinamus. Id fieri debetetiam in
reliquis uitæ partibus, ucidem de alijsſentianus, quod de ijs, cum quibus
collucamur:poflu muscnim (utdixi) citra fufpitionem & odiűabijscauere,
& cosuitace. Si quis meredarguere poteft, & demonftrare, quòdnon recte
ſentiam,aut agam,læto animo fentétiam mutabo:ucritatem.n. quæro, quæ nemini
unquam dáno fuit; damnum autem facit,quiin crrorc & i gnorationcſua pmanct.
Ego, quodcft mci officij, ago, cætera menonauellúc. Autenim anima,autrationc
carent,aut uiæ ignara errant. Animantia rationis expertia,tú omnes ciuſmodi res
& fub. iccta,magno & liberali animo ſunt ufur panda
tibi,ncmpcrationeprædito. Hominibus uerò, ut ipſis quogmentcin ſtructis rationeſocietatis
habita utere. Inomdisciònegocio deos comproca rc:neos ſolicitusefto,quantum
tempo ris fpatium tibi adagendum detur:fuffi ciúteoim ucitres huiuſmodi horæ.
Ale xander Macedo,agaloß eius, mortui in idem ſuptredacti: autenim aſſumpti
ſunt ad mentēmundicam, qua fati ſunt reliquorum animi, aut diſsipati ſuntin
atomos, unus perinde atgalter. Cum animo tuo conlidera,quàm multa uni co
temporis momento fiantin uniuſcu iuſ @ noftrûm,cùm animo, tum corpo re:ita
fict,utnó mireris, quòdlógè plu ra, imò uerò omnia quæ in mundohoc fiunt,fimul
extent. Si quis à te quærat, quomodo fitnomen Antoniniſcriben dum: nónne
fingulatim omnes literas proferres? Quid ergo fi qui iraſcuntur, num uiciſsim
tu quoque ſtomachabc ris?nó potius numerum inibis placidè; Ingularum rerú? Itac
ctiam hîçmemé to luis omnc officium quibuſdam con ſtare numeris: quos li
imperturbatos ſeruaueris, ncq indignatibus alijs ipfo com Spro MIUS. quog
indigneris,recta uiaid quod pro pofuifti,perficies. Inhumanum effe ui
detur,hominem impedire, ne ad ea fera turquæ ei utilia & cognata uidetur.
At quiid tu ne faciant prohibes quodam modo,dūiniquo animo fers cos delin
quere.Ferútur enim utiqueadid, quod naturæ fuæ coniunctum, & utile putāt.
Sed res nó ita habet. IditaB oftéde eis, & & doce citra
indignationé.Morsfinem imponit ſenſuum motus, & cogitation num officijs,animúģàcorporismini-
situ ſterio liberat. Turpe aút eft in hac uita, in qua corpus tuũlabori nỏ
fuccubit animú tuú elāgueſcere.Videne à pręfé tiſtatu deiectus obruaris.
Poteft.n.hoc fieri.Itaq; cóferua teipfum Gmplice, bo ne núintegrū,graué,apertū,iuſtitiæ
ſtudio fum,piúerga deos, benignú, humanú, ad officiunituendúforté,annitere utta
lite lispermaneas, qualetefacere uoluit phi c loſophia.ucnerare dcos,ſalaté
homini busaffer. Breue eſt uitæ in terra degen dæ tempus,omniſg eius fructus,
ſancta animi conftitatio, & actiones commu- beri pitati hominum utiles.Omniautdecet
Anto SE maig Sophie Antonini diſcipulum.age. Quæ fuerit eius in agendo fecundum
rationem fir mitas, quæ ubiqueæqualitas, quæ ſan ctitas, memento: quæ
uultusferenitas, accomitas. Quantus ille gloriæ con temptor, quod eius in
percipičdis reb. ſtudium, quum nihil prętermitteret,ni fi prius
accuratèperſpexiſſet,ac cogno uiffet.Vt tulerit iniuftè ipfum repræhé. dentes,
neque conuitium his repoſuc rit:ut nihilproperatè aut cupidèaggrel fus fit: ut
calumnias nó admiſerit, ut di ligens fueritmorum actionúmque exa minator:non
obtrectator,conmeticu loſus, non ſufpitioſus, non fophifta. Quàm paucisfuerit
contentus, ut do moleco, ueſte, cibo,famulatu:quàm tolerans laborum,quàm
lenianimo: ut tempusnequeadueſperam propter ui ctustenuitaté egerit,ita ut
neexcernere niſi coſueta hora opus ei effet.Queeius in amicitia fuerit
conftantia, &æqua bilitas: quomodo tulerit cos, qui ipfius fententia liberè
impugnarent,gauilulý fuerit,fi quis melius aliquid oſtêderet. Qua ille deos
religione coluerit citra ſuperſtitionem,recordare, ut iibi quo quc ultima hora
perinde atque is fuit re ¿ te tibi coſcio adueniat. Expergiſcere, &
tcipſumreuocafomnog diſcuſſo co gitans quæ te inſomnia perturbarint,ui gilās ea
intuere,utilla inſpexiſti, Ex cor pufculo & anima con to. Corpuſculo
nihilintereſt interres, neque enim po teft difcrimen ftatucre. Rationiautem
inter ca diſcrimen habetur, quæ nóſunt ipfius actiones: has uerò oés in ſua ha
bet poteſtate. Quod ipſum tantùm eſt de præſentibusaccipiendum,præteritę enim
& futurę animi actiones,ipſe quo que nullum habentiam diſcrimen.Ma
nuiacpedi,dum ſuum agunt officium, nullus eſtpræter naturam labor.ita ho mini
quoqueea agenti quæ ipfius ſunt partium, nullus eſt præter naturam la bor:ergo
nę malum quidé.Quotuolua ptatibus,acquantis frui contigit latro nibus, cinædis,
parricidis, tyrannis? Nonnc uidos ut qui ſordidas profiten. tur artes, uſque ad
certum finem ſe pri uatis hominibus accómodent? nihilom minus tamčſuæ artis
rationcm retinét, nab ea decedere uolunt. Nónne aútturpeft, fi architectus
&medicus magis lux artis rationé reuercatur,quá ſuam homo, quæ quidé ei eſt
cum deo communis? Aga& Europa, anguli ſunt mandi: uniuerſum mare,
guttamundi: Athos, glebula mundi: omne inſtans tempus,púctum cſt æternitatis.
Omnia funtparua,mobilia,interituiobiecta: 0 mnia inde ueniunt, profecta à
principe uniuerfi,aut per conſequétiam. Etenim rictus lconis, lethalia uenena,
omniaos maleficia,ut ſpina, cænú, pulcrarum & bonarum rerum ſunt additaméta,
Non igitur ea aliena ab eo quod colisimagi nare,ſed fontem omnium rerum confi
dera. Qui preſentia cernit,omnia uidit, quæ ab æterno fuerunt, & in
infinitum uſg erunt, Omnia enim ſunt eiuſdem generis, & conformia.Sæpenumero
co gita de omnium in hoc universorerum connexu, mutuag affectionc, Quodá cnim
modo omnia inuicem ſunt impli cata,ca ratione amica mutuò. Aliud enim ex alio
confequitur,propter con fantem motum, ac conſpirationem & fs unitionem (ut
ita dicam )ſubeſſe. Quib. negotijs addictus es ſorte tua, his teac commoda:
& quibus tehominib.fatū adiûxit, cos amore,idig uero,proſeque re.Organa,
inſtrumenta, uaſa, quumid agunt,cuius gratia funt adornata, bene habent et quidéis
qui ea parauit, abeſt abipfis.At in his quæ natura continen tur,remanet, intuſý
eſt uis ea paratrix. Ita tanto magis honoranda eſt, &exi ftimandū, li
ſecundum cius uoluntatem agere perſeueres, oía tibifecundum mé tem eſſe:idéo de
alijs hoíbus oíbusin tellige. Quodcu exijsreb.quæ extra te,negin tua uolútate
ſunt pofitæ,tibi Ppofueris,boniuel malinoie, id, fi uel utmalú tibi cótingat,
uelfi, cú pbono ducas,adipiſcinon poſsis, efficiet ut & deos incufes, &
odio habeas homines quiin cauſa ſūt,aut eo certe noíe ſuſpe cti habét, g
uelmalú hochabeas,uelbo no careas.Propterhác rerú differentia, quam ipfi
ftatuimus, fituc multa pecce mus. Quod fi ſola ea, quæ in nobis ſunt
pofita,bona&mala tractaremus,nihil cauſęreſtaret,ne aut Deú incufaremus,
aut cú hoíbusinimicitias ſuſciperemus. Oés ad eúde finé & effectú agimus:
pars ſciétes, & certo ordine,pars inſcij. Qué admodú &
dormiétes.Heracletus nifal 1 lor dixit eſſe operarios,qui adiuuétlua opera hæc
quæ in múdo fiút. Alius aút alia róneid opus adiuuat:ſupuacanea opera eft eius
qrephédit, & reniticonat ijs quæ fiút, ea reſcīdere:nā & hocuti tur
múdus. Proide animum aduerte, in quorú tute numero reputes. Nã admi
niſtratorhuius uniuerd, utiq tePombare &è, & accipiet te inter
cooperarios.Tu vero ne ſis huiuſmodieorú pars, qualis eſtinfabula uilis ille et
ridiculus versus, cuius mentioné Chrysippus facit. Sólne pluuiæ munia obire
cupit,aut Aeſcula pius terræ frugé ferētis? Quid ucròfyde ra, anno diuerſa
quidélingulis eſt actio, quętnadcómune opus cóferat?Quod fide me & his
quęmihieuenire debue rút, dij cófultauerüt, rectè nimirú mihi confuluerút. Nam
Deum fine confilio agentemnc cogitarequidem facile est: quæautem fuiſſet cauſa,
propter quam malè mibi confultum uoluiſſet? Quid inde ad deos, & ad
uniuerſum (cuius maximè habentróné fru & usredijſſet? Sin de me priuato
nihil conſultauerüt, ac deuniuerſo utigrationes duxerunt, ex quo quum ea
conſequutur que mihi cueniunt,non debet mc eoruinpcenite re.Sanède nulla re eos
confilium inire, impiū eſt credere: autneſacrificãdum, neprecandum,neiurandum
quidé, ne que quicquam corum faciendum,quæ fingula tanquam cum preſentibus
& u nà uiuentibusdijs agimus. Sed tamen fi nihil illi de nobis
ftatuerüt,licet mihi dcmeipfo cóGliú capere, ac demea uti litate deliberare.
Vtile aút eſt unicuig id, quod eſt naturæ eius & conſtructio ni cófentaneú.
Atnatura mea rationis eft cópos, & ciuili cætui accommodata. Civitas mihi
est et patria,quatenus quidem ANTONINUS SUM, ROMA. Quate nushomo,mūdus:hçcigit
tantùm mihi funt utilia, quæ his ciuitatibus condu cunt. Quælingulis cucniút,ca
profunt uniuerſo: id eratfatis ſcire. Sed &hoc addendum, quòd fi
animaduertere uc lis,ubig uidebis: quæ homini, autalijs hominibus * Sed
nuncuocabulumu tilis accipiamus latius, ut etiam medijs rebus pateat.. Quæ in
theatro aut fimili bus locis uides,ca quum ſemper eadem ſpectentur, &
uniformia, fpe & aculiſa tictatem afferunt. Idctiam de tota uita ſentiendum.
Omnia enim fuperiora & inferiora eadem funt et exijſdem cauſis
excitcrunt.quouſ igitur?Adliduooís generis homines conlidera, qui ex om nis
generis profeſsionibus & nationi busmortuiſunt:ita ut ctiam ufque ad
Philiſtioncm, Phoebum et Origanio nem deſcendas. Hic fanè cogitandum, idem
euenturú nobis,quodaccidit tot cloquentibusoratoribus,totgrauibus philosophis: HERACLETO,
PYTHAGORæ, SOCRATI, tot Heroibus prius,deinde tot du cibus, tyrannis: tum
Eudoxo,Hippar cho, Archimedi, alijs acutis ingenijs, magnanimis,laborioſis,
callidis, contu macibus,his ipfis,qui caducam hanc & & in dies durantcm
uitam hominūſub ſannarút,utMenippo &fimilibus.Hos omnes cogitandum eft dudú
eſfemor tuos:quid auté maliinde habent?Quid hi, quorumne extant quidem nomina?
Vnumhocſummi cſt pretij, ueritate iuſtitia feruata,mendacib. & iniurijsho
minibus placidú uiuere. Cùm teipfum oblectare uis, cogita virtutes corú qui
uiuunttecum: ftrenuitatem eius, illius uerecundiam, aut liberalitaté, aut aliud
quippiam. Nihil enim eſt,quòd tantam afferatlætitiam, quantam limilitudines
uirtutum in eorum quibuſcú uiuimus moribus expreſſæ,ac fefe cófertim offe
rentes cófpectui.itaqz in promtu haben dæ.Noniniquè fers, tot libras te appen
dere, &non trecentas: ita etiã quòdan norum certum, & conon maiorem ui
ues numerum, indignari non debes.Etc nim ut corporis tanram, quanta cibi eſt
tributa,portionem probas: ita &de té pore tibi ſentiendum eft. Annitendum
eft nobis, ut perſuadeamusijs cum qui bus agimus: lin minus, etiam illis
inuitis id agendú eft,quod iuftitiæ ratio iubet. Quod li quis ui te
impediat,tranfi adę quanimitatem, eo impediméto ad al terius uirtutis
opusabutere:memor, tc cú exceptione quadaíftituere actioné, negca
appeterc,quęfieri nequeat.Itaq is füitimpetus animi tui, cui ſatiſfiat, ii id,
cuius caufa citatuses, cóſequat. Glo rięcupidus, alienā actioné pluo bono reputat.uoluptuarius
affectioné,quai ple afficit:méte uerò pręditus, ſuã actio né.Licet etiá nihil
de hisexiſtimare.ipſe.n.res nó funt eius naturæ, ut iudiciú no ſtrúefaciat.
Adſuefac te, ut alio docéte cogitationes nó aliò diuertas,fed totus animo
diceris fisintétus. Quodalucari nó pdeſt,id ncapiquidé pdeſt. Sinau tæ malè
gubernét, aut no rectè curétur ægroti,dicúr:alius erat quærendus,cui
mecómitterē: aut quo hic faluté naui gātib. uelægrotis ſanitaté afferet? Quá
multiiam unà cũhis, quibuſcúin mun dum uenerüt, ex múdo exceſſerút?Mor bo regio
laboratib.melamarú uidetur: morfis àrabida beſtia, aqua eft timori: pueris
fphęrula pulcra cft. Quid ergo i raſcor? aut tibi minor uis uidetur elle fal
Gitatis, q bilis apudictericũ, aut ueneni apud morſum à rabioſo animali.Nemo
prohibebit, quin fecundú rationé tuæ naturęuiuas:nec tibi quicqua accidet, quod
fit cótrarónéuniuerg.Qualcsfút illi, quibus cupimus placere, aut ppter qd, g
cis ſuperlis,autper quasactiones? quàm celeriter æuum omnia abſcon. dat: imò
quàm multa iam nunc occultauit? eſtmalicia?id, quod iệpenumero uidiſti.Et quic
quid omnino acciderit, ex peditin promptu te habere hanc rcgula, ſæpeid effe à
te uifum. Om nino fi ſuperiora &inferiora animore petas,inuenies omnia
cadem eſſe, quo rum plenæ sunt priscæ,mediæ, recéteró hiſtoriæ,& urbes,
& domus:nihilnouú eft,omnia uſitata & breui durātia tem pore.Neque uerò
alia ratione extingui poſluntopiniones, quàm cogitacioni bus quæ ijs respondent,
abolitis: quas quidem ut continéter reſuſcites, in tua cft pofitum poteſtate.
Poſſum de re oblata exiſtimare, id quod oportet: li hoc poflum, quid eſt cur
animo pertur ber?Quæ ſuntextra mentem meam, ni hil omnino ad cam attinét. Hoc
modo affectus,rectus eris. Reviviscere potes: nam fi res quas antè uidiſti,
rursus apud animum tuum contempleris, exactam uitæ partem qualirepetes. Inane
pompa ſtudium, fabulæ ſceöi tægreges,armenta,uelitationcs,oſsicu lumcatello
proiectum,auteſca in piſci nám iniecta,formicarūlaborcs,& one: rum
geſtationes,murium perterritorü diſcurſus, Gimulacra ncruis tracta ut le
moucát. In his igit oportetanimo pla cido, &non elato confiftere, &
intelli gere,tanto unumquem dignum eſſe, quâto ea in quibus ftudium fuú is po
ſuit. In oratione ſingula uerba, inijs quæ fiunt, lingulęappetitiones ſuntant
maduertendę: ato hic ftatim uiden dú,quam ad finem cæ referantur; illic
quidfignificent: Sufficitne intellectus meus ad hanc rem, an ſccus? Quòd G
fufficit,utoř cô ad rem propogtam tanquam inſtrume to mihiab uniuerli
naturaconcello Sin g. contrà, aut eam rem alteri cuidam, qui melius id poſsit,
perficiendam relin quo,præfertim fi alioquin id agere offi cium meúnó
iubet:autipfe perago pro uirilimea,adſcito mihi auxiliario,cuius opera
mca'mensid efficerepoſsit,quod in præſentia fitcommodum, & focieta ti
hominum conducat. Quàm multi quondam fucre cele bres, quorum nunc fama eft
obliuioni tradita? quàm multietiam horum, qui iſtos celebrauerunt, è medio funt
fub lati?) Ne ducas tibi pudori, li cuius auxilio uſus es.Propofitúeftenim
tibiid agere, quod fit tuarum partium: perinde ac militiin oppugnatione muroru.
Quid ergò faceres, li tu claudicans folus con ſcendere propugnaculum nequires:
ab alio adiutus,pofles? Ne te perturbent futura. Nam fi ita uſus erit,
peruenies ad ea eadem inftru ctus ratione, qua nunc in præfentibus uteris.
Omnia inter ſe ſunt complexa ſacro nodo és i nodo neg quicquam ab altero eſ
alie ñum, ordincenim omnia certo funt dif polta, unum eundem mundum ex ornent.
Mundus ex omnibus conſtat unus, unusqueper omnia diffufus est d Deus, una
natura,unalex,unaratio cô munis omnibus ratione præditis ani mantibus, una
ucritas:Siquidem etuna eſt perfectio eorum quę eiuſdem funt ni generis,
eiufdemó participia rationis ui animantium.. Omneid quodmateria conſtat, ce
lerrimè in uniuerlo abolei: omois cau io fa, celerrimè in rationem uniuerfi
adlus mitur:omnium rerum memoria quàm 20 primùm æuoconfunditur. id Ratione
prædito animali cadem a. EEtio & fecundum naturam eſt, & fccun dum
rationcm. Rectus,an qui erigatur? Quam ra. Itationem in unitis & compactis
corpori bus habent membra, eatn obtinent ra tione prædita animalia in diullia,
præ parata ad unam quandam actionem. Hæc cò magis animum tuum tanget, ſi crebro
tibiipfi dicas: pars fum cius, quodeſtex ratione præditis conflatū, corporis:Si
autem propter elementum R.dicas te eſfc partem, nondum ex ani mo diligis
homines, nondum ex bene ficentia delectationcm capis, quam ue rè apprehendat
animustuus,adhucde cori tantùm cauſa ita agis, non ut in te ipfumbeneficium
conferens. Sanèalijsquęcun & accidant,corum eft, fi uelint, ca culparc.Ego
quidem re bus mihi contingentibus, niſi in malis eas ducam, nihillædor:&
licet mihi ea non putaremala. Quicquid alij loquantur & faciant, mc quidem
oportet ellebonum:haud aliter,gliaurū uel ſmaragdus,uelI pur pura ſemperita
diceret, quicquid alij dicant, aut faciant, ſmaragdum eſſe o. portet,me colorem
ſeruare mcum. Mensipſa ſeipſam nó perturbat,hoc cſt,non afert fibiipfiullam
cupiditaté autmctum.Si quid aliud eſt, quod pof fit cam terrere aut dolorem
afferre, fa ciat ſanè: ipſa quidé per ſenulla opinio. nc libihosmotus affert.
Corpuſculum ucrò uerò ipſum curet, ne quid patiatur dis cato, ſi quid
patitur.Animonullus me tus dolor,aut opinio horum accidere pót.negem ci
ſunthabitusad hęc. Per le omnimetu mcns uacat, niſ feipfam deftituat:ita
&perturbationis, & im pedimenti exors. Felicitas eft bonus dæmo, ſeu
bonü. Quid igiturtu hic agis phantafia? ubi, unde ueniſti, non enim te
opushabeo. Sed uenifti fecundum priftinam con fuetudinem: non tibiſüccéſco,
faltem abi, Siquis mutationem timct,is cogitet able ea nihil fieri poffe, ncque
eſte ca quicquam naturæ uniuerli amicius.An tu lauare poffes, nifi ligna
mutarentur? aut ali,nifi nutrimétomutato?autquid nam aliud utile poteft abf mutationc
fieri?Non ergo uides etiam tuimutatio nem carum limilem eſſe,ac perinde nc
ceffariam uniucrü naturæ. Per uniuer ſam naturam:tanquam per torrcntem,
tranfeunt omnia corpora,uniuerſo ipa cognata, & eius opcrum adiutoria, uti
et nostra invicem luntmembra. Quot Chrysippos, Socrates et Epictetos xuí iamn
deglutijt. Idem de omnire & homi ne tibiad animum accidet. Vnum
hocmeſolicitumtenet,ne ad faciam, quodhominis conſtitutio aut nolit factum,aut alio
modo, uel tempo re factum velit. Propediem erit, ut et tu omnium re rum
obliviſcaris,& nulla Gtuſquam tui memoria. Proprium hominieſt,ut etiam cos
di Jigat,qui peccant. Fiethocl in menté tibi ueniat, elle cos tibi cognatos, im
prudétia, & inuitos peccare,paulò pòſt & te, & illum qui
peccauit,moriturum; idý potiſsimum,nó lælum te ab co.no enim eius peccato tua
mens deterior, quàm fuerat,facta eſt, Natura mundi, ex uniuerſitatetaną ècera
modò equum finxit,moxco con fuſo, materia iſta ad fabricam arboris
ulacſt,deinde ad homunculi, inde ada. liarum rerum.Harum ſingulæ quá bre
uiísimo duraruntſpacio. Atquiarcula utlicompingatur,nihil eftmali:ita neli
diffoluatur quidé. Irati uultus oío eft cótra natyrä,quádo fæpius immoriedi fit
prętextus,aut ad extremú extinctus eſt,ut oſo inflammarinópotuerit.Hoc ipfo
intelligere labora, irá à ratione effe alienam. Nam fi etiã ſenſus peccati nul
lus erit, quæ erit uiuendi cauſa? Quæcung uides, ea iam iam à guber natrice
mundi natura in alias, rurſuso & deinceps in alias mutabit formas:ut femper
recens fit mundus. Si quís aliquid contra te deliquerit, ftatim cogita quánam
boni uel malio pinionc pcccauerit:id.n.fi cernas, miſc reberis
eius,acneobmiraberis,neq ira fceris.Nam autipſeidé,quodis,bonum putas, aut
aliud quidda eiuſdé generis: venia ergo danda: Sin tu secus de bonis et malis iudicas,
cò placabilioreris ei qui falsus. Non deijs quæ abſunt, tanquam de præfentibus
cogitandum eſt:fed præſentium ea quæ ſunt aptiſsi ma, deligenda funt,illorumg
caulame moria repetendū,quánam rõefuiſſenç quærenda fiquidem abfuiffent.Caueta
men præſentia adeò probes, ut etiam in honore ca habeas,ac fi quãdo abſint,p
turberis.Intra teipſum uertere. Hæceſt natura mentis,utiuſtè agens, in hocg
acquieſcés,nihil extra fe quærat, Aufer uiſå inhibemotum ncruorú, cir cunſcribe
inſtans tempus,cognoſceid quod uclţibi,uel alij accidat, diuide fubiectum in
materiam &formam, co. gita de poſtrema hora, Quod peccatú eſt, ibi ceſſat,
ubi pec cațum ſubliſtit, Intendenduseſtanimus ijs quæ dicuntur,mente
penetrandum in causas et effectus, Exorna teipfum fimplicitate& uere cúdia,
coś, ut quæ ſunt medio inter uir tutem & uitium loco, in nullo ponas di
fcrįmịne, Diligehumanum genus, obſe quereDeq:is enim aitomnia fieri certa lege.
Quod fi diuina ſunt etiam elemen ta. Sațiseſt meminiſſę,hæc omnia certa lege
conſtare,aut admodú paucaſecus, Mors é auţ diſsipatio,qui indiuidua rum
particularum ſecretio,aut exinani tia,autextinctio, aut migratio, Dolorli
fitintolerabilis, mortem af, fert:diuturnus ferri poteſt,interimga. nimus ſuam
retinet tranquillitatem,ne que fit deterior. At partes dolorç con fectæ, ipsæ
quæratur,fiquidem poflunt. Honinum opiniones de gloria intue cil re, quales
Gint, quid propolitụm habc cidant,quid fugiant, Lide Viß in littore maris arenæ
cumuli Co- alij ſuperaliosappulg,prioresoccultát, įta in uita quo priora à
ſubſequenti bus celeriter abſconduntur. Platonicũ.Quiigituranimocſt præ unditus
alto et cognitioné habet omnis temporis, omnisg naturæ,an tu cúpu er tas
exiſtimarç, quòd hominis uita ma - gnum ſit aliquid?Nequaquam,reſpon sc
ditille. Ergo,inquam nemortem qui B: dem in malisille reputabit? Minimè Era
uerò, Antiſthenicum,Regium eftmalè au dire, çum bene feçeris. Turpe eſt uulta
co obſequi intellectuiſco componercita uutisiubeat,cumipfeintellectusſeipſum
non componatat ornet. Namrebus iraſci,nihilfanè expedit: Iram curăt enim
noſtram nihil.Dijslę. tiignaris, & nobis gaudia doncs. Frugiferam uti
fpicam mcæ uitæ mc tam.* At hoc quidem effe, illud nona then Lam LIK trCurl be
Quod ſi dij me, libcross ncgligunt, Ratio eft & huic. Meum enim est bbene
efle et iustitia. Non una lugere, Deg tremere. Platonica. Ego autem haudiniuria
hoc retule. rim.Non rectè dicis, ô homo,liputas ef ſe uel uitam uel morté
aliquo in diſcri mine ponendam ciuiro, qui uel alicu ius fit precij:acnon id
potius unum có fiderare cum inter agendum,iuſténcan iniuftè agat, & eáne
fintuiri boni anue rò fecus.Reienim ueritas, & Athenien ſes, ita habet, ut
quo quis loco ſeipſum conſtituerit,exiſtimansita optimum el fe,aut cum ita
Gtoptimum,cò colloca tus fuerit, ibi (mea quidem ſententia ) perGftere debeat,
ac quoduis pericu lum ſubire,neg mortem, uelullam alia rem turpitudine grauioré
ducere. Sed heus tu,uide,ne animimagnitudo,cibo pum aliud quidpiam ſint, quam
ferua re, & feruari. Neque enim conceden dum eſt,eum reuera uirum
diçimereri, qui quantocuný tempore uiuendum, acquc rationem uitæ habendamputat:
Sed 1 leo sel gar, CO all 1 WC 1 ef Sed eum, qui dehis cura deo commife la,
credens mulieribus, non pofle fa tum ab ullo euitari, id consderandum porrò
ducat, quánam rationetempus uitæ conceſſum fibi quàm optimè exi, Curſus liderum
conſiderareexpedit, quali eos comitaremur, & elementorú mutuæ mutationes
crebrò cogitandæ. Hæ enim cogitationes uitæ humilis for des abſtergent. Bene
eſt à Platonchoc dictum.Etiam cùm de hominibus loq. mur, intuendum est in pes
terrenas. Etc nim qui memoria altius repetierit ho minú cógregationes,exercitus,agricul
turas,nuptias,pacta,ortus,interitus,iu 1. diciorum turbas, uaftitates regionum,
varias. Barbarorum gentes, ferias, lu dus, nundinas, in ſumma, qui colluui cm
illarum, & ex contrarijs compol tum præteritorum aceruum, tantas 191
imperiorum mutationes recoluerit, is ecià futurā præuiderc poterit. Quippe et
candem hæc habent cum præteritis for mam, nem alio possuptmo fieri, Itaçćç Cu
alia edbo en idem eſt, quadraginta, an decies milių ſpacio annorum uitam humanam
exa mines, nihil enim amplius uidebis. Exterra enim nata in terramredacta
funt:quæucrògenus traxeruntcælitus, redicre ad æthercúpolü: fiuehæc quæ dissolutio
complexuum, quibus ato miiunguntur, sive elementorum passio nis expertium dissipacio.
Cibis, potug, & magicis adeo artibus Avertimus currum, & mortis fugi
mus uiam. Flantem diuinitus auram Opus eft tolerarclaboribus, Luctu, lachrymisg
calentibus. Est aliquis te peritior luctæ:quid tú? at rófocietatis humanę
ſtudioſior eſt, non uerecundior, non ita commodè fert ca quæ accidunt, nó ita
mitis homi num peccatis. Vbicung poteft aliquid perfici,fecun dum cómuné dijs
& hominibusratio ncm, ibi nihil eftmali.Nam ubi utilita tem conſequi licet
actionis, quære&a uia proccdit fecundum conſtitutioné i hominis,ibinon cft
uerendum nequid fubfit tog fubfit damni. Vbig & femper in tuacſt
manupofitum,ut ca quæin præfentia di biacciderunt, & approbes piè, &
cúbo minibus quicccum lint,iuftè agas, &ui ſa oblata artificiofe
examinesne, quid non facis perceptum admittatur. Noli aliorum mentes
circumſpicere, ſed cò recta intuere, quò te natura ducit, cùm uniuerli, per ea
quæ tibieueniunt,tum tua per ca quæ tibi ad agendum ſunt propoGta. Id autem
unicuiq ad agen dum proponitur, quod eft eius conſti tutioni conſentaneum. Porrò
ita con ſtituta ſunt & comparata fingula: reli qua quidem omnia corum
cauſa, quæ mente ſunt prædita,nimirumdeteriora pręſtātiorum causa, ratione autem
pro ditorum unum alterius caufa factú cft. Primas igitur inter partes ex quibus
ho mo conſtat, ca pars obtinct, que fo cietatcm humanamreſpicit:alteras,ca,
fibi à perſuaſionibus corporeisillo abſtinet.Rationccnim & intellectu prę
ditimotusproprium eſt,ſeipſum circa ſcribere, &nco ſenſitiuæ,ncqueappe
titiuçmotioniſuccumbere:harumem utrag ctiam brutorum cft. 1 qua Atintelle&iua
principatum obtine re, neq ab illis regiuult:neciniuria, quig pecuius natura
ferat,ut omnibus reli quis ipſa utatur. Tertiú eſt,uacuitas te meritatis &
erroris. Quibus intéta pars princeps,rectà progrediat, ſuis cóiéta. Tanquam mortuo,
&qui hactenus tantùm uitæ uſura fuerit cóceſſa, quod ſupereſt uiuendum tibi
crit fecundum naturam,tanquam ex abundanti. Tu ſolus ca diligens, quæ tibi
fatum iniunxit, contentus efto. Quid enim magis congruum, quàm ut ſingula cue
niunt,ftatim cosante oculos habere, & cum eadem ipfis cucniffent, indignati
ſunt,nouitatem rei mirati, &repræhen derunt ea. Vbinuncijſunt?nufquam. Quid
attinet te corum fimilem effe uel le? acnon potius alijs fuum morem rc linquere,
ipfein hoc effe, utrebustuis bene uraris? Idý poteris præftare, nec
deeritmateria, modò animaduerte, & ftude, uttibiipliin omnibus actionib.
uidearis honeftatem confecutus. Vtri ufgz uerò actionum finis recordandum
cft.Intrò reſpice:intuseft fons boni,ſem per ſcaturiens,fiquidem femper fodias.
Corpus conftare,acneq motu, ncg habitu diffolutum effe debet. Sicutem mens
efficit, ut vultus Gt compolitus & aptus, ita detoto corpore uttale Gt
annitendú eſt. Omnia hæc curandu é, ut ne oftétationis caula Gimulata fint.
Vivendi ars palæſtricæ cft, quòd ſal tatoriæ fimilior,eò quòdipfa quo cu
rat,utad ea quæ incidūt,neq; ancè lune præcognita,parata fit et à caſu tutum
hominem feruet. Adliduò inquire, qualesij fint, quos teftimonium de te
ferreuis, ac quæ co rum fint mentes.Ita nco cos qui inuo luntariè
peccantculpabis,nee teſtimo nijegebis,fiinipfosfontes infpicias,un
deijopinionesfuas,appetitiones hau ſerunt:Omnis animus, inquit illc, non ſua
ſponte priuatur ueritatc: idem sentiendum de iustitia, temperantia, benignitate,
omnibusý limilibus.Atnecef ſariū eſt quâ maxime, id te nunquã nó meminiflc:ita.
n. erga oés crismitior. Dcomni dolorein própru fit tibi co gitare, cum ncg
turpem efle, neqmen tégubernątricem reddere deccriorem feras. Id quog
recordare,multa cú ea quippe hæcnegrationc materiæ, nem ſocietatis humanędamnum
accipit. In maiori autem dolorum numero etiam Epicuri dictum prodeſt,eum ncg
into lcrabilem eſſe,ncg æternum. fiquidem finium recorderis,ac non preiudicium
in * dem habeantcum dolore naturam, ta men occultèmodò moleſta eſſe:ut dor
miturire, eſtum ferre,nauſeare:quorum aliquod li moleftè fers, dic tibiipfi,te
dolori ſuccumbere. Vide neita afficiaris contra inhuma nos, ut homines contra
homines. Vnde nobis conſtat Socratem fuiffc illuſtrem et meliori conſtitutionc
præ ditum? Non enim ſatis eſt eum clariori morte occubuifle,aut peritiùs cum So
phiſtis diſputalic, & patientiùs in frigo re pernoctalle, & Salaminium
abdu cere iuſſus,fortiter rcpugnaſſe, acíuijs maieſtatem uultus præ ſe
tuliſſe,dequo maximè dubitari poteſt an uerú id fuc rit. Sed hocconſiderandum
eſt, quo ani mo fuerit Socratcs,an potuerit conten tus efle, Siiuſtumfc hominibus
præbe ret, ac pium erga deos, annequç teme rè ob aliorum maliciam
litindignatus, nec ullius inſcitiæ ſubferuiuerit, an ni hil corum quæli
uniuerſi natura attri buiſſet, tanquam peregrinū autintole rabile acceperit,
nunquám ne affecti bus carnis conſentientem mentempræ buerit. Non ita confudit
omnia natura,ut no liceat circúfcribere ſeipſum, & quæ ſont propria cuix,
caipfum in ſua reti nere poteftatc.Admodum cnim poſsi bile eſt,ut quis diuinus
uir fiat,acă ne mine cognoſcatur. Hụius ſemper me mento:atqhuius etiam,
quòduita bca ta in pauciſsimis rebus eft pofita. Nog guia deſperattice
Dialecticú autPhyl cum futurum,iccirco etiã liberú,pudi cum,fociabilem,deog
obedientem to fieri poſſe. In maximaapimi uoluptate licețui uere, tutum ab omni
ui,utcung omnes quæ uolunt contranos clamitent:etia li corporeæ huius molis
membra å ferig laniétur.Quid enim obſtat,quominus intcrim meas ſeipfam conſeruet
in tran hic 10 5 quillitate,uero de rebus præfentibus iudicio, & uſu corú
quæ ſuntpræma. nibusexpedito: ita quidem ut iudiciú rei fubicctæ dicat: fanè cu
natura tua họces,etfi aliud uideris:urg ulus dicat rei oblatæ: Ego te quærebam.
Semper cnim id quod adeſt, materia mihi eſt exercendæ uirtutis rationalis &
ciuilis, omninog uirtutis humanę aut diuinç. Omni enim id quodaccidit,deo eft
aut homini familiare,ncgnouum, ncgin fractabile,ſed conſuctum & tractabile.
Perfectio morú hocpręſtat,ut omne diétanquá ſupremūagas,nihil tremas.
nihiltorpeas,nihil Gmules.Dij, cu Gar immortales, tamen non indignè ferút,
quodin tam diuturno zuo ſemper om nino tot improbos homincs perferre debeant:
quinimo illorum curam fum mamgerunc. Tuautem qui iamiam cef
fabisuiuere,defperas,idg unus è numc romalorum.Ridiculumeft te non fuge rc
tuáipfiusmaliciam, id quod potes, aliorum uelle fugere, quodnonconce ditur
tibi. Quicquid rationalis et ciuilis tua uis inuc vn. ich inuenerit nc rationi cóſentancū,ncq ad
focietatem conducens, id rectè ca indignum iudicabis. situ benè alicui feciſti,
& cſt, quià to beneficium acceperit, quid præter hæc duo tertiumaliquid
requiris ftultorü more,ut & uidearis bcnè feciflc, & gra tiam recipias.
Nemo defatigatur accipi endo aliquid utile. Atqui utile tibi cita tcſecundum
naturam aliquid agere: nc igitur dum alij prodes, dcfatigare tibi aliquid boni
parando. Vniuerfi natura olim ad mundum fa bricandum fe contulit:nunc autem uck
omnia quæ fiunt, confequétia fiút ſua,, uel ctiá in præcipuis corum, ad quæ fa
mundi gubernatrix natura confert, ra tioninullum locum efle & cóGlio, tené
dumeft. Hoc, & memoria tencas, multis in rebus animo ut his tranquilliori
cffi ciet. hs 1 'D quoqad minuendamglo riæ cupiditatem facit, quòd non licet
tibi adhuc totam uitam,quæàprima tuaæta te fuit,philofophicè uiuere: fed cumul
tis alijs, cum uerò tibi ipli manifeſtum eſt factum,teproculà PHILOSOPHIA abef
fea Gonturbatæ igitur funt tuæ ratio nes.cumaço ipfeiam nomen philofo phi
facilèpoſsis adipiſci, & tuum inſti tutum repugnet. Siitaque uerè perfpe xiſtį,
in quo litrespofita, omitte curare quis habearis:fatis autem fit tibi fireli
quú uitæ arbitrio naturæexigas. Quid ca uelit, cogita, hinc te nihil diuellat.
Expertus enim es circum quotres ua gatus,nufquam uitam beatam inuene ris:nonin
ratiocinationibus, non in di uitijs, non in gloria, non in voluptate, nullibi.Vbi
uero eſt?in agendo ea, quæ hominis natura requirit.Quomodo ita aget? Si
eahabeatdogmata,à quibus có ſentạneæ appetitiones &actiones ueni
ant.Quęſunt illa?debonis& malis.Sci licetNihil, effebonühomini, quod nó
reddit iuftum,temperantcm,fortem, li beralem:nihilmalum,niſi quod horum
contrarium efficiat. In omni actione à teipfo quere, qua lis ca tibi Gt. Nec
poenitentia eiusmoue re:parum abeſt, ut moriaris, &omnia è medio fint. Quid
prætcrca requiro, li præſens a &tio animalis eſt mente prædi ti,ſocietatis
hominum ftudiofi et deo æqualis. Alexander, Caius, et Pompeius, quid hiad
Diogenem, Heraclitum, vel Socratem? Hi enim nouerant res, earum cau
ſas,materias:ita erant ipſarum mentes. inſtructę.Ibiuerò, quibusin rebuseſſet
prudentia, & feruitus. Nihilominus cadem facicnt,eciam litute ruperis.
Primum cſt hoc,neperturberis:om nia ſecundum uniuerli naturam eucni unt:paulò
pòft,nuſquam eris,ficut núc Adrianus & Auguſtus. Deinde in rem ipfam
intucre,eamg cólidera,recorda tusoz debcrc tc eſſebonum uirú, acad hominis
natura uelit, ageid quod pro pofitum eſt cóftanter, aciuſtiſsimetúc te egiſſe
puta:modòplacidè,uerecúdè, & citra ſimulationem cgeris. Vniuerli naturehoc
agit,ut quæ hoc modo habcnt,aliòmPomba, & exuno lo coin alium res
transferat: Omnia con Itant mutationibus, neß quicquã mc tue: nihil enim
noui,omnia uſitata cue niunt, & æqualiter diſpenſantur.Cæte fum unaquęg
natura,firccta uia ingro diatur,fibiipfi fufficit.Natura autem in tellectiuaid
facit, G'in cogitationibus, id obſeruet,ne falſo,aut obfcuro aftipu letur:
impetus animi ad eas folum actio ncs dirigat, quæ faciunt ad ſocietatem hominum:
catantum appetat & uitat, quæ in nobis funt pofita: omnia quæ à communi
natura tribuuntur grata ha beat.Hiuius enim pars eſt,bcutnatura fi lij,naturæ
ftirpis pars eſt: nifiquod hæc eſt eius naturæ quę & ſenſu & intelle Au
carcas,impedirepoſsit:Hominjsną gratis
non iraſci. tura,pars eſt naturæ quæ impedirinon poſsit,intelligat,& iuita
fit:liquidem æ qualiter, & pdignitate uniuscuiuſuis tempora,ſubſtantiam,actionem,
& eué ta diuidit. Congdera autem æqualitaté că inuenturum te fifingulas res
exami nes: finunam cum uniucrGs conferas, non item. Atqui licetlibidinem
arcerc,uolup tatibus &doloribus ſuperiorem eſſe, item gloriola: licet ctiam
ſtupidis & in Nemo te audiat uitam aulică repræ hendere,ac ne tu quidem
teipfum. Penitentia eſt repræhenlo quędam fui ipfius,propter bonü aliquod dimif
ſum:bonú uerò,oportet utile effe, ideo qúe ciºcura é haběda uiro bono & ho
neſto.At nullus talis pænitentia ducc turobneglectam aliquam uoluptatem, ergo
uoluptasncqin bonis eft, ncoin utilibus numeranda. Resita expédendæ ſunt.Quid é
hocp ſc, & fua, ppria cóftitutionc? ģei° ſubită tia &materia, quæ
forma?quod eius in mundo officiú,ac quandiu permanet? Si difficulterà fomno expgiſcaris,
reminiſcere conſentaneum eſſe tuæ conſti tutioni, & naturæ humanæ, ut
aliquid agas quod coetui humano pſit. Atdor mire,etiam brutis eſt communc. Quod
autem unicuiq ſecundum naturam eſt, id & magisproprium ei eſt, &
cognati us, adde etiam gratius. Hoc aſsiduo & quibuſcũæ incidétibus
cogitationib, li fieri pofsit, in promptu habendum. Si de natura,
affectibus,aut alijs reb. diſputare cum aliquo libet,ftatim teip fum antè
interroga: Quænã is ſentit de bonis &malis.Nam opiniones de uolu ptate
& dolore, eorumg efficientibus, de honore, ignominia, morte, uita. Non
debet mihinouum aut mirum uideri, li quæ res hoc aut hoc modo a gát: cogitabo
em, ita opus efle fieri. Co gitabo, licut turpe fit uelle me in mira culum
raperefificus fructum ſuum pro ducat, ita etiam, fi mundus ea proferat, quorum
eft ferax: etiam medico & gu bernatori turpe fit mirari uelle, li quis
febricitaret, aut fi aduerſus uentus exi Iteret. Memento mutare ſententiam,
& re aệ & èmonentiobſequi,perindeeffe libe ri. Tua enim adio fecundum
tui animi impetum fit atque iudicium, tuamo mentem. Siin tua eſt poteſtate,cur
facis? linin alterius,quid repræhendis? atomósne, an Deuni? quorum utrungeſt
cum inſa nia coniunctum.Nihiligitur repræhen dédum.Nam fi potes,uel eum qui cau
ſa eſt,corrige,ucl,fi prius nequis,rem ip fam: lin neutrum,quid iamtibi profuit
repræhēdiffe? atqnihil fruſtra faciédű. Quod moritur,non excidit è mun do:nam
ut conftat, & mutatur, ita etiã diffoluiturin elementa, quẹtibifunt cũ
mundo communia.atq hæc ipfa ctiam mutantur,negindignè ferunt. Vnum. quodgeſtad
certum finem factum, ut uitis,equus.quid mirum? etiam ſol, & reliqui dij
pofluntdicere,cuius rei cau fa facti funt. Tu ucrò cuius cauſa? num uolupta
tis? uide an hocferat intellectus. Natura confilium inijt de uniuſcuiuſ
quereitam finc,quàm initio & duratio nc. Si quis pilam inſublimçiacier,
quid h nam ea uelcûm effertur, uclcum defert, aut cadit quid bonimaliucpatit?Quid
bullæ boni accidit fi conſtet,autmaligi diffoluatur? Idem de lucerna poſsisin
telligere. Cogita quidfiat corpuſculo Genelcat, ægrotet,fi ſcortetura Breuis uita
cft & laudantis, & cius q laudatur, cius quimentionem facit, &
eius, cuius mentio fit:prçterca fit hocin angulo portionis mundi, acncque ibi
quidem omnes contentiunt, imò nelie bi quidem ipfi quifqua. Tota ucrò ter ra
punctumeft. Animum aduerte ſubicctæ opinio. ni,actioniaut di&to. Meritò
hçcpatcris, malles uerò cras bonus fieri quàm ho dic. Siquid ergo, id ita fit à
me, ut ad benefaciendumhominib.referatur.Ac cidit mihi aliqd,referoidad Dcos,
om niumg rerum fontem,& originé,à qua omnia inter ſe connexa dependent.
Lauare,quæ tibires uidetur? Oleum, sudor, sordes, aqua, ſtigmenta: omniaab
ominanda.Ita fe omnis pars mundi, om nisgres ſubiecta habet. Lucilla Verum,
deinde Lucilla fecunda Vini, da Maximum.Secunda Diotimum,Fau Itinam, Antoninus
hæc omnia. Cęterű Adrianum, inde Celer. * Vbi ucro auſte ri illi &uates,
& inflaci? ut ex auſteris Charax, et Demetrius Platonicus, Eudemon, &
fi qui alij tales. Omnia in diem durant.iampridem mortui ſunt:quorú dam ne
minimo quidem tempore dura uit mcmoria: quidam fabula facti ſunt: ponnulli
etiam c fabulis jam cuanue rűt.Idigiimemoriatenédú, g necelſeç rit autdiſsipari
tuâmixturā, autextin guianimulă,autmutari,ctaliò trasferri. Læticia hois é, ut
faciat quæciſuntp pria.Propria aút cius funt:beneuolétia crgaſuũ
genus,cótéptusmotuúq ſunt in lenGb.diftin &tio inter uiſa pbabilia,
cótéplatio naturæ uniuerfi, & corúqſe cundú că fiút.Itě tres refpeétus:unus
ad cauſam pximā,alter ad diuină çaufam, à quaoíaoíbus cueniüt,tertius ad cose
nobiſcü uiuút. Doloraut corporima lus é:ergo ipfum id pnúcict,autalo.Scd
animuspoteft fuam tranquillitatem & ferenitatcm conferuarc, ncc dolorem pro
malo ducere. Omnc enim iudici ým, omnis impecus,appetitio, & inclinatio
intus eſt:ncq.ci dolorquicquam mali affert. Quare omnia uila tolle ex animo,
Continenter te ipſum admone:Núc in mea cft poteſtate,ut in animo hocni
hilfitmaliciæ,nihil cupiditatis, nihil. cu multus: accum omnia ita cernam, uti
funt, fingulis utor pro ipsorum dignitate. Hoc tibi licere,memineris fecúdum
naturam. Loquere & in ſenatu, & cum quibus cunghominibus compofitè.Sana
ora tione non eſt apertè femper utendum. Aula Augufti,uxor,filia,ncpotes,po
ſteri,ſoror,Agrippa,cognati,proping, amici,ſoror, Agrippa,cognati, propinqui,
amici, Areus Mæcenas, niedici, sacerdotes: omnino totam aulam mors
abripuit.Deinde etiam accede, ubinon unusmodò eſt mortuus homo.Defecit tota
Pompeiorum gens:hincmonimen tis etiam inſcribi uidemus,fuiſſe aliqué cius
familiæ ultimum. Quàm anxij uc rò fuere maiores cius, ut aliquě ſuccel forem
relinquerent: & tam necesse eft aliquem efle ultimum. Vita componenda est
ita, ut conftet uniuſcuiuſ actionis ratio. Quarum li unaquęg ſuum, quantum cius
fieri po teſtpræſtet officium, contentus fis:at queid quominusfiat,nemo tibi
obfta re poterit.Sedobftabit,inquis, aliquid extrinſecus. Nihil quidem,
quodiufti ciæ,modcſtię &prudentiæ impedimen tolt. Atqui fortaſsis
aliquiduim agen dihabens impediet? quin tu id impedi menti boni conſule, fico
ftatim facto tranfitu adid quo conceditur moderá to,alia emergertibi adio, quæ
ad cam, de qua loquimur, conſtitutionem qua dret.Accipiendumline faſtu,
dimitten dum cum facilitate, Si quando uidiftimanum abſciſlam, uelpedem,capútuc
amputatum alicu biſcorâmă corporciacere,cogita ei ſe adfimilarc pro uirilifuahunc,
qui im pá bat ea quæipli eueniunt,ſeg à commu ni ſocietate feiungit,aut agit
aliquid ab čaalienum, Ita tu te ipſum ab unitione Dáturali abrupiſti,cuius
eraspars narº: nücuerò teipſum abfcidiſti.Id uerò fei tum eft, quòd iterum tibilicetei
adiun gi:id quod nulli alij parti deus
concef fit, ut ſeparata & auulla rurſum inoleſce ret toti.Hicmihi bonitatem
conlidera, quæ homini tantum honoris detulit. Nam & initiò iplius in manu
pofuit,ac à toto auelleretur: & deinde, ut auulfus redier,iterug
cócreſcerco locü partis recuperarepoſſet, dedir. Nãquéadmo dugngulç ferè
rationis cópotes naturą ab ea cæteras facultatcs, ita nos quoß hanc ab ipſa
accepimus. quemadmo dumenim ipſa omne id quod obftat & rcfiftit,cóuertit,
& fato fubijcit, ſuam partcm efficit:ita animal rationc prædi tum poteft
omne impedimentum pro ſua materia accipere,coğuti adid, qd intenderat. Note
cogitatio totiusuitæ confuna dat: neq animum aducrte ijs,quæ mul ta uidentur
dolorem poffe afferre.Sed ſingulis rebus oblatis à te ipfo quæro, quid náca in
rc Gtintolerabile:id cnim pudebit te fateri.Deindememineris,ne que præterita
tibi, ncquefutura ullam afferremoleſtiam, fed præſentia tantű. Achæc
cxtenuantur,& fuis ca limiti, bus, determines, cogitationem tuam
redarguas,fi ca tam cxiguæ reinó Grfo rendæ. Num iam domini tumulo adfident Panthca,
aut Pergamus? Num Adriani sepulchro Chabrias & Diotimus? ridi culum hoc.
Quid verò G adGderent, ſentiréntne illi? autuoluptatem cape Tent, fiquidem
ſentirent? aut fi cam ce piſſent, an coimmortales eſſentreddi te? Nónnchis
quoquefatum fuit,ut ſencs &uetulæ priùs ficrent, inde mo scrétur? Quidautem
illi poftmodò fa ciét, his mortuis? Oia hæc fætida funt, & tabus in facco.
Si acutèuidere potes,afpiccetquàm fapientiſsimè iudica,inquitille. In
conſtitutionc animantis mente præditi nullam inueniouirtutem quæ iuſticiam
cxpellat: Sed quæ uolupra. tem cijciat,uidco continentiam. Si tuam opinionem
detrahas ab ea quod uidetur dolorem afferrc, ipfe in tutiſsimo es collocatus.Quisipſe?
Ratio.Verùm ego, inquies, non ſumra tio.Efto.Proinde ratio ſeipſamnedolo re
afficiat:Si quid aliudin te eſt quodlæ datur,ipſum de fe iudicet. Cùm impedit
fomnus aut appetitus, idmalú accidit uegetatrici animæ: quæ &alia ratione
offenditur. Ita fi mensim pediatur,fitcum damno mente prædi tę naturę.Hæcoía ad
te tranſfer.Dolor, uoluptas,attinguntte?Si uiſus impedia tur
quominuscernat,impedituriã fen ſus. Quòd fi abſos exceptione aliquid
appetis,iamid cú rationis capacis par tis incommodo fit:lin communetibi p
poſitum eſt, neg læſus es, nec impedi tus. Mentis quidem proprias actiones
nihil aliud impedire poteft:nonenimac tingitur ab igni ferro,tyráno,autcalum
nia,aut alia ulla talire. Sphæra cum fit,rotunda manet. Indignum eſt, me mihi
ipfi dolorem afferre,quinullum unquam aliúlubens læferim. Alijs aliæ res
læticiam afferunt:mihi, fi pars mei princeps fana ſit, ne auerſe tur quenquam
uel hominem, uel humanum calum:Sed omnia placidis afpici at oculis, omnia accipiat,
ijsý utatur uti dignum est. Difce præsens tempus tibiip, gratificari. Qui
commendationem pofterita tis magis curant,nó reputant dos horú Similes
futuros,quosnuncægrè ferunt, argipä сcia mortales. Porrò quid om nino tua
intercít, a talibusi) uocibuste cantent,autita de te fèntiant. Tolle mc, &
ponc quocung uoluc tis, ibi enim utar genio mcopropicio.i. cótéto,& habeat
ſe &agar naturæ mica confequenter. Id uerò an dignum eft,ut malè props
tereàhabeatanimusmeus, ac feipfo de terius?abicctus, appetens, anxius;per.
territus? Ecquid co dignum inueniam? Homini dihilaccidere poteft quod nó fit
humanum, nccboui,uiti,ſaxo quic quam, quod nonlit confentaneumcius naturæ. Quòd
fi unicuigid contifigit; quod & cófuetum eſt,& naturale,quid eft cur
indigneris? nihiliticoletabile ci bicommunisadfert natura. Sin propter
cttrancam aliquam ré perturbaris: nó A illa tibi,fed tuum de ea iudicium, molc
ſtiã affert: id uerò ut abolcás, in tua eſt poteſtate. Quòd fi quid eorú quæ in
te ſunt, te moleſtat, quis eſt qui prohibe at,ncopinionem emendes? Similiter Gi
doles te hocnon agere,prodeft cogi tare,curnon potius agasaliquid, quàm doleas:
ſin aliquod potétiusobſtat,no li dolere, cùm nófiat tua culpa,neagas. At
uidetur ujuendum non elle,nig hoc agatur: placidus ergo uitam relinque: quádo
&is qui agit,moritur æquusim pedientibus. Memento partem tui principem ſu
perari non poffe, cum in ſe collecta fc ipsa contenta est, neque quicquam pre
ter uoluntatem agat, etiam fi noninftru eta ratione pugnam conferat. Quid er gò
fier, li étà rõe parata, circúſpectè de reb.iudicet.Itaqmés ab affećtibus libe
ta,arx é: nihil.n.munitius homo habet, quò refugiés fuperari nópót.Id qui nó
uidit,indoctus est: qui uidit, ncq eòrc fugit, infortunatus. Siqd uiſa aut
cogitationes tibi renú. ciāt,caue aliquid cu addas. Renunciacú 'cit, eft,aliquem
tibi malè dixiſſe. Eftoid al latum,non taméid quo $,cflc teleſum. Video puerú
ægrotare:uideo, sed g inpericulo Gt,non uideo, Ad hunc modú ſemper ingifte
primis uilis, nihilipfein tus adijce:ita nihil mali erit.Imòhocad 1.dc,noſlete
omnia quæ in mundo cuc niunt. Cucumis amarus cit,omitte cum: uc i pres in uia
ſunt, declina cas:ncq uerò dicas, Cúrnam hæcin mundo sunt facta. Ridereris enim
ab homine naturæ rerű indagatore, haudſecus quàm à fabro aut futore, damnares
quòdinofficina ramenta & reſecamenta operum uide: res.Atquihi ca poſſunt
aliquo abijce re: uniuerli natura nihil extra fe habet. Verùm hocin cius arte
potiſsimùm mirari decet, q cùm ſeipſam circumſcri pâffet, omnia quæ in ſe
habet, quæ ob noxia corruptioni,ſeniog, & nulli ele uſus uideantur, in
ſeipſam tranſmutat, rurfus ex his alia noua efficit: ita utne que fubftãtiá
extra ſe requirat, neqlo cum,quò uiliores res eijciat.Contenta eſtigitur
ſuoloco,materia:& arte. Neqin rebus agendis flu & uandum eſt, ncqucin
communi uita turbandú, ncquecogitatiouibus uagandum, nego omnino animus
contrahendus, aut fü bito impetu efferendus,ncg uita occu pationibus inanibus
attcrenda.Cædes peragunthomines, mactant,exccran tur: quid hęc poffunt,quominus
mens tua permancat pura, prudens,modeſta, iufta? Quemadmodum fi quis limpido
& dulcifontiaſsiſtens, eiconuicium fa ciat:illa quidem ob id non ceſſat
purā aquam ſcaturire: quin &fi quis lurum, aut ftercus inijciat,tamen
ſtatim illa dif fipabit atą eluet,ncgabijs obturabit. Quid ergo agendum, ut
fontemper en nem habeas,non ciſternam? Compone te ipſum,ut fis ad oés horas
liber, man fuctus,fimplex,uerecundus. Qui neſcit effe mundum, neſcit ubi ür.
Qui neſcit, cuius rei cauſa fit natus, ncß quis ipſefit,neq; omnino mundú
cflefcit.Quorum alterutrum cui decft, is cuius gratia extiterit,dicere ncqucat.
Vter uerò tibi elegantior uidetur, isą plaudentium fugit laudem,anilli, qui ac negubi,nequc
qui fint,cognoſcunt, Laudari cupis ab hic, & feipfum ſpa cio unius horæter
execrat?placere uis homini, qui ne fibi quidem ipfe proba tur?nifi is
probeturlibiipa,qui ferè om nium eorum, quæ egerit,poenitétia cor ripitur. Non
iam tantùm unà ſpirandus eſt circumfuſus aër, fed & confentiendum cum méte
quæ uniuerfa complectitur. Haud em minus uis intellectrix omni ci, quod cam
trahere poteſt,circumfu fa eft, quam ſpiritus ſpirare uolenti. Generatim
malicia mundo non ob eft:inſpccie auté,nihil lædit proximu: Soli ci obeltcui
& conceflum eſt, ut cũ primüita uolucrit,liberari ea poſſit. Non magis ad
meam uoluntas alie na pertinet, quam uel anima eius, uel caro.Nam etfi maximè
uerum eft, una noftrûm cffc alterius cauſa natū, tamé principes noftrum partes,ſuum
quæli. bet dominium obtinct.Etenim curalte rius malicia,mihieſſer malo? cum non
Elit uiſum Deo,ut in alterius Gt potefta te, cſſemeinfelicemSol diffufus effe
uidetur? atæ omni. no quidem fufus eſt, non tame effuſus, Fulio enim
eius,cxtenſio.Itaq & fulgo res eius, quos nos radios,actinas ab ex tendendo
Græci dicunt. Quod autem Git natura radij,uidere eſt, fi inſpiciaslu men ſolis
per anguſtum in umbrofam donum immiffum. Recta enim im mittitur, &
diuiditur ad obiectum foli dum corpus, quòd aërem intercipit:ibi ucrò
permanct,ncq decidit. Ita &intel lectum fundiac difundi, non tamen ef fundi
oportet: quippe utextendatur,ne quc ui & temerario impetu ad obiecta
impedimenta impingat:ne concidat, fed perftet, & illuftretid, à quo acci
pitur, id quidem, quòd eum transmit tet,ſplendore ſeipſum priuabit. Qui mortem
metuit, aut amiſsioně ſenſuum timet, aut diuerfum fenfum, Quod& amitượt
ſenſum,nihilutig ma lifenriet; lin alium ſenſum adipiſcetur, aliud erit animal,
neg amittetuitam. Homines unus alteri cauſa natifunt, Diſccigitur,aut fer,
Aliterjaculú,alitermens fertur.Hæc enim etâ cauta ſit, &in deliberatione
uerſetur, rectà tamen fertur.ingredi in principem cuiuſuis partem: præbet au
tem etiam alij unicuique ingredi in ſu am principalem partem. Viiniuſtè agit,
impietatis reus eſt. Etenim cùm uni uer natura ratione prędi ta animantia eò
effecerit ut quantum eius dignum eft,unum alteri profit,noceatautem ne quaquam:
qui uoluntatem cius præua ricat, impius utißeſtin omniú dcorú primam.Acqui
mentitur,etiam impic tatisin candem dcam fefe obligat. Na tura enim
uniuerfi,corúcſt natura,quæ funt:hęc autem omnia interfecognata funt. Porrò
autem cadem Veritas dicituf,uerorųý primaeft caufa. Quii. tagſtudiò mentitur,
cò quod decipit, impius eſt: quinon dedica opera,eò, p ab uniuerh natura
diſcrepat, &quòd præter decorum agit, repugnās uniuer, b naturæ:repugnatenim
ei, quiin con frariam partem à ueris deflectit, prætop quam iplius natura
ferat, quęcioccalio nes præbuit, quibus neglectis non pót jam uera à fallis
diſcernere. Impietatis reus is quoque eſt, qui uoluptates tan, quam bonum
appetit, dolorem utma, lum fugit.Hic enim peceſſe eſt ſæpenu merà incufet
communem natura,quae ſi ça aliquid præter dignitatem bonis malísue
tribuerit:ppterca, quod fæpe mal¡ uoluptatibus fruuntur,cag.quib. efficiútur eæ,poſsidet:boniuero
dolo re afficiunt, & in caufas dolorişincidūt. Jam qui dolorem metuit
mețuet aliquá do aliquid eorum,quçinmundo fient: įd uerò impium eſt.Rurfus qui
uolupta tem confectatur,non abftinebit fe ab in juſticia:id uerò palàm impietas
eít, O portet autě ad ea,quæ natura in utraq partem æqualia effecit (nca cnim
utra que feciffet,niſi ad utranæ partem exx quoſe babuilſet)eum qui naturam
uult lequi ducem, fimiliter æqualiter eſſe ef fectum,Ita & qui dolores
& uoluptates, mortem & uitam,gloriam & ignomini am,quibusæqualirationcutitur
natu 14, nonin eodem ponitmomento, pro culdubiò impiè agit. Quod auté dixi,
Naturam communcm ijs exæquo uti, ita intelligendú eſt,qdea cueniút in u traque
parté conſequentia quadam, iu xta antiquum prouidentiæ impetum, quo illa ab
aliquo principio ſe ad res i ta diſponendas contulit,complexa ra ționes quaſdam
corum quæ ellent futu ra, deſtinatis quibusdam facultatib. ex quibus
nafcerentur ſubicctæ, muta ţiones, & fucceflus eorum, Gratiofius quidem
crat, hominem mendacij, fimulationis, luxus & ſuper biæ omnis inexpertum
mori: ſecunda (aiunt)nauigațio eft,fatietate horum af fcctum antemigrareè uita
quàm illa ui tia probare. Nondum ne tene experien tia quidem docuit,utpeſtem
fugias? Pestis enim eft ca intellectus corruptio, lo gè magis, quàm aëris
quædam intempe' ries ifta &mutatio. Hæc enim animali peftis eft,quatenus
uiuitillud: hæcho minum, qua ratione ſunt homines. Mortem non contemne, boni
camć conſule, quippe remexijs unā,quasna turadecreuit.Qualcenim eftiuueneſco
re, ſeneſcere, augerc, uigerc, dentes, barbam, canos ferre, liberos crcare,
uterű ferre, parere, reliquæ $ naturales effe ctioncs, quas tempora
uiteadferút, tale eft etrādiffolui. 'Hominis ita ßrationc utentis cft,mortem
ncggraucm,ncquc uiolentam, neg contemnendam rem exiſtimarc,fed operiri eam,
tanquam u nam è naturalibus actionibus:perinde atque nunc expectas, quando
fætus ex utero tuçuxoris edatur, ita expectanda etiam hora, quaanimula tua ex
hocre ceptaculo excidat. Quodfi rudequidé, ſed taméquod corattingere poſsit,do
cumentum accipis,omninò ut facile fo ras mortem efficiet, fi cogites, quales ij
fint à quibus diſcedas, & à quorum morum litanimus tuus ſeparandus col
luuica luuie. Iraſci quidé ijs qui tecum uiuút, nequaquam debes, ſed corum curā
gc rere,ijsý placidum te prebere:Cogitan dum tamē tibi eſt,te ab hominibusnon
idem tecum fentientib. diſcedere. Hoc enim unam erat,quod poterat retinere in
uita', G fuiffet homini datum uiuere cum ijs,quieademſentirent:Núc uides quàm
laborioſa fitinter unà uiuentes diffenfio,ita ut dicas:ô mors, uenicele riùs,ne
quádo ipſe quog meiipfius ob liuiſcar. Quipeccat,abiipfi peccat: quiiniuftè
agit, & biipfi iniuftè agit, ſco malum efficiens ipſum,lædit. Sæpenu merò
iniuriam facitis qui nihil agit, nó is modò quiagit. SiadGt certa de rebus
fententia, & a ctio ſocietatem humanam ſpectans, & animus ita affe
& us,ut boni cóſulat om nia quæ accidunt præter id quod eſt à cauſa
profectum: hæcli adfint, ſuficiút ad opiniones tollendas, Gftendum im petum
animi, extinguendum appetitú, &habendum paratam apudſeſc parté principalem.
Vna uita brutis animantibus eft dis tributa:unamens, rationem adeptis.
Qucmadmodum una eſt terrenorú ter ra, & unam lucem uidemus, unum aêre
trahimus. quæcáqucuidendi & uiuédi uim habcmus. Quæ commune aliquid
habent,con tendút ad id quod eft eiufdem generis. Omne terrenum ad terramuchit,omnc
item humidum, aut aërcum ad ſuum iti dem genus,ita ut neceſſe fituiea inde in
tercludi.Ignis furſum effertur, propter clemétarem igncm: omniuerò hic igni
aliquid eſtparatum utinflammctur,ita ut omnis materia paulò ficcior facilè i
gnem concipiat,quia minus eft in eius temperic id quod inflammationě pro
hibeatItag & omnc, id quod commu nis mentis eſtparticeps, limiliter ad co
gnatum ſuum contendit:atq etiam am plius. Quanto enim eſt alijs rebus præ
Itantius, tanto ¶țius ut cómiſcea tur cum co quod eiufdemcſt generis. I
taquc apudipla ſtatim bruta inuenta ſunt examina, greges,pullorum educa tiones,
atq id genusquali amores.Ani macnim iam in his eſt, ido quod ea in unum conduceret,
apud præftantioré partem reperitur:id quodin plantis,la pidibus &lignis nó
inuenitur.Atapud ratione õdita animalia,ciuitatcs funt,ct amiciciç, &
domus, & concilia:ingbel lo pacta & induciæ. Apudpræſtátiora, etiam ex
diuerfis modis unitio quædá conftat, ut apud aftra adcò aſcenſus ad fuperiora
conſenſum etiam in de iua dis cfficere potuit. Atqui apud catan tùm, quæ mentem
habent,obliuio mu tui ſtudij & conſenſus reperitur, & hic modònon
uidetur quomodò adſe in uicem affluant.Quanquam etiam fi fu giant homincs hanc
coniun &tioncm,ca men ab ea corripiuncur, naturanimirú præualente. Vidcbis
autem id quoddi co, li animum aducrtas. Facilius cnim inuenies tcrrcum aliquid
nulli terreno adiunctum, quàm hominem ab homini bus auulſum. Fructumfert
&homo,& deus,&mú dus,fuo unumquodą temporc: quòd lconfuetum cſtin
uite, ut luum fru & ű, nullum communem ferat, tamen ratio fructumfert
&communem &propriú, naſcunturg ex eo alia quædam eiuſmo di, qualis est
ratio. Peccataliquis.Sipotes,meliusillum doce:fin uerò, meminerismanſuetudi nem
tibipropterea datam: nam & ipli dij illis ſunt clementes, qui& nonnul
lis ad conſequendam fanitatem diuiti as, &gloriam,auxilium ferüt:adeò funt
benigni. Id & tibi licet, neque impedit quiſquam Labora, non ut miſer, nec
ut qui uel miſericordia,uellaudé conlequi ſtude as:idunum tibi fit propoſitum
agere ſe cundum ciuilem rationcm. Hodie omni me periculo exemi,imò uerò omnia
quæ uidebantur mala cie ci: nihil enim extrà erat,fed omniaintus in opinione
mea. Omnia hæc, quæ in caducis funt, fa miliaria iam mihifecit experientia:du
ratione autem ſunt diurna, materia for dida,omniatalia, qualia erat etiã apud
illos, quosſepeliuimus. Resipfæ extrafores ſtát,nihilipfæ de feipfisnorūt, neß
pnunciát. Quid igit deijs pronunciat?ratio. Negidperſua fione, fionc,ſed
actione diſtinguit bonum & malum ciuilis animalis ratione prædi ti: ſicut
ncßuirtusneg uitiú in perſua fione, fed actione. Lapidi in altum coniecto nihil
mali accidit fi dccidat,ncg bonum, quòdin ſublime effertur. Introſpice corum
animos, & uidebis quosij iudices timcant, & ut hi ſeipfos iudicent.
Omniafunt in mutatione,ac tuipſe quog in perpetua alteratione, ac quo dammodo
corruptione. Quin & totus mundus. Alterius peccatum ibi eſtre linquendum,
ut firactionis defcctus,ap petitus,opinionis quics,ac quaſi mors. nihil mali.
Tranfi nunc ad ætates, ut puericiam, adoleſcentiam,iuucatutem,ſenectam: horum
omnium mutatio eft mors.aun quid mali?Trág deinde ad uită ſub auo acam,ſub matre,
ſub patre: quinetiã ali as multas mutationes & fines inucni cs, quære ex
teipso, an quid mali Git?Ad cundemmodum eſt etiam totius tuz ui sæ finis, quies,acmutatio.
Perpende mentem tuam,uniuerfi,ac proximi:tuam,ut ea iuſtam reddas.uni uerfi ut
recorderc cuius pars fis: proxi mi, ut uidcas fitnein ca igooratio,an uc rò
incellcctus. Simul intelliges te factú ad explédum ciuile corpus,atqita om nem
actionem tuam facere ad uitam ci uilem complendam.Etenim quecúquc tua actio nó
ad focictatem humanam, tanquam finem uel propinquum uel remotum refertur,illa
uerò uitam inter polat,& unitatem eius foluit; turbaso ciet,ficut in populo
cam plebs ſeceſsio nem facit. Abhac concordantia. Pue. rorumirę,ludicra
ſpiritus qui cadauera geſtant:ut co efficacius accidatidquod eſtin Necya. Vade
adqualitatem cauſa, čamgå materia ſecretam confidera, tum quàm diu permanerc
omnino pofsit ca pro pria qualitas. Paffus esinnumera, eò quod non có tentus
fuiſti cua mente agere ca,ad quæ crat facta.Sed hæc fatis. Cum te alius
repræhendit aut, odit, aut aliquid talcpronunciat,afpicecorú animulas: intra,
& uide quales Gint.Cer nes nihil eſſe tibi laborandú, ut hocuel illud ij de
teiudicent. Bene quidem ijs uelle debes: Datura em amicifunt, eos dij omni
ratione iuuant,perinſomnia, uaticinia.Hæc quidem de quibus ijcer tant, circulus
ſunt rerum mundanaa rum, quæ ſurſum deorſumgab unoz uoin alterum uoluuntur. Aut
ad fingulas res uniuerſi intelle ctus ſe applicat, quod fi eftita, id, quò ca
ſe applicat:approba. Aut ſemcltan tum impetüfecitipfa més, reliqua om nia
conſequéter fiunt.* Et quid unum alicui. Quodam enim modoAtomi. Omninò autem,
que Deus fit, recte omnia habent: ſiue temerè ſunt omnia; i nunquid & tu?
lam nosomnesterra occultabit:poſt ipfa quogmutabitur: & res deindealię item
in infinitum mutabuntur.Enimuc ro qui fluctusmutationum & motuum
confiderabit, earumg celeritatem, is omnia mortalia contemnet. Torrentis inſtar
cauſa uniuerſi rapit omnia. lam ó ipſa iſta ciuilia quàm ſuntuilia? & quàm
k uidenturhomunciones iſti philoſophi cè agentes,pleni eſſe muci? Quid facien
dum? quod nuncnatura poſcit,cò con tende îi liceat, neqcura,an fit aliquis
mortalium hoccogniturus.Neo Plato nis remp. ſpera: Sed contentuseſto,G uel
minimum procedat:hứcqueipſum ſucceſſum cogita quàm non fit exi guus. Mutat
aliquis illorum ſuum placitum? atquiline horum mutatio ne quid eſt, quàm
feruitus gementium, &perſuaſos ſe esse simulantium. Vade nunc et Alexandrum
et Philippum et Demetrium Phalereum mihi dic, Vide rint an ſcierint quid
communis uolue ritnatura, & an leipfos ſub diſciplina te nuerint.Quod ſi
tragicè tantùm ſeſe o tentarunt,nemo me damnauit, ut co gar eos imitari.Opus
philoſophiæ ſim-, plex eft, & uerecundum.Nolimeaddu cere ad faſtú, qui
præſeferat grauitaté. Supernè contemplari infinitaarmen ta,ſacrificia,omnis
generis diuitias, in tempeſtatibus & ferenitate: quæ facta funt,cum ijs
nata, quæitem deceſſerút. Conſidera etiam uitam eorum qui ante te,& qui
poſt te uiuét: horú ét, qui hodie apud Barbarosuiuút: @multico rum ne nomen
quidem tuum sciant, mul ti ſtatim obliuiſcentur, mulu cũ te núc laudent, ftatim
ſunt culpaturi. Deniz quam res nullius momehti lit memoria aut gloria, aut
aliquid tale. Vacuitas perturbationum in his quæ ab extrinſe ca cauſa accidunt,
iuſticia in ijs, quarū actionum tu es cauſa: hoc eft impe tus animi, &
actio, quæ finem habe at ſocietatem humanam: id enim eft tuæ naturæ
conſentaneum. Multa fup uacanea ex hisq te perturbát,precidere potes,q tota in
tua ſunt opinione fità, multūý laxitatis et ſpacij tibi acqrere. Torūmundū alo
cócipe,tuuğæuú per pēde, tú celeré lingularú rerú mutatio. né.breue.f.efſe
tēpus ab ortu ad interi.. túid uerò q huncfequit,idó pillú prę ceſsit,infinitú.
Oía quę uides,celerrime interibút: hi quo,quieorú interitú ui dent, ipfi quog
mox peribunt. Qui decrepita lenecta moritur, idem ferer cum co, quiimmaturamorte
cadit. Quænam ſunt eorum mentes, quib. rebus ſtudent,quæ habent in honore, quæ
amant?iudicate nudas ipforum in tueri animas.Cum uituperando obeſſc, aut
prodeſſe laudando ſe putant, quæ cítilla opinio? Amiſsio uitæ nihil eft aliud
quàm mu tatio: hacautem delectatur natura uni uerfi, fecundum quam omnia fiunt
rc te. Abæternoreseiuſdem formæ natæ ſunt, licg eritin infinitum. Quid ergo
dicis omnia facta, & futura male. Ergo nullus inter totdeos repertus eſt,
qui ca corrigeret,ſed damnatuseſt mundus ut perpetuis malis conflictetur. Vide
quàm putris ſit omniú rerum materia,aqua, puluis,oſsicula,fætor: rurſus calli
terræ,marmora:fęces, aurű & argentum:crines,ueſtis,fanguis, pur pura,omnia
reliqua eiuſdemmodi. Eti am quæ fpiritu conſtant, alio modo ta lia, atq ex
hisin hæcmutantur. Satis miſeræ uitæ eft, & murmuris, & & imitationis?
Quid perturbaris? quid in hisnoui? Qui terret te?nú formala ſpicc cã.nú materia?
afpiceilla. Extra hæc nihil eft. Quin &iam crga deos ſim pliciot
&melior esfaćtus. Idem eft Gue tribus hæc, live centum annis ea diſcas. Si
peccauit, malum apud ipſum eſt: fortaſsis autem non peccauit. Aut ab una aliqua
mente tanquam onteomnia progrediuntur, quæ cor poribus accidunt:proinde pars
non de bet euentis totiusfuccenfere. Autato miſunt omnia,confufio, &
diſsipatio; quid ergò perturbaris?Menti tuæ dicis. Mortuus es?perijſti,
efferatus es, ſimu las, cs in cætu, aleris? Aut nihil poffunt dij, aut aliquid.
Si nihil,cur non compræcaris eos?Sin pol ſunt,cur non magis etiam pecis ut dét
tibi, ne quid horum metuas, autexpe tas,ncque magis doleas ſi abſit,quam ſi
adfit.Omnino cnim li poſſunt adiuua reij homines, etiam in hoc poterunt. Fortè
dices,Dcusea in meapoſuit pote ftate.Efto. Nónne crgo præſtatteijs ģ in tua
ſunt poteſtate uti libere, quàm de · ijs quæ non ſuntin tua man u pofita,ſo
icitum eflc, animo feruili & abiecto 9 3 k 3 Quis autem tibi dixit, deos
non in his etiam, quæ penes nosſunt,auxilium ad ferre?Incipe ergo precari de
his, et uide bis.Precat alius, ut cum aliqua cubet: tu petę, ne eius rei
appetitustibioriat. Alius petit, ut certa releuetur, tu, neca leuari tibi op'
ft.Alius,ne amittat filiú: tu, ne idipfum metuas. Omninò adhuc modum uota
concipe, & quid fitfutu rum uide. Epicurus ait fibicum ægrotaret, nul la
fuiffe de corporis affectione cum ſu is colloquia,fed decaufis rerum natura
lium præcedentibus diſputatum conti nenter.Eı rei ſe intentum, mentem ha buifſe
perturbationum uacuam, ut quę motuum corpuſculi nullam partem ac ciperet, ſuum
bonum cuftodiens,idea qúe ſe ne medicum quidem qui appli caret pharmaca
adhibuiffe; Sed uitam benè habuiſſe.Tuquod is in morbo po tuit,hoc liquid
alterius rei incidat,ob ſerua. Vt eniin non defiftere à philoſo phia propter
quæuis negocia, neg cũ quouis uulgari homine nugari,omnib, Sectis é cómunc.lic
in omniactione cie b h ti incumbendum ſoli, q ppoſitum eſt,in ftrumétog
quoadidutimur. Si cui? impudentia offenderis,ftatim percótare teipfum, an
poſsit fieri, ut nulli fint in múdo impudétes.nó pótaūt hoc fieri:
neigitpoſtula id qd herinequit:alio quin ipse quoß un'eris eximpudétib. ijs,
quos effe in mundo oportet. Idem de uerſuto,infideli,omnidenim quocú quemó
uitiofo in próptu ſit tibi cogita re.Ná firecorderis neceſſarioid genus hominú
efle, fingulos æquioré te prebe bis.Id quoq utileé,ftatimcogitare,quá homini
natura uirtuté cótraid pecca tú dederit.Remediū.n.tribuit, cotra in gratos
manſuetudiné,cótra aliud uitiū, aliud pharmacũ. Olo aút licet tibi in ui am
reducere eu qui errauit: nā oís q pec cat, cò errat, pàppofito aberrat. Denique
quid inde tibidamniallatú é:inue nies quidénullú eorú quib.iraſceris, tale
quippiam fecisse, quomés tua fit futu ra deterior:atquiin hocunico fitú crat,
ut malú tibi atg dánú accideret. Quid verò malum aut novum accidit, fi indoctus
į homo agit suo modo: uide ne tu tibiip c 2 0 k 4 ſe potius ſisrepræfendis,
quinon præ fenferis fore, utisi: a peccarct. Eenim anſam tibi omnino præbuit ut
cogita res, confentaneum eſſe utis ita pecca ret.Ac tamen eius oblitus,miraris
eum deliquiſſe? Maximè ucrò fi cui infi delitatis uel ingratitudinis cauſa ſuce
cenſes, intra te conuertere. Proculdu bio enim à te peccatum eſt, fi eum ita
affectum iudicauifti fidem feruaturum: aucl beneficium conferens,non eo có
tentus fuiſti quod dederis, neque fru - & tum teipſa ex actione capere
cogitaui ſti. Quid enim aliud requiris, cum ho mini bene facis?non cibi ſatis
eſt,te tuæ naturæ conuenienter egiſſe, ſed & mer cedé inſup defideras,
perinde ac fimer çede oculus poſcat,quia uiderit,autpe des ppter grellus.
Quéadmodú enim hæc ad certūfiné facta ſunt,ita ut ſecun dúfuam conſtitutioné
atą naturam ſi egerint, fuum finem adepta ſciamus:ita homo adbeneficentiam
natus, & quid beneficij cótulerit, aut aliud quid ege rit,quod ſocietati
humanæ conducat, fecitid,cuiusgratia eſt factus, conſecu tus cft id, quod ad
eum pertinebat. Ris aliquando, ô anima, bona, simplex, unica, & nuda,
ſplendidior corpo re tibi circumiceto. Gu ſtabis olim amoris affo ctum:plɔna
eris,nullius indigens, nihil deliderans ncg animati neque inanimi ad fruitiones
uoluptatum:ncqtempus requires: quo diutius fruare,neq locũ, regionem, aut aèris
commoditatem, nec hominum conuenientiam.Sed có tenta eris præfenti ſtatu, dele
& aberis omnibus quæ cruntin promptu, tibig ipfi perſuadebis,omnia
tibiadeſſe,om nia cuareétè habere,omnia à Dijs tibial lata,probabisquæcúq ijs
probabunt, ac quæ tibi ad perfe&ti animalis ſalu tem dabunt,quod bonum eft,
iuſtum, honeſtum,omnia generat at continet & ample &titur, quæ
diſſoluuntur cò, ut alia exiplis exiftant. Eris aliquando ta lis, utita cum Deo
& hominibus uiuas, utne quid in ijs repræhendas, neg ab illis
damneris.Obferuaquid natura tua requirar, quippe qui tātùm à natura gu berneris:id
deinde fac &admitte, nifi tuanatura,qua animales, cò fiat deteri or.Secundo
loco animaduertédumeſt, qd animalis natura quæin te eft, requi rat:idgo mne
omittendum eſt, nifide terius tit habitura ea natura, ob quam rationis
particeps diceris: nempe ciui lis, & rationalis. His uſus regulis, nihil
ages fuperuacancum. Omni quod tibi euenit, aut ita euc nit,ut tu laturuses, aut
ſecus.Si como do, quo tuid ferre potes, non fer ægrè, fcd utnatura tua te
docet: fin cótrà, no litamen indignari, etenim ipſum peri bit.Enimuerò memento
cam eſſe tuam naturam,ut omnia feras ca,quæ an into lerabilia iudicare uelis
nécne, in tua eſt fitum poteſtate,ſecundum uiſa, qua id tibi prodeſſe aut
conuenirc ducis. Siquis errat; docercillum debes benigne, & oftendere quid
non animaduer terit.Siidneſcis,teipfumaccuſa,imò ne teipſum quidem. Quidquid
tibieuenit, id omne abę. terno tibi deſtinatum eſt,atą à conne xu caufarum
fataliter tributum. Nam &quod tu es, et quæ tibi cueniút, ab æ terno
dependent. Siue ex impartilibus corpuſculis, fi uc natura mundus conftat, id
primum conſtat,eflcte partem totius quòd à na ra
gubernatur.Deinde,coniunctionem tibi quandam eſſe cum eiuſdemgeneris
partibus.Horum memor,quatenus par tem me eſſe totius fentio, nihilægrè fe ram
eorum, quæ à toto mihi tribuútur. Parti enim nihil poteft nocere, quod to ti
prodeſt. At totum nihil habet, quod nóip6 profit.Id, cùm omnibu set có mune
naturis, tú Vniuerſi naturæ hoc accedit, quod ne ab ulla quidemextrin feca
cauſa poteſt cogi, ut aliquid fibi dá nofum producat. Quatenus uerò mihi
cognatio quædam eſt cum partib. quę funt eiuſdem generis, nihil agam quod non
refpiciat communitatem, imà ſemper ad communem utilitatem diri gammeas
actiones, & à contrario auer tam.Hisita conſtitutis,necefle eſt uitá
proſperos habere ſucceſſus: ficut & ci uis uitam profperam
intelligeres,proce dentis per actiones ciuibus utiles, boniş consulentis
quæcung ei civitas tribueret. Omnes partes mundi interire necef farium eſt, hoceft,
alterari. Quod fi hoc etiam malumipfis fit,nónne uniuerfum malè poſsit
perdurare, partibus ad inte ritum, &alterationem cóparatis. Vtrú enim
natura inſtituitſuas partesmalè af ficere,malog obnoxia, & quidéneceſ
ſariò,efficere?aut perimprudentia hoc admifit? Vtrung quidem non eft ueri li
mile. Quin etiam ratione Natura omiſ ſa, ipfarum rerum naturam confideret, item
ridiculum erit hóc. Simul enim di cere, quod mundi partes à natura factæ ſintad
mutationes et carummutatio ncs quafi contra naturam euenientes mirari aut
indignè ferre, abſurdum ſit: præſertim cum fingula ex quibus ſunt conflata, in
ea etiam diffoluantur. Aut enim diſcretio fit clementorum, cx qui bus concretæ
ſunt res, aut mutatio, ſoli di quidem in terram,aèrci autem in ae rem, ita ut
hæc quoß aſſumantur in Ra tionem uniuerfi, fiuehoc certis conuer fionibus
inflammabitur, fiue perpetuis uicibus renouatur. Solidas autem &ae reas
partesnon opinare ab ortu te habc re: omnia iſta heri & nudiustertius ex
alimento et inspirato aêre affluxerunt: hæcgmutanti, non id quod ex utero
matris attulifti. Poneaut,hocte admo dum adiungere propriæ qualitati:nihil
rcuera,puto,adid quod dicitur. Cùm fumpferis tibiipfinomina hęc,
bonus,uerecundus,uerax, intelligens, prudens,alti animi,caucne quando ifta
nomina,amittas,alijsg camutes. Celc riter ea aſo repete, acrecordarcnole in
telligentis indicari ſcientia dc fingulis rebus percipiendi, & eú, qui
cogitatio nibus alienis non occupetur: pruden tis uerò, uoluntariam
approbationem corum, quæ communis natura tribuc rit:altitudine animi,mentis
intentioné & ſublimitatem, ſupraleues & duros motus carnis, gloriam,mortem,
aliasg res elatæ. Siigitur teipſum dignum his nominibus præftiteris,non id
appetés, utab alijs ita appelleris,alius eris,alião ingredieris uitam. Nam
talem te porrò elle,qualis hactenus fuifti,hoceftin hac uita raptari
&inquinari, nimis ſtupidi eft hominis, & VITAM AMANTIS, fimiliso eorum,
qui in pugna aduerfusferas fe meſi ſunt. Hicnim pleniuulnerum & ta bi,tamen
hortantur, ut in craftinum fer ucntur,iterum pugnaturi aduerſus eof dem ungues
& dentes. Itaq te paucisi ſtis nominibus accommoda, ac,& qui dem
pofsis,ea tuere, perinde at hin In ſulas quaſdam fortunatas commigral ſes.Sin
teinferiorem ijs eſſe ſentis, fece de audacter in angulum aliquem,utibi
uictoriam obtineas: aut omnino è uita abi, non iratus,ſed Gimplici & libero
ani mo, atæ uerecundo, cùm id unum in ui ta egeris,uteo modo difcedas. Vt auté
memoriam illorú nominum retincas, haud exiguú tibi ad feret adiumentú, ſi recorderis
deorum, atß eos nolle fe adulari,fcd hocuelle, ut ratione prædita animalia,
ipforum quàm fimilima ef ficiantur. Ficus,canis,apis,ſuum quoduis offi
ciumfacit: idem eft &hominis partiú. Mimus, bellú, terror,ſtupor,ſeruitus:
hæc quotidic delebút facra illa tua pla cita, quæè contemplatione naturæ rc rum
hauſta circumfers. Omnia autem, ita ſuntinfpicienda &agenda,ut & cir
cumſtantijs fimul ſatisfiat, & cognitio inactioné uertatur,ferueturó
animicó ſtátia ex earūſciétia accepta. Ignorat, non tñ cft abfcóditú Quando
capies fru &tum fimplicitatis?qñ grauitatis? quan do cognitionis fingularum
rerum? quæ: nimirum fiteius natura, quis in mundo locus, quandiu ferat eius
natura ut du ret, quibus ex rebus conflata fit, quis eam poſsit poſsidere,quis
dare autadi Aranca, ſi muſcamceperit, exultat: alius G leporem, aut piſciculum,aut
fu cm, aut urſum, autfarmatas,nónne hi ſunt prædones? Si opiniones exami ncs,
quomodo unumin alterum tranf mere. mPombaur,uiam ac rationem contempla di
parabis.Continenter autem hucani mum aduerte, teý huic parti adlucfac: nihil
eſt enim quòd perinde animum magnum efficiat.Corpus enim exue, in
telligensgiamiam te ex hominibus di ſcedentem ifta omnia deſerturum,torů
teipſum da iufticiæin actionib. tuis ſer uandæ, in reliquis quę eneniuntrerum
naturæ totum te cómitte: quid alij uel fentiant de te, uel agant contra te, ne
ad mentem quidem tibi tuam accidat. Duobushis contentus eſto, ut & iuftè
agas in præſentia, & id quod nunc tibi obtigit,boniconſulas. Omnes alias oc
cupationes,omnia ſtudiamiſſafac,huic modò intentus,ut rectà ſecundum lege
ingrediaris, deum ſequens. Quis lituſusderebus tanquam ſuſpe Etis deliberādis
hinc patet. Si quid age dum fit,uideasą id elle ex uſu, firmiter cò procedendum.
Sın id nonintelligis, inhibendaactio, & optimis utendum confiliarijs.Quòd G
alia his aduerſa oc currant,progrediendum eft iuxta præ fentes occaliones,animo
ci quodiuftú uidetur intento. Optimum enim eſt cú áttingere ſcopum. Quietus
fimul, & ad motus facilis, fi mul & lætus, & conftans eftis, qui
ra-. tionem ubiq fequitur ducem. Interroga ex teipfoftatim à fomno ex
pergefactus,nū tua interſit, fi quæ iuſta funt & reétè habent, in aliorum
fint poteſtate?Nihilintereſt. Nunquid oblicus es, illi qui aliorum fermonibus
& laudibusfeiactant,qua les in lecto fint,quales inméta quid? a gant,quæ
fugiant, quæ confectentur? quæ furentur,quærapiant? non quidé manibus &
pedibus, ſed precioſiſsima ipforum parte,qua acquiri poteſt (ſi qs uelit)
fides, uerecundia,ueritas,lex,bo nusgnius. Omnia danti & recipienti naturæ
p bè inſtitutus & uerecundus dicit: Da quicquid uis, aufer quicquid uis. Ne
que hocaudacia elatus dicit, fedeio bediens, camś probans. Vitæ cxigua reſtat
pars:uiue tanquá inmonte. Nihilem refert hîc ne fisuel illic,modò ſcias te ubig
in mundo, tan quam in urbe eſſc. Videant, inquirant hominemhomi nes uerum ac
fecundum naturam uiué tem.Sinon ferunt eum, occidant:præ ftat'enimhoc,quàm illo
modo uiuere, Noniam præçerea tibidiſputandum eſt, qualísnam ſit uir bonus: fed
curan dum, ut fis uir bonus. Subinde tibi ante oculos pone æuũ totum, &
uniuerſam natura:cogita, uc res ſingulæ ratione ſubſtantiæ nuclei fint oliuarum,temporis,tenebri
cóuer lio:1dý de ſingulis rebusindaga.Quem admodum exiam diffoluátur, finto in
mutatione ac qualiputrefactione & dil ſipatione: utunumquodą ſuam ucluti
mortem habeat.Quiſuntilli, qui nunc comedunt,dormiunt,coêunt,uentrem purgant?cum
quiimperant alijs, ſuper biunt,indignantur,inferiores increpát? quibusilli
paulò antè feruierunt, & qui bus de caulis?quieruntpaulò pòft? Vnicuiqid
prodeft, quod naturau niuerG fert,atx co quidem tépore, quo ca fert. Expetit
quidem pluuiam terra: expetit autem uenerandus æther cum eſt repletus nubibus
in terram decide re,ita & mūdusid agere cupit,quod fit: dico itaqmundo,meei
adſentiri. Itag & hocfit, & dicitur fieri, quod mundus uultita
fieri.Authic uiuis, & te adſuefe ciſti, aut aliò te confers, & hoc
uoluiſti: aut defunctus tuo munere moreris. Nihil eſt præter hæc. Bono ergo esa
nimo. Semper fit euidens, hoc efſe agrú: 1 & quomodo omnia funt hieijs qui
in ſummo luntmóte,autin littore, autu. biuis. Omnino enim inuenies Platonis
illud, ftabulo in monte abditus: & ba lare. Quid eſt mens mca? ad quid nunc
ea utor?Eſtne aliquid mentis uacuum? cftne aliquid à comunitate diuullum? num
affixum & admixtum carni, ut il ludunàmPombaur? Qui dominum ſuum fugit,
fugitiuus eſt.Lex autem dominus eft. Ergo qui cótra legem agit, fugitiuus eſt.
Acdolo-, rem aliquis,iram, aut metumconcipit, propter aliquid eorum quod
facūeſt, uçlât, uel fict ſecundum uoluntatem & eiusqui uniuerſum
gubernat.Hic uerò lex eſt tribuens ſuum unicuif. Ergo 13 qui hoc modo timet,
dolet, aut irafcit, & fugitiuuseft. Pater semine in uterum matris dimillo
abijt. Inde ſuccedés alia cau ſa agit, & abſoluit facum,animaduerten dum
eſt ex quo quid efficiatur. Rurſus cibus per fauces dimittetur,deindealia
cauſaluccedens,ſenſum,appetitum,ui tam,robur,omniaģiſta aliaefficit.Ita ea, quæ
in tanta occultatione fiunt, co Gderanda ſunt, facultasģita conſiderá da eft,ut&
eam quæ deorſum, & eam quæ ſurſum uergit uidemus, non ocu lis quidem
corporeis, fed haud minus tamenperſpicuè. Alsiduò conſiderandumeſt,quomo do
omniahęcſint,qualia fuerint,aclint bulæ atqfcenæ earundem in ſpeciem rerum,
quasuelexperientia uidiſti, uel exantiquahiſtoria cognouiſti,ut,aulá
Adriani,totam Antonii aulam,totam Philippi aulam, Alexandri,CroG.Om nia
enimhæc, talia erant. Tantú per alios animo tibi finge cũ, quialicuius rei
caufa doletautindigna tur,fimilem efle porcello qui mactatur, & calcitrat
at grunnit, Similisetiã ei qui gemitin lectulo ſolustacitè alliga tionem
noftram. & quod ſolianimali ratione prędito datum eſt ut rebusque
cueniütfpóte obſequat. Olo aut ſequi eas,oíbusé neceſſariū.In fingulis reb.
rereexteipfo debes, fitnemors mala, proptereà quòd ea re te fit fpoliatura.
Cuni alicuiusoffenderis peccato,fta tim ad te reuertere, ac cogita quain fi
milire tu pecces: ut,Quòd argetum,uo luptatem,gloriolam in bonisducas. Id iram
mox obliuione delebit: accedat autem & hoc,uteum inuitum peccare ſcias.
Quid uerò faceret coactus? Tu; li potes,efficene cogatur, Cùm Satyronem
uides,Socratium ti bifinge conſpectu dari:cùm Eutychen, Hymenem,uel Euphratem
cervis, Eutychionem, Syluanum, Alciphronem, uel Trophæiferum imaginare: Xenophon.
te uiſo, Critonem aut Scuerum: denis ſingulis aliquem priorum certa ratio ne
limilem oppone. Simuluerò tibi ad animum accidat,Vbinamfuntilli? nusquam,autubicung.
Ita nunquam non cernes res humanas fumum ellc & uani tatem.Maximè fi
recorderis id quod ſe mel mutatum eſt, nihil fore in infinito tépore. Tu aut in
quo tempore es? aut qui non ſufficit tibi, breue hoc honeſte exigere?quam
materiam, o ſubiectum fugis? Quid enim ſunthęcoia,nifi ex ercitia rationis quæ
accuratè perfpexiç naturam earum quæ in uița occurrunt rerum. Perduraigitur,
dum eas res tibị familiares reddas: Quéadmodú ualid ventriculus oía fibi
effiçit familiaria: & ignis ſplendidus quidad ei inijcias, fla mã ex co
&fulgore edit. Nulli liccat uerè dicere,nó efſe te fimplicé et bonu: sedmentiatur,
quicúq hocde te ſentit. Id uerò omne penes te eſt:quis enim pa
hibeat,nelisbonus&fimplex? Tibimo ftet ſententia,nó uiuere,nifi talis ſis:ne
que enim patiturratio te niâ talem. Quid Git, quod poſsit de propoſita materia
rectiſsimè dici, uel agi, conſide ra:quicquid erit,facere tibi uel dicere li
cet,nemine obſtate:neo prætēdete im pediri.Nexprius deſine ſolicitudiné, ita ſis
affectus,ut qďuoluptuarijs ſunt deliciæ, id tibi fit actio in ſubiecta & ob
lata materia, humanæ cóftitutioni co ſentanea.Oé.n.id qdlicet tibi agere ſe
cundú natură, p uoluptatehabendú é: licet aút ubią.Nam cylindro quidem non
datur,ut quouis loco feraturſuo,p prio motu, ut negaquæ, neg igni,ne alijs,
quęànaturaautanima rationis ex pertereguntur:multa enim ſunt quęob ſtent eis,
& intercipiant.Mensautem, ſi ueratio per omnia quæ reſiſtunt perge re
poteſt ſecundum ſuam natura & uo luntatem.Hanc facultatem anteoculos tuos
ponens, g mens per omnia poſsit ferri, ficut ignis ſurſum, lapis deorſum,
cylindrus per decliue,nihilpræterea re quire.Reliquaimpedimenta aut corpo
reiſuntcadaueris,autpræteropinioné, ipfius métisremiſsionénó lædunt,ne que ullú
afferunt malū:Alioquin is qui impediret,malus confeftim fieret. Na reliquæ res
omnes ita ſunt compara tæ ut fi qd eis maliaccidat,ftatim dete riores fiåt.At
hîc, a oío dicédüeſt,meli or etiam fit homo, maiorique dignus į aude,fi rectè
utatur ijs quæ occurrunt. Omninò autem memoria tenendum eſt,ei qui natura ciuis
eſt,nihil poſſe no cumenti accidere, quod nonidem ciui tati noceat.Atqui huic
nihilnocet,nifi quod obfit legi.Eorum uerò, quæ incó moda autinfortunia uocant,
nihillegi officit:ergo neg ciuitati,ncg ciui. Qui morſus eſt à ueris
dogmatibus, ei ad recordationem uacuitatis dolorú & metusſufficiet uel
minimum. quale illud: Sternit humi uentus folia. Haud aliter genus humanum.
Foliorum uerò rationem obtinent &liberi tui, &ij homines qui acclamát
& collaudantita,utfidem mereri uide antur, aut contrà execrantur,aut tacitè
repræhendunt & fubfannant. Foliorú rationem obtinent et hi, qui famam po
ſteritatis excipient.Hęcenimomniana fcuntur tempore ueris:pòſt animus ea
deijcit: inde alia ipſorum in locum ſyla ua producit.Breuitas uerò téporis om
nibus eſt communis. Tu autem omnia perinde atque æterna fugis aut appetis,
paulò pòft moriturus:& cum quite ef feret,alius lugebit. Sani oculi eft,omnia
uiſlia cernere, & non uiridia tantum uelle, quòd faci unt ij, qui vitio
aliquo oculorum laborant.Idem de sano auditu et olfactusentiendum, utriqomnia
fui generis senli lia esse promptè appræhendenda: qua ratione etiam uentriculus
ad omne a limétum paratus debet effe,inſtar mo læ, quæ ad quæcunque molienda
para ta eſt.Proinde & més ſana parata debet eſſe ad omniaquæ occurrunt. Sed
ea ģ hoc tantum curat, ut liberi fint ſalui, ut ab omnib.laudentur eius
actiones, ocu lo fimilis eft uiridia, autdenti tenuia tan tum uolenti. Nemo eft
adeò felix, cui mortuo non Gintadftituri quidam, qui malú quod ei obtigiſle
putatur, haud malè lit con ſulturus:probus,dicent, & fapiens crat: nónne ad
extremum aliquis dicet fe cum, Etipfe aliquando reſpirabo-ab
hocpædagogo.Nulliquidem noſtrum erat grauis,fed feng tamen clam nos ab
coſperni. Hæc de bono uiro dicentur. ant. Nobis quàm multa ſunt alia, ppter quæ
multi ſunt, qliberari à nobis cupi Hæcmoriens li cogites, cò facili us diſcedes
hinc, reputans te ex ea uita abire, ex quaijipli q ei' ſunt participes, quorum
gratia táta certaminafuftinui, precatus ſum,pcuraui,meuolüt migra re,fortaſſe
aliquid meamorte alleuatio nis fperátes. Quidé,curdiutius hic mo rari quæras?
Nihilo tn minus benignus illis diſcede,morem tuum ſeruans, ami
cus,beneuolus,propicius:negutis qui abripiatur,ſed quibenemoritur,animu la
facilè ſe foluente è corpufculo. Eo modo & ab his diſcedendum eſt, quib.
nos natura accommodauit & mifcuit. Difloluitnunc? diffoluor et à familias
ribus abducor, non reluctans, non vim patiens. est enim et hoc unum corum, quç
fiunt secundum naturam. Asvesce, utin omni re teipsum per con teris. Hçustu
quorſum hocrefert? A teipso facinitium, teg primo examina, Memento facultatem
motricem corporis intus latere. Hæc est facundia, hæcuita, hoc est, ut ita
dicam, homo. Nunquam circumiecta vasa animo tibi propone et instrumenta hæc
tibi afficta. Similia enini sunt dolabræ, cotantum differentia, quod adnata
funt. Alioquin sine causa, quæ ea movet et continet, haud maio ri sunt usui, quàm
radius te xtrici, calamus scriptori, flagellum auriga. Aec propria sunt animi
ratione præditi. Se ipsum videt, se ipsum componit feipfumtalé, quale vult,
efficit, fru &tus quosfert, ipfepercipit,(Erenim plantarú fructus, atg
etiam animalium, alij percipiunt.) fuum finem conſequitur, quicung ui tæ fit
terminus: nó utin ſaltatione, & a gendis fabulis,alijs id genus rebus fit,
ut fi quid offendatur,tota actio fiat irri ta: fed is animus omni in parte,
ubicuß depræhendatur, id quod oblatum eſt,e fedum & nullius rei indigum
reddit, ita ut dicere poſsit ſeſuum habere.Con plectitur pręterea totum mundum,
eiſ inanc circundatum,figuram eius, infini tatem qui, certis conuerlionibus con
Itantem regenerationem uniucrſarum rerum contemplatur. Inde cognoscit, ncgnouum
aliquid pofteris cuen turú,nem eos qui ante nos fuere,quica amplius
nobisuidiffe:fed quod is qui è quadraginta annorú,fi méte utaturferè oía
præcerita &fucura uidet in reb.eiul demformę.Hecquoß eifunt propria,
amorproximi,ucritas,uerecundia, utni hil feipſa præſtantius ducat,quod qui dem
ei cum Lege eſt commune,itaut ai hilinterfitinterreciam rationem, &ra
tionem iufticiæ. Cantilenam iucundam,faltationem, & pancratium contemnes,
Siuocélua uè fonantem diuidas in fingulos fonos, ata ſeorlim de fingulis ex
teipfo quæ ras an ab co patiarete uinci:pudorcpro fe & ò afficieris.Idem
dereliquis fuomo do intellige.Deniqin omnib.illis quæ nonfunt uirtus, nec à
uirtute profici ſcuntur, memento ad partes corum re fpicere, diuifiones illa in
cótemptum adducere: ids in uſum totius uitæ eft transferendum. Qualis eſt aia
quęparata fit, fiiamde beat à corpore ſolui, & uel extingui,ucl
diſsipari,uelconſtare.Vtautem licpara ta ſit, à peculiari iudicio uenit: non ut
fimpliciter mortem aliquis ſubcatid Chriſtiani faciunt,fed bene ſubductisra
tionibus & cum grauitate, ita ut & alte ri hoclincuerború cxaggeratione
per, fuadere poſsis. Egi aliquid ad ſocietatem humana códucens: ergò utilitatem
ſum cóſecu tus.Id femp occurrat, nequnquādebt. Quã tenes arte?Bonuseſſe. Quánam
fic hocratione? Si contempler, partim na tură uniuerâ partimhominis ſtructurā.
Initiò Tragoediæ prolatæ ſunt, quæ monerent de ijs quæaccidere homini bus
ſolent, eam eſſe.rerum naturam, ut liceueniant.At uerò quib. in ſceną
delectabamini, curijſdem offendimini in maioreuitæ humanæ theatro? Vide. ris
quidem,quod ita hæcdebuerint per fici,quodý ea feruntetiam ij, qniclama uerunt.
Id Cithoron. Et fanè quædam utiliter à poëtis dicuntur, quale eſtil ludin
primis.: Quod li dijmenegligút, &liberos, Rationem habet illud.item. Nam
reb. iraſciſanènihil expedit. Frugiferam utiſpicam meæ uitæ me tam. aliag id
genus. Poft Tragedia uetus Comædia illata eſt,libertatédiſci plinæ accommodatam
habens, cazip fa haud inutiliter nos monens, ne faſtu extolleremur. Cuius
fimile aliquid etiã Diogenes uſurpauit. Poſthas &media quædã comedia &
ad extremú noua aſſumptæ ſunt, haud alium ob finem, a ad ſtudiú artis imitando
oftentandæ. Dici enim & ab hisipfis quædam utilia, nonignoratur: fed tota
huius poëſeos & fabularum,ſcriptionis intentio qué nam finem reſpicit?
Quomodoeuidens fit,non eſſe aliud uitæ propofitú ita có modú ad philofophádū,ut
eftid, quod núc tenes?Ramusà pximoamputari ra monó pót, an & à tota
arborere fecet: fic homo etiã ab uno auullus hoie,nó pornó écà toto excidiſſe
cætu. Itagra mum quidem alius aliquis, homo feip ſum à proximo feparat, cum eum
odit aut auerfatur:ignorat uerò étà tota ciui li ſocietate ſecadéroeabrumpitur.
Ve runtamé hoc habemus munere louis, hác ſocietaté cóftituit,ut rurſum adcre
ſcere pximo, & explere totú poſsimus: Ettamen ſi hæcauullio fæpius admitta
tur,efficie,ut uniriiterum at coaleſce rehaud facile pofsit id quod erat auul
fum:tum uerò, quòdfatent plátatores, non eadem eſt ratio rami qui ab initio
floruit cum arbore,manfitgin ea,&e. ius qui amputatus;rurſus deinde eſt in
fitus. Oportet igitur in eadem arborc elle, etfi nonidem cum omnibus ſentias.
Qui tibi ſecundum rectam rationem procedenti impedimento funt,ut auer tere teà
recta actionenópoffunt,ica ne que tua erga ipſos beneuolentia depel
lantte:utrobiß teipſum eundem ferua, utnon modò iniudicado cóftantia, &
agédo, fed &aduerſus eosqte phibere conantur, aut aliâs indignantur,māſue
tudiné tuearis. Haudem minusinfirmi eſt illis iraſci, ô defiftere ab actione,
& concideremetu perculſum: utrunque eft eius qui ordinem ſuú delerit, quod
alter mctu facit,alter odio cognati fibi, &amicinatura. Nulla natura arte
inferior eſt: quip PC cùm artes fint naturæ imitatrices. Quodſi eſt,utiq
naturaomnium perfe & tiſsima &omnia compræhendens, ar tium folertiæ
nequaquam cedet. Porro omnes artes præftantiorú gra tia faciunt uiliora:ergo
& cómunis na tura. Acoz hic eſt ortusiuſticiæ: ab hac reliquæ uirtutes
dependent:non enim conitabitiuſticia,ſi uelrebus ſuapte na tura neqz bonis nec
malis nimium tri buamus,uel temerarij,ucl errori procli ues erimus: Non ueniunt
ad teres eę, quarum fu ga uel appetitu perturbaris,fed tu quo dam modo ad eas
accedis:iudiciumita la que deijs quieſcat,ita etipfçquieſcent, & & ne
ſequeris eas,neg fugies. Animus globo ſimiliseſt, figuræ æ quabilis, quandones
effertie, negcó trahit,ſed luminefulget, quo in omnib. & rebusueritatem
cernit,& in ſe quoque Contemnorab aliquo: uiderit. ego ibi curabo,nequid
contemptu dignum a gam autloquar.Oditmealiquis: uide ip rit.Ego quidem omnibus
ſum placidus ces &beneuolus,atco ipſo promptus ad ne ch ere cm que ipſo.
100 god m oftendēdos alijs ſuos errores: neß hoc exprobrādi cauſa, aut ut
patientiam o ftentem meam, fed ingenuè & pro bè. Quantus erat Phocion, nifi
idip ſum præ ſe tuliffet. Intus enim omnia oportetrectèhabere, & à dijs
conſpici hominem nullam rem indignè ferenté, autquiritantem. Quid enim mihi
mali accidit,fi alius id agit, quod eſt naturæ tuæ commodum? nó accipies id
quod nuncnaturæ uniuerfi eſt opportunum, cum ſis homo eò deftinatus,ut commu ni
utilitati inſeruias? Qui contemnunt fe mutuò, ijdem mutuò ſe demerentur: &
qui mutuò de primatu contendunt, mutuò libi con cedunt. Quam putiduseſt, &
fallusille, qui dicit: Statui fimpliciter tecum agere. Quid agis? non erat hoc
præfari opus: ipla reshocoftendet.Statim ipſo in uul · tuinſcriptus debet efTe
fermo,acftatim ex iplis oculisapparere: Quemadmo dúex afpectu amatores ſenlum
ſui ama fij.ſtatim cognoſcunt.Omninò uir bo nus & fimplex hircoli debet
aliquld fi mile habere, ut qui ei adeft, uelit, nolit, tń cius fimplicitate
depræhendat. One tatio aut ſimplicitatis, infidiæ ſunt te étæ:neq uerò quicộ
turpius eftfubdo lis acinfidis congreſsib.Hocoím maxi mè fugito.
Bonus,fimplex& manſuelº uir,hæc oíaí oculis habet, ncg calatét, Rectiſsimè
uiuédi facultas é in tuo aío pofita,nimirú ut res neg bonas ne quemalas,in
nullo ponas diſcrimine. Id fet, & unamquamlibet eorum conté pleris diuiſim,
& rationetotius,memor nullam earúin animis noſtris de ſe poſ fe excitare
opinionē, negadnos ueni re: sed ipsas quidem quieſcere,nosautem effe, q
deijsiudicia faciamus apudnos, easýnobis quali depingamus:cú liceat tñ autoío
no depingereillas, aut fihoc oío ſit admiſſum ſtatim delere. Exigui temporis
attétio hæc eſt, indefinis erit uitæ.Quid obftas,quo minus hęcrectè habeant?Quęli
ſuntſecundú naturam, gaudeillis, & erútfacilia:ſincótra natu ram,quære quid
fit tibi fecundum natu ram,atpid contéde et si gloria careat.
Ignoſcedūé.n.oīci, ſuuğrit bonum. Videunde uenerint omnia, ex quib. conſtent,in
quod mutentur,qualia fint inde futura,tum nihilmalicis accidere. Primùm, quis
mihi ad eos reſpectus. Nati fumusinuicéun ' alcerius gratia.A lia autem ratione
natus fum utipfisprę ſim, ficut aries gregi, aut taurus ar mento. Rem altius
repetc. Sinó conſtat mú dus ex atomis, utią natura cum guber nat. Quod fi
detur, utiq deteriora præ ftantiorumgratiafunt: hæcuerò, unum propter alterum.
Deinde, quales illi ſunt in menſa,le cto,alibi?Maxime autem quib. illi funt
neceſſariò opinionibusaddicti, & qua to cum faſtu aguntſua. Tertium eft.
Sircctè faciunt hæc, nó eſt indignè ferendum: ſinfecus, at non ſponte,ledignoratione
peccant. Omnis enim anima invita privatur cum veritate, tum eo, ut possit cum
uno quoli betut eſt dignum,uiuere. Itaque dolo reafficiútur,li iniuſti,
ingrati, auari,om ninoſiniurij erga aliosdicantur. Quartum eſt.Ipfequoginmultis
delinquis, es ipſorum ſimilis:ac tametG quibuſdam peccatis abſtines, tamen ha
bitum ea faciendihabes, ac uel metus, uel gloriolæ conſectandem causa, aut
aliud ob malum, abstines similibus peccatis. Quintunc hoc quidem ſatis ſcis, an
peccent. Quædam enim ordinc fiút. Omnino autem multa experiri opusē, antè quàm
certum aliquid dealiorum actionibus ſtatuas. Sextum.ut maximèſtomacheris,ta men
uita hominum eftmométanca, ac paulò pòſtomncsmorimur. Septimum.Non actiones
ipforúno bis moleſtiam exhibent, cùmeæfint in ipforum animis: fednoftræ
opinioncs. Itaq tolle uoluntatem iudicandi de rc aliqua tanquam mala: limul
ſuſtuleris iram.Quomodo, inquies,tollam? Sire putes,non eſſerem
turpem.Namnig.fo la turpitudomalum eſſet,tu quogne ceffariò multis modis
peccares,ficres latro, & omnia tentares. Octauum.Multò grauiora adferunt
dolor & ira,quam obaliorum pecca: ta concipimus, quam ipla illa, ob quæ m 3
raſc imtur & dolemus. Nouú manſuetudo, li genuina fit, no adſcititia aut
fucata,inuictač. Quid uerò uel extremæ libidinis homo tibi faciet, fi
conſtantermanſuetudinem fer ues, acl res ita ferat, placidè eum hor teris ac
doceas eo ipſo tempore, uacás huic reitum, cùm is te lædere nititur. Si
dicas,Noli fili, ad alias res nati ſumº: ego quidem non lædar,ſed tu: ido eia
pertè & integrè oftendas, neque apes, ullum aliud eorum quæad cætű apta
funt natura animalium ita agere. Oportet autem neque irridendi,neque conuitiandi
caufa hocfacere,fed aman ter, atq ita ut ne cor mordeatur, néue ccio abuti
uidearis, acne quis adftans mirctur,fed ut cum ſolo, ita loqui de bes, etiam fi
alijadlint. Horum nouem capitulorum memento, tanquam a Musis li ea dono
accepiſſes. Acincipe tan dem homo efle, dum uiuis. Tam vero cavendum ne
irascaris eis, quam ne aduleris. Utrunque enim a societate est alienum et
damnosum. In promptu tibi fit ira accedente, non iram esse VIRI, fed man ſuetudinem:
id ut humanius, ita & VIRILUS EST, requiritgrobur, nervos et fortitudinem:
quænon ſunt apud indignan tes & morolos.Nam quanto proping or
eftmanſuetudouacuitati affcctuum, tanto & potentia: acquemadmodum dolor,in
impotétes cadit, fic & ira. Uter que enim uulnus accepit, &herbápor
rexit. Quod fi lubet, etiam decimum à duce Muſarum donum accipe:nempe, Inſani
eſſe,uellene praui homines pec cent.qui enim hocpetit, id petit, quod fieri nó
pót.Alijs uerò cócedere ut fint mali, modònein tepeccent, ingrati eſt, et
tyranni. Quatuor potiſsimum motus animi continenter ſuntobferuandi, ac, fi eos deprehenderis,
inhibendi. Primò, ut dicas. Hæc cogitatio non erat neceflaria. Alterum,hocfacit
ad ſocietatis diſſolu tionem.Tertium, hoc non ex te dices: nam non à le dicere,
inter abfurdiſsima eft reputandum. Quartum: tibiipa ex probra, eſſe hoceius,
quidiuiniorelui parte uincatur, & cedat ignobiliori & mortali parti,
corpori ſcilicet &eius craſsis uoluptatibus. Aêreū, & oésigneęparticulæ
quęcó miſtæ ſunt tuo temperamto, cth natu ra ſurſum efferantur,tamen ut obediãt
ordini uniuerli,ab ipſa mixtione conti nentur.Similiter omne terrçumin te,
& humidum,cùm natura ſua deorſum fe rantur, tamen in ſublimimanét, non in
fuo naturaliloco. Adcò elementa uni verſo obtemperant, aca quò deſtinen tur per
uim, manent, donec diſſolutio. nis rurſum canat claſsicum.Nonnc igi tur iniquum
lit, ſolam tuam rationem nolle obedire,ſuumglocú indigne fer re.Etquidem nihil
ei uiolentum impo nịtur: ea modò, quæ eius naturæ conue niunt. Et tamen ea non
ſuſtinet, fedin contrarium fertur.Motusenim adiniu fticiam,luxuriem iram,dolores,
& me tus, nihil aliud eft,quàm ſeceſsio à naru ra: & cùmanimusaliquid
corum quęc ueniunt indignèfert, tunc quoqueluú locum deſerit. Etenim ad equalitatem
& pietatem cóftructuseſt haud minus, quàm adiuſticiam: quia & hæ
(pecies funt uirtutum,quibus benè defenditur focietas humana, imò etiam
antiquio resiplis iuſtis actionibus. Quinon eundem per omnem uitam propofitum
habet fcopum, is unus & idem eſſe,p totā uitam nequit.Non fa tis eſt, id
quod diximus, niG & hocad datur, qualem eſſe oporteat eú scopú. Quemadmodum
enim non eſt Gmilis de bonis utcunqueplurium opinio,ſed quæ eſt certorum
quorundam commu nis:ita & ſcopus ciuilis, & communita tem reſpiciens
eſt ſtatuendus, Adhuc qui oés fuos animi impetus direxerit, omnes actiones
ſimiles reddet,cogmo ſemper ſuieșit fimilis, Murem montanum, et dameſticum
huiusý pauorem & fugam, Socrates, & uulgi opiniones,Lamias
uocabat,puerorum terriçulamenta. Lacedæmonij peregrinis ſub umbră fede
adugnabāt in ſpectaculis, ipli quo uis loco fedebant, Socrates Perdiccæ
quærenticur nő ad ipfum ueniret,refpondit:nc turpiſsi mointeritu peream.hoceft,ne
benefi cio affectus, idnon poſsim compenſaa re. In Epheliorum literis crat hocprz
ceptum, quod iubebat quotidie remi nilci alicuius ex antiquis, qui uirtutem
coluiffent. Pythagorei manè nos coelum afpice se iubebant,ut recordemur eorum,qui
femper fuum officium præſtant: ité or dinis,puritatis, & fimplicitatis
nudæ:a ftris cnim nullum eft uelamentum. Memento qualis fuerit Socrates > củ
pellem præcingeret, cùm Xáthippe uc fte fumpta procefsit:acquæ dixerit fo cijs
Socrates pudorc affectis, ac recede tibus, cum uiderent eúin iſto ornatu.
Núquàm fcribere &legere alios do. cebis: nih ipſe prius didiceris: id multò
magis inuita eſt præſtandum.Seruus es, ratione cares.tú charũ cor mihi rifum
fuftulit. Virtuti grauibus facient conui cia urbis. Infani eſt, ficus hyeme
quærere.Tale eft puericiam quærere præteritam. Epictetus puerum oſculatus,
interi us cum eo fe collocutum dixit. Fortaſsis cras mortem obibis. Abo minaris
hoc: nihil dictu graue cft, ingt, quod aliquod opusnaturæ defignat:ni ſi
abominere, quod fpicæ'metuntur: Vua primùm cruda,deinde matura fit, pòſt
palla:hæc omnia rei ſuntmutatio nesnonin nihilum, ſed in id quodiam non eft.
Nemo ut dicebat Epectetus latro eſt uoluntatis.Ars autem, aitidem, in ueniéda
eft in adſentiedo, utgimpetus animiferuentur,ita uthabeátautadiun ctam
exceptionem, spectét societatem et dignitatem. Cupiditate omnino abſtinendum
çít, neque inclinandum ad ea quæ non ſunt penes nos. Itaq, inquit,non de
leuire,ſed de in. fania certatur,nib SOCRATES dixit.Vultis ne compotes rationis
animos habere, aut non?uolumus. Cuiuſmodi, bonos ne an prauos?ſanos. Cur ergo
nó quæritis? Quia habemus. Quid igitur conton ditis? Mnia ista, quæ per circui
tus temporum adipiſcio ptas,iam nunc habere potes, nifi tibiipfi invides:
hoceft, Siomneid gpręte. rijt,omittast,uturum prouidentię com mittas,id modò
quod præſens eſt,diri gens ad ſanctitatem & iuſtitiam: alte ram, ut boni
conſulas ca quæ tibi fatū tribuit etenimid natura tibi attulit alteram, ut
liberè ac fine ambagibus ueri tatem loquaris,agasok ſecundum lege, & ut
dignum eſt. Non impediat autem teneg aliena malitia,aeg opinio,ncß vox,nequc
fenſus circundare tibi carnis. Id enim curet, quod afficitur. Itaq jamio exitu
cùm fis,tantummentem tu am,idç quod eſt in te diuinum,uenera beris:neo morrem
metues,fed nequan do uiuere non fecundum naturam incipias. Sichomo eris dignus
mundo quite protulit,nec amplius cris tan quam peregrinus patria tua, admirans
ca quæ quotidie eueniunt,ncg de hac uclillare dependebis. Videt dcus omnia
mentesnudas à ua lis materialibus & corticibus iftis repurgamentis.Sola
enim fua intelllige tia ſola ifta cótingit, quæ abipſohucde fluxerút ac
deriuata funt. Quodipfum tu quoque li facere afucſcas,magna cx parte efficies,
ne ita circútrahare. Qui cnim nó aſpicit carncm circumicctam, occupaturin
ueſte, domo,gloria, relia quisg exterioribus ac quali tabernacu lo
contemplando. Tria ſunt ex quibus conſtas:corpus, anima, mens. Priora duo tátum
ea ratio ne tua funt, quòd corum curam geris: Tercium folum ucrè tuum est, quod
si separes à te. Quæalii dicunt aut faciunt aut quetuipſe,aut ģte futura
pturbát, aut quæ corpori tibi circundato, uela nimulæunànatæ præter cuam
uolunta tem accidunt, ac quæfluctusexterna. rum rerum uoluit:Ita ut intellectus
ab illis rebus, quæ fato una sunt, exemptus libera apud feipfam uitā uiuat,
agensiu Ita,probás euéta, dicens uera, fi inquam remoueas à menteres quæ ci
conſenſu quodam naturæ adhærent, itemģfutu rum & præteritum tempus,
efficies ex tcipfo globú, qualis illcEmpedocleus. Sefolo exultās,totus ceres
atqz rotú dus:Diſces id tátú uiuereg uiuis, hocé. in præsentia.I ta fiet, ut ad
fine ufo ui tæ tibi ſupereſt, pofsis abſque petürba tionibus generosè,&
geniū tuú pbás atq amās exigere. Sæpenumeròmihi mirari ſubijt,quidnãeſſet rei,
q homi nes cùm feipfos magis ĝ quenquam ali um diligat, iñ ſuam de ſeſe
exiſtimatio nem minoris ducant quàm aliorum. Quòd fi quis Deus,aut prudens præ
ceptor mandet, ne quid homo apud fe ipſum cogitet animóue concipiat, nisi id statim
lit prolaturus, certè ne unum quidem diemid coleret: adeòmagis ue remur, quid
proximus de nobis fit exi stimaturus, qusm quid ipsi nos. Qui fit, quod Dij,
cum oía pulchrè & humaniter ordinauerint, hoc unu neglexerint,quod
nonnullos homines apprime bonos, acin quos in plurimus ſuam erga deum pictatem
quaſi teſſeris fecerunt teſtatam,unuinig lele familia res multis pijs
actionibus et facrificijs effecerunt, femel fato functos nonredu cunt,fedomnia
extingui finunt. Idaute Gita é,ſcias deos aliterinſtituturos fuif fe,&
aliter fieri expediuiſſet.Nam fieraj iuſtum, erat utiq etiam poſsibile: ac di
erat secundum naturam, certe naturaid tulisset. Quod ergò res nó ita habet Si
tamen non ita habet,id tibi faciatfidem non fuiſſe ex uſu, ut aliter quàm eft
fie ret.Vides enim ipſe quoquete, dúhoc fcrutaris, cum Deodeiure diſceptarc.
Atqui non hocmodo cũ dijs colloque remur, nili cos optimos eſle &iuſtiſsi
mos putaremus.Si autem tales funt, ni hil certè in rerum difpenfione iniuftè accontra
rationem neglectumpręteric runt. Ad sue facte ad ea etiam, de qbus de
ſperas.Etenim læua manus, cum adalia obeunda ſitinhabilis,propterca q non
conſueuit: tamen frænumfortius quàm dextra continet. Qualete
corripiecmorscorpore et ani mo?Conlidera uaftitatem æui quod an te & poft
te est, brevitatem vitæ, materiæ imbecillitatem. Causas ipsas ab integumentis
nudas inspice. Quo referantur actiones vide. Quid dolor, voluptas, mors,
gloria, quis sibi ipsi occupationum sit causa.Neminem ab alioimpediri, omnia
opinionibus constare. In uſu placitorum Gimilem oportetel ſe pancratiaftæ, nó
gladiatori:hic enim enſem quo utit li deponit, interficitur, alter verò manum semper
habet paratam, camg ut ex uſu eſt conuertit. Huiuſmodi res conſiderandæ ſunt,
diuiſione earum facta in materiam, formam et respectum. Quanta est potentia
hominis? Cui licet nihil aliud facere, qid,quoddeus sit laudaturus et amplecti omnia
quæ ei Deusobtulerit. Quodad naturam conſequitur,eius cauſa dei non ſunt
culpandi, nam nex volentes,neg inuiti peccant nec hoíes. Quamridiculus clt
& perigrinus, qui ratur ca quæ in vita fiunt. Omnia funt aut neceffitas
fatalis,at que ordo ineuitabilis, autprouidentia placabilis: aut confufio
inanis & nul lum habés pręfectum.Quòdfi eft necef fitas ineuitabilis, quid
reluctaris? fin p uidentia quę admittit placationcm, dignum præbe teipſum
diuino auxilio. Sin confufio eft, cui præſtnemo,conté tus eſto, gin tanto rerum
fluctuipſe in te habes mentem: quòd ſi te abripiat æftus,abripiat ſanè
corpuſculú, animu: lam,acreliqua:mentem quidemnó ab ripiet. Quaſi uerò lumen
candela tanti ſperluceat dum extinguatur, ne @ splendorem amittat: Veritas
autem in te et iustitia et temperantia ante obitum tuú extingui debeat. Siquis
deſe opinionem peccati præ beat, cogita:ecqd nofti, finepeccatú? ac fi
peccauit:quid ſiipſe ſeipſum dam net, ide perindeeſt ac ſuum ipfius lædere
oculum. Qui autem prauos pecca renon uult eius limiliseft, quinon uult ficum in
ſuo fructu fuccum ferre, infantes plorare, equum hinnire: acli quz ſunt alia
neceſſaria.Quid enim aliud faceret, quihuncfibi habitum contraxit. Si igitur
trux eſt, cura eum morbum. Sinon conuenit,neagas:& non eſt uc rum,ne dicas.
Tui animi motusita Gint compoſiti,ut omnia circunfpicias.Co gita, quid fit quod
cogitationem tibi commouet: idğ excute dividendo in causam, materiam, respectum,
tempus, intra quod ea resdesinet. Senti vel tan dem, elle aliquid in te
præſtantius ac di uinius quam ca ſunt, quæ affectus ciét, ac quæ te mouent.
Quid enim est intellectus? nummetus, nu suspicio, num CUPIDITAS, num aliquid
aliud tale? Primò cogita nihilfruſtra eſſe agen dum, neq quod non aliquò
referatur: deinde, ut non aliò ĝad ſocietatehuma nā referatur. Paulo post
nusquam eris, nec quicquam eorum quæ núc cernis nco quisq eorû q núc uiuunt.
Omnia cnim nata ſuntitaut mutétur, vertatur et pereant, ut in eorum locum alia
na ſcantur. Omnia opinione cóſtát:hęc aúteſtin tua poteſtate. Tolle igit,cu lu
bet,opinioné,eritộtibi tanĝ pronto riú præteruecto oía ſerena, & linus flu
etibusuacans. Nulla, quçcung ca fic actio malú aliquid patitur,fi ſuo tempo re
definat: icutnesis, qui agit, ca róc aliquid mali accipit. Itidem & corpus
omnium in uniuerſum actionú, quod eſt uita,li ſuo tempore deſinat,nihilma li ea
rationcpatitur:neqisquioppor tunè finem facit ſeriei iftiactionú,malú aliqd'
fecit. Tepusucrò debitum et terminum natura costituit. Aliquamdo et privatim
utin senectute. Oio aut univerli natura. Cuius quidem partib.mutatis, fem
perrecens & uigesmundus perdurat. Seper uerò id pulchrū é & fpecioſum,
o códucit uniuerſo.Finisita g uitæ, în gulis mala quidẻ có nó pót.gene cúnố fit
turpis: quippe necuolútate ènoftra depédens,&àfocietate nó aliena. Bona
aútfit: cú & opportune fiat reſpectu u niuerli, & profit,
&diuinitus accidat. His cogitatis, tria hæcin,pmptu habe. Primúut in agendo
cures, ne quid fru Itra agas, aut fecus quàna ipſa iuſtitia e giflet:in rebus
extrinſecus accidentib. easfortunæ nutu,aut puidétiæ obtigif fe:quarú neutra
éīcuſanda. Secundum, qua le unum quodlibetam privatioe fuéritufa dum animam
accepit,indeý,donccca reddidit:ex quibus conflatum fit et in quæ diffoluatur.
Tertium,ſurſum elato animo humanas res intuere, earumý multiplicem uarietatem:
quàm multa circùm in aëre & inætheréhabitét:caſ te uiſurum, quoties in
ſublime attolla ris: utſintomnia.unius ſpeciei, & breui tempore durent.
Hisne superbimus? Eijce opinionem, & faluus es. nemo id prohibebit. Rem
aliquam moleftè ferés, oblitus es omnia fieri fecundum uniuerfi natu rā;
&quod peccatum fit alienum:præ terea omnia ita ut nuncfiunt, femper fa eta
effe, & futura,núcý fieri ubiq:item quæ homini fit cũ uniuerſo genere ho
minú coniunctio:nó ea ſanguinis autſe minis,fed mentis communicatio. Obli tus
es etiam mentem uniuſcuiuſg eflc Deum et inde fluxiſſe: nihil cuiĝpro prium
effe, ſed illinc & fætum, &cor puſculú & ipſam animulā ueniſſe.Obli
t'es oía uerſariin opinione, gid tm qd præſenseít,unuſquitg uiuit, &
amittit. Crebrò apud animú tuú recole cose certis de rebus nimium sunt indignati,
qui maxima gloria,calamitate, inimicitia, aliáue quacüq fortuna effloruerút.
Deinde quære, ubi nam sintista. Nempe fumus sunt, & cinis et fermo. Aut ne
hoc ipsum quidem. Simulad mentem tibi accidat, qualia Gntomnia. Ut Fabius
Cattullinus rure, Lucius Lupus in hor tis obijt, Stertinius Baijs, Tiberius
Caprei, Velius Rufus Et omnino opinionis cauſa diſcrimě inrebus indifferentibus
ftatutum.Tum quàm uile fit omne quod reliſtit. Item quanto magis fit
philofophięconfenta neum, in data materia tueri iuftitiam, modeſtia,ac
fimpliciterdijs obſequi.Fa ftus enim qui ſuperbiæ uacuitatem o ſtentando
exercetur, omnium eſt gravissimus. Qui quærit cur Deos colas, quomo do eos
uideris, aut elle deprehenderis, ei reſpondebis, primùm efle cos uigles: deinde
absqz hocſit, tamen animam me am cum non uideam,nihilominusma gnifacio:ita
Deosquoq ex uiribus co rum quas identidem percipio,cùm eſſe intelligo,tum
ueneror. In cò ſita eſt uitæ falus, ut fingulas res totas intuea ris, quid in
iis formæ sit, quid materiæ: toto ało ageut iufta agas et vera dicas: Quid enim
superest, q ut fruaris uita bo nis bona annectédo,ita ut minimú ſpa cium
intermittas. Vnú eftlumenſolis, ét fiintercipiaturparietibus, muris,alijs
innumeris rebus. Vnaeſt communis na tura,etſi certo modo affectis corporib.
infinitis diſtincta.Vna anima, et si naturis in numeris,proprijs circúſcriptio
nibus diſtributa uideatur. Una étmens, etsi discreta uideat.Reliquæ proinde di
ctorum partes,tanquam ſpiritus & ſub iecta inſenſata, & inuicé
nihilcóiunctio nis habentia, tamen ipfa quoqà mente & eius potentia
continentur.Atpecu liariter intellectuseiuſdem generis ad iungit ſe naturis,
neo a societate divellitur. Quid quæris? Ut vivas? Id est sentire,appetere,creſcere,deſinere,
loqui, cogitare. Quid horú deſideratu dignu est? Quod Guilia sunt oia hæc,ad
extrc mú te cófer, népe ut fequaris rationem &Deú ducem. Sed utrum huic
instituto pugnat, ægrè ferre aliquid, an uerò morsid abolet? Quanta pars
immenſi infiniti ę ui attributa eſt unicuiq? celeriterea in æternitate euaneſcit.
Quanta pars universi? Quantas est univers? quantula in glebula terræ repis? Hæc
omnia tecum cogitans, nihil animo magnum conci pe, hoc tantum, ut ductu naturæ
agas, &feras quæ communis fert natura. Id cura, quomodomens tua ſeipſa
utatur. In hocenim ſunt omnia. Cætera fine à uoluntate dependeant,quc ſccus,
mor tua ſunt, fumus. Id maximè ad contemptum mortis facit, phi ét,qui dolore in
malis, &uo luptaté in bonis duxerüt, tamen ea dei fpexerunt. Quiid
tantùmboninom nc dignatur, quod eft opportunum, ac cui perinde eſt pluresne an
pauciores fecundum rectam rationem præftiterit actiones,negin aliquo ponit
diſcrimi ne,lógioréné an brcuiori tempore mű dum contempletur, ei mors nequaqua
eſt terrori. Heustu, ciuis fuiſtiin hac magna urbe, adattinet, utrum
quinquénio? Etenim quod secundum leges, id omni bus est æquum. Quid ergo grave
accidit, si te urbe emittit dominus. Non is quidem iniustus iudex, sed natura
quæ te introduxit; perinde ac fi prætorhi ſtrionem emitrate theatro, in quod
cum introduxerit. Quod fi is dicat, fenon quinque, sed tres modo actus recital
fe, recte dicet. Atvero in vita tres actus fabulam implet. Finem enim is
determinat, qui et concretionis olim fuit et nunc est dissolutionis autor.
Tuneutrius es causa. Discedeigitur æquo animo. Nam. &is qui te dimittit,
propicius tibi est. Riconosco da Vero, mio avolo, la piacevolezza de’ costumi
e'l non adirarmi. Dalla riputazione e ricordanza di mio padre una modestia
virile. Dalla madre, la pietà verso gl'iddii, la prontezza nel donare ed il
contenerini non solo dall'onprar male ma dal fermarmi cicziandio col pensiero.
Ancora la semplicità nelle vivande e l'esser lontano dal vivere dovizioso.
Appresi dal bisavolo di non frequentare le pubbliche ragunanze, e di valermi in
casa di buoni maestri, col conoscere che in questo è di mestiere lo spendere
senza risparmio. Dall'aio, di non parteggiare ne co' prasiani ne co' veneziani,
ne co’ palmulari ne con gli scutari. Ditrava gliar volontieri, d'abbisognar di
poco, d'operare da me medesimo, ne di troppo infaccendarmi, e difficilmente ammetter
le calunnie. Da DIOGNETO, di non perdermi in cose vane e non prestar fede a ciò
chei prestigiatori e gli stregoni dell'inicantare e discacciare le demonia e di
altre cose tali si vantano, di non nutricare coturnici ne perdersi circa si
fatti trattenimenti, di sopportare l'altrui libertà del parlare, D'ESSERMI
FATTO DOMESTICA LA FILOSOFIA, l'haver udito primieramente Bacchio, appresso Tandaside,
Marciano, l'haver composto nell'era puerile dialoghi, e di contentarmi di uni
letticciuolo e di pelle e di tutti altre cose alla greca. Da Rustico: di formar
in me concetto che i miei costumi habbiano bisogno di correzione, e di coltura,
di non divertirmi all'imitazione de' sofisti, di non comporre sopra MATERIE
SPECULATIVE e di distendere orazioncine efore tative, overo con altrui stupore
ostentare di esser huoino di A vita rigorosa e benefico, di lasciar la
rettorica, la poetica e l'elegante parlare, e no andar con l'abito solenne per
casa ed usar si fatte cose, e discriver letteruzze semplicemente, come da lui
medesimo fu scritto da Sinoessa a mia madre, di rendermi senza indugio
reconciliabile co’ quelli, che danno qualche disguſtoso commettono qual che
errore, subito ch'e'volessero ritornare al buono, nella lettura non contentarmi
di passarla superficialmente ma con accuratezza, di non esser inconsiderato in
dar l’assenso a ciarle e che leggessi i commentarii d'Epitteto, prouedendomi
d'un esemplare di quelli ch'egli teneva in casa. Da Apollonio, il proceder con
franchezza, con una ferma costanza senza vacillare e non rimirare ad al ître
por grande che fosse, che alla ragione e l'esser sempre il medesimo ne' dolori
più acerbi, nella perdita della prole e nelle lunghe malattie, dal vivo esemplo
di lui riconobbi che può l'huomo esser fiſo e inficmemente rimer ſo. Era egli
non tedioſo nello fpiegare;e ſcorgeuafi vn huo. mio, che riputaua ben chiara
mente l'infima delle ſue doti la pratica, e ſpedita maniera dello ſpiegare i
Theoremi. Da lui ancora imparai come biſogni riceuer dagli amici le grazie,
ſenza rimanerne perciò oppreffo,nemeno co me inſenſato ſprezzarle. Da Seſtola
piaceuolezza el'eſempio d'vna.caſa guida ta con carità: Il proponimen to di
viuere fecondo natura: Vna grauità ſenz'affettazio ne:L'inueſtigare attentamen
te il guſto degli amici: Il tollerare gl'idioti, e quelli, che opinano ſenza
conſiderazio ne:L'effer con tutti confacce uole, ficchè la sua conversazione
aggradiua aſſai più di qualſivoglia anche luſinghe uole adulazione; ed era in
quello ſteſſo tempo ſomma mente riyeriro da quelli, che feco erano: E di più
yna ap prenſiua nell'inuentare,e diſ porre con buon ordine le maffime
neceſſarie al viuere. Non moſtraua mai alcun fe gno ne dira,ne d'altro affetto
maera aſfai lontano da tutte le passioni; ed inſieme eglice lebraua, e lodaua
gli altri, ma ſenza ecceſſo; ed era di gran sapere senza ostentazione. Da
Aleſſandro Gramatico, il non ilgridare, ne riprén dere ingiurioſamente, ſe al
cuno cometteſſe Barbariſmo, o Solleciſmo, o altro,chenon bene fonaua; ma con
bella maniera ſuggerire quel tanto appunto, che ſi douea dire, apportandolo per
cagione di riſpoſta, di confermamento, o di conſiderazione ſopra la coſa
ſteſſa, non ſopra la paro la, o con qualch'altro manie roſo, e coperto
auuertimento, 9 Da Frontone imparai qual ſia il tirannico liuore, la frode, e
la doppiezza;e come tutti quelli chiamati da noi “patrizi” sieno in certa manie.
m A 4 ra disamorati. D’Alessandro il platonico,non iſpeſſo, ne ſenza ne ceflità
il dire, o fcriuere ad alcuno di non hauer punto di reſpiro; e per tal modo
ſpeſſo eſentarſi dalle conuenienze che per l'affetto ſono douute a quelli, che
con noi viuono ſotto preteſto, che li negozi ciaſſediano. Da CATULO di non
havere in poca stima le querele de gli amicisancorchè foffero ir ragioneuoli;
maprocurare di ritornarli nel solito stato; CO, sì ancora di celebrar di cuo re
li precettori;le quali coſe fi rammentano di Domizio, e di Athenodoto:
Finalmente di amare con vero affetto i figli uoli. Dal mio fratello Vero
l'affezione verso i domeſtici; l'amor della verità e della giuſtizia. E per fuo
mezzo hebbi notizia di Traſca, Elvidio, CATONE L’UTICENSE, Dione, e MARCO BRUTO;
c mi formai nell'immagina zione vn reggimento di Re pubblica, con leggi eguali
a ciaſcuno, e di vn Regno, che antepone ſopra tutte le coſe la libertà de'
ſudditi. Dal medeſimo appreſi la negli genza difeſteiro, e la coſtan za nel
PREGIAR LA FILOSOFIA, anteponendola a ciascun'altra cosa; e la beneficenza e la
liberalità, non mai intermessa, lo sperar sempre bene e l’asicurarmi di esser
AMATO DAGL’AMIICI. Non taceva, lasciando di fare la correzione a coloro, che
conosce la meritassero sicchè a quelli, A 5 che gli crano caduti di grazia non
lo tene celato. E non bisogna alli suoi amici conghietturare intorno a quello ch'egli
voleva o non voleua, ma la di lui volontà e apertamente palese. Fu eſortazione
di Massimo esser padron di se stesso, non lasciarsi aggirare in cosa alcuna ed
esser di buon animo in tutti gli altri accidenti, ancora nelle malattie. Esser
ben aggiustato ne' costumi, foane e onorevole e senza querimonia esecutore
delle cose proposteli. E che tutti credessero ch'e' PARLA COME SENTE e che nel
fare in nulla male opera. Di niente si maraviglia terriua: in niuna cosa e
frettoloso o tardo o perplesso, i ne s'at accdioso o si faceva befe fe o vero
era collerico o sospettoso, ma benefico, indulgente, e verace, e pare ch'e'e
più tosto retto per natura, che corretto per istudio, ne giammai alcuno si tene
da lui disprezzato ne manco presume di stimarſi di lui migliore e ſe fu faceto
fu con modo. Appresi dal padre addotivo, l’imperatore ANTONINO PIO, la mansuetudine
e la stabilità nelle cose già con esaminamento deliberare, di non esser
vanaglorioso negli onori di apparenza ma amatore della fatica, operando di
continuo, e di eſſer pronto ad v dir quelli che hanno da suggerir cose PER
UTILE COMUNE, Iin mutabile in dare a
ciascuno quello che ſecondo il proprio merito gli era dovuto, ed esser discreto
ad usar il rigore, come la moderazione, dove bisogna. Non era egli distratto
con l'affetto verso de giovani ma al pubblico totalmente intento. Non merte GLI
AMICI in necessità che feco cenassero ne bisogna che lontano peregri nafiero
per lui, però lo trovano l'istesso quelli che per qualche necessità erano rima
Ai indietro. E ricercatore ne'consigli esquisito e fermo. Non s'attacca ad ogni
sufficiente indagazione delle opinioni che gli occorreno. Attento e a
conseruarsi GLI AMICI de quali mai non si attedia ne pazzamente amavali e si
contenta d’ogni cosa con volto sereno. L’antiuedendo, e preordinando di
lontano, eziandio le coſe minime senza strepito. Non vuole sentirsi d'attorno
ne acclamazioni ne adulazioni. Tenendo in buona guardia le cose necessarie al principato,
e sempre provveduto di ciò che a quello fa mestiere, sopportando con pazienza
se di questi e simili rigori viene tacciato. Non e superstizioso circa gl'iddii
ne quanto agli huomini troppo popolare, cattando l'aura della plebe, ma in
tutto attento, e ſodo, non dimenticando mai il convenevole. E quelle cose che
conferiscono in qualche modo agli agi della vita delle quali la fortuna gli
tera stata liberale;vfaua ad un’ora senza fasto, e iſchiettezza, dimodo ch'egli
godeua indifferentemête del le preſenti, non bramando ciò chenon haueua. Non vi
fu alcuno; che diceſſe di lui che fosse Sofista, o Caſalingo o pedante; mavn
perſonag gio maturo,perfetto,ſuperio. re alle adulazioni, capace a gouernar ſe
ſteſſo e gli altri; ed oltre ciò onoraua quelli, che veramente eranoFiloſofi;
tuttauia non dileggiava gli altri.Era di più nelle conuer fazioni huomo
compagncuo le, egrazioſo, peròfenza te dio.Del proprio corpo tene ua cura
quanto conueniua, non come huomo del tutto dedito a prolungare la vita, o per
fare il bello, però ne meno con traſcuraggine, ma in maniera tale, che col
propio riguardo aſſai rade vol. te haueſſe biſogno di medi camenti, o al di
fuori epitçi marſi. E ſpezialmente cedeua ſenza inuidia a que’tali, ch'e rano
dotati di qualche facul tà, come a dire, o di ben lare, o dinotizia per via
d'if toria, foſſe di leggi, o foſſe di coſtumi, o di altre fi fatte co ſe; anzi
ſtudiauaſi che ciaſcu ņo ſecondo il proprio talen to acquiſtaſſe nome e crediato.
E facendo ogni coſa ſe condo gl'inſtituti de'maggio. ri,non perciò veniua ad
appa fire rigido guardatore dell' antichità, non efſendo amico di muouerſi
leggiermente, ſuariare,ma di diinorare ſem pre ne'medeſimi luoghi, ed affari. E
dopo i paroliſmidem dolori di teſta tornania ſubito freſco, e vigoroſo alle ſue
ſoli te operazioni.Egli non hauea ua di molti arcani, ma po chiſſimi, molto
radi, e queſti ſolamente circa gli affari del comune. Andaua con pru denza, e
miſura nel conce dere gli ſpettacoli, nelle fab briche pubbliche, e congia rij,
e ſimili opere, fi come colui, che riguardava a quel to, che conueniuà di fare
e non alla gloria, che dal te coſe fatte ne era per ri fultare: Non vſaua bagni
fuor di tempo,non era vago di edificarc, non inuentore di viuande, ne di
teſſiture, etine ture di drappi, ne ambizio fo di ſeruirù di bella preſen za. A
Lorio ýſaua la tonica cheſe gli prouuedcua dalla balla villa, e così sſana ordinariamente
per Lanuuio: ma nel Tuſculano per ſoprauue fta yn tabarro; e di tal licen za ne
faceua come ſcuſa. Era inſomma tale il ſuo tenor di viuere, non diſguſteuolc,
non iinmodefto, non eccedente nelle ſue azioni, ne comeſi dice in prouerbio,
Infino al ſudore; ma tutte le coſe fue ſi annouerauano così ben dif poſte, come
ſe foſſero fatte a bellagio, placidamente, or dinatamente, con ogni vigo re, e
conſonanza fra diloro. Onde a propoſito di lui ſi po teua dire, ciò che di
Socrate ſi racconta ch'egli poteua aſtenerſi, e goderſi di quelle coſe, delle
quali molti, e ncll? aftenerſi s' indeboliſcono, e nel goderle ſi moſtrano in
temperanti. Ma l'eſfer padro 3 nic di ſe, e lo ſtar ſaldo, e sobrio nell'vno e
nell'altro, è da huomo, che ha l'animo ben aggiuſtato, ed inuitto, come ſi vide
nella malattia di MASSIMO. Dagl'Iddij riconoſco l'haucr hauuto buoni auoli,
buoni genitori, buona ſorel la, buoniprecettori, buoni dimeſtici, parenti,
amici, e quaſi ogni coſa buona: che, niun di loro inconfiderata mente io
offendeſfi, benchè con tal natural diſpoſizione', che ſe foſſe venuto il caſo,
io vi farei traboccato. Tuttauia per grazia degl'Iddij non ſe gui tal
combinamento di co le, che ſi diſcopriſſe queſta mia inclinazione: E che io no
foſſi più lunga mente alleua to appreſſo la concubiņa di mio auolo, come
dell'hauer conferuata immacolata la mia pubertà; e che io non mi riſentiſsi
d'eſſer in età virile prima del tempo, anzi in ol tre d'hauer indugiato dopo
che io peruenni a quell'età: L'effereſtato ſoggetto ad un Principe padre, il
quale era per farmi por giù ogni altcri gia, e per farmi appréderc che ſi può
viuere in Corte ſenza che ſieno necaffarie le guardie, le veſti ſegnalate, le
cerimonie delle fiaccole, e delle ſtatue, o altro ſimile ap parato; ma che ſia
lecito il trattarſi sù l'andare di priua to,ne quindi auuilirſi, o de primerli
per far quello, che conuiene ad vn Principe in riguardo del pubblico go uerno ·
Ancora d ' efformi tocco in forte vn fratello tae le, che poteua co’ſuoi coſtu.
mi eccitare in me vn eſatta cura di me ſteſſo, mentre in-: fieme con l'onore, e
con l'a more mi ricreaua: D'hauer hauuto figliuoli d'indole non tralignante, ne
di corpicciyo lo mal fatti: Che io non fa ceſſi maggiori progreſſi nella
Rettorica, e nella Poctica, o in fi fatti ſtudij, ne'quali for fe mi ſarei
troppo ſuagato, ſe mi fofſi auuiſto che in quelli felicemente m' auanzaua: Che
io preueniſſi di colloca re nelle dignità i miei edu catori, concioffiecoſa che
mi pareua eli lo defiaſſero, non nutrendoli di ſperan za, come che cffendo ano
cora giouani poteſſero al pettare quello che poſcia io era per fare: Parimente
d'ha uer io conoſciuto Apollonio, Ruſtico, e Maſsimo: Che ſo uente, e
chiaramente mi li presétaſse nell'immaginazio nc la forma della vita c011
ueniente alla natura. Onde', per quanto appartiene agli Iddij per le
ammonizioni,as ) iuti, ed iſpirazioni da eſsi co partitemi, non vi è ſtata coſa,
che mi tolga il viuere rego lato alla natura, o che'l man camento non proceda
al tronde, che permia colpa, e per non offeruare io gli au uertimenti, de'quali
fui da lo ro come addottrinato: Che: il corpo mio fia durato nella ſorte divita,
che io ho menato: Di non mieſſer non ſolo accoſtato ne a Benedetta, ne a Theodoto;
mache ancora dopo dalle paffioni ' amore ho conferuato la men te fana: Che
ſpeffe volte tro uandomi adirato con Ruſtico io no fia traſcorſo tantoltre, che
me ne habbia hauuto a pétire:E che giacchè mia ma dre era per morir giouane, io
viuuto ſia cô eſſa inſieme ne glivltimi anni ſuoi.Ogni vol ta che io habbia
voluto fou uenire il pouero,o qualunque altro biſognoſo, non vdij mai che i
denari, co’quali poteffi ciò fare mi mancaffero; ne mai accadde tal’vrgenza, che
io da altri gli accattaffı. D’ hauer conuerfato con vna moglie tanto riuerente,
tan.. to amoroſa, e tanto ſchietta: Che ho haluto buona forte negli educatori
per li figliuo li: Che in ſognomifieno ſtati fuggeriti molti rimedij, prin
cipalmente quello allo ſputo del fangue, e quello alla ver tigine; di ciò hebbi
la grazia in Gaeta ed anco in Chre fa: Che, eſſendomi io dato al l'acquiſto
della Filoſofia, non m'abbattei in qualcheSofiſta; ne conſumai il tépo in iſqua
dernare ſcartafacci, ne in or dire, e ſoluere fillogiſini; ne mi ſmarrij tra le
quiſtioni meteorologiche. Queſte co fe tutte riconoſco dall'aiuto degl'Iddij, e
dalla loro for tuna; dimorando io nel pacſe de' Quadi preſſo il fiu me Granua. Di
bel mattino ho così da predire a me ſteſſo: E’faci le che io m'incontri in tale,
che ſia o importuno, o diſ grazioſo, o proteruo, o malizioso o invidioso, o
nemico di ogni comunanza. Tutti queſti difetti prouennero in eſsi
dall'ignoranza del bene', e del malc; ma hauendo io notizia della natura del be
ne, che è l'eſfer'oneſto; e del male, che porta al no oneſto; ed eſſendomi
inſiememente nota la natura di chi nel male pecca, poſciachè egliè a me,
cõgiunto no tanto per la ſimi. gliáza del ſangue, e della ge nerazione, quanto
per la mé te, la quale è comeporzione, della diuinità, ne ho da trar re
conſeguenza,che non pof lo rimaner leſo da alcuno de detti difettuoſi;concioffiecofa
che niuno mi auuilupperà cô le ſue ſconueneuolezze; e non ho da ſdegnarmi con
chi è a me congiunto neodiarlo, im perocchè ſiamo fatti a fin di cooperare,
come li piedi, le mani, le palpebre, e de i den til'ordine di ſopra con quel di
ſotto. Il contrariarſi dun que l’yno all'altro è contro all'iſteſſa natura, e
l'adirarſi, e lodiarſi è vn contrapporſi. Tutto quell'eſſer mio ſi ri ſolue ad
vn pezzo di carnuc cia, ad vno ſpiritello, ed al la parte ſuperiore, ch'è la
mente. Laſcia da parte i libri, ne coſa alcuna ti diſtragga. Ciò non t'è
permeſſo: ma co me sul'orlo della morte ſprez za quella carnuccia, che con
ſiſte in ſanguuccio, oſſetti, ed in vna teflitura tramata di nerui, venette, ed
arterie. Conſidera ancora che ſia lo ſpirito? aura che mai non ri mane ľifteffa;
ma ognora B fuori ſi ſpira, e reſpirando di nuouo li attrae.La detta terza
parte dunque di noi è quella, che ci gouerna, circa della quale così hai da
diſcorrere, Se' vecchio non hai da com portare che queſta più viua in
servaggio. E che ſia più per violenza ſtraſcinata dall' im peto, ch'è alieno
dall'huma na comunicazione; e che non fi prenda più faſtidio di quello, che
cagioni il fato al preſente, o in auuenire. L ' opere degl'Iddij tutte fon ri
piene di prouidenza; e quelle della fortuna non ſono ſenza concorfo della
natura, o del la coordinazione, ed intrec ciamento delle coſe guidate dalla
prouidenza. Quindi tut to ſcaturiſce. Aggiugni anco ra, che così èneceffario,
conferendo all' vniuerfo Mondo, del quale tu se porzione e ad ogni parte della
natura è buo no quello che porta la comu ne natura; e ciò che s'affà al la di
lei conferuazione - Però con feruano il Mondo così le mutazioni degli
elementi,co. me quelle de compoſti. Que Ite coſe a te ſieno ſufficienti, e
perpetui decreti. Caccia ľ auidità de'libri per non mori re fufurrando, ma con
vera placidezza, ringraziando di tutto cuoregl'Idddij. Ammcntati da quan to
tempo in quà se? andato differendo queſte co ſe; e quante volte de termini, a
te aſſegnati da gl'Iddij, non ti ſe’valuto.Biſogna vnavolta che tu riconoſca di
qualMon do ſij parte; e da qual Rettor del Mondo deriui: E come ti è ſtato
circonſcritto yn termi ne di tempo, il quale, ſe tu ben non te ne varrai per
tran quillarti, trapaſſerà, e tu con esso, leſſo;ne ritornerà più. 2 Sta
totalmente, e in ogni tempo intento, come conuie ne ad yn Romano d'animo forte,
e maſchio, ad ele guire quello, che hai tra ma no, con attenta, e non affet
tata grauità, con humanità con libertà, con giuſtizia, con dar poſa a te
ſteſſo, rimo uendo ogni altra immagina zione; E allora la rimouerai, quando
facendo qualche a zione riputerai eſer l'vltima della tua vita, lontana però da
ogni temerità, e da ogni appaſſionata auuerſione alla retta ragione, dalla
diſſimu lazione e dall'amor di te ſteſ ſo, e da qualſiuoglia diſpia cenza alle
coſe a te per fatali tà congiunte. Tu vedi quan te poche ſiento quelle coſe, le
quali poffedendo, potrà vno viuere felice, e diuina vita; poſciachè gl'Iddij
niente di più domanderanno a colui, che queſte tali coſe oſſerua 3. Rimprouera,
o anima,rim, prouera a te ſteſſa, come t'è ſcorſo il tempo per propria mente
honorarti, eſſendo che la vita comunemente ſe'n fugge;ela tua è già quaſi su
I'vltimo, riponendo la tua fe licità nell'opinione degli ani mialtrui. 4 Perchè
fe diſtratto dagli ac. cidenti ch'eſtrinſecamente di foprauuengono? Proccura
del l'ozio a te ſteſſo, per appren dere qualche bene; e ceſſa da aggirar la
mente. Inoltre hai da guardarti da vn'altro ſua. ria mento: Imperocchè alcu, ni
quaſi delirano con le loro aziani: cioè quelli, che tra uagliano aſſai nella
vita, ne hanno fine certo, doue indi rizzino ogni inclinazione, e tutta quanta
la loro imma ginazione. $ Non fi vedrà facilmente alcuno eſſer infelice, perchè
non comprende quel, che ſe gua negli animi altrui: ma è Forza cheinfelici fieno
quelli che non offeruano i moui menti del proprio animo. Egli èmeſtiere che ti
ri cordi fempre delle coſe ſe guenti: Qual fia la natura de principij
vniuerfali, e quale la propria; ecome ſi riferiſca quefta a quella, equal parte
ellaſia, e di qual vniuerfo: E cheniitno impediſce, che tu del continuo non
facci, e non dichile cofe congruealla na B · til tura, della quale tu ſe'parte.
Filosoficamente diſcor re Theofraſto intorno al far comparazione de'peccati, fe
condo che più comunemente fi vſa tal paragonc, afferendo efſer più graui quelli,che
per la concupiſcibile fi commer tono, di quelli, che per l'ira fcibile.
Imperocchè l'adirato con qualche dolore, e occulto raggricchiamento dell'animo
pare che ſi diſcoſti dalla ra gione; doue quegli, che pec ca per la
concupiſcenza, vin to dal piacere, dimoſtra che in certo modo più da intem
perante,e più da effeminato fdruccioli nel peccato. Retta mente dunque, e da
filoſofo proferì, maggior colpa incora rere chi pecca con piacere, che qucgli,
che pecca con dia ſpiacere: E in ſoinma l’ynos" assomiglia più a colui che
per innanzi habbia ricevuto qual che ingiuria, e che, forzato dal dolore, entra
in collera;l altro ſpontaneamente fi muor ue all'operare ingiuſtamente, portato
a ciò fare dalla con cupiſcibile. 8 In tal modo hai da con durre P opere, ei
penſieri, come tu foſſi in punto per vſcir di vita. Ne il dipartirti dagli
huomini ti ha dapeſa re; poſciachè, eſſendoci gl'I & dij, quefti non
poſſono mai indurre al male; fe poi gl'Iddij non ci foſſero, o nonhaueffen ro
alcun penſiero delle coſe humane, che mi giouerà di viuere in yn Mondo manche:
uole degl'Iddij, e doue mans chi la prouidenza?Ma e gl'Id BS dij cifono, ea
cura loro ſono le coſe humane; e acciocchè lº huomo non cadetle in quello che
veramente è male, il tut to ripoſero nel ſuo volere. Nell'altre coſe, ſe vi
fofle del male, haurebbero pure in torno a queſto prouueduto, a cagione che
niuno mai vi pericolaffe. E in vero quello che non può render la perfo na
peggiore, come potrà far peggiorela vita ſua?La natura dell' vniuerfo ne
ignorante mente, ne ſcientemente, ma per non poterle preferuare,ne taddirizzare
le haurà trafcura te Ella certamente non com miſe sì enormepeccato, oper
mancanza del potere, odel fapere, che i beni, eimali ac cadano vgualmente, e
indif ferentemente agli huomini buoni, e a imaluagi;giacche la morte e fæ vita
la gloria e'l disonore, il trauaglio e I pia cere la ricchezza e la pouertà; e
così fatte coſe auuengono vgualmente agli huomini si buoni, si cattiui, non
hauen do elleno in ſe nedell'oneſto ne del difoneſto; dunque non portano feca
ne bene, ne male O come il tutto ben pre fto ſuamiſce!NelMondo i pro prij corpi,
e dopo anche col tempo le memorie di effi fi dileguano. Di tal condizio ne
fonotutte le coſe ſenſibilis e ſingolarmente quelle, che adefcano col piacere',
o che atterriſcono col tranaglio, o per lo faſto ſono applætrdite, quanto
fonovili,diſpregevo Li, fordide, e facili acorrom B 6 perſi,e già boccheggianti?
10 Tocca alla facultà intel lettuale l'auuertire, che coſa fieno quelli, nelle
opinioni, e voci de'quali fi conftituiſce la gloria: Che coſa ſia il morire; il
quale, fe alcuno il contem pla per ſe ſteſio ſolamente; e conla diſgiunzione
della con: fiderazione ne ſepari tutte l? immaginazioni, che con effo vengono
rappreſentate, com prenderà non eſſer altro, che yn opera di natura: Onde da
fanciulletto è l'atterrirſi ad vi opera della natura; e pure il morire non ſolo
è opera + zione della natura, ma molto a quella conferente: Come s? vniſce
l'huomo a Dio; e con qual parte di ſe, e con qua ! maniera ancora tal
particella dell'huomo all' ora è affetta e diſpoſta. II Niuno è più miſerabile di colui che
s'aggira per tut to a rintracciare ogni coſa, e Va razzolando comecolui dice
fin nelle viſcere della terra; e an cora va cercando per con ghietture quello,
ch'è negli animi altrui, non accorgen doſi che gli ſarebbe a baſtan za di
paſſarfela bene col ſuo genio, e riuerentemente ſe condarlo, eſſendo dentro di
lui. Queſta offeruanza però conſiſte nel preferuarlo puro dalle paſſioni,
dall'eſſerarro gante, dalli diſguſti,che ſi pi gliano per quello che venga da
gl'Iddij, o dagli huominis concioſliecoſa checiò, che vi: ene dagľ Iddij per la
virtù s? ha da venerare;quello cheda: gli huomini, s’ha da amare per la
congiunzione della natura: anzi alle volte in yn certo mar do fono degni di
compaſſione, per non conofcere il bene, e il male; ne queſta ignoranza è minore
dell? offüfcazione di poter diſcernere il bianco dal nero. Eziandio che tre
mila anni ti rimaneffero a viuere e di più altrettante decine di migliaia',
nondimeno ricor dati che niuno perde altra vita, che quella, cħeviue', ne
altraviue;che quella cheper. de.. Al medeſimo dunque fi riduce così la vita
funghiffima, comela breuiffima. Perchè quello, ch'è preſente, a tutti &
vguafe,benchè quello, ch'è perduto, a tuttinon è va guale; ecosì quello, che
& perde, pare chefiavn attimo folo. Imperocchène il paffatoy, neil futuro
da niuno ſi perde; concioſliecofa che quelloche non ſi ha, come può eſſere tolto
da veruno? Però dique ſte due coſe è da ricordarſi: l'vna, che dall'eternită
tutte le cofe fono ſtate ſimili, vol. tandoſi in giro, e non v'è niu na
differenza, ſe per cento, o per dugento anni, o pure per tempo indeterminato
vedrai le medefime coſe: La ſecon da è, che colui, che lunghiſſi mamente ville,
come quegli, che preſtiſfimo muore, refta no pareggiati nella perdita, mentre
non vengono a rima ner priui, chedelpreſente, il quale ſolo hanno, eciò, che
non fiha, non ſi perde. Ogni coſa ſta nell'opia nione, il che appariſce mani
feſto dalli diſcorſi con Monimo Cinico. E chiaro farà l've tile di queſti
diſcorſi, ſe da quelli ſe ne coglierà il midol lo della verità. Oltraggia ſe
ſteſſa l'ani ma dell'huomo:Primieramen te allora che, quanto è per 0 pera fua,
diuenta yn’apofte ma, o ghianduccia delmon do;mentre che chiunque mal
volentieri prende quello, che il tempo porta, è vn ' diſtacs camento della
natura, in par te della quale le nature di cia. fchedun degli altri ficonten
gono:Secondariamente,quan. do ſi ha auuerſione a qualche huomo, o ſe gli
opponeper danneggiarlo, come fanno que', che ſi adirano: Nel ter żo luogo
tratta male fe me deſimaallora, che ſi arrende al piacere, o al dolore: Nel
quarto, oue diſſimulando fina tamente,e ſenza verità, qual che coſa fa, o dice:
Nel quin to, quando non indirizza l' azioni fue, eiſuoi moti à niun ſegno; ma
opera a cafo, e ſenza congruenza; effendo neceſſario che ancora le coſe
minutiſſime habbiano rela zione al lor fine. Ora il fine degli animali
ragioneuoli è di ſeguire la ragione, e la leg ge della Città, e dell'anti
chiſſimo gouerno. Il tempo dell' humana vita è vn punto: la ſoſtanza fluſſibile:
il ſenſo caliginoſo: e la coagulazione di tutto il corpo facile a
putrefarſi:lani moyn continuo rigiro: la for tuna difficile a conghietturarm
fi: la fama vna incertezza E per recare
le inolte parole in vna: tutte le coſe corporali vna corrente, quelle dell'ani
ma vn ſogno, e vn fuina d'ac qua: la vita yna guerra, e vor pellegrinaggio di
vn viandan. te: e la famapoftuma farà di menticanza. Checofà è dun que, che
pofſa fare durare 1 huomo Una sola la
Filosofia; e queſta conſiſte nel con feruare l'interno genio inno cente e ſenza
taccia,ſuperio re a ' piaceri, e a ' dolori; che niente operi temerariamente,
ne con bugiane con finzione: e che non habbia biſogno, che altri faccia, o non
faccia. In oltre, che ben ricetia ciò, che auuieneso impoſto gli ſias come di
là tutto auuenga, donde egli medeſimo è ve nuto; e ſopra tutto cheaſpetti la
morte con animno ſërena, non: nonla confiderando, che co mevn diſcioglimento
degli clementi, de'quali qualſiuo glia animale fi compone. E ſe agl'iſteſſi
elementinon è ma. lala mutazione continua,che ſi fa di ciaſcuno di eſli in vn
altro, per qual ragione hafli a temere la mutazione, e il di fcioglimento di
tutti inſie me, giacchè è conforme al la natura e niente è male, eſſendo
conforme ad effa? Fin qui a Carnuto. Ccoveredt gde jeunesse eos POS. Non è
ſolamente da confiderare che la vitaſi va di giorno in giorno conſumando; e che
di eſſa ne rimanc il meno; ma quel lo ancora fi vuole andar ri penſando, che
quantunque yno viueffe eziandio d'au uantaggio, pur reſta quegli incerto ſe ſia
per durargli la mente habile alla buona in telligenza degli affari, e di quella
ſpeculazione, che ri chiede nel trattare le coſe humane, e diuine: Imperoc „chè
fe comincierà perauuen. zura l'huomo a delirare, non perciò gli mancheran forze,
ne il reſpiro, ne la facultà del nudrirſi, ne l'immaginatiua, ne gli appetiti,ne
ſimili altre potenzc; ma s’eſtinguerà ben ſi affatto in lui quella del po terſi
di ſe ſteſſo valere, e di perfettamente adempiere le parti del ſuo miniſtero, e
di chiaramente ſpiegare i con cetti dell'animo, e di confi derare altrui, fe
tal volta debba a ſe medeſimo dare la morte; e tutti finalmente quci
ſimiglianti affari, i quali per ben riſoluere richiedel vn perfetto, e
raffinato di ſcorſo.E'dunque da non iſtar fone a bada, non ſolo perchè la morte
ſempre più s'appref ſa, ma perchè in oltre il ra ziocinio, e l ' intelletto noi
fpeffe volte abbandonano innanzi alla morte. E'ancora da oſſeruare,che
tuttociò, che alle coſe già dal la natura prodotte ſoprattuie ne, aggiugne loro
yn certo che di bellezza, edi grazia; comeper eſemplo, quando il pane ſi cuioce,
infrangonfi, e in varie guiſe apronfi four? eſſo alcune particelle di cro ſta,
che fuor della creden, za, ed arte del fornaio co sì ſcrepolate con particolar
compiacimento muouono P appetito. Così a i fichi, quan dogià ben maturi rompeſi
la camicia; e allylive ſtagiona te, mentre principiano a pu trefarſi, fi viene
ad accreſcere in tal particolare alletta mento: le ſpighe, che per lo pelo s'
inchinano, il ſopraci glio del Lione, la baua, chc1 Cignale ſchiumando getta
dal grifo, e altre coſe, delle quali, ſe ciaſcuna riguardaſi da per fe,
appariſce lontana da ogni bellczza,per lo effe re all'opere della natura con
giunte, recano a queſte orna mento, e agli animi deri guardanti diletto;
Ondechi ha l'affetto e la conſiderazio ne intenta intorno a ciò, che vien
prodotto nell' vniuerſo, quafi niente troverà anco nel le cofe, che a quelle
addiuen gono, come neceſſarie pendi ci, che con qualche buona grazia non le
veda congiu gnerfi. E così i veri digrignan ti grifi de viui animali non con ininor
piacere rimirerà, che quelli, che con iſcherzo dalla pittura, e dal rilieuo ſo
no rappreſentati; e vn certo vigorc, e vna certa maturità d'vna vecchia, o d'vn
vec chio, non che la venuſtà de? fanciulletti, potrà con ben purgata viſta
rimirare; e mol te ſimili cofe, che non ad ogn’vno ſaranno accette; ma ſolo a
colui, che finceramen te ne'ſegreti,e nell'opere del la natura ſi ſarà
internato. 3 Hippocrate, che haueua fanati molti infermi', amma latoſi egli ſe
nemorì: I Cal-, dei a molti prediſſero le mor ti, ed eſſi poſcia furono dall:
ora fatale portati via: Aler ſandro, Pompeo, e Caio Ce fare, hauendo intiere
Città del tutto, e tante volte di ſtrutte, e tagliate a pezzi in battaglia
molte decine di migliaia d'huomini tra fanti, e caualieri, eſſi ancora alla fi
ne vſcirono di vita: Heracli to, dopo hauer con diſcorſo naturale trattato
dell'incen dio del Mondo, gonfio le vi ſcere d'acqua, rauuolto in iſterco
bouino, finì i ſuoi gior ni: Democrito da i pidoc chi, Socrate da altri vermi
reſtarono eſtinti. A che quc ſti racconti? Entraſti in bar ca,
nauigafti,approdaſti: Eſci fuora, e ſcendi; ſe pervn'al tra vita, iui ancora
faranno gl'Iddij, eſſendo quclli per tutto "; ſe reſterai ſenz'alcun ſenſo,
ceſſerai d'eſſere.ratte nuto tra i trauagli, ed i piace ri, e di feruire ad vn
vaſel letto tanto inferiore, quanto la porzione è ſuperiore a quello, a cui
ella ferue. Poi chè queſta è la mente, e il genio, doue quello terra, e
putredine. 4 Non conſumare queila parte di vita, che ti riinane nel darti
inipaccio,o penſiero de? fatti altrui, quando quelli non riguardino all vtile
comune; altrimente tu reſterai impac ciato in coſa da te aliena, ro fiſticando,
che faccia il tale, cd a qual fine e che dica, o penſi, o macchini, e altre co
ſe ſimili, le quali ci fanno de uiare dall' offeruanza della parte, ch'è la
propria di cia fcuno reggitrice. Concioffie coſa che biſogni nel diuilare ľ
immaginazione, sfuggire ogni penſiero intempeſtiuo, e vano, e molto più quello,
che habbia del vizioſo e del maluagio: Alucfare ancora vuolſi ſe ſteſſo a
penſare ſolo a quelli particolari,de' quali, chi all'improuiſo t’interro gaſſe,
che penſi tu adeſſo? tu polla con franchezza riſpon dere, ſenza interporre
tempo di mezzo, queſto, e queſto; dalle quali riſpoſte ſubito manifeſtamente
appariſca che i penſieri tutti ſono in te ſchietti, manſueti, come conuiene a i
viuenti per l'hu mana comunicazione; e che, tu non ſei applicato ' a i piace ri,
ne a qualſifia voluttuoſa immaginazione, non alle conteſc, non all'inuidia, o a
i ſoſpetti, o ad altro, per lo che tu ti hauefli da arroſſire, diſcoprendo
quello, che tu couaui per auuentura nell' C 2 animo. Giacchè vna perſona, così
coſtituita, è quaſi vno degli ottimi, qual facerdo te, e miniſtro
degl'Iddij,ſer uendoſi di quello, che den tro di lui riſiede Questo rende l'uomo
illibato e libero da i piaceri, illeſo da ogni trauaglio, intatto da ogni
ingiuria e ſenza vn mini mo ſentore di malizia, cam pione del maggior combat
timento, da non eſſer ab battuto da paſſione alcu na, intinto nella giuſtizia
in fino all'intimo, che con tut to l'animo ben riceue quanto auuiene, e quanto
per defti no gli venga compartito. Non iſpeſſo ne, fuori che in grandi
neceſſità, e che ſpet tano all' vtile comune, ri flettente a quello, che altri
ſi dica, o faccia, o penſi, ſolo da vn canto intento a ' proprij affari, e
dall'altro continu a mente attento a ciò, che per le contingenze dell' vniuefo
a lui tocchi; acciocchè s'in duſtrij di rendere quelli di bella oneſtà compiuti,
queſto reputi colmo d'ogni vtile e d'ogni bene. Concior ſiecoſa che, quanto a
ciaſcu no viene dal fato deſtinato, fia portabile, e del bene ſeco portante. Ed
egli tenga a mente, che a lui effcr dee fa migliare tutto quello che ha del
ragioneuole, e che la natura dell'huomo richiede, e che dee applicare alla cura
di qualunque ſi ſia degli aleri uomini. Però non ha a vo ler dipendere dall' opinione
così d'ognuno, ma ſolo di C 3 coloro, che viuono conforme alla natura; e dee
offcruare quali ſieno quelli, che diuer famente viuono ilmodo, che tengono in
caſa, e fuori, il giorno, e la notte, e quali, e con quali conuerſando ſi me
ſcolino; Eper ciò non ſi ha ď hauer in alcun grado la lode di coſtoro, che ne
meno fe fteſli contentano. Non opererai come con tro tua voglia, ne come ſcor
dato del bene comune, ne ſenz' hauer prima ventilato efattamente l'affare, ne
ritro fo; ne attenderai con bellet ti di vago dire a vanamente liſciare i tuoi concetti,
non effendo ciarlone, ne troppo faccendiero. Iddio, ch'è in te, preſieda al tuo
viuere da perſona virile, e nell'età auanzata, e di vita politica, e da nato
Romano, e chema neggia gouerno. Sta in mo do tale apparecchiato e diſ poſto che
alla prima chiama ta tu ſij pronto di ſtaccarti da i viui fi intero, che ti fia
data credenza senza tuoi giuramenti o teſtimonianze altrui. Queſt'vno non
manchi, ch'è tal ſerenità nell'animo, che non occorrono conforti efterni, ne di
effere tranquil lato per opera d'altri: s'ha dunque ad cſſer per ſe ſteſſo
retto, e non raddirizzato. 6 Se nella vita humana tu trouerai alcuna coſa
migliore della giuſtizia, della verità, della temperanza, della for tezza, e in
fomma fe altro meglio, che l'eſſer l'opera zione della tua mente sufficiente a
ſe ſteſſa, acciò ca gioni, che tu operi ſecondo la retta ragione, e in ciò, che
non può dipendere dal pro prio tuo conſiglio, al fato tu ti accomodi: ſe meglio
dico di ciò tu truoui, od iſcopri,a quello volgiti con tutto l'a nimo, e godi
dell'ottimo, che haurai ritrouato. Ma fe nulla t'appariſce, che ſia inigliore
dell'iſteſſo genio, che in te riſiede, il quale habbia sottomessi a se stesso i
proprij mori de'tuoiappetiti, ed eſamini le coſe. immaginate, e che dalle
perſuaſioni, o alletta mcnti de' ſenſi, come Socrate dicea, ſia diſtratto, e
con 1 affetto attento agli huomini, fi fia fubordinato agl'Iddij: Se di queſto
trouerai eſſere ogni altra coſa inferiore, e più vile, non dar luogo nclla
mente tua ad altra cofa veru na, alla quale vna volta che tu o propendendo, o
decli nando aderifli, ſareſti ferma mente impedito a poter libe ramente
preferire ad ogn'al tro il ſingolare, e proprio tuo bene; non eſſendo giuſto
che al bene ragioneuole e operatiuo ſi contrapponga qualſiuoglia altro, che ſia
in diuerſo genere, come fareb be l'applauſo della moltitudi ne, o la dignità, o
le ric chezze, o il godimento de piaceri;tutte coſe le quali ha. uendo
apparcnza, ancorchè in minimo, di adattarſi a noi, repentemente preuarranno, e
ci rapiranno. Ondeio ti di co, attienti fchiettamente, e francamente al meglio;
e С aderiſci a quellos e il meglio è quello, che a'te è di profit to; però ſe
ſi confà, come a perſona ragioneuole, queſto riſerbati; ma ſe ſolo, come. ad
animal viuente, riggetta lo, e ſenza gonfiartene,cuſto diſci il fologiudicio,
per po ter formare vn eſame certo, e ſicuro. Non iſtimare giam mai, che ſia
coſa conferente a te ſteſſo quella, che tal vol ta forzeratti a traſgredire la
fede, mancarc all honore, odiare alcuno, ſoſpettare maledire, fintulare, ed
ambi re qualche coſa, laquale hab bia biſogno di naſcondimen to di muri, e di
velami. Im perocchè chi ſtima fopra tut to la propria ſua mente, e il genio, e
l'operazioni della ſua virtù, quegli non fa azione da tragedia, non pia gne,
non hannà biſogno di Itar folitario, ne della com pagnia di molti. Esquel che
più importa, viuerà ſenza de fiderare, e ſenza sfuggire co fa alcuna; ne farà
molto ca fo, ſe dell'anima circondata dal corpo ſe ne ſeruirà per più lungo, o
per più breue tempo: acciocchè qual ora s'haueſſe a dipartire, così franco ſe
ne vada, come ha ueffe a disbrigarfi di qualche affare, che gli conueniffe efe
guire con decoro, e con ogni modeſtia: ofſeruando queſto folo puntualmente per
tutta la vita, che i fuoi penſieri s. aggirino attorno qualche co fa, che ſia
propria de viuen ti razionali, e ciuili. 7 Nella mente di perſona C 6 ben
aggiuſtata, e purgata non trouerai niente di guaſto, niente di marciume, o che
v'habbia fatto ſaccaia. Simil. inente. non troncherà il fato la vita di coſtui
imperfetta, come ſi direbbe dell'Iſtrione, fe,auanti di finire, e compire il Drạmma,gli
vditori all'im prouiſo piantaſſe. Di più non trouerai nulla di feruilc, ne di
affettato, ne di appicci cante, ne di diſciolto che habbia biſogno d' eſſer
corretto, ncd'eſſer ricoper ne to. Habbi in venerazione la facultà, che forma
l'appren ſione, dependendo da queſta il tutto;acciocchè niuna opi nione s'
inſeriſca nella tua mente, che non confcnta colla natura, e colla coſtituzione
di viuente razionale: E queſta profeſſi di non cor rerc alla cieca, e che
l'huomo fi confaccia con gli huomini, e verſo gl’Iddij ſia offequiolo.
Rigettate dunque tutt'altre coſe, imprimiti ſolo queſte poche, e ſpesſo
rammenta ti che da ciaſcuno ſi viue il ſolo momento preſente, il re fto l'ha
gia viuuto, o gliè af fatto ignoto. Piccola adun que è l'età di ciaſcuno: Pic
colo è il cantoncino della terra, dove ſi viue, e piccola, benchè lungi
s'eſtenda, è a ' poſtuni la fama, proceden do queſta dalla ſucceſſione di
homicciuoli, che preſto ſe ne vanno a morire, i quali non conoſcono le ſteſſi,
non che colui, il qual di già lungo tcmpo morì. A'già eſpoſti auvertimenti
s'aggiunga ancora di far ſem pre vna diffinizione, o de: ſcrizione di quello,
che vie ne dall’iinmaginatiua rappre fentato acciocchè qual'è nudamente nella
propria ſo ſtanza, e il tutto per tutte le parti diſtintamente, tu rico
noſchi,e ſia a te ſteſſo eſpreſ ſo. e paleſato qual ſia il ſuo proprio nome, e
i nomi di quelle parti, delle quali è compoſto, e nelle quali ſi ri foluerà.
Perchè non è cofa, che a ſolleuare la generoſità dell'animo ſia più poſſente;
quanto l'eſaminare con me todo, e verità ciaſcuna coſa che può accadere nella
vita ': c riguardarla del continuo in tal modo, che tu comprenda inſieme a qual
Mondo, qual vſo porgano, che poſto tena gano in riguardo dell’yniuer fo, e
quale in riguardo dell' huomozil quale è cittadino di quclla ſopraniſlıma
Cittade di cui le altre ſono come.abi. tazioni di famiglie: Che co fa ſia, o di
quali principij ſia compoſto, e quanto tempo fia per durare quello, che al
preſente m’imprime tale im inaginazione; e qual virtù in torno quello s'habbia
da vla re: come a dire della manſue tudine, delle fortezza, della verità, della
fede, della ſchiet tezza della contentezza, del la propria ſorte, e d'altre fi
mili. Per lo che biſogna dire di ciaſcheduna coſa: Queſto viene da Dio, ma questo
per fatale ordinazione, e conneſ fione delle cose del mondo o per una tale
congiuntura, e fortuna: E queſto altro pro cede da vn tuo proſſimo, e congiunto,
e teco conuer fante, ignaro di quello, che a lui pernatura ſi conuiene. Ma io
che lo ſo m’auuaglio d' effo, fecondo le leggi naturali della comunicazione,
con af fetto benigno, e giuſtizia; e inſieme nelle coſe indifferen ti, o
mezzane mi ſtudio d' andar conghietturando, qual ftima a quelle habbiaſi a da
re. Se tu, della retta ragione feguace, opererai quello che haurai dauanti
ſtudiofa mente, validamente, placi damente, e non mirando ad altro che
all'intrapreſo nego zio, anzi conferuerai il tuo genio puro, e conſtante, co me
ſe già ti abbiſognaſſo di renderlo. Se dunque queſto offeru.crai, a niente
altro at tendendo, niente fuggendo; ma nell'operazione, che hai tra le mani,
conformandoti alla natura, e contentandoti d'eſprimere con verità eroica tutto
ciò, che a dire intra prendi, tu viucrai felice. In vero non v'ha chi ti potra
quefto impedire. u Comei Maeſtri del cu rare hanno ſempre alla mano gli
ſtrumenti, e i ferri per ogni inopinata cura così habbi tu pronti i decreti a
ri conoſcere per mezzo d'effi le coſe diuine e l'humane, in tutto ciò, che,
quantunque mi nimushaurai da operare; ben ricordcuole come queſte fia no
amendue tra di loro con giunte, non potendo far nulla, che appartenga agli huo
mini, che per mera corriſpon denza al Cielojne per lo con trario. 12 Non andar
più vagan do, mentre non haurai più da leggere i tuoi libretti di me morie, ne
i fatti degli an tichi Romani, e Greci, ne le raccolte, che hai eſtratte da
varij ſcrittori, le quali riſer bate t'haueui per la vecchia ia. Affrettati
adunque ver ſo la fine, e abbandonando, mentre che t'è lecito, le va ne
ſperanze, porgi ogni aiu to a te ſtello, ſe tu fe'a cuore a te medeſimo. 13 Gli
huomini volgari non fanno quanti ſignificati hab biano le voci rubate, femina
re, comperare, ripoſare; ne fanno diſcernere quello, che s'ha da operare: il
chenon ſi fa con la viſta degli occhi, macon altra perſpicacia. Habbiamo il
corpo, l'a nima, c la mente: Al corpo appartengono i ſenſi, allani ma gli
apperiti, alla merite i decreti. Si formano le imma ginazioni ancora dagli ani
inali bruti; ma il laſciarli trarre dagl'imperi degli ap petiti a guiſa di
pupazzi tira ti con cordicelle, è cofa da beſtie, e da effeminaci, e d ' yn
Falaride, ed'vn Nerone. L'applicarela reggitrice men: te all' apparenti
conuenienze è ancora di coloro, i quali non tengono, che ci ſiano gl’Iddij, e
che alle occaſioni abbandonano cziandio la pa tria, e che quando han chiu te le
porte, fanno di tutto. Se dunque l'altre coſe ſono comuni alli già detti, reſta
proprio dell'huomo dabbene l'amare, e abbracciare ciò che a lui auuenga, e che
dal fato gli fia compartito, come il non rimeſcolare, e confon dere il genio,
che nel mezzo del petto riſiede, ne pertur barlo colla moltitudine dell'
immaginazioni: ma conſer varlo placido, e come a vn Dio, decenteinente portar
gli riuerenza, ed oſſequio. Non proferendo mai parola, che tutta yera non ſia;ne
fuo ri del giuſto facendo cofa al cuna. Se poi tutti gli huomi ni non
crederanno, ch'egli fchicttamente, e oneſtamen te, e tranquillamente ſe ne viua,
non però fi crucсerà con chi che ſia di loro; ne vſcirà mai dal dritto ſentiero,
che lo conduce al fine della vita, al quale fa di meſtiere giugnerepuro,quieto,
c pron to a diſcioglierſi, e acco- - modarſi di buona vo glia al proprio de
ſtino. Nell interno che domina in noi quando ſi confor ma alla natura, reſta sì
indif ferente a tutti gli auueni menti, che ſenza ripugnanza ſempre prontamente
ſi tra fporta a ciò; ch'è poſſibile, e conceduto; Imperocchè non s'obbliga a
materia deterininata; ma è facile verſo ciò, che gli venga propoſto, ben che
con qualche eccezione; e quello, che in luogo dell eſcluſo è introdotto,
s'appro pria come ſua materia, in guiſa del fuoco, quando nel le coſe, che
incontra predo mina; dalle quali vna picco la lucernctta verrebbe e ſtinta,la
doue vna gran fiam ma trasforma in ſe preſta mente tutto quello, che in nanzile
è poſto, e lo conſu ma, e di quell'iſteſſo diuiene maggiore 2 Niun'opera ſi
faccia a ca ſo, ne altrimente ſi eſegui ſca, ſe non conforme agli
ammaeſtramenti di perfezio ne dell'arte. 3 Proccurano le perſone di ritirarſi
nelle campagne,alla -50 he 9 or it 71 za 2. e 01 marina, e ne' monti, e an co
tu queſti ſe' stato particolarmente ſolito d'amaro e queſta è coſa
ordinarijfſima agl'idioti; eſſendo a te lecito in qualſifia tempo, che ti pia
cerà, ritirarti in te ſteſſo. Ne c'è luogo per l'huomo di più quiete, e più
lontano dalle faccende, per ritirarſi di quello del proprio animo;
particolarmente ſe haurà in ſe formato tali concetti, che in quelli
internandoti pron tamente rimanga in vna to tale tranquillità. Ne altro dico
eſſere queſta calma che l'animo ben compoſto: Ritirati dunque ad oraad o ra, e
rinnuoua te ſteſſo. Si eno però breui, è ordinati que' ricordi, i quali ad vn
tratto fouuenendoti, ſaran no ſufficienti a liberarti dio gni moleftia, e di
rimetterti nelle tue operazioni; alle quali ſenz' annoiarti farai ri torno.
Poſciachè di qual co ſa pigti tu noia? forſe della maluagità degli huomini?
Rammentati di quel decreto, che i viuenti ragioneuoli ſo no prodotti a pro \
vno dell'altro; e che il medeſimo ſofferire è part e della giuſti zia
dell'huomo: e che quelli, che delinquono, no'l fanno di buona voglia; e quanti
dopo hauere eſercitato l'oſti lità, i ſoſpetti, e gli odij, e trafittiſi ľ.yn
l'altro, ſono morti e diſteſi ridotti in cene, re? quietati dunque vna vol ta.
Ma tu non t'appaghi di quello, che dall' vniuerſo ti è ſtato diſtribuito.
Richiama: D però nella memoria la pro porzione diſgiugnéte, che ci è, o la
prouidenza, o gli atomi, o anco altre coſe, donde ben fi conchiude che il Mondo
è in guiſa di ordinata Città. Se poi t'aggrauono le coſe cor poree, tu quì
confidera che la mente, dopo che vna vol ta ſi ſarà in ſe ſteſſa raccolta, e
haurà riconoſciuta la pro pria dignità, non ſi meſco ſerà con iſpirito, che
venga ad eller morbidamente, o ru uidamente agitato. Aggiu gnidi più tutto
quello, che del dolore, e del piacere tu hai vdito, e l'hai approuato. Mala
gloricota ti diſtrarrà? Da vno ſguardo, come pre fto va il tutto in dimenti
canza, e nel chaos dell'euo da amendue le parti immen fo, e nella vanità d ' yn
rim bombo: e quanto mutabili, e ſenza giudicio fono quelli, che di noi poſſono
formar concetto, e in quanto poco luogo tutto ciò li circonſcri ue; mentre
tutta la terra è yn punto, e di queſta non è che yn cantoncello la noſtra
abitabile; e quanti, e quali fono quelli, che ſieno per lo darti. Ricordati
dunque di ritirarti in quella particella di te ſteſſo; e ſopra tutto di non ti
diftrarre, e di non far refiftenza; ma fij. franco, e ri guarda l'opere da PERSONA
VIRILE, D’UOMO, da cittadino, da viuente mortalc. Ma tra i ricordi più pronti e
ſpe diti, i quali hai da conſide rare, fieno queſti due. L'yno, che le coſe
iftcffe non s'at D 2 taccano all'anima, ma ſtan no al di fuori immobili; e che
le turbazioni deriuano ſolo dall'opinione interna: l' altro è, che quanto vedi,
queſto non iftarà guari a mu tarſi, e più non ci ſarà; e con fidera a quante
mutazioni già tu ti ſe trouato, e di con tinuo tieni a mente, che il Mondo ſta
nell'alterazione, la vita nell'opinione. 4 Se l'intelletto è comune, comune
ancora è la ragione, mediante la quale noi ſiamo ragionevoli. E ſe è vero que
ſto, eziandio la ragione, che comanda quello, che ſi deb ba, e che non ſi debba
ope rare, ſarà coinune. E ſe è cosi, ſarà comune la legge; il che ammettendoſi,
verre mo noi ad eſſer Cittadini; donde è, che hauremo da par ticipare di
qualche Cittadi nanza; e conſeguentemente reſta il Mondo eſſere come vna Città.
Concio ffiecofa che dirà alcuno: qual'altra Cittadinanza fitruoua fi co mune,
della quale tutto il genere humano partecipi? E da queſta comune Città deriua
l'iſteſſo effer noſtro in: tellertilo, e ragineuole, e le gale. O se quindi non
ès-don de è perciocchèſi come quel lo, che è di terreſtre in me, da qualche
terra a me ſi com, parte, el eſſere vmido da vn altro elemento, e l'eſſere
fpiritale da qualche ſcaturi gine di ciò, e'l caldo, e l'i gneo da qualche
altra pro pria ſorgente; imperocchè nulla prouiene dal nulla, co D3 me ne meno
ritorna in quel che non è così anche l'intel lettiuo da qualche luogo fi
comparte. 5 Tale è la morte, quale è la generazione, e ſono degli arcani della
natura; queſta è miſtura degli elementi, e quel. la è diſcioglimento ne'mede
fimi: In ſomma non ſe n'hà d'hauer vergogna, poichè non è contra la conuenienza
del viuente intellettuale, ne repugna alla ragione della di lui conſtituzione,
6 La natura porta che queſte cofe da tali ca gioni nafcano neceſſaria mente; il
che, ſe ad alcuno non piacerà, vorrà che'l frutto del fico non habbia
lattificio. Quello in tutto, e per tutto rimanga nella mente, che tra
breuiſſimo tempo tu, e quel tale vi morrete, e tra poco non ci ſarà, ne pu re
il voſtro nome. Leua via l'opinione, che ſarà tolta la querela, che dice, IO SO
NO STATO OFFESO, leua queſto dire: IO SONO STA TO OFFESO, e verrà tolta
l'offeſa. Quello, che non fa peggiore in ſe l'iſteſſo huo mo, non renderà
peggiore la di lui propria vita; e ne in ternamente, ne efternamen te
l'offenderà. 7 La natura ad operare in tal modo per lo comune vti le fu
neceſſitata. E ciò, che auuiene, giuſtamente auuie ne: il che ſe attentamente
of feruerai, trouerai eſſer vero; ne per ſola conſeguenza di co, che è queſto,
ma perchè D4 così vuole il giuſto; venen do da colui, il quale ſecon do il
proprio merito, diſtri buiſce a ciaſcuno il ſuo.Of ſerua dunque tu queſto, co
me hai dato principio; e nel fare qualunque coſa ado pera con qucfta oſſeruazio
ne, e con lefſere huomo dab bene; ina di quella maniera, come s'intende
propriamen te l'hucmo dabbene. Tutto ciò oſſerua in ogni tua ope razione. 8 Non
farai concetto del le cofe fecondo il giudicio di chi t'oltraggia; ne come e
quali eſſo vuole che tu le giudichi; ma conſiderale, quali eſſe veracemente
ſono. 9 Debbonfi ſempre hauer in pronto queſti due punti: primieramente di non
operare in modo diuerſo da quello che la ragione, Rcina, e leg gislatrice per
l'vtile degli huomini fuggeriſce; ſecon dariamente d'effer facile a mutarti di
parere, ſe qual cuno fi corregga, e rimuoua da qualche opinione; però queſto
rimouimento s'ha ſempre d'appoggiare alla perſuaſione, che porti del giuſto,o
del ben comune, O di coſe ſu queſto andare,non per compiacimento, ouero per
apparenza di gloria. Hai tu la ragione? la tengo: Per chè dunque non te ne
ſeruia Che vuoi cu altro, che que ſta, mentre ella fa quello, che è proprio di
lei? 10 Come parte di queſto vniuerſo già ſe'ſtato conftitu ito, così tornando
a chi t'ha DS fat 82 LIBRO QVARTO fatto, diſparirai, o più toſtoy con qualche
mutazione, fa rai ripoſto nella ragione fe minále di quello. Di molte granella
d'incenso su Piſteffo altare vna cade prima dellº: altre, purchè ſi conſumi
mula la importa. Tra dieci giorni tu parerai vn Dio a quelli alli quali ora
ſembri vna be ftia; e yna ſcimia, fe ritorni a ri pigliare i decreti, e la vene
mazione della ragione. Non fare i conti come fe hauefli ancora a viuere più
migliaia d'anni. Il debito fatalc fou raſta, mentre viui,mentre ti è permeſſo
diuenta buono.. II Quanto di quiere d'ani mo guadagna chi non bada a quello,
che'l vicino diſſe, o fece, o pensò, ma ben fi ſolo a quello, ch' egli ſteſſo
fa, acciocchè l'opera ſua ſia giuſta, e pia?, nericercando va ſe altri ſia di
buoni, o rei coſtumi, ma corre a dirittu ra per la linea, ſenza punto da efla
ſcoſtarſi? I2 Chi dietro alla fama apoſtuma ſe ne va,come ſtor dito, non
conſidera come cia fcuno di quelli, che di lui li rammenteranno, anch ' egli
preſto ſe ne baſirà, e così di nuouo quegli ancora, chea queſto ſuccedera,
finchè ogni memoria, per mezzo di huo mini, parte ſtupiditi, parte già morti
continuata ſi ſpen ga.Mapreſupponi tu, che quelli che terranno di te me moria
fieno immortali, e la memoria rimanga immorta le? ciò che gioua a te 2 ne ora
parlo di quando tu fa D 6 rai nh ada Te ef 1 rai estinto, ma del preſente
mentre tu viui. Che è la lo de ſe non certamente yn tal condeſcendimento
d'huomi ni. Tralaſcia dunque, come inopportuni i doni della na tura, mentre che
dipendo no dal giudicio d'altri. Del reſto tutto quello, che in qualſiuoglia
maniera è buo no per ſe ſteſſo è buono, e in ſe ſteſſo fi riſtrigne; ne tra le
fue parti annouera la lode; onde non diuiene ne miglio re, ne peggiore. il
lodato. Queſto dico ancora di ciò, che volgarmente ſi chiama buono: quali ſono
le coſe, che o per la materia, o per l' operazione dell'arte tali fi ftimano.
Ed in vero quello, che è realmente buono, di che ha biſogno di nulla più certamente
che la legge, di nulla più che la verità, di nulla più, che la buona mente, che
la modeſtia Quale di queſte per lo eſſer lodata diuiene buona, o bia-, fimata
ſi corrompe? forſe di uenta peggiore lo ſineralduc. cio, ſe non è lodato? non
di rafli il medeſimo dell'oro, dell'auorio, della porpora, del pugnalett, del
fiorellino, dell'arbuscello? Se l'anime ſempre du rano, come fin dall' eternità
le può contenere in ſe l'aria? e come la terra i corpi rac chiudere de' ſepolti
di tanti ſecoli: Poichenell'iſteſſo mo. do, che la mutazione, e la re ſoluzione
di queſti danno luogo ad altri cadaueri,dopo eſſer per qualche tépo quag. giuſo
ſtati, così l'anime poi chè ſono ſtate traggettate nell'aria, e trattenuteuifi
al quanto, fi tramutano, e ſi ſtruggono, e s'abbruciano, ri tornando nella
ragione ſemio nale del tuttoje in tal modo fanno luogo ad altre, che appreſſo
vengono a ricongiu gnerſi. A queſto ſi riſponde, che ſuppoſto che l'anime du
rino, biſogna non ſolo con cepire la moltitudine de'cor pi così ſepolti, ma
quella an cora degli animali, che cia fcun giorno da noize da altri animali ſi
mangiano; poichè quanto numero le ne confu ma, ecosì in yn certo modo ſi
ſeppelliſce nelle viſcere di quelli, che ſe ne cibano de tuttauia capono in
questo luogo per la traſmutazione in in sangue, in aria, e in fuoco. Qualeè
intorno a que ſto la notizia della verità il. diuiderſi in materiale, e cau-,
ſale. Non fi vuole andar con aggiramenti vagando, ma in ogni appetizione
dell'animo deefi aſſegnare il giuſto; ed in ogniimmaginazione con feruare quello,
che ſi è compreso. Tutto quello, che a cé, o Mondo, è conueniente, a me ancora
ſta bene. Nulla è a me acerbo, o tardivo, che a te ſia ſtagionato; ogni coſa,
che portano le tue ſtagioni, è a me frutto. O natura, da te deriua il tutto, in
te è il tutto, e a te il tutto ritorna. Diffe colui; Amata Città di Ci tropese
tu non dirai,Amata Cit tà di Gione? Intrigati di poco, diſſe, se tu vuoi ſtare
coll' animo quiero Non è miglior cola, che far ſolo ciò, che è neceſſario, e
quello, che la ragione all ' huomo,nato per la vita ciui le, detta, e nel modo,
che lo detta. Imperocchè queſto non folamente reca la tran quillità, che dal
ben fare procede; ma quella ancora, che dal poco operare.ti au uiene.
Concioſliecoſa che; fe la maggior parte di quello che ſi dice, o lifa, non
eſſen do di neceſſitade, alcuno ri ciderà, egli ſe ne ſtarà int maggior ozio,c
meno ſturba to. Perciò biſogna in ciaſcu na coſa in particolare ricor darſi che
forſe ella ſi è vna di quelle, che non lon neceſſa rie. Biſogna in oltre non ſo
lo toglier vią l'azioni, che non ſon tanto neceſſarie, ma ancora l'iſteffe
immagina zioni, perchè così non ſegui ranno azioni ſuperfluc. Fa prova, come ti
rie fca la vita d'vn huomo dab bene, cioè, cheſi contenta di ciò, che dall'
Vniuerſo gli vien aſſegnato, che ſi ſoddis fa del proprio operare giu ſtamente,
e della ſua man fuera diſpoſizione.Hai confi derato queſto.2 rimira queſt altro;
non ti turbare, habbi l'animo tuo aperto. Chi pec ca, contro di fe pecca. Ti au
uenne qualche bene? Dal principio dell'uniuerso ti fu ciò deſtinatose
intrecciato in ſieme ognaltro auuenimena to.In ſomma la vita è breue. Vuolſi
guadagnare il preſen te gote con feguire la retta ragio ne, e la giuſtizia. Sta
attento di non rilaſſarti. 18 O il Mondo è vna bel la ordinanza,o'vn meſcuglio
confuſo, tuttauia & Mondo. Ora ſe in te ſteſſo qualche Mondo,cioè,comeper
efem plo,vna venuſtà può conſiſte. re, haurà poi da eſſer yn'im monda
ſconuenenza neli'yni. uerfo, mentre in effo tutte le cofe fi vedono così
diſtinte, c dilatate, con effer inſieme reciprocamente affette? 19 Ci ſono
coſtumi negri, coſtumi effeminati, ferrigni, ferini, e diquelli, che ſono
fimili a'brutali, e a ' fanciul leſchi, inſenſati, affettati, buffoneſchi,
tauernieri, e ti rannici. Se fireputa pellegri no nel Mondochi non faciò: che in
eſſo ſi truoua, molto o più pellegrino è colui, che ignora ciò, che in eſſo ſi
fac cia. Fuggitiuo farà chi fugge 0 dalla ragione ciuile, è cieco chi ha chiuſo
l'occhio dell' intelletto, mendico chi ha neceffità d'altri, e non ha ap "
preſſo di ſe tutto quanto gli è neceſſario per vſo della vi ta. Eyna apoſtema
del mondo, chi ſi diparte, e fi difrom pe dalla ragione della comu ne natura,
non accomodan dofi agli auuenimenti; men tre gli produce quella mede fima, che
ha te ancora pro dotto.E vna ſtracciatura del la Città, chi diſtacca la pro i
pria anima dalla mente r & ei gioneuole, che è vna. 20. Ci è chi filoſofa
ſenza tonica, e chi ſenza libro, vn' altro mezz'ignudo. Non ho del pane, diffe,
e nonmipar to dalla ragione. Io non ho il cibo degl'inſegnamenti, e pur in eſſi
perſcuero: Affe zionati all'articella, che im paraſti, e in quella acqueta
ti.Mena il reſto della vita tua con riporre negl'Iddij la cura d'ogni tuo
affare, e ciò con tutto l'animo: e dhuomo, che viua,non ti fare,ne tiran i no,
ne fchiauo. 21 Conſidera, verbi gratia, i tempi di Veſpaſiano, tu vi vedrai
tutte queſte medefi me coſe, cioè huomini, e far.nozze, ed educar figliuoli, ed
ammalati, e morienti, e com battenti, e feſteggiantise mer. catanti, e
agricoltori, e adu latori, e arrogantemente par Janti, e ſoſpettoſi, e
infidiatori, e deſideranti la morte, e delle coſe, che ſuccedeuano ha
lamentantiſi, e innamorati, e at intenti ad ammaſſar teſori, e e ambizioſi di
Conſolati, e di 1 Regni; tutti fparirono, e della loro vita già non vi rcſta 1
nulla. Appreffo traſportati all'età di Traiano; di nuouo I rimirerai tutte le
medeſime cofc, e pur la vita di quelli non ci è più.Similmente con ſidera altri
ſegnalati inter ualli de' tempi e delle intere nazioni; e offerua,come tanti, e
tanti allora gonfiati l' vno * contro l'altro,dilì a poco ca e dettero, c fi
dileguarono ne gli elementi. Specialmente B t'hai da rammentare di quel li, che
tu ſteſſo hai conoſcill ti, che vanamente affannati hanno tralaſciato d'
operare conforme alla propria diſpo
fizione, e d'aderire tenace mente a quella, e di quclla foddisfarli. E
neceſſario an cora di rammentarti,che l'ap plicazione in ciaſcuna azio ne ha la
ſua propria conue nienza, e proporzione; per chè così tu non ti dorrai; ſe tu
non più di quello chepor ta il pregio in queſte coſe minori, ſarai occupato. 22
Le voci già correnti, ora fono diſufate, e richie dono chioſe; così i nomi di
quelli già tanto celebri fono in yn certo modo al preſente fimilia derte voci:
tale è Ca millo, Cefone, Volefo,Leon.nato; e poco appreffo Scipio ne; e Catone;
dopo anco Auguſto, c indi Adriano, e Antonino; perchè ogni coſa ſua Ct colla
211 ap 10 16 ber Ol ſuaniſce, e tofto paſſa in fa uoleggiamenti, cben preſto
dentro d' yna totale obbli uione reſta ingoiata.E queſto dico di quelli, che a
maraui glia yna volta riſplenderono; poichè gli altri nell'iſteſſo lo ro
fpirare reſtarono ignoti, e niuno più ne domanda. Che coſa è dunque queſta eterna
memoria? Tutto vanità. In torno a che dunque s'ha da porreil noſtro ſtudio in
que ſto ſolo; che la mente ſia giu ſta, l'azione diretta al co mun bene,tale la
ragione che mai non reſti ingannatå, el animo così diſpoſto, che ciò, che
gliaccada, abbracci, co me foſſe a lui neceſſario, e co me famigliare, e come
dall' ifteflo comun principio, e fonte deriuato. Di buon ani til zie id 700
DITI OP ON DC1 او و mo gettati nelle braccia del fato; permettendogli che e
inuolga in quelle coſe, che a lui parrà. Il tutto va a giorni, e chi rammenta,
e'l rammen tato. Mcdita del continuo, come tutto ciò, che ſi fa a per mezzo
delle mutazioni fi fa; e auuezzati a conſiderare, che nulla ama così la natura
del l' vniuerſo, come di mutare gli entie far delle coſe nuo ue a quelle
aſſomiglianti. Perchè in vn certo modo o gni coſa, che è, ſemenza è di quella,
che da eſſa s'ha da produrre; e tu t'immagini ef ſer ſoli ſemi quelli, che ſi
traſ mettono nella terra, o nell' vtero. Coteſti fono penſieri da perſona molto
idiota. Già ſei all' orlo detta morte e ancora non se' diue hel nen ZIO pe TI
che can de nuto ſchierto, e libero dalle rei perturbazioni, da’ſoſpettid'
eſſere dagli eſterni leſo, ne bi placido inuerfo tutti;ne ſtimi la prudenza
eſſere il ſolo giu ftamente operare. 24 Rimira la mente conducitrice degli
altri e ciò, che veramente fuggano e fe de guano i prudenti. Il tuo male non
consiste nella mente d'altri o ne' rivolgimenti o variazione dell'ambiente Doue
dunque la doue tu hai l'opinionede'tuoimali. Per di ciò non opinare queſto, che
il tutto andrà bene; ancor chè il corpicciuolo, che a f quello è propinquo,fi
ſeghi,fi abbruci, marciſca, ſi putre faccia; purchè rimanga quie ta la
particella, la quale for ma l'immaginazione di que dit + C. ef E Ite ſte coſe, cioè
che non giudi chi eſſer ne bene, ne male ciò, che può accadere, tanto all'huomo
dabbene, quanto al cartiuo, Concioſliecoſa che quello, che ſimilmente auuiene a
chi viue, secondo la natura, e a chi viue diuer ſamente, non è ne secondo la natura
ne contro di essa. Conſidera del continuo il mondo come un' animale, composto
d’una sostanza e di un'anima, e come all ynico ſenſo di quello tutte le coſe ſi
riportino, e come con vn'im peto il tutto operi, e come tutte le coſe tra fe di
tutto quello che ſi produce, ſon co. muni cagioni;e quale ſia l'in trecciamento,
ola teflitura. Sei un'animuccia, che porta un cadauero; diceua Epitteto. A
quelli, che ora ſono ali nella mutazione, niente è di male, come niente è di
bene a quelli, che nella mutazio ne ſuffiſtono. 28 L'euo è come un fiume, e
come yna corrente violen ta delle coſe, che ſi fanno, perchè, ſubito che
ciaſcuna di quelle compariſce, è rapi ta, e altra ne compariſce, e queſta
ancora ſi traſporterà. Ogni accidente è così ſolito, e famigliare, come nella
pri mauera la roſa, c nella ſtate i frutti. perciocchè tale è la malattia, la
morte la maledi cenza, l'inſidie, e ciò che rallegra i pazzi, o gli contri fta.
Quello, che proſegue, ſempre ſi connette accon ciamente agli anteceden ti.
poichè non è vna nume 1 orazione di coſe tra loro dif crete, e ſuſſiſtenti per
necef ſità ſolamente di calculo; ma èyna congiunzione, ſecondo la ragione; e
come ſono coor dinate, e ben congiunte tut. te le coſe che eſiſtono, così
quelle, che ſifanno non han no vna ſemplice ſucceſſione, ma dimoſtrano vna
certa ma rauiglioſa famigliarità, che è tra di loro. 29 Habbiaſi ſempre a mente
quel detto d’ERACLITO. La morte della terra eſſere quando diuenta acqua; e la
morte dell' ac qua, quando diventa aria; come del l'aria, quando fuoco, e così
per l'oppoſito. E ancora da ri cordarſi di colui, al quale era ignoto,doue la
ſtrada condu ceſſe; e di quelli, che ſpecial mente, e del continuo con uerſano
con la ragione, la quale ogni coſa amminiſtra, e nondimeno da quella dif
ſentono, e che quelle coſe, nelle quali ogni dis’abbat tono, a loro paiono
ſtranie re. e che non biſogna fare, e fauellare in guiſa quafi di
dormienti,perchèallora anoi ſembra difare, e di dire; ne fi hanno da imitare i
fanciul li, i quali dicono con ſempli cità: Così habbiamo appreſo dai noftri
maggiori. « 30 Se alcuno degl' Iddij ti diceffe, che hai da morire la domane,o
al più lungo por domane, non molto ti im portarebbe, che foſſe più to ito
domane, che poſdomar nc, ſe non le d'animoin eſtre mo tralignante. Imperocchè E
3 quanto ſi è l'interuallo d'vn giorno cosìno iſtimare gran coſa le fia più
toſto dopo moltiſſimi anni che domane. Ripenſa contimamente teco medeſimo;
quanti medici ſon morti, che ſpeſſo hanno le ci glia inarcate ſopra de i ma
lati? quanti matematici, che come yn gran caſo le morti d'altri prediffero 2
quanti Fi loſofi dopo mille, e mille contefe della morte, e dell' inmortalità?
quanti prodi in armi, che molti vcciſero? quanti tiranni,checon gran de preſunzione
della loro potestà sopra l'anime ſi feruiro no, quaſi chenon foffero e glino
ancora mortali? quan te Città ſono, per così dire, affatto morte? Elice, Pom
pei, Erculano, e altre innu nie merabili. Traſcorri ancora quanti hai tu
conoſcuti l'yno appreſſo l ' altro morti. Que gli dopo hauer fatto i fune rali
dell'altro, ha ſteſo egli morendo le gambe, e dopo lui yn'altro. Tutto ciò in
bre de tempo. In ſomma ſempre fono da conſiderare tutte le coſe humane,come
d'vn gior no, e di prézzo viliffimo: ieri vn pochin di mocci,domanc falſume, o
ceneri. E perciò queſto momento di tempo paffalo viuendo, ſecondo la natura, e
muori tranquillo, come l'vliua, che fatta ben matura cade laudando la ſua
producitrice, e rendendo gra zie all'albero, dal quale fpuntò. 31 Sij ſimile a
vn promon torio, nel quale inceffante E 4 mente l'onde s'infrangono; e
nulladimeno egli ſta ſaldo, e intorno a lui fi abbonacciano gli orgogli
dell’acque. Infe. lice me, perche ciò mi è au uenuto l’anzi al contrario, me
ſelice, che essendo miciò accaduto, me ne ſto ſenz'al cun dolore, nedal
prefente offeso, ne temendo l'auueni re. imperciocchè queſto po teua ad ogni
altro accadere, manon ognuno l'haurebbe ſopportato ſenza dolerſi.Per chè
adunque più toſto quello infelicità che queſto felicità farà da noi giudicato?
echia mi tu a pieno infelicità dell' huomo corefto, che non è difauentura alla
natura hu mana? E diſauucntura della natura humana pare a te, che ſia quello,
che non è contra ilvo il volere di lei? Quello che ella voglia, l'hai tu
appreſo? Non é impediſce dunque queſto accidente, che tu non ſij giuſto,
magnànimo, tem perato, prudente, conſidera to,,verace, modesto, libero, con le
altre qualità, le quali efſendo preſenti, la natura humana gode ogni ſuo pro
prio. Quanto al rimanente ricordati, ogni volta che al. cuna coſa t' induce ad
attri ſtarti, di valerti di queſta ſen tenza. Che queſto, che t'è accaduto non
ti è d'infelici tà, ma di felicità, foppor tandolo generoſamente. 32 Per certo
è volgare aiu to, ma tuttauia efficace, per diſprezzar la morte, il ri
membrarſi di quelli, i quali, attaccati al viuere, lungo Es: tempo durarono. Che
hebbe, ro più queſti di quelli, che in eri acerba morirono?Giacor ciono ſenza
dubbio in qual che luogo Cadiciano, Fabio, Giuliano, Lepido, e altri fi mili, i
quali, dopo hauer fat ti i funerali a molti, eglino ancora furono poſcia
ſepolti. Finalinente ci è poco d'inter ftizio, il quale con quante moleſtie, e
con quali ſten ti, e in qual corpicciuolo vien ſofferto? Dunque non ne far gran
conto į rimira però indietro all'immenſità dell'euo, e a te dauuanti yn altro
infinito. In queſto, che differenza è tra vno morto a capo di tre giorni,e d'vn
Ne ſtore di tre ſecoli? Per la ſcortatoia corri ſempre, e quella via, che ſi conforma
alla natura, è la fcortatoia saluteuole. Però dì, e fa ogni coſa nella ma niera
più ſalateuole. Impe r occhè queſto propofito libe ra dalle fatiche, da i
com battimenti, da ogni ſimula zione, e da ogni oſtentazione. Vando dal ſonno
neghittofamente la mattina ti fue gli, habbi in pronto. lo mi fueglio all'opera
dell'huomo; ancora dunque ripugnanza fento, ſe io vo a fare quello pere, alle
quali ſon nato, e per le qualiſono ſtato intro dotto nel Mondo forſe ſono ſtato
ordinato, acciò tra piu macciuoli giacendo io mi riſcaldi? Maciò è di maggior guſto.
Dunque a pigliarti gu ito, e in ſomma non al fare ne all'operazioni ſei nato?
non vedile pianterelle, i paſ ferotti, le formiche, i ragnis l'api
comecooperano all' or namento delMondo, e tu non vorrai fare quello, che ſpet
ta all'huomo e non accorri a ciò, ch'è conforme alla nå tura tua? Ma biſogna
pure ripoſarti. Biſogna.Ed in que ſto la natura aſſegnò lemiſu re; e diedele
ancora, ed al mangiare, ed al bere; e non dimeno tu pafli oltre alla mi fura, e
oltre alla ſufficienza. Non però così nell'opere; ma affai meno di quello ſi
puote; concioffiecoſa che tu non a mi te ſtello, che quando ciò foffe, amereſti
la natura, e'l di leivolere. Altri, che amano le loro arti, ſi conſumano
ne’lauorij di quelle ſenza go der de bagni, e ſtando digiu ni. Tu fai men conto
della tua natura, che il tornitore non fa dell'arte del tornire, o il ſaltatore
dell'arte del fal tare, o l'auaro dell'argento, o il vanagloriofo della glo
rietta; e quando queſti s'af fezzionano a cotalicofe, alle qnali ſono
inclinati, abban donano più preſto ilmangia re, e il dormite, che il laſciar
d'accreſcerle. E a te l'azioni fpettanti alla comunicazione humana appariſcono
di più baſſo pregio, e men degne ď accuratezza. Quanto è facile lo ſcace
ciare,elo fcancellare ogni turbolenta immaginazione, onon conueniente, e ſubito
metterli in iſtato d'ogni tran quillità? Reputa te ſteſſo de gno d'ogni
diſcorſo, e d'ogni azione, che lia conforme alla natura, ne ti ritragga il ri
chiamo d'alcuni, o il biaſimo, che ne ſegue; masſe farà coſa oneſta da operare,
o da dire, non te ne ſtimerai indegno. Imperocchè hanno quel li la propria
loromente, e v fano della propria inclina zione, alle quali tú non hai da
riguardare, ma dei cam minare per la diritta, ſegui tando così la propria
comela comunenatura, delle quali amendue èvna via. Io cammi. nando me ne vo per
le coſe, che ſono ſecondo la natura, finchè cadendo io mi ripoſe rò, e ſpirando
in quello,don de ciaſcun giorno reſpiro, e si cadendo in quello, donde il
ſemuccio da mio padre, e il fanguuccio da mia madre, e il lattuccio dalla inia
nutri ce furonoraccolti; e del qua le per tanti anni ogni di mi paſco, e
m’abbeuero, che mi foftiene mentre lo calco, e dello ſteſſo in tanti modi in '.
abuſo. 3 Non hanno in chemara uigliarſi della tua acutezza fia così. Ci fono
molte altre coſe,delle quali non puoi ne gare, che in te non ſia l'abi lità
Mettidunque in opera quelle, che ſono tutte a tua. diſpoſizione, l'eſſere
ſincero, grauie,tollerante della fatica, non amico del piacere, non, quereloſo
della tua forte, biſognofa di poco, placidos libero,moderato, serio, e magnifico.
Non t'accorgi quan te coſe tu hai poter di fare, per le quali tu non hai prete
ſto, che la tua natura non fia atta, o abile; nondimeno di propria elezione te
ne reſti, comedappoco al diſotto? forſe inetto per natural diſpo ſizione ſe
neceſſitato a inor morare, ad eſſere tenace, ad adulare, ad incolpare il cor
picciuolo, o a luſingarlo, ad effere vano, ed a cotanto nel l'animo agitarti
d'eſſer natu ralmente inetto, e dappoco? Non per gl' Iddij. Ma però già vn
pezzo fa di tutte que Ite coſe tu eri da te ſteſſo pof ſente a libcrarti.E
ſolamente, ſe però è così,poteui ellerac cuſato come più tardo, e du ro ad
apprendere. Ed in que ſto ancora ti doueui eſercitare, non trasuolando altroue
con la mente, ne godendo della pigrizia. 4. Euni chi, quando ha vſa to qualche
amoreuolezza in riguardo d'alcuno, glie lo di chiara incontanente per gra zia:
eď emui ancora chi, ſe non vſa ſeco tal prontezza in ri conoſcerla, nondimeno
ap preſſo di ſe penſa, quanto quegli li ſia debitore, e cono ſce molto bene
quello, che egli haoperato. Fuui ancora chi in vncerto modo non co noſce quello
cheha operato; ma è fimile alla vite,laquale, prodotto il grappolo,null’al tro
di più richiede, dopo ha uer yna volta dato il ſuo frut to. Il cauallo, cheha
corſo il cane,che ha cacciato; l'ape, che ha lauorato il mele; 1 * huoc huomo,
che ha ben opcrato, non cerca acclamazioni, ma procede ad yn altr'opera, co me
la vite torna a produrre dinuouo alla ſtagione vn al tro grappolo. Fra queſti
dun que biſogna in un certo mo do eſſere, come chi ſenza ba dare opera? fi per
certo. Nul ladimeno a queſto iſteſſo s'ha da badare. Perciocchè, dirà alcuno, è proprio del comu
nicatiuo che s'auuegga d'o perare, conformealla comu nicazione; ma perciò ſi
vuole, per gl'Iddi, che anco quegli a chi fi comunica, fe n'accor ga.
E'veriffimo coteſto, che tu dì, ma ſe tu non compren di quello, che'ora ſi dice,
farai per tanto vnodi qnelli, de'quali ſopra s'è fatta men zione: concio
ffiecoſa che ancora quelli da certo probabi le diſcorſo'fi diftraggono, ma ſe
tu vorrai comprendere quale vna volta fia quello, che s'è detto, non temere; ne
perciò laſcia d'operare per beneficio comune. Erano le preghiere degli
Atenieſi: Pioni,pioui, ocaro Gion u éjsopra i campise gli orti degli A tenieſi.
Però o non bisogna pregare, o farlo con iſchiet tezza, e con libertà. A quello,
che comune mente ſi dice: ESCULAPIO ba oi dinqto a queſti il canalcare, o il
lauarli con acqua fredda, d'andar a piedi ſcalzi;è fimile anco queſto che la
natura dell? vniuerſo ha ordinato a quegli la malattia, o la ſtor piatura, o
qualche perdita, o altro ſu queſto andare: poi chè nella parola, Ha ordinato,
vi è vn tal ſenſo, che coſti tuiſce queſto in ordine a que ſto, come per
riferirſi alla fa nità, e così qui quello, che accade a ciaſcheduno, è con
ſtituito per relazione al deſti no. E però diciamo queſte coſe conuenirſi nel
modo, che gli artefici dicono le pietre quadrate per le mura, e per le piramidi
conuenirſi tra di loro in tale commetti tura combaciandoſi. Perchè in fatti
l'armonia è viia, e ' fi come da tutti i corpi ſi viene a compirc vn tal corpo,
che è il mondo, così di tutte le cagioni vien ad esser il fato vna tai cagione
compita. Comprendono ciò, che dico anco le genti affatto idiote. imperocchè
così fauellano. Queſto huyenne a colui, dun que queſto a colui douea ar rivare;
e ciò era dal fato or dito a queſto. Prendiamo dunque ſi queſte coſe, co inc
quelle, ſecondo che Eſculapio ordinò - Perchè molte coſe in vero in fc ſter ſe
ſono aſpre, e nientediine. no noi l'abbracciamo per la ſperanza della ſanità.
Penſa alle coſe, che per la comune natura auuengono, la perfe zione, e il
compimento effe re, come a te la ſanità. E così tuto quello, che vien dato,benchè
ti paia vn po co più aſpro ", abbraccialo, perchè conferiſce alla sanità
del mondo, c agli proſperi auuenimenti, e beneficenza di Gioue. Concioſliecoſa
che queſti non produſſe mai coſa alcuna, fe non per giouare all'vniuerſo;
giacchè qualſifia natura non produce niente, che non ſia congruo al go uernato
da lei.Però biſogna che per due ragioni tu amio gni qualunque coſa ti auuie ne.
Quanto all'vna, perchè per te ſi fece, e a te s'ordinò, e a te in certo modo
attiene, deſtinato da ſourane, e anti chiſime cagioni. Quanto all' altra,
perchè al reggimento dell' voiuerfo ancora quel particolare,che a ciaſcuno au
uiene, è cagione del progreſ ſo, e della perfezione, come anche in verità
dell'iſtella per inanenza. Perciocchè ſi ſtor pia l'integrità del tutto, fe
qualſifia particella tu tronche rai della conneſſione e conti nuanza,così delle
parti come delle cagioni; e, per quanto è in te, lo tronchi, quando non ben lo
riceui, ed in vn certo modo lo toglivia. Non s'ha da maledire, non da
ſmarrirſi,nc ſtomacar fi, ſe volendo tu operare, ſe condo la rettitudine de'pre
cetti, in ciaſcuno di quelli non ti rieſce; ma ancorchè ſij abbattuto, torna di
bel nuouo ad eſſi, e ad abbrac ciarli nelle coſe, che hanno maggiormente
dell'humani tà; e affezionatia quell'azio -ne, alla quale tu riedi. Nc ſi ha da
tornare alla filoſofia, nel modo, che ſi fa al pedan te, ma come glinfermi d'oc
chi ricorrono alle ſpugnette e all'youo, o come altri all' impiaſtro, e altri
al lauamen to. Imperocchècosi non ostenterai d' eller lignoreg giato dalla
ragione, ma di ri poſare totalmente in eſſa. Ri cordati, che la Filoſofia ſolo
vuole quello,che la tua natu ra vuole:ma che tu hai voglia d'altro diucrſo dal
voler della natura. Qual coſa ha più di queſte deldiletteuolc? poichè il
piacere non ingan na egli noi per mezzo di quelle? ma tu conſidera, ſe più
diletto dia la magnani-, mità, la franchezza, la ſchiet tezza, l'equità, la
ſantimonia. E qual coſa vi è, che ſia più diletteuole della prudenza, quandoben
conſidererai,che ſia il non fallire, e l'eſſer ben docile in tutto quello, che
tocca alla facoltà dell'inten dere, e del ſapere? 8 Sono le coſe in yo certo F modo
così ricoperte, che a non pochi Filoſofi, e queſti non ignobili. parue che del
tutto fieno incomprenſibili. Anzi agl'iſteſſi Stoici ſembra rono difficili a
comprenderſi. Ed eſſendo ogni noſtro aſſen ſo ſoggetto a cadere, e mu tarſi, in
che luogo dunque fa rà l' immutabile? Riuolgiti però col penſiero a queſte co
ſe preſenti;e cöſidera quanto ſieno momentanee, e di po ca ſtima: ch' elle
poſſono ef ſere poſſedute da vn zanze ro, da vna meretrice, da vn aſſaſſino.
Dopo queſto tra paſſa a i coſtumi di quelli che teco viuono, tra quali anco il
più da te gradito, malage uolmente da te vien compor tato, per non dir che l'huo
mo appena comporta ſe ſtesso. In queſta perciò caligine e immondizia, e in tal
Auſli bilità della ſoſtanza del tem po, del moto, e di tutto quel, che ſi
muoue, non potrà im maginarſi qual ſia quello che poſſa eſſer degno affatto di
ſtima, e d'affetto. Dall'altro canto però biſogna confor tarſi ad aſpettare il
natural diſcioglimento, e non dolerſi del rattenimento, ma ac quietarſi in
queſte due ſole coſe: L'yna ſi è, che nulla mi auuerrà, che non ſia confor me
alla natura dell' vniuerſo; e l'altra, che ſta in mio pote re di non operare
contro il mio Dio, e genio:'concioſ fiecoſa che niuno ci forzi a traſgredir
queſto. A che finalmente mi va glio ora dell'anima mia? Ad ogni momento ho da
in terrogaré me ſteſſo, e ricer care che ſi fa adeſſo da quel la porzione, che
reggitri ce viene chiamata? Di chi dunque preſentemente porto l'anima? per
auuentura d'vn: bambolino, o d'vn fanciullo forſe dyna donnicciuola, d'vn
tiranno, o d'vn giumen to, o d'una fiera? Quali ficno i beni, che alla
moltitudine paiono tali; lo potrai quindi comprende re;poſciachè ſe vno concepi
fce nell'animo efferui alcuni veramente beni, come a dire la prudenza, la
temperanza la giuſtizia, la fortezzá, chii haurà con la conſiderazione
concepito queſte tali cöfe, non potrà più dar luogo ad alcun'altra, che a queſto
bene non ſi conformi. Ma ſe nella mente ſi faran concepi te quelle, che con
faccia di bene agli più piacciono, da rà luogo, e facilmente rice uerà il detto
del comico.Co sì fin il volgo immagina ſimil differenza;perchè altrimen te quel
detto non offende rebbe, e non ſarebbe con if degno mal preſo. Per lo con
trario l' ammettiamo come propriamente detto, quando cade ſopra delle ricchezz
e, e de cominodi per lo luffo, e per la pompa. Passa più ol e interroga, ſe
queſte coſe hai da pregiare, e ſtima re,quando di eſſe li truoua ef ſer detto
con gaiezza, e gra zia, che al poſſeditor di det te coſe per la gran copia
manca doue egli yoti il triſto facco. Sono ſtato compoſto di cauſa, e di
materia, e ne l'vna, ne l'altra fi dilegucrà nel nul. la; giacchè di nulla non
fu prodotta. Dunque ognimia parte mutandoli rientrerà in qualche parte del
Mondo; e di nuouo queſta in vn'altra parte del Mondo ſi traſmute rà, e così in
infinito. Per mezzo di queſta mutazione ed io ſon venuto, ed i miei genitori; e
così retrogradan do in vn altro infinito. Ne ci e chi proibiſca di così parlare,
ancorchè per peri odi terminati la macchina mondiale ſi regga. La ragione, e
l'iſteſs'ar te ragioneuole ſono facultà a ſe medefime, e alle opere loro
proprie ſufficienti. Muo uonli dunque dal loro proprio principio; e camminano
dirittamente al propoſto fine. Per lo che ſi dicono rettifica zioni così nomate
queſte azioni a ſignificar la rettitu dine del ſopraddetto cam mino. Neſſuna di
queſte co ſe è da dir, che ſia dell'huomo la quale non conuenga all' huomo,
come huomo, ne ſi richiedono dall'huomo, ne quelle profeſſa la natura del
l'huomo, ne ſono perfezioni della natura humana. Non è dunque ne meno il fine
dellº huomo ripoſto in quelle, ne meno il bene, che è il compimento di quel
fine. Se pure qualche cofa di queſte foſſe conferente all'huomo, non gli
apparterrebbe ne il diſpregiarla, ne il contrariar la: ne farebbe da lodarſi
chi si moſtraſſe non hauer biſo gno di elle, anzi chi ſtudiaf fe priuarſi
d'alcune di quelle, non ſarebbe buono, mentre quelle foffero buone. Ora però
quanto più l'huomo ſi leua queſte coſe dattorno, 0 altre ſimili; o permette,
che ſe gli leuino, tanto più buo no è. Tale farà la tua mente quali ſaranno le
coſe, che ſpeſſe volte ti ſono paſſate per la fantaſia:reſtando l'ani ma
colorata dall'immagina zione. Immergila dunque in fi fatte continuate immagi
nazioni; delle quali yna ſi è quella che doue ſi puòviuere, iui ſi può anco
viuer bene: ma nella Corte ſi può viucre, a dunque nella Corte puoſſi feuza
dubbio ben viuere. E dinuouo queſt' altrà, che cia ſcheduna, coſa a qualche co
ſa è diſpoſta, e dou' è di ſpoſta ſi porta, e doue fi porta conſiſte il ſuo
fine, e doue è il fine, iuiè l'vtile, e il bene di ciaſcuno. Sicchè il bene del
viucnte ragion euo le è la comunanza; e men tre teftè s'è dimoſtrato che perla
comunanza ſiamo nati, non è euidente, che l'inferior bene per lo meglio è fat
to, come vn meglio per l'al tro meglio?ma migliori deg! inanimati ſono gli
animati, e degli animati li ragioneuoli. E da furioſo il profe guir le coſe
impoſſibili: ma impoſſibile è che i cattiui non facciano alcune tali co fe.
Niente auuiene a niuno, che non gli ſia ſtato dato a portare dalla natura; ma
le medeſime coſe ſuccedono a gli altri, i quali o non com prendono l'accaduto
loro, o per oſtentar la magnanimi tà, non ſi muouono dal lor fefto, e lieti ſe
ne ſtanno Onde ſtrano parrà che l'in gnoranza, e la propria com piacenza fieno
più poſſenti della prudenza. Le coſe per fe fteffe in niun modo tocca -no
l'anima; anzi non hanno in quella l'introito, ne poſſo no piegarla, o muouerla.
El la ſola riuolge, e muoue ſe ſteſſa: e le coſe, che le fo prauuengono fono
tali, qua ſi ella ſe ne forma i giudicij. 15 Per vn altra ragione la natura
degli huomini è a noi famigliariſſima, in quanto che noi dobbiamo far loro del bene,
e tollerarli; in quanto poi alcuni relifto no all'operazioni, che a noi
conuengono, l'huomo a me diuiene come vna coſa del le indifferenti non meno del
fole, del vento, delle beſtie. Da queſti ſi può impee dire qualche operazione;
ma non ſi può dare impedimen to, ne all'appetizione, ne al la diſpoſizione, a
cagion della eccezione, e del ri. uolgimento.Conciosfiecoſa che la mente
riuolge, e tra muta in coſa a ſe proporzio. nata tutto quello, che all? operare
le da impedimento, e quello, che ratterrebbe l'o pera, l'iſteſſo diuiene opera,
e quello che innanzi era oſta colo al cammino, ſe le fa. cammino. Di tutto
quello, ch'è nel Mondo tu venera l' otti mo; e que to è quello, che, feruendoſi
del tutto, il tut to gouerna. E così parimen te di quello, ch'è in te, onora
l'ottimo,hauendo queſto fin golar relazione a quello.. Concioſliecoſa che,
eſſendo in te, fi vale delle coſe tue, eſotto il di lui gouerno è condotta la
tua vita. Quello, che non è di danno alla Città, non nuo ce al
Cittadino.Applica que fta regola in ogni occorrenza in cui tu reputi d'eſſer
offeſo. Se da queſto la Città non ri ceue nocumento, ne io lo ri ceuo; e fe la
Citrà riceueffe nocumento, non biſogna, che tu t'adiri contra chi l'ha
daneggiatta. Ma moſtra in che egli ha traueduto. Conſidera ben fouente la
preſtezza,con la quale li por tino via, e ſi fottragghino tutte le coſe, che
ſono, e ſi van facendo; poſciachè la ſo ſtanza a guiſa d'yn fiume è in continuo
fluſſo, eľ opera zioni in non intermeſſe mu tazioni, e le cagioni ſogget te ad
infinite riuolte. Nec è quaſi coſa alcuna, che falda ftia, e che non ſia vicina
ad yn'immenſità infinita, sì del paſſato,come del futuro,ncl la quale il tutto
ſpariſce.Co me dunque non è pazzo chi di queſte coſe ſi gonfia,o fe ne
trauaglia,o ſi querela dicoſa, che per iſpazio di tempoan, che pochiſſimolo
conturba 2 Ricordati della ſoſtanza vni uerſale, della quale tu partecipi per
vna minima parte, e del vniuerfal tempo,del qua le vn breue ſpazio, o momen to
te n'è aſſegnato; e nella ſerie fatale che parte fai? Alcuno pecca: che impor
ta queſto a me? Egli ſe lo ve drà. Egli ha la propria diſpo ſizione, la propria
operazio ne. Io al prefente ho quello, chela natura comune vuole, ch'io adcfſo
m’habbia, e fo quello, che la mia propria natura vuole, che io adeſſo faccia.
18 La reggitrice, e domi, nante porzione della tua ani maſia immutabile, e
inarren. deuole a i moti della carne, o morbidi, o aſpri che ſi fieno; ne vi ſi
rimeſcoli,ma conten ga ſe ſteſſa, e confini quegli affetti dentro i ſuoi meinbri.
Quando poi per vn'altra ſim patia ſi rinnalzaſſero alla mente, per effer ella
vnita al corpo, ſtante l'eſſer il ſen ſo connaturale, non haſli a contraſtare
con violenza, pe rò la mente reggitrice da ſe ſteſſa non v'aggiunga l'opi nione
inrorno al bene, o al male. S'ha da viuere con gli Iddij. Viue con gl'Iddij chi
loro fuela continuamente la fua anima effer contenta del diſtribuitole, ed
operando tutto quello, che vuole il ge nio, dato a ciaſcuno da Gio ue per
preſidente, e rettore, come parte a ſe medeſimo preſa, e queſto è la mente, e
la ragione di ciaſcuno. 20 Non ti adiri tu con co Jui,al quale puton l'aſcelle?
E con quegli altresì,che man da fuor dalla bocca fetente fiatore? che ti farà
coſtui? Egli ha vna bocca ſi fatta, e l'aſcelle di tal condizione: Forza è, che
ſimili eſalazioni eſcano da ſimili parti; Mal huomo, mi dirà alcuno, ha la
ragione, e può s' egli au uerte conſiderare in che egli difetti. Buon prò ti
faccia. Dunque per hauer tu ancora la ragione rifueglia la ſua ra gioneuole
diſpoſizione con la tua, inſegnali aminoniſci lo. Perchè fe quello t'aſcol-.
terà, lo riſanerai, e ſarà fu perflua ogni collera. 21 Non fare ne da rappre
fentante tragico;ne da mere trice: Nella maniera che tu diſegni vſcir di vita,
così ti lece ora di vivere? <a quando non te lo permetteſſero, allora eſci
di vita, ma però, come da niuno infortunio abbattuto,ma quaſi tu dichi: Qui c'è
del fumo, e io me ne vado. Ti par queſto gran coſa? mentre nient'altro mi fa
vſci re rimango con la libertà, e niuno mi vieterà di far quel lo, che io vorrò.
Vorrò però quello, ch'è conueniente al la natura dell'huomo ragio neuole, e
nato per la vita cos mune. 22 La inente dell'yniuerſo è comunicatiua; e perciò
hafat te le coſe peggiori in ordine alle migliori, e le più princi pali tra di
loro ſcambieuol mente compoſe • Vedi come le ſubordinò, come inſieme le ordinò,
e come quello che cra conueniente detre a cia ſcuna e le più principali con
reciproca concordia con giunſe? 23 Come ti ſei portato fin ora con gl'Iddij,
con i geni (tori, co fratelli, con la mo glie, con i figliuoli, co * pre
cettori,co'nutricatori, amici, domeſtici, e ferui? hai tu fin ora oltraggiato
alcuno di - loro, o in fatti, o in parole? -Ricordati di più per qualico fe ſe
paſſato, e quali ſe ſtato fufficiente a tollerare,e come di già per te è
adempita la • ſtoria della vita, ed è finito il miniſterio.E quante coſe bel le
hai vedute? e quanti pia -ceri, e dolori hai diſprezza ti? quante coſe d'
apparente gloria hai neglette? a quanti fconoſcenti ti dimoſtraſti benigno? Per
qual cagione l’ani me ſenz'arte, e fenza ſcienza conturbano il perito nell'ar
te, e l'erudito? quale dun que farà l'anima perita nell' arte, ed erudita nelle
ſcicn • ze? quella, che ha notizia del principio, e del fine; e di quella
ragione, che pene trando ogni ſoſtanza dell' vniuerſo, per tutta l'età, fe
condo i periodi ordinaci,reg. ge il tutto. 25 Or or tu farai cenere, é carcame,
' o ſolamente no 1 me,ma ne pur nome, ridu cendoſi il nome in vn poco di
ſtrepito, e di riſonanza; e certamente quelle coſe, che in queſta vita s '
hanno in i grandeſtima, ſono vane,pu tride, ſcarſe, e in guiſa dica gnolini,
che ſi mordono, e di 2 putti, che contendono, e ri dono, e ad vn tratto paſſano
al pianto. Ma la fede, la mo deſtia, la giuſtizia, e la verità Da ilarghi ſpazi
della terra alCielo s? innalzarono. Che coſa adunque qui ti rattienca ſe le
coſe ſenſibili, ſono faci liffime a mutarſi, e non ſon conſiſtenti, e gli
organi del fenſo oſcuri, e facili a ri ceuere falſe impreſſioni, e l' iſteſſa
animuccia del ſangue yna eſalazione, l'acquiſtar gloria appreſſo queſti tali è
vanità. Che dunque aſpetti? Aſpetta placido o la eſtin zione, o la
traportazione. E finchè il teinpo arriui di que ſto, che coſa a te farà ſuffi
ciente che altro ſe non il ri uerire gl’Iddij, e lodarli, e be neficare gli
huomini, sopportarli e aftenerſi da quelli? E quanto coſe ſono fuori del
confine della carnuccia dello ſpiritello ricordati, che non ſono tre, ne ſotto
il tlio comando. Potrai profpcrarti per. fempre, e ben incamminarti, e con buon
ordine apprende dre, e operare. Queſte due co ſe ſono comuni così all'ani ma di
Dio, come a quella de gli huomini', e d'ogni ra gioneuole viuente, cioè di non
poter eſſere impedito da che che altro fi fia, e di porre nella giuſta
affezione, e azio ne il ſuo bene; e in queſto ri ftrignere ogni ſuo deliderio. Se
ne queſto è malizia naia, ne meno l'operazione procede dalla mia malizia, ne il
comune viene offero, perchè di ciò mi trauaglio? e qual è il danno del comune?
Non ti laſciar così totalmen te rapire dalle immaginazio ni, ma aiutati quanto
puoi, e conforme alla conuenienza; e ancorchè nelle coſe mezza ne ſieno
diffettoſi, non iftima re perciò, che queſto ſia dan no;perchè auuiene da mala
conſuetudine. Ma come yn vecchio andandoſene richie deua la trottola del ſuo
allies uo, ricordandoſi che al fine era vna trottola, così tu quì, o huomo,
quando hai fatto ne’roſt ri qualche coſa di bel lo, non ti ricordi, che coſa
queſto fia? me ne ricordo. Ma quello è pregiato da co loro; perciò dunque hai
an che tu da impazzare? Impaz zauo già vna volta ſoprap preſo, douunque io
foſſi, ed ero fortunato; e l'oſſer fortu nato, conſiſte nel dare a ſe hafteſſo
vna buona forte: le buone ſorti ſono i buoni mo uimenti dell'animo, le buo ne
inclinazioni, le buone azioni. La sostanzia dell'universo è ben ubbidiente e
maneggieuole. E pur la ragione, che la reg ge, non ha in ſe cagione al cuna di
mal fare; perchè non ha malizia, ne opera malamente, ne da eſſa coſa alcuna
riceue leſione; ma il tutto conforme a quella fi fa e s'affina. Sia a te indiffcrente d'operare quello, che
ſi conuiene; ſe tu ti ſenti freddo o caldo o pur ſonnacchioſo o fazio di dormire
o fc di te bene, o male ſi parli o tu ftij ſulmorire o in qualche altra azione,
mentre pure quello è vno degli atti vitali per i quali noi finiamo. Baſta.
dunque, e in queſto ben disponi il negozio preſente. Guarda al di dentro, ac
ciocchè ne la propria qualità, ne il merito di coſa alcuna fenz ' auuedertene
ti scappi. Tutto ciò, che hai dinanzi affai presto si cambierà, o di
leguandofi, se la sostanzia consiste per via d'vnione, o dissipandoſi La mente
reggitrice conosce bene con che disposizione e che cosa e in qual materia opera.
s Belliſſimo modo di ven dicarſi con chi t'offcfe, è il non aſſomigliarſi a lui.
In vna ſola cofa hai da godere, e d’acquetarti, cioè di paf ſare da vn atto
conueniente alla comunità humana ad vn altra azione, pur conuenien te alla
medeſima, con ricor darti, che ci è Dio. 6 La facultà reggitrice è quella, che
ſe ſteſſa eccita, e volge, e forma ſe ſteſſa in quella guiſa, che ella voglia,
e tutto ciò,cheauuiene ſi rap preſenta, quale più le piace. Ciascuna cosa si
conduce a fine conforme la natura dell'universo e non secondo altra natura, che
si fia, o esteriormente ambiente o al di dentro riſerrata ouero al di fuori ſeparata.
Il mondo o è vn imbro glio, e auuiluppamento, e diſſipazione, ouero vnione,
eordine, c prouidenza: Se i primi, per qual cagione deſidero io di conuerfare
con questa massa confusa, e cotal nieſcolanza? a che m applico io ad altro, che
ad eſſere per qualche modo ter ra? che ſto a perturbarmi? Concioſliecoſa che
qualun que coſa io mi faccia la dif ſipazione al ſicuro m'arriue rà: ma ſe è
l'altro detto in fe. condo luogo, io riueriſco co lui, che il tutto diſpone, e
in lui m’acqueto e confido. Quando gli anuenimen ti eſtranei ti violentano per
qualche verſo a perturbarti, prontamente ritorna in te ſteſſo; e non vſcire dal
tenore, e concerto più diquello, che la neceſſità ti ſpigne. Im perocchè
cóſeruerai più con fonanza, ſe toſto in eſſa ti ri metterai. Se inſieme tu ha
uelli la matrigna, e la madre, tu quella feruireſti, e niente dimeno del
continuio alla madre fareſti ritorno. Non altro a te è ora la Corte, e la
Filoſofia: a queſta ſpeſſo ri torna, e in eſſa acquetati, per mezzo della quale
le cofe, che in quella occorrono, ti parranno più tollerabili, e tu nell'
iſteſſe coſe farai da tollerare. 10 O comeè bene formar ſi nell'immaginatiua
intorno alle viuande, e altre cole ſi mili comeſtibili: che queſto ſia cadauero
d'yn peſce,quel l'altro cadauero d'vn' vccello d'un porcello. Simil mente, che
il falerno ſia pic cola gocciola d’yn grappo lino d'vua, e lo ſcarlatto pe
luzzi di pecorella intinta col fanguuccio di vna conchi glia. Così ancora nelle
coſe intorno al congiugnimento carnale, che fia vn diletico dell'inteſtino, e
conqualche conuulfione yna egeſtione di yn moccino.Ora come queſti fimili
conceputi penſieripe netrano je toccano il fon dodelle coſe in modo, che ſi
vedano talis quali elle fono in queſta maniera biſogna ſeruirſi di queſti in
tutta la vita, e doue le coſe paiono più degne di fede, dinudarz le, e
riguardar la loro viltà e ſuilupparie dalla pompa, con la quale foſſero poſte
in G 3 alterigia.Poichè l'apparenza è vnagrande ingannatrice e maſſime quando
tu penſi di trattare le coſe ferie, allora più che mai t'affaſcini. Mira dunque
a quel, che diſſe Cratete di Senocrate. Il più delle coſe, che la inolti tudine
degli huomini ammi ra, ſi riduce generalmente a quelle, che hanno dalla na tura
le forme, o dall'arte fon loro aggiunte; per cfemplo, le pietre, le legne, i
fichi, le viti, e gli oliui, e quelle, che vengono ſtimate da huo mini alquanto
più moderati, fi riducono alle coſe animate, ome a dire, gregge, ar menti: ma
quelle, che ſono pregiate da perſone di più garbo, ſono le dotate d'a nima
ragioneuole, non già di quell'anima, che è dell' vniuerfale, ma di quella, che
fi val dell'arte, o altri mente come con ingegno penetra, o per dirlo ſempli
cemente tutto tiene ſogget to, in guiſa d'una quantità diſchiaui. Però chi
dell'ani ma ragioneuole, vniuerfale, e ciuile fa conto, non bada a nient'altro,
ma ſopra il tutto conferua la propria anima di ſpoſta, e ſemouente ragione
uolmcnte, e alla comunica zione humana, é con l'vni uerfale, ch'è del medeſimo
genere, coopera. II Alcune coſe s'auanza no al lor facimento, e altre
s'auanzano al lordisfaci mento; e di quello, cheſi va facendo, vna parte già è
ſpas rita. I corſi delle coſe, e l'al G 4 te terazioni continuamentc ri
nouellano l'infinita eternità, cd il Mondo; nella maniera, che il corſo non mai
man cante del tempo lo rende ſempre recente. E chi è que gli, che in queſta
corrente poſſa affezionarſi ad alcuna di quelle coſe, che via traf ſcorrono,
mentre in quella non può arreſtarſi a queſti fa + rebbe in guiſa d'vno, che ſi
metteſſe ad amare vn paſie rotto di quelli, che col volo trapaſſano, dopo che
già dal. la viſta foffe fcappato. La vi ta di ciaſcheduno è come lo
ſuaporamento del ſangue, e'l reſpirardell'aria. Poichè. qual'è l'attrarre
dell'aria, e il renderla, che del continuo ciaſcuno fa, tale è ogni fa cultà
reſpiratiua, che ieri, o ieri 1 ieri l'altro nafcendo fi rice uè, e l’ha da
irimandare là, donde primafu colta. 12 Stimabil coſa non è, ne l'efferc
fuentolati, come le piante, ne il reſpirare,come le beſtie, e le fieregne il
riceue re l'impreſſioni nell'immagi nazione, ne l'effer tirato dal l'impėto
delle paſſioni, ne lº adunarfi inſieme,ne l'alimen tarſi; poichè queſto è il me
deſimo, che lo ſcaricar il fo prauanzo dell'alimento. Di che s'haurà da far
conto de lo sbattimento delle mani? Non già. Dunque ne meno dell'applaufo delle
lingue; poichè gli applaufi, ele ladi della moltitudine altro non fono, che
ſtrepito di lingue. Mentre tu dunquc leui via queſta glorietta che ci riina G 5
ne da pregiare? Io per me re puto,che ſia il muouerſi, e com tenerſi fecondo la
propria conſtituzione là;doue gli ftu dij,e l'arti conducono.Poichè ogni arte
ha queſto per mira, che quello, che appreſta, lia abile all'opera, per la quale
è diſegnato. Queſto pure ri cerca il lauoratore della vi gna, ed il cozzone de'
pule dri, e’lcanattiere. E ledu cazione de' fanciulli, e glin. ſegnamenti a che
altro s'in dirizzano? Qui dunque con ſiſte il pregio, e, ſe ciò ti ſta rà bene,
di niente altro ti curerai. Cheſe non ti quie ti, e ſtimeraipiù altre coſe,
allora non goderai della li bertà, ne ſarai ſufficiente a te ſteſſo, ne immune
dalle paſſioni; conciofficcola che ti D ti ſarà di meſtiere d'eſercitar
Pinuidia, e l'emulazione, e'l ſoſpetto verſo quelli, che habbiano potere di
priuarti delle dette cofe; e anco di macchinar contro quelli » che le da te
ftimate poſſiedo no. Onninamente è neceſſa rio che ſi conturbi chi ďal cuna di
dette coſe è biſogno fo, e che in oltre ſpeſſo faccia doglienza degl' Iddij. Ma
chi la ſua propria mente ris ueriſce, e pregia, compiace rà a ſe ſteſſo, e a
quelli, che fecocomunicano s'adatterà, e fi conformerà con gl'Iddij, cioè
loderà quanto eſli defti nano, e diſtribuiſcono. Le moſſe degli elemen ti ſono
in giù, in fu, e in giro: però il monimento dellavirtù non confifte in niuna di
que G 6 ſtę; + R ng ſte;ma come coſa più
diuina, per via malageuole a cõpren dere felicemente s'auanza. Che è quello,
che fan no glihuomini? ricuſano di lodare coloro, che nel me deſimo tempo, e
inſieme con effi viuono, e poi queſti iſteſ fi fanno gran conto d'eſſer lodati
da’ poſteri, i quali ne mai conobbero, ne mai vec dranno; ed è quaſi lo ſteſſo,
che fe tu ti doleſli, che da gli antepaſſati in lode tua non foſſe ſtato mai
parlato. Non perchèate ſteſſo quello fia difficile a confe guire, hai
d'apprendere,che Via impoſſibile all'haomo; ma ſe queſto all'huomo è pofſi bile,
e conuencuole, Itima che anco tu lo poſſi arriuare. 16 Negli eſercizij corpo
rali 1 DIMARCO rali, ſe vno con l'vnghie graffia, o vrtando il capo ha urà
fatto piaga, non perciò glie la ſegnamo, ne ce n'of fendiamo, ne ombra ne
prendiamo come d'inſidia tore; ancorchè ci guardiamo da lui, non, come da nimi
co, ne con ſoſpetto, ma piaceuolmente ſcanſandoci. Queſto medeſimo s'vſi da noi
ancora nell'altre parti, che reſtano della vita noſtra, do ue ci affatichiamo
aſſai, co me contro quelli, che con noi s'eſercitano; perchè vn può, come ho
detto, fcan fargli ſenza ſoſpetto, e odio. 17 Se alcuno potrà cor reggermi, o
moſtrarmi, che io dalretto m’abbaglio con l'opinione, e con l'opere, di buona
voglia mimuterò, essendo in me brama della vee rità, la quale non nocque mai ad
alcuno: ma egli vien leſo dal proprio errore, e dalla ſua ignoranza, nella
quale egli perſiſte.Io fo quel lo, ch'appartiene al mio of ficio; l'altre coſe
non mi di ſtraggono, perchè ſono ina nimate, o irragioneuoli, o che errano e
non riconoscono la strada. De viuenti irragioneuoli, e vniuerfal mente di tutte
le coſe, e dem ſoggetti tu come ragioneuo le ſeruitene con grandezza d'animo, e
franchezza, giac chè ragione non hanno; ma degli huomini, perchè eſ hanno la
ragione, ſeruitene nel modo, checonuiene alla focietà humana. E ſopra tutto
inuoca gl'Iddij, e non ti pi 1 gliar penadi quanto tempo tu haida porre in
queſta o pera, perchè tre fole ore fo no baſteuoli. Alessandro Macedone, e 'l
ſuo mulattiere, ora che ſon morti, ſono in tutto ri dotti al medeſimo. Auue
gnachè o ſono aſſunti nell' iſteſſe ſeminali ragioni del Mondo 20 parimente ſono
difperfi ne gli atomi. Conſidera quante coſes. dell'animo, o del corpo in yn
momento di tempo in qualſiuoglia di noi tutte in ſieme fi facciano; ed in tal
guifa non ti marauiglierai, fe molte più coſe, anzi tutto quello, che ſi fà, in
queſt vno, c yniuerfo, che noi chiamamo Mondo, parinen te ſufliſtano.in 2Se
alcuno t'interro ga, come fi ſcriua il nome & ANTONINO, proferirai tu
appuntatamente ciaſcu-. na delle lettere? Che dun que s'egli entrerà in colles
ra,entrerai ancor tu in collera? Anzi più toſto profe guendo non conterai tu ad
vna ad vna con piaceuolezza le lettere? Però queſto ti ri durrai nella memoria,
che ciò, che è conueniente, da alcuni numeri riceue il ſuo compimento.Queſti
biſogna offeruare, e ſenza turbarſi, ne ſdegnarſi contro quelli, che
prendeſſero Idegno, ter minar la faccenda per lo pro prio cammino. E' come yna
crudeltà il non permettere agli huomi ni che ſi diano a far quello, che pare a
loro s'adatti, e conuenga. Il che in vn certo modo tu vieti loro di fare,
quando, peccando eſſi, tu ti diſguſti, e ti ſdegni; auuegna chè allora ſon
portati a quel lo come a coſa, a loro conuc niente, e profitteuole. Ma la cofa,
mi dirai, non va così. Dunque tu inſtruiſcili, e ciò dimoſtra loro ſenza
alterarti. 22 La morte fa cellare l' impreſſioni, che da i ſenſi si cagionano.,
le commozioni violente per l'affezioni, co me ancora gli aggiramenti mentali, e
ogni ſeruitù ver ſo della carne. Diſdiceuole coſa è, che in quella ſorte di
vita, nella quale il corpo non s'infiacchiſce, l'anima prima del corpo
s'infieuoliſca. Guarda di non inccfa rirti, per non intriderti, che così fuole
auucnire. Però conferua in te ſteſſo la ſchiettezza, la probità, l'inte grità,la
conueneuelezza, l'in genuità, l'amore del giuſto, la pietà, la piaceuol ezza,
l'humanità, la fermezza nell operare cofe comuenienti. Sforzati di mantenerti
tale, quale fu l'intento della Filo ſofia di formarci. Venera gľ Iddij, protegi
gli huomini. Breue è la vita, e l' vnico frutto del viuer in terra è vna ſanta
compoſtura d'ani mo, ed il far opere indirizza te al comun bene degli altri. In
ſomma fa ogni coſa da vero allieuo di ANTONINO, Rio cordati, come egli sempre
sta in un retto tuono d'operare ſecondo la ragione dell’uguaglianza ſua in
tutte le cose della santità, della serenità della faccia della soauità, del
diſprezzo della vanagloria e dell'attenzione nell'apprender gli affari. E come
egli non haurebbe trapaſſato coſa alcuna, ſe prima non l'haueſſe ben co
noſciuta, e perfettamente confiderata; e come egli comportaua quelli', che di
eſſo a torto ſi lamentauano, ſenza ridolerſi diloro; e co ine in coſa alcuna
non s'af frettaua, c non ammetteua calunnie; ne de' coſtumi, o dell'azioni era
curiofo fpia tore, ne rinfacciatore, non timido non ſoſpettoſo, non ſofifta;
ecome conten tauaſi del poco sì nell'abi tare, sì net dormire, sì pel 0 e veſtire,
sì nel mangiare, si nella ſeruitù; come, pronto trauagliaua volontieri nel le
fatiche, e con longanimi tà; e in qual modo fe la paf ſaua fin alla ſera con
leggier riſtoro; non hauendo biſo gno fuor delle ore conſue te delle folite
egeſtioni. In oltre conſidera la fermezza di lui fenza niuna variazio ne
nell'amicizie; e la tol leranza' di chi liberamente contradicena a’fuoi pareri,
e't godimento, fe venina da al tri moſtrata cofa migliore; e come era,
religioſo ſenza fuperſtizione: acciocchè nel l'vltinio punto della tua vita ti
truoui con fi buon co noſcimento di te fteffo, me'anuenne a lui. Riſuegliati e
richiama te fter D fteſlo, e di nuouo fuori del fon no conſidera che i ſogni ti
perturbauano, Torna riſuc gliato a rimirare queſte coſe humane, come miraui
quelli. 25 Son compoſto di cor picciuolo, e d'anima. Al corpicciuolo dunque
ogni coſa è vna, poichè egli non può farui differenza; maall? intendimento
tutto quello è indifferente, che non è del le ſue proprie operazioni Ora le ſue
operazioni tutte ſono nel di lui potere; e fra queſte, quelle che al preſen te
folo maneggia: mentre quelle dell'auuenire, o quel le del paſſato anche eſſe già
a lui ſono indifferenti. Non è fuor di natura la fatica alla mano, e al piede,
finchè il piede fa quello, che ha da fare il piede, e la ma no quello, che la
mano. Co sì ancora all'huomo, come huomo, non è fuor di natu ra la fatica
quando opera quello, che ſi ſpetta all’huo mo; c ſe ciò a lui non è fuor di
natura, non gli ſta male. Quanti piaceri ſi goderono i maſnadieri, i zanzeri, i
par ricidi, i tiranni? Non confi deri come i mecanici artiſti infino agl'idioti
in vn certo modo s' accomodano nientedimeno ſoſtengono la regola della loro
arte, ne comportano, che da quella ſi manchi, Non farà coſa ſconueneuole, che
l'archi tetto, o il medico riſpettino più la ragione della propria arte, che
l'huomo la ſua, la quale gli è comune con gli Iddij? L'Asia, l'Europa ſono
angoli del Mondo: tutto ľ Oceano vna gocciola del Mondo: il monte Atho una
zollerella del Mondo: ogni tempo, che corre yn punto dell'eternità. Tutte ſon
coſe piccolc, facili a mutarſi, che preſto fuaniſcono là, donde procedono,
deriuando tutte dal comun direttore. Sicchè il grifo del Leone, e'l vele no, e
ogni maleficio,come le ſpine, ela mota, ſono giun te forucnute da quelle coſe
degne, e buonc. Dunque queſte coſe non reputar alie, ne da quello, che tu
riueriſci, ma riuolgi nella tua mente il fonte di tutte le coſe. 28 Chi vede le
coſe pre fenti, l'ha vedute tutte, fieno quelle, che furono per tutti i ſe 70
12 lle of chi in ori ſecoli, o quelle, che per gli infiniti ſaranno;eſſendo
tutte dell'iſteſſo genere, e confor mità. Conſidera bene ſpeſſo la congiunzione
di tutte le coſe mondane,e l'abitudine; o il riſpetto, che vna ha con l'altra;
giacchè in certo mo do tra ſe tutte le coſe ſono intrecciate, e così tra di
loro, ſecondo queſto, ſi affeziona no, poichè vna ſeguita l'al tra, o ſiaſi per
lo moto loca le, o per la coſpirazione, o per l'vnione della ſoſtanzia. Adatta
te ſteſſo a que' negozij; che ci ſono toccati in forte, ea quelli huomini,
co’quali ſei deſtinato d'eſſere, poni affetto, ma di vero cuo re.
Gl'iſtrumenti, gli arneſi, e ognivaſo, ſe a quello, ache è stato ordinato
s'accomoda, è buono; ancorchè quegli', che lo fabbricò no vi ſia più. Ma di
quelle coſe, che ſotto la natura ſi contengono den tro vi è; eperſeuera la
facult tà che le diſpoſe. Perciò tanto più deeſi quella vene rare; e ſtimare,
perchè ſe tu opererai, e ti gouernerai conforme al voler di quella, il tutto ti
riuſcirà, ſecondo la tua intenzione; così an cora ad ognuno le cofe - rie ſcono,
fecondo la mente di lui. 30 Quando fuor di quello, che cade ſotto la tua elezio
ne hai a te ſteſſo preſuppoſto o bene, o male', è neceffa. rio, ſecondo
l'auuenimento di detto male', o miſauueni mento di detto bene, lan H mentarti
degl'Iddij, e anco ra odiar ' gli huomini, che ſieno ſtati cagione, o che a te
ſieno ſoſpetti, come che poteſſero eſſer cagione di detti miſauuenimenti, o au
uenimenti. E per queſta dif. ferenza verremo pure a peca car molto. Ma ſe folo giudi
chiamo le coſe buone o cattiue, che ſono in noftro potere, non ci rimane niuna
cagione, ne di dolerci di Dio, ne di contro gli huo mini con oſtil ſedizione op
porci - 31 Tutti cooperiamo a compiere l'iſteſſo ouraggio, alcuni ſapendo, e
compren dendolo alcuni ſenza ſaper lo. E quindi, al mio parere, Heraclito
chiama operarij, e cooperarij nel facimento di tutto quello, che nel Mondo ſi
fajanco da'dormienti.Altri in altro modo coopera, e molto largamente ancora
quegli, che ſi querela, e que gli, che ſi sforza d'opporſi, e di diſtrugger le
coſe,che ſi fanno: concioffiecoſa che, di ciò hebbe meſtiere ilMon do. Reſta
dunque, che tu intenda tra quali di queſti tutti annoueri; poichè l’ ordinator
del tutto in ogni maniera ſi ſeruirà bene di te, e ti riceuerà in qualche parte
di quelli, che cooperano, 0 poſſono operare; ma tu fa di non hauer tal parte,
quale nel dramavn vile, e ridico lo verſo mentouato da Cri ſippo. Forſe che'l
sol ambiſce far da pioggia? ed Eſculapio da terra fruttifera? Non vedi com 3 li
H 2 me ciaſcuna ſtella, quantun que dall'altre diuerfa, nien tediineno al
facimento di vna, e iſteſſa coſa concor re 32 Se dunquegl'Iddij han no
deliberato dime, e delle coſe, che a me ſono per au uenire, la deliberazione
non farà, ſe non buona: hauena do in fe repugnanza il penſar yn Dio
ſenzaconſiglio. Qual cagione lo mouerebbe a far mi del male? Poſciachè a los ro,
e all'vniuerſo, del quale hanno ſpezial promuidenza, da ciò che ne riſulterebbe?
ma ſe intorno a me non de liberarono, certamente in torno dell' vniuerfo hanno
deliberato, per cui conſe guenza eſſendo queſti auue nimenti ordinati, debbo ab
bracciarli, ed eſſer contento. Se poi di nulla ſi pigliano cura, il che è empio
a crede Te, non facrifichiamo noi? non porghiamo preghiere? non giuriamo? e non
faccia mo altre coſe, le quali tutte agl' Iddij, come ſe foſſero prefenti, e
conuerſaſſero con noi; indirizziąmo? E ſean cora niente in riguardo no ftro
deliberano, farà lecito ch'io pigli deliberazione di me ftcflojie la mia
riſoluzio nenon farà altro, che intor no a quello, che mi torna 'bene;maquello
torna bene a ciaſcheduno', che è fecon do la ſua conſtituzione, e nåtura. Ora
la mia natura è ragioneuole, c cittadineſca. La Città, e la patria è a me Roma,
in quanto ſon ma in quanto ſon huo. mo è il Mondo. Dunque quelle coſe, che a
queſte Cittadi sono d'vtile, quelle fole ſono a mebuone. Quello che a ciaſcuno
auuiene, conferiſce al' tutto. Queſto doueua effer fufficientes ma ancora di
più quello in ogni maniera con perfpicacia of feruerai, che ciò, che acca de
conferente all'huomo, anche agli altri huomini conferiſce. Ma al preſente
s'intenda queſta parola Eup Os pov nelle coſe mezzane in ſenſo comune al bene,
e al male. Come quanto ti ſi rap preſenta nella faccia del Theatro, o di ſimili
luoghi, fe in vn modoſempre ſi ve de, e non mai cambi l'aſpetto, diuiene
ſazieuole alla vi fta, l'iſtella apprenſione ſi fa negli auuenimenti per tutta
la vita. Poichè ſottoſopra tutte le coſe ſono le medeſi me, e dalle medeſine ca
gioni. Sin doue dunque? Conſidera del continuo tuto te le ſorti d' huomini, e ď
ogni ſorte di profeſſione, e di tutte le nazioni, quei che fono morti, con
arriuare fi no a Filiſtione, Febo, e Ori ganione. Paffa adeſſo ad al tre
nazioni. Colà hauemo da tragettare, doue traget tarono tanti graui oratori,
tanti venerandi Filoſofi. He. raclito, Pitagora, Socrate, tanti Eroi
primieramente, e poi tanti condottieri, e ti ranni: e appreſſo a loro Eu doſſo,
Hipparco, Archimede, e altri di perſpicace ingegno, magnanimi, amatori della
fatica, Scaltriti, arroganti: e quelli ancora, che di que fta vita humana
caduca, e giornaliera ſi ferono beffe come Menippo, e ſimili. Tut ti queſti
conſidera che già yn pezzo fa giacciono. Ora che male è a loro queſto, e che
male a quelli ancora, che in tutto ſono ſenza niuna no minata? Vna coſa iui è
dc gna di ſtima, il viucr tran quillamente con li bugiardi, e gl'ingiuſti,
vſando la veri, tà,e la giuſtizia. 34. Quando tu vogli ralle grarti,
riuolgil'animo all’ec cellenze di quei:, ché teco viuono: come a dire all'atti
uità di quegli, alla modeſtia di queſti, alla liberalità d? vno e così ad altra
virtù di qualche altro. Non ci effen, do cofa, che tanto rallegri, quanto le
ſomiglianze delle virtudi alviuo rilucenti nelli coftumi de contemporaneiig le
quali tutte in vn tratto in fieme a noi rappreſentano. Per lo cheper quanto è
pof fibile, le hai d ' hauer ſempre alle mano. Forſi tu ti duoli, che fei
ſolamente di tante libbre, e non di trecento di Nell' iſtefla maniera, che fino
a tanti anni prolungherai la vita, e non più. Perchè co me della ſoſtanzia
corporea in quanto the determinata e acquieti, così fa ancora del tempo. 36.
Sforciamoci di render gli huomini capaci: però o pereremo ancora qualche cofà
contra guſto loro, quan do la ragione del giuſto così richieda.E ſe qualcuno
vſan doti violenzati si oppone, trapaſſa alla placidezza fen za dolerti; e
dell'impedimen to feruitene per vn'altra, vir tù; e ricordati che tu deſideri
le coſe con dell'eccettuazio ne, non appetendocofe im. poflibili. Che coſa
dunque appetiſco? quel certo defi derio regolato; e queſto tu ottieniquando,
arriua quel lo, che primo, e principal mente viene deſiderato. L'amator della
gloria dall'opere d'altri ſi perſuade il proprio bene; quegli, che ama la
voluttà, dalle ſue pafſioni: ma chi ha ceruello, dalla propria operazione! E'
in tuo potere ſopra ciò non formarne opinione, e non perturbarti nell'animo.
concioſliecoſa che niuna co fa ha vna natural poffanza ſopra i noſtri giudicii.
Auuezzate ſteſſo ad apo plicare attentamente a quel le coſe, che da vn'altro fo
no dette; e più che puoi in ternâtinell'animo di chi fta parlandoti. 40 Quello,
che non è gio. neuoleallo fciame, ne' meno gioua alla pecchia. Se i marinari parlaffe Fo male del loro piloto,
0 gli ammalari del loro media co, forſe per ciò ad altro ar tenderebbono, che
all'opera re, quegli per la ſaluezza de' nauiganti, e queſti per la fanità di
quei, che fi ciira no? Quanti fon già morti diquelli, che meco ſon en trati nel
Mondo? -43. Aglitterici pare ilme-, le amaro: e a ' morſi da ani mal rabbioſo
l'acqua è di terrore: e alli putti è coſa bella il palloncino. A che dunque io
m'adiro? forſi.pa re a te, che habbia minor forza quello, che falſamen te
s'apprende, di quello cheha la bile nell'itterico, o'l veleno nell'arrabbiato a
Non t'impedirà perſona, che tu non viua ſecondo la condizione della tua natu
rà: e niente t'amierrà fuori della ragione della natura dell’vniuerfo.. 44
Quali ſono quelli, alli quali ſi deſidcra d'andar a verſo, e per qualiauuenimen,
ti, e con quali opere? 0 quanto preſto i ſecoli ogni coſa copriranno, e quante
han di già ricoperte! Che coſa è la mal nagità? è quello, che ſpeſſo hai veduto;
e ad ognicoſa, che ti ſoprauuenga, prontamente rappreſon tati, eſſer lo ſteſſo,
che ſpef fo hai veduto. Vniucrſala mente nelle coſe ſuperiori, ed inferiori,
trouerai le me deſime, delle quali ſono pie nele Storie antiche, e quelle di
mezzo tempo, e lemoder ne, e ora ne ſono piene le cittadi, e le caſe. Non ci è
niente di nuouo, tutto è vſa to, e di corta durata. I dogmi, in qual' altra
maniera ſi potranno in te cancellare ſe l'immagina zioni., che a quelli ſono
con formi non ſi eſtinguono, le quali, a te ſta di continua menté rauuiuare?
Reſta in mio poter di fare intorno a ciò quel concetto, che ſi conuiene: e ſe
ſta nel poter mio, a chemi turbo? Quel lo, ch'è fuori della mia men te, non ha
che fare in modo alcuno con la medeſima mente. Queſtoſia il tuo ſen timento, e
cositu ſei retto. 3 Pofciache in tua balia è il ritornare in vita, riconoſci le
coſe nel modo, che le hai già vedute; perchè in ciò conſiſte il ritornare in
vita: Tali ſono la vana curioſità delle pompe, le rappreſen tazioni nelle fecne,
i bran chi d'animali, le mandre, i giuochi d'arme; vn ofſetto gettato a
cagnolini; i minuz žoli di pane buttati nel viua io de' pefci, i trauagli, e il
vettureggiare delle formi che, le corfe in quà se'n là de toperti ſpauentati, i
bam bocei, a quali ſi fanno far de moti con cordićelle. Bi fogna dunque tra
queſte coſe fermarſi con animo tranquil lo, e ſenza ſtrepito: e confe
guentemente apprendere, che tanto ciaſcun vale,quan to vagliono le coſe,
intorno alle quali s'affanna. 4 E' neceſſario attendere nel parlare parola per
parola a quello, che ſi dice: e nell' operare ad ogni moto: e nel l'vno
riguardare ſubito a qual fine ſi rapporti; e nell? altro oſſeruare quello, che
venga ſignificato 5 E' ſufficiente il mio intel letto per queſto, o non è? s'
egli è ſufficiente io me ne vaglio come d'inſtrumento datomi dalla natura
dell'yni uerſo nell'opcrare; se non è ſufficiente, o io cedo l'ope ra a chi
poffa meglio di me condurla a fine, ſe non foſſe a me ſteſſo ſpettante, o vero
la fo come poffo, feruendomi dell'aiuto di quegli, che può cooperando col mio
intellet to effettuare quelloche ſia di preſente opportuno, e vtile alla
comunione humana:per ciocchè ciò che fo, o da per 3 2 3 ine me ſolo, o con
altri, dee ſolo indirizzarſi a quello ch'è pro ficuo, e più proporzionato al
comune. Quanti, che ſom mamente furono celebrati, di già ſono paſſati
nell'obbli uione? E quanti, che li cele brarono già tempo fa, ſono ſpariti a
Non ti vergognar d effere aiutato; poichè ti con uiene operare quello, che ti
appartiene, come ad vn ſol dato nell'affalto d'vna mura glia. Che dunque
fareſti, ſe azzopppato non poteffi ſolo aſcendere fu i merli, e con yn altro
poteſſi farlo? 6 Quello, che ha da auueni re non ti ſgomenti, perchè giugnerai
a quello, fe ſarà di vopo, fornito dell'iſteſſa ra; gione, della quale tu ora
ti ferui in ciò, che t'è preſente. olo bro gal ]l DO ď ti -7 Tutte le coſe ſono
tra di loro auuinte, ed il nodo è fa cro, e quaſi' niuna è all'altra ſtraniera.
Concioffie cofa che tra fc sono ordinatamente disposte, e adornano l'istesso mondo,
poichè di tutte le coſe queſto è vno, e Dio è vno per tutto, vna la natura, e
yna la legge, vna la ragio ne comune a tutti i viuenti intellettuali, e la
verità yna, doue pure vna è la perfezio ne di quelli, che ſono dell' iſteſſo
genere, e di quei, che della medeſima ragione par ticipano. Ogni coſa materia
le preſtamente va a ſuanire nella ſoſtanzia dell'vniuerfo: e ogni
cagione'efficiente pre ſtamente è aſſorbita dalla ragione vniuerſale. I ſecoli
ancora dentro di fe ſeppelli ſcono lo ni. che id at to s ſcono preſtamente la
mc moria di ciaſcheduno, s,is:: 8 L'animal ragioneuole ha la medeſima
opcrazionéry fe condo la natura se ſecondo la ragione, o retto o raddirizzato. Con
qual? abitudine fi riguardano i membrivnitid vn corpo con tale fi confans no
gli enti ragioneuoli, ben chè diſuniti, PER HAVER DISPOSIZIONE A CONCORRERE IN
UNA COOPERAZIONE. E maggior mente ti s'imprimerà l'intelligenza di queſto, ſe
ſpeffe fiate diraia te ſteffo « Io ſono membro di queſto, aduna mento di
razionali. Ma ſe col mutamento d'yna lettera dip'sno, cioè membro, farai
fe'egos, che fuona parte, non di cuore porterai amore agli huo INC die a re
ſteſſo. id -11 huomini, ene anche tu non ti compiacerai fenz hauere altro fine
della beneficienza f operando per 'mera conue polo nienza, e non come per far
beneficio. 10 Accada ciò che ſi vuole i d'eſteriori arucnimenti ſopra a coloro,
che poſſono patir queſti accidenti, e quelli pa tendo ſi querelino pure à lor e
voglia: che quanto a me, se io non reputo che ſia male l'auuenuto accidente,non
ne reſto lefo: ora da me dipen de il non reputarlo. II Qualunque coſa altri ſi
faccia, o ſi dica, tocca a med eſſer huomo dabbene:non al trimente, che ſe
l'oroj ouero lo ſmeraldo, o la porporaco si delcontinuo diceſse; Che che altri
ſi faccia, o dica; a na or el file 7110 Nad fe -em are di col me 1POC fuc da са
) ſim bil vie La 011 me tocca d ' eſſere ſmeraldo, e di ritenere il mio proprio
colore. La porzione, che è in noi reggitrice,non è a ſe ſteſ ſa moleſta, cioè à
dire, ella non s'atterriſce ne s'affige con la cupidigia, e ſe altri è poſſente
d'atterrirla, ò di contriftarla, lo faccia. Certo è cheda per ſe ſteſſa con
l'ap prenſione non fi riuolgerà a tali commouimenti. Alcor, picciuolo ſi laſci
il penſiero, che non patiſca coſa alcuna, ſe potrà; e ſe patiſce lo dica. Però
l'animuccia, che teme, e s'attriſta, e riceuc total mente l'apprenſione, niente
patirà; concioffiecofa che non procederà mai al giudizio di cose simili. Quanto
a ſe ſteſſa la por qu Id nd CC n A 0
porzione in noi réggitrice è fuori d'ognibiſogno, ſepure da ſe ſteſſa ella non
ſi fabbri ca la neceſsità, e nella mede fima maniera è imperturba bile, ed
incapace d'impedi mento, fe da ſe ſteſſa non vien perturbata, o impedita. La
felicità è il buon genio, o l'iſteſſo bene. Che dunque quì fai o fantaſia? deh
pergľ Iddij, vattene comevenifti, nonho vopo di te.Seivenuta conforme
all'antica vfanza: non m'adiro teco; ma vatte ne vna volta. 14 Alcuno ha paura
della tramutazione; e qual coſa può eſſere ſenza tramutazio ne, e quale è più
di lei ami ca, o domeſtica alla natura dell'yniuerfo? Ti potreſti tu lauare, ſe
le legne non ſi tra 2 1 21 -2 al che d 1 mil 1mutaſsero? ti potreſti nutri re,
ſe i camangiari non ſi tra mutaſſero? che altro fi com pierebbe di neceſſario
ſenza la mutazione?Non vedi dun que come ancora il tuo tra mutarti è
confacerole, e pa rimenre neceſſario alla natu ra dell'yniuerſo?. Per l'effen
za di queſto trapaſſano quaſi per yn torrente tutti i cor pi connaturali; e
cooperanti con l'yniuerfo, almodo che le parti noſtre tra di loro cooperano.
QuantiChriſippi, quanti Socrati, quantiEpit teti il tempo s'è inghiottito?
l'iſteſſo in fatti ti ſouuenga di qualunque huomo, e di qua lunque coſa. Vna
coſa fola cruciandomi mi ſcontorce, cioè, che io non forſe faccia quello, che
la conſtituzione dell'huomo non vuole, o nel la maniera, che non vuole, o come
al preſente non vuole. Tra poco tu ti ſcorderai di tutti, e tra poco tutti ſi
ſcor deranno di te. 15 Proprio è dell'huomo amare anco quelli, che erra no;e
queſto ſi fa, ſe nel mede ſimo tempo ti ſouuerrà, che quelli, che peccano, ſono
a te congiunti; e che o per ignoranza, o non volendo, peccano; e come tra
breuil ſimo tempo, e tu, e quellive n'andrete: e ſopra tutto per chè non ti ha
leſo, mentre la porzione tua principale non l'ha deteriorata più che per
linnanzi ella ſi foſſe. 16 La natura dell' vniuerfo dall'eſſenza vniuerfale,
come ha ora formato vn ca: 3. da cera, 194 LIBRO SETTIMO caualluccio, e poi,
quello di ftruggendo, ſe n'è valuta per materia d ' yn albero di poi d'vn
homicciuolo, e appref lo per qualch' altra coſa; e ciaſcuna di queſte ha durato
per cortiffimo ſpazio. Non reca al caffettino molcftia if diſcomporlo, ficome
non gliela recò ne meno il fabbricarlo. La ſdegnoſa torbidez za del volto è
oltre modo fuordel naturale; perchè fa fpeſſe fiate ſuanire la gratia di quello,
ouero alla fine in guifa l'eſtingue, ch'ella non poſla giammai più ràuuiuarſi:
Dunque, per queſto iſteſſo sforzati di apprendere che quello è fuori della
ragione; poſciachè, ſe il riſentimento contra il peccare fi perde, a che gioua
il viuere? 18 Le coſe, che tu vedi, tutto tra poco le muterà la natura, che
gouerna il tutto; e dall'eſſere di queſte pro durrà altre cofe, come di nuouo
altre dall' effenza di quelle, acciocchè il Mondo di continuo ſi conferui in
giouentù. 19 Quando vn commerta errore contro di re, toſto conſidera, che coſa
egli pec Cando s'immaginò di bene, o dimale: perchè,conoſcen do queſto, lo
compatirai, ſenza marauigliarti, o adi Tarti. Pofciache o formerai l'isteſſo
concetto del bene ch' eſſo formò, o altro ſimi le a quello concepirai, on de
fia neceſſario perdonar gli. Ma quando anco tu non 1 3 2 I 2 facefli lifteffo
concetto del bene, o delmale, ti renderai più facilmente benigno ver fo colui,
che ha traueduto. 20 Non s'hanno da conſi derare le coſe aſſenti nel ino do di
quelle, che ora ſono: ma fi dee ſcegliere delle preſenti le più abili, e ricor
darſi con quanto ſtudio quc fte fi cercherebbono, fe non foſſero preſenti. Però
è inſic me da guardare cheper trop. po gradirle non ti auuezzi a ſtimarle
vantaggioſamente., a ſegno tale, che, ſe ti inan caffero, te ne turbaſſi. 1.21
Raccogliti in te mede mo. La parte ragioncuole, e principale, è di tal natura,
ch'è ſufficiente a ſe ſteffa, quando giuſtamente opera; e in ciò truoua la sua
quiere. Scancella l'immaginazione, arreſta la violenza delle par fioni,
circonfcriui il prefente del tempo, riconoſci quello, che auuiene così a te,
come ad altri: diftingui, e partiſci quello, che ti ſta fra mano nelle fue
cagionimateriali, e caufali: figurati l'vltima ora: laſcia l'errore comineffo a
quello, e dove fu l'errore. L'animo dee star applicato a quanto si dice e la
mente dee internarsi nelle cose operate, e negli operanti: Abbelliſci te ſteffo
colla ſemplicità, è vergogna, e coll indifferenza, ch'è in mezzo tra la virtù,
e'l vizio. Ama il genere humano, con formati con Dio. Quegli diſſe, ogni coſa
eſſer ordina ta con legge certa, ma gl’elementi soli muoverſi con mouimento
incerto, e for tuito. Baſta hauer nella me moria tutte le coſe eſſere rc golate
con legge fiſſa, c po chiffime andare a caſo.. 23 Intorno alla morte: 0 è
diſipazione, o atomi, o euacuazione, o eſtinzione, o trapaſſo. Intorno al
dolore: fe non è ſoffribile porta via ſe fi allunga nõ è inſoffribile; e
l'animo nel formare i con cetti conferua la ſua pro pria tranquillità, e la
parte ſuperiore non peggiora: le parti affitre dal dolore, ſe poſſono,palefino
il loro ſen timento. Intorno alla glo ria: riguarda gli animi di co loro, quali
ſieno, e qualico fe abborriſchino, e qualiap petiſchino: e come l'arene de i
lidi, che vna ſopra l'al tra venendo a ſoprapporſi naſcondono le prime, fimil
mente nel noſtro viuere le coſe antecedenti ſono dalle foprauuenute ben preſto
ca cellate. 24 Da Platone. Penſi tu dunque, che quegli, che ha penfieri da
magnanimo colla fpeculazione d'ogni tempo, e d'ogni ſoſtanzia faccia gran
concetto del viuere dell'huo po? Non può eſſer che ſia, riſpoſe. Dunque ne
queſti potrà reputare che ſia male la morte. Non per certo. Detto di Antiftene.
E' coſa da Re operar bene, e riceuer ne biaſimo. E ' ſconuenelio le, che'l
noſtro volto obbe diſca, e ſi regoli, e s'abbel liſca, come la noſtra mente I 4
or 200 LIBRO SETTIMO ordina, e che queſta per fe medeſima non ſi regoli, ne ſi
abbelliſca. Se con le cofe diſdegnar ti vuoi Che non curan diſdegno, il tutto è
vano. A i mumi da cui morte va lontano Diaſi allegreza,e diaſi pur'a noi. Che
ſi tronchi la vita, come ſuole Matura Spiga, e un viua, e un ' altro mora Che
di me cura, e de' miei figli 'ancora Non ſi prendan gl'Iddij, ragion il vuole.
26 Da Platone. Io riſpon derei con giuſta riſpoſta. Che tu, o huomo, non ben
diſcorri, ſe penſi douere fti mar coſa di gran momento il viuere, o il morire
dell huomo, per poco ch'effo va glia, e non più toſto queſto solo confiderare,
cioè, ſe quando opera, operi coſe giuſte, o non giufte e da huo mo buono, o
cattiuo. Così il vero ſta, o citta dini d ' Athene: fe alcuno reputando il
poſto cfler otti mo vi ſi collocherà Principe vi farà collocato, "
conuiene, come a me pare, ch'iui ſi fermi, anco che vi foſſc pericolo, non
facendo conto ne della morte d'altro, fuori che della brut tezza. Ma poni cura,
o galant huomo, ſe altra coſa è l'effer buono, e generoſo, che'l faluare altri,
e faluare ſe Ateffo · Concioffiecoſa che non è da deſiderarſi dall ' huomo
veramente prodc la vita lunga,ne dee ftare appiccicato al yiuere, ma rimet
terſi intorno a tutto ciò in Dio, credendo alle donne, che neſſuno può ſcanſare
il fato; e in conſeguenza qui ha da premere in qual ma niera poſſa impiegare,
per ottimamente viuere, il tem po, che gli reſta da viuere. Offerua il corſo
delle ſtelle, comeſe tu giraffi in compagnia loro e confide ra del continuo le
vicende uoli tramutazioni degli ele menti; perchè coll' appren fioni di queſte
coſe fi purifi cano l'immondizie della vi ta terrena. Bene ne i diſcorſi
dell'huomo fu da Platone af ſerito che ſi debbono con templar le coſe terrene,
co me da alto in baſſo, le con greghe, gli eſerciti, i lano ri et is 20 90 7.1
her III le in ri de'campi, i congiugnimen ti de' parentadi, i diſciogli menti,
le nafcite, le morti, gli ſtrepiti de' tribunali, i paefi diſertati, le varietà
del te genti barbare, le feſte, i pianti, imercati,il rimeſco famento del
tutto, e l'abbel limento del Mondo per le coſe tra di loro contrarie. Riuedi
conſideratamen te le coſe dianzi ſuccedute: le tante mutazioni degl'Im perij. E
lecito ancora preue dere le coſe future: perchè a tutti i modi hauranno l'
iſteffa ſomiglianza, c non trauſeranno mai dall' ordine di quelle, che al
preſente ſi fanno. Quindi auuione che il miſurar la vita humana con anni
quaranta non ſia diffe rent e dal miſurarla con an 1 fir 1 0 I 6 ni 204ni
diecimila. Perchè qual coſa vedrai tu di più? Vanno indietro le coſe, e ciò che
diede La terra in terra, e nel celefte templo Ciò che venne dall'etera ſen
riede Ouero queſta è, yna riſolu zione degl'intrecciamenti de gli atomised vna
diſſipazione degli elementi, che non ſog giacciono à paſſione. Con beuande,con
cibi,e con magia Della morte cerchiam ſuolger la via. Conuien Soffrir con
ftenti, e ad occhi afciutti Il vento,ch'a noiSpira dagl'Iddi 29 Rieſce vno più
di te de ftro nella lotta per atterrare gli altri: ma non ſia più co municatiuo,
non più riſpet toſo, non più compofto ne gli accidenti, non più benigno verso
gli abbagliamenti de ' profſimi. 30.: Douc, secondo l'intendimento comune
agl’Iddij, e agli huomini,ſi può condurre vn'opera à fine, iui non è del male:
auuegnachè doue è le cito di trouar l'vtile per l'o perazione, che proſpera
mente s’auanza, e non trali gna dalla ſua diſpoſizione, iuinon s'ha da
ſoſpettar di danno. In ogni luogo, e in ogni tempo ſta in re il pren der a
grado, con la douuta pietà, quello, che preſente mente accade, e di portarti
con glihuomini, li quali con te conuiuono, giuſtamente, ed eſaminare
efattamente quello, che fi rappreſenta all'immaginazione; accioc chè non vi
fubentri qualche coſa, che non ſia per prima bene compreſa. 31 Non inueftigare
ciò che ad altri paſſa per la men te, ma riguarda diritta mente à quello, a che
la natura ti conduce, o ſia quel la dell'vniuerfo, per le coſe che ti accadono,
ouero la tua, per l'azioni, che da te dependono. Ora quellos? haurà a fare da
ciaſcuno, che conſeguentemente corriſpo de alla ſua diſpoſizione. Per rò tutte
l'altre coſe ſono diſm poſte per quelli, che ſono ragioneuoli, come in ogni
altra l'inferiori in riguardo delle migliori, e le ragioner. uoli l'vna per
l'altra.Dunque il primo e principale nella: diſpoſizione dell'huomo ſi è l’essere
COMMUNICATIVO. Secondariamente non arrenderſi alle corporali inclinazioni.
Concioſliecoſa che proprio del mouimiento ragioneuo le, e. intellettuale è
dicir confcriuer fc fteffo, e non laſciarſi ſottomettere da mo. ti ſenſuali, o
impetuolis poi chè tanto gli yni, quanto gli altri hanno del beſtiale. Ma la
intellettiua vuol la preininenza, e non eſſere do minata da quelli: e a ragio
ne; perchè è fatta per feruir ſi di tutti quelli. Il terzo nel la ragioneuole
conſtruzione, è di non trauedere, nc d'ef ſer ſoppiantato. A queſte co ſe
dunque applicata la men te proceda a dirittura, e co si conſeguirà quello, ch'è
fuo proprio. 32 Come tu non hauefli havuto a uiuere, che fin ora, e già foffi
morto, queſto fo pra più che c'è dato diuiuere, dourai viuerlo fecondo la
natura, folamente contento di quello, che ti auuenga, e che ti è deſtinato dal
fato, imperocchè qual coſa ti può efferpiù couveniente? 33 In ogni accidente vo
glionfi hauere auanti agli oc chiquellija' quali occorſero cafi fimili, e che
poi fi dole uano, e ſembrado loro ftrano fi lamentauano. Doue dun que ſono
eglino ora? in niun fuogo. Vorrai tu dunque fare altrettanto? Perchè non la fci
gli altrui rigui alli rigi ranti, e rigirati?: e non te ne ftai tutto intento
come ti habbi da ſeruire di tali acci denti? Te ne feruirai dunque bene, e
quelli ti ſerui ranno per materia. In ogni coſa, che farai; non hai da
applicare ad altro, ne altro proccurare, che d'effer a te Iteffo buono. Nell'
yno, e -nell'altro (fia di ciò, che hai da ſcanſare, o ſia di ciò, che hai da
fare ricordati che'l foggetto dell'operazione è indifferente. Con perspicacia
rimira dentro te stesso, che la fonte del benc è dentro di te, la quale non
ceſſerà mai di ſca turire, ſe tu di continuo la terrai ſcanata. 35 Il corpo ha
da ſtar fiffo, e non ſi ſtorcere, o fia nel moto, o fia nella poſtura. Perchè
nel modo, che l'ani mo imprime vn certo che nella faccia, ferbandola ſe 7 1 Il ria,
e ben composta, al trettanto ſi dee ricercare che ſegua intieramente nel corpo;
e tutte queſte coſe s'hanno da offeruare fcirza affettazione. Il noſtro modo di
viuere è più da affomi gliarſi alla Paleſtra, o lotta, che all'Orcheſtra, o al
ballo; douendo alle coſeche ſopra uuengono, e non ſono pre ucdute trouarſi
appareccħia to, e fermo pernon cadere. Giammai non laſcerai d'eſaminare quali
ſieno quel li, dalli quali tu brami le te ſtimonianze, e quali l'inten
zionidella loro mentc: per chè ne accuſerai quelli, i quali peccano
inuolontaria mente, ne ricercherai la lo ro teftimonianza, fc rimire rai da
qual fonte ſcaturiſco no 10 a,al ercare ate ni € fcuzi mode allomis Torta ballo
lopera t no le loro opinioni, e i loro appetiti. Niun'anima, diſſe que gli, di
ſua fpontanea elezio ne ſi priua della verità. L'i ſteſſo s'ha da dire intorno
al la giuſtizia, alla temperanza, alla benignità, e a tutte le ſi mili.Però è
fommamente ne ceffario di non mai ſcordar d'ognuno ſarai più benigno. In ogni
coſa penoſa, che ti ſucceda, ti fouuenga prontamente che quella non ha
bruttezza, ne può peggiorare la mente in noi reggitrice; poichè non le nuoce,
nene in quanto è ragio neuole, ne in quanto è co municatiua; e nella maggior
parte de dolori ti venga in mente quello d'Epicuro; Che to pre cchia dere
ulcera quel let inter: per Uli, / taria a lo mit rico no 2 I 2Che non è
intollerabile, o non è eterno; ricordandoti però di laſciarlo ne' ſuoi termini
fen za aggiugnerui altro con la tua opinione. Ancora quel lo hai da hauer a
mente, che molte coſe, che partecipa 110 propriamente del dolore, copertaméte
ci trauagliano: come è l'hauer ſonnolenza, lo fmaniar di caldo, il patir faſtio
di ſtomaco '. Quando dunquc alcuna diqueſte coſe maltolenticri ſopporti, con
feffa a te fteffo d' ellerti arre ſo al dolore. Auuerti di non hauere tal volta
quell' auuerſione agl'inhumani, che gl'inhu manihanno agli huomini. 40 Donde
argomentiamo, che Socrate foffe illuſtre, e di diſpoſizione d'animo migliore? Mentre
non baſta, che haueffe vna morte delle più glorioſe, c più acutamen te co '
Sofiſti diſputaſſe più ſofferentemente ſopra'l ghiaccio pernottaſſe, e co
mandato a condurre quel Salaminio, più d'ogni altro generoſamente fi moſtraſſe
renitente, e che per le ſtrade andaſſe con graue contegno. Intorno a che era
aſſai da in ueftigare le così era vera mente. Maquello è neceffa rio
conſiderare, qual ' animo s'haueſſe Socrate, e ſe egli po teſſe appagarſi
d'effer giuſto inuerſo gl’huomini, e fanto inuerſo gļIddij,nő iſdegnan doſi
temerariamente contro la malizia, ne punto feruen do all'ignoranza d'alcuno, ne
accettando come ſtranie Fit Ho fe je. Te ne ng€ ra uc PC PE ra alcuna cofa
datagli dall' vniuerſo, o ſopportandola come intollerabilc: në hauef ſe mai
acconſentito, c piega to l'animo alle paſſioni della carnuccia. La natura non
in fi corporò talmente il compó fto, quaſi che l'huomo non poſſariſtrignere, e
regolar ſe lo medeſimo e far le ſue proprie VE coſe foggiaceré a ſe feflo. 41
Può eſſere facilmente, in che vn diuenga huomo diri no, e non fia conoſciuto da
alcuno. Ricordati ſempre di queſto: e in oltre di quello, 1 che?l viucre
felicemente conſiſte in pochiſſime coſe. E non perchè habbi tu per duto la
ſperanza d' eſſere Dialettico, o Fiſico, ti ſtime rai rigettato dal poter eſſer
libero, pudico, comunicati uO. E I uo, e oſsequente a Dio. 42 Senza alcuna
violenza potrai trapaſſare la vita in vna piena giocondità, an corchè tutti
ſtrepitino,come fi voglino, ancorchè le belue ſtrappino i membricciuoli di
queſta mafsa, che t'è cres ſciuta addoſſo, perchè, che vieta in tutte queſte
coſe ala l'animo di conferuar ſe ſteſso in tranquillità, e nel giudi cio vero
delli circonſtanti accidenti, e collyſo pronto i delle coſe preſenzialmente
ayuemute: in modo che poſsa il giudicio ſentenziare ſopra è quello, che vien
accadendo: queſto fe' in ſoſtanza, ben chè lecondo l'opinione, al tro
appariſci; e l'vſo poſsa di re all'accidente: tu fe' quel lo, ch'io cercaua.
Perchè fem - 01 te elle est sempre quello, ch'è preſen te, ferue per materia
della virtù ragioneuole, e ciuile; e inſomma è materia dell'ar te
dell'huomo,ouero di Dio. Laonde tutto quello, che auuiene ſi fà famigliare a
Dio o all'huomo; e non è coſa nuoua, ne intrattabile, ma conoſciuta, e
maneggieuo le. 43 La perfezione de'coſtu mi porta feco queſto; ch? ogni giorno
ſi trapaſſi come fe foffe l'vltimo, non ſi com mouendo a coſa alcuna, ne con
iftordimento, ne con fi mulazione 44 GI'Iddij eſsendo immor tålicnon hanno a
male, che in tanti ſecoli ſia a tutti lo to neceſsario comportare ta li, e
tanti fcelerati, anzi han Q b f Uella bile ar Dio. che Dio cola m2 Cuo hanno in
oltre di quelli vna total cura; e tu che ſtai già per mancare ti ſtracchi, non
oſtante che tu ſij vno degli ſcelerati? è da riderſenc; tu non fuggi la tua
propria mal uagità, il che è poſſibile, ę fuggi quella deglialtri, il che t'è
impoffibile. 45 Quello, che la facultà ragioneuole, e ciuile truoua, non
fecondo l'intelletto, ne ſecondo la ſocietà, con buon dettame lo giudica più
viledi fe ftefla. 46 Quando tu hai benéfica to, e vi altro ha riceuuto il
beneficio, oltre di queſto che terza cofa pretendi,comefan no i pazzi, di parer
d'hauer fatto bene, e d'hauer a rice uere il contracambio? niuno s'affatica,
mentre riceue vtili K tå, oſtur ch 9 come COM 2, ne ont 7mor s che tti lo are ta
anzi 9 Tantà, e mentre l'vtile è azione ſecondo la natura; non ti af, fannar
dunque riceuendo yti lità in quello che tu ſe'di gio uamento agli altri. La
natura dell’yniuerlo per proprio inſtinto venne alla fabbrica del mondo, donde
è che ora tutto ciò, che ſi va facendo, procede in ſeguime to di quello; ouero
le coſe principaliffime, alle quali la mente reggitrice del Mondo ha:vna
particolar inclinazio ne, ſono ſenza ragion prodot te. Se tu ciò a memoria ha
urai, ti renderà più tranquillo in molte cse. E è azione non tia4 ndowe 'digia
erloper e alla Ponde fi va imé coff lila 1 do 1 10 ota 1 Vello ancora è gio
ueuole contro la vanagloria, con fiderare, che non iſta più in tuo potere
l'eſſer viuuto tutta la vita, o almeno la paſſata dopo la giouentù, filoſofica
mente: ma a molti altri, e a te medeſimo hai dato a co nofcere, che tu ſeben
lonta no dalla DALLA FILOSOFIA. Dunque ti truoui imbrogliato: perchè K 2 1 1 # oramai
non ti è più facile.d ' acquiſtare ſtima di Filoſofo, ſenza che ti è contraria
ancor ra la tua profeſſione. Se adun que tu penetraſti veramente fin doue
conſiſte ľaffare, non ti curar quale tú habbi da ef ſer riputato, ma baſtiti ſe
tu il reſto menerai della vita,fe cõdo il dertame della tua na: tura. Conſidera
dunque quel lo,ch'eſſa ſivoglia, ne altroiti diſtragga: perciocchè hai già
prouato per quantecoſe ſe'i to vagando, ne mai in niuna hai trouato il ben
viuere, ne nel fillogizzare, ne nella ric chezza, ne nella gloria,nenei
piaceri, ne in che ſi fia. Don ue dunque farà? nell'operare ciò, che richiede
l'iſteffa na tura humana. Come dunque queſto li eſeguirà? quand'v no faciled
Elofoto ta anch eader zmente y101 dach fetu 2,fe na no haurà nell'animo fermati
queidogmi, dalli quali han no origine gliappetiti, elo pere. E quali ſono
queſti do gmi? quelli, che appartengo no ai beni, e a i mali, come nulla eſſer
bene all'huomo, che non lo renda giuſto, tem peratoforte, liberale, enulla
male, ſe non quello, che ope ra il contrario delle coſe ſud dette, 2 In ogni
operazione in terroga così te ſteſſo: in qual maniera queſtaa me fi confà?
forfe appreffo non ine ne pen. cirò a Di qui ' a poco io farò porto, e ogni
coſa fuanirà. Che coſa di più ricerco, ſe no che l'azione preſente cõuen ga ad
animale ragioneuole, e comunicatiuo, e che nella legge ſi conformi con Dio?
Alessandro, Caiose Pompeio, che coſa ſono appetto a DIOGENE, ERACLITO, E
SOCRATE? Queſti penetrarono le coſe, e le cagioni,e le materie, e tali erano le
menti loro: ma quelli a quanti haueuano da prouedere? a quanti haueua no da
ſeruire? 4 Ancorchè tu crepaffi tutttauolta gli huomini fará no l'iſteſſe coſe.
Al bel primo non ti ſtare a turbare; poichè tutte le cole, fuccedono fe condo
la natura dell'vniuerſo; e tra poco tempo tu farai nič te; ed in niun luogo,
come non é Adriano, ne Auguſto. Appreſſo fiſſandoti nell'opera ſteſſa,
conſiderala, ed inſieme riducendoti a memoria che ti biſogna eſſere huomo dab
bene, e ciò che la natura del l'huomo richiede, fa ciò, che tu ti proponeſti
con inuaria bile fermezza, e parla come giuſtiflimo ti parrà; però con
placidezza e con rispetto e senza ſimulazione. Questa é della natura
dell'uniuerso l'opera e'l ministero. Le cose che ſono qui traſportar colà,
tramutarle leuarle di quà, ed iui riporle. Ogni cosa è mutazione, non però sì,
che s'habbia da te mcre di nouità, andando il tutto ſecondo il conſueto; anzi
le diſtribuzioni delle co fe fono eguali. Ogni natura ſi ſoddisfàdi ſe ſteſſa,
s'ella cà. mina per la propria via. E la natura ragioneuole cammina bene,
quando nelle immagi nazioni non conſente al falfo, o all'incerto; e negli
appetiti, quando alle ſole opere co munali gli dirizza; e nellide fiderij, e
nelle auuerſioni, qua do le reſtrigne a quelle coſe fole, che ſtanno in noſtro
ar bitrio; e abbraccia volentie ri tutto quello, che dalla na tura comune le
vien datos poichè è parte di quella, co me la natura della foglia è parte della
natura della pian ta, ſe non che iui la natura della foglia è parte di natura,
che è ſenza ſenſo, e ſenza ra gione, e che ſi può impedire: doue la natura
dell'huomo è parte della natura ad impedi mento non ſoggiacente, in tellettuale,
e giufta; mentre eſſa, ſecondo l'egualità, ei meriti, diſtribuiſce a ciaſcuno i
compartimenti de' tempi, delle ſoſtanzie della cagione, dell'operazione, e delle con tingenze. "
Anuertiperò,che non trouerai in niuna coſa, conſideratele ad vna ad vna, queſta
vguaglianza pari ad vn tutto;maſi bene accumulata mente, conferendo il tutto
dell'vne col tutto dell'altre. 6 Non te conceduto di poter leggere,maè in tuio
po tere il non far delle ingiurie, -il vincere i piaceri, e idolori, l'effer
ſuperiore alla glorietta: di più,il non alterarti contro de i difenfati, e
degļingrati: anzi tè conceduto l'hauere etiandio cura di loro. Niuno ti oda
querelarti del viuer nella Corte, neme no di quello, che tocca a te. 8 Il
pentimento è vna tal riprenſione di te ſteſſo per yn ytile traſcurato. Ora il
bene de' efſere qualche vtile, e de eſſere procurato.dall'huomo dabbene, e di
buoni coſtumi. Ma neſſuno huomo dabbene, e bene accoſtumato haurà pen. timento
di hauer traſcurato qualche piacere. Non è dun que coſa vtile, ne buona il
piacere. 9 Che cofa è queſto ſecon do te ſteſſo nellapropria con ftituzione?
Quale è il ſuo ſo ſtanziale, e materiale? Quale è il ſuo caufale? A che serve
nel mondo? E quanto tempo fulliſterà? Quando ti ſuegli con di fguſto dal ſonno
ricordati ciò etſer conforme alla tua conſtituzione, e fecondo la condizione
naturale dell'huo. mo di produrre operazione a prò dell humana focietà: dove il
dormire è comune an cora agli animali irragiuneuo. li. Quello perù, ch'è
naturale ad ognvno, quello è più pro prio, e più comodo, ed è più giocondo. II
Continuamente, ed in ogni immaginazione, giuſta tua poffa, eſamina la ſua na
tura, ricerca le fue paſſioni, e dialetticamete intorno a quel. la diſcorri. In
chiunque t'ab batti, prontamente diſcorri dentro di te; Queſti che maf fime può
hauere intorno al bene, e intorno almale?. Im perocchè, fe ha tali, e tali
maſſime intorno al piacere, e al dolore, e le cagioni dell’y -no, e dell'altro,
intorno alla gloria, all'ignominia, alla morte, e alla vita, non mi ma
rauiglierò, ne mi parrà coſa K 6 ſtrana, s'egli opera tali coſe; e mi
rammenterò, che quegli è violentato ad operare in fi mile maniera. Rammentati,
che come è coſa difdiceuole lo ſtimare ſtrano, che'l fico produca fichi così
che'l Mon do produca quelle coſe, delle quali è fecondo. E ſimilmen te ancora
farebbe vergogna al medico, ed al piloto il pa rer loro ſtrauaganza, ſe viene
ad yno la febbre, e fe il ven to ſoffia in contrario. 12 Ricordati, che tanto
il mutarſi quanto il conformar fi a chi ti corregge, non ti to glie l'eſſer
libero; perciocchè l'azione è tua, e ſecondo il tuo appetito, e giudicio, co me
anco conforme al tuo in, tendimento, ſi riduce a fine. 13 Se depende da te,
pers ché in chè lo fai? ſe depende da al tri, di che ti lamenti? degli atomi, o
degl'Iddij? mentre così l'vna, come l'altra è paz zia. Non dei querelarti d'al
cuno: perchè ſe è in tuo po tere queſto, correggi l'iſteſſa azione; ma ſe
quello non tuo potere, a che gioua il do lerti, giacché non conuiene far coſa
alcuna inuano? 14 Ciò che morì non caſca fuori del Mondo:ſe reſta dun que qui, e
qui fi muta, anco qui ſi riſolue nelle coſe pro prie, le quali ſono elementi
del Mondo, e tuoi; e queſti pure ſoggiacciono a mutazio ni, nc fi qucrelano. Ciò
che è, per qualche coſa è fatto, come a dire il ca uallo, la vite.Di che ti
maraui. gli? Il Sole pure dirà, per qual'effetto ſon fatto, e così gli
altr’Iddij. Tu dunque per qual coſa per pigliarti piace re? conſidera ſe
l'intclletto lo comporta. La natura s'ha preſo pen fiero diciaſcuno, non meno
del fine, che del principio, e della durata dellavita. 17 Quando alcuno tira in
alto vna palla, che di bene ne riporta fa palla quando va balzata in alto, o
che di male quando fcende, e quando ca de in terra? E che di bene n'auuiene
alla bolla dell'ac qua, ſe dura in eſſere, e che di male, ſe fi dilegua. In que
ſta guiſa puoi ancora diſcor rere della lucerna. Riuolta il corpo, e vedi quale
è, e in uecchiandoſi, quale diuiene, o pure cadendo in infermità, o dap o dappoi che s'ha preſo i ſuoi guſti carnali.
18 E ' di breuc durata echi loda, e chi vien lodato: il men touato, e chi lo
mentoua.Ag giugniui, che ciò ſuccede in yn cantone di queſta regione, ne in
quello ancora tutti ſono del medeſino ſentimento; ne pur yno è ſempre del
medeſi mo con ſe ſtcffo.E tutta la ter ra è finalmente yn punto. 19. Applica
l'animo a quel lo che ti ſi appreſenta, o al de. creto, o all'operazione, oal
fignificato. Giuſtamente que ſto patiſci, perchè vuoi diffe rire a domane a
diuenirc huo. mo dabbene, più roſto ch'er ſerlo oggi? 20 S'io fo coſa alcuna,
la fo riferendola a bencficio d'huo. mini. Se m'auuiene qualche? l 1 P cofil
232coſa la riceuo, riferendola al.. tresì agl Iddij, e al forte d'or gni coſà,
dal quale tutto ciò che auuiene inſiemederiua. Che ti pare che ſia il la uarſi?
olio, fudore, fucidu, me, acqua', ſtrofinacci, coſe tutte difpiaceuoli: I ale
èogni parte della vita, e tutto quel lo,che a noi fotto ſta. 22 Lucilla
ſeppelli Vero, appreſſo morì Lucilla. Secon da fepellìMaflimo, appreſſo morì
Seconda. Epitinchanó Diotimo, appreſſo Epitinchano. Antonino ſeppellà Fauſti
na', appreſſo morìAntonino. In tal modo cammina ogni cofa. Celere ſeppellì
Adria no, appreſſo morì Celere. Quelli anco d'acuto ſpirito, o indouini; o
fuperbi, doue ho ra ſono? come Charace, Demetrio il Platonico, Eudemone, e
altri ſimili d'acuto spirito tutte le coſe ſono tran. ſitorie in yn giorno, e
di già morte, e mancate: alcuni ne meno per poco rcſtarono nel la memoria:
altri trapaſſaro no in fauole; altri già dall'i ſteſſe fauole ſcancellati, Quel
lo dunque non è da ſcordarſi, che biſogna o diſſiparli queſta tua
compoſizioncella, o eſtin guerſi lo ſpiritello, o traſpor tarſi, e altroue
riporſi. - 23 La conſolazione dell' huomo conſiſte nell' operare ciò, che
appartiene all’huo mo; e appartienſi all'huomo il voler bene a quello, che gli
è ſimile per natura: ſprez zare i moti delfenſo, diſcer ner le probabili
apparenze, contemplar la natura dell'y Olli" ello 300 ha 710 on te ho DP
niwer niuerſo, e tutto ciò, che in quella ſi produce. Tre fono le abitudini,
l'vna alla ca gione,che circoncigne, l'altra alla cauſa diuina, dalla qua le il
tutto a tutti deriua, la terza a quelli, che con noi vi uono. Il dolore o è
male del corpo, el corpo ſia quello, che lo paleſi, o è dell'animo: ma l'animo
ha in ſua balia il conſeruar la propria tranquil lità, e ſerenità, e di non
rcpu tar, che quello fia male. Per chè ogni giudicio, e inclinac zione, e
appetizione, e de clinamento ſta nel didentro e da indi non afcende male
neſſuno. 25 Scancella l'immagina zioni del continuo dicendo a te fteffo: Ora è
in mio potere, che in 10 tra 12 10 vi del 09 70: che in queſt'anima non hab bia
luogo alcuna maluagità, ne la cupidigia, ne qualſiuo glia turbolenza: ma cono
fcendo ciaſcuna coſa, fecon do il ſuo eſſere, mi ſerua di ciaſcuna per quanto
vale. Ri cordati di queſta facultà a te conceduta dalla natura. 26 Parla nel
Scnato, e con ciaſcun'altro in particolare co decoro, e non con troppa li
fciatura, ma vſa vn modo fa no di parlare. La corte d'AUGUSTO, la moglie, la
figlia, i nepoti, i defcendenti; la ſorella, Agri pa si parenti, I famigliari,
gli a mici, Ario,Mecenate, i medici, i sacerdoti, tutta quel la corte è svanita
con la morte. Mettiti poi a conſiderare altre famiglie,nelle quali non trouerai
la morte d'vn huo mo ſolo, ma di tutte, come dei Pompeij. Mancò quella, e ne'
fepolcri iſteffi leggiamo chi fu Byltimo di quella gen te: come anco. quello,
che viene ſcolpito ne'monumen ti, vltimo della ſua gente. Conſidera poi quanto
fi tra uagliarono i loro antenati, di laſciar yni fucceſſore, e pure fu di
neceſſità, che alcuno for ſe l'vltimo, e qui parimente conſidera la fine di
tutta quel. la gente. 28. S'ha collazioni ad vna ad yna a compor la vita; e ſe
ciaſcuna vi ha la ſua parte, Thuomote nºha đa content - re; e che quella non
habbia il ſuo pienoaſufficienza, niuno lo potrà impedire.Se poi s'op- ' poneſſe
qualche cofa eftra nea?1€ lagi 110 11 Pr di 24 nea? niente al certo s'oppor rà
al giuſto, modefto, e confi derato. Ma forſe qualche al tra operazione
l'impedirà?Pc rò ſe tu prendi a grado l'iſteſ fo impedimento, e trapaſſe rai
coll'animo ben aggiuſtato a quello, che ti vien dato ti ſi furrogherà vn'altra
operazioa ne, che quadri a quella com poſizione d'animo di cui ora ſi parla,
che veramente firice na ſenza fato, e fi laſci pure con facilità 29 Se mai
vedeſti vga ma no, o vn piede troncati, avna tefta dal reſto del corpo reci fa
in qualche luogo giacere; a queſti ſimile per quanto a il Luiſta ſi
rendechiunque ricu fa le coſe ch’auuengono, e ſe ftetſo quafi tronca, o fa quel
ſa lo, chenon ſi confaccia al be ne of Tele nd f noto iF ne degli altri, col
diucller i in certo modo dall' vnione della natura; mentre tu effen do nato
parte di cffa, da te ſteſſo te ne fe'reciſo, ma qui cade in acconcio il dire,
che in tuo potere ſta di ritornarti a riunire: il che Dio a niuna altra parte
ha conceduto, che ſegregata,e reciſa, di nuouo fi tornaffe a congiugnere. Però
confidera la fouranz bontà, che tanto onore conceffe all' huomo. Poichè nel
principio poſe inſuo potere il non di uel'crſi dal corpo intero, e dopo
diuelto, il ritornare, ed il ricongiugnerſised il ricupe rare il poſto di
parte. 30 Come ciafcuno de'ragio. neuoli ottenne dalla natura tutte l'altre
facultà quaſi qua to è capace la condizione del. boz fa € 1li ragioneuoli, così ancora da lei
riceuemmo queſta facultà, la quale è, che in quel modo, che quella tutto ciò,
che le reſiſte, e le oſta, lo conuerte, e rimette nel fato, e lo fa ſua parte,
così l'animal ragione uole può d'ogni impedimen to farſi propria materia, e ben
vſar di quello, a che ella per iſtinto e portata. 31 Non ti confonda l'imma
ginazione di tutta la vita Non iſtare a ghiribizzare pen ſando quanti, e quali
trauagli poſſano ſoprauuenirti; ma in qualunque delle coſe, che ti ſi
preſentino,interroga te ſtefa ſo: in queſto fatto,che ci è d'incomportabile,
che ci è d ' intolerabile? Concioſliecofaa che t'arroſſirai di confeſſarlo.
Appreſſo ricorda a te ſteſſo, che 7 ge 10 14 fel 2 t C a C che ne il futuro,ne
quello che è paſſato t'aggraua, ma ſem pre quello che è preſente; é queſto
ſiſminuiſce,ſe diſtinta mente lo ſeparerai, e la men te tua riprenderai,
ch'ella non fia baſtante a reſiſtere a que ſto ſolo. 32 Forſe aſſiſte per
ancora al ſepolcro del ſuo Signore Panthea, o Pergamo? o pure a quello di
Adriano Cabria, o Diotimo? E ' da riderſene, E ſe aſſiſteſſero, ne haureb. bono
ſentimento? E ſe ne ha uefíero ſentimento, haureb bono godimento di queſto E ſe
haueſſero godimento, fa rebbono diuenuti per queſto immortali? Non portò il f
to, che ancora queſti prima diueniſſero vecchi, e vecchie, ed appreſſo
moriſſero? Che dun il 762 en 101 JUICE Con 701 dunque erano perfare quelli,
dopo che queſti foffero mor ti 2 Il tuttoè puzza, e mar cia in yn ſacco. 33 Se
tu haiacuta viſta, adoprala, difle quegli ſauia mente, nel giudicare. 34 Non
vedo, che nella conſtruzione dell'animal ra gioneuole ſia virtù alcuna re
pugnante allagiuſtizia: ma fi bene vedo cffer repugnante al piacere la virtù
della con tinenza. 35 Sea quello chepare ap porti a te meſtizia, detrarrai la
tua apprenſione, tu ſteſſo ti ſe’poſto in ſicuro. Chi è quel tu ſteffo? la
ragione. Ma io non ſono la ragione. Così fia: dunque la ragione non tra uagli
ſe ſteſſa. Maſe qualche altra coſa in te patiſce del L male 16 han Foi [ um 10
The male, ella medefima ne formi il fuo
concetto. L'impedimento del fen ſo è male della natura vitale, e ſimilmente è
male della na tura vitale l'impedimento del l'appetito: ed ecci eziandio vn
altro parimente impedi mento, e male della conftitu. zione vegetatiuas. Così
duna que l'impedimento dellamé te è male della natura intel lettiua; applica:
tutte queſte coſe a te ſteſſo. Il dolore, e? I piacereti co muotono? il ſenſo
fę n'auuer. drà. Nell'apperire ti ſi poſe oſtacólo ſe tu ti folli moffo fenza
ſottraimento, e rifertias allora farebbe male delura: gioneuole;mia fe tu lo
riceuí, come coſa comune tu non fe'dannificato, ne impedito, po es el Bio di tu
né ele poſciache nigni altra cola ſuo le impedire le coſe proprie della mente:
perchè in quieta la ne fuoco, ne ferro, ne ti ranno, ne maledicenza, ne altra
coſa del Mondo può pe netrare:che cheſi faccia della palla, eſſa ſempre rimane
tony da.:' 37 E' coſa indegna il mole ſtar me ſteſſo, mentre a niun? altro mai
di proprio volere ho dato moleftia Altre coſe cagionano allegrezza in altri; io
m'allegro, ſe la mia facul tà guidatrice ſtarà fana, la quale non habbia
auuerſione ad alcuno huomo, ne adal cuna coſa di quelle, che fuc cedono agli
huomini, mail tutto rimiri con occhi placi di; e riceua ciaſcuno, e dieſſo fi
ferua,fecondo il ſuo pregio. L 2 38 Ve có LIF CA Mo It This 700 TO: Vedi di
ſpendere a tuo prò queſto tempo preſente. Coloro, che più affettano la fama
apoftuma, non conſidc rano, che quelli, da’quali la ſperano ', faranno tali,
quali al preſente ſono coloro, che a lor non piacciono, poichè eſſi ancora ſono
mortali. In ſom ma che t'importa, ſe quelli con tali, o tali voci ftrepitino, o
habbiano di te queſta, o quella opinione? 39 Prendimise gettami do ue vuoi:
poichè iui ancora trouerò il mio genio buono, e propizio, cioè a dire a me
ſufficiente, purchè habbia e operi quello, che è confor me alla propria fua
condizione. E' forſe coſa che meriti, cheper eſſa s'incommodi l'animo mio, e
peggiori ſe ſteſ ſo con auuilirſi, appctire, confonderſi, e ſgomentarſi? E che
trouerai, che tanto ine riti? Non può auuenire coſa a vn huomo, che non ſia
acci dente, che non habbia dell? humano; ne al bue che non ſia accidente, che
egli non habbia del bue; ne alla vite, che non ſia della vite; ne alla pietra,
che non ſia proprio della pietra. Se accade dun que a ciaſcuno quello, che è
folito, e connaturale, perchè t'attriſti? mentre non è intol lerabile quello,
che la natura comune a te contribuiſce. E ſe ti pigli moleſtia per qual che
coſa eſtranea, non certo efla ti moleſta,mail tuo giudi cio intorno a quella. E
pure il cancellar quello depende da L 3 te. E ſe ti trauaglia qualche cofa
nella diſpoſizione del tuo animo, chi è quegli, che ti vieta di rettificare il
tuo concetto Con tutto ciò ſe tu ti affanni, perchè non operi tu ciò, che a te
pare ben fat to? Perchè più toſto non ope ri, che contriſtarti? Mavna coſa più
valeuole mi oſta Dunque non ti affannare; poi chè non proccde da te la ca gione
del non operare. Ma non par che conuenga di più viuere, fe ciò non fi fa. Dùn
que placidamente finifti la vita: mentre ancora quegli fa qualche coſa, che
muore benigno eziandio verſo colo ro; che gli fanno oſtacolo. Osserva che la
princi pal parte dell'huomo resta inespugnabil, quando in ſe Iter ko fel he UNO
steſſa ritirandoſi di ſe ſi con tenta non facendo quello che effa non vuole,
ancorché ſi metta in battaglia ſenza la. iuto della ragione. Che dun queſarà,
quando coll'aiuto della ragione prudentemen te giudicherà qualche coſa? Per
queſto la mente libera delle paſſioni è come vn'alta rocca, giacchè l'huomo non
ha coſa più forte, nella quale ritiraro rimanga poi ſempre incípugnabile. Chì
dunque queſto no comprende è igno rante: chi l'ha comprefo, non ſe ne
vale,difgraziato. 42 Niente di più ſuggeri fci a te ſteffo di quello, che
portarlo Ic mere priine ap prenſioni. T'è ſtato riferto, che il tale dice malc
di te; queſto è vn rapporto. Ma L 4 che tu ſij ſtato, offeſo, non ſi contiene
nel rapporto. Veg gio, che il figliolino è am malato, queſto ilvedo, ma che ſia
in pericolo nol vedo già. Dunque reſta ſempre ne gli primi apprendimenti della
immaginazione, e non v'ag. giugnere dentro da te ſteſſo niente d'autantaggio: e
così niente ti ſopragiugne; anzi aggiugni, che non ti viene nuoua qualunque
coſa, che nel Mondo accade. Il cóco mero è amaro, laſcialo; le fpine ſono nella
ſtrada, ſchi fale, baſta; non iſtar a fog giugnere: e perchè queſte co fe ſono
ſtate fatte nelMondo concioffiecoſa che ſi burle rebbe di te ogn'huomo, che fia
inueſtigatore della natura: come appunto ſareſti derifo da of 12 do De le SI da
vn fabbro, o da yn coiaio, ſe tu li condennafſi, per ve dere nella ſua bottega
fca muzzoli, e ritagli delle coſe, che effi lauorano. E pure que gli hanno doue
gittar queſte coſé; il che non può fare fuori di ſe la natura dell'vni. uerſo:
maciò che recamara uiglia di queſta ſua arte è, che circonſcritta in ſe ſteſſa,
quan to dentro di fe fi corrompe, e s'inuecchia, e appariſce non eſſer più ad
alcun yſo, tutto in ſe ſteſſa tramuta, e di nuo uo di quelli forma cole recen
tizin tal guiſa, ch'ella non ri cerca ſoſtanzia eftrinfeca, ne ha biſogno di
luogo per git tarui le coſe più corrotte. Così le ſono baſteuoli la ſua regione,
la ſua materia, e la propria arte. Dzi De TC O le Dj D D? 7 0 L 5 43 Non andar
vacillando nelle azioni; e nelli congreſi non far confufione. Nelle
immaginazioni non andar ya. gandojne in modo alcuno con Panimo o angoſcioſo, o
trop po impetuoſo, non accupare ja vita in fouerchie faccende. Se ammazzano, fe
mandano a fil difpada, fe con efecra zioni infeftano, che nuocono quefte coſe
al conſeruarti Ja mente pura, prudente, contes nente, e giuſta? fiati per e
fcmplo: le vno auuicinatofi ad vna fonte di dolce; c limpi da acqua,a quella
diceſſe del le ingiurie,non perciò ceffereb be di porger l'acqua da bere, e fe
ancora vi gettafle del fan go, ' e dello ſterco, immanti nente ella lo
ſegregherebbe, e diffiperebbe, e in neſſun modo Llande agreb Nelli dara 1000
Otrop CINK cord ndan Mocht OCOMO artil СОЛь modo fe n'imbratterebbe.. Come
farai dınque per hauer vna fontana ſempre viua; e non vn pozzo d'acqua fta
gnante? Merci te ſteſſo ad ognora in libertà, ſtando con l'aniino trãquillo,
ſchiet to, e modeſto. 44 Chì non sa, che coſa ſia il Mondo, non fa doue egli
fia.E chi non ſa a che fine egli medelino fia ſtato fatto, non få ne qual'egli
fi lia,ne che co. fa ſia il Mondo. A chi manca vna di queſte coſe, non può dire
a che fine egli fia fatto Chi dunque pare a te, che ftia più contento, quegli,
che fugge le lodi degliadulatoris o quelli, che nonfanno doue, o quali eſli fi
fiano Ti com piaci d'effer lodaro da vnos che tre volte l'ora maledice Del
& zarob limpi edel flerech berty bhe cfiun do L 6 se ſteſſo? Vuoi piacere
ad huomo, che ne pure ſoddisfà a ſe ſteffodroddisfà a ſe mede ſimo quegli, che
in tutte quafi le azioni, alle quali pon ma no, ſi pente? Avverti per l'avvenire
non ſolo di reſpirare nell'am biente dell'aria, ma ancora di conformare i tuoi
penſieri con l'intelletto, che tutte le coſe contiene. Concioffieco fache non
meno queſta facul tà intellettuale fi diffonde, ed entra in quello che la puòat
trarre, che quella dell'aria in quello, che può reſpirare. 46. Generalmente la
mali zia non danneggia il mondo; e quella che riſguarda il par ticolare, non fa
danno ad vn altro, ma a quel folo e noci ua, al quale ancora è conce duto read
Idishi med quafi ma enie l'am ncora ofieri tele eco cu duto di libcrarſene,
qualun que volta egli ſia pronto a volerlo. Al mio arbitrio è indift ferente
egualmente l'arbitrio del proſſimo, ficome anco il fuo fpiritello, e la
carnuccia: Imperciocchè fe bene ſiamo fatti principalmente l'vno per l'altro,
niétcdimcno ciaſcuna delle menti noftre ha il fuo dominio particolare; altri
mente ſeguirebbe, che la ma lizia del profſimo foſſe il mio male, coſa che non
è piaciu ta a Dio, acciò non dependa da altri il far il mio ſtato in felice. Il
Sole par, che fià dif fuſo, c veramente per tutto fi fpande, ma non però con
queſto Ipandimento fi fparge, e perde; perchè queſta ſua ef fuſio Ged at iain
ali doi par yn ci ce fuſione è vn diſtendimento': che però gli ſplendori ſuoi,
o raggi ſi chiamano in Greco con parola, che viene dallo diftenderk. Ma quale
sia la natura di queſto raggio, tu la potrai conoſcere,fe riguardila luce del
sole penetrata per qualche feſſura in vna ofcura ftanza imperocchéciò ſi fa di
rettamente, e quaſi vien diui fose ſquarciato da ogni corpo folidojin cui
s'incontri no am * mettente più oltre l'aria: e qui ſi ferma,nc inciampa, ne
cade. Tal effuſione, e diffuſione del eſſere della mente, non ell çuamento, ma
diſtendimento; ficche agl'impedimenti chein. contro le ſi parano non violen.
temcntene temerariamente re fifta, mà refti ſtabile, e illumi. ni ciò che la
riceue. Imperoc chè llo be 1 ih pier
lill chè priua fe ſteſſo di luce, quegli, che non l' ammets te. 49 Chi teme la
morte, o te me la perdita de'fenſi, o qual che altra forte di ſenſo, ſe non
haurà niun fenſo, non fentirà male alcuno. Se poſſederà vn'altra ſorte di ſenſo,
farà yn altro animante, e non reſterà di viuere. 50 Gli huomini ſono fatti
P'yno per l'altro; Dunque in ſegna, o ſoffriſci. Altrimente la faetta, al
trimente ſcorre l'intelletto. Ma l'intelletto e quando cau tamente procede, e
quando alla conſiderazione ſi volge, non meno ſi porta per diritto, ed al
berſaglio. S'ha da penetrare den tro alla mente di ciaſcuno e per DO 1] Te te }
0 re e permetter altresì ad ognu no di penetrare dentro la pro pria tua mente.
Chi fa ingiuſtizia fa vn atto d'empietà. Im perocchè, hauendo la natura dell'
vniuerfo fabbricato gli animali ragionevoli, vno a prò dell'altro, acciocchè,
ſe condo il douere, vno gioui all'altro, e in niuna guiſa gli muoca, chi
traſgrediſce tal decreto di queſta, commette manifeſta empietà contro il nume'
antichiſſiino tra gľ Id dij. Concioffiecofache la natura dell' vniuerſo è
natura di enti, e gli enti hanno vna coral fratellanza con tutte l'altre coſe
eſiſtenti. Di più queſt' iſteſſa fi noma verità, ed è prima cagione di tutte le
cofe vere. Onde chi ſponta neamente mentiſce è empio in quanto con l'inganno fa
in. giuſtizia, come ancora chi in uolontariamente mentiſce, in quanto difcorda
dalla natura dell'vniuerfo, e in quanto ca gion deformità, ripugnando alla
natura del Monda. Im; perocchè ripugna quegli, che per ſe ſteſſo è portato alla
contrarietà delle coſe vere: giacchè haueua innanzirice uuto dalla natura
alcuni in ſtinti, i quali poi eſſo traſcu rando, non può ora diſcerne re le
coſe falſe dalle vore. E pure chi ſegue i piaceri, come coſa buona, e fugge il
traua glio, comemale, commette empietà. Perchè è neceſſario, che coftui fi
quereli ſpeſſe vol te della comune natura, qua fi ch'ella faccia diſtribuzioni
di beni a traſcurati, ed a fol leciti contra il lor merito; effendo che fouente
i traſcu rati fieno di piaceri abbon danti, e di quelle coſe ond'ef fi deriuano;
ed i ſolleciti al l'incontro fieno da dolori op preſli, e cadano in quelle co
fe, che dolore cagionano • In oltre chi teme i dolori, ha urà ancora in orrore
qualchu na di quelle coſe, che hanno da ſucceder nel Mondo; e ciò fimilmente ha
dell'empietà. chi va dietro a’piaceri, non s'afterrà dal far'ingiuſtizia, e
qucſto Lira Ck Ho che all te: Ice FCH E re queſto è chiaramente empie tà.
Biſogna, che a quelle co ſe, alle quali la natura comu ne egualmente ſi porta (per
chènon haurebbefatta l'vna, e l'altra, fe all'vna, e all'altra di queſte coſe
indifferenti non foffe ftata vgualmente pro penfa ) quelli, che vogliono eſſere
ſeguaci della natura, hauendo i medeſimi ſenti menti, con eſſa ſiano vgual
mente affetti. Dunquc chi a' dolori, ed a'piaceri, o alla morte, e alla vita, o
alla glo ria, e al diſonore, delle quali egualmente fi vale la natura
dell'vniuerſo, non è per fe ſteſſo parimente affetto, chia ra cofa è, che fia
empio. Io però dico valerſi di queſti v gualmente la natura comune, in luogo di
dire, che auuengono vgualmente per certa conſeguenza alle coſe, che ſi fanno, o
che vanno ſucceden do conforme allancico im pulſo della prouidenza, col quale
ſi moſſe ſin dal princi pio ad ordinare queſta bella macchina mondiale, hauendo
concepute alcune ragioni del. le coſe future, e determinate le facultà feconde
dell'eſi ſtenze, delle traſmutazioni, e di fimili fuccedimenti. 2 Migliore, e
più deſidera bil coſa certamenteper l'huo mo ſarebbe ch'egli da quefta vita
partiſſe digiuno affatto; così dire,del mentire, del ſimulare, del luſſo, e
della fu perbia: defiderabile dopo ciò (quaſi come vna ſeconda men profpera
nauigazione) ſareb be, che almeno vno già fazio 1:22 il alla to ali UTA per f j
10 j” 19 21 di queſte coſe,voleſſe più to fto morendo fpirare, che nel la
prauità continuare viuen do". E non t'inſegna ancora l'eſperienza a
fuggire dalla peſte? e la corruttela dell'a niina è aſſai peggior peſte a
riſpetto di quella, che dall intemperie, e mutazione del l'aria, che d'intorno
fi fpande, e fpira: poichè queſta peſte è degli animali in quanto fo no animati:
e quella è degli huomini in quanto fono huo mini. 3 Non diſprezzar la morte, ma
fija quella ben affctto, ef ſendo ancor eſſa yria delle co ſe; che la natura
richiede; poichè quale è la giouentù; la vecchiaia, il creſcere, l'in uigorire,
il naſcere de’denti, la barba, i canuti, il genera re100 nel ICP 1000 dali ell
Mei de ant re figliuoli, portargli nel ven tre, e partorirgli, e altre ope re
naturali., le quali prodịco, no le ſtagioni della tuavita, tale è ancora il
diffoluerfi. Dunque queſto è da huomo, che ben ſi ſerue della ragione ne
ſuperficialmente, ne impet tuoſamente, ne ſuperbamente fiporta verſo la morte;,
ina l'attende come yn'opera del la natura. Nel inodo che tu ora, aſpetti o
cheſca il fe to del ventre ditua moglic,.com hai da caſpetar l'ora, nella quale
la tua animuccia diqueſto ricettacolo eſca ca dendo. E fe vuoi ancora vn
conforto cordiale, benchè volgareztirenderàſoprammo do prontoalla morte l'appli
cazione alle coſe preſenta nec, dalle quali douraieſſere ſe A oto des Tak ler
jed Simi Jä Teni Nem If feparato, e a'coſtumi di colo ro, con i quali non
t'haurai più da meſcolare: tuttavia con quelli non s'ha da rompe re, ma
ſtudiare di curarli, e placidamente ſoffrirli. Onde hai da rammentarti, che que
ſta ſegregazione s'ha da fare da huomini, i quali non han no teco glifteſli
ſentimeriti: mentre queſto folo potrebbe ſeruirci di contrappeſo,e rite nerci
in vita, ſe ne foſſe con ceduto il conuiuere con quel li; che haueſſero
gl'iſteſifen timenti. Ma tu- ora vedi quanto malageuole ſia il con uiuere in
tanta diffonanza de' conuiuenti. Sicché ſi può di re: Sollecita o morte a veni
re, accioché io non arriui a fcordarmi vna volta di me ſteffo. 4 Chi rola aurai mpe afait har caini ebbe 4 Chi
péccas contro le ſtefi ſo pecca • Chi opera ingiu ftamentega ſe medeſimo nuô ce,
rendendo maluagio ſe ſteſſo; è ingiuſto ſpeſſe volte, non ſolo chi opera alcuna
co fa, ma ancora quegli, che nonfa qualche cosa. Basta la presente opinione
apprensiua e la preſente operazione comunicativa e la presence disposizione,
che fi compiace d'ogni cosa, che da principiocauſante prouen. ga; per
iſcancellar l'immagi nazione arreſtar l'impeto de gli affetti, temprare gli
appe titieper mantenere nella ſua facultà la parte principale. 6 Fra i bruti
viuenti è diui:. ſå vnà fòl'anima: c tra i viuen. ti ragioneuoli è compartita
vn’animà intellettuale: fico. M me COlle auch Tere vad COll ade bel oni qili?
mi me a tutte le coſe terreftri è vna ſola terra, e tutti quanti habbiamo
facultà di vedere e facultà diviuere, con vna lu cc vediamo, c d'un aria respiriamo.
Tutti quelli, che partecipano d' vna coſa co mune a quella, che è del me deſimo
genere, anſiofaniente fi portano. Ogni coſa terrc ſtre inchina alla terra.
Tutto l'ymido va inſieme ſcorren do,ogniaereo ſimilmente: ſic chè biſogna
diuidergli a for za. Il fuoco s'erge a cagione del fuoco elementare. Tutto il
fuoco, ch'è quà giù, è così pronto ad ardere con l'elc mentare, come ogni
materia le alquanto più ſecco è facile ad accenderſi pereſſere meno abbondante
di quello, che impediſce l'accenderſi. Dun que letes re CO me In 170 za que tutto quello che
è parte cipe della comune natura in tellettuale, corre ſimilmente verſo il ſuo
connaturale, anzi più;: perchè quanto è meglio degli altri, tanto è più diſpo
fto à miſchiarſi inſieme col ſuo famigliare - Anticameji te dunque furono tra i
bruti inuentati gli fciami, le greg ge > i pollai, e quaſi ynioni d'affetti;
imperciocchè ancor? efli hanno animais ecosi la virtù congregatiua tra i min
gliori ſpicca maggiormente, il che non è nell'erbe, non è ne faffi, non è
ne’tegni. Ma tra gli animali ragioneuoli fi truouano leRepubbliche;lean micizie,
le famiglie leraunan ze, e in tempo di guerra le paci, e le tregue. Anzi nelle
coſe piùveccellenti, benchè M 2 ell fit 01 DINE TTO OSİ [ 7110 Fle 70 7e tra ſe
lontane, in qualchemo do vi è vnione, come a dire, tra le ſtelle, così il
deſiderio d'auanzarſi al meglio ha po tuto operare la ſimpatia ezian. dio tra
le coſe diſtanti. Vedi dunque quello che ora ſi fa. Perchè foli
gl'intellettuali ſi ſono ſcordati del conſenti mento, e dell'affetto tra loro;
e queſto concorrimento in effi ſolamente non ſi vede; e nien tedimeno, ancorchè
fuggano, reſtano accerchiati, e preſi, poichè la natura in ciò pre uale. E
vedrai queſto, che di co, offeruando, che più preſto trouerai qualche coſa
terre ftre non congiunta ad altra terreſtre, che vn'huomo dall' altr'huomo
totalmente diſ giunto. 7 Producon fruttto e l'huomo dire deria apo 2126 Vedi
fifa. alii enti. oro; mo, e Dio e il Mondo; e ſi pro duce ciaſcun frutto nelle
ſue proprie ſtagioni; e ſe la con ſuetudine principalmente ſi ferue di queſto
modo di dire nelle vitije altre ſimili piante, cið poco importa: però la ra
gione produce il frutto si proprio, come il comune; e da quella fi propagano
altre tali cofe, della condizione delle quali è ancora l'iſteffa ragione. 8 Se
tu puoi, inſegna ſem pre il meglio a quelli, che er rano; e ſe non puoi,
ricordati che per ciò fare t'è ſtata data l'amoreuolezza, e che gl'Id dij ſon
amoreuoli verſo que? tali, e tanto ſon benigni in alcune coſe,ch'e'dan loro aiu
to per la ſanità,per le ricchez ze, e per la gloria. E queſto a neft viera 2110
vrela pre edi ceſto erre Ultra dall ' dile 10 M 3 te lice, o ſeno, dichiara,
chi te lo vieta? 9 Trauaglia, non come vn tapino, ne meno a fine di pro
cacciarti compaſſione, o mara. uiglia: ma vn folo fia il tuo fine di muouerti,
e di fermar ti, fecondo che la ragione ci uile richiede. 10 Oggi vſcij d'ogni
mole ftia, anzi ſcacciai fuori tutte le moleſtie; poichè quelle non erano
eſterne, ma couauano dentro nelle opinioni. 11 Tutte queſte coſe fami gliari
per l'yſo di vn fol dì quanto al tempo, fordide per la materia, ſono ora tutte
le medeſime, quali furono a tem po diquelli, che habbiamo ſepolti. 12 Le coſe
ſtanno in ſe ſteſ ſe fuori, per così dire, delle por ch meni dipro mara il 2016
Amal onec 1270 tutte porte, е da per ſe medeſime, niente fanno del ſuo eſſere,
e niente a noi fanno apparire. Che dunque è quello, che le diſcuopre? la
ragione. Non nella perſuaſione, ma nella operazione conſiſte il bene,e'l male
dell'animal ragionclio le ciuile: ſicome ancora la vir tù, e’lvizio di queſto
non è nella perſuafione, ma nell'o perazione.Alla pietra fcaglia ta non ſuccede
male ſe caſca, ne bene, tirandoſi in alto. 13 Entra più addentro nelle menti
degli huamini, cſcor gerai quali giudici tu tcma, e quali ſieno elli giudici
intorno a fe ſtelli. 14 Tutte le coſe ſtanno in continua mutazione, e tu ſtef
fo in vna continua alterazio nc, c in vn certo modo cor jenon Lidlo fami Cold
de pe urtel atem bilam ' efter dell corruzione, e così ancora tut to il Mondo.
15 L'errore d’yn altro biſo gna laſciarlo doue è. 16 Il finire della operazio
ne, il ceffare dell'appetito, e dell'apprenſione, e quaſi la loro inorte, e
nulla nuoce: Fa ora paſſaggio all'età,qual'è la pucrile, alladolcfcenza,al la
giouentù, alla vecchiaia. Ogni ſcambiamento di cia ſcuna di queſte è morte. E
per ciò ne auuiene danno? Paſ. fa adeſſo ricercando il tempo, che ſe’viuuto
fotto l'auolo; appreſſo, quello, cheſotto la madre, dopo ſotto il padre, e
trouando altre molte diuerſi tà, mutazioni, e termini, di manda a te medefimo,
ſe ve alcun' nocumento. Dunque fimilmente pe manco nel finire, nel ceſſare, e
nel mutarfi del total tuo viuere. 17 Rifletti alla propria tua mente, e a
quella dellyniuer fo, e a quella d'altri; alla tua per farla giuſta, a quella
del I'vniuerſo per rainmentarti di chi ſei parte, a quella d'altri per
conoſcere, le viene da ignoranza, o da animo deli berato; e nell'iſteſſo tempo
fa tua ragione, che colui e a te congiunto.Sicome tu ſe'ſtato fatto per dar
compimento al la conſtituzione d’yn corpo ciuile, così ogni tua azione compia
la vita ciuile, Dun que qualſiuoglia tua amone, che non iſtà in tal modo che o
proſſimamente, o remo tamente non ſi riferiſca a quc. ſto comun fine, quella
fcon certa la vita, ne le permette, che continui l'iſteſſa; ed è di M 5 più
fedizioſa, quale è colui nel popolo, il quale diſtrae il fuo partito da fimile
concor dia. 18 Riffc, e giuochi di figlio letti, e ſpiritelli foftenenti
cadaueri; acciocchè con più efficacia fi rapprefenti il Dra ma del martorio. Applica
alla qualità del la cagione; c conſiderala aftratta dalla matcria, dopo
preferiui il tempo, in cuitale, è tal coſa in particolare ſia per più
lungamente durare.: 20 Haiſofferto mille coſe per eſſerti nö ſoddisfatto del la
tua mente operante quello, in ordine a cui ella fu fatta: ma queſto baſti. 21
Quando alcuno ti biafi ma, o t'odia, o con ſomiglian ticoncctri di te ſparla,
rifletti all'animucce di cotoro pene tra 1 nione? 3 tra dentro, e ſcorgi quali
quel. le filiano. Vedrai, che non bi ſogna trauagliarti per l'opi ch'elli hanno
dite, ma è neceffario voler loro be ne, ftante che, ſecondo la na tura, foto
amici, e gl’ladij in ogni manicra li foccorrono con fogni, e vaticinij, ancora
in quelle coſe, nelle qualief fi difſentono. 22 Queſti fono i rivolgi menti
fotto e fopra del Mon do, da vn ſecolo all'altro.. E la mente dell' vniuerſo oli
applica alli particolari, e fe ciò è, riceir volentieri ciò che quella ti porta:
ouero, ſe vna volta dette la molla, e l'al tre coſe camminano per con ſeguenza,
e come vna è nell' altra; perchè queſti in qual che maniera o ſono atomi, a M 6
corpi 276 LIBRO NONO corpi indiuiſibili: e in fom ma, ſe ci è alcun Dio, ogni
coſa ſta bene: ſe il tutto è a caſo, e tu non le'a caſo? Fra poco la terra
naſcon derà tutti noi; appreſſo anco ra eſſa fi muterà, e quelle co fc, in cui
eſſa s'è mutata, in in finito fi muteranno, e quelle di bel nuouo fi
cambieranno in infinito. Perciò chi conſi dera queſti maroſi delle mu tazioni,
e alterazioni, e la ve locità di quelle, diſprezzerà ogni coſa caduca. La caufa
vniuerfale è vn torrente, che rapiſce il tut to. Quanto vilc e ancora queſta
politicheria, e queſte faccende humane, ſe filoſo ficamente vno le conſidera,
quanto ſono piene di mocci? O huomo fa yna volta quello che ora la natura
richie de. Se ti da facultà accorriui, e non riguardare fe alcuno ſe n'accorge:
ne hauere fperan-. za di vedere la Repubblica di Platone: ma contentati ſe la
cofa, ancorchè mcnomiffima, ti rieſce profitteuole, e l'eſito di quella
conſidera non come coſa piccola. Imperocchè chì mutcrà i loro deliberamenti? e
ſenza la mutazione delli de. liberamenti, che altro farà che yna feruitù di
lamentoſi, e di fimulanti di obbedire in Ora paffa auanti. Raccontami
d'Aleſſandro, di Filippo, e di Demetrio il Falereo:vedran no eſſi ſe conobbero
quel lo, che voleua la natura vni uerfale, e ſe inſtruirono bene ſe ſteſſi, o
fe pure fecero da recitanti di Tragedia, Niu j -1 no m'ha condannato ad imi
tarli: l'opere da Filoſofo fona fincerità, e modeftia; non mi traſportare alla
faftoſa graui tà. 25 Conſidera per lo paſſato gregge d'Armenti fenza nu mero,
innumerabili ſacrificij e nauigazioni d'ogni forte, e nelle procelle, e nelle
bonac ce; e diuerſità di coſe, che fi fanno, che inſiemefi fanno, e che ſi
disfanno. Conſidera ancora la vita già viuuta ſot to d'altri, e quella, che
dopo te s'haurà da viuere, e quella, che oggidi fra barbare genti ſi viue. E
quanti vifono, che non ſanno ne manco il tuo nome? Quanti pure prefto fe lo
ſcorderanno? E quanti, che ora ti lodano, di qui a po. co t’incolperanno. E
coine non è da fare ftima, ne della gloria, nc d'altro tal, qual a fia. Sij tu
imperturbabile in torno a quello, che da cagio ne eſtrinfeca ti auuiene, ela
giuſtizia fia nelle operazioni, delle quali tu ſela cagione, cioè a dire, che
habbiano i moti dell'animo, ele aziciri da terminare nell'operare conforme al
ben comune, co me quello, che a te appartie ne, fecondo la natura.1 526 Molte
coſe fuperflue, che ti trauagliano, puoirife gare, le quali ſono ripoſte to
talmente nella tua opinione: e così yn molto ampio cam po a te ftcffo
dilaterai. 27 Concepifci nella tua mē te l ' vniuerfo Mondo, e va conſiderando
il ſecolo, nel quale ſci; e medita la preſta mutazione di ciaſcuna cofa; e
particolarmente come è bre. ue il tempo dalla naſcita al diſcioglimento; quanto
è im menſo quello, che è ſtato a uanti al naſcere; e come pa rimente infinito è
quello, che ha da ſeguire dopo il diſcio glimento. Tutte le coſe, che tu vedi
periranno preſtiſſima mente, e quelli, che al pre fente le rimirano perire, pre
ftiffimamente anch'eglino pe. riranno. E quegli, che nella decrepità fi muore,
paſſerà a Atato pari con quegli, che muore immaturamente. 28 Quali ſono le
menti di coloro, e a quali coſe atteſe rose per quali cagioni le ama no, ele
onorano? Reputa 11!. de l'animucce di queſti tali; perchè hanno apparenza di C
nuocere, mentre biaſimano, e di giouare,mentre lodano. O quanto è vana queſta
im maginazione ! 29 Il perire non è altro che mutazione: e di queſta gode la
natura vniuerfale, in con formità della quale tutte le coſe bene ſi fanno. Ab
eter no tutte le coſe ſono ſtate dell'iſtetfa forma, e così in in finito altre
coſe ſaranno. Per chè dunque tu dì, che tutte le coſc fatte, e tutte quelle,
che ſi faranno ſempre faranno mali? E tra tanti Iddij non mai s'è trouato niuno
di tanto va lore, che poteſſe vna volta correggere queſte coſe? ma è ſtato
condennato il Mondo ad eſſere coſtretto da mali che mai non ceffano? 30 La
putredine della materia, che è ſoggetta a ciaſcu na coſa, è acqua, poluere, of
ficelli,immondezza, o pur cal li della terra, come i marmi; o feccia,comeè
l'oro, e l'ar gento; o peli, come la veſte; o ſangue, come la porpora, e tutte
le altre cofe fimili. Elo fpiritello,benchè altro, è tale, e di queſto in altre
cofe ſi tra finuta. 31 Sc'viuato affai in queſta vita trauaglioſa, di mormora
rione, e alla ſciiniatica. A che ti perturbiè che ci è di nuouoa che ti fa
attonito. Lacaufiri, guardala. O forſe la nateriale riguarda quella, fuori di
que fte non è cofa veruna: mna vna volta inuerfo gPIddij diuieni e migliore, e
più piaceuole. 32 Il medefimo è, che tu habbi conoſciutoqueſte coſe per CH sof cz. mi te; o 2,6 Elo tra per cent'anni,
o per tre. 33 Se quegli peccò, egli ha ilmale, ma forſe non peccò. Certamente,
come in yn corpo, da vna fonte intellet tuale tutte le coſe deriuanose non
biſogna, che la parte fi quereli delle coſe fatte a pro del tutto; ouero
fonoatomi, e nient'altro: ouero yn me ſcuglio, e diſſipazione, che ti conturbi
dunque? Alla men. te tu dì ſe'morta, fe’perdutå, ſe'rigettata, ti congreghi, e
a modo di armenti ti pafci? O gl’Iddij non poſſono far niente, o lo poſſono. Se
non poſſono a che li preghi? ma ſe poſſono, perchè più preſto loro non dimandi,
che ti concedino di non temere coſa alcuna, che ſi ſia di queſte, ne di bramare
quella, ne di do clie 012 che 2012 VII CITI leer le dolerti di qualſiuoglia di
effe più toſto, perchè eſſe non ſi habbiano, che acciò fi hab
biano.Imperocchè,ſe nel tut to poſſono foccorrere agli huomini, poſſono ancora
in torno a queſte coſe giouare. Ma forſe dirai. Poſero gl'Id dij queſte coſe in
mio potere. Non è dunque meglio valerſi con libertà di quello, che de pende da
te, che laſciarti di ſtrarre con feruitù, e baſſezza intorno a quello, che da
te non depende? Machi ti diſſe, che gli Iddij non aiutano in quelle coſe, che
ſono in no ſtro potere? Comincia dun que a pregargli intorno di effe e vedrai.
Prega il tale diccn. do: come potrò io godere co. lei? tu anzi dì; come potrò
io non deſiderar di goderla? vn altre dichi 11001 Thebe elcut e agli Ora in
Quare 8 !!!! Orere valení hede altro: come mi libererò io da colui? tu dì: come
non haurò biſogno di priuarmene? vn al. tro: come non perderò il fi gliolino?
tu dì: come non temerò di perderlo? In ſom ma in queſta maniera indirizza le
tue preghiere, c conſidera che ne ſuccede. 36 Dice Epicuro: Nella malattia i
ſuoi diſcorſi non ef ſere ſtati intorno alli pati menti del corpicciuolo i ne
meno con quelli, chelo viſi tauano hauer di coſe ſimili fa. uellato: ma hauer
ragionato filoſofando ſopra la naturą delle coſe premeditate; tutto intento a
queſto, cioè, come. partecipando la mente di co tali mozioni, ch'erano nella
carnuccia, ſteſſe imperturbabi. le conſeruando il proprio be ortida lezza dar
idilli 110 i in no dur dielli dicas reca troi tre ne. Ne hauer dato occa
fiorea' medici, che ſi vantaſſero d'ha uer operato qualche coſa, ma che
contuttociò ſe n'andaua tirando'auanti la vita tran quillamente,e bene.Il
medeſi. mosch'egli fece in quella ma lattia, tu hai da fare, ſe ti ſen. tiffi
male, o ſe ti trouaſſi in al. tro trauaglio. Poichè il non partirſi
dallaFiloſofia in qual fiuoglia cofa, che vada acca dendo; e il non applicare
alle bagattelle degl'idioti', e fofi fti è comune diqualſiuoglia fetta, è di
ſtar fiffo ſolo nella coſa, che al preſente l'huomo fase nello ſtrumento permez
zo del quale ſi opera:" ) 37 Se vienioffeſo dalla sfac. tiạtezza di
alcuno, ſubito in: terroga te fteſfo: Può forſe il Mondo essere senza sfacciati
non 0 ca fara ' cobs vanda ta tra ētiles trinal non può. Non ricercare dunque
l'impoſſibile: poſcia chè queſti è yno di quelli sfacciati, i quali è
neceſſario, che ſieno nel Mondo. L'ifter ſo ſia del macchinante, e del
l'infedele, e di qualſiuoglia vizioſo. Habbi qucſto ſempre in pronto; Quando
ancora ti ricorderai eſſere impollibile, che tal forte di gente non ſia, tu
ſarai più placido iuuerfo ciaſcuno di eſſi. Sarà pari mente gioueuole il
conſidera. re ſubito qual virtù habbia dato la natura all ' huomo contra di
queſto vizio: men tre ha dato, come antidoto contra l'ingratitudine, lc mã,
ſuetudine, come contra d'vn altro qualche altra virtù. E ſopra tutto t'è lecito
di diſin gannare chi errò. Ora ogni aqual 1107 ve all chat uoghi JOMO m.cz sfac
it feil nii 10,no,che erra, Si deuia da quel, che gli fu propoſto, e va va
gando. E poi in che ſe'ſtato danneggiato? poſčiachè tro uerai,, che niuno di
coloro, contro de'quali tu ſei eſacer bato, habbia operató tal fat to,dal quale
la tua inenté po teiſe cffere peggiorata; men tre in queſto è ogni ſuſſiſten
zadel tuo dannose malé.Che đi male, o di ſtrano è ſtato fatto, ſe vn'ignorante
opera da ignorantc?Guarda,che tu non habbi più toſto a ripren dere te ſteſſo
del non hauer hauuto riguardo, ch'egli for: fe per commettere tal man camento;
done tu haueui i motiui della ragione à conſi derare, ch'era veriſimile; che
quegli in tal modopeccaſſe: E nientedimeno ſcordato ti maAtato 170 1001 opo per
ter marauigli, ch'egli fia caduto? quel principalmente quãdo tu l'ac. the cuſi,
come d'infedele, o d'in. grato, rifetti in te ſteſſo:con cioſliecoſache più che
manis oros feſtamente l'errore é tuo, ſe credeſti, che yno sin tal mort fue do
diſpoſto, e haueſſe ad of feruare, la fede; e ſe facen dogli delle grazie, non
le haidate coinpitamente, ne in che modo da riceuere dall'iſteſſa tua azione
tutto il frutto ſu bito. Perchè qual coſa più deſideri, che di hauerbenefi cato
vn'huomo? e ciò non ti baſta, che tu hai operato coſa conforme alla tua natura?
e di quefto ricerchi lamercede? come ſe l'occhio domandafle la ricompenfa,
perchè vede, ei piedi perchè camminano. E fi come queſti membri ſo N no 7210
Toy tell for 2014 alf che Te ! 2 ho farti a queſto effetto, e ſe condo la loro
conſtituzione operando si ne ritraggono quello che è loro proprio: così l'huomo
dalla natura pro dotto benefico, quando be nefica, o nelle coſe mezzane
coopera, ha operato, ſecondo la fua condizione, e ottiene quello, che a lui
ſpetta. Fine del Libro Nono. LI 10 291 180,CH tituziar TAGION propri cura on do
be 70272 cond l’Anima ſarai tu mai Ovna volta buona, e ſemplice, e vna, e quda,
più ſplendida del corpo, che ti circonda guſterai tu giammai della
diſpoſizioneamicabile e caritatiua quando farai pienamente fornita,e von
bi. fognofa, e di niente altro de fideroſa, e di niente o ani mato, o inanimato
anida, per N 2 prender piaceri? ne di temo Po, nel quale più lungamen te habbi
da fruire: ne di luo go, o paeſe, o buona tempe. rie d'aria: ne d'huomini au
uenenti; ma ti compiacerai del preſente ſtato, e goderai di tutte le coſe a te
preſenti, e inſieme perſuaderai a te Itefla, che tutto ciò, che ti fia dauanti,
tutto bene ti ſtia, e che dagl'Iddij a te venga, e ti parrà bene tutto quello,
che a loro piacerà', e quello, che da loro ſi concederà s'in riguardo della
ſalute, e con ſeruazione d'vn animal per ferto, buono, e giuſto, ebel los é
quello, chetutte le co fe genera; contiene, circon da, e abbraccia, le quali fi
diſſoluono, generando altre cofe fimili. Sarai dunque finalmente talc, che tu
ſij atta à viuere in cittadinanza con gl’Iddij, e con gli huoinini in modo che
tu non c'habbi da dolere di quelli in coſa alcu na, ne quelli t'habbiano a
condannare. 2 Oſſerua quello, che la na tura tua richiede in quanto dalla mera
natura vien diret to: poſcia fa quello, cab ) braccialo, fe la natura tua, 7
come diviuente, per queſto non ſia da peggiorare • Ha urai daoferitare appreffo,che
1 coſa richieda la natura tua, come di viuénte, e tutto ciò f hai da riceuere,
ſe da queſto la natura tua come quella d'un animal ragioneuole,, nó fia
perdiucnirne peggiore, e'l ragioneuole, nell'iſteſſo tempo ancora ciuile. Ditali
01 N 3 regole ſeruendoti non andar cercando altro curioſamente. 3 Tutto ciò,
che e ' auuie ne, o in modo ti fuccede che ſij per natura abile a com portarlo,
o pure a non com portarlo. Se dunque t'accade nella maniera, che puoi fof.
ferirlo, non l'haucre a male ma ſopportalo,fecondo chefe naturalmente idoneo';
fe poi non fe'idoneo per fofferirlo, aðn ti diſguſtare: perciocchè, confumando
té, confumerà fe parimente. Niente dimet no ricordati, che tu ' se fatto per
fofferirc ognicoſa; ' eche ſia in potere della tua opinio ne di farla
tollerabile, cfof. feribile, fecondo il concerto che farai, che quello ti conferiſca,
o che ti conuenga ſofferirlo. Se qualchuna erra man fueramente s'ha da
inſtruire, e moſtrargli quello, ch'hab, bia traucduto. Però ſe ciò non ti
rieſce, la colpa è di te ſteffo, anzi ne meno di te ſteſſo. 5 Qualunque coſa
c'auuie ne, queſta ab eterno ti ſi prc. paraua, e l'intralciamento delle cauſe
fin dall'eternità fi aggomitolaua inſieme con Peffer tuo, e con quelli au
venimenti. 6 O fieno gli atomi, o ſia la natura, ftabiliſcafi primie ramente
che io ſon parte dell'yniuerfo, che la natura gouerna; appreffo, che io ho vna
famigliarità in vn certo modo con le parti della me deſima forte; pofciachè
ricor dandomi di queſte coſe, in quan 40 TO ON ng N quanto io ſon parte,non
pren derò a male coſa alcuna, che venga compartita dall'vni uerlo:
concioffiecofache ni ente, che conferiſca all'vni. uerfale può nuocere alla par
te:imperocche non vi è coſa, che all'vniucrfo non conferi ſca.E ciò hanno
comune tutte le nature; e quella del Mondo ha queſto di più, che da niu na
cagione eſtrinſeca può ef ſere forzata a produrre cofa alcuna a ſe nociua; e
ſecondo quella ricordanza, che io fon parte di talvniuerfo, mi com piacerò
ditutto ciò, che au uiene; e ſecondo che io ho fi fatta famigliarità colle
parti, della medeſima forte, non o pererò coſa, che non ſia co municatiua con
queſte, ma più toſto porrò mira alle parti della medeſima forte, e condurrò
ogni mia inclina zione all'vtile del comune, e dal contrario me ne ritrarrò
Queſte cofe così da te con dotte, ne ſegue neceffaria mente, che ci traſcorra
la vi ta felice,quale ſtimereſti quel. la d'vn citttadino, che gui daſſe il ſuo
viuere in azioni vtili a i cittadini, c.abbrac ciaſſe tutto quello, che dalla
città a lui determinato viene. 7 A tutte le parti dell'vni uerſo, quelle dico,
che il Mondo contiene, è di necel ſità il corromperſi,cioè a di re,
l'alterarſi, ma ſe aggiungo, ciò, che loro è necellario, el fere dannoſo, non
ſi gouerne rebbe bene l'yniucrfo, eſſen do le parti di lui nell'altere zione
diſpoſte a corromperſi in diuerſe maniere Diremo N dunque, o che la natura
ftef-. ſa intraprendeſſe a fabbricare il male alle ſue parti, e le fa ceffe
fuggette al male, e che di neceſſità caſcaſſero a far il male, o'che
inconſiderata mente non s'accorgeſſe, che le faceffe tali: ma ne I'vno', ne
l'altro certamente è da credere. E ſe qualcheduno laſciando da yn canto la nas
voleſſe dir, ch'effe ſom no così nate, quanto ſarebbe ridicolo nell'iſteſſo
tempo il dire, che la naſcita loro le porta, come parti dellyni uerſo,alle
mutazioni, e in ſieme marauigliarſi, e hauer ciò a male, come ſe auuenifs ſe
fuori della natura dell'yni. uerfo? Tanto più, che la dif ſoluzione vien fatta
in quel le coſe, delle quali ciaſcuna è compoſta, e conſiſte. Im perocchè, o è
diſgregazione degli elementi, dequali le coſe eran permiſchiate, o conuerſione
del folido nel terreſtre; o dello ſpirituale nell'acreo, in modo, che queſte
coſe fi ritornino nella ragione dell'vniuerfo: o è che dopo più periodi di temu
ро ſe ne vada in fuoco, o po re con perpetue viciffitudini fi rinnuoui. E
queſto folido, e queſto ſpiritale, non t'im maginar, che fia dalla prima
naſcita, perchè tutto queſto l'altro giorno, o al più tre di fa dall'alimento;
e dall'aria attratta riceuè l'accreſcimen to. Dunque queſto, che ri ceuè fi
muta, non quello che la madre partori; e,fupponi, che - quello ti riduce affai
N 6 vicino alle qualità del ſug getto particolare, che a ri ſpettodi quello,
che ora fi dice, ſecondo la mia opinio, ncé nicnte. 8 Quelli titoli, che ti se
poſto dibuono, di modeſto, di verace, d'accorto, dipru dente, di magnanimo, au
uerti che giammai non ti ſi cambino, e,ſe li perdi, ſolle citamente torna a
ripigliarli. Ricordati, che col nome d'ac corto ti ſi ſignifica l'attenzio ne,
che tu deiporre per com prendere diſtintamente ciaf cuna coſa ſenza
abbarbagliar. ti la mente: con quel di pru dente, la ſpontanea approua zione
delle coſe, che dalla natura comune vengono di Itribuite: con quel di magna.
nimo, l'alcanzamento della particella del fenno ſopra i moti della carne, ſieno
aſpri, o morbidi, intorno alla glo rietta, intorno al morire, o a coſe si farte.
Se dunque tra queſti nomiriſtrigni te ſteſſo, e di riceuer queſti titolida al
tri non ambirai, farai yn al tro, e darai principio a dif ferente vita.
Concioſliecofa che il proſeguire d'eſſer come finora ſe'ſtato, e ſtraſcinarti
in tal vita, e imbrattarti, è da troppo inſenſato, e da in namorato del viuere,
e da fi mile a quelli che, combatten do colle beſtie, reſtano ſmoz zicati, i
quali,pieni di ferite, e di marciumi, ſi raccoman dano ad eſſere riſerbati fin
ål giorno ſeguente,per rigettar fi di nuouo, così come ſono alle
medefime'vnghie, e zan ne. Interna dunque te fteffo nella confiderazione di
queſti pochinomi, e ſe puoi man tenerti in quelli,fermati, qua fi traſportato a
ſtanziar' inal cuna dell'Iſole Fortunate.Ma fe t'accorgi chetu ſcappi fuo. ra,
e non reſti ſuperiorez riti. rati con ardimento in qual che cantone, doue
fignoreg gerai, quero in tutto eper tut to eſci di vita, non iſdegnan doti, ma
con ſemplicità, li bertà, e modeftia; mentre non hai pretefo altro in queſta
vita che di cosi vſcirne. A conſeruarti peròla memo ria di queſti titoli grande
mente t'aiuterà il rammentar. ti degl'Iddij; e come quelli non vogliono eſſere
adulati, ma chei ragioneuoli tutti so afſomiglino a loro. E come ! 1 il fico fa
quello, che appar tiene al fico, e'l cane opera da cane, e l'ape da ape, così
Phuomo da huomo. 9 Il giullare, la guerra, lo, sbigottimento, il terrore, la
feruicù ſcancelleranno coti dianamente da te que' ſacri decreti,che tu
eſaminator del la natura ti fe'nella mente tra ſmeffo coll'immaginazione. Però
abbiſogna conſiderare il tutto, e operare in modo che inſieme s'habbia da
adempie re quello, che la congiuntura porta, e che nell'iſteſſo tempo ciò che
s'è fpeculato ſi metta in opera; e la franchezza, che s'acquiſta dalla ſcienza
in torno a ciaſcuna coſa, fi con ferui occulta sì, ma non - for terrata. Dunque
quando go derai della ſemplicità? quai do della grauità d e quando della
notizia di ciaſcuna coſa in particolare, quale ſecondo la ſua ſoſtanzia ella fi
fia, e qual luogo habbia nel Mon do, e per quanto debba du rare, e di quali
coſe ſia com poſta, e chifia' per hauerla, e chi fienoquelli che poſſono darla,
e ritoglierla a · 10 Il ragnetto grandemen te s'infuperbiſce per hauer predato
vna moſca: ma vna perſona pervn leprotto, altri per vn'alice prefa nella rete,
e altri per i porcaftri,. vn'al tro per g’orſie altri per i Sar. mati. Non
faranno queſti la droni fe eſaminerai i conce pimenti della mente loro? 11
Seruiti del metodo fpe culatiuo, oſſeruando, come tutte le coſe in fe
RECIPROCAMENTE fi trafinutano, e di con. tinuo ſta applicato,e intorno a queſta
parte eſercitati; im perocchè niuna coſa ti cagio nerà altrettanto la magnani
mità. Del corpo ſi Spogliò. E conſiderando, come ben pre ſto partendo dagli
huomini, gli biſognerà laſciar'il tutto, ſottopoſe intieramente ſe ſteſ ſo alla
rettitudine ', nell'ope rar quello, che da luidepen de, e alla natura
dell'vniuer ſo negli altri accidenti. Ma che dica alcun di lui, ouero creda, o
faccia contro di lui, ne pur colla mente vi bada: contento di queſte due coſe,
dell'operare giuſtamente ciò che al preſente opera; e di compiacerſi di quello,
che a lui preſentemente vien diſtri buito, e libero da ogn'altra occupazione, e
ſtudio, non altro vuole che paſſarſela dirittamente in vigor della legge e
ſeguir Dio,che a dia rittura cammina. Perchè hai da vſare il ſoſpetto, quando
ti è lecito di conſiderare quel che ſi dee operare e fe lo conoſci, proſeguirai
in quel lo dibonariamente, e fenza mai voltarti indietro: ma fe tu non lo
conoſci, trattieni il giudicio, e feraiti di confi glieri ottimi. Se poi ii
ſucce dono in contrario di queſto altre coſe, cammina pruden temente fecondo
l'occaſioni, che ti s'offerifcono,adcrendo al giuſto, che fecondo l'appa renza
ti fi porge innanzi: per chè è boniffima coſa arriuare a quello, nel quale il
non ac certare ſia caduta. Quegli, che in tutto ſegue la ragione è inſiememente
agile, e poſa to, e vnitamente viuace, e co Itante. 12 Subito che dal forno ſe
fuegliato interroga te fteffo, ſe hauratti a importare, che quello che è giuſto
é, retto, da qualch'altro fi efeguiſca? Non t'haurà a importäre. Ti fe'forſe
ſcordato, che queſti, i quali ſi vanagloriano nelle lodi, e ne biafimialtrui,
tali ſono nel letto, e tali nella menfa: e quali coſc fanno, quali fuggono,
quali ambi fcono, quali naſcondono quali rapiſcono', non con le mani, o'con i
piedi, ma con la digniffima parte di loro, colla quale,volendo jacqui ftar
potevano la fede, la mo deſtia, la verità, la legge, e'l buon genio. 13 Il ben
diſciplinato, e modefto,dice alla natura,che da il tutto, e riceue: Da ciò che
vroi,ritogli ciò chevuoi:ne queſto dirà con tracotanza, ma con pura obbedienza
pienezza di gratitudine verſo quella. 14 Poco è quello che ti re ſta;paſſalo
come tu ſteſſi in vn monte: imperocchè niente importa che qui, o lì fi ftia,
quando doinunque fi fia, s'ha da viuere nel Mondo, come in vna Città. Veggano,
eri conoſcano gli huomini yn huomo vero, che viua con forme alla natura. Se non
lo ſopportano, l’ýccidino: per chèqueſto èmeglio che viuer nella maniera di
quelli. !! 15 Tu non timpiegherai più tutto in difcorrere qual fia, l'huomo
dabbene, ma proccurerai d'eſſer tale. 16 Conſidera del continuo tutto l'euo e
la ſoſtanzia vni uerſa; e comeognicoſa par ticolare riſpetto alla ſuſtan zia è
come vn granello di mi glio; e riſpettoal tempo vn roteare di trapano: e appli.
candoti a ciaſcuna delle coſe prelenti, conſiderala già nel disfacimento, e
nellamuta zione, e comenella putrefa zione,o diſlipazioncs o ſecon do che
ciaſcuna coſa è ſtata fatta in ordine al finire. Con. ſidera quali fono quelli,
che, mangiano,che dormono, che attendono alla generazione, che mandano fuori
gli cſere menti, t. altre coſe fimili: appreſſo quelli cheſignoreg: giano gli
huomini, e s'inſu perbiſcono, o li ſdegnano, e come fuperiori inſultano, e pure
poco innanzi a quanti feruiuano, e per quali occa fioni, e di quì a poco in che
fi ridurranno 17 Ad ognuno conferiſce quello, che apporta a ciaſcu no la natura
dell'vniuerfos, e allora conferiſce quando ella l'apporta. La terra ama-cer.
tamente la pioggia, amaque ftaianco l'almo etera, amai Mondod’eſeguire
quelloche ha da effere lo dico dun que al Mondo: '10 ti Tono compagno nell'
amore. Non fi fa ancora queſto se fi dice; che s'ama di far quefto; 0 quello 18
O quà tu viui, e a queſta vita fei di già accoftumato, o elci di effa, e ciò
era quello, che tu voleui, e hai finito l'officio tuo; fuori di queſto non c'è
altro. Dunque ita di buon animo. 19 Habbi ſempre per cui dente, che ogni luogo
è fi mile ad vna campagna, e che tutte le coſe rieſcono le me. deſime a chi
ſtia fopra ad vn alto monte, o sul lido del mare, o douunque ti piaccia. Perchè
chiaramente incon trerai da pertutto quello che diſie Platone: la greggia Ata
torniata di fiepi? ful monte 501 Che coſa è in me la mérite mia 2 e quale ora
io la fac cio? Ache di quella di pré fente mi ſerito a forfe, che è qualche
coſa vacua d'ogni in telligenza? forſe è qualche cofa diſciolta, e diſtratta
dalp accomunamento di forfu qualche coſa liquefatta,e me ſchiata nella
carnuccia,ſicchè habbia da commutarſi con quella? 20 Chi fugge dal padrone
chiamafi feruo fuggitiuo: la legge è la padrona, echi ope ra contro la legge, é
fuggiti. uo. E inſieme, chi ſi da alla malinconia, o alla collera, o al timore,
per qualche coſa delle ordinate, che già ſon fatte, o fi fanno, o ſono per
farſi da quello, che governa il tutto, che è legge, così det ta dal diſtribuire
a ciaſchedu no quello, che gli vienę. Chi dunque fi daal timore; o alla
malinconia, oall'ira è feruo fuggitiuo 21 Depofto che alcuno ha lo ſperma nell'utero,
fi dipar tegte appreſſo, qualch'altra cagione raccogliendolo, lo perfeziona, e
compie il feto: di qual materia? è quale è? ſimilmente tramiſe l'alimento per
la gola, e poi qualche altra cagione raccogliendolo, produce il ſentimento,
l'ap petito, la vita, e la robuſtez za, e altre coſe (c quante, c quali? )
Biſogna dunque, che tu contempli quelle co fe, che ſotto tal copertura ſi
fanno, e in queſta manicra ri conoſcere la facultà come noi vediamo, c quella
cheaggra ua, e quella cheſolleua, non con gli occhi, ma non meno euidentemente.
22 Del continuo conſidera, come tutte le coſe ſono tali, quali ora ſi fanno, e
già ſono ſtate; e conſidera quelle, che ſono per eſſere, erappreſen O tatele
auanti agli occhi come intiere fauole, e ſcene, cun forme alle coſe le quali o
per tua eſperienza, o per antichi racconti ti fono note. Verbi gratia tutta la
Corte di Adria no, tutta la Corte di Antoni no, tutta la Corte di Filippo, di
Alessandro, di Creso, poi chè tutte quelle erano l'iſteſ fe, che queſte, variando
ſolo ne'perſonaggi. Immaginati, che que gli, il quale per qualſivoglia coſa ſi
rammarica, e s'afflige, è fimile ad vn porcello, che fi macella calcitrante, e
gru gnente; ne è diuerfo chì pian. ge solo ſopra il letto con si lenzio la
noſtra dappocaggi ne; e immaginati, che al fo lo animal ragioneuole è con
ccduto d'accomodarſi volon ta hi volontariamente
agli accidenti, e l' accomodarli ſemplicemen te è a tutti neceffario. 24 In
ciaſcuna delle coſe, bi che tu operi applicando a parte a parte la mente, in
tcrroga te ſteſſo, le la morte 01 pare terribile a cagione, che habbiamo a
reſtare priui di e quella tal cofa. 25 Subito, che tu ti offendi per l'altrui
peccare,, rientran do in te ſteſo, fa tua ragione, 111 ſe in caſo fimilcru erri:
come a dire giudicando, che ſia co fa buona la moneta, il piace re, e la glorietta,
e altre co ſe sì fatte. Perciocchè con fi qneſta conſiderazione preſta mente
ſmorzerai la collera, venendoti inſieme in mente, che colui opera forzatamen te.
Che ha egli dunque da fare? ſe è in tuo potere, libe ralo dalla violenza. Vedendo
Satirione, vno de Socratici, immaginati o Eutichete, o Himene: e ve dendo
Eufrate, immaginati di vedere Eutichione, o Sil uano: e vedendo Alcifrone, di
vedere Tropeoforo; e ve dendo Senofonte, immagi nati Critone, o Seuero: e ri
mirando te ſteſſo, immagina ti qualcheduno de ' Ceſari, e in ciaſcun altro
qualche coſa {imile a proporzione. Ap preſſo ti ſouuenga, doue ſo -no dunque
quelli? o in nilt no, o in qualſiuoglia luogo. Così di continuo vedrai le coſe
humaneeffer fummo, vn nulla; maſſime fe eandrai rammentando, che il mu tato vna
volta per tutta l'infinità de'ſecoli non tornerà ad accadere. E tu quanto tem
po ſtarai a mutarti? perchè dunque queſto breue tempo non ti baſta per
degnamente paſſarlo? qual materia, e qual foggetto abborriſci? che al tro ſono
tutte queſte coſe, che eſercizij della ragione, la quale accuratamente ha con
fiderato, e diſcorſo ſopra la natura di quello, che è nella vita? Perſiſti
dunque finchè tu ti renda famigliare queſti, in guiſa d'vn gagliardo ſtoma co
che ognicofa abbraccia, e come il chiaro fuoco di qua lunque coſa, che tu gli
butti dentro ne forma fiamına, e fplendore. Non poſſa alcun veritie ro dire di
te, che tu non se {chietto, o huomo dabbene. Il Do le ai 0 3.ma mentiſca
chiunque di te ha fimile opinione. E rutto queſto è in tuo potere. Per chè chi
t'impediſce, che non fij huomo dabbene, c ſchiet to? A te folo ſta lo ftatuire
di non voler viuer più, ſe tik pon farai tale: imperocche non comporta la ragione,
che tu non ſij tale. Che coſa è, che ſi pora fa intorno a queſta materia
rettiſſimamente operare, je dire? qualunque coſa queſta fia è lecito di farla,
e dirla, e non metter préteſto d'effe re impedito. Non prima cef ſerai di
lamentárti, che tu ſij ridotto a queſto, che quale è agli huomini voluttuoſi il
luſſo, queſto è a te l'operare nella ſoggetta, e ſommini Itrata materia,
conneniente alla conſtituzione humana Imperocchè s'ha da concepi re perdelicia
tutto quello, che farà lecito d'operare con forme alla propria natura, e queſto
è lecito in ogni luogo. Perchè al cilindro non è con ceduto di portarſi per
qualſi uoglia luogo col proprio mo. to, come ne meno all'acqnas ne al fuoco, ne
ad altre coſe, le quali ſono rette dalla na tura, o dall'anima irragione uole;
eſſendo molti li rat tenimenti, e gli oſtacoli:ma la mente, e la ragione può.
penetrare pertutti gl'impedi menti, ſecondo la ſua natura, e a ſuo beneplacito.
Queſta facultà, poſta che tu te Phai innanzi gli occhi, fecondo la quale la
ragione potrà portar fi per tutto, come il fuoco in 04 alto, come la pietra al
baſſo, come il cilindro per dio, nicnt'altro ricerca. Per chè gli altri
impedimenti che. procedono o dal corpo, ch'è yn cadauero, o ſenza l'opi nione,
e inchinamento dell' iſteffa ragione, non fanno. leſione, ne apportano danno
alcuno, altrimente a yn trat toil patiente di quello diuer rebbe cattiuo:
perciocche in tutti gli altri apparatid'opera, quel danno, che ad alcuno
auuiene rende peggiore quel lo, che lo patiſce. Ma quì, le è lecito il dirlo,
ſi fa l'huo. mo migliore, e più degno di lode, ſeruendoſi rettamente di queſti
incontri. In ſomma ricordati, che a colui, il quale è per natura cittadino,
nien te nuoce, che alla Città non 1 nuoca: e a queſta non fa dan no chi alla
legge non fa dan no. E niuna di queſte, che chiamano difgrazie offende la legge.
Quello dunque che non offende la legge, non offende ne la Città, ne il
cittadino, - 29 A quello che gia è toc co da veri dogmi, è fuficien te ogni
piccoliffimo, e ordi nario incontro per ricordarli di sbandire ogni dolore, e
ti more. Quale è queſto? Delle foglie altre il vento a terra abbatte, Altre
produce il verdegiante bosco; Quando la primauera fa ritorno. Cosi ſuccede alla
natura lumana', Che mentre Spriiita l’vil, l'altro; dien em. Fogliucce fono i
tuoi figlio lini: fogliucce ancora que fti, alle acclamazioni de qua 70 ol 70.
di ite yle 00 05 322 quali ſi da tanto credito, e che parlano bene del fatto
tuo; o pure per lo contrario quelli, che maledicono, o tacitamente biafimano, o
di leggiano:fogliucce ſimilmen te ſono quelli, i quali aderi ranno alla tua
fama dopo la tua morte. Perchè tutte que fte coſe naſcono al tempo della
primavera, dopo il ven to le butta a terra, e appref fola felua in luogo loro
altre produce. La breuità del tem po'è a tutti comune. Ma tu ogni coſa fuggi, e
appetiſci tutte le cose, quafi chefoffero per eſſer perpetue. Tra poco tu
ferrerai gli occhi, e vn al tro piangerà quello, che ben preſto ti porterà alla
ſepoltu. 30 L'occhio fano è dime ra. Itie ftiere, che veda tutte le coſe
viſibili; e non dire: Amo ve dere il verde, che queſto è perchi patiſce di
viſta; e l'v dito fano, o l'odorato biſo gna, che ſieno pronti a tutte le coſe
da vdirſi, e da odorar fi; e lo ſtomaco ſano a tutte le cofe, che nudriſcono:
pa rimente, come yna macina dee eſfer ammannita per tuta te le coſe da macinare,
nell' ifteſſo modo la mente ſana dee effer difpoſta a tutti gli auuenimenti;
maquella, che dice: Sieno faluii figliolini, e tut ti lodino quello, che io
farò; fono occhio, che cerca il verde, o denti, che cercano il tenero. Niuno è
talmente feli. ce, che qualcuno di quelli, che ſi truouano alla ſua morte O 6 non
ſia per godere di qucl. cattivo accidente. Era egli di valore, era fauio? non
fa rà alla fine chi del medeſimo fra feſteffo dica? reſpireremo pur una volta
da queſto pedante, Non era faſtidioſo con alcuni di noi, ma io m'accorſi, che
tacitamente ci riprendeua. E queſto d'vn huo mo di valore;main noi quan te
altre coſe ci ſono, per le quali molti bramano liberarſi da noi? queſto dunque
confi dererai nel punto del morire; e meno trauaglioſo ti riuſcirà diſcorrendo
come ſegue. Da quella vita io parto, dalla quale quelli, che meco co municano,
e per li quali ho trauagliato intante cofe, ho pregato, m'ho preſo tanti
penſieri, quegl'iſteſſi deſide rano ich DO 100 Ilo son O le rano, che io me ne
vada, fpe randone facilmente da que ſto qualche ſollieuo. Chi dunque non
saccomoderà a non far più lunga dimora in queſte parti? Non partirai per ciò da
quelli men verſo foro benigno; majconſeruando il proprio tenore, amoreuole,
beneuolo, e propizio: e non come ſe foſli per forza ſtrap pato, ma come a
quegli, che felicemente trapaſſa, facil mente l'animuccia ſi diſtacca dalcorpo,
così biſogna, che fi faccia queſta ſeparazione. dalle coſe preſenti; giacchè la
natura con quelle ci vnì, e congiunte. Doue ora ti diſ giugne? mi diſgiungo
perciò, come da famigliari, non già con renitenza,ma fpontanea mente; poichè
queſto anco rfi [ rà 12 y 0 0 ti ra è vna delle coſe conformi alla natura. 32
In tutti gli atti, che da ciaſcuno ſi fanno, cerca d'af fuefarti, per quanto
c'è poſsi bile, di ricercar dentro di te: Il tale fa quefto, per qual ca gione?
comincia però da te medeſimo, e printieramente eſamina te fteſso. Ricordati,
che, comequelle cordicine, che tirano i bambocci, non appaiono, così quello,
che t'addolora, è dentro nafco fto. Quello è la perfuafiga, quello è la vita,
quello, ſe conuiene cosi dirlo, è l'huo mo.Non fantaſticar dunque di quello,
chea guiſa di vafo ti circonda, e di queſti inſtru mengucci, che attorno a te
fono formati; poichè queſti ſono ſimili all'aſcia, folo in 1 1 ciò diffcrenti,
che ſono con naturali. Mentre ſenza la ca gione, che gli muoue, e rat ticne,
non è maggior l'vtile, che da queſti membri s'ha, di quello, che ne ha la teſli
trice dalla fpola, gli ſcrittori dalla penna, e dalla fruſta i ! cocchicro. E
proprietà dell'anima ragioneuole ſono, il ri mirare ſe ſteſſa, ſe ſteſſa minu
tamente ricercare, fare fe fter ſa quale più a lei piace:il frut to,ch'ella
produce lo produce a ſe ſteſſa (giacchèi frutti del. le piante, e ſimilmente
quelli degli animali, altri godono ) in qualunque luogo le ſoprau uenga il
termine della vita, arriua ella al fuo proprio fine: non come ne i balli, e
nelle rappreſentazioni, e in fimili coſe, nelle quali, ſe qualche impedimento
s'intrapone,tut ta l'azione rimane imperfetta: ma ella in qualſiuoglia parte, e
douunque s'interrompa,ren de tutto quello che ſe le pro pone innanzi perfetto,
e non biſognoſo di coſa alcuna; ſic chè può dire; lo poſſiedo il mio. In oltre,
traſcorre per tutto il Mondo, e per lo va cuo, ch'è intorno ad eſſo, e al la di
lui figura: ella s'eſtende nell'infinità de'ſecoli, eleri generazioni di tutte
le coſe, che a certi giri de' tempi ſi fanno, comprende, intende, e diuiſa, che
niente più di nuouo ſono per vedere i po ſteri, e niente di più videro i.
noftri aſtepaſſati: ma in certo modo chi haurà quaranta an ni, s'ha fior
d'ingegno, haurà veduto tutte le coſe paffare, future, per la ſomiglianza tra
effe. Di più è proprio del l'anima ragionevole amare il proſſimo, effer verace,
mo deſta, e non iftimare niuna co. ſa più di ſe ſteſſa. Il che è proa prio
ancor della legge. In queſta maniera tra laretta ra giòne, e tra la ragione del
la giuſtizia non è differen za. 2 Sprezzerai il canto Infin gheuole, il faltare,
e'l pan crazio, cioè l'eſercizio degli atleri: ſe tu ſpartirai la voce
armoniofain ciaſcuno de'tuor ni, e in qualſiuoglia di quelli interroga te
fteffo: Se da quel lo tu refti vinto; perchè in ve ro te ne vergognerai. Nell' eſercizio
del ſaltare farai l'i ſteſſo a proporzione, a cia ſcun moto, egefto; il medefi
mointorno al pancrazio. In ſomma, in tutto quello, che e fuori della virtù, o
da quel la non deriua, ricordati di traſcorrerlo a parte a parte; e con la
diuiſione di quelle ver rai a vilipenderlo. E queſto l'hai da traſportare
allvſodi tutta la vita 3 Quale è l'anima, che ſta pronta, fe già bifognaffe, a
fcioglierſi dal corpo, o eſtin guerſi, o diſliparfi, o a rima nerui? pronta,
dico, ma che tal prontezza prouenga da vn particolare diſcernimento di mente,non
da vna nudacapar. bietà, comeè quella de'Chri ſtiani, mi conprudente diſ corſo,
e maturità da poter ciò perfuadere ad altri ſenza tragica impreſione, 4 Operai
qualche cofa ap partenente al comune? Dun que n'ho ritratto dell'vtile. Queſto
ſia fempre alla mano in ogni occorrenza,fenza mai traſcurarlo. Qual'è il tuome
ſtiere? l'eſſer buono; ma que fto non ſi fa bene, ſe non per mezzo delle
fpeculazioni, e maſſime, o intorno la natura. dell'vniucrfo, oltero intorno la
propria conſtituzione della huomo. 5. Al principio furono in trodotte le
Tragedie, per rammemotar agli huomini gli accidenti; e che queſti così
naturalmente, loro fogliono auuenire. E acciocchè quelle coſe, che ſu le ſcene
vi ricre aſſero l'animo, non vi contri-, ftal ila NO jai 76 il Her e ftaffero
nella ſcena maggio re, Perchè vedete eſſer così neceſſario che queſte coſe in
cotal modo ſi terminino; e così le comportano quelli, che eſclamano:Oh
CitheroneE fi dicono alcune coſe vtil mente da quelli, che com pongono ii Drami,
quale è particolarmente quella. Che di me cura, ne de’mieifigli uoli. Non ſi
prendan gl'Iddi ragion il vuole E parimente Che con le coſe diſdegnar non lice.
E Cheſi mieta la vita,come ſuole Matura spiga. 119 e altre coſe ſimili. Pure
dopo la Tragedia fu introdotta l'antica Commedia hauente vna libertà di
maeſtreuol 10 2 Blo cer li si 0 mente correggere, rammen tando non inutilmente
col fuo retto parlare la modera zione del faſto; al quale me defimo fine in
qualche modo Diogene ſe ne valeua. Dopo queſta conſidera quale è la Commcdia
mezzana; e ap preſſo la nuoua, a che fine fu poſta in vſo, o come a poco a poco
per l'arte, e applica zione dell'imitare ſubcntrò; mentre ſi ſa, che anco da
que TE fte fi dicono alcunecoſe gio fe ueuoli; ma l'vniuerſale inten to di tal
forte di poeſia, o rappreſentazione mimica a qual ſegno hebbe la mira? C 6 Come
truouafi euidente non ci eſſer altro modo di vi PE vere tanto a propoſito per
fi po loſofare di queſto, nel quale VE tu se'di preſente? to ta 7 II zenu co
TIE • H 0 - Mode 7 Il ramo non ſi può ſchian tare dal vicino ramo, ſe non fi
diſtacca inſieme da tutta la pianta; cosìyn huomo non ſi può difceuerare da vn
altro huomo, ſe non ſi ſepara dalla comunione. Il ramo dunque Jo diuide vn
altro, ma l'huo mo li ſegrega da per ſe ſteſſo dal proſſimo, con odiarlo, e
renderſigli auuerſo. Però non ſi auuede, come dalla gene rale cittadinanza ha
ſeparato ſe ſteſſo E nulladimeno quella è yn dono particolare di Gioue il quale
ha conſtitui to queſta comunicazione. Concioffiecolache è lecito di nuouo
ricongiugnerſi col proſſimo, e dinuouo incor porarſi colla perfezione dell'
vniuerſo; ma ſe ſimile ſepa razione fi fpeſſeggia, fi rende ľu più niC di le ds.81
tra tutduqunat più dificile il riunirſi, e'l tor nar a rallignarſi. In ſomma il
ramo, che da principio ger minò con l'altro, e como conſpirando conſiſte, non é
fimile a quello, che dopo il taglio vn altra volta è ſtato inneſtato. Il che
pur dicono gliagricoltori. Biſogna effe re dell'iſteſſo germoglio, ma non
dell'iſteſſa lembianza. 8 Quelli, che ad impedirti ti ſi frappongono, quando tu
cammini conformealla retta ragione, ſi come non ti po - tranno trauolgere dalla
fana operazione, così non t'han no da ritirare dalla buona vo lontà verſo di
loro: ma cuſto diſci te ſteſſo egualmentenel I'vno, e nell'altro; ne folo
colcoſtante giudicio, ecol l'azione, ma col portarti per9 all anttö ting
allaOr? allo tejla -1 man zumail coloro, che ſtudiano d'impe manſuetamente
ancora verſo 1 tor ger COM 1100 opo il Stato, ma d. dirti dirri, o in altro
modo ti mo leſtano Imperocchè così è da animo iinpotente lo sde gnarſi contro
di quelli comeil tralaſciar di operare, e abbat cono i tuto arrenderſi. Perchè
amen. effe due abbandonano il poſto, queſti intimorito, quegli alie nato dal
congiunto, camico per natura, 9 Niuna natura è inferiore retta all'arte; concio
liecofache le arti imitano le nature. Sc pe Cana rò queſto è, la natura perfet
tiffima tra tutte l'altre, e che il tutto abbraccia, non cederà Ao alla più
atificioſa induſtria. Ora da tutte le arti in ordine alle coſe migliori ſi
fanno le inferiori.Dunque anco dal la natura comune; donde é, P che Jo tu ipo
han vo nel ! olo 04 arti ſo & 11 re
M che da quella deriua la giu ſtizia, e da queſta poi tutte le virtù hanno la
ſua ſufiften za. Perchè non ſi conferucrà il giuſto, fe o alle coſe di mez zo
troppo attribuirem'o, o fa remo facili a prender errore, ead cſſer temcrarij, e
muta bili. 10 Se non vengono a te le coſe, delle quali il proſegui mento, o la
fuga ri perturba 110, ma tu in certo inodo a quelle ti conduci, dunque il
giudicio intorno ad eſſe s'ac quieri, e quelle rimanghino immote, e tu non
ſarai vedu to, neappetirle, ne fuggirle. La sfera dell'anima è luminosa, quando
ella non ſi eſtende fuori a qualche co fa, ne dentro ſi ritira, o fr conſtipa,
ma riſplende con P d d. a 0 fc PE 9 mi ch ch quel a Giv tutti Tilter TUOTI
Legii proccurerò di eſſer manſueto, quel lume, col quale ſcorge la verità di
tutte le coſe, e quella, che è in lei medesima.Mi fprezzerà talvno? ſe
n'accorgerà cgli. Io mi guarderò bene, che niſſuno mi truoui o opcrare, o parla
re coſa degna di diſprezzo Miodierà? guardiſi egli. Io mez ot TOTE, MUT tele
urb.2 do 1 quei rhino reche e di eſſer di buon volere verſo di ognuno, e con
queſto me deſimo ancora pronto a farlo accorgere detfuo trauedere, non per modo
di rinfacciare, o di far moſtra della mia fof. ferenza; ma con ingenuità, e
probità, nell'iſteſſo modo di quel Focione, ſe pure non fi mulaua. Perchè così
biſogna, che ſieno le coſe interiori, e che l'huomo ſia veduto dag! P 2 Iddij
irle 1.2 € 1101 CO 0 h C011 I iddij, così diſpoſto a non ri ceucre coſa alcuna
con iſde. gno, con querele. Poſcia. chè di che danno è a te, ſe tu fteſſo fai
al presére quello, che e proprio della tua natura? non accetterai tu ciò, che
ora è opportuno alla natura dell' vniucrlo, o huomo ordinato per far qucllo,
che conferiſce al comune 13 Quelli, che l'vn l'altro fi difprezzano, l'un
l'altro fi luſingano: e quelli, che cer cano diſoprauanzar l’yn l'al tro, l'vn all'altro
ſi ſottomci tono. Quanto rancido, e non ſincero èil dire: Miſono propoſto di
portarmi teco ſchiettamente. Che fai, o huomo? non è di me ftiere far queſto
prologo: apparirà da per ſe. Nella fronte iſtekla dce eſſere ſcrit ta la voce.
Quello, che hai dentro, ſubito viene eſpref fo negli occhi, come nel lo ſguardo
degli amanti il tutto fubitamente conoſce Pamato. Tale inſomma biſo gna, che
ſia il fincero, e buo no, che ſappia vn poco di ca prino; acciocchè chi ſe gli
ac coſta, nell'iſteſſo primo in contro voglia, o non voglia, al fiuto lo riconoſca.
L'affet tazione della femplicità è vn ferro traditore. Niuna coſa è più brutta,
che l'amicizia lu pina. Fuggila più di ogni al tra. Gli occhi del buono del
ſemplice, del manfueto han no queſto chenicite in quel li ſi naſconde. 15 La
facultà di vinere ot timamente è poſta nell’anima. Se pur le coſe indifferen ti
le piglia indifferentemente: e le prenderà indifferente merte, ſe ciafcuna di
quelle contemplerà ſeparatamente, e con riguardo al tutto ricor dandoſi, che
niuna di quelle può formae in noi l'opinione di ſe ſteſſa, ne a noi venire: ma
quelle ſtanno ferme,e noi fiamo quelli, che formiamo i giudici di quelle, come
in noi dipignendole; mentre è lecito laſciar di dipigaerle, è lecito ancora,ſe
furtivamente s'infinuaffcr, o di ſubito ſcan cellarle. Che queſta attenzio ne
ſarà per corto tempo, e appreffo terminerà la vita. E che difficultà ci è in
ben pi gliar queſte coſe concioſie cofache ſe ſono ſecondo la naturai, habbile
care, e ti 8 a I rega antes cate uck Ente; ca uelle vant 1 enoi moi ne if
färanno facili; ſe ſono contro la natura, cerca quello, che ſia ſecondo la tua
natura, e intorno a queſto ſtudiati, an corchè ſia ſenza gloria, eſſen đo da
vſare indulgenza con chi cerca il proprio bene. 16. Conſidera donde ciaſcu na
coſa è venuta, e di quali fubbietti ciaſcuna conſiſta, e in quali ſi muti, e
mutandoſi quale ſarà, c come non ſog opere di giacerà a dannoniuno. E pri ma
qualabitudine ſia in me verſo di quelli, eſſendo che ſiamo nati vno a prò
dell'al tro; e ſecondo vn altra 'ragio ne ſon fatto per preſedere a quelli,
come ariete al greg: ge, o toro all'armento. Poida queſto paſſa a raziocinar
più alto ', che ſe non è vn concor fo diatomi, è la natura, che: legi ente car Slicet
ndo ed P4 il tutto regge; e ſe ciò è, l'infe. riori coſe ſono fatte per le mi
gliori, e queſte l'vna per l'altra. Secondo offerua, quali ſie no nella menfa,
quali nel letticciuolo, e in altri luo ghi, ma ſpezialmente quali neceſſità
apportino loro i dog mi, che effi fi ſono profiſſi, e con quanta preſunzione
met tino in opera quegl' ifteffi lo ro decreti. Per terzo. Se quelli retta
mente queſte coſe operano, non è da diſpiacerci; ma fe non rettamente, chiara
co fa è, che operano per for za, o per ignoranza; perchè ogni anima dimala ſua
voglia reſta priua come del vero,co sì di comportarſi con ciaſcu no fecondo la
ſua conucneuo lezza; e perciò prendono a ma , afe ml 12 fit re 110 cal 105 et
FO male l'eſſer chiamati ingiuſti, ingrati,auari,e al tutto procli ui al
peccarecótra de proſſimi. In quarto luogo. Che tu ancora fai di molti errori, e
come yn aftro di loro pecchi; ſe da alcuni errori ti aſtieni, tuttauia hai
l'abito di com mettergli, quantuinquc per cagione di tinore, o di glo ria, o
d'altro ſimile vizio tu ti rattenghi da si fatti crrori. Per Quinto. Che manco
hai ben penetrato, ſe errano: auuenendo molte volte, che lo fanno
diſpenſatiuamente; c in ſomma è neceffario d'ap prendere molte coſe auanti di
pronunciare aſſeuerante mente delle azionialtrui. Per feſto.Che quando fuor di
miſura tir ti degni,o da im pazienzia fei prcfo,fouuenga DI H ľ ¿ 2 P 5 tia 346
[ f fi ti, che la vita humana è mo montanea; e che tra poco tut ti ſtaremo
diſteſi. Settimo. Che non ſono l'o perazioni loro ', che ci pertur bano;
imperocchè eſſe ſono nelle menti di quelli, ma ben sì i noſtri apprendimenti.
Deponili dunque, e conten tati di laſciarne il giudicio, come di coſa a te
graue; e la collera farà ſùanita. Or bene in qual maniera li deporrò?
diſcorrendo;che non té inter. venuto niente di diſdicevo le; poichè ſe non
foſſe fe nori quel ſolo ', ch'è diſdice uole,male', néceſſario fareb be, che tu
in molti modi pec cafſi, diuenendo ladro, e af fatro ſcelerato. Qttauo. Quanto
fono coſe più graui quelle, che apport tano C t t C te al more f per le 30 tano
per cagionc loro i cor rucci, e languſtie dell'animo, che non ſono le coſe i,
quali ci contriftiamo, c adi riamocon quelli. Che la manſuetudine.è
inuincibile, quando ſia fincera, e non affettata fimulata. Che ti farà vno per
fouerchieuoliſſimo, che cgli fi fia:, ſe tu perfeueri d'eſſere con lui
piaceuolc? E, ſe così t'auueniffe, placidamente l'aer uertirai ', e meglio
l'inſegne rai', attendendo a ciò quieta mente in quell'iſteſſo tempo ni che
colui fi ftudia di fare a re il male, dicendogli tu:: Non figliuolo, noi
ſiamoprodottiat altre coſe. Io non rimarrà l'offeſo, ma tu bon fi,figliuolo; e
con de ſtrezza e fommariamente gli moſtrerai, che la cofa paf P 6 ſa cosi. E
che ne le api ciò fanno, ne niuno di quegli animali, che per lor natu ra
inſieme ſi congregano E però di biſogno, che ciò ſi faccia lontano
dall'irriſione, o dall'improperio; ma ami cheuolmente, e ſenza mor dergli
l'animo, e non come nelle ſcuole, ne acciocchè altri, chepreſente ſia, faccia
delle marauiglie, ma a ſolo a ſolo, quantunque alcuni altri vi ficno intorno.
Queſti noue capitoli tiengli a mente, come doni a te fatti dalle Muſe: e yna
volta, men. tre se'in vita, da principio ad eſſer huomo. Però biſogna guardarſi
egualmente, come di non adirarti contro quelli, così di non adularli; perchè
l'vno, e l'altro ſono contro l'hu D. l'humana comunione, e tira no al danno. Ti
ſia in pronto, mentre ti traſporta la collera, che non è da prode huomo
l'adirarſi; ma la placidezza, e la manſuetudine, quanto più fono da huomo,
tanto più hanno del maſchio; poichè. queſti partecipa più della for tezza, e
della neruoſità, e det vigore, ma non già chi è ſdegnofo, e diſamoreuole.
Perché quanto più queſtoè proprio della tranquillità dell' animo, altrettanto è
ancora del vigore. E come la triſtez za è de deboli, così è la col lera.
Poſciachègli vni, e gli altri ſono feriti, e ſi arrendo no. E ſe ti piace, dal
principe delle muse riccuiancora que ſto Decimo dono: Che è da furioſo il non
volere j, che i cit 350 1 cattiui pecchino, concioffie colache in ciò fi
pretenda l'impoſſibile.Ora il concede re, che verſo gli altri ſieno tali, e il
volere, che contro di te non pecchino", è cofa da: huomo- ftolido, c.da
tiranno. S'ha del continuo da of ſeruare', eſfer principalmente quattro i moti
dell'anima. E quando tu li ſcoprirai, gli hai da ſcancellare; dicendo fra te
ſteſſo ſopra ciaſcuno. Queſta immaginazione non è necef-. ſaria: Queſto
diſcioglie la co -- munanza: Queſto non lo di rai di capo tuo;perché il non
dirlo da fenno, reputalo tra le coſe ſtrauagantiſſime: II quarto è, che tu a te
ſteſſo rimprouererai queſto eſſere yn dare per vinta la portione più diuina,
che in te è, e fot to و in te è, bench cometterla alla parte più i gnobile,e
mortale del corpo, e alle ſuematcriali voluttà. Il tuo spiritello e tutto
quello d'igncos che è in te miſchiato,diſua natura tende 1 in alto', nondimeno
per ob bedire all'ordinanza dell'vni uerſo dentro del miſto ficon tiene.
Ancora', tutto quanto di terreſtre, e d'humido, che tuttauia refta ſollevato',
e ſta non ſecondo il natural ſuo ſito. Così gli elementi ancora obbediſcono
alle cofe vni verfali, quando, douunque fieno traſportati, reſtano per
forza,finchè dinuouo lorven. ga fignificata la facultà di di fciorli. Dunque
non è egli mal fatto che la ſola tua par ce intellettuale ſia dura all'obbedire,
e che ſdegni la ſua re gione? e pure non ſe le ordi na niente di violento, ma
ſo lo quello, che é ſecondo la natura fua; tuttauia non vi s'accomoda, ma corre
al con trario. Concioffiecofache on gni commozione verſo l'in giuſtizie, le
lafciuie, i ran cori, c i terrori non è altro che vna riuolta contro la natura.
E quando la mente piglia mal volentieri qualche coſa di quelle, cheauuengono,allo
ra abbandona il ſuo poſto; giacchè quella è fata diſpoſta all'equanimità, e
pietà verſo gl’Iddij, non meno, che alla giuſtizia; perchè queſte ſono d'yna
tal forte, che tendono alla buona comunanza, e fo no più antiche delle iſtelle
opere giuſte. A cui non è ſempre vno, e'l medeſimo fine della vira, non può
eſſer vno, e'l medeſi mo per tutto il tempo della fua vita.Ma non baſta quefto,
che s'è detto, ſe non aggiu gni à quello, quale dee effere queſto fine.
Imperocchè co me non è ſimile l'apprendi mento di tutte le coſe, che in qualſiuoglia
modoalli più pa iono buone, ma di quelle di vna tal forte, cioè di quelle, che
ſon volte al comune, così anco il fine dee eſſere diretto alla vita comune, e
ciuile. Perchè chi a queſto indirizza - tutti i proprij appetiti, rende rà
vniformi tutte le azioni, ed egli in tal modo farà ſempre il medeſimo. Conſidera
il topo nion tagnolo, el domeſtico, e la 4 Vand S vana paura, e fuga di queſto.
Così l'opinioni del volgo chia. maua Socrate lamie, e spaventacchi de'putti. I
Lacedemonij negli ſpettacoli poneuano i fora ſtieri ne ſedili all'ombra; effi
ſedeuano doue a forte loro toccaua.. 22. Socrate riſpondendo a Perdicca, perchè
non andaua da lui, diſfc; Acciò io. non periſca di così infame morte; mentre
non po teſſi corriſpondere alla grazia, che riceueſji. Tra gli ſcrittide gli E
feij taua vn auuertimento y che ſpeſſe volte ſi ricordaſſero di qualcheduno
degli anti chi, i quali haueſſero eſſerci-. tato la virtù. I pitagorici
ordinavano, che di mattino si riguardatſe: ili 8 po fe BE il Cielo; acciocchè
ſempre ci ricordaſſimo di quelli, che ſempre ſimilmente, e nell'i ſteifa
maniera compiono l'o pere loro e dell'ordine, e del la purità, e difuelamento;
im perocchè niun velo hanno le feller 25 Ti fouuenga quale cra Socrate cinto
d'vna pelle, quando Santippe coperta del la di lui veſte vſcila fuori di caſa;
e' rammentati quello, che diffé Socrate alli compa. gni, che fi vergognauano, e
ſi ritirauano, quando lo vidde ro in tal'abito: 26 Non far il maeſtro di
fcriuere, e leggere ad altri, in nanzi che ſij ammacſtrato ciò è da oſſeruare
molto più nella vita. Seruo tu Lei peròparlar non dei. Allora io di buon cuo re
me ne riſto Rampognan la virtù con aſpri det ti. 27 E' da pazzo domandar i
fichi l'imerno. Tale è chì quando non è più tempo d'ha: uerne, deſidera yn
figlioli no. Epitteto ammoniua quc gli, che baciaua il figliolino, che diceſſe
tra di fe: domanefor fi morrà. Sono parole di mal augurio coteſte? Non è, di
ceua cglig parlar di male au gurio vſar parole ſignificanti qualch' opera
conforme alla natura: altrimente il mietere le ſpighe, ſarebbe yn cattivo
augurio, L'vua è prima agre ſto, poi matura, e poi paſla. Ogni coſa foggiace a
mu tarſi, non nel non eſſere, ma in quello, che di preſente non è. Detto è
d'Epitetto, che Ninno è ladro della volonti. Vn arte, diſſe egli,s'ha da ritro
uare d'aggiuſtar gli affenfi, e in materia degli appetiti biſo gna conſeruare
l'attenzione, acciocchè ſieno con eccezio ne, e che s'indirizzino al be. ne
comune, e ſecondo la con ueneuolezza e totalmente aſtenerſi dall' auide voglie
e non iſchifare coſa alcuna, che non ſia in noſtro arbitrio. Non è dunque,
diſſe egli, la conteſa intorno ad vna coſa ordinaria; ma intorno all'ef fer
pazzo, o ſauio. Diceua Socrate, che anime volete ha uere, de'ragioncuoli, o
degl'ir. ragioncuoli de'ragioneuoli. Di quali ragioneuoli, de’lani, o
de’deprauati? de'fani. Per chè dunque non le cercate? perché le habbiamo:dunque
a'che contraſtate, e diſcor date? Fine del Libro Vndecimo, CO b pa te fa fa PI
all ace Vie LI 359 INO cercarei curse dike op. G là fta in tuo potere di
poſſeder tutte quelle coſe, alle quali anſioſamente bramafti con aggiramenti di
peruenire, ſe tu non inuidij a te ſteſſo: cioè a dire, ſe tu non farai più caſo
di tutto il paf fato, e 1 futuro laſcerai alla pronuidenza,e'l preſente ſolo bu
indirizzerai alla ſantità, e alla giuſtizia. Alla ſantità, acciò tu ami quello,
che ti vien deſtinato; concioffieco C1 facció 0 li fache la natura ha portato
quello a te, comc te a quel to. Ma alla giuſtizia liberamente fuori d'auuilup
pamenti tu dica parlando la verità, c operi ſecondo la leg fi ge, e la
conueneuolezza. E non ti ſia d'impedimento ne l'altrui maluagità, ne l'opi
nione, ne le ciarle, ne meno ti il ſenſo della carnuccia teco connutrita. Però,
chi pati- re. ſce, cipenſi. Se tu dunque tú quando in qualſiuoglia tem po
t'approſſimi all’yſcita, ab bandonando tutte l'altre co ſe, solo stimerai la tua
mente, e quello che di divino è in te; e non temerai il cessar vna volta dal
vivere, ma il non haper cominciato giammai a vivere secondo la natura, ſa rai
huomo degno del Mondo, che le TOLE to mi che wani DI110 ne Oi 70 c0 ti chet ha
generato, e nonſarai più foreſtiere nella patria, e non ti marauiglierai,come
di coſe inopinate, di quelle, che alla giornata auuengono,'e finiraidi rimaner
ſoſpeſo per queſta, o per quell'altra co fa. 2 Iddio ſcorge tuttelemen. ti
diſpogliate de’yaſi materia li, delle corteccie e lordu re. Poichè con la ſua
ſola vir tù intellettuale attigne quel le coſe, che da eſſo ſcaturi rono, e
deriuarono in queſte eofe materiali. Il che,ſe tu ti auuezzerai di fare, ti
liberc rai da molti ſpafimi. Percioc chè chiriguardo non haalle carnucce chelo
circondano,fi tratterrà forfi a badare al ve ſtito alla caſa, alla gloria, é a
fimili abbigliamentie arredi? Tre ſono le coſe, delle qualitu fe conpofto, 'il
cor picciololo fpiritello, vela mente. Di queſte le prime duefono cue, finche
ta dilo To habbi cora. La terza fo la è propria rerire, tua. Setu fequeſtrerai
da te, cioè dalla tua confiderazione in tutte quelle coſe che alla faccia no, o
dicano, e quelle,'che Tu hai-detto e fatro, e que te,'che,comefe falfero per
auucnire, ti- boiterbhojne quelle ancora cheper lo cort picciuolo, che ti circondala
per Minneſtæto " piritello tohi tro tua vogliati fuccedchos de quelle, che
intenten einer hohen mente con vina contratttváre tiğine ſi rivolgonoi, fieche;
rendendo la potenza santé fertuale efente delle cofejohe fono inſieme fatali,
pura, eili ibera viuerà in fe fteſfa', ope rando: le cofe " giufte, te
rice uendo volentieri gli auueni menti, e proferendo la veri tà: Se tu
ſeparerai, dicdi, da quefta potenzaquefte. cofend elfæaderentiper graditimpa
zia, edaltempo, quelleche hanno da auuenire appreffo.. pilepaffate,
etiformerairale, qualeè la palla sfericadiem pedocle; Chestutta titanda guide
della-poluere, ch'attornojpelte rigiza, attenderai ſolo alviuere, the gu viui,
cioè al preſente, e po tmisfio alla morte viuendo trapalaretuttoquello che ti
reſta imperturbato gencroſa mente si emanſuetamente, fet condo il tuo genio.
Speffo miſonimarauiglia TO:, come ciaſcuno più di tut Q:2 ti ti ami ſe
ſteſſo; e come non dimeno tenga in minor conto l'opinione propria intorno a ſe
medeſimo, di quella degli altri. Se dunque Dio ſoprau uenendo, o vn macſtro pru
dente, comandi ad alcuno, che nulla dentro dife penfi, o diſcorra, che ſubito
l'ha conceputo, non lo palefi, non lo razterrebbe ne pure per vn giorno.
Cosìpiù temiamo di quello, che i proſſimi giudi cano di noi, che di quello, che
noi medeſimi giudichia mo.: 5 Come farà mai, cheha uendo ordinato il tutto
gl'Id dij bene, e con carità verſo l'huomo, queſto folo habbia no traſcurato,che
alcuni degli huomini, e molto buonije che colla diuinità hāno tenuto co
me 01 700 011 22 TU 101 olis ha On di me ſpeſſi commercij, e che
ſouentemente per l'opere fan te, e ſacrificij ſi ſono reſi à quella famigliari,
queſti, vna volta morti, non ſi facciano ritornare, ma rimangano del tutto
eſtinti? Queſto, ſe pu re così ſta, tu hai da ſapere, che fc altrimente
biſognaſſe, che foffe; l'haurebbero fat to. Concioffiecoſa che ſe era giuſto,
era poſſibile, e ſe era ſecondo la natura, l'haureb be prodotto la natura. Dal
non eſſer così, ſe così non è, tu ti hai da perſuadere non eſſere ſtato
neceſſario, che al trimente fi faceſſe. Imperoc chè tu ſteſſo t'auuedi, che ciò
ricercando, tu entri a con tendere in giudicio con Dio. Ma noi non
diſcorreremmoco sì con gl’Iddij, ſe ottimi, e Q 3 giufillimi non foſſero. E ſe
così è, nicnte ingiuſtamente hanno traſcurato, e irragio nevolmente negletto
nellab Tellimento dell'vniuerſo.. 6 Afſucfatti ancora a quel le coſe, delle
quali non bene ſperi.Imperocchè la mano fi miltia inabile per non eſſere aylata
all'altre coſe, reggeil freno più fortemente, che la deſtra, e queſto perchè vi
s'e ZUL Czzata. Penſa quale biſogna, che tú ti truoui,e del corpo,e del Panima,
ſopraggiunto che fą rai dalla morte: la breuità della vita, la vaſtità
de'ſecoli ayanti, e dopo, la debolez za d'ogoi materia. Content pla ſpogliate
d'ognicorteccia le caufalità, le relazioni dold' opere; che fią la fatica,
che'l piacere, che la morte, chela gloria: chi ſia a ſe ſteſſo cagio ne
deltrauaglio, e coine niu nofią impeditodaaltrise che ognicoſa lia opinione.
& Nell'vſo delle tue maffime è neceffario, che tų fij, limi le non
all'accoltellatore, ma al combattente maneſcamen. te con le pugną. Concioſſie
cofache quegli, ſe pone giù la 1pada, della quale ſi ſerue, re fta vcciſo, ma
queſti ſempre ha la mano, nę gli biſogna nient'altro, che ſerrarla. 9. Di
queſta fatta s'hanno a riguardar le coſe, diuidendo ke in materia, forma, e
rela zione Quanto potere hą l'huomo a non faraltro, faluo quello, che Dio ſia
per gradi re, e riceuere tutto quello, che Dio gli diſtribuiſca, con Q 4 forme
all'ordine della natu ra. To Non s'ha da querelarſi degl'Idij, mentre non ſono,
nevolendo, ne non volendo, ſoggetti ad errori; ne meno ſono da áccufare gli
huomi ni; perchè non peccano, fe non contra voglia, Diniuno dunque s'hanno da
far querele. Quanto è ridicolo, e ftra niero chi s'ammira di qualſi uoglia coſa,
che nella vita occorre! Oviè la neceſſità fatale e ordinazione inuiolabile, o
prouuidenza piegheuole, o confuſione temeraria ſenza gouerno. Se è neceflità
iné witabile, a che ti contraponi? ſe è prouvidenza che ammet tc eſſer piegata,
fa degno te ſteffo del fuſſidio diuino: ſe è confuſione ſenza reggimen to,
rallegrati, chein queſta tempefta tu medeſimo hai in te ſteſſo per gouernatrice
qualche mente: e ſe la tem peſta t'aggira, fia traportata la carnuccia, lo
ſpiritello, e l'altre coſe, ma la mente non farà traportata. Il lume della
lucerna, finché fi ſpenga, 'ri luce sì, e non perde lo ſplen. dore: ma la
verità, che è in te, e la giuſtizia, e la tempe ranza, anticipatamente s'e
ſtingueranno? Dove l'immaginazione concepiſca, che vno ha peca cato, rifletterò
donde ho,che queſto fia peccato, e ſe que gli peccò, ſe fi fia egli reſo reo
per quell'atto? perchè ciò ſa rebbe quali vn lacerarſi il proprio volto. Poſcia
rifletti, che chì non vuole, che'l cattivo, pecchi; è da raſſomigliarſi ad VCO,
che voglia, che l'arbo re de i fichi non produca il lattificio, e i bambini non
piangano, ei cauallinon ani triſching, e altre coſe taliche feguono di
neceſſità. Pero, che coſa ha da fare, hauen do contratto " va cotal mal
abito? Dunque, ſe ti ſenti da ciò, riſanalo. Se non conuiene, non do fare. Se
non è vero, non lo dire, ma l'appetito dia fox, to dite per conſiderare il gut
to che è quello, che fa im preſſione nella tua immaginas zione, e diſcutilo,
diuidenz dolo nel formale, nel mate, riale nella relazione neltem po, dentro al
quale quello ha da Vis petto? forſe cupidigia a forfe da finiie. Riconoſci una
vol ta, che in ce è vna coſa più eccellente, e più diuina di quelle, che te
paffioni in te cagionano. E in ſomma,quan te cofefono,che in qràge in la in
guiſa d'un bamboccio con de cordicelle ti abburattano. Che’çoſà è ora il mio
penfie rodforfe timore? forfe for. cofa alia fimile: 15 Primieramente penfais
che niente è a caso e niente, senza relazione. Secondaria mente chea niun altro
fine, che a quello della focictà fi riduc. Che non molto dopo niūno in niun
loco farai, ne pur cofa alcuna fari di tutte quelle, che orá vedi, ne al cuno
di quello che ora: vi -91 I Qo NOuono; conciofficcofache tut te le coſe ſono
nate per mu tarſi, trasformarſi, e perire, acciò altre per ſucceſſione ſe
guano. Ogni cosa è opinione,e queſta depende da te. Togli dunque, quando tu
vuoi, l’opinione; e, come chi volge al ridoſſo d'vn promontorio trouerai
ferenità ferma di tutte le coſe, e vn ſeno tran quillo.: -18 Vna, e
qualſiuoglia fi fia operazione che a ſuo tem po finiſce, nonpariſce danno niuno,
perchè finì; ne l'ope rator di quella, per hauer finito, patiſce mal alcuno. In
ſimil modo dunque il ſiſte ma, o fabbrica ditutte l'ope razioni, che è la vita,
ſe in qualche tempo finiſce, non rice etut or me erine Quel one, Togh oila
ageal torio ma Stra / di riceue alcun danno, percioca chè fini; ne quegli, che
in tal tempo terminò queſta ſerie, fu malamente trattato. Il tempo, e'l termine
fono dále la natura conſtituiti, talvolta dalla propria,come nella vec chiaia;
ma generalmente dal I'vniuerſale, le cui parti con tinuamente mutandoſi, reſta
tutto il Mondo ſempre nouel. lo, e vigoroſo. Tutto ciò del continuo è buono, e
oppor tuno, che all'yniuerfo.confe riſce. Dunque il finir del vi uere a
chiunque tocchi, non è coſa cattiua, perchè non è vergognofa, come non de pende
dal noſtro volere, ne contraria al comun bene del l'yniuerſo. Anzi è buono
quando è opportuno, e con ferente all' vniucrſo, e con quel elial tem dan l'ope
verf olfille 12 l'ope ſe i non. lo 1 quello è inheme portato Concioffiecofache
è portato da Dio quegli, che fi perta vnitamente con Dio, e a quel le ifteffe
cofe collintendimen to fi conduce. ! 19. Queſte tre coſe hanno da cflere fempre
in pronto.. Primieramente in ciò, che tu fai, non fia niente inuano, ne
altrimente fi facciay.che felis fefla giuſtizia haveſſe,opera to: ma nelle cofe,
che anlı uengono di fuori, mentre quelle o fono procedurea ca fo, o fecondo la
prouuidenza non s ' ha da querelarſidel ca fe, ne accufare la prouuiden za
Secondariamente qual cofa faccia ciafcuro dal non effene, fino all'animazione,
e dall'animazione, fino al ren dimento dell'anima, e da qua. li coſe da fatto
l'adunamento, e in quali il diſcioglimentos Terzo come ſe ſoprad'yu’ers minenza
follcuato tu rimiral G le coſe humane', e dopo ha. ụer compreſa, la lor gran va
rietà inſiemeconoſcelli quan to ci ſia dell'abitato, e nel l'acre, e nell'etera,
e çoine quante volte cu foffi cosi fol leuato, vedreſti le medeſime, l'iſteſſa
ſpecie, la breue dura ta. Ed in queſte éla noſtra ſu perbia, 29. Gitta fuori l'
opinio ne, ſarai ſaluo. Chi dunque e’impediſce il gittarla. Quando perqualche
co ſa ti prendi diſguſto,ti ſe (cor dat, che ogni coſa li fa', le condo la
natura yniuerſale, che quel peccato è d'altri. E oltre queſto, che tutto ciò,
che pure, che ſi fa,cosìſempre's'è fatto, e li farà, e di preſente ſi fa per
tutto: ancora, quanta è la co gnazione dell'huomo con l'o niuerſo human genere;
per chè non è la comunione del fanguccio, ò della poca ſe menza; ma della mente.
Ti fcordaſti che la mente di ciaſcheduno è Dio, e che da lui ſcaturì, non
eſſendoui coſa alcuna propria di niuno, anzi il figliolino, e'l corpic ciuolo,
e l'iſteſſo ſpiritello in di vennero. E ancora ti ſcor daſti, che ogni coſa è
opinio ne, e parimente, che ciaſche duno il preſente ſolo viue, e che queſto
ſolo ſi-perde. Del continuo riuolgi nell'animo quelli, che per qualche coſa li
corrucciarono, e quelli, che in grandiſſime glorie, o calamità, o inimicia zie,
o in alcuni altri auueni menti li ſegnalarono. Dopo medita, doue fono al
preſente tut te queſte coſe?in fummosin cenc re, c fauole, e ne meno favole.
Tiſouuenga di tutto queſto', cioè, come furono Fabio Catullino in Villa, e
Lucio Lupo, e Stertinio a Baia, e Tiberio a Caprise à Velia Rutfo; e in ſomma
di chi ha fatto con l'apprenſione gran caſo di qualunque ſia cofa: ecome ſia di
vil prezzo turto, che in tentamente appreſe, e finala mente quanto più foffe da
Fi loſofo nella materia toccata gli, portarſi da giuſto, e da fa uio e da
ossequioso schietta mente agl'iddii. Imperocchè la superbia, che sotto velo di
umiltà si nasconde è la più l’intolerabile daograbra. Agudligiche dimanda
nosperchè vonsrigť Iddij acat me turgli habbi vechutia e dom de tu habbi
appreso, che vi freno Primieramente risponde, che sono visibili agl’occhi, e
poi a benchè io, non abbia veduta la mia anima, tuttavia l'onoro. Così dunque è
degl'iddii, la potenza de’ quali mentre ogni giorno io pruqyosda questo
comprendo, che ci sono, e gli venero. La salvezza della vita consiste, che ciascuno
riguar di che cosa sia il tutto, il materiale, il formal, che con tutto l'animo
FACCIA IL GIUSTO, DICA IL VERO. Che resta
altro, che goder della vita, aggiugnendo un ben fatto all'altro, sicche ne pur
si perda un brevissimo spazio di tempo? Il lume del Sole, è uno a benchè venga
interrotto dal: o e pareti, dai monti, e da altre mille cose. Una è la
sostanzia comune, ancorchè ſia di partita tra migliaia di corpi, qualificati
dalle loro proprietà. Una è l'anima con tutto che si distribuisca a mille e
mille nature con ſsngolari circonscrizioni. Una è l'anima all'intelligente, se
bene apparisce, che si divida. L'altre parti dunque delle cose dette: s, com!
me gli spiriti, ei subbietti; so no senza senso, ne famigliarmente si uniscono
insieme. Questi nondimeno contiene LA MENTE UNIVERSALE e poi la propensione,
che al congiugnere gli spinse. Ma l'intelletto propriamente propende
all'istesso suo genere, è s’unisce, ne fi può fradicare l'affetto al ben
comune. Che cerchi? Di campare? o'pur di sentire, d’appetire, di crescere, e
poscia diterminare? Di valersi della voce di DISCORRERE con la mente? Qual cosa
di queste ti pare degna d'essere desiderata Male que ste una ad una non sono da
frezzare, portati alla conclusione d'ossequiare la ragione e gl’iddei. Ma li fa
contro alla stima di queste cotrammaricar si di rimaner perla morte privo
d'alcune di queste. Quanta parte dell'immensa e infinita durata a cia. founo é
compartita? Poichè ben prestissimo si dilegua nell' eternità. Quanta parte di
tutta la sostanzia? Quanta parte di tutta l'anima? In quanta zolletta di tutta
la terra ferpendo tu vai? A tutte coteste cose applicando l'animo, non
t'immaginare niente di grande o questo solo se tu operi come la tua natura ti
conduce, e soffri come la natura universale portage comeliva. le di se stessa
la parte tua reggitrice; polciachè in cio il tutto consiste. Tutte le altre
cose, o sieno nel tuo arbitrib. no fuori di quello. Sono cadaveri, e fummo:
om.svisli! Efficacissimo è il rifletterre, per eccitarci al disprezzo della
morte, che quelli ancora, che stimano essere il bene nella voluttà, e'l male
nel dolore, nondimeno quella disprezzarono. A chi quel so. Lo che è opportuno è
bene je a chì tanto è l'aver molte azioni fatte. Secondo la ragione retta,
quanto poche. Ie a chì non iinporta contemplare il mondo in maggiore, o minor
spazio di tempo, nemanco la morte è terribile. O huomo sosti cittadino in que
sta gran città che ti fa te per cinque anni mentre quello. Che è conforme alle
leggi ad ognuno è dellistesso peso. Perchè dunque ti ègraine, se dalla città ti
manda via non il tiranno, o un ingiusto giudice, ma da natura, che vi
t'introdulfezlic come dalla see, na licenzialse vas comico il capo della truppai
che l'han keva, condotto. Però tu dii, non vappresentaii i cinque atti, ma solo
tre. Tu dibeneze a proposito mentre che nella vita anche tre atti compiono
tutto il drama. Conciossieco fache quegli impone il termine, dove abbia da
finire, che allora ordina l'adunamento, cora fa lo scioglimento, nel li quali
tu non ci hai avuto parte. Vattene dunque placido. Poichè quegli che ti
licenzia, è placido. Dal mio avolo, Vero, la gentilezza del costume, e il non
adirarmi. Dalla fama e dalla memoria del mio genitore, l’esser verecondo
e maschio. Dalla madre, l’esser pio, il donar volentieri, l’astenermi non
solo dal fare il male ma anche dal venirne in pensiero. [Ancora,
l’esser Sottintendi, come nei paragrafi seguenti, il verbo ‘imparai’,
ovvero ‘riconosco’, nel senso di iono riconoscente ili aver ricevuto
chessia, cosa, o esempio di qualsivoglia cosa o virtù), o altra
espressione che riempia acconciamente le ellissi. ‘Maschio’: intendi
forte costante, non molle ed effeminate], frugale nel vitto e alienissimo dall’usanze
dei ricchi. Dal mio bisavolo il non essere andato alle pubbliche
scuole, l’avere avuto di buoni maestri per casa e il conoscere che
in siffatte cose non si vuol guardare alla spesa. Dal mio aio: il
non essere stato nè di parte prasina nè di parte veneta, nè parmulario, nè
scuta- [Il bisavolo paterno di Antonino e Aunio Vero. Il bisavolo
materno e Catilio Severo. Non è chiaro di quale dei due si parli nel
testo. Intendi: la scola elementare. Poiché ognun sa che Antonino frequenta assiduamente
come ‘scolaro’ le varie ‘scuole’ dei fìlosofi a Roma. Non si conosce il nome
dell’aio] [elio morendo lascia grande desiderio di sè in Antonino. Sono i
colori che distingueno i due grandi partiti degli aunghi del circo,
che non sono piccola parte nella storia delle follie dell’impero.
Nunc favent panno, pannum amant,’ disse energicamente Plinio il giovane,
IX, 6. Lucio Vero, collega d’Antonino, la pensava altrimenti, secondo le
parole di Capitolino. Rio]. Il reggere alla fatica, l’aver bisogno di poco, il
saper fare da me, il non intromettermi nelle faccende altrui e il non
porger facilmente orecchio ai delatori. Da Diogneto imparai il non
occuparmi d’inezie, il non dar fede a ciò che i magi e i
fattucchieri dicono intorno alle malie, allo scongiurare gli spiriti e
altre cose di tal fatta, il non avere atteso a nutrir quaglie nè essermi
dilettato di simili cose, il patire ehe altri mi parli francamente.
[Parmularius e il gladiatore armato di un piccolo scudo di cuoio
detto ‘parma’ o parmula, e ‘scutarius’ quegli che porta lo ‘scutum’, grande
e lungo. Questo Diogneto era non solamente filosofo, ma anche pittore, secondo
Capitolino, ed avea dato intorno a quest' arte alcune lezioni ad
Antonino. Si allude ad un giuoco dei romani aveano prego dai greci,. Si
faceano combattere fra loro questi uccelli, o dai casi del combattimento
si traevano presage]. L’ESSERMI DATO ALLA FILOSOFIA. L’avere udito
primieramente Bacchio, poi Tandaride e Marciano. L’avere scritto dialoghi da
ragazzo. L’ avere voluto il lettuccio con la pelle sopravi e le altre cose
che vanno appresso nella educazione greca. Da Rustico: l’esser venuto
in pensiero che i miei costumi avean bisogno di correzione e di
coltura. Il non essermi sviato dietro ad un’ambizione di sofista, o
scrivendo su materie speculative, o declamando orazioncelle esortatorie, o
facendo, per dar nell’occhio altrui, 1’uomo austero e benefico e l’avere
abbandonato la rettorica e la poetica e il bel favellare, e il non
passeggiare togato per casa e altre tali cose e lo scriver le lettere
semplicemente [Era uno stoico come quell’altro romano fatto uccidere da
Domiziano per aver lodato Trasea Peto] e naturalmente, come quella
ch’egli scrisse da la citta di Sinuessa a mia madre, e il non serbar
rancore verso le persone che si son, meco adirate e m’ hanno offeso e
rappacificarmi volentieri con loro tosto eh’ elle si voglion ricredere, e e il
leggere con attenzione e non contentarmi di capire così air ingrosso, nè
assentire troppo di leggieri a quel che i circostanti dicono, e lo
avere avuto contezza dei ‘Ricordi’ d’Epitteto che Rustico mi dona di
suo proprio moto. Da Apollonio: la libertà dell’animo e la fermezza nel
proposito senza dar mai nulla al caso, il non guardare ad altro mai,
nè anche per poco, che alla ragione, l’esser sempre uguale, nei sommi
dolori, nella perdita del figlio, nelle lunghe malattie, l’aver veduto ad
evidenza nel vivo esempio di lui siccome può la stessa persona essere
gagliardissima ad un’ ora e rimessa e il non impazientarsi nello spiegare
e l’aver conosciuto un uomo che manifestamente tene pel minimo de’ suoi pregi
la pratica e la facilità ch’egli ha del comunicare altrui la scienza, e l’avere
imparato come convenga liceverc fivelli che il volgo chiama benefizi dagli
amici, senza diventai, e loro divoto per ciò nè per altra parte,
lasciando correre la ('osa senza saperne grado. Da Sesto:
l’amorevolezza e l’esempio del governare da buon padre una casa e il
concetto di vivere “secondo natura” e la gravità non affettata, e l’indagare
con sollecitudine quello di die gli amici hanno uopo, e il sopportare
gl’ignoranti e il sapersi adattare a Nello spiegare. [Intendi: nel dare
altrui tutte le spiegazioni di die possa aver d’nopo per ben capire
le cose]. [Intendi: senza diventar loro obbligato in modo che nìccia alla
Ina libertà] tutti per modo ch’il CONVERSARE
con esso lui era più dolce cosa che l’adulare di chicchessia ed e egli nondimeno
in quello stesso punto ed appo quelle stesse persone in venerazione
grandissima, e la chiarezza di mente e la sagacità con cui trovava ed ordinava
le verità filosofiche necessarie alla vita, e il non aver dato mai
indizio di collera nè d’altra passione, ma essere stato ad un’ ora il più
impassibile uomo ed il più tenero, e il dir volentieri liene d’altrui,
senza menar remore per ciò, e la molta dottrina senza che
paresse. Da Alessandro: il non isgridare e il non riprendere ingiuriosamente
chi faccia un barbarismo o un solecismo o un cattivo accozzamento di
suoni, parlando; ma profferire destramente ciò che quegl’avrebbe dovuto
dire, per modo di risposta, o di conferma, o come volendo esaminar
con esso la cosa, non già la parola, o per qualsivoglia *altro modo
di suggerimento indiretto* [IMPLICATURA], garbatamente. Da Frontone:
quanta invidia, quanta malizia, quanta simulazione, sia nella tirannide. E
siccome questi da noi chiamati ‘patrizi’ son cattivi padri anzi che
no. Da Alessandro, il platonico: il non dir sovente nè senza necessità a
nessuno, nè scriver per lettera, ch’io sono occupato, nè contrarre r abito di
disimpegnarmi in tal modo dei doveri verso le persone con le quali
io vivo, allegando per iscusa le faccende. Da Catulo: il non tener
poco conto delle doglianze di un amico, quand’ anche si dolga fuor di
ragione. [Secondo Filostrato e un segretario di Antonino]. [Cinna Catulo,
filosofo stoico, menzionato da Capitolino] ma anzi sforzarmi di ricondurlo
alle maniere di prima, e il parlar bene e volonterosamente dei
maestri, come si narra di Domizio e di Atenodoto, e l’amar i figli con vero
affetto. Dal mio fratello, Severo, l’affezione ai dimestici, l’amor
del vero e del giusto, l’avere, per mezzo di lui, avuto contezza di
Trasea, d’Elvidio, di Catone Uticense, di Dione, di Marco Bruto, ed essere
venuto in pensiero di un reggimento civile dove la legge sia una per tutti
e pari i [Neppure l’eruditissimo e diligentissimo Qataker potè
chiarire chi fosse questo Severo che Antonino chiama fratello. A tutto quello
che ci è dimestico] [Una delle più illustri vittime della crudeltà di Nerone] [Genero
di Trasea, esiliato da Nerone]. [L'illustre stoico Catone Uticense] [L' amico
di Platone, l’avversario di Dionigi tiranno di Siracusa, la cui vita fu scritta
da Plutarco] [Marco Bruto, la cui vita fu pure scritta da Plutarco] diritti
di ciascheduno, e di un governo regio che sovra ad ogni altra cosa tenga
conto della libertà dei governati. Ancora quel suo tenor costante ed
uniforme nel culto della filosofia e la beneficenza e il far parte
altrui volentieri e senza rispar- mio delle proprie sostanze; e lo sperar
bene; e l’aver fede nell’amicizia degli amici e quel suo non infìngersi con le
persone quando disapprova alcuna cosa in loro; e il non aver mai avuto
bisogno gl’amici di lui di andare indovinando che cosa egli volesse o non
volesse, sendo l’animo di lui sempre aperto. Da Claudio Màssimo: il
contener sè medesimo, e non lasciarsi andare in nulla malgrado suo,
l’esser di buon animo nelle malattie e negli altri casi avversi e
quella temperatezza di costume, soave ad un tempo e [Clandio
Massimo filosofo stoico] dignitoso e l’eseguir prontamente senza
querimonia qualunque cosa gli accadesse di dover fare e la credenza che
tutti avevano di lui, ch’egli pensas tutto che dicee fa a lìn di
bene tutto che fa; e il non istupir di nulla, non isgomentarsi di nulla,
non esser mai nè frettoloso nò tardo, nè imbarazzato, nè sfiduciato, nè
infingardo, nè ripentito del consiglio preso, nè sospettoso e il
beneficare e il perdonar volentieri, e l’esser veritiero e il parer piuttosto
uomo per natura incontaminato che non per arte emendato e siccome nessuno fu
mai che o si credesse dispregiato da lui, o ardisse riputar sè
migliore di lui; e quel suo piacevoleggiare a proposito. Da mio padre
adottivo: l’imperatore Antonino Pio]: l’esser bonario, e irremovibilmente fermo
nondimeno nei partiti pi'esi dopo accurata disamina, il non trar vanità
da quelli che il volgo chiama onori, l’amore al lavoro e l’assiduita;
il dare ascolto a chiunque avesse da proporre qualche cosa di utile
al comune; il non lasciare che nessuna considerazione lo distornasse
dal retribuire a ciascuno secondo il merito, il conoscere dove bisognasse esser
rigido e dove indulgente, L’AVER POSTO FINE AGL’AMORI DE’ RAGAZZI e il
sentire modestamente di sè e volere stare ad uno stesso ragguaglio con
gl’altri, il permettere agli amici di non cenar punto con lui, e di non
accompagnarlo nei viaggi, e lo accoglier con gli stessi modi di prima chi
per qualche sua bisogna non lo avea potuto seguire; e la diligenza e la
persistenza con che esamina le cose nei consigli, non come
quell’altro di cui è stato detto che tòsto lascia la deliberazione
contentandosi dei primi pensieri che gli furon venuti, e il conservar gli
amici, non recandosi a fastidio nessuno, nè incapricciandosi di nessuno; e il
sopperire a sè stesso, sempre; e la serenità del volto; e l’antivederei
da lontano e pral ovvedere senza scliifiltà anche alle rnenome cose e
l’aver dato bando alle acclamazioni e alle adulazioni d’ogni genere e
il tenere allestito sempre quanto era necessario per le occorrenze
dello stato, moderando le spese e sopportando di buon animo la
taccia che alcuni gli davano per ciò, e l’essere alieno e dalla
superstizione verso gli dei e dalla piagenteria verso gli uomini, non curandosi
di acquistar grazia appo il popolo o con le larghezze, o con le1 Luogo
intricato. Nota due modi condannevoli e vani: di acquistar grazia appo
gli Dei, con pratiche superstiziose; appo gli nomini, con l’andar loro
a genio e secondarli anche a costo del dovere lusinglie, o con lo imitare
i modi di quello] ma sobrio in ogni cosa e saldo, e non mai altro
che dilicato e gentile e osservatore della convenienza e del costume
stabilito, 0 il servirsi seifza boria e senza scrupolo di tutte quelle cose che
conferiscono agli agi della vita, delle quali la fortuna è larga a’ suoi
pari, per modo che delle presenti ei si giova senza farne casa e le
assenti non desidera; e siccome nessuno avria mai detto di lui
ch’egli fosse un sofista o un dileggino o un pedante, ma sibbene un uom
maturo, perfetto, nemico dell’adulazione, capace a governar sè medesimo
ed altri. Eri inoltre quel suo onorare i filosofi veri e non fare
scherno de’ falsi, non lasciandosi nulla dimeno facilmente ingannare da
loro e il conversare sciolto, e quella
sua grazia Come tanti imperatori die It) avevano preceduto. che non
ristuccava; e il tener cura del proprio corpo, non tanta da parer tenero
deliavita, o damerino, nè tanto poca da parere trascurato, ma quanta
basta per non avere quasi punto bisogno di medicine o simili cose. E sovratutto
quel suo cedere senza invidia a chi avesse acquistato abilità in qualche
cosa, come nell’eloquenza o nella conoscenza delle leggi e
dei costumi de’ popoli, e altro di cotal fatta e lo adoprarsi insieme
con essi perchè ottenessero fama, ciascuno nell’arte in che
primeggia e quel suo fare ogni cosa secondo gl’institnti d’ maggiori,
senza dare a divedere che avesse nessuno intento particolare, nè anche quello
di volere conservare essi institnti. Ancora il non esser nè randagio
nè avventato, ma continuar volentieri a star nel medesimo luogo e ad
occuparsi delle medesime cose; e dopo passati gli accessi del dolor
di capo, ritornar iU^teu Aurelio. fresco e vigoroso ai lavori
solidi; e il non aver di molti segreti, ma anzi pochissimi, e di
rado, e solamente nelle cose di stato; e la prudenza e la misuratezza
nel dare spettacoli, nell’ intraprendere opere pubbliche, nel far
distribuzioni ai soldati, e simili cose; siccome uomo che riguardava a
quello che conveniva fare, e non alla fama che gli sarebbe venuta dalle cose
fatte. Non al bagno fuor d’ora, non la smania del fabbricare, non
ricercatezza nel cibo o nella tessitura de’ panni o tintura, o
nell’appariscenza de’ servi. La toga dalla villa inferiore e da quelle di
Lanuvio il più sovente; i modi che tenne col pubblicano in Tusculo,
che supplica; e altre sue simili maniere. Nulla di men che umano,
nulla d’ immisericorde, nulla di violento, nè, come direbbe taluno,
siìw al su- dove; tutte le cose di lui, pensate, distintamente
avvertite, con pacatezza, con ordine, con vigore, e d’accordo le une con le
altre, come se le avesse premeditate per ozio. Ed a lui si potrebbe
applicare ciò che VIEN DETTO DI SOCRATE, che egli poteva e astenersi e
godere colà dove a gran parte degli uomini manca la forza per 1’uno e
la temperanza per l’altro. E il saper reggere con fortezza e con sobrietà
ad ambedue non appartiene se non a colui che ha l’animo sano ed invitto,
quale egli il dimostrò nella malattia di Massimo. Dagli dei: l’avere avuto
buoni avoli, buoni genitori, buona sorella, buoni maestri,
domestici, congiunti, amici, tutti, a un dipresso, buoni. E il non
avere offeso mai nessun di loro, benché talmente disposto di 1 Claudio
Massimo menzionato] natura, che io l’avrei fatto forse, ove fosse venuto
il caso: ma per bontà degli dei non incontra mai tal concorso di
cose che mi ponesse a repentaglio. Il non essere statò più lungamente
allevato appresso la concubina del mio avolo; l’avere serbato nel fior
degli anni la purezza del costume e non aver dato saggio di età virile
prima del tempo, anzi avere soprastato anche più in là, l’essere stato
sottoposto ad un principe e padre il quale doveva sgombrar da me ogni
sorta di boria e farmica pace come egli si può vivere in corte e non aver
bisogno nè di guardie nè di vesti screziate nè di fiaccole nè di statue,
come s’usa, nè d’altre simili pompe; ma anzi, che egli v’ha un modo
di ristrignersi quasi alla ondizione di private e non perder nulla
però nè della dignità nè del nerbo necessario al trattar le cose dello
stato, l’essermi tocco in sorte il fratello ch’io ho il quale se è
d’incitamento a me co’ suoi costumi, ad invigilare sui miei, mi
consola nondimeno e mi rallegra con la riverenza e con l’amore ch’egli
mi porta, l’avere avuto figli nè ottusi d’ ingegno nè contraffatti
di corpo, il non aver fatto maggiori progressi nella rettorica nè nella
poetica nè nelle altre arti, dove sarei forse rimasto allacciato s’ io mi
fossi accorto ch’io vi riusciva, l’eessermi sbrigato di costituire in dignità i
miei educatori, come parve a me ch’essi
bramassero e non avere indugiato con la speranza del potere far
cotesto di poi, sendo essi ancor giovani, l’avere conosciuto Apollonio,
Rustico, Massimo. Lo aver concepito chiaramente e più volte qual sia la
vita [Lucio Vero fratello per adozione, uomo in vero viziosissimo,
più assai, probabilmente, che non fosse noto ad Antonino; ma devotissimo e
affezionatissimo a Ini] secondo natura: s'i che per gli dei non manca, nè
per aiuti e suggerimenti ed ispirazioni loro, ch’io non vivessi a quel
modo; manca bensì por me, il quale non osservai gli avvisi e, sto
per dire, gli insegnamenti che essi mi dano, l’aver potuto reggere della
persona durante cotanto tempo in cotal vita. Il non aver avuto a
fare ne con Benedetta nè con TEODOTO e che di poi, CADUTO novamente nella
PASSION D’AMORE passion d’amore, io abbia potuto guarirne. Che, essendomi
adirato più volte con Rustico, io non abbia fatto nulla di che
avessi poi a pentirmi; che, dovendo mia madre morir giovane, abbia
nondimeno vissuto con me gli ultimi suoi anni; e che, ogni volta eh
io volli soccorrere alcuno, o povero o altrimenti bisognoso, non mi
fu mai detto ch’io non avessi danari per farlo e il non essermi
trovato mai io medesimo in simigliante occorrenza, da dovere aver ricorso
ad altri, l’avere la moglie ch’io ho, così docile, così amorevole, così
alla buona; il non essermi mancato acconci educatori pe’ miei figli, l’essermi
stati dati rimedi in sogno, e, fra gli altri, contro lo sputo di sangue e
contro le vertigini, e il non essere caduto nelle mani di un qualche sofista,
quando io venni in desiderio della filosofia, nè essermi posto a far lo
scrittore, o a risolver sillogismi, o a speculare sui fenomeni del cielo.
Le quali cose tutte richiedono l’aiuta degli dei e della fortuna.
Fra i Quadi, ulle sponde del Or amia. A FauRtiiia non dovè esser
diffìcile il celare coir astuzia o colla fìnta tenerezza! [Suoi
pessimi portamenti ad un nomo di sì poco sospettosa natura qual era
Antonino, massime verso dii mostravagli affeziono]. Al mattino, fa’ che tu
dica a te stesso. Avrò da fare con un curioso, con un ingrato, con un
soperchiatore, con un furbo, con un invidioso, con un insociale. Tutti
questi difetti han per causa la ignoranza dei beni e dei mali. Ma
io, il quale conosco la natura del bene, e so ch’egli è l’onesto; e
quella del male, e so cb’egli è l’inonesto; e quella di lui
medesimo che pecca, e so ch’egli è mio congiunto; non perch’egli
sia d’ uno stesso sangue o d’uno stesso seme con me, ma perchè
partecipa «r una stessa mente e d’ una stessa origine divina. Io
non posso ricever danno da nessun di loro. Giacché nessuno mi farà
incappar mai nell’inonesto malgrado mio; nè adirarmi posso col mio congiunto,
nè diventargli inimico; perchè NOI SIAM NATI PER COOPERARE L’UN COLL’ALTRO, siccome
i piedi, siccome le mani, siccome le palpebre, siccome i denti di sopra e
i denti di sotto. E però l’andare a ritroso l’ un dell’altro è cosa contro
natura, ed è uno andare a ritroso lo adirarsi l’un coll’altro
e l’aversi in dispetto. Questo checchessia, che io mi sono, è un
composto di carni, di fiato, e della parte sovrana. Lascia stare i
libri; non travagliartene più; non ne hai più il tempo. Ma, come quegli
che sei presso a morire, metti le carni in non cale; elle non sono
altro che sangue, ossicini, e una rezza, per così dire, di nervi, di vene
[La parte sovrana, cioè la ragione o la mente e d’arterie. Vedi anche il
fiato che cos’è: imvento; e non sempre il medesimo, ma di continuo
rigettato e rinnovellato. Rimane la parte sovrana. A questa hai da
badare. Tu sei vecchio. Non lasciare che ella serva più oltre. Non
lasciare che ella sia tirata più oltre, quasi fantoccino, da
appetizioni insociali; non lasciare che ella contraddica più oltre al destino,
0 crucciandosi delle cose presenti o respignendo da sè le cose
avvenire. Le opere degli dei sono ripiene di provvidenza. Le opere
della fortuna non sono infuori della natura, cioè di quella
coordinazione e connessione di cause cui la provvidenza governa. Tutto
scaturisce di là. Aggiugni che quanto è, di necessità è, ed è utile all’ universo
di che tu sei parte. Ora, ad ogni parte della natura è buono ciò che porta
la natura comune e che è sostentativo di quella. E sostentano il mondo,
siccome le mutazioni degli elementi, cosi ancora le mutazioni dei
composti di essi elementi. Queste cose ti bastino, queste sieno sempre
mai le tue ferme credenze. E caccia via quella tua sete di libri,
affinchè tu non muoia morando, ma sereno e ringraziando gli dei
sinceramente e di cuore. Ricordati da quanto tempo tu vai differendo
queste cose, e quante volte, avendo ricevuto opportunità dagli dei,
non te ne sei valuto. E convien pure che tu riconosca una volta di
qual mondo fai parte e da quale reggitor del mondo sei emanato; e siccome
un tempo ti è prefìsso, del quale se tu non fai uso per acquistare la
tranquillità dell’ animo, egli passerà, e tu passerai, e non sarà
più. per ritornare. Sii sempre INTENTO AD OPERAR GAGLIARDAMENTE DA ROMANO
E DA MASCHIO QUAL SEI, quel che hai por le mani, con serietà diligente e
non punto affettata, con amorevolezza, con libertà, con integrità; e
sgom-bra l’animo tuo da ogni altra cui*a. Lo sgombrerai, se farai ciascuna
tua azione come se fosse l’ultima della tua vita, scevra affatto di
leggerezza, e di avversione appassionata ai consigli della ragione, e di
doppiezza, e di amor proprio, e di scontentezza per le cose
condestinate ab eterno con te. Vedi quanto poco ci vuole perchè altri
possa vivere una vita avventurosa e accetta agli dei! Chè di fatti
gli dei non richiederanno nulla più da chi osserva cotesto. Disonorati
su, disonorati, o anima; d’onorarti poi, non ti rimarrà più tempo. Perchè
tanto di bene ha ciascheduno, quanto la sua vita glie ne arreca; e
tu hai pressoché consumato la tua, non già rispettando. Con/’ala/ia, disse
CICERONE usando anch’egli una voce ignota sinallora ai latini. 2t)
te medesima, ma riponendo nelle anime altrui la tua felicità. Se’
tu svagato dalle impressioni del di fuori? Concedi agio a te stesso
di imparare alcun che di buono, o cessa dall’errare qua e là. Ornai
anche hai da guardarti da un secondo svagamento. Perchè vaneggiano anche
con le azioni gli uomini stanchi della vita e non aventi uno scopo a
cui dirigano ogni loro sforzo ed ogni lor pensiero qualunque. Per non
avere avvertito ciò che succede nell’anima d’un altro, di rado
l’uomo fu mai veduto infelice, ma chi non avverte i moti dell’ anima
propria, è infelice di necessità. Queste ione conviene avere a mente
sempre. Quale è la natura dell’universo e quale la mia. Qual relazione ha
questa con quella. Qual parte è del tutto e di qual tutto. E come
nessuno può impedirti dal far sempre E DIRE ciò che è consentaneo alla
natura di che sei parte. Filosoficamente Teofrasto, nel paragone
ch’ei fa dei peccati, secondo che volgarmente si suole, afferrna esser
più gravi le colpe che si commettono PER CONCUPISCENZA che non quelle che si commettono PER
IRA. Imperocché non senza un certo dolore e raggricchiamento segreto
deir animo mostra l’uomo adirato ch’egli si torca dalla ragione; laddove
CHI PECCA PER CONCUSPISCENZA, VINTO DAL PIACERE, sembra, in un certo modo, più
intemperante e più EFFEMINTATO nel fallo. Rettamente adunque e con molta
filosofia dice egl’essere maggiore la colpa di chi PECCA CON PIACERE che non di
chi pecca con dolore. Ed infine,’ uno rassomiglia piuttosto a
persona ingiustamente [volgarmeutu: detto por opposiziono al dettato
stoico, essere i peccati uguali. olTesa, che il dolore abbia sforzato a
sdegnarsi. Ma l’altro si muove spontaneo e da per sè all’ingiustizia, recandosi
PER CONCUPISCENZA a far
checchessia. Convien pensare ed operare ogni cosa come se tu dovessi
uscir di vita in quell’ ora. Uscir di vita, se ci sono gli Dei, non è
punto cosa tremenda. Da che non è possibile ch’essi ti vogliano fare
incappar nel male e se non ci sono, o se non curano le cose umane, a
che vivere in un mondo orbo di provvidenza e d’Iddei? Ma e ci sono
gl’iddei, e si piglian cura dell’uomo; e perch’egli non inciampasse
nei mali veri, posero in arbitrio di lui la cosa; dei rimanenti se alcun
fosse male, a quello ancora avrian provveduto, sì che potesse
ognuno guardarsene. Ma quello che non fa peggiore l’uomo, come farebbe
peggiore la vita dell’uomo? Oltre che la natura dell’ universo non saria stata
mai trascurata A TAL SEGNO non, perdi ella non sapesse; non, perchè
sapendo non potesse); non saria mai, dico, nè per impotenza nè per
disavvedutezza incorsa in tanto errore da lasciare che i beni e i mali
toccassero del pari e senza differenza nessuna ai buoni ed ai
tristi. E pur noi veggiamo che la morte e la vita, la gloria e l’infamia,
il dolore e il piacere, le ricchezze o la povertà, cose tutte che non sono
nè oneste nè inoneste, toccano senza differenza ai tristi ed ai buoni.
Adunque, nè benf olle sono nè mali. Come tosto svanisce e va a
per- dersi ogni cosa, nel vortice del mon- do i corpi, e nello
avvicendarsi del tempo la memoria di quelli! quali sono tutte le
cose sensibili, e mas- simamente quelle clic adescano col piacere o
atterriscono col dolore o sono dalla vanità degli uomini celebrate!
quanto son vili, dispregevoli, sucide, corrottibili, morte! questo
è . da considerare per una facoltà intel- lettiva: che cosa son
coloro le opi- nioni dei quali e le voci distribui- scono la fama;
che cosa è il morire; e siccome, chi lo considera solo da per sè,
separandolo con la mente da tutto ciò che la fantasia v’ ha aggiunto, non
se ne fa più concetto se non come di operazione della natura: ora
il temere un’ operazione della na- tura è cosa da fanciullo. E
questa non solo è operazione della natura, ma operazione utile a
quella. In che maniera 1’ uomo comunica con Dio, e per qual parte
di sè; e come disposta debb’ essere allora questa parte dell’
uomo. Non v’ ha misero al pari di colui che va esplorando in giro
ogni cosa, come disse quell’ altro, anche le cose di sotterra, e
vuol penetrare, per via di congetture, ciò che sta nell’ animo del
vicino, senza accor- gersi che gli basterebbe pure tenersi accanto
al genio che è in- lui, e servir quello di cuore. Servire il genio che è
in noi,' vuol dire mantenerlo netto di passione, di operar teme-
rario, e di scontentezza per cosa che venga dagli Dei o dagli uomini.
Per- chè quel che viene dagli Dei è ve- nerabile, per la virtù eh’
è in loro: quel che vien dagli uomini è ami- chevole, per la
parentela che abbiam con loro; e talvolta anche compas- 1 sionevole
per l’ ignoranza in che ' sono de’ beni e dei mali; cecità non
minore di quella che impedisce di scernere il bianco dal nero. Quand’
anche tu avessi a vivere tre migliaia d’ anni ed altrettante
diecine di migliaia, sovvengati non- dimeno che r uomo non perde
altra vita che quella eh’ egli vive, nè vive ' Inteudi la
ragione. altra vita che quella ch’egli perde. Ad uno stesso
fine adunque riescono e la più lunga vita e la più breve. Perchè il
presente è uguale per tutti, se bene non è uguale lo spazio di vita
insino allora trascorso; e così appare che il tempo che l’ uom
perde è un momento indivisibile. Nè il pas- sato di fatti nè il
futuro non può perdere egli mai; come perdere ciò che non ha? Di
questi due punti adunque ti hai da ricordare; l’uno, che il mondo
va eternalmente sem- pre ad un modo, ravvolgendosi come in un
cerchio, e che non v’ ha dif- ferenza dal vedere le stesse cose per
cento anni al vederle per dugehto o per la infinità dei secoli; l’ altro,
che ugual vita perde e chi muor decrepito e chi muore'per
tempissimo; perchè il presente è la sola vita che venga lor tolta,
essendo la sola che ciascun d’ essi abbia, e nessuno non potendo
perdere quel che non ha. Siccome tutto è opinione. È noto il detto di
Monimo il cinico. E nota anche V utilità di quello, chi ne colga il
midollo per insino ai confini del vero. L’anima umana fa onta a sè
stessa, primieramente quando ella; diventa, per quanto sta in lei,
come chi dicesse un apostema o tumore del mondo, ritraendosi da
quello co- me fan gli umori guasti dal corpo. Perchè il crucciarsi di un
accidente qualunque è un ritrarsi dalla natura univei-sale, dentro
alla quale son contenute, siccome parti di quella, tutte le nature
degli altri. In secondo luogo, quando ha avversione a un [Diceva
che] [Ogni nostra opinione è fumo e boria. “Apostema” in greco vuol dire ad un
tempo ed apostema e ritiramento. È solenne agli stoici il torre
esempi, nelle cose morali, dalla natura fisica, siccome quella in cui
è contenuta, secondo loro, ancho la natura morale. qualche uomo, od
anche se gli volge contro per nuocergli, come le anime degli
adirati. In terzo luogo ella fa onta a sè stessa quando si lascia
vin- cere dal piacere o dal dolore. Quarto, quando ella s’ infinge
ed opera o parla con simulazione e contro la verità. Quinto, quando
ella non in- dirizza a nessuno scopo una qualche sua azione o una
qualche sua deter- minazione di volontà, ma opera a caso e senza
sapere che cosa si fac- cia; laddove nè anche le minime cose non
(iovrian farsi mai se non con rela- zione al fine. E il fine degli
animali ra- gionevoli è il conformai'si alla ragione e legge della
più antica fra le città e le repubbliche e della più veneranda. Della
vita umana, la durata è un punto; la materia, fluente; il senso,
tenebre; la compagine di tutto il corpo, corruzione; l’anima,* un
La città e repubblica del mondo. Per anima qui non s' intendo
certamente ap^gintrsi perpetuo; la fortuna, cosa mala a prevedere;
la fama, cosa senza giudizio. E a dirla in breve, ciò che riguarda
il corpo, è un torrente; ciò che riguarda l’ anima, so- gno e fumo; la
vita tutta intera, guerra e pellegrinaggio; e la rino- manza che le
vien dopo, oblio. Che i adunque v’ ha a cui tu ti possa atte- nere?
Sola ed unica una cosa; la filosofia. E questa consiste nel custo-
dire per tal modo il genio interno, eh’ egli non riceva nè onta nè
danno, sia superiore al piacere e alla pena, non operi nulla a
caso, nè infìnta- mente 0 con animo d’ ingannare, nè abbia bisogno
mai che altri faccia o non faccia checchessia; inoltre ac- cetti
ogni avvenimento a lui desti- r anima ragionevole, nè la mente, o
la parte sovrana, o il genio interno menzionato nelle, linee
segnenti; ma solamente il principio della vita animale [Una distinzione è fatta
distinzione fra corpo, anima e mente. nato siccome cosa che gli viene
di colà d’ onde è venuto egli stesso; sovra tutto poi, aspetti la
morte con mente serena, siccome nulla più che dissoluzione degli
elementi onde ogni animale è composto; ai. quali se non è grave lo
essere trasmutati di conti- nuo r uno nell’ altro, per qual ca-
gione si avrà ella a temere la tras- mutazione e la dissoluzione d’
essi tutti in una volta? Ella è cosa se- condo natura; e nulla che
sia se- condo natura non è mai un male. Tn Carnvnto, Non
solamonte è da considerare che la vita si va consumando ogni dì, e che
sempre ce ne riman meno, ma eziandio che egli è incerto, ove ancor l’uomo
viva lungamente, s’egli avrà sempre vigor 'di mente che basti per la intelligenza
degli affari e la contemplazione che ha per iseopo la conoscenza
delle cose divine ed umane. Perchè, quan- do egli incominci a
vaneggiare, non cesserà però, egli è vero, nè di tra- spirare, nè
di nudrirsi, nè di avere immaginazioni, nè appetiti, nè altre cose
di tal fatta; ma valersi di sè stesso, ma avvertire distintamente
tutti i numeri * del dovere, ma chia- rire i propri concetti, ma, quel
che importerebbe allora, deliberare se sia già tempo per lui di
andatene,® e quante altre cose richieggono una raziocinativa molto
bene esercitata, cotesto non potrà egli più, chè la facoltà sarà
spenta anzi tempo. Con- viene adunque affrettJirsi, non sola- mente
perchè ci facciamo ognora più vicini alla morte, ma ancora perchè
cessano in noi anzi il finir della vita la intelligenza e la com-
prensione delle cose. È degno pure d’ osservazione che anche quelle
cose le quali sono un mero accompagnamento necessario [‘Onesto’
chiamano gli stoici il perfetto bene per lo avere esso tutti i numeri che
la natura richiede.] [Secondo gli stoici non dovea rimanere in vita
r nomo che non potea più adempire gli uffici d’uomo] d’ ima operazione
della natura hanno un non so che di grazioso e di dilettevole. Per
esempio, cocen- dosi il pane, si screpola in certi luo- ghi. Or
bene, anche quelle così fatte screpolature che stan là, per così
dire, fuori dell’ intenzione del for- naio, hanno un certo garbo o
muo- vono r appetito in un certo modo lor proprio. Ancora i fichi,
quando sono ben maturi, si aprono. E nelle ulive lasciate lunga
pezza in su V al- bero, quello stesso essere già vicine a
corrompersi, aggiugne al frutto una certa bellezza particolare. E
le spighe che s’ inchinano, e la guar- datura del leone, e la
schiuma che esce fuori di bocca al cinghiale, e molte altre cose le
quali, considerate da per sè, sono lontane da ogni bellezza, nondimeno,
perch’ elle accom- pagnano necessariamente un’ opera della natura,
aggiungono a quella ornamento e dilettano altrui. Di maniera che, chi
avesse altezza d’ in- gegno e considerasse ad una ad una le cose
che accadono nell’ universo mondo, nessuna ne troverebbe per
avventura, anche di quelle che sono mera conseguenza- necessaria
delle altre, la quale non gli paresse farsi con una certa grazia.
Costui vedreb- be la gola spalancata d’ una fièra viva con non meno
piacere che quando gli scultori o i pittori glie la fan vedere
imitata; e nelle vecchiarelle e nei vecchi scorgerebbe un certo che
di finito e di maturo non meno piacevole ai casti occhi di lui che
là venustà dei fanciulli; e molte altre cose gl’ incontrerebbe di vedere,
che non fan senso in tutti, ma solamente in chi s’ è veramente
addimesticato con la natura e con le opere di
quella. Ippocrate cura di molti ammalati. Poi s’ammala egli stesso,
e muore. I caldei predicono a molti la morte, e poi venne anche per
loro la morte. Alessandro e Pompeo e Giulio Caio Cesare, i quali
distrussero dalle fondamenta le tante città, e tagliarono a pezzi in
giornata campale le tante migliaia di cavalli e di fanti, usceno poi
anch’essi di vita, alla fine. Eraclito, dopo avere con tanta sapienza e
ragioni naturali discorso intorno alla conflagrazione del mondo, gonfiatosegli
d’acqua il corpo, coperto di letame se ne muore. DEMOCRITO e spento da’
pidocchi, SOCRATE da pidocchi d’ un’ altra sorta. Che è ciò? Ti se’
imbarcato, hai navigato, sei giunto; esci di nave. Se per andare ad un’altra
vita, nessun luogo è vuoto di iddii, e nè anche [Diogene Laerzio
narra che Democrito mori di vecchiaia. LUCREZIO, che nscì spontaneamente
di vita, perchè sente il suo spirito indebolirsi per effetto degli
anni. Non trovasi nota alcuna tradizione che concordi con ciò che
qui dice Antonino] quello dove vai; se per rimanere senza
sentimento, avrai finito di soffrire i dolori E I PIACERI e di dovere andare a
versi ad un vaso che è di tanto inferiore a quel che gli serve. Perchè
l’ uno è mente e genio, e l’altro è terra e sangue. Non consumare
quella porzione che ti rimane di vita nel pensare ai fatti altrui,
ogni volta che tu noi faccia con un fine di comune utilità. Cioè nello
andar fantasticando che cosa opera il tale e per qual cagione, e che
dice, e che pensa, e che macchina, e somiglianti cose, le quali tutte ti
fan deviare dalla custodia della tua parte sovrana. Conviene adunque
guardarsi, nella succession dei pensieri, dall’ozioso e dal vano, ma
molto ancora^più dal curioso e dal maligno; ed avvezzar sè stesso a
pensar solo tali cose che, quando altri, all’improvviso ti domandasse, che
pensi ora? Tu possa risponder tosto e senza tema. Questo, o quest’altro.
Onde appaia subito manifestamente non avervi nulla in te che non sia
schietto e benevolo, nulla che non convenga ad animai socievole; il
quale non si compiace nelle immaginazioni di piacere o di godimento
qual eh’ ei sia, o di gaiti o d’invidia o di sospetto, o di qua-
lunque altra cosa ti facesse arrossire quando tu avessi a confessare
che l'avevi in mente. Un uomo di tal fatta, il quale non indugia d’
oggi in domani a por sè nel novero degli ottimi, è come un
sacerdote e un ministro degli Dei, devoto, non meno che agli altri,
a quello che ha il suo tempio in lui medesimo; per virtù del quale
l’ uomo diventa inconta- minabile ad ogni jiiacere, invulne- rabile
ad ogni dolore, inviolabile ad ogni ingiuria, insensibile ad ogni
malizia, sostenitore in campo della massima fra le imprese, quella
del non essere abbattuto da nessuna passione, imbevuto di giustizia
in- sino al fondo, disposto ad accogliere con tutta r anima quanto
accàSe e gli vien destinato, e non occupan- tesi se non di rado nè
mai senza una grande e pubblica necessità, di CIÒ che altri fa o
dice o pensa; perch’ egli non ha altre azioni in sua balìa che le
proprie, e pensa conti- nuamente alle cose che il fato del- r
universo gli arreca; per far si che le prime sieno oneste, siccome
ha fede che le seconde sien buone; quando la sorte attribuita all’
uomo procede dalla stessa causa che l’ uo- mo e concorre insieme
con 1’ uomo ad un medesimo fine. Sa inoltre che tutti gli esseri
ragionevoli han pa- rentela fra loro; che è quindi con- forme alla
natura dell’ uomo il tener cura di tutti; benché non sia da far
conto deir opinione di tutti, ma solo di coloro che vivono secondo
natura. Quanto a quelli che vivono altra- mente, egli tien sempre a
memoria che sorta cT uomini sono, e quali, e in casa e fuor di
casa, e di notte e di giorno, si dimostrano, e con quali praticano;
non ha quindi in pregio nessuno la lode che gli può venire da
tallente, la quale nè anche a sè stessa non piace. 5. Non
operar mai nè contro al tuo volere, nè senza relazione al bene
della società, nè senza avere esaminato la cosa, nò con renitenza;
non adornare con isquisitezza di frasi il tuo pensiero: non esser uomo
nè di molte parole, nè di molte faccen- de.' Ancora, fa’ che il Dio
tuo in- terno abbia a governare in te un animale maschio,
attempato, citta- dino, romano, imperatore, apparec- chiato di
tutto punto, siccome quegli che non aspetta ornai se non il suono Di
molte faccende in cattivo senso, come chi dicesse faccendone, o
faccendiere. della tromba* per uscir della vita, e non occorre
sforzarlovi nè col giu- ramento, nè con la testimonianza (f altr’uomo;
nel lieto aspetto del quale ben si scorge non avere egli bisogno nè
dell’ aiuto che vien dal di fuori, nè della tranquillità che gli
altri procurano. Conviene adunque esser ritto in piedi già, e non
riz- zarui solamente. Se tu trovi qualche cosa di meglio nella vita
dell’ uomo che la giustizia, che la verità, che la temperanza. che la fortezza,
e, in una pa- rola, che quella disposizione della mente per cui
ella si appaga di sè medesima nelle cose die ti fa ope- rare
secondo la retta ragione,, e del fato, nelle cose che senza
parteci- pazione della tua volontà ti vengono distribuite; se,
dico, tu trovi alcun che di meglio che questo, a quello 1
Similitudine tolta dagli ordini della milizia appo i Romani. voiti con
tutta l’ anima e godine siccome di cosa che hai ritrovato esser
l’ottima. Ma se nulla ti si presenta di meglio che il genio stesso tuo
interno, quando si è fatto signore de’ propri moti, e rivoca ad
esame le proprie immaginazioni, e si è sot- tratto^ come dice
SOCRATE, dalle passioni del senso, e vive sottomesso . agli Dei e
pigliandosi cura degli uomini. Se, a paragone di questa, tutte . le
rimanenti cose ti paion picciole e vili, non dar più luogo appresso
te a nessuna altra, alla quale una volta che tu ti sentissi
propendere, più non potresti senza repugnanza preferire a tutti quel
bene che è proprio di te ed è il tuo; perchè al bene j’azionale ed
efficiente non vien contrapposto impunemente mai nulla che sia di
natura diversa, come le lodi della moltitudine, o il comandare, o i
piaceri del senso; tutte queste cose, per poco che le si paiano
Ò1 adattare,' ti sopralfamio in un attimo e ti
strascinano. Or tu, dico io, sce- gli schiettamente e liberamente
il meglio, e a quello ti attieni. — Ma il meglio è l’utile. Se
l’utile all’uomo in quanto è ragionevole, bene sta, quello procura: se l’
utile all’ uo mo in quanto animale, dillo su aper- tamente e vivi di poi
senza boria nò fasto, secondo quella determinazio- ne. Ma bada,
ve’, che non ti inganni nell’ esame. Non riguardare giammai come i
[Par ch’Antonino alluda qui alla teoria dell’adattare le nozioni generali
alle cose particolari, o, del concetto alla rappresentazione, che è ciò
in che consisto il giudizio]. Dillo spiattellatamente, se ardisci,
senza avvolgerti in parole coperte: e ammetti poi tutte le
conseguenze di quel tuo detto: cioè, vivi poi da animale mero e puro,
senza in- gerirti a parlare nè di moralità nè di virtù nè di
giustizia, nè d* altro simile, che in quel caso sarebbero un vano fasto
di parole. E provocazione al senso intimo dell'uomo. Utile a te nulla che sia
per isforzarti un dì a violar la fede, abbandonare il pudore,
odiare alcuno sospettare, maledire, simulare, desiderar cosa j che
abbia bisogno di pareti e di ve- lame. Chi ha posto innanzi ad ogni
altra cosa la sua mente e genio, e il culto della virtù eh’ è propria
di quello, non fa tragedie, non geme, non ha bisogno di solitudine,
non di frequenza d’ uomini; quel che più impoita, vive senza
ricercar nulla nè fuggire; abbia ad esser lungo o, abbia ad esser
corto Tintèrv^allo di tempo durante il quale sarà conte- nuta nel
corpo l’ anima con che egli lia a fare,' non se ne piglia nè an-
clic il minimo pensiero; e quando Con che egli ha a fare. Non veggo
che cosa abbia voluto dire l’ornato. [Il senso letterale del testo
è: sia lungo o sia breve il tempo, eh' egli avrà a far uso dell'
ani- ma contenuta nel corpo. Il che, parrai, equi- vale a dire: sia
lungo, o sia breve il tempo ch'egli ha a vivere. L’è giunta l’ora dello
sgombrare, cosi spiccio se ne va, come se imprendesse un’ altra qualunque
di quelle azioni che si possono con verecondia e con dignità
operare; da questo solo guardandosi per tutta la vita,, che veruno
dei moti della sua men- te non sia mai men che convene- vole ad
animale intelligente o sociabile. Nella mente dell’ uom castigato e
puro non troverai nulla di marcio, nè tampoco nulla di contaminato
o che paia sano al di fuori e noi sia. La vita di lui, a
qualsivoglia ora lo sorprenda la morte, non è mai imperfetta, come tu
diresti quella tragedia d’onde un attore si fosso riti- rato prima d’
aver condotto a fine la sua parte. Ancora non è in lui nulla di
villano, nè nulla di artata- mente gentile; nulla che il leghi alle
cose esteriori nè nulla che lo separi da quelle; nulla onde egli
sia palesemente ripreso,' nè nulla che covi addentro nascosto.
Abbi in rispetto la facoltà giudicativa.^ Per lei sta che non si ge- neri
nella tua parte sovrana nessuna opinione che non sia consona alla natura
o al fine per che 1’ uomo è ordinato. Ed essa promette la infallibilità, e
l’amicizia con gli uomini e l’ubbidienza agli Dei. Messe adunque da
banda tutte le altre cose, queste poche sole abbi in mente; ed
ancora ricordati che i r uomo non vive altro tempo che questo
presente, cioè un attimo; il rimanente o lo ha vissuto o non sa se
il vivrà. Picciola cosa pertanto è [Intendi: nulla che appaia manifestamente
vizioso. Ossia la virtù del non cadere in errore; che vien definita da Zenone la
scienza del quando conviene assentire ad i un' apparenza, e quando no.
Questa accompagna sempre il giudizio comprensivo, che è il criterio della
verità appo gli stoici. 0 Digitizedh, Cnoi^li: il tempo che
l’ uom vive, picciola cosa rangoletto della terra dov’egli vive. Picciola
cosa la fama anche la più lunga eh’ egli lascerà dietro sè, e questa
tramandantesi per successione d’ omiciattoli in omiciattoli, morti quasi
appena nati, ed ignari anche di sè medesimi, non che di colui il
quale moriva è già gran pezza. li. Agli avvertimenti dati sin
qui s’ aggiunga ancora quest’ uno, di de- finir sempre o descrivere
l’oggetto che cade sotto al tuo senso, si che tu lo scorga a parte
a parte distin- tamente e tutt’ insieme quale egli è nella sua
essenza nudo, e dir teco stesso il nome proprio di quello e il nome
delle cose di che è compo- sto e in che s’ ha da risolvere. Perchè non v’
ha nulla che sublimi cotanto l’animo quanto il potere arguire per la
diritta via e con verità ciascuna delle cose che incontrano nella
vita, e saperle vedere per ino» do da conoscere nello stesso tempo
di qual uso sendo questa tal cosa al mondo, e a qual mondo, qual
valore ha rispetto al tutto e quale rispetto air uomo, che è cittadino
della suprema fra le città, della quale le altre città sono' come
al- trettante famiglie. Che cosa è, e di che cosa è composto, e
quanto tempo è por duiare ij cesto che fa impres- sione ora sul mio
senso; di che virtù s’ ha da far uso con esso, per esem- pio, della
mansuetudine, della for- tezza, della veracità, della fede, della
semplicità, della frugalità, o simili. Però, intorno a ciascuna cosa,
con- vien dire: questa mi viene da Dio. Questa dalla sorte, dalla
complica- zione delle cause condestinate, e so- miglianti cose;
quest’ altra dal mio consorto, dal mio congiunto, dal partecipe d’
una stessa società con me, il quale ignora nondimenò ciò che è
secondo natura per lui. Ma 10 non lo ignoro; e però mi
governo con lui secondo la legge naturale della società, con
benevolenza e giu- stizia; e ad uno stesso tempo ho riguardo, nelle
cose mezzane,' al valore di ciascheduna. Se tu operi secondo la
retta ragione quel che hai fra mano, stu- diosamente, c
vigorosamente, placi- damente, e non t’ occupi d’ altra cosa tra
via, ma conservi puro ed intatto 11 genio tuo, come se tu dovessi
già rassegnarlo; se a lui ti tieni stret- Si chiamai! còse
mezzane appo gli stoici quelle che non sono nè ben nè male, cioè nè
virtù nè vizio. Le quali, comecché da per sè non meritino d' esser
cercato nè fug- gite, si accettano nondimeno o si rigettano per r
aiuto o disainto che elle possono ar- recare alla vita secondo natura.
Quelle che arrecan più aiuto, han più valore: quelle che più disainto,
più disvalore. Di questò ha da tener conto il savio, ed accettare,
quando gli è data la scelga, quelle che han più valore, o che han meno
disvalore. 0. Sottintendi « a chi tol diede. » to, nulla aspettando, da
nulla rifug- gendo, contentandoti dell’ azion tua presente secondo
natura e della eroi- ca verità d’ ogni cosa che tu dica:
felicemente vivrai. Ora non v’ ha nessuno' che ti possa questo
impedire. Come i medici han pronti sem- pre i loro ferri e strumenti
per le cure inopinate, così abbi tu alla mano i principi! * per la
cognizione delle cose divine ed umane; e non far nulla mai, per
poco che sia, senza ricordarti del legame che unisce queste con
quelle. Perchè nulla di umano farai tu bene se non lo ri- ferirai
al divino, e viceversa. Non andar più vagando; per- chè non sei per
rileggere oramai nè i tuoi ricordi, hè le azioni degli an- tichi
romani e greci, nè gli estratti Punti fondamentali di credenza,
cre- denze prime, dommi: decreta. appo CICERONE. d’ autori che riserbavi
per la vec- chiaia. Studiati dunque d’ arrivare al fine, e poste da
banda le spe- ranze vane, soccorri a te stesso, se pur ti cale di
te, mentre che il puoi. 15. Non sanno * quanti significati
abbiano le parole rubare, seminare, comperare, riposare, veder quel
che sia da fare, il che non si reca ad effetto con gli occhi, ma
con un’al- tra sorta di vista. Corpo, anima, mente; del corpo
son le sensazioni, deh’ anima le ap- petizioni, della mente le
credenze.^ Ricevere impressioni nella fantasia è cosa anche da
giumento; esser mosso da appetiti è cosa anche da fiera, anche da
androgino, anche da Falaride, anche da Nerone; avere per iscorta la
mente a quello che ci pare nostro ufficio, è cosa anche I
Sottintendi c gli nomini del volgo. Dommi, decréta. Intendi, a quello che ci
par eg$ere noda chi non crede che v’ abbiano Dei, da chi abbandona la
patria, da chi fa, quando ha chiuso le porte, ogni opera nefanda.
Se adunque tutte queste cose abbiam comuni cogli anzidetti, resta
che sia proprio dell’ uomo dabbene lo amare ed ab- bracciare gli
accidenti ad esso con- destinati e guardarsi dal macchiare e
turbare con immaginazioni sconce il genio che risiede nel petto di
lui, ma conservarlo propizio, seguendolo modestamente* come un
Iddio, non dicendo mai nulla che sia contro al vero, nè dicendo mai
nulla che sia contro al giusto. Che se nissuno ttro interene.
Questo è il significato generale della parola ufficio appo gli stoici.
Solo allor quando le si aggingne l'epiteto di perfetto denota essa
il dovere^ che è come V intereae iublime dell' uomo. Noto questo
perchè alcuni degli interpreti, e per ultimo anche il Corai, hanno
maravigliosamente scompaginato - e interpolato questo passo;
frantendendolo. V. Diog. Laerz.; Stobeo; Cic. de Officiùt otc. degli
uomini non gli vuol credere eh’ egli viva con semplicità, con ve-
recondia, e di buon animo; nè s’adira egli contro costoro, nè si svia
dalla strada che conduce al fine della yita. al quale si vuol
giunger puro, tranquillo, spedito, e conformato di vo- lontà col proprio
destino. La parte che dentro di noi regna, quando è nel suo stato
natu- rale, ha tal disposizione verso gli accidenti, che senza
difficoltà si rivolge sempre al possibile e al dato. Perch’ella non ama
nessuna mate- ria determinata; ma si porta con eccezione* a quello
che si ha pro- posto, e quando alcun che se le viene ad
attraversare per via, ella si fa di quello stesso materia; come il
fuoco, quando s’ impadronisce delle [La parte sovrana o dominante. [Eccezione:
vocabolo stoico. Indica limitazione del proponimento al possibile]. Farò
la tal cosa, se non sarò impedito] cose die incontra, dalle quali una picciola
lampana sarebbe spenta. Ma lo splendido fuoco assimila a sè tosto ogni
cosa che se gli butti dentro, e la consuma, e per quella stessa
s’in- nalza più in su. 2. Nessuna azione sia fatta a
caso mai, nè altrimente che secondo una delle regole costitutive
dell’arte. Van cercando ritiri, alla campa- gna, alla marina, sui monti;
e tu stesso suoli desiderare siffatti luoghi. Ma cotesto è da uomo
ignorantissi- mo, potendo tu, a quell’ ora che tu vuoi, ritirairti
in te stesso. Perchè [Ad ogni caso della vita corrispondo una virtù
da esercitare (vedi sopra, III, 11, e più abbasso, IX, 11, 42): ed ogni
virtù è appo gli stoici nna scienza nello stesso tempo ed un’ arte:
parlo delle virtù pro- priamente dette. Come scienza quindi e come
arte consta di certo proposizioni o re- gole, ciascuna delle quali è
parte integrante di quella, e tutto insieme" la costituiscono. Ogni
ufficio consta di corti numeri. inroRDi.«4 in nessuno altro luogo
si ritira l’ uomo con più tranquillità e con meno brighe che nell’ anima
sua; massi- mamente chi ci ha dentro tanto alti oggetti di
contemplazione che il solo affacciarsi a loro procaccia tosto ogni
sorta di agevolezza. Quan- do dico agevolezza, non voglio dir altro
che buon ordine. Concedi adun- que sovente a te questo ritiro e
rin- novella quivi te stesso. Breve sia r espressione ed elementare
la forma di quelle verità contemplative che avran forza di
rasserenare al primo incontro V anima tua c. rimandarti senza
corruccio alle cose alle quali ritorni. Perchè, di che cosa ti
coi'- rucci? Della malizia degli uomini? Rammentati di quella
sentenza, che gli esseri ragionevoli son fatti gli uni per gli
altri; che il sofferire è parte della giustizia; che malgrado loro
peccano; che tanti si son già inimi- cati, sospettati, odiati, perseguitatisi a morte, i quali ora
sono spenti, son fatti cenere; e te ne darai pace. 0 ti crucci tu
di quella parte che a te Vien compartita dell’ universale de-
stino? Rinnovella il dilemma. 0 è la provvidenza o son gli atomi,'
op- pure gli argomenti con che s’ è di- mostrato che il mondo è
come una città. Ma forse tu ti contristi delle affezioni del corpo?
Pensa che non han più nulla che fare con la mente i moti o sieno
soavi o sieno aspri del senso, ogni volta che questa s’ è raccolta in sè
medesima ed ha cono- sciuto la sua propria potenza; al che potrai
aggiugnere quelle altre cose che intorno al piacere e al dolore hai
apparato ed accettato per vere. 0 sarà forse T amor di gloria
quello che ti turba? Considera come è ratto Si allude
al sistema atomistico di- Epicuro, il quale ne- gava la previdenza,
e attribuiva il mondo e tutti i fenomeni del mondo ad una causa non
intelligente. l’oblio d'ogni cosa, interminato dal - runa parte e dall’
altra* il caos della età, vana cosa il rumore, mutabile, e
inconsiderato chi in apparenza ti‘ esalta, angusto il luogo dove è
cir- coscritto il suo dire. Perchè tutta la t.erra' è un punto: e
qual parte di essa è l’angoletto che tu abiti? e quivi ancora quanti
avrai lodatori, e quali? D’or innanzi adunque sov- vengati di
ritirarti in questa tua vil- letta di te medesimo; e sopra tutto,
non. t' affannare, non t’agitare, ma sii libero e vedi le cose da uomo,
da ‘ maschio, da cittadino, da mortale. Ed abbi in pronto, fra le
verità alle quali dovrai far ricprso, queste due principalmente: 1’
una, che le cose non arrivano sino all’ anima, anzi stanno al di
fuori immobili;* e i turbamenti nascono dalla sola opinione [A parte ante
e a parte pott come dice la scuola. [nione, che è dentro. L’ altra,
che quanto tu vedi già già si muta e più non è quel desso; e
rivolgi in mente ciascuna delle mutazioni alle quali tu stesso sei
inten'enuto. Il mondo^ alterazione. La vita, opinione. Se la
intelligenza ci è comune a tutti, anche la ragione per cui siam
ragionevoli ci è comune; se cotesto è, anche la ragione imperativa di ciò
che si dee fare o non fare ci è comune; adunque anche la legge ò
comune; aifunque siam concittadi- ni; adunque partecipiamo tutti ad
una specie di reggimento civile; adunque il mondo è come una città.
Perchè qual altro direm noi che sia quel reggimento civile di cui
tutto il genere umano partecipa? Di colà, da quella città comune,
viene a noi r intelligenza, la ragione, la legge, o d’ onde
verrebbon esse? perchè, siccome quanto v’ ha in me di terreo viene
da una certa terra di cui fa parte; e quanto v’ ha in me d’umido,
da un altro elemento; e quanto v’ha di caldo e d’ igneo, da una
certa sorgente propria (nulla venendo mai dal nulla nè ritornando
nel nulla); così anche la intelligenza dee venire da qualche
cosa. La morte è come la nascita, un mistero della natura. Composizione
e risoluzione di certi elementi in quegli elementi medesimi. Ad
ogni modo non è cosa di che1’
uomo debba arrossire; perchè non è cosa che repugni alla natura
dell’ animale intellettivo o disconsegua al principio della formazione di
quello. Tali cose debbono di necessità farsi in tal modo da questi
tali; chi le vuole altrimente, vuole che il fico non abbia
lattificcio. Del tutto, sovvengati che in brevissimo tempo e *
Intendi ripugni, non aia conforme. !'• tu e costui sarete morti: e
che, poco dopo, non rimarrà più di voi nè an- che il nome. Togli
via r opinione, ed è tolto via il « sono stato offeso: » togli via
il « sono stato offeso, » ed è tolta via r offesa. Quello che non
fa peggiore l’uomo non fa nè anche peggiore la vita di lui, nè le nuoce,
nè esternamente nè internamente. È necessitata dall’ utile ‘ la na-
tura a far cotesto. Siccome ogni cosa che accade, giustamente accade; il
che, se tu osserverai con attenzione, troverai 1 Comune. Più
letteralmente: « È necessitata la na- tura deir utile a far cotesto.» La
natura deir utile, cioè il principio sostanziale dell’utile (chè vuol
esser presa sostanzialmente in questo luogo la voce natura), il
quale evolvendosi, come ragion seminale, successivamente nel tempo, fa
che ogni cosa sia bene. Perchè non conviene dimenticar mai che,
appo gli stoici, l'utile non è altro che il bene. sempre vero: non
solamente, dico, secondo l’ordine di conseguenza, ma ancora secondo
l’ordine di giustizia; come se le cose procedessero da tale che
distribuisse a ciascuno secondo il merito. Osserva adunque, come
hai cominciato; ed ogni cosa che tu fai, falla con questa
condizione, che tu sia uom dabbene, nel vero signifi- cato della
parola dabbene. Questo carattere conserva in ogni tua azione. Non
concepir le cose quali le giudica colui che fa ingiuria, o quali
egli vuole che tu le giudichi; ma vedile quali sono in realtà. Conviene
esser sempre pronto a queste due cose; fai' solamente quello che la
ragion dell’ arte regia e legislativa ti suggerisce per 1’ uti-
lità degli uomini; e cangiar partito, quando altri viene a raddrizzarti
e rimuoverti da una qualche falsa opi- nione. Ma questo cangiamento
dee farsi sempre per un qualche motivo plausibile, come di giustizia,
o d’ utilità comune, o somigliante; e non mai perchè la cosa ti
piaccia o sia per arrecarti gloria. Hai la ragione? Si. Che
dunque non 1’ adoperi? Perchè, se essa fa quanto le spetta, che ti
resta a desiderare? Sei venuto al mondo qual parte; disparirai dentro al
tuo generatore. 0, piuttosto, ti raccoglierai nella ragion seminale di
lui, per via di mutazione. Molti grani d’ incenso su uno stesso
altare: l’uno è caduto prima e l’altro dopo. È lo stesso. Tra dieci
giorni parrai un Dio a coloro, ai quali pari ora una bestia e una
scimmia, se fai ritorno ai prin- cipii e al culto della ragione. Non
come se tu avessi a vi- vere molte migliaia d’ anni. La morte ti
sovrasta: mentre vivi, mentre ti è dato, fa’ che tu sia uom
dabbene. Di quante brighe si libera chi non bada a quello che ha
detto il vi- cino, o ha fatto, o ha pensato, ma solo a quello eh’
egli stesso fa, affinchè r opera sua sia giusta, e santa, e qual si
richiede dall’ uomo dabbene ! Non andar guatando attorno i
neri costumi, ma corrér diritto in sulla linea senza volgersi a destra
nè a manca. Chi vive abbagliato dal pensiero di lasciar fama dopo
morte, non considera come ciascun di quelli che si ricordano di lui
morrà tosto aneli’ egli, e poi ancora chi sarà a costui succeduto,
sinattantochè, pas- sando da abbagliato in abbagliato e da morente
in morente, venga a spe- gnersi affatto ogni memoria. Ma sup- poni
anche immortale chi s’ ha a ri- cordare di te, ed immortale la fama;
che fa ssi abbia, e nessuno non potendo perdere quel che non
ha. Siccome tutto è opinione. È « noto il detto di
Monimo il cinico. E nota anche V utilità di quello, chi ne colga il
midollo per insino ai confini del vero. L’anima umana fa onta a sè
stessa, primieramente quando ella; diventa, per quanto sta in lei,
come chi dicesse un apostema o tumore del mondo, ritraendosi da
quello co- me fan gli umori guasti dal corpo. Perchè il crucciarsi di un
accidente qualunque è un ritrarsi dalla natura univei-sale, dentro
alla quale son contenute, siccome parti di quella, tutte le nature
degli altri. In secondo luogo, quando ha avversione a un *
Diceva che «Ogni nostra opinione è fumo e boria. Apostema in greco
vuol dire ad un tempo ed apostema e ritiramento. È solenne agli
stoici il torre esempi, nelle cose morali, dalla natura fisica, siccome
quella in cui è contenuta, secondo loro, ancho la natura morale. qualche
uomo, od anche se gli volge contro per nuocergli, come le anime
degli adirati. In terzo luogo ella fa onta a sè stessa quando si lascia
vin- cere dal piacere o dal dolore. Quarto, quando ella s’ infinge
ed opera o parla con simulazione e contro la verità. Quinto, quando
ella non in- dirizza a nessuno scopo una qualche sua azione o una
qualche sua determinazione di volontà, ma opera a caso e senza sapere che
cosa si fac- cia; laddove nè anche le minime cose non (iovrian
farsi mai se non con rela- zione al fine. E il fine degli animali ragionevoli
è il conformai'si alla ragione e legge della più antica fra le città
e le repubbliche e della più veneranda. Della vita umana, la durata
è un punto; la materia, fluente; il senso, tenebre; la compagine di
tutto il corpo, corruzione; l’anima,* un [La città e
repubblica del mondo. Per anima qui non s' intendo certamente
ap^gintrsi perpetuo; la fortuna, cosa mala a prevedere; la fama,
cosa senza giudizio. E a dirla in breve, ciò che riguarda il corpo,
è un tor- rente; ciò che riguarda l’ anima, so- gno e fumo; la vita
tutta intera, guerra e pellegrinaggio; e la rino- manza che le vien
dopo, oblio. Che i adunque v’ ha a cui tu ti possa atte- nere? Sola
ed unica una cosa; la filosofia. E questa consiste nel custo- dire
per tal modo il genio interno, eh’ egli non riceva nè onta nè
danno, sia superiore al piacere e alla pena, non operi nulla a
caso, nè infìnta- mente 0 con animo d’ ingannare, nè abbia bisogno
mai che altri faccia o non faccia checchessia; inoltre ac- cetti
ogni avvenimento a lui desti- r anima ragionevole, nè la mente, o
la parte sovrana, o il genio interno menzionato nelle, linee
segnenti; ma solamente il principio ’ della vita animale. Vedi il § 16
del lib. Ili | dei Bicordi, ove è fatta distinzione fra corpo,
anima c mente. P. I nato siccome cosa che gli viene di colà
d’ onde è venuto egli stesso; sovra tutto poi, aspetti la morte con
mente serena, siccome nulla più che dissoluzione degli elementi onde
ogni animale è composto; ai. quali se non è grave lo essere
trasmutati di conti- nuo r uno nell’ altro, per qual ca- gione si
avrà ella a temere la tras- mutazione e la dissoluzione d’ essi
tutti in una volta? Ella è cosa secondo natura; e nulla che sia se- condo
natura non è mai un male. Tn Carnvnto, Non solamonte è da
considerare che la vita si va consumando ogni dì, e che sempre ce ne
riman meno, ma eziandio che egli è in- certo, ove ancor 1’ uomo
viva lunga- mente, s’egli avrà sempre vigor 'di mente che basti per
la intelligenza degli affari e la contemplazione che ha per iseopo
la conoscenza delle cose divine ed umane. Perchè, quan- do egli
incominci a vaneggiare,* non cesserà però, egli è vero, nè di tra-
spirare, nè di nudrirsi, nè di avere immaginazioni, nè appetiti, nè altre cose
di tal fatta; ma valersi di sè stesso, ma avvertire distintamente
tutti i numeri * del dovere, ma chia- rire i propri concetti, ma, quel
che importerebbe allora, deliberare se sia già tempo per lui di
andatene e quante altre cose richieggono una raziocinativa molto bene
esercitata, cotesto non potrà egli più, chè la facoltà sarà spenta
anzi tempo. Con- viene adunque affrettJirsi, non sola- mente perchè
ci facciamo ognora più vicini alla morte, ma ancora perchè cessano
in noi anzi il finir della vita la intelligenza e la com- prensione
delle cose. È degno pure d’ osservazione che anche quelle cose le
quali sono un mero accompagnamento neces- [“Onesto” chiamano
(gli stoici) il perfetto bene per lo avere esso tutti i numeri che
la natura richiede. Secondo gli stoici non dovea rimanere in vita r
nomo che non potea più adempire gli uffici d’uomo, 0. ] sario d’ ima
operazione della natura hanno un non so che di grazioso e di
dilettevole. Per esempio, cocen- dosi il pane, si screpola in certi
luo- ghi. Or bene, anche quelle così fatte screpolature che stan
là, per così dire, fuori dell’ intenzione del for- naio, hanno un
certo garbo o muo- vono r appetito in un certo modo lor proprio.
Ancora i fichi, quando sono ben maturi, si aprono. E nelle ulive
lasciate lunga pezza in su V al- bero, quello stesso essere già
vicine a corrompersi, aggiugne al frutto una certa bellezza
particolare. E le spighe che s’ inchinano, e la guar- datura del
leone, e la schiuma che esce fuori di bocca al cinghiale, e molte
altre cose le quali, considerate da per sè, sono lontane da ogni
bel- lezza, nondimeno, perch’ elle accom- pagnano necessariamente
un’ opera della natura, aggiungono a quella ornamento e dilettano
altrui. Di maniera che, chi avesse altezza d’ in- gegno e considerasse ad
una ad una le cose che accadono nell’ universo mondo, nessuna ne
troverebbe per avventura, anche di quelle che sono mera
conseguenza- necessaria delle altre, la quale non gli paresse farsi
con una certa grazia. Costui vedreb- be la gola spalancata d’ una fièra
viva con non meno piacere che quando gli scultori o i pittori glie
la fan vedere imitata; e nelle vecchiarelle e nei vecchi
scorgerebbe un certo che di finito e di maturo non meno piacevole
ai casti occhi di lui che là venustà dei fanciulli; e molte altre
cose gl’ incontrerebbe di vedere, che non fan senso in tutti, ma
solamente in chi s’ è veramente addimesticato con la natura e con
le opere di quella. Ippocrate curò di molti ammalati, e poi s’
ammalò egli stesso e muore. I caldei predissero a molti la morte, e
poi venne anche per loro la morte. Alessandro e Pompeo e Caio
Cesare, i quali distrussero dalle fondamenta le tante città, e
taglia- rono a pezzi in giornata campale le tante migliaia di
cavalli e di fanti, uscirono poi anch’ essi di vita, alla fine.
Eraclito, dopo avere con tanta sapienza e ragioni naturali discorso
intorno alla conflagrazione del mondo, gonfiatosegli d’acqua il corpo,
coperto di letame se ne morì. DEMOCRITO e spento da’ pidocchi, SOCRATE da
pidocchi d’ un’ altra sorta. Che è ciò? Ti se’ imbarcato, hai na-
vigato, sei giunto; esci di nave. Se per andare ad un’ altra vita,
nessun luogo è vuoto di Iddii, e nè anche [Diogene Laerzio
narra che Democrito mori di vecchiaia; Lncrezio, che nscì spontaneamente
di vita, perchè sentiva il suo spirito indebolirsi per effetto degli
anni. Non trovasi nell' antichità a noi nota alcuna tradizione che
concordi con ciò che qni dice Antonino. P. quello dove vai;
se per rimanere senza sentimento, avrai Unito di sof- frire i
dolori e i piaceri, e di dovere andare a versi ad un vaso che è di
tanto inferiore a quel che gli serve. Perchè l’ uno è mente e genio,
e r altro è terra e sangue. Non consumare quella porzione che
ti rimane di vita nel pensare ai fatti altrui, ogni volta che * tu
noi faccia con un fine di comune utilità; cioè nello andar
fantasticando che cosa opera il tale e per qual cagione, e che
dice, e che pensa, e che mac- china, e somiglianti cose, le quali
tutte ti fan deviare dalla custodia della tua parte sovrana.
Conviene adunque guardarsi, nella succession dei pensieri, dall’
ozioso e dal vano, ma molto ancora^più dal curioso e dal maligno;
ed avvezzar sè stesso a pensar solo tali cose che, quando altri,
all’ improvviso ti domandasse, che pensi ora? tu possa
risponder tosto e senza tema: questo, o que- st’ altro; onde appaia
subito mani- festamente non avervi nulla in te che non sia schietto
e benevolo, nulla che non convenga ad animai socievole; il quale
non si compiace nelle immaginazioni di piacere^ o di godimento qual
eh’ ei sia, o di gaiti o d’invidia o di sospetto, o di qua- lunque
altra cosa ti facesse arrossire quando tu avessi a confessare che
l'avevi in mente. Un uomo di tal fatta, il quale non indugia d’ oggi
in domani a por sè nel novero degli ottimi, è come un sacerdote e
un ministro degli Dei, devoto, non meno che agli altri, a quello
che ha il suo tempio in lui medesimo; per virtù del quale l’ uomo
diventa inconta- minabile ad ogni jiiacere, invulne- rabile ad ogni
dolore, inviolabile ad ogni ingiuria, insensibile ad ogni malizia,
sostenitore in campo della massima fra le imprese, quella del non
essere abbattuto da nessuna passione, imbevuto di giustizia in-
sino al fondo, disposto ad accogliere con tutta r anima quanto accàSe
e gli vien destinato, e non occupan- tesi se non di rado nè mai
senza una grande e pubblica necessità, di CIÒ che altri fa o dice o
pensa; per- ch’ egli non ha altre azioni in sua balìa che le
proprie, e pensa conti- nuamente alle cose che il fato del- r
universo gli arreca; per far si che le prime sieno oneste, siccome
ha fede che le seconde sien buone; quando la sorte attribuita all’
uomo procede dalla stessa causa che l’ uo- mo e concorre insieme
con 1’ uomo ad un medesimo fine. Sa inoltre che tutti gli esseri
ragionevoli han pa- rentela fra loro; che è quindi con- forme alla
natura dell’ uomo il tener cura di tutti; benché non sia da far
conto deir opinione di tutti, ma solo di coloro che vivono secondo
natura. Quanto a quelli che vivono altra- mente, egli tien
sempre a memoria che sorta cT uomini sono, e quali, e in casa e
fuor di casa, e di notte e di giorno, si dimostrano, e con quali
praticano; non ha quindi in pregio nessuno la lode che gli può
venire da tallente, la quale nè anche a sè stessa non piace. Non
operar mai nè contro al tuo volere, nè senza relazione al bene
della società, nè senza avere esaminato la cosa, nò con renitenza;
non adornare con isquisitezza di frasi il tuo pensiero: non esser uomo
nè di molte parole, nè di molte faccende.' Ancora, fa’ che il Dio tuo
in- terno abbia a governare in te un animale maschio, attempato,
citta- dino, romano, imperatore, apparec- chiato di tutto punto,
siccome quegli che non aspetta ornai se non il suono Di molte
faccende in cattivo senso, come chi dicesse faccendone, o faccendiere. della
tromba* per uscir della vita, e non occorre sforzarlovi nè col giu-
ramento, nè con la testimonianza (f altr’ uomo; nel lieto aspetto
del quale ben si scorge non avere egli bisogno nè dell’ aiuto che
vien dal di fuori, nè della tranquillità che gli altri procurano.
Conviene adunque esser ritto in piedi già, e non riz- zarui solamente.
6. Se tu trovi qualche cosa di me- • glio nella vita dell’ uomo che
la giu- stizia, che la verità, che la tempe- ranza. che la
fortezza, e, in una parola, che quella disposizione della mente per cui
ella si appaga di sè medesima nelle cose die ti fa ope- rare
secondo la retta ragione,, e del fato, nelle cose che senza
parteci- pazione della tua volontà ti vengono distribuite; se,
dico, tu trovi alcun che di meglio che questo, a quello [Similitudine
tolta dagli ordini della milizia appo I ROMANI. 0Virco \urcIio. rivolgiti
con tutta l’ anima e godine siccome di cosa che hai ritrovato esser
V ottima. Ma se nulla ti si pre- senta di meglio che il genio
stesso tuo interno, quando si è fatto signore de’ propri moti, e
rivoca ad esame le proprie immaginazioni, e si è sot- tratto^ come
diceva Socrate, dalle passioni del senso, e vive sottomesso . agli
Dei e pigliandosi cura degli uo- mini; se, a paragone di questa,
tutte . le rimanenti cose ti paion picciole e vili, non dar più
luogo appresso te a nessuna altra, alla quale una volta che tu ti
sentissi propendere, più non potresti senza repugnanza preferire a
tutti quel bene che è pro- prio di te ed è il tuo; perchè al bene
j’azionale ed efficiente non vien contrapposto impunemente mai
nulla che sia di natura diversa, come le lodi della moltitudine, o il
co- mandare, o i piaceri del senso; tutte queste cose, per poco che
le si paiano adattare,' ti sopralfamio in un attimo e ti strascinano.
Or tu, dico io, scegli schiettamente e liberamente il meglio, e a quello
ti attieni. — Ma il meglio è l’utile. Se l’utile al- r uomo in
quanto è ragionevole, bene sta, quello procura: se l’ utile all’
uo- mo in quanto animale, dillo su aper- tamente® e vivi di poi
senza boria nò fasto, secondo quella determinazio- ne. Ma bada,
ve’, che non ti inganni nell’ esame. Non riguardare giammai
come i [Par che Antonino alluda qui alla teoria dello
adattare le nozioni generali alle cose particolari, o, come diremmo noi,
del con- cetto alla rappresentazione, che è ciò in che consisto il
giudizio. Dillo spiattellatamente, se ardisci, senza avvolgerti in parole
coperte: e ammetti poi tutte le conseguenze di quel tuo detto:
cioè, vivi poi da animale mero e puro, senza in- gerirti a parlare
nè di moralità nè di virtù nè di giustizia, nè d* altro simile, che
in quel caso sarebbero un vano fasto di pa- role. E provocazione al
senso intimo dell'uo-mo. Utile a te nulla che sia per isforzarti un dì a
violar la fede, abbandonare il pudore, odiare alcuno^ sospettare,
maledire, simulare, desiderar cosa j che abbia bisogno di pareti e di
ve- lame. Chi ha posto innanzi ad ogni altra cosa la sua mente e
genio, e il culto della virtù eh’ è propria di quello, non fa
tragedie, non geme, non ha bisogno di solitudine, non di frequenza
d’ uomini; quel che più impoita, vive senza ricercar nulla nè
fuggire; abbia ad esser lungo o, abbia ad esser corto Tintèrv^allo
di tempo durante il quale sarà conte- nuta nel corpo l’ anima con
che egli lia a fare,' non se ne piglia nè an- clic il minimo
pensiero; e quando [Con che egli ha a fare. Non veggo che
cosa abbia voluto dire Ornato. Il senso letterale del testo è: sia lungo o
sia breve il tempo, eh' egli avrà a far uso dell' ani- ma contenuta
nel corpo. Il che, parrai, equi- vale a dire: sia lungo, o sia breve il
tempo ch'egli ha a vivere. è giunta V ora dello sgombrare, cosi
spiccio se ne va, come se impren- desse un’ altra qualunque di
quelle azioni che si possono con verecondia e con dignità operare;
da questo solo guardandosi per tutta la vita,, che veruno dei moti
della sua men- te non sia mai men che convene- vole ad animale intelligente
o so- ciabile. Nella mente dell’ uom castigato e puro non
troverai nulla di marcio, nè tampoco nulla di contaminato o che
paia sano al di fuori e noi sia. La vita di lui, a qualsivoglia ora
lo sorprenda la morte, non è mai im- perfetta, come tu diresti
quella tra- gedia d’onde un attore si fosso riti- rato prima d’
aver condotto a fine la sua parte. Ancora non è in lui nulla di
villano, nè nulla di artata- mente gentile; nulla che il leghi alle
cose esteriori nè nulla che lo separi da quelle; nulla onde egli
sia palesemente ripreso,' nè nulla che covi addentro nascosto.
Abbi in rispetto la facoltà giu- dicativa.^ Per lei sta che non si
ge- neri nella tua parte sovrana nessuna opinione che non sia
consona alla natura o al fine per che 1’ uomo è ordinato. Ed essa
promette la infal- libilità,* e l’amicizia con gli uomini e r
ubbidienza agli Dei.Messe adunque da banda tutte le altre cose, queste
poche sole abbi in mente; ed ancora ricordati che i r uomo non vive
altro tempo che questo presente, cioè un attimo; il rimanente o lo
ha vissuto o non sa se il vivrà. Picciola cosa pertanto è 1
Intendi: nulla che appaia manifesta- mente vizioso. Ossia la virtù del
non cadere in er- rore; che vien definita da Zenono « la scienza
del quando conviene assentire ad i un' apparenza, e quando no. >
Questa ac- compagna sempre il giudizio comprensivo, che è il
criterio della verità appo g-li stoici. 0. Digitizedh, Cnoi^li:
il tempo che l’ uom vive, picciola cosa rangoletto della terra
dov’egli vive; picciola cosa la fama anche la più lunga eh’ egli
lascerà dietro sè, e questa tramandantesi per succes- sione d’
omiciattoli in omiciattoli, morti quasi appena nati, ed ignari
anche di sè medesimi, non che di colui il quale moriva è già gran
pezza. li. Agli avvertimenti dati sin qui s’ aggiunga ancora
quest’ uno, di de- finir sempre o descrivere l’oggetto che cade
sotto al tuo senso, si che tu lo scorga a parte a parte distin-
tamente e tutt’ insieme quale egli è nella sua essenza nudo, e dir
teco stesso il nome proprio di quello e il nome delle cose di che è
compo- sto e in che s’ ha da risolvere. Per- chè non v’ ha nulla
che sublimi cotanto l’animo quanto il potere ar- guire per la
diritta via e con verità ciascuna delle cose che incontrano nella
vita, e saperle vedere per ino» do da conoscere nello stesso tempo
di qual uso sendo questa tal cosa al mondo, e a qual mondo, qual
valore ha rispetto al tutto e quale rispetto air uomo, che è
cittadino della suprema fra le città, della quale le altre città
sono' come al- trettante famiglie. Che cosa è, e di che cosa è
composto, e quanto tempo è por duiare ij cesto che fa impres- sione
ora sul mio senso; di che virtù s’ ha da far uso con esso, per
esem- pio, della mansuetudine, della for- tezza, della veracità,
della fede, della semplicità, della frugalità, o simili. Però,
intorno a ciascuna cosa, con- vien dire: questa mi viene da Dio;
questa dalla sorte, dalla complica- zione delle cause condestinate, e
so- miglianti cose; quest’ altra dal mio consorto, dal mio
congiunto, dal partecipe d’ una stessa società con me, il quale ignora
nondimenò ciò che è secondo natura per lui. Ma 10 non lo
ignoro; e però mi governo con lui secondo la legge naturale della
società, con benevolenza e giu- stizia; e ad uno stesso tempo ho
riguardo, nelle cose mezzane,' al valore di ciascheduna. Se tu operi
secondo la retta ragione quel che hai fra mano, stu- diosamente, c
vigorosamente, placi- damente, e non t’ occupi d’ altra cosa tra
via, ma conservi puro ed intatto 11 genio tuo, come se tu dovessi
già rassegnarlo; * se a lui ti tieni stret- Si chiamai! còse
mezzane appo gli stoici quelle che non sono nè ben nè male, cioè nè
virtù nè vizio. Le quali, comecché da per sè non meritino d' esser
cercato nè fug- gite, si accettano nondimeno o si rigettano per r
aiuto o disainto che elle possono ar- recare alla vita secondo natura.
Quelle che arrecan più aiuto, han più valore: quelle che più
disainto, più disvalore. Di questò ha da tener conto il savio, ed
accettare, quando gli è data la scelga, quelle che han più valore,
o che han meno disvalore. 0. ^ Sottintendi « a chi tol diede. » to,
nulla aspettando, da nulla rifug- gendo, contentandoti dell’ azion
tua presente secondo natura e della eroi- ca verità d’ ogni cosa
che tu dica: felicemente vivrai. Ora non v’ ha nessuno' che ti possa
questo impedire. Come i medici han pronti sem- pre i loro ferri e
strumenti per le cure inopinate, così abbi tu alla mano i principi!
* per la cognizione delle cose divine ed umane; e non far nulla
mai, per poco che sia, senza ricordarti del legame che unisce
queste con quelle. Perchè nulla di umano farai tu bene se non lo
ri- ferirai al divino, e viceversa. Non andar più vagando;
per- chè non sei per rileggere oramai nè i tuoi ricordi, hè le
azioni degli an- tichi romani e greci, nè gli estratti *
Punti fondamentali di credenza, cre- denze prime, dommi: decreta.appo
Cicerone. d’ autori che riserbavi per la vec- chiaia. Studiati dunque d’
arrivare al fine, e poste da banda le spe- ranze vane, soccorri a
te stesso, se pur ti cale di te, mentre che il puoi. 15. Non
sanno * quanti significati abbiano le parole rubare, seminare,
comperare, riposare, veder quel che sia da fare, il che non si reca
ad effetto con gli occhi, ma con un’al- tra sorta di vista. Corpo,
anima, mente; del corpo son le sensazioni, deh’ anima le ap-
petizioni, della mente le credenze.^ Ricevere impressioni nella
fantasia è cosa anche da giumento; esser mosso da appetiti è cosa
anche da fiera, anche da androgino, anche da Falaride, anche da
Nerone; avere per iscorta la mente a quello che ci pare nostro
ufficio,* è cosa anche Sottintendi c gli nomini del volgo. Dommi, decréta. Intendi, a quello che ci par
eg$ere noda chi non crede che v’ abbiano Dei, da chi abbandona la patria,
da chi fa, quando ha chiuso le porte, ogni opera nefanda. Se
adunque tutte queste cose abbiam comuni cogli anzidetti, resta che
sia proprio dell’ uomo dabbene lo amare ed ab- bracciare gli
accidenti ad esso con- destinati e guardarsi dal macchiare e
turbare con immaginazioni sconce il genio che risiede nel petto di
lui, ma conservarlo propizio, seguendolo modestamente* come un
Iddio, non dicendo mai nulla che sia contro al vero, nè dicendo *mai
nulla che sia contro al giusto. Che se nissuno ttro interene.
Questo è il significato gene- rale della parola ufficio appo gli stoici.
Solo allor quando le si aggingne l'epiteto di perfetto denota essa
il dovere^ che è come V intereae iublime dell' uomo. Noto questo
perchè alcuni degli interpreti, e per ultimo anche il Corai, hanno
maravigliosamente scompaginato - e interpolato questo passo;
frantendendolo. Diog. Laerz.; Stobeo; Cic. de Officiùt otc. 0.
degli uomini non gli vuol credere eh’ egli viva con semplicità,
con ve- recondia, e di buon animo; nè s’adira egli contro costoro,
nè si svia dalla strada che conduce al fine della yita. al quale si
vuol giunger puro, tran- quillo, spedito, e conformato di vo- lontà
col proprio destino. La parte che dentro di noi re- gna,* quando è
nel suo stato natu- rale, ha tal disposizione verso gli accidenti,
che senza difficoltà si ri- volge sempre al possibile e al dato.
Perch’ella non ama nessuna mate- ria determinata; ma si porta con
eccezione* a quello che si ha pro- posto, e quando alcun che se le
viene ad attraversare per via, ella si fa di quello stesso materia;
come il fuoco, quando s’ impadronisce delle [La parte sovrana
o dominante. [Eccezione: vocabolo stoico. Indica limi-
tazione del proponimento al possibile. Farò la tal cosa, se non sarò
impedito. cose die incontra, dalle quali una picciola lampana sarebbe
spenta; ma lo splendido fuoco assimila a sè tosto ogni cosa che se
gli butti dentro, e la consuma, e per quella stessa s’innalza più in
su. [Nessuna azione sia fatta a caso mai, nè altrimente che
secondo una delle regole costitutive dell’arte.* 3. Van
cercando ritiri, alla campa- gna, alla marina, sui monti; e tu
stesso suoli desiderare siffatti luoghi. Ma cotesto è da uomo
ignorantissi- mo, potendo tu, a quell’ ora che tu vuoi, ritirairti
in te stesso. Perchè * Ad ogni caso della vita corrispondo
una virtù da esercitare (vedi sopra, III, 11, e più abbasso, IX, 11, 42):
ed ogni virtù è appo gli stoici nna scienza nello stesso tempo ed
un’ arte: parlo delle virtù pro- priamente dette. Come scienza quindi
e come arte consta di certo proposizioni o re- gole, ciascuna delle
quali è parte integrante di quella, e tutto insieme" la costituiscono. Ogni
ufficio consta di corti nu meri. 0.
inroRDi. «4 in nessuno altro luogo
si ritira l’uomo con più tranquillità e con meno brighe che nell’ anima
sua; massi- mamente chi ci ha dentro tanto alti oggetti di
contemplazione che il solo affacciarsi a loro procaccia tosto ogni
sorta di agevolezza. Quan- do dico agevolezza, non voglio dir altro
che buon ordine. Concedi adun- que sovente a te questo ritiro e
rin- novella quivi te stesso. Breve sia r espressione ed elementare
la forma di quelle verità contemplative che avran forza di
rasserenare al primo incontro V anima tua c. rimandarti senza
corruccio alle cose alle quali ritorni. Perchè, di che cosa ti
coi'- rucci? Della malizia degli uomini? Rammentati di quella
sentenza, che gli esseri ragionevoli son fatti gli uni per gli
altri; che il sofferire è parte della giustizia; che malgrado loro
peccano; che tanti si son già inimi- cati, sospettati, odiati,
^perseguitatisi a morte, i quali ora sono spenti, son fatti
cenere; e te ne darai pace. 0 ti crucci tu di quella parte che a te
Vien compartita dell’ universale de- stino? Rinnovella il dilemma. 0
è la provvidenza o son gli atomi,' op- pure gli argomenti con che
s’ è di- mostrato che il mondo è come una città. Ma forse tu ti
contristi delle affezioni del corpo? Pensa che non han più nulla
che fare con la mente i moti o sieno soavi o sieno aspri del senso,
ogni volta che questa s’ è. raccolta in sè medesima ed ha cono-
sciuto la sua propria potenza; al che potrai aggiugnere quelle altre
cose che intorno al piacere e al dolore hai apparato ed accettato
per vere. 0 sarà forse T amor di gloria quello che ti turba?
Considera come è ratto [Si allude al sistema atomistico
d’Epicuro, il quale nega la previdenza, e attribuisce il mondo e tutti i
fenomeni del mondo ad una causa non intelligente.. l’oblio d'ogni cosa,
interminato dal - runa parte e dall’ altra* il caos della età, vana
cosa il rumore, mutabile, e inconsiderato chi in apparenza ti‘
esalta, angusto il luogo dove è cir- coscritto il suo dire. Perchè tutta
la t.erra' è un punto: e qual parte di essa è l’angoletto che tu
abiti? e quivi ancora quanti avrai lodatori, e quali? D’or innanzi
adunque sovvengati di ritirarti in questa tua vil- letta di te medesimo;
e sopra tutto, non. t' affannare, non t’agitare, ma sii libero e
vedi le cose da uomo, da ‘ maschio, da cittadino, da mortale. Ed
abbi in pronto, fra le verità alle quali dovrai far ricprso, queste
due principalmente. L’una, che le cose non arrivano sino all’anima,
anzi stanno al di fuori immobili e
i turbamenti nascono dalla sola opinione [A parte ante e a parte
pott come dice la scuola], che è dentro. L’ altra, che quanto tu
vedi già già si muta e più non è quel desso; e rivolgi in mente
ciascuna delle mutazioni alle quali tu stesso sei inten'enuto. Il mondo,
alterazione. La vita, opinione. Se la intelligenza ci è comune a
tutti, anche la ragione per cui siam ragionevoli ci è comune; se
cotesto è, anche la ragione impera- tiva di ciò che si dee fare o non
fare ci è comune; adunque anche la legge ò comune; aifunque siam
concittadini; adunque partecipiamo tutti ad una specie di reggimento
civile; adunque il mondo è come una città. Perchè qual altro direm
noi che sia quel reggimento civile di cui tutto il genere umano partecipa?
Di colà, da quella città comune, viene a noi r intelligenza, la
ragione, la legge, o d’ onde verrebbon esse? Perchè, siccome quanto
v’ha in me di terreo viene da una certa terra di cui fa parte; e
quanto v’ ha in me d’umido, da un altro elemento; e quanto v’ha di
caldo e d’ igneo, da una certa sorgente propria (nulla venendo mai
dal nulla nè ritornando nel nulla); così anche la intelligenza dee
venire da qualche cosa. La morte è come la nascita, un mistero
della natura; composizione e risoluzione di certi elementi in
quegli elementi medesimi. Ad ogni modo non è cosa di che 1’ uomo
debba arrossire; perchè non è cosa che repugni alla natura dell’
animale intellettivo o disconsegua* al prin- cipio della formazione
di quello. 6. Tali cose debbono di necessità farsi in tal
modo da questi tali; chi le vuole altrimente, vuole che il fico non
abbia lattificcio. Del tutto, sov- vengati che in brevissimo tempo
e [Intendi: ripugni, non aia conforme. !'• tu e costui
sarete morti: e che, poco dopo, non rimarrà più di voi nè an- che
il nome. Togli via r opinione, ed è tolto via il « sono stato offeso:
» togli via il « sono stato offeso, » ed è tolta via r
offesa. Quello che non fa peggiore l’ uo- mo non fa nè anche
peggiore la vita di lui, nè le nuoce, nè esternamente nè
internamente. È necessitata dall’ utile ‘ la natura a far cotesto. Siccome
ogni cosa che accade, giustamente accade; il che, se tu osserverai
con attenzione, troverai [Comune. Più letteralmente: « È necessitata
la na- tura deir utile a far cotesto.» La natura deir utile, cioè
il principio sostanziale dell’utile (chè vuol esser presa sostanzialmente
in questo luogo la voce natura), il quale evolvendosi, come ragion
seminale, succes- sivamente nel tempo, fa che ogni cosa sia bene.
Perchè non conviene dimenticar mai che, appo gli stoici, l'utile non è
altro che il bene. Digilized by sempre vero: non solamente, dico,
secondo l’ ordine di conseguenza, ma ancora secondo 1’ ordine di
giustizia; come se le cose procedessero da tale che distribuisse a
ciascuno secondo il merito. Osserva adunque, come hai cominciato;
ed ogni cosa che tu fai, falla con questa condizione, che tu sia
uom dabbene, nel vero signifi- cato della parola dabbene. Questo
carattere conserva in ogni tua azione. Non concepir le cose quali le
giudica colui che fa ingiuria, o quali egli vuole che tu le giudichi;
ma vedile quali sono in realtà. Conviene esser sempre pronto a
queste due cose; fai' solamente quello che la ragion dell’ arte
regia e legislativa ti suggerisce per 1’ uti- lità degli uomini; e
cangiar partito, quando altri viene a raddrizzarti e rimuoverti da
una qualche falsa opi- nione. Ma questo cangiamento dee farsi
sempre per un qualche motivo plausibile, come di giustizia, o d’ utilità
comune, o somigliante; e non mai perchè la cosa ti piaccia o sia
per arrecarti gloria. Hai la ragione? Si. Che dunque non 1’
adoperi? Perchè, se essa fa quanto le spetta, che ti resta a
desiderare? Sei venuto al mondo qual parte; disparirai dentro al tuo generatore.
0, piuttosto, ti raccoglierai nella ragion seminale di lui, per via di
mutazione. Molti grani d’ incenso su uno stesso altare: l’uno è
caduto prima e l’altro dopo. È lo stesso. 16. Tra dieci
giorni parrai un Dio a coloro, ai quali pari ora una bestia e una
scimmia, se fai ritorno ai prin- cipii e al culto della ragione. Non
come se tu avessi a vi- vere molte migliaia d’ anni. La morte ti
sovrasta: mentre vivi, mentre ti è dato, fa’ che tu sia uom
dabbene. Di quante brighe si libera chi non bada a quello che ha
detto il vi- cino, o ha fatto, o ha pensato, ma solo a quello eh’
egli stesso fa, affinchè r opera sua sia giusta, e santa, e qual si
richiede dall’ uomo dabbene ! Non andar guatando attorno i
neri costumi, ma corrér diritto in sulla linea senza volgersi a destra
nè a manca. Chi vive abbagliato dal pensiero di lasciar fama dopo
morte, non considera come ciascun di quelli che si ricordano di lui
morrà tosto aneli’ egli, e poi ancora chi sarà a costui succeduto,
sinattantochè, pas- sando da abbagliato in abbagliato e da morente
in morente, venga a spegnersi affatto ogni memoria. Ma sup- poni anche
immortale chi s’ ha a ri- cordare di te, ed immortale la fama; che
fa egli a te cotesto? E non dico. a te quando sarai morto, ma
a te mentre sei vivo: che è la lode, se on forse talora un mezzo
per una qualche dispensazione? Lascia stare ora, che sarebbe inopportuna,
la considerazione dello essere secondo natura o no e cosa quindi
che non ha pregio se non per rispetto d’ una qualche altra. Tutto
che è bello, qual che egli sia, è bello da per sè, ha il termine
della sua bellezza dentro di sè, nè annovera tra le sue parti la lode, e
lodato, non diventa nè peg- giore, nè migliore. Dico, anche i belli
volgari, le cose belle per materia o per lavoro artificioso (perchè,
in quanto al bello per essenza, ha egli mai bisogno di lode alcuna?
No, niente più che la legge, niente più che la verità, niente più
che la be- nevolenza o la verecondia). Quale di esse è bella per
venir lodata o perde per venir biasimata? Lo smeraldo diventa egli
peggiore, se non si loda? E l’oro, l’avorio, la poi^pora, una cetra, una
spada; un fiorellino, un arboscello? Se
le anime sussistono dopo morte, come può, dalla eternità in qua,
contenerle in sè l’aria? E come contiene la terra i corpi che da
tanti secoli vi sono seppelliti? Perchè nell’ istesso modo che
questi, dopo essersi conservati alcun tratto di tempo, col mutarsi
di poi e col dis- solversi dan luogo ad altri cadaveri: cosi le
anime che passano nell’ aria, soffermatevisi un certo tempo, si mu-
tano si struggono e accendono, e ve- nendo accolte nella ragion
seminale dell’universo, fan luogo alle altre che lor vengono
appresso. Questo si può rispondere nella ipotesi che le anime
sussistono dopo morte. E convien recarsi a mente il numero non solo
dei corpi seppelliti a questo modo, ma anche di quelli che ogni di e
da noi e dagli altri animali si mangiano. Perchè quanti se ne consuma
egli e se ne seppellisce, per così dire, nei corpi di coloro che se
ne cibano! E pur nondimeno li cape uno stesso luogo, pel
convertirsi, eh’ essi fanno, in sangue, pel trasmutarsi loro in
aria od in fuoco. Come giugnere, intorno a ciò, alla cognizione del
vero? Col distinguere in materia ed in causa. Non isviarti; ma fa’ sì che
ogni atto della tua volontà rappresenti il giusto e che ogni tuo
giudizio serbi il carattere di comprensivo. Tutto a me conviene
quel che a te conviene, o mondo. Non è im- matura per me nè tardiva
nessuna cosa che sia opportuna per te. Tutto è frutto per me quel
che portano le tue stagioni, o natura. Da te viene. 0il tutto, in te è il
tutto, a te ritorna il tutto. — Queir altro dice: 0 amica città di
Cecrope! ‘ e tu non dirai: 0 amica città di Giove? Fa’ poche cose »
dice colui, se vuoi viver contento. Non era meglio il dire, fa’ le cose che son
necessarie, quelle che vuol la ragione d’un animai socievole, e a quel modo ch’ella
le vuole? Cosi acquisterai la contentezza non solo che nasce dal
far bene le cose, ma quella ancora dell’ averne a far poche. Perchè,
se dalle cose che diciamo e facciamo lu tronchi via le non
necessarie, che sono il maggior numero, assai più agio ti rimarrà
ed assai brighe avrai meno. Quindi, ad ogni cosa che sei per fare,
domanderai a te stesso: Non è questa una di quelle che non [Aristofane,
nella commedia de' contadini [DEMOCRITO, in un frammento conservatoci dallo Stobeo]
sono necessarie? E conviene troncar via, non solo le azioni che non son necessarie,
ma anche i pensieri; perchè in questo modo non avrai nè anche più*
a temere che azioni so- verchie li seguano. Fa’ un po’ il
saggio dei come ti riesce la vita dell’ uomo dab- bene, dell’ uomo
che accetta con pia- cere ogni cosa che gli venga com- partita dal
tutto ed a cui basta che r azion sua propria sia giusta e la
disposizione dell’ animo suo bene- vola. Hai tu veduto quelle cose?
Vedi anco queste. Non turbar te medesimo. Fa’ che tu sia semplice.
Pecca egli, un tale? A sè medesimo pecca. T’ è accaduto qualche
cosa? Bene sta; ab eterno era stato destinato per te, destinato
insieme con te, tutto ciò che ti accade. Al postutto, breve è la
vita: conviene far guadagno del [seguendo la ragione ed il
giusto] Sii in te anche quando ti ricrei. il mondo o è ordinato da
una mente, o è un accozzamento fortuito di cose, venute d’ ogni
parte, sì, ma non di meno ordinate. 0 credi tu che possa avervi un
cotal ordine in te e che nell’ universo alberghi il disordine?
massimamente quando ci vedi, le cose cosi distinte le une dal- r
altre, così mescolate le une con r altre e cosi intimamente
collegate tutte insieme col vincolo di reciproca dipendenza?
28. Neri costumi, eiremminati co- stumi, costumi duri, brutali,
pecorini, puerili, infingardi, falsi, buffo- neschi, taverneschi,
tirannéschi. 29. Se è uno estraneo nel mondo chi non sa che
cosa c’ è nel mondo, non è meno un estraneo chi non sa che cosa vi
si fa; un fuoruscito chi esce fuori della ragion civile; un cieco
chi chiude gli occhi della men- te; un mendico chi abbisogna d’ al-
trui e non ha in sè quanto gli fa d’uopo alla vita: un apostema'
del mondo chi si separa é allontana dalla ragione della natura
comune, avendo a male ciò che accade; perchè quella te lo arreca la
quale arrecò te* me- desimo ancora; una smozzicatura di città chi
distacca la propria anima dall’ anima comune degli esseri in-
telligenti, che è una. Chi filosofa senza tunica, e chi senza libro.
Quest’altro, mezzo ignudo. Non ho pane, die’ egli, e pure sto fermo nella
ragione. Ed io non ho il cibo della dottrina, e pur ci sto fermo
anch’io. Ama l’arte che hai apparato; in essa ti acqueta; e vivi il
rimanente della tua vita come quegli che ha accomandato le cose sue
con tutta l’anima agli Dei, e che di nessun uomo non vuol essere ne
tiranno nè servo. Figurati, per esempio, i tempi di
Vespasiano; vedrai le stesse cose che adesso: uomini che
s'accasano, che educan figli, che s’ammalano, che muoiono, che fan
guerra, che fan festa, che mercatano, che coltivan la terra, che
adulano, che presumon di sè, che sospettano, che tendono insi- die,
che desideran la morte di alcuno, che mormorano del presente, che
fanno all’amore, che ammassan te- sori, che voglion diventar
consoli, diventar principi. Or tutta quell età è sparita. Passa ai
tempi di Traiano] le stesse cose di nuovo. Quella età è spenta anch’
essa. Considera nello stesso modo le altre generazioni d’ uo- mini
e le nazioni tutte intere, e vedi quanti si travagliarono e
straziarono per morir poi poco stante e risol- versi negli
elementi. Massimamente ricorderai coloro i quali hai veduto a’ tuoi
di aiTaticarsi per cose da nulla e trascurare quello per che eran
nati, dove era da attendere a questo uni- camente e non cercare
altra cosa. Qui è pur necessario il rammen- tarti che a
ciascuna azione corri- sponde un certo valore e un grado di
applicazione proporzionato.* Per- chè allora solamente eviterai il
rin- crescimento e la noia, quando non ti occuperai più di quel che
conven- ga, nelle cose da poco. 33. Le voci che altre volte
erano in uso, or sono antiquate; così an- [Termine stoico. Un
grado di applicazione (dovutale per parte deir uomo) proporzionato al
valore, cioè air importanza di essa. E vuol dire che dobbiamo
attendere e applicarci a ciascuna azione secondo il valore o l'
importanza di essa azione, cioè molto a quelle che hanuo un gran
valore, e meno a quelle che ne hanno un minore; e fra due di valore
ineguale, attendere piuttosto alla più importante, che alla meno
importante. che i nomi di coloro che una volta furon celebri, or sono,
per cosi dire, antiquati; Cammillo, Cesene, Voleso, Leonnato; e
poco dopo, Scipione, Catone; poscia Augusto, poscia Adriano c Antonino.
Incerti e favolosi presto diventano; presto ancora son sepolti
nell’ oblio universale. Parlo di co- loro che in un qualche modo
furon chiari e ammirati; perchè, quanto agli altri, appena han reso
l’ ultimo soffio. «Nessun ne parla più, nessun ne chiede. Ma che è
ella poi, alla fin fine, la. eternità del nome? Vanità pura. Che è
dunque quello a cui dobbiamo seriamente badare? Questo solo: che
le_ nostre intenzioni sien giuste; le azioni, utili alla so- cietà;
le parole, non mai menzogne- re; e r animo, disposto ad accettare
tutto che accade, siccome cosa ne- cessaria, siccome cosa amica,
sicco- me cosa derivante dallo stesso prin- cipio e dallo stesso
fonte che noi. Volontario i’ abbandona nelle mani del Fato,
lasciando eh’ egli ti destini a quelle cose eh’ ei vuole. E il
ricordante e il ricordato, ambidue han la vita d’ un giorno. Osserva
di continuo coipe ogni cosa nasce per via di mutazione; ed
avvezzati a pensare che nulla ama tanto la natura dell’universo,
quanto di mutar le cose che esistono e farne dell’ altre simili.
Perchè ogni cosa che esiste è seme, in un certo modo, di quella che
per essa esisterà. Ma tu ti immagini come semi quelli so- lamente
che si gittano nella terra 0 nell’utero. Cotesto è da uomo rozzo assai. Or
ora moirai, e non sei giunto per anche ad esser semplice, nè im-
perturbato, nè senza sospetto che le cose esterne ti possano nuocere,
nè sereno inverso tutti, nè a riporre la prudenza nel solo operar
con giu- stizia, Guarda alle menti di costoro, e
dei prudenti fra loro; quali cose fuggono, e quali cercano!
39. Nella mente d’ un altro non istà il tuo male; nè tampoco in un
i qualche cambiamento o alterazione di quello che ti circonda.
Dove sta egli adunque? In quella
parte di te, che giudica intorno ai mali. Quella parte adunque non
giudichi, e tutto andrà bene. Ancorché la cosa a lei più vicina, io
voglio dire il corpo, sia tagliata, sia abbruciata, marcisca, infracidisca,
stiasi nondimeno quieta la pjirte che giudica di siffatti acci-
denti; cioè giudichi non esser nè j male nè bene ciò che può accadere
! ugualmente al tristo ed al buono. Perchè quello che accade ugual-
^ mente e a chi vive contro natura e a chi vive secondo quella, non
è cosa nè secondo natura nè contro. Avvezzati a considerare il
mon- do come un animale unico, avente un corpo unico ed un’ anima
unica; e come ad un senso unico, che è il senso di lui, ogni cosa
risponda; come con un impulso unico - ogni cosa operi; come ogni
cosa concorra alla produzione d’ogni cosa; e qual sia la
connessione e il concatena- mento di tutte. Sei una animuccia
che porta un cadavero, come diceva Epitteto. Non è punto un male il
venire a mutazione, come non è punto un bene l’esser nato da
mutazione. L’età è come un fiume di cose che accadono, e una
corrente rovi- nosa; ' appena vedi 1’ una, ed è già passata ed un’
altra passa, ed un’al- tra passerà. Tutto quel che accade è
cosa tanto solita e tanto familiare quanto le rose nella primavera
e le frutta [Intendi rapidissima e non cagione di rovine, il che
sarebbe nn disordine nel mondo, che è 1' ordine per eccellenza. sa
nella state; nè son da riguardare altramente la malattia, la’
morte, le calunnie, le insidie, e tutto quello che allegra o
attrista gli sciocchi. Nella successione dei casi, quelli che
seguitano han sempre re- lazione di parentela con quelli ché li han
preceduti. Perchè non è già quivi come un novero di cose indi- pendenti
r una dall' altra, cui la sola necessità * insieme costringa, ma
sibbene una connessione ragionevo- le; e come negli enti si ravvisa
una coordinazione armonica degli uni con gli altri, cosi negli
accidenti si manifesta, non già semplicemente la successione, ma un
certo modo di parentela mai'aviglioso. 4C. Abbi a mente
ognora il detto di Eraclito; che la morte della terra è il diventar
acqua, la morte del- r acqua è il diventare aria, la morte I
Intendi «necessità esterna.» dell’ aria il diventar fuoco e viceversa.*
Ricordati ancora di colui che non sa dove inette la via;* e sicco-
me la ragione con la quale gli uo- mini conversano il più
assiduamente, e che governa ogni cosa, è quella per r appunto con
che essi non van d’ accordo; e le cose in che s’ imbat- tono ogni
dì, son quelle che ad essi paiono più strane. E siccome non
conviene fare nè dire a guisa di dormienti; perchè anche dormendo ci par
di fare e di dire; nè come fan- ciulli che van dietro ai lor padri,
cioè nudamente e semplicemente a quel modo che abbiamo appreso.
47. Come se un Dio ti avesse detto che domani sarai morto, o
posdomani [Pasfio famoso di ERACLITO, rammentato da Diog. Laorzio,
Plutarco, Massimo Tirio, Clem. Aless. Filone, ecc., allegati tutti
dal Gataker a questo luogo]. Anche questo, come i seguenti, pare un
detto di ERACLITO. Vi fa allusione, credo, al più, tu non ti
cureresti gran fatto dell’ avere a morire posdomani piut- tosto che
domani, ove tu non sia il più codardo degli uomini; perchè, quanto
sarebbe il divario? così non ti paia nè anche gran fatto l’avere a
morire piuttosto in capo a molte diecine d’anni che domani.
48. Pensa di continuo quanti me- dici son morti, che sovente in su
gli ammalati le ciglia aggrottarono; quanti astrologi, che la morte
altrui, come un gran caso, predissero; quan- ti filosofi, che
intorno alla morte o alla immortalità migliaia di discorsi fecero;
quanti prodi, che molti am- mazzarono; quanti tiranni, che con
orribil ferocia, quasi non avessero essi mai a morire, la podestà in
sulle vite esercitarono; quante città tutte intere, per dir così,
son morte. Elice, Pompei, Ercolano, altre senza fine. Rammemora ancora
quanti hai conosciuto, l’ un dopo V altro: questi fece a colui la
sepoltura, e poi morì egli, e queir altro la fece a lui; tutto ciò
in breve. La somma è, che le cose umane son da riguardare come di
nessuna durata nè pregio; un po’ di moccio, ieri; mummia o ceneri,
doma- ni. E quindi, questo attimo presente di tempo, si vuol
passarlo conforme la natura richiede, e finirsela in pace; come
oliva matura che cada, benedicendo la terra che la portò, e
ringraziando l’ albero da cui fu ge- nerata. 49. Sii simile
ad un promontorio, contro al quale incessantemente s’in- frangono fonde,
e quegli sta saldo, e s’abbonacciano intorno a lui i gorgogli dell’
acque. Sventurato me, che la tal cosa ra’ è accaduta. Anzi, avventurato,
che, la tal cosa essendomi accaduta, me ne sto nondimeno senza
cruccio, nè ango- sciato del presente nè pauroso del- f avvenire.
Ad ogni altro poteva accadere; ma ogni altro non l’avria senza angoscia
sopportata. Perchè adunque sarà quello una sventura piuttosto che
questo una ventura.* E poi, chiami tu. sventura per l’ uo- mo
quello che non defrauda punto la natura dell’uomo? E ti par egli
che defraudi la natura dell’ uomo quello che non va contro al
volere di quella? E che? il volere della natura tu il sai; forse
che questo accidente ti impedirà dall’ esser giu- sto, magnanimo,
temperante, pru- dente, cauto, veritiero, verecondo, libero,
fornito, in somma, di tutte quelle doti che. unite insieme appagano e
soddisfano intieramente la natura dell’ uomo. Sovvengati adun- que,
ogni volta che una qualche cosa ti contristerà, di ricoiTere a
1 Cioè a dire: c perchè chiameresti dun- que sventura V esserti
accaduta la tal cosa, piuttosto che chiamare avventura felice r
aver tu saputo sopportarla con impertur- bata costanza? » questo
pensiero: che non solamen- te essa non è sventura, ma anzi il
sopportarla da forte. è una buona ventura. Volgare aiuto, sì, ma
nondi- meno efficace per disprezzar la morte è il rimembrar coloro
che durarono lentamente vivendo sino all’ età più decrepita. Che
hanno essi ora di più che gli spenti di morte immatura? Kcco, son
buttati là in un qualche canto essi pure e Cadiciano e Fabio e Giuliano
e Lepido e quanti altri ve n’ebbe di cotal fatta, i quali accompagnarono
molti alla tomba, e poi ci furono accompagnati essi alla fine.
Breve, ad ogni modo, è l’in- tervallo che l’uom vive, e questo
breve, tra quali cose, con quali uo- mini, in qual corpicciuolo
conviene stentarlo! Non farne adunque gran caso. Vedi, dietro a te,
una eternità senza fondo, e un’altra eternità in- nanzi a te: posto
così in mezzo, che divario fai tu,da una vita di tre giorni ad una
di tre secoli? Fa’ che tu vada sempre per la più corta via. E la
più corta via è la via secondo natura. Seguirai quin- di, in ogni
cosa che tu abbia da fare o da dire, il più sano partito. Que- sto
proponimento ti libera dai tra- vagli, dai combattimenti interni, e
da ogni sorta di dispensazioni* e d’astuzie. Al mattino, quando con
difficoltà ti svegli, abbi in pronto questo pen- siero: Mi sveglio
all’ufficio d’uomo; come adunque m’ incresce, s’ io vo a far quello
per che son nato e in grazia di che sono stato messo al mondo? 0
sono io stato fbrmato forse per riscaldarmi giacendo in sul letto? Ma
quest© mi dà più gusto. Per pigliarti gusto adunque sei nato? e non
anzi per operare? per essere attivo? Non vedi le pian- te, le passere,
le formiche, i ragni, [Intendi: cO il fine a cui nacqui è
for- se di giacermi a godere questo tepore del letto?» le pecchie, far ciascheduna l’
ufficio suo, concorrer, ciascheduna all’ordi- namento di quel mondo
che le è proprio? E tu non vuoi-far l’ufficio d’uomo? Non intendi a
quello che è secondo natura per te? Ma è necessario poi anche il riposo. È
necessario, è vero; ma la natura vi ha posto un limite; ve n’ ha
posto anche al mangiare ed al bere; e tu nondimeno varchi quei
limiti, vai al di là del bisogno; quando si tratta di fare, poi, la
è un’altra cosa, tu stai sempre al di qua del possibile. Gli è perchè tu
non ami te .stesso. Se tu amassi te stesso, ame- resti anche* la
natura tua, e la vo- lontà di lei.* Gli artisti, che amano l’arte
loro, si consumano in sui la- vori di quella, dimenticando il ba-
gno ed il cibo: ma tu, fai men caso della tua natura che il tornitore
del [Intendi agire, operare, essere attivo, e non infingardo] torniare,
che il ballerino del ballare, che r avaro della moneta, che il va-
nitoso della gloriuzza. Quando la passione ha preso. piede in
costoro, lascian piuttosto di mangiare e di bere che di attendere
ad avanzare la cosa a che son portati. E a te, le azioni sociali
paiono esse cosa di men pregio, cosa men degna di applicazione?
Come è facile il respingere e il cancellare ogni
immaginazione turbolenta o disconvenevole, e tro- varsi tosto in
piena calma! Reputa degna di te ogni parola ed azione che sia
secondo natura; e non ti persuada il biasimo od il garrire che ne
seguirà di taluni; ma, se è onesto il farla o il dirla, credi eh’
ella è anche cosa da te. Perchè quei tali hanno una mente lor pro-
pria per guida, ed operano per una lor propria volontà; alle quali
tu non badare, ma va’ innanzi per la diritta, seguendo la natura
comune e la tua. La via dell* una e dell’ al- tra è una sola.
Vo per la carriera delle cose secondo natura, sino a tanto che
cadendo io trovi requie; esalando lo spirito in quello di che ogni
giorno respiro; giacendo su quello di che mio padre raccolse il
seme, mia ma- dre il sangue, la balia il latte; di che da cotanti
anni mi pascolo e mi abbevero, che sopporta me il quale lo calpesto
e in tanti e sì vari modi lo adopro. Non s’ ammirerà la prontezza
del tuo ingegno. E sia. Molte altre [Intendi: «Vo per la via per cui
vanno tutte le cose che sono secondo natura, in- sino a che cadendo
io trovi requie; esa- lando lo spirito in quest' aria che ogni
giorno respiro, per essere sepolto in que- sta terra onde mio padre
raccolse il seme dell* esser mio, mia madre il sangue, la ba- lia
il latte; dalla quale da tanti anni io traggo di che nutrirmi e
abbeverarmi, che mi sostiene mentre ora la calco coi piedi 0 ne uso
ed abuso in tanti modi.» P. cose ei sono, delle quali non puoi
dire, la natura non mi ci ha dato disposizione. In quelle adunque
ti esercita, le quali dipendono intera- mente da te: la sincerità,
la gravità, r amore al lavoro, l’ indifferenza al piacere, la
rassegnazione, la fruga- lità, la mansuetudine, la libertà dello
spirito, r incuriosità, la serietà, la generosità. Non vedi quante
cose puoi acquistare, dove certo non ha luogo la scusa dello
esserci disadat- to, e tralasci per colpa tua? 0 è ella forse la
tua mala disposizione natu- rale quella che ti sforza a mormo-
rare, a star neghittoso, a piaggiare, ad accagionare il corpo, a
lusingare, a millantare, a passare per tanti e tanti turbamenti
dell’animo? No, per gli Dei ! Da lungo tempo tu potevi esser libero
da tutto cotesto; ma solo avevi a cuore, se pur l’avevi, di non
farti scorgere per uno ottuso e di poca penetrativa! E questo [Antonino
ancora si vuol correggere col por mente alle cose, e non istar
sopra pensiero, nè compiacerti nella tua propria
infingardaggine. V’ ha chi, quando ha prestato un rpialclie
servigio ad alcuno, è pronto anche a domandargliene il contracambio. Un
altro non domanda con- traccambio veramente, ma riguarda colui come
suo debitore nel suo se- greto,, e sa quello che lia fatto. Un
terzo poi, non sa, per cosi dire, nè anclie quello che ha fatto, ma
so- miglia ad una vite che ha portato un grappolo, e non cerca
nulla più in là, messo eh’ ella ha fuoià il frutto a lei proprio.
Il cavallo die ha ga- loppato, il cane che lia ormato, l’ape che ha
fatto il miele, e cosi Tuomo 1 Intonili: e questo t/t/'cf/o ancora
si vuol nondimeno correggere, quello cioè dell’ es- sere ottuso e
di poca penetrativa. Il testo in questo luogo, e nelle linee che
precedo- no, è molto ellittico e poco chiaro, e diversamente spiegato
dagli interpreti. che ha prestato un servigio, non Lschiamazza,' ma passa
atl altro, co- me passa la vite a portar di nuovo un grappolo d’
uva nella stagione. S’ha egli adunque ad essere un di coloro che
fanno il bene, per così dire, senza saperlo? Sì Ma convien pure che
1’ uom sappia quello che fa: sendo proprio dell’ animai sociabile il conoscere
ch’egli opera so- cialmente, e, per Giove, il votere che anche
colui, con chi egli ha a fare, lo conosca. Tu di’ il vero: ma non.
pigli pel lor verso lo mie parole; quindi sarai anche tu un di
coloro di che ho fatto menzione quassù. Perchè anche essi son
tratti in errore da una qualche apparenza di ragione. Ma se vorrai
intendere che cosa è quello eh’ io dico, vivi si- curo che non
avrai a lasciare indie- tro nessuna azione sociale per questo. Cioè
non dee schiamazzare, ma passuire ad altro ecc. Preghiera degli
A.teniesi: «Pio- vi, piovi, o amico Giove, sui campi degli Ateniesi
e sui prati. )> 0 non s’ha da pregare, o così alla buona s’ ha da
pregare e con libertà di parole. Come s’ usa di dire, Esculapio ordinò a
colui il cavalcare, o il ba- gnarsi nell’ acqua fredda, o l’andare
a piè nudi, si dice del pari, e con locuzione non diversa, la natura
or- dinò a colui una malattia, una stor- piatura, una perdita, o
altro simile. In quella prima frase, di fatti, la parola « ordinò »
vuol dire assegnò la tal cosa a colui siccome correla- tiva alla
salute; e in questa, i casi che avvengono all’ uomo gli sono as-
segnati, in un certo modo, come correlativi al destino. Così ancora
si dice « i casi (die avvengono a come son dette dagli artefici «
avvenii*si » le pietre quadre nelle mura o nelle piramidi quando
elle s* adattano l’ una air altra secondo un disegno deter- minato.
Perchè del tutto l’armonia è una. E siccome di tutti i corpi presi
insieme è composto il gran corpo del mondo, cosi di tutte le c,ause
prese insieme è composta la gran causa del fato. Intendono ciò eh’
io voglio dire anche i più rozzi, quando dicono: * ella è toccata a
lui. Adunque ella andava a lui, adunque era ordinata per lui.
Riceviamo per- tanto gli ordinamenti della natura come facciamo
quei d’Esculapio. Anche in questi v’ ha molto dell’ amaro, e pur gli
accettiamo di buon grado per la speranza della sanità. Or be- ne, r
adempimento di ciò che la natura ha voluto sia lo stesso per te che
la tua sanità. Accetta di buon grado, per dura che ti paia, ogni
cosa che accade,- pensando che ella conferisce alla sanità del mondo
e [Vale a dire: « itiostrauo di intendere] quando dicono ecc. al buon
successo dei disegni di Giove. Perchè ella non sarebbe venuta a
qualcheduno, se non fosse conve- nuta al tutto: sendo questo il
pro- prio d’ogni natura, e poni anche la più infima, che quanto
ella arreca sia sempre acconcio al governato da iei. Per due
ragioni adunque dèi tu aver caro ciò che accade: Tuna, che questo
accade a te, è ordinato per te, ha attinenza in un certo modo con
te, essendo stato conde- stinato di lassù con te dalla più an- tica
delle cause e dalla più veneran- da; l’altra, che quanto tocca in
sorte a ciascuno, concorre, come causa par- ticolare, alla
prosperità, alla perfe- zione, e, sto per dire, alla perma- nenza
istessa del reggitore del tutto. Perchè diventa mozzo l’intero
quando tu tronchi via un minimo che, sia dalla continuità delle
parti, sia dalla concatenazione delle cause. E tu lo tronchi,- per
quanto sta in te, e lo distruggi, per così dire, quando ti corrucci
di quel di’ è accaduto. Non dèi indispettirti, nè per- derti d’
animo, nè impazientirti teco stesso, se la non ti riesce cosi per
be- ne ogni volta il governarti secondo i retti principii in quello
che tu fai; ma, uscito di via, ritornarci; quando la maggior parte
delle tue azioni sono passabilmente degne d’un uo- mo,
contentartene; ed amare quello a che ritorni; RITORNANDO ALLA FILOSOFIA, non
come ad un pedagogo, ma come un eh’ abbia mal d’occhi alla spugna
ed all’uovo, un altro al cataplasma o alla doccia. Così non ti darà
più fastidio il dovere ubbidire alla ragione, ma anzi troverai in quella
il riposo. E ricordati che la filosofia vuole quello solamente -che
la tua natura vuole; e che sei tu quegli il quale volevi altro, che
non era secondo natura. Ma pure, che v’ha egli di piii liisingliiero? E
il piacere, non t’ inganna egli appunto perchè è lusinghiero? Ma vedi
se non fossero cosa più lusinghiera la magnanimità, la libertà, la
sempli- cità, la bonarietà, la santità. Quanto alla prudenza poi,
v’ ha egli cosa più lusinghiera di quella? se tu badi allo andar
esente da ogni fallo e all' avere a seconda ogni cosa, che è il proprio
della virtù comprensiva e intellettiva? Le cose stanno immerse, per
cosi dire, dentro a un buio tanto folto, che a filosofi non pochi, e
non dei più volgari, elle son parate del tutto incomprensibili. E
gli stoici essi medesimi tengono che elle sieno - comprensibili sì,
ma difficilmente: e che ogni nostro assentimento sia mal certo;*
perchè, dove è fuomo [Questa ed altri Inoghi dei Ricordi provano che
gli Stoici dopo Crisippo venivan.<»i facondo sempre più scettici, ed
aveano essi medesimi il sentimento della debolezza scientìfica della loro
scuola. che non si sia mai ricreduto? Prendi quindi a considerare gli og-
getti in sè stessi; come poco dura- no, come poco valgono, come
possono - cader nelle mani d’ un bagascione, d’ una cortigiana, d’
un malandri- no. “- Passa ai costumi degli uomini con chi tu
vivi; il più gentile dei quali appena si può tollerare, per non
dire che appena v’ ha fra loro chi possa tollerar sè medesimo. In
tanta caligine adunque, in tanto lez- zo, in un tal flusso continuo e
della materia e del tempo, e del moto e di quanto è in moto, qual
cosa v’ ab- bia mai che meriti la nostra stima, o anche pur solo la
nostra premura, io noi so immaginare nè vedere. Che anzi ci bisogna
confortar noi medesimi con l’aspettativa della dissoluzion naturale, e
non adirarci dell’indugio, ma acquietarci in que- ste sole due cose:
T una, che nulla mi può accadere che non sia secondo la natura dell’
universo; l’ altra, che è in mia potestà il non far nulla contro il
Dio e il Genio mio. Perchè nissuno y’ ha che mi possa sforzare mai
ad offenderlo. il. Che uso fo io ora della mia anima? cpiesta
interrogazione con- vien fare a sè medesimo in ogni circostanza, ed
esaminar sè stesso, che v’ ha egli ora in quella parte di me la
quale è detta sovrana? e che sorta d’ anima è ella ora la mia? Non
è un’ anima di fanciullo? o di gio- vinetto? o di donnicciuola? di
tiran- no? di giumento? di fiera. Quali sieno quelli die al volgo
})aion beni, tu il potrai conoscere anche da questo. Chi ha
preconce- pito nella mente, qual bene, alcuna di quelle cose che
sono un bene davvero, come, per esempio, la prudenza, la temperanza, la
giustizia. la fortezza, non può, sincliè un tal concetto gli dura,
pre^star più orec- chio a chi venga a dire in sulla scena,
«Tanta ho di ben dovizia.... eco. I perchè questo ripugnerà
al bene al (juale egli pensa. Ma chi ha precon- cepito alcun dei
beni volgari, ascol- terà ed accoglierà con piacere sic- come
arrecato a proposito, quello che il comico dice. Così persino il
volgo s’ accorge della differenza. Altrimenti non rigetterebbe nell' un .de’
casi quel motto, che accoglie poi,’ siccome calzante e faceto,
nell’altro, quando lo vede applicato alle ricchezze o a quelle altre cose
che fo- mentano la effemminatezza o l’am- bizione. Fàtti innanzi
adunque e domanda se si hanno da stimare e [Verso di tm autor
comico, che dovea esser famigerato in sul teatro a quei tem- pi; il
senso del quale, benché Tautore noi citi intero, appare dall' ultime linee
di que- sto paragrafo] da riguardar come beni quelle cose
rispetto alle quali può molto accon- ciamente venir soggiunto, che
al possessor loro, per la soverchia ab- bondanza, non riman più luogo
ove fare i suoi agi. Sono un composto di causa e di materia.
Ora nè questa nè quella non è per ridursi a nulla mai; co- me
neppure non è venuta dal nulla. Adunque ciascuna parte di me di-
venterà per via di mutazione una qiìalche parte del mondo, e quella
poi ancora un’ altra parte del mon- do, e così all’ infinito. Da una
simi- gliante mutazione ho avuto io resi- stenza, e la ebbero i
miei genitori, e così risalendo, sino ad un^altro in- finito;
perchè nulla osta che si fa- velli a questo modo, quand’ anche
vogliamo stabilire che il mondo si regga a periodi determinati.'
1 Allusione alla c conflagrazione del mondo » domma Eraolitico, la
quale doveva accadere. La ragione e V arte ragionativa sono facoltà che si
contentano uni- camente di sè medesime e delle operazioni lor
proprie. Piglian le mosse dal principio peculiare a loro; vanno
dirittamente al fine proposto; ondechè son nomate catortosi le
azioni di cotal sorta, significando col nome la rettitudine della
via. Non è da dire che sia dell’uo- mo nessuna di quelle cose che
non ispettano all' uomo in quanto uomo. Non sono punto requisiti
dell’uomo, nè le promette la natura dell’ uo- a certi tempi,
e distruggersi allora tutto r ordine esistente delle cose, per dar
luogo ad un nuovo. Fu accettato dagli stoici ante- riori,
modificato e cangiato dai posteriori: tra i quali non volle decider nulla
Antonino. por essere consumato ivi dal fuoco, se T universo va
soggetto a con- flagrazioni periodiche, o per servire con vicenda
perpetua al rinnovamento di lui s'egli dura eterno o incorrotto. Beota
effectio appo Cicerone, lib. Ili de Fin., cui vedi. Ciò che in questo § è
no- mato catortoei è l'aziono conforme al dovere, ed è voce solenne
alla scuola. lYio o attende complemento da quel- le. Adunque non
istà nè anche in loro 11 fine dell’uomo, nè iLbene. per conseguenza,
che è parte integrante del fine. Ancora, se alcuna di queste coso
spettasse all’ uomo, non ispetterebbe a lui il dispregiarle o r
opporsi ad esse; nè sarebbe lo- devole chi mostrasse non averne
bisogno; nè sarebbe buono chi se ne disdice alcuna, se buone elle
fossero, f^ppure, quanto più Tuoino si priva di queste cotali cose, o
so- stiene d’ esserne privato, tanto più buono è tenuto.'
IG. Quali saranno i tuoi pensieri abituali, tale sarà la tua
mente: perché si tigne dai pensieri la men- te.^ Tignila adunque
con l’ abitudine ' Dunque queste cotali cose non sono veri
beni per l' uomo in quanto è uomo, cioè ragionevole. [Questa conclusione è
sott' intesa]. [Demostene più di una volta nelle sue Filipj iche disse
che quali sono le azioni in (li pensieri come questo, per esempio:
Dove si può vivere, quivi si può anche ben vivere. Nella corte si
può vivere; adunque anclie nella corti; si può ben vivere. K come
quest’ altro: Una cosa eh’ ò fatta a contem- plazione d' un’ altra, è
fatta per qucl- r altra; se è fatta per quell’ altra, a quella ò
portata; se a quella c por- tata, quivi è il suo fine; se quivi è
il suo fine, quivi è anche il suo utile e il suo bene. Adunque il bene
del- r animai ragionevole è la comunità; sendo dimostrato già da
lunga pezza che per la comunità siam nati> O non era evidente
forse, che gli es- seri men degni son fatti a contem- plazione dei
più degni, e i più de- gni, a contemplazione gli uni degli altri?
che gli esseri animati son più degni che gli inanimati, e i ragio-
nevoli più degni che gli animati? cui sogliono versare gli uomini,
tali soglio- no pur essere i sentimenti deU’animo loro, Andar dietro all’
impossibile è cosa da stolto. Ora è impossibile che i malvagi non
facciano cose di questa sorta. Nulla accade a nessuno, che egli non
sia nato per sopportare. Le stesse cose accadono a un altro, il quale,
o ignorando eh’ elle sieiio accadute, o volendo dar a divedere
grandezza d’ animo, sta inaltérabile e non se ne duole. Tristo a noi,
se la ignoranza o il rispetto umano avran più forza che la
prudenza. Le cose, per sè stesse, non toccano l’ anima punto; nè
hanno accesso all’ anima; nè posson volger r anima nè muoverla. Si
volge ella e si muove da per sè sola; e quali sono i giudizi di che
ella si reputa degna, tali ella fa che sieno per lei gli oggetti
che le stan presso. Cioè, quali io le vedo fare a costui, ora. Cioè a
dire: «quali sono i giudizi che Per un riguardo, l’ uomo è
di quelle cose che ci toccano il più strettamente, in quanto
convien far del bene agli uomini e sopportarli; ma in quanto si
oppongono alcuni alle azioni debite, diventa per me cosa indifferente
1’ uomo, non meno che il sole, non meno che il vento, non meno che
le bestie. Dalle quali cose può benissimo venir impedita una
qualche azione; ma la volontà, ma la disposizione interna non in-
contrano impedimento mai, per l’ ec- cezione ‘ con che l’anima
accompagna i suoi conati e pel rimovere, eh’ ella fa, l’ostacolo.
Perchè l’anima ha facoltà di rivolgere al suo scopo ogni cosa che
s’ opponga alla attività di lei; e serve quindi ad un’ azione ciò
che impediva quella certa azione, e ella stima degno di sè il fare
delle cose esteriori, cotali ella fa che per lei sieno le dette
cose. diventa una via ciò che le sbarrava quella certa via. Di
quanto v’ lia al mondo, onora r eccellentissimo. L’ eccellentissimo
ò quello che si vale di tutto il resto e che tutto il resto governa. E
così ancora, di quanto v’ ha in te, onora l’eccellentissimo. L’eccellentissimo
in te è quello che v’ ha in te di congenere a quel primo. Di fatti
esso si vale in te di tutto il resto, e da esso è governata la tua
vita. Quello che non offende la città, non offende il cittadino. Ad
ogni pensiero di offesa che ti paia aver ricevuto applica questa
regola; se la città non è offesa da costui, non sono offeso nè
anche io. Che se la città è offesa, non conviene adirarsi, ma
insegnare ‘ a chi l’ha offesa dove sta il mancamento. Do il mio
pieno voto alla correzione dello Schultz, preceduto dal Gatakero,
ben- ché questi non sapesse così bono porro al suo luogo le pardo
scadute. Considera sovente la rapidità con die passa e si dilegua
tutto quello che esiste e che nasce. Per- chè la materia, a guisa
d’ un fiume, è in un flusso perpetuo; le azioni, in uno avvicendarsi
continuo; le cause, in mille determinazioni di- verse; nulla, per
cosi dire, che stia; e questo infinito che presso presso t’incalza,
del passato e del futuro, è un abisso dentro al quale si spro-
fonda ogni cosa. Come adunque non è uno stolto chi, fra questi
termini, si gonfia, o si travaglia, o guaisce, per cosa che
minimamente il mo- lesti, come s’ ella avesse pure a du- rare un
buon tratto di tempo? Pensa a tutta quanta la materia, della quale per una
minima parte partecipi; e a tutta quanta la età, della quale un
breve e momen- taneo intervallo ti è assegnato; e all’ universale
destino, del quale che parte aliquota sei? /Ucuno pecca. A me che
fa? Tocca a lui il pensarci; sua è la volontà, sua 1’ azione. Io ho
adesso quel che la natura comune vuol che adesso io abbia, e fo
quello che la natura mia propria vuol che adesso io faccia. La
parte sovrana e dominante deir anima tua stia salda ai moti della
carne, o sien piacevoli o in- grati, e non vi partecipi, ma circo-
scriva sè stessa e tenga confinate nelle membra quelle passioni.
Che se elle penetrano ciò nondimeno sino alla mente, per la
simpatia in- volontaria che han fra loro le parti d’ uno stesso
tutto; allora, al senso, che è cosa naturale, non -si vuol tentar
di resistere; ma si guardi la parte sovrana dallo aggiungervi del
suo r opinione che quello sia un bene od un male. Vivere con gli
Dei. E que- gli vive con gli Dei, il quale di con- tinuo appresenta
loro T anima sua disposta di tal maniera che élla si contenti di
quanto le vien distribui- to e faccia quanto vuole il Genio cui
Giove distaccò da sè stesso e diede a lei per reggitore e per guida. Questo
è la mente e la ragione di ciascheduno. T’adiri tu con quello che
sa di caprino? T’adiri tu con quello a cui pute la bocca? Che vuoi
tu che ci faccia? Egli ha la bocca a quel modo, egli ha le ascelle
a quel modo, di necessità debbono uscirne esala- zioni a quel modo.
Ma, odo chi dice, r uomo ha la ragione, e può scorgere, rillettendo,
in che pecca. Egregiamente. E anche tu, dunque, hai la ragione; eccita,
con la disposi- zione razionale, in lui la disposizione razionale;
ammaestralo; ammonisci- lo. Perchè, s’egli ti ascolta, lo gua-
rirai, e non c’ è più uopo di collera. 28. ' Nè eroe di tragedia,
nè putta. Come fai conto di vivere uscito di qua,^ puoi vivere in quello
stesso modo anche qua. Che se non tei permettono, allora esci pur
anche <lalla vita: ma come quegli a cui non incontra nulla di
male. C’è del fumo qua, io me ne vado. Perchè stimi questo gran
cosa? Ma sin- [Queste parole nella vulgata stanno alla fine
del § precedente; ma, se non sono cor- rotte, debbono essere separate e
formare da por sè sole un paragrafo. 2 Cioè, non camminar sui
trampoli, e non istrascinartì per terra: non tanto alto da parer
gonfio o affettato, non tanto basso da muovere a schifo altrui. Cioè,
dalla corto. Allude, secondo che ci avverte il Gata- kero, al proverbio:«
tre esserle cose che ci caccian fuori dì casa; il fumo, il pioverci
dal tetto, e la moglie astiosa.» Vuol dun- que che r uomo esca di vita
con quella in- differenza con che uscirebbe dalla camera dove vi
avesse fumo. tantoché nulla di somigliante non mi sforza a partire, me ne
rimango libero, e nessuno m’ impedirà dal fare le cose eh’ io vorrò;
e vorrò se- condo la natura d’un animai ragio- nevole e
sociabile. La mente dell’ universo ama la comunanza. Perciò ha
fatto gli esseri men degni in grazia dei più degni, e i più degni
ha conciliato gli uni con gli altri. Tu vedi come essa gli ha
subordinati, coordinati, dato a cia- scuno secondo il suo grado, e
ridotto a mutuo consenso i primi tra loro. Come ti sei portato
sinora con gli Dei, co’ genitori, coi fratelli, con la moglie, coi
figli, coi maestri, co- gli educatori, con gli amici, coi fa-
migliari, co’ servi; se, riguardo a tutti, puoi dire insino ad ora:
« Nè d’ opre mai nè di parole oltraggio A nullo io fea.*
» ' Omero, Odiss. Kanimenta per quali traversie sei passato e
quali hai avuto la forza di tollerare: e siccome è piena ornai per
te la storia della vita e termi- nato r incarico. Che cosa s’ è potuto
scorgere in te di bello; quanti piaceri e quanti dolori hai dispre-
giato; quante occasioni di gloria hai negletto; a quanti sconoscenti ti sei
dimostrato amorevole. Forse tutto il paragrafo sarà più chiaro, e il
pensiero di Antonino meno ambigua- mente espresso se diremo: < Qual
fosti infino ad ora verso gli Iddii, i parenti, i fratelli, la
moglie, i figlinoli, i maestri, gli educatori, gli amici, i servi? Puoi
tu dire, rispetto a tutti: nè d'opra mai, ni di parole oltraggio a
nullo io /«a? De' passati tuoi casi e delle passate fortune, quante
hai saputo tollerare da uomo? Conchiuso per te oramai è il dramma
della vita, finita la parte che ti era assegnata. Ebbene, quante sono
le buone azioni che di te puoi ric-ordare? Quanti piaceri, quanti
dolori hai saputo disprezzare? quante cose stimate gloriose, * non
curare? a quanti ingrati essere bene- fico e amorevole?» In questo
paragrafo il Pierron ed altri dei migliori interpreti pre- sero
alcuni grossi granchi; 1' Ornato intese Per qual cagione certe
anime inesperte ed ignare confondono esse una esperimentata e
sapiente? Qual è dunque l’ anima esperimen- tata e sapiente? Quella che
sa il prin- cipio ed il fine, e conosce la ragione che penetra la
materia delle cose e governa, secondo cicli determinati, per tutta
la eternità 1’ universo. Oramai sei cenere, e schele- tro, e un
nome, o nè anco un no- me; e il nome è strepito e rimbombo mero. Le
cose di che si fa gran conto nella vita son vuote, fracide,
picciòle, cagnolini che si mordono, fanciullini astiosi che ridono e
poco stante guaiscono. E la fede, e la ve- recondia, é la
giustizia, e la verità, oc Air Olimpo, la terra abbandonando
Dalle vie spaziose.* » meglio di tutti; ma troppo fedele alla
let- tera del testo, non fu chiaro abbastanza nello esprimerne il
senso. Esiodo, opere e giorni, v. 195. Sottin- Che dunque ti può
trattenere qui ancora? quando le cose sensibili sono senza costanza
nè sussistenza; gli organi del senso, ottusi- e pronti a
impressionarsi del falso; l’animuc- cfa * tua stessa, non altro che
una esalazione del sangue; e 1’ aver fama appo cotali, cosa del
tutto vuota. Che dunque aspetti? Con pazienza il tuo qual eh’ ei
sia o spegnimento 0 traslocamento. Ed intanto che quel- lo viene,
che cosa ti basta? Che altro, se non venerar gli Dei e bene- dirli,
beneficar gli uomini e soppor- tarli e astenerti con loro,^
ricordan- doti che quanto è fuor dei limiti del tuo corpicciuolo e
della tua aniinuc- cia non è nè in tuo potere nè tuo? tendi
un verbo, recaronsi o altro che più ti piaccia. P. t Per
antniuccta, intende* spesso Antonino il principio animale mero, comune
anche ai bruti, vedi la nota (6) in fino del volume. Cioè nelle tue
relazioni con loro. Tu puoi prosperar sempre, giacché puoi andar per la
diritta sempre, giacché puoi giudicare di- rittamente sempre ed
operare. Due proprietà son queste, comuni al- l’anima e di Dio ' e
dell’ uomo e d’ogni animai ragionevole: il non potere essere
impedito da altrui, e lo avere il proprio bene interamen- te
riposto nella disposizione interna e nella azione conforme alla giustizia,
senza che il desiderio arrivi più oltre. Comuni all'anima e di Dio e
dell'uomo. Secondo il concetto stoico Iddio ora un corpo o un essere
vivente ed eterno, non simile all' uomo, ma composto tuttavia, come
rnomo. d’anima e di corpo. L’unità del corpo divino coll’anima divina ora
per essi il mondo, e quindi si accordavano a dire che Dio è il
mondo, cioè la materia, dotata di una certa qualità e forma, colla
forza attiva in essa immanente. L'anima di Dio sarebbe dunque questa
forza attiva immanente nel mondo, cioè nel corpo divino. Se cotesto non è
malizia mia, ' nè azione procedente da malizia mia, ' nè
riceve danno la società, perchè me ne do io fastidio? E qual dan-
no per la società v’ ha egli? Non lasciarti portar via dalla
immaginazione al primo incontro; porgi aiuto altrui, sì, a tuo
potere e secondo l’ importanza.del caso, qiiand’ anche lo scapito
non sia se non di cose mezzane; * ma guardati • dall’ immaginare
che sia un danno. Perchè è una cattiva abitudine. Come quel vecchio che
nel partirsi domandava la trottola del suo allie- vo, sapendo bene
che ella era solo una trottola: così hai da fare anche tu *
sui rostri. L’uomo, hai tu dimenticato che cose son queste? No. Mma
costoro ne fanno gran caso. E per questo hai da diventare stolto anche tu?
Dovunque il colga la morte, uomo avventurato. E avventurato vuol
dire che ha dato buona ventura a sè stesso; e buona ventura sono i
buoni moti dell’ ani- mo, le buone volontà, le buone azioni. La
materia delle cose è ar- rendevole e piglia volentieri ogni forma.
E la ragione che 1’ amministra non ha in sè nessuna causa di mal fare,
non avendo malizia, e non fa (juindi male a nulla, nè nulla è
dannificato da lei. Ed ogni cosa av- viene ed ha compimento per
essa. Non ti curare che tu stia al freddo o che tu stia al caldo,
quando fai il tuo dovere; che tu caschi di sonno 0 che tu abbia a
sufficienza dormito; che te ne venga biasimo o che te ne venga lode;
che tu muoia, o che tu attenda ad un’ altra azione qualunque.
Perchè ella è anche una delle azioni pertinenti alla vita, quella
per cui si muore; e basta anche quivi, per conseguenza, ben
disporre del presente. 3. Vedi addentro; nè la qualità
propria di nessuna cosa nè il valore ti sfugga. Tutti gli oggetti
in brevissimo tempo si mutano; ed o avvampe- ranno, se la materia è
unificata, o si disperderanno. La ragione governatrice sa bene
con qual intenzione e che cosa opera, e su qual materia. Il miglior
modo di vendicarsi d’ una ingiuria è il non rassomigliare a chi r
ha fatta. D’ una sola cosa prendi piacere, è di quella ti soddisfa;
del passare dall’ una azion sociale all’ altra azion sociale,
ricordandoti di Dio. [Intendi per aziono sociale una aziono utile
alla comunità dogli uomini, e qual si conviene ad un animalo socievole
qual è l’uomo. La parte sovrana è quella che eccita e volge sè
medesima; che fa sè quale ella vuole,* e fa parere a sè quali ella
vuole tutte le cose che aw^engono. Secondo la natura dell’
universo ogni cosa si fa; non potendosi fare secondo una qualche
altra natura la (piale 0 conterrebbe in sè quella, o sarebbe
contenuta in quella, o sta- rebbe separata al di fuori di quella. 0
confusion d’ ogni cosa, accozzamento d’atomi, e disperdimento; o unità nel
tutto, ordine, prov- videnza. Se- il primo supposto ha luogo, come
desidero io di rimanere [Cioè che ha il potere di modificare sè
stessa come ella vuole. Se contenesse in sè la prima, non sa- rebbe più
questa la natura universale, ma r altra; se fosse contenuta in essa,
quel che si farebbe secondo lei sarebbe fatto, a fortiori, secondo
l' altra: e se stesse sepa- rata al di fuori, ci sarebbe qualche
cosa fuori dell* universo, il che è assurdo. più.a lungo in un
guazzabuglio di quella fatta e lordume? Che altro mi debbe star a
cuore che il « diven- tare terra a qualunque modo? » E di che mi
turbo io? Verrà il disperdi- mento a me, checché io mi faccia. Ma se è
vero il secondo, adoro il reggitore dell’universo, e in lui sto
fermo e confido. Quando vieni sforzato punto punto dalle circostanti
cose a tur- barti, rientra subitamente in te stes- so, e non istar
fuori del ritmo ’ pili di quello che la necessità ti costringa.
Perchè ti farai più valente nella misura col ritornare ad essa di
continuo. Se tu avessi la matrigna e la madre nel tempo istesso,
alla prima faresti onore, ma torneresti pur non- dimeno sempre
accanto alla madre. Cotali son per te la corte e la filosofia [Paragona
la vita alla mimica. 0. Ifarco Aurelio]. Torna sovente alla seconda
e in essa ti riposa, la quale fa a te sopportabil la corte, e te sopportabile
in quella. Come ti fai concetto di tale o tal altra vivanda, dicendo
teco stesso: è un cadavero di pesce, è un cadavero d’ uccello o di
porco; e del falerno, è succo di grappoletti d’uva; e della
porpora, son peluzzi di pecora intinti nel sangue d’ una
conchiglia; e del congiugnimento, è attrito di membrane ed escrezione
di moccio con un po’ di spasmo; come tu giudichi allora, penetrando
col concetto sino alle cose esse mede- sime e rappresentandole
nella es- senza loro quali sono; così hai da fare in tutte le
occorrenze della vita; e quando le cose ti si fanno innanzi con
molta appariscenza, denudarle, e scorgerne la bassezza, tolto che
avrai d' intorno a loro la pompa onde si fan magnifiche. Imperocché gran
madre illusioni è la boria; e quando tu credi più fermamente eh’ elle
sieno serie le cose a cui attendi, allora sei più affascinato. Vedi
che cosa dice Cratete di Senocrate stesso.’ Le cose che il volgo
apprezza sono per la maggior parte di estremo genere ed infimo, di
quelle cioè che dall’ abito (0) o dalla natura son go- vernate:
pietre, legni, fichi, viti, ulivi, (rii uomini un po’men rozzi
tengono in pregio quelle che son governate dall’anima: greggio, per
esempio, e mandre. Gli uomini ancor più còlti, quelle che son
governate dall’anima ragionevole; non tuttavia in quanto è
universale, ma in quanto è arti- ficiosa o, come che sia,
ingegnosa. 1 StìTi Socrate tu discepolo di Platone, e famoso
per l’austerità del suo carattere, (guanto al Cratete qui menzionato,
ignorasi se fosse il filosofo Cratete di Atene, oppure il cinico di
Tebe; come ignorasi pariraentn qual fosse il detto a cui si acceuna in
questo luogo. 1 m2 ricordi. V od anche senza
relazione a nulla, ' come il possedere semplicemente una
moltitudine di schiavi.* Quegli poi che fa stima dell’anima
ragione- vole universale e sociale, non si cura delle altre cose
più punto; ma si studia di consolidare in istati ed in moti
conformi alla ragione e volti al bene della società 1’ anima sua,
ed aiuta il suo congenere a far lo stesso. Una cosa s’affretta a
nascere, iin’ altra a venir meno, e di quella stessa che nasce ima
qualche parte è già spenta; il flusso e l’alterazione
ringiovaniscono ad ogni ora il mondo, come lo scorrere non interrotto
del tempo fa sempre nuova 1’ eternità. Tn tal fiumana di cose che
vengono e passano, che v’ ha egli che altri 1 Intendi che
costoro ameranno possedere* nn gran numero di schiavi come i detti
pocanzi ameranno possedere nna mandra numerosa. debba aver caro, quando,su
nulla può' far fondamento? Gli è come se imprendesse ad amare uno
degli uc- celletti che volano, e quegli è già sparito via.
La vita di ciascheduno è non al- trimenti che una esalazione del
san- gue o una respirazione dell’aria. Pei> chè non v’ lia
differenza, che tu tragga • a te l’aria una volta e la renda, il
che tu fai tuttodì, o che tu renda tutta insieme colà d’ onde l’ hai
tratta la facoltà respiratrice che ieri o ier l’altro nascendo
acquistavi. 16. Non il traspirare, come le piante, è degno di
stima, non il re- spirare, come i giumenti e le bere, non il.
ricevere impressioni nella fantasia, non Tesser mosso dagli ap-
petiti, non l’adunarsi in branco, non il nutricarsi; cosa non dissimile
dal mandar fuori il soverchiò del nutri- mento. Che è degno di
stima adun- que? lo strepito? No. K per conseguenza nè anche lo strepito
delle lingue. Ora le acclamazioni del volgo non sono altro che
strepito delle lingue. Anche la gloriuzza hai posto adunque da
banda. Che rimane, che s«i degno di stima? Il muoversi, pare a me,
e il ristarsi * secondo il prin- cipio della propria costituzione,
al che conducono ancora le arti e le culture diverse. Perché ogni
arte ha questo per iscopo, che il formato da lei sia acconcio
alPopra per la quale è formato; e il vignaiuolo che coltiva la
vite, e il cavallerizzo, e il canat- tiere, cercano pur questo. E le educazioni,
e le scuòle, a che tendono? Questo adunque è il degno di stima. E
se questo vien condotto a bene, non occorre procacciar più altro. —
Non finisci di stimare ancora molte altre cose?* Nè libero adunque
sarai 1 L'operare e il non operare. 0. ^ Cioè, non
cesserai dallo avere in pre- gio molte altre cose? tu mai, nè bastevole a te, nè im-
passibile; perchè ti sarà mestieri invidiare, ingelosire, sospettare
chi ti può tórre le cose che stimi, mac- chinar contro a chi le ha;
in fine, conturbato convien che sia chi d’ alcuna di quelle è
privo, ed ol- tracciò, che mormori contro agli Dei bene' spesso;
laddove la riverenza della propria mente e la stima ti farà accetto
a te medesimo, accomo - devole agli uomini e consonante agli Dei,*
io voglio dire, contento di tutto che essi distribuiscono e di tutto
che hanno ordinato. Air insù, all’ ingiù, a cerchio intorno,
son le mosse degli elementi. La virtù non si muove in nessuna
^ cDi modo che ciascheduno che procac- cia di desiderare e fuggire
solamente quello che è da essere desiderato e fuggito, pro- caccia
al tempo medesimo di esser pio -- Epitteto, Manuale, traduz. di G.
Leopardi. Vedi tutto questo capitolo del Manuale. di queste guise, ma in
una certa sua più divina, e per via mal compren- . sibile procedendo
va di bene in meglio. Che cosa è mai quel che fanno ! Ai loro
contemporanei, che insieme con essi vivono, non voglion dar lode;
ed essi medesimi poi agognano di aver lode dai posteri i quali non
videro mai, nè vedranno. Gli è come se tu ti dolessi del ' non aver
lode anche da’ tuoi antenati. Non ogni volta che una cosa è
malagevole a te, hai da credere però eh’ ella sia impossibile all’uomo;
anzi, ogni volta ch’ella è possibile all’ uomo e dimestica, credi ch’ella
è conseguibile anco da te. Nell’ esercizio della lotta alcuno talora ci
graffia, o venendoci addosso ci percote malamente col [Merico
Casaabono cita qui, siccome un bel comento a questo §, il saggio di Giobbe,
che vuol leggersi tutto intero. capo. Ma noi diamo a divedere, e
non ce ne tenghiamo olfesi, nè stiamo in apprensione di lui quindi
innanzi, come se ci insidiasse; ce ne guardiamo, sì, ma non come da
nemico, nè con. animo sospettoso; lo scansiamo con piacevolezza.
Questo medesimo s’ha da fare in tutte le altre parti della vita:
molte cose lasciar correre, come tra persone che lottano. Perch’egli si
può, come ho detto, schi- vare altrui, e non averlo però a so-
spetto nè odiarlo.Se altri mi può convincere e far capace eh’ io penso ed
opero non rettamente, di buon grado son per ricredermi; perchè io
cerco la verità, la quale non noeque mai a nessuno. Nuoce bensì
altrui il li- manere nell’ inganno e nell’ ignoranza propria. Quanto a
me, io so l’ufficio mio; le altre cose non me ne distolgono; perchè
o sono inanimate, o irragionevoli, o vanno errate e non conoscon la
via. Gli animali irragionevoli e le cose in generale a te
sottoposte, quando esse non han la ragione e tu r hai, usa senza
riguardi altera- mente; gli uomini, che han la ra- gione, usa come
vuol la legge di com- pagnia. In ogni cosa poi, invoca gli Dei. E
non curarti del più o men tempo che tu durerai a far cotesto:
perchè bastano anche tre sole ore cotali. Alessandro il Macedone e
il mulattiere di lui si ridussero, morendo, alla medesima stregua.
Perchè, o furon ricevuti ambidue nelle stesse ragioni seminali del
mondo,' o si dispersero del pari in atomi. Pensa quante cose, in un
medesimo istante, dentro a ciascuno * Nel caso che sia vero il
sìsteina ato- mistico di Epicuro. di noi han luogo, relative al
corpo nello stesso tempo ed all’ anima; e non istupirai che molte
più, anzi tutte quelle che avvengono, coesi- stano simultanee in
quel tutto ed uno a cui diamo il nome di mondo. Se
qualcheduno ti domanda come si scriva il nome d’ Antonino,
proferirai tu forse con isforzo di voce ogni sillaba? E se quegli
s’adira, t’adirerai alla tua volta anche tu? Non annovererai tu
piuttosto, pa- catamente procedendo, l’una dopo l’altra le lettere?
Cosi hai da fare anche adesso. Ricordati che ogni ufficio* consta
di certi numeri; col- r osservare i quali, e non col tur- barti, e
non coll’ adirarti con chi s’adira, arriverai direttamente al fine,
proposto. Come è crudele il non per- mettere agli uomini che
seguano quel che sembra a loro convenevole ed utile? E tu noi
permetti, in un certo modo, quando ti corrucci del loro fallire.
Perchè del tutto e’ non vi si indifcono se non in quanto il credono
convenevole ed utile a loro. Ma non è così. Dunque ammae- strali e
falli capaci, senza corrucciarti. La morte è una pausa alla im-
pressione dei sensi, allo stimolo degli appetiti, al discorrer della
mente èd alla servitù verso la carne. È un vituperio che in
quella vita dove non ti s’è stancato ancora il còrpo, ti si sia
stancata innanzi tempo r anima. Bada a non incesarirti,* a
non imbrattarti; chè cosi suole avvenii-e. Conservati adunque
semplice, buono, ^ Intendi: sebbene tu sia stato adottato
nella famiglia dei Cesari, bada a non t«cc- sarirli, cioè cadere nei
costumi viziosi di molti dei Cesari o imperatori che. ti hanno, preceduto.
intemerato, grave, ingenuo, amico del giusto, pio, mansueto,
amorevo- le, saldo nell’ adempire al tuo ufficio. Combatti per
mantenerti tale, quale ti ha voluto fare la filosofìa. Venera gli
Dei, fa’del bene agli uomini. Breve è la vita; e l’unico frutto di
questa esistenza terrena è la santa disposi- zione deir animo e 1’
opere indiriz- zate al comun bene. Ogni cosa da vero discepolo di
Antonino quel suo vigor costante in ciò che operava secondo
ragione, e 1 umor sempre uguale, e la santità della condotta, e la
serenità del volto, e la soavità dei modi, e il dispregio della
vana gloria, e l’ ardore nel voler comprender le cose, e come non
avrebbe lasciato andar nulla mai, ch’egli non avesse ben bene
considerato in prima e chiarito; e come sopportava quelli che si
dolevano di lui ingiustamente, [Antonino Pio, suo padre di adozione. senza
ridolersi egli di loro; come non faceva mai nulla in furia; come
non dava adito ai delatori; come era diligente esploratore dei costumi
e delle azioni, non maldicente nè te- mente i rumori, non
sospettoso, non sofistico; come si contentava di poco, in materia
d’abitazione, per esempio, di letto, di vestito, di cibo, di
servidori; come era operoso, lon- ganime, e di tal tempra da poter
durare in uno stesso luogo sino alla sera, senza aver uopo, per la
fruga- lità del vitto, nè anche di uscire ai bisogni del corpo fuor
dell’ ora con- sueta; e la costanza e il tenor sempre uguale nelle
amicizie; e il sopportare che altri contraddicesse con libertà di
parole al suo parere, e rallegrai’si quando glien era mostro un migliore;
e come era religioso senza supersti- zione; affinchè, con una buona coscienza
pari alla, sua, tu incontri come egli incontrò l’ultima ora. Esci
dall’ ebrezza, ritorna in te; e cacciato via il sonno, e veduto
ch’eran sogni quelli che ti turba- vano, risvegliati una seconda
volta, e guarda le cose della vita come tu guardavi quelle altre.
Son composto di un corpicciuolo e d’un’ anima. Al corpicciuolo tutte le
cose sono indilferenti; non potendo egli nè manco far differenza.
Air anima sono indifferenti tutte Qui r Ornato volea fare una nota,
come è indicato nel manoscritto, ma non la fece. Verosimilmente
egli volea gìnstiiicare e il- Instrare la sna interpretazione di
questo luogo, alquanto diversa da quella degli altri interpreti. La
traduzione letterale di tutto il § è cEsci d'ebrezza, richiama te
stesso; e cacciato via il sonno, e veduto che eran sogni quelli che ti
turbavano, desto una seconda volta, guarda queste cose, co- me tu
guardasti quelle altre. Intendi anima
razionale, la quale per gli Stoici non era altro che ragione e vo-
lontà, esclusa la sensibilità appartenente solo airantmwccta, mero
principio animale comune anche ai bruti. quelle che non sono azioni di
lei. E quelle che sono azioni di lei, stantìo tutte in balia di
lei. E di queste an- cora, quelle sole che riguardano il presente. Perchè
le azioni future e le passate sono pure indififerenti per
lei. Il lavoro non è cosa contro natura nè per la mano nè pel
piede, sintantoché il piede fa le cose del piede, e la mano le cose
della mano.. Quindi non è nè anche cosa contro natura per V uomo,
in quanto uomo, fìnch’egli fa le cose dell’uomo. E se non è cosa
contro natura per lui, non è nè anche per lui un male. Quanti
piaceri non godono i malandrini, i bagascioni, i parricidi, i
tiranni? Non vedi come gli artisti mec- * canici condiscendono bene in.qual-
Sottintendi; € hanno importanza per lei. che cosa agli imperiti, ma
non seguitai! meno però la ragione del- l’arte, e da quella non si
vogliono distaccare? Non è ella una vergogna che l’architetto e il
medico abbiano più rispetto per la ragion dell’ arte loro propria,
che l’ uomo per la sua, la quale egli ha in comune con gli dei?
L’Asia e l’Europa son cantucci del
mondo; tutto il mare, una goc- ciola del mondo; l’ Athos, una
zolletta del mondo; ciascuno degl’istanti pre- senti del tempo, un
punto dell’ eter- nità. Tutto è piccola cosa, mutabile, peritura.
Tutto vien di colà, da quella mente comune, o voluto da lei, o per
concomitanza.* E quindi la gola del leone, e il veleno, ed ogni cosa
ma- lefica, come le spine ed il loto, sono un accompagnamento e
quasi una produzion necessaria di quanto v’ha d’eccelso e di bello.
'Non immaginai ti adunque che sien cose aliene da quello che tu
veneri; ma pensa alla sorgente del tutto. Chi ha veduto le cose d’
adesso, ha veduto tutte le cose, quante per gl’ infiniti secoli
furono e per gli jiltri infiniti saranno; perch’ elle son tutte d'
uno stesso genere e d’ uno stesso coloi'e. Considera sovente la
concate- nazione di tutte le cose nel mondo e la relazione dell’
una all’altra. Per- di’ elle son tutte intrecciate, dirò così, r
una colf altra, e tutte, per (piesto motivo, amiche l’ una del- l’altra.
Di fatti all’ una vien sempre dietro 1’ altra; del che è cagione iJ
moto tonico e consenso di tutte e r unità della rnateiia prima. Alle
cose che ti sono date in sorte, ti devi adattare; e gli uomini, coi
quali hai comune la sorte, li devi amai'e, ma amar veramente. Uno
strumento, un ordigno, un arnese qualunque, se è atto, a tutto
quello per che è stato formato, va bene; ancorché non ci sia più
chi r ha formato. Ma negli esseri governati dalla natura è
immanente dentro e continua la virtù che li formò; per lo che
conviene ancor più venerarla, e stimare.che, ove secondo il voler
di quella tu viva, sia per riuscirti secondo il tuo in- tento ogni
cosa. E questo ò quello che succede all’ universo, che gli riesce
secondo il suo intento ogni cosa. il. Quale che sia la cosa
dove tu riponi il tuo bene o il tuo male, s’ ella è una di quelle
che non di- pendono dalla tua volontà, di neces- sità debbe
accadere che, incorrendo tu in quel male, o non conseguendo quel
bene, tu accusi gli Dei, e che tu odii inoltre gli uomini, i quali
ti saran causa, o i quali tu sospetterai avere ad esserti causa del
non conseguir 1’ uno o dell’ incorrer nel- l’altro; e molte
iniquità, certo, com- mettiam noi, per non essere indif- ferenti a
siffatte cose. Ma se noi tenghiamo per beni o per mali quelle cose
soltanto che dipendono da noi, nessuna causa rimane più nè di ac-
cusare Iddio, nè di stare in ostilità verso l’uomo. ANBEDUE COOPERIAMO AD
UN MEDESIMO FINE. Gl’uniscienti e intelligenti, gl’altri alla cieca; per
modo che anche i dormienti, come disse Eraclito, se non erro,
lavorano e COOPERANO a ciò che si fa nel mondo. L’ uno ci lavora in una
guisa, l’altro in un’altra; e ancorché senza suo prò, ci lavora e
coopera anche colui che si va querelando e fa prova ' Vedi il
§ 16 di questo medesimo libro. Con questo § finisce il volgarizzamento
del- r Ornato, e col § seguente incomincia il volgarizzamento rifatto da
me. di resìstere e distruggere l’opera altrui: perchè anche di questi
ha bisogno il mondo. Rimane dunque che tu vegga nel novero di quali
tu ti vuoi porre: perchè chi governa il tutto, saprìi ben valersi
di te in ogni modo, ricevendoti in questa o in queir altra banda
de’ suoi lavora- tori e cooperatori. Se non che hai da badare che
tu non sia tal parte della brigata, qual è del dramma quel povero e
ridicolo verso di cui parla Crisippo. Il sole vuol egli fare le
veci della pioggia? o Esculapio quelle di Cerere? E gli astri non
hanno essi i loro uffici diversi, ciascuno il suo, 1
Plutarco {de comm. adv. Stoicot) cita le parole di Crisippo, alle quali allude
Anto- nino: «In quel modo che le commedie hanno talvolta dei versi
ridicoli e facezie che non hanno alcun valore in sè, ma giovano
non- dimeno all'effetto generale del poema; pa- rimente il vizio è
certamente riprovevole in sè, ma non è inutile a tutto il rimanente
delle cose.» ma COOPERANTI AMBI AD UN MEDESIMO FINE? Se gli Dei hanno
deliberato intorno a me ed alle cose che deb- bono incontrarmi,
hanno bene deli- berato e provveduto: perchè un Dio senza senno e
improvvido non pos- siamo neppure immaginare. E farmi del male, per
qual motivo l’ avreb- bero essi voluto? Qual pio ne sa- rebbe
venuto ad essi o al tutto di che prendono sì gran cura? Che se non
hanno deliberato intorno a me in particolare, essi hanno al certo
deliberato universalmente intorno a tutto il complesso delle cose.
Io debbo quindi accettare e aver caro tutto che mi accade, come
conse- guenza necessaria di quella loro ge- nerale determinazione.
Che se poi non pensano nè provvedono a nulla (è una empietà il
crederlo; o vera- mente non facciam più sacrifici, nè preghiere, nè
alcuna di quelle cose che suppongono presenti gli Dei e viventi con
noi); ’ se, dico non pen- sano nè provvedono in. alcun modo a niuna
delle cose mie; posso io almeno pensare e provvedere a me stesso: e
mio primo pensiero debbe essere di conoscere in che consiste Futile
mio. Ora egli è utile ad un essere qualsivoglia ciò chcs è con-
forme alla costituzione e natura di lui. La mia costituzione è ragionevole
e socievole: la mia società e LA MIA PATRIA, come Antonino, è ROMA; come
uomo, è il mondo. Ciò solo adunque che giova a queste due patrie, ò
utile a me. Ciò che avviene a ciascheduno, è utile al tutto. Questo solo basta.
Ma tu osserverai ancora, so tu ci badi, che per F ordinario ciò che
succede ad un uomo, è utile an- cora agli altri uomini. Intendo ora
^ Intendi: «che suppongono la presenza J e la provvidenza divina.» r utile nel senso volgare, cioè attri-
buendo utilità alle cose medie. Quello effetto che fanno in te gli
spettacoli degli anfiteatri e di simili luoghi, chè per essere sem-
pre le medesime cose, ti rechi a noia il vederle, quello effetto
me- desimo facciano in te tutte le cose della vita: perchè esse
sono, dalla cima al fondo, sempre le stesse, e nate sempre dalle
stesse. K fino a quando adunque? Non cessare di
rappresentarti al pensiero uomini’ trapassati di ogni fatta 0 di
ogni sorta di condizioni, discendendo anche a Filistione, a Febo e
a Origanione;* passa di poi ad altri generi di viventi. Colà dob-
I[Vi fu un Filistione poeta comico, contemporaneo di Socrate; vi fu ancora
un Filistione di Locri, il quale era medico, e da alcuni creduto
autore dei libri sulla dieta che fanno parte della collezione ip-
pocratica. Quanto a Febo e Origanione ci sono al tutto incogniti. biamo
andare anche noi dove sono iti tanti valenti oratori, tanti gravi
filosofi, Eraclito, Pitagora, Socrate; tanti eroi prima di loro, tanti
capi- tani dopo, tanti tiranni; e insieme con loro EUDSOSSO,
IPPARCO, ARCHIMEDE altri acuti ingegni, uomini magnanimi, laboriosi,
scaltri, arro- ganti, beffardi, schernitori di questa povera vita di
un giorno, siccome fu MENIPPO ed altri simili a lui. Pensa che tutti
costoro sono spenti. II celebro matematico discepolo di Platone, il cui sistema
è esposto nel XII della Metafisica di Aristotele; e che insieme cou
Speusippo assorbì tutto il Platonismo nella teoria dei numeri. A lui si
applica, non meno che a Speusippo,!' osservazione di Ari- stotele:
«la matematica è divenuta tutta la filosofia del nostro tempo. [Matematico
contemporaneo di Tolomeo Filadelfo, nato in Nicea] [Filosofi» cinico nato
a Gadara, dal quale un certo genere di satiro che furono dette menippee:
orasi beffato dei filosofi e delio loro dispute scrivendo con uno spirito
e una vena inesauribile, che gli fu invidiata, come pare, anche da
Luciano. da gran tempo. Ora che male per essi? che male per coloro dei
quali non resta pure il nome? Solo una cosa è qui da avere in gran
pregio: r osservar sempre la veracità e la giustizia, comportandoci
benevol- mente anche verso i bugiardi e gli ingiusti.
48. Quando vorrai rallegrare te stesso, rappresentati al pensiero
le migliori qualità degli uomini coi quali tu vivi: per esempio,
l’ope- rosità efficace di questo, la vere- condia di quello, la
liberalità di quel- r altro, e cosi via via. Perciocché non è cosa
che tanto rallegri, quan- to le sembianze della virtù espres- se
nei costumi delle persone colle quali viviamo, e quanto più esser
possa, accumulate e frequenti. Vuoisi dunque averle pronte alla memoria. Ti
quereli tu del pesare solo cotante libbre e non tre cento? Così non
ti querelare dello aver a vivere solo tanti anni e non più. Come ti
tieni per pago e lieto della quantità di materia che ti fu assegnata,
così accontentati del tempo. Fa’ prova di persuaderli; ma non
lasciar di operare anchh mal- grado loro, quando ragione di giu-
stizia il richieda. Che se altri ti impedisce colla forza, volgiti
alla rassegnazione, e serba la serenità dell’anima, facendo uso di
quello impedimento per l’ esercizio di un’altra virtù. E ricordati che tu
vuoi condizionalmente,* e che non si ri- chiede da te r
impossibile. Ora che si richiede adunque? Una cotale determinazione di
volontà. E questa [ La volontà giusta è solo scopo e termine di sè
medesima, sia o non sia ella efficace, cioè a dire, sia o non sia
seguita dall' effetto esteriore, il che dipende dalle circostanze
esterne. tu l’hai: il fine a cui sei venuto nel mondo è conseguito. L’ambizioso
ripone il ben suo nell’ azione altrui; il voluttuoso nelle proprie
passioni; ' il savio nella sua propria azione. Io posso astenermi
dal fare concetto alcuno intorno a ciò, e non turbarme nell’anima.
Non le cose, ma noi siamo gli autori dei nostri giudizi. Fa’
di avvezzarti ad ascoltare senza distrazioni ciò che altri dice, e
ad entrare quanto più puoi nel- l’animo di chi favella. Ciò che non
giova allo sciame, non giova neppure alla pecchia. Quando i
naviganti mormorano contro al nocchiero, o gli infermi. Meno
stoicamente direbbesi nel soddisfacimento delle proprie passioni, » cioè
nel piacere procurato da questo soddisfaci- mento. Perchè il piacere
stesso è per gli Stoici una passione, un patire e non un agire
dell' anima. Di contro al medico,' qual motivo può moverli a ciò se
non se il modo con che il medico e il nocchiero procacciano la sanità
e la salvezza loro? Quanti di coloro, coi quali io venni al
mondo, se ne sono già andati! Agli itterici sembra amaro il miele,
l’acqua è spaventevole al- r idrofobo, pel fanciullo è bellissimi
una palla. A che dunque mi adiro? Stimi tu men potente una falsa
opi- nione che la bile nell’itterico, o il veleno
nell’idrofobo? Niuno può recarti impedimento al vivere secondo la
legge della tua natura; nulla accaderti contro la legge della natura
comune. Che è il vizio? è ciò che tu spesso hai veduto. E ad ogni
acci- dente che t’ intervenga abbi apparecchiato questo pensiero, che è
cosa da te spesso veduta. Su e giù, a dritta e a manca troverai pur
sem- pre le stesse cose, di che sono piene le antiche storie, le
mezzane e le moderne; di che ora son piene le città e le case.
Nulla di nuovo: tutto consueto e di poca durata. La fede nei domini
come può venir meno se non se collo spegnersi di quei pensieri che
sogliono ali- mentarla? i quali sta in te jl ride- «^tar di
continuo. Posso pensare di una cosa quel che ne debbo pensare: se
questo è in mia facoltà, a che mi turbo? Ciò che è fuori ilella mia
mente, non ha nulla che fare colla mia mente. Fa’ di essere cosi
dispo- sto e sei ritto. Il risorgere sta in poter tuo: vedi di
nuovo le cose a quel modo che tu le vedevi: sarà il tuo
risorgimento.' 3. Pompe, trionfi, vani apparati, drammi che
si recitano in sulla sce- na, greggi, armenti umani, scara- mucce,
ossicciuolo gittate al cagno- lino, tozzo di pane ai pesci nel
vivaio, affanni e lavorar di formiche,, discorrimenti qua e là di topi
spaventati, fantoccini mossi da un filo. È mestieri assistere a
codeste cose con viso benevolo e non burbero, ma non però dimenticare
che tanto vale cia- Pare che ad Antonino in un momento di sconforto
sombrasse aver perduta la fede nei domrai della filosofia. E si conforta
a ri- cuperarla. Bello e profondo paragrafo, stoicamente considerate] scuno
quanto vaglion le cose cui dà le sue cure. Conviene por mente parola
per parola a ciò che si dice, e atto per atto a ciò che si fa. E
veder tosto nell’ una cosa qual è lo scopo; nel- l’altra, qual è il
significato. 5. Basta, o non basta il mio in- gegno a proccurare
questo effetto? Se basta, io ne fo uso come di uno stromento che la
natura dell’ universo mi diede. Se non basta, ove non osti il dover mio,
lascio fare r opera a chi può condurla a fine meglio di me; ovvero
io la fo co- me posso, giovandomi dell’aiuto di tale, che possa,
scorto dal mio pro- prio consiglio, recare ad effetto ciò che è
utile ed opportuno alla co- munità. Perchè questo deve esser sempre
il fine di ciò che io faccia, sia da per me solo, sia coll’aiuto altrui:
l’utile e il convenevole al comune. 6. Quanti lodatissimi
sono già stati dati all’oblio! e quanti che li loda- rono sono
scomparsi, già è gran tempo! 7. Non ti vergognare
dell’essere aiutato. Tu ci sei per fare quello che tocca a te, come
un soldato ad una battaglia murale. Ora se tu, offeso in una gamba,
non potessi solo salire in sui merli, e ti venisse fatto col- r
aiuto di un compagno? Non ti mettere affanno delle cose future. Tu
arriverai ad esso, se il dovrai, recando teco quella mede- sima
ragione di che fai uso nelle cose presenti. D, Tutte le cose
sono reciproca- mente collegate fra loro; sacro è il legame che le
unisce, e niuna cosa può dirsi estranea ad un’altra. Esse sono
tutte coordinate insieme e con- corrono ad ornare lo stesso mondo. Perchè
uno è il mondo che è formato di esse tutte, uno Iddio che penetra
tutto, una la materia prima, una la legge, una la ragione comune a
tutti t?li esseri intellettivi, una la verità:. essendo pur anche
una sola la perfezione di tutti gli esseri congeneri e partecipi della
stessa ragione. Presto svanisce ogni corpo, risolvendosi nella sostanza
universale; presto svanisce ogni causa, rientran- do nella ragione
universale; e la memoria di ciascheduna cosa è presto inghiottita
nell’abisso del tempo. Per l’animale ragionevole, la stessa azione
che è secondo natura, è anche secondo ragione. Se non sei ritto,
dirizzati. Quella relazione che hanno fra loro le membra del
corpo nell’ ani- ' male individuo, hanno fra loro gli esseri
intelligenti nel corpo collet- tivo della società: tutti sono fatti
per cooperare insieme ad uno scopo comune. E per meglio
ricordartene avrai cura di ripetere. spesso a te medesimo: io sono
un membro del sistema degli esseri intelligenti. Ma se tu di’
solamente: io sono una parte, tu non ami ancora di cuore gli uomini;
il beneficarli non è ancora per te cosa che per se me- desima ti
diletti e ti contenti: tu il fai tuttavia per pretto dovere, non
perchè tu senta di beneficare ad un tempo te stesso. Accada che
vuole al di fuori a quelle parti che possono ricevere nocumento da
cotali accidenti: se ne dorranno esse che patiscono,’ se il
vogliono. Quanto si è a me, ove io non faccia concetto di siffatti
ac- cidenti come di un male, non ne ricevo nocumento veruno. E sta
in mia facoltà il non fare cotali concetti. Che che altri faccia o
dica, a ine conviene essere uomo dabbene: per appunto come se V
oro, o la porpora, o lo smeraldo dicesse: che che altri faccia o
dica, a me conviene essere smeraldo, e avere il mio pro- prio
colore. 16. (7) La parte sovrana non dà mai noia a sè stessa,
vale a dire, non è mai cagione nè di tristezza, nè di timore, nè di
concupiscenze a sè stessa. Se altro v’ ha che possa moverla a ciò, vi si
adoperi. Quanto a lei, operando razionalmente, non sarà mai a sè
stessa cagione di cotai moti. Provveda il corpo, se può, al non
avere a soffrire; e se soffre, lo dica. Quanto si è all’animuccia, nella
(filale veramente cade la tristezza e il terrore, basterà solo che la
parte ove si formano i giudizi* del terribile [Animuccia;
intendi il principio della &dìoi&1o e del tristo, non
dia luogo a quelli: essa animuccia non ha attitudine a formare
giudizi cotali. La parte sovrana, considerata in sè, non ha mai manco di
nulla, ove ella non venga meno a sè stessa: e similmente non è mai
turbata nè impedita, ove non turbi o impedisca ella sè medesima. Beatitudine
vuol dire buon genio, vuol dire mente buona. Che fai dunque tu qui,
o immaginazione? Va’ via, te ne prego per gli Dei, vat- tene come
sei venuta: non ho bisogno di te. Tu sei venuta secondo l’usanza
tua vecchia. Non mi adiro teco; ma vattene. V’ha chi teme il
mutamento? Ma che può farsi mai senza muta- mento e trasformazione?
E che v’ha di più caro, di più proprio e consueto alla natura
dell’universo? E puoi tu stesso prendere un bagno se le legna non
si trasformano? puoi tu nutrirti, se non si trasformano i cibi? E
v’ha egli alcuna delle altre cose necessarie alla vita che possa
elfettuarsi senza trasformazione? Non vedi tu dunque che il dovere
tu ancora essere trasformato, va del pari con tutte le altre
trasformazioni,, ed è parimente necessario alla natura dell*
universo? 19. Per entro la sostanza dell' uni- verso, come
per entro a un torrente, passano tutti i corpi connaturati a
(jiiello, siccome sono connaturate a noi, e cooperano con noi le
nostre membra. Quanti Crisippi ha già inghiottiti il tempo, quanti
Socrati, quanti Epitteti! Lo stesso sovvengati (l;ogni altro uomo,
o cosa qualsi- voglia. Una sola cosa mi turba: la tema di far
cosa che la natura dell’ uomo non voglia, o come essa non voglia, o
quando essa non voglia. Presto avrai tutto obliato, e presto ancora
sarai obliato da tutti. È proprio dell’ uomo l’ amare anche colui che
ci offende. Il che ti verrà fatto se tu penserai che egli è pur tuo
congiunto,^ che ha peccato per ignoranza e suo malgrado, che fra
poco sarete morti ambidue, e so- pra tutto che egli non ti ha nociuto:
perchè non fece peggiore che olla prima si fosse la tua parte
sovrana. La materia comune di tutte le cose è nelle mani della
natura universale, come la cera in quelle dello scultore.^ Ora ella ne fa
un cavallo, poi, rifusa la materia del cavallo, ne fa uso alla
produzione di un albero, poi a quella di un omiciattolo, poi a
quella di qualche altra cosa, e ciascuna di queste cose dura un
brevissimo spazio di tempo. Ma e'non è oggi più tremendo pel
forzierino r essere sconficcato e disfatto, che non fu ieri 1’ esser
fatto. Il quale si serve di essa cera per fare i modelli delle sue
statue. II livore in sul viso è cosa contro natura, da che spesso vi
al- tera anche il colore che naturalmente 10 abbellisce, e
che alla fine vi si spegne in modo da non potervisi più ravvivare.
Questo ti provi che è cosa eziandio contro ragione: perchè se anche
la coscienza del peccare si perde, qual motivo di più vivere? Tutte le
cose che vedi, già già le viene mutando la natura reggitrice del
tutto, la quale ne farà altre della materia loro, e poi altre della
ma- teria di queste, affinchè il mondo sia sempre giovane.
Quando altri ti offende in che che sia, considera tosto qual cosa
egli abbia dovuto estimare come un bene o come un male perchè fosse
così mosso ad offenderti. La qual cosa scorto che tu abbia, tu
avrai compassione airuomo, e cesserai dal maravigliarti e dallo
adirarti. Perdiè o tu stesso stimerai tuttavia come un bene o come
un male quella medesima cosa od altra somigliante; e allora gli si
vuol perdonare; o tu farai altra estimazione ch’egli non fece, e
più facilmente benigno sarai a chi travide malgrado suo. Non
pensare alle cose che tu ancora non hai come se tu gȈ le avessi.
^Ma facendo piuttosto il no- vero delle più comode tra quelle che
liai, sovvengati quale studio porresti in procacciarle se tu non le
avessi. Bada nondimeno che questo tuo averle in grado non ti venga
avvez- zando a stimarle in modo da turbar- tene poi quando elle ti
mancassero. Ravvolgiti in te stesso. La parte sovrana e ragionevole
dell’ uomo ha natura tale che basta a sè quando agisce rettamente e
sa trovare in ciò la sua quiete. 29. Cancella le immaginazioni,
raffrena gli appetiti, circoscrivi il pre- sente del tempo. Conosci ciò
che accade a te e ad altrui. Dividi e ri- solvi ne’ suoi elementi,
la parte causale c la parte materiale, ogni oggetto di appetizione
o di aver- sione. Pensa all’ ultima ora. Lascia stare il peccato
altrui colà dove ò nato. no. Segui col pensiero le
altrui parole. Penetra coll’ acume della mente nelle cose che si
fanno e nel- r animo di coloro che le fanno. 31. Adornati di
verecondia, di sem- plicità e di indifferenza verso tutte le cose
che non sono nè virtù nè vizio. Ama il genere umano. Obbedisci a Dio. Tutto
le cose, disse colui, si fanno secondo una legge immutabile. 0 gli
Dei, o gli atomi. Ma basta il ricordare che tutto si fa [Cioè a
dire: o v' ha una provvidenza divina, o non v' ha, secondo il sistema
ato- mistico di Epicuro. secondo una legge. Ma troppo è anche il
poco già detto. Quanto alla morte, o essa a un disperdimento, se la vita ò
un accozzamento fortuito di atomi o altra aggregazione qualsiasi.
Ovvero essa è uno spegnimento, ovvero un traslocamento. Quanto
al dolore, se è intollerabile, ti uccide. Se dura, è tollerabile. E la mente
conserva la sua tranquillità se si raccoglie in sè stessa: e la parte
dominante non si è fatta peggiore. Quanto alle parti che sono
offese dal dolore, ce lo dicano se il possono. Quanto alla gloria,
vedi le menti loro, quali cose fuggono e quali cose ricercano. E
ancora, che a quel modo stesso che gli strati di arena novel-
lamente gittati in sul lido ricoprono i precedenti; similmente nella vita
le cose nuove ricoprono, sovrappo- nendosi, per così dire, ad esse,
e fanno dimenticare quelle a cui succedono. Di Platone: Ad
uomo di eccelsa mente, al quale sia dato di abbracciar col pensiero
tutta la serie dei tempi e l’ università degli esseri, credi tu che
la vita sia per sembrare un gran che? Impossibile, disse quegli. E
la morte, per conseguenza. non sarà punto stimata da lui una tremenda
cosa. — No certo. » Di Antistene: Operar bene ed essere
lacerate è cosa da re. È vergogna che il
volto ubbidisca alla mente e si componga ed assesti come ella vuole; e
che la mente poi non sappia comporre e«l assestar sè
medesima. Contro le cose lo adirarsi è vano, Ch'esse non se ne
curano. 1 Fiat. Rep. lib. VI. [Lacerato, intendi, dai maldicenti. Plutarco negli
Apoftegmi attribuisce questo detto ad Alessandro]. [Tratto dal
‘Bellorofonte’, tragedia perduta di Euripide. E gli immortali e noi di te fa
lieti. Mieter la vita Come spica matura, e morir l' uno, E
viver l’altro. Sed ime vède’nii eigl’ilddii non curano, Ciò pure ha sua
ragione. Che il bene e il dritto è dalla mia. Non pianger con altrui nè
esultare. (Di Platone). A chi mi favellasse
in colai guisa, potrei con giu- stizia rispondere: Tu erri dal
vero, o amico, se tu credi che un nonio di qualche vaglia debba,
quando im- prende a far che che sia, computare le probabilità dello
avere a morire 0 a vivere; e non piuttosto conside- rare unicamente
se ciò ch’egli im- t Nel testo è un verso esametro, ma igno-
rasi onde 1' abbia tratto Antonino. P. 2 Due versi dell' Isipile,
tragedia perduta di Euripide. II primo di questi due versi è citato
anche al § 6 del lib. XI, come verso di un tragico; ma il nome del poeta
non è noto. D’ ARISTOFANE negli Acarnesi. P. 5 I §§ 44 e 45 sono
tratti dall’Apologia di SOCRATE; il § 46 dal ‘GORGIA’] prende a fare sia
giusto od ingiusto, se azione da uomo dabbene, o da tristo. Perchè
così è veramente, o Ateniesi: quale che sia il posto che altri scelse
nell’ordinanza, giudicatolo il migliore, o in che sia stato
collocato dal capitano; egli vi dee perseverare, secondo che mi
pare, e sostenervi tutti i pericoli, non avendo in conto di nulla la
morte ne altro checchessia, in paragone della disonestà e vergo-
gna che sarebbe lo abbandonarlo. Ma bada bene, o valentuomo,
che altra cosa non sia la gentilezza, d’animo e la virtù, ed altra il
pro- cacciare salvezza asèe ad altrui; e che ufficio deir uomo,
dico chi voglia essere uomo veramente, non sia per avventura,
anziché lo ingegnarsi di campar lungo tempo avendo cara sopra ogni
altra cosa la vita, il ri- mettersene piuttosto a Dio; e pre-
stando fede a ciò che dicono le fem- mine. essere inevitabile il destino
di ciascheduno, studiare il modo di vi- vere, il più virtuosamente
ch’ei può. quel tempo che ha a vivere. Contemplai’e il giro degli
astri accompagnandoli, per cosi dire, nel loro corso; e ripensare
di continuo al perpetuo tramutarsi degli elemen- ti da una in altra
forma. Cotali pensieri purgano l’anima dalle lordure di questa vita
terrestre. 48. Bello è quel luogo di Platone: « Chi ragiona*
degli uomini, deve an- che osservare, come da un’ alta ve- detta,
tutte queste cose terrene: adunanze popolari, eserciti campeg-
gianti, agriculture, nozze, divorzi, nascimenti',’ morti, strepiti di
tribu- nali, contrade inabitate, varietà di nazioni, feste, lutti,
mercati, e que- sto miscuglio di tutti i contrari, e l’ordine di
questo miscuglio di che si compone il mondo. Questo brano di Platone non
si trova nelle opere che ci rimangono di lui. E’ giova il rimembrare le
cose che furono prima di noi: tanti mu- tamenti, tanti e sì grandi
rivolgi- menti di stati. Puoi anche conside- rare le cose che
seguiranno in futuro, perchè esse saranno pur sempre ti’ un taglio,
e non è possibile che escano mai del tenore usato infino ad ora.
Onde che tanto vale il ri- cercare gli eventi di che si compone il
vivere umano ^ in un periodo di t^uarant’ anni, quanto in uno di
dieci mila. Che potresti trovare di più? E questo. Ciò die fu terreo
torna alla terra; Ciò die d’ etereo seme è germoglio.
Del deio etereo torna allo sfere. Che vuol dir ciò? Separazione
degli atomi terrei che erano insieme ag- gregati, e somigliante
separazione degli elementi attivi.^ ^ Intendi il vivere dell'
umanità, o non deir individuo umano. Gli elementi attivi erano, secondo
gli dE con cibi il torrente e con bevande £ con incanti di stornar
proccnra Perchè a morte noi tragga. Con quel vento Che Dio ne
manda navigar ci è d'uopo, £ non spargere inutile lamento.» Pili
valente nella lotta, ma non piò devoto al ben comune, non piò
verecondo, non piò indulgente e piò benevolo verso il prossimo che
ha peccato. Ogni volta che può condursi a fine una impresa secondo i
precetti della ragione comune agli Dei e agli uomini, non hai nulla
da temere: perchè dove sta in te lo avvantag- giarti coir esercizio
libero della tua operosità, procedendo secondo la costituzione
dell’ uomo, quivi non è luogo a timore di avere a soffrire alcun
danno. stoici, Paria e il fuoco, con che intende- vano il
freddo e il caldo; i passivi, la terra e l’acqua. In ogni luogo e in ogni
tempo è in tua facoltà lo acconciarti di buon grado e con pia
rassegnazione all’ evento che ti occorre; e il por- tarti con
rettitudine verso gli uomini coi quali ti trovi; e il vegliare
dili- gentemente con quelli spedienti che tu sai sopra ogni tuo
pensiero pre- sente, affinchè non v’entri inavver- titamente nulla
che tu non abbia perfettamente compreso. Non andare investigando
in qual modo credano di doversi governare gli altri, ma guarda
dritto . Non andare investigando gli altri. [Intendo: non curarti di ciò
che le menti degli altri approvano o disapprovano; bada
dirittamente a ciò che approva la tua. Noto questo perchè altri non creda
essere il qui detto da Antonino cosa contraria a ciò che disse in molti
altri luoghi, e segnatamente nell’ Vili, 61: entrare nella parte sovrana
di ognuno. Le sono due cose diverse. In quanto al tuo operare, non
badare a ciò che le menti degli altri prescrivono, bada a ciò che
prescri- ve la tua. In quanto ai giudizi che tu fai degli altri,
entra il più che puoi nelle menti loro, per vedere quai motivi li spingano.
allo scopo verso il quale ti scorge la natura universale per mezzo
degli eventi che essa ti manda; e la tua propria natura per mezzo
dei doveri che essa ti impone. E dovere di cia- scheduno sono
quelle azioni che cor- rispondono al fine pel quale è stato
formato. Ora gli esseri non ragio- nevoli sono stati formati per gli
es- seri ragionevoli (come universal- mente tutte le cose che hanno
minor valore, per quelle che ne hanno un maggiore); e gli esseri
ragionevoli, gli imi per gli altri. Primo dovere adunque dell’
uomo, in conseguenza della sua costituzione, è di cooperare al bene
di tutti i suoi simili. Il secondo è lo star saldo contro gl’appetiti e le AFFEZIONE
DEL CORPO. Essendo proprio della forza razionate e intellettiva il
serbarsi pura e distinta, circonvallando, come a dire, sè stessa, e noh
essere vinta mai dalla t Vale a dire che non deve ammettere in forza
sia sensitiva sia appetitiva. Perchè queste due forze sono animale- sche,
e sopra di esse quella vuole aver primato e signoria, e non la-
sciarsi signoreggiare da esse. E con ragione: quella essendo fatta
per servirsi di queste. Terzo dovere del- r uomo \i è il procedere
cautamente ne’ suoi giudizi, per non cadere in errore. A queste
cose applicandosi la parte tua sovrana, compia per la diritta via
il suo corso; ed ha tutto ciò che le spetta. Come se tu avessi
dovuto mo- rire testé e fornito già tutto il corso della tua vita;
vivi secondo natuia (piei giorni che ti rimangono, con- siderandoli
come un soprappiù che tu non avessi sperato.’ se alcuna
mistura di elementi estranei alla sua natura,. e apparir quindi distinta
con taglio nettissimo da tutto ciò che ha na- tura diversa dalla
sua. [A quel modo che se ci trovassimo al punto della Cari ti sieno
quelli eventi soltanto che t’ incontrano, e sono quindi come a dire contesti
insieme collo stame della tua vita. Che potresti desiderare di più
accomodato a te? Ad ogni accidente che ti occorre abbiti davanti agli
occhi coloro ai quali incontrarono le stesse cose; ed essi se ne
adirarono, parve loro strano, se ne querelarono. Ora dove sono
coloro? In niun luogo. Perchè vuoi tu dunque rassomigliar loro? e
non lasci piuttosto a chi li vuole quei moti alieni da te, e non
badi unicamente all’ uso che devi fare deir accidente intervenuto?
Perchè tu ne farai buon uso, e ti sarà nuova materia a
virtuosamente operare, solo che tu intenda ad esser uomo
morte senza speranza di riaverci e consi- derassimo la nostra vita
trascorsa; ci dor- remmo di averla male impiegata, e vor- remmo
caldamente impiegarla meglio per l’avvenire, scampando; cosi dobbiamo
vo- lere ora ec. dabbene agli occhi tuoi propri, sia qual si voglia
la cosa che tu faccia; e ti sovvenga di queste due verità: im-
portare assai quale sia l’ azione, e non importare nulla in che cada
razione. Guarda dentro di te. Ivi è la fonte del bene, la quale non
sarà esausta mai, solo che tu ci vada scavando di continuo.
60. Anche il corpo, e nel cammi- nare e nello stare, serbi un
contegno egualmente alieno dalla avventatezza e dalla mollezza.
Imperocché siccome l’anima si rivela nel volto, imprimendovi un certo che di
assennato e di composto; così ella dee rivelarsi anche nel
rimanente del corpo. Ma ciò vuoisi fare naturalmente, senza che vi
appaia studio nè affettazione. La volontà giusta è per gli Stoici
solo scopo e termine di sè medesima, sia, o non sia ella efficace,
cioè a dire sia o non sia seguita dall' effetto esteriore, il che
dipende dalle circostanze esterne. La virtù sola è huona.essa sola
basta alla beatitudino. L’arte del vivei e virtuosamente rassomiglia
piuttosto all’arte della lotta che a quella della danza, in quanto
bisogna essere apparecchiati ad ogni accidente non preveduto, e
saldi per non cadere. Non cessare di recarti a mente le qualità di
coloro dai quali vorre- sti essere lodato, e quelle delle menti
loro. Così non ti avverrà di trascor- rere all’ ira contro uomini che
fallano malgrado loro, nè ti curerai dell’es- sere da loro lodato o
biasimato, ve- dendo qual sia la fonte onde moiVono i giudizi loro
e le loro azioni. Non per sua elezione, dicea quegli, ma sempre
malgrado suo, è l’anima umana priva del vero.' E [La sentenza
è di Platone, ed è citata anche da Epitteto (Dissert.), il quale nomina T
autore. Nel Sofista parti- colarmente, Platone intende a provare
che r ignoranza è sempre involontaria, e che sempre malgrado suo è
l’uomo privo della cognizione del vero. parimente malgrado suo è priva
della giustizia, della temperanza, della mansuetudine e di tutte le
altre cose cotali. Sommamente importa che tu r abbi sempre a mente:
sarai più mite c be_nigno inverso di ognuno. Oi. In ogni caso
di dolore abbi apparecchiato questo pensiero, che non è cosa
disonesta, non tale da far peggiore la mente che ti gover- na:
perocché non le nuoce nè in quanto ella è ragionevole, nè in quan-
to ella è socievole. Nel maggior nu- mero dei casi troverai soccorso efficace
anche in quel detto di Epicuro: il dolore non esser mai nè intollerabile
nè di lunga durata, solo che tu non lo ingrandisca colla tua im-
maginativa, nia lo vegga ne' limiti suoi naturali. Avverti ancora
che molte cose ci muovono ad atti di impazienza senza quasi che vi
ponghiaino mente, le quali non sono pur altro che dolore: siccome
lo aver sonno quando vorremmo veglia- re, r essere travagliati dal
caldo, o r avere inappetenza. Ora quando tu sostieni malvolentieri
alcuna di que- ste cotali cose, di’ a te medesimo che tu hai ceduto
al dolore.* 65. Bada a non comportarti mai verso i disumani,
come i disumani si comportano verso gli altri uomini. Come sappiamo
noi che Telauge, quanto alle disposizioni dell’animo, non soprastasse a SOCRATE? [Intendi
che non basta reggere ai dolori gravi, ma conviene saper vincere anche
i leggieri: coi quali sovente non ci pigliani briga di combattere,
perchè la loro piccio- Iczza fa che non ci badiamo; o ci troviamo
vinti senza accorgercene. In quei casi, dico r autore, di’ a te stesso: «
ho ceduto al do- lore: » qnasi volendo, col rammentare quel nome,
che è il vero, faro a sò stesso parere più gravo il caso,o destare cosi
la sua attenzione. [Filosofo del quale Eschine Socratico diede il nome ad
uno de' suoi dialoghi]. Imperocché non
basta che la morte di SOCRATE Socrate sia stata più famosa, nè eh’
egli abbia fatto prova di mag- giore sagacità nel disputar coi sofisti,
di maggiore fortezza col pas- sare la notte in sul ghiaccio, di più
nobile coraggio col disobbedire al comando di andare a prendere
quel- r uomo di Salamina,' nè eh’ egli camminasse per le vie con
altero contegno: la qual cosa sarebbe mas- simamente da considerare
quando fosse vera. Ma vorrebbesi vedere quale intimamente fosse
l’animo di Socrate. Se egli potea contentarsi dell’ esser giusto
verso gli uomini e [Quest’ nomo chiamavasi Leone e posse- dea
grandi ricchezze. Delle quali i trenta tiranni sperando poter fare lor
preda, avea- no comandato a Socrate che andasèe, ac- compagnato da
altri quattro, ad arrestarlo. Socrate, con pericolo della sua vita,
disub- bidì al comando. Questo fatto è ricorda- to nell’ Apologia
di Platone, da Eschine il Socratico, da Diogene Laerzio e da Epitteto. santo
verso gli Dei se non gli accadesse mai di adirarsi ciecamente contro il
vizio, nè di servire all’altrui ignoranza, nè di accogliere come
strana o incomoda o intollerabile veruna delle cose che gli
venivano compartite dal tutto,* nè di lasciare che la mente sua
partecipasse delle affezioni della carne. Cioè [8’ egli riponeva in ciò
solo, nella santità e nella giustizia, la sua felicità, Renza nulla
desiderare di più. Da queste parole di Antonino non bassi ad inferire che
egli particolarmente dubi- tasse della grandezza mórale di Socrate;
ma esse vogliono piuttosto esser prese in un senso generale, servendosi
Antonino del nome illustre di SOCRATE, come di un esempio, por avvertire
quanto sia malagevole il giudicare del valore morale degli uomini da
alcune loro azioni esteriori, sieno buone o sieno cattive; e come
l’eccellenza morale non consista solamente nel compiere este-
riormente qualche grande atto di virtù, ma richiegga inoltre tutte quelle
disposizioni intime e abituali di cui fa la rassegna. Detto di Fociono. La
mente non fu dalla natura mescolata per modo e confusa in- sieme
col corpo che essa non possa distinguersi da esso e come a dire circonvallare
sò medesima, ed eser- citare libera signoria sopra ciò che è ‘suo;
sendo che possa darsi benissimo che un uomo sia sommamente buono, e che nissùno
il vegga. Questo abbiti a mente, e ancora, che in pochissime cose
consiste il vivere Ecco come intendo io questo luogo: Noi conosciamo
altrui dalle azioni e dalle parole, quindi sempre per qualche organo corporeo,
quindi dal corpo. Ora può benissimo immaginarsi il caso che un uomo moralmente
eccellente sia posto in tali condizioni, o per malattia, o per estrema
povertà, 0 altra forza esteriore, da non poter usare in verun modo
del corpo per compiere alcuno di quelli atti che sono la manifestazione
esteriore delle disposizioni virtuose deir animo. In questo caso esse non
potranno essere conosciute. E però quando Antonino dice: «esercitare
libera signoria sopra ciò che è suo, non vuol dire sopra il corpo,
ma sulle facoltà stesse della mente. felice. E per ciò che tu abbia
dispe- rato di dover essere mai eccellente nella dialettica o nella
fìsica, non disperare medesimamente di dover esser libero, e
verecondo, e socievole, e obbediente a Dio. Vivere non vinto da
alcuna forza esteriore e colla più grande contentezza d’animo,
ancora che tutti gli uomini schiamazzino a posta loro contro di te,
e le fiere mettano in brani le membra di codesta conge- riedi carne
e d’ ossa che ti è venuta crescendo intorno; sì' tu lo puoi. E che
v’ ha in fatti in tutti questi co [tali casi, che possa impedire la mente
tua dal serbarsi mai sempre imperturbata, dal fare sempre giusta estimazione
delle cose circostanti e uso ragionevole degli accidenti che intervengono?
Per tal modo che la tua facoltà giudicativa dica all’ oggetto
presente: « secondo T opinione tu sei altra cosa; ma Tessere tuo vero,
è cotale. E la tua facoltà operativa dica immantinente all’
accidente in- tervenuto: « te appunto io cercava: perchè io non ho
altro intento che di operare razionalmente e socievole mente, e
tutto che accada me ne porge occasione, tutto può essere materia ad
esercitare questa virtù, quest’ arte umana e divina. Perchè
qualsiasi cosa che intervenga, ha qualche relazione di convenienza o con
Dio 0 con l’uomo, e può questi acconciarvisi, e non è mai nuova nè dif-
ficile, ma sempre nota e consueta, e facile 1’ uso che hassene a
fare. Perfettamente costumato è co- lui il quale vive ciascun giorno
come se quello fosse l’ ultimo. Non mai affannosamente operoso, non
neghittoso, non infinto mai. Gli Dei che sono immortali, non indispettiscono
d’ avere del continuo a tollerare, e per tanta durata di tempo, tanti e cotali
dappochi: ed oltre a ciò prendono ogni cura di loro. E tu che oramai
sei per finire, tu rinneghi la pazienza, e quando sei tu medesimo
uno di quel novero? È cosa da ridere che l’uomo non voglia fuggire la propria
malizia, il che è possibile e voglia poi fuggire la malizia, il che
è impossibile. Tutto ciò che la ragione speculativa e civile non
vede essere ragionevole e socievole, è da lei giudicato inferiore a sè
stessa. Quando tu fai del bene ed io ricevo quel bene, che vai tu
cercando, come gli stolti, una terza cosa di più, cioè, che si sa che
tu fai del bene, o che te ne sia reso il contraccambio? Nissuno si
stanca del ricevere giovamento ed è a giovamento nostro [Cioè del novero
di quei dappochi, anche per la ragione appunto che tu non sai tollerarli,
come sarebbe tuo dovere di fare] e d’altrui ogni azione conforme alla
natura. Non istancarti dunque di giovare a te medesimo col giovare ad
altrui. La natura universale produsse il mondo. Ora o tutte le cose
che succedono nel mondo sono conformi alla intenzione di quella
natura; ovvero sarebbero *sragionevoli*, cioè dilformi dalla detta
intenzione, anche talune delle cose principali che si fanno pel ministero
particolare della mente che governa il mondo. In molti casi sarai più
tranquillo se avrai questo a mente. A ritrarti dal vano amore della gloria
giove anche il considerare come non è più in poter tuo il fare che tu
sia vissuto da FILOSOFO tutta la tua vita, cioè insino dalla giovanezza:
cioè anzi molti si ricordano di un tempo, e te ne ricordi benissimo tu
stesso, nel quale tu eri LONTANO DALLA FILOSOFIA. Sicché tu
sei contaminato. Non è dunque più facil cosa per te l’acquistar
rinomanza di FILOSOFO al che si oppone anche la condizione del tuo
stato. E però, se tu hai veramente scorto dove batta il punto,
lascerai da banda il pensiero dell’opinione che altri sia per avere di te,
e ti contenterai di vivere conforme alla tua natura quel rimanente di vita
che ti è conceduto. Pensa adunque che cosa vuole la tua natura, e niuna
altra cura ti distragga da ciò. Perchè tu sai bene di quante altre
cose hai voluto fare esperimento e in nissuna di esse hai TROVATO LA
BEATITUDINE. Non nei sillogismi, non nelle ricchezze, non nella gloria,
non NEL GODIMENTO DEI PIACERI, in niun luogo, insomma. Dove sta essa
adunque? Nel fare ciò che richiede la natura dell’uomo. E come fai tu cotesto?
Lo fai, se hai la credenza che e produttrice di quella azione. Quale
credenza? Quella intorno al buono ed al malo. Non essere il buono per l’uomo
ver una cosa che non lo faccia essere giusto, temperante, forte e libero.
Non essere il malo veruna cosa che non lo faccia essere il contrario. Cioè
non lo contamini del vizio opposto alla VIRTÙ. Ad ogni tuo atto interrogate
medesimo. Che relazione ha esso con me? Non avrò io da pentirmene? Ancora
un poco e son morto e tutto è finito. Se ciò che so ora è conforme
alla natura di un essere intelligente, socievole e avente le stesse leggi
che gli’idei, che cerco io di più? Alessandro, o Caio, o Pompeo, che e
rispetto a Diogene, Eraclito, o Socrate? Diogene, o Eraclito, o Socrate
conosce la cosa e la causa e la materia de la cosa; e la parte
sovrana e in Diogene, o Eraclito, o Socrate, veramente sovrana. Ma quelli, che
cosa Giulio Cesare. seppero prevedere? E di quante non sono
schiavi? Credi pure che non cesseranno di fare la medesima cosa
quando pure tu avessi a scoppiare predicando il contrario. In primo
luogo non turbarti. Ogni cosa succede secondo la natura dell'universo. E
tra breve tu non ci sarai più in nissun luogo, siccome non ci *sono*
più. Nè Adriano nè Augusto. Di poi affisando lo sguardo nella cosa, vedi
che è. E rammentando che ti bisogna essere uomo dabbene e quello che
richiede la natura dell’uomo, fallo senza guardarti indietro, e
favella ciò che a te *sembra* esser giusto, ponendo mente soltanto
che questo tu faccia e dica sempre con amorevolezza, con verecondia e senza
simulazione. Intendi la cosa che ti turba. Questa faccenda ha la natura
dell’universo. Trasportare colà le cose che sono qui, cangiarle,
tramutarle da uno in altro luogo. Tutto è mutazione. Non però in modo che
s’abbia a temere nulla di nuovo. Tutto è cosa solita ed anche tutto è distribuito
egualmente. Ogni natura qualsiasi è contenta di sè, quando procede
libera nella propria via. E la natura ragionevole procede libera nella
sua via, quando non assente ad alcuna rappresentazione falsa od
oscura, quando indirizza i suoi sforzi verso la sola cosa che e utile
al comune, quando non ischifa nè appetisce se non la cosa che e in nostro potere,
quando si accomoda. Il tutto non è che un giro; onde che non v' ha nulla
di nuovo da temere. Di buon grado ad ogni cosa che le venga compartita
dalla natura comune. Perchè essa è parte di questa, a quel modo stesso che
la natura della foglia è parte della natura della pianta. Se non che
la natura della foglia è parte di una natura senza senso e senza
ragione, e che può essere impedita. Dove che la natura dell’*uomo*
è parte di una natura che non è sottoposta a ricevere impedimento ed è
intelligente e giusta. Poiché distribuisce egualmente, e secondo i meriti
di ciascheduno, il tempo, la sostanza, la causa, razione, l’accidente. La
quale egualità di distribuzione potrai osservai e se tu paragm. r^rai non
già separatamente l’una cosa di questo con l’una cosa di quello, ma *complessivamente*
ogni cosa di questo con ogni cosa di quell’altro. Non puoi leggere. Ma
reprimere ì moti insolentì dell’animo, tu il puoi. Ma non lasciarti
SIGNOREGGIARE DAL PIACERE o dal dolore, tu il puoi. Ma essere disprezzatore
della gloriuzza. Tu il puoi. Ma non adirarti contro gli stolti
e gl’ingrati ed anche pigliar cura di loro, questo ancora tu il
puoi. Fa che ninno t’oda più quind’ innanzi querelarti della vita in
corte nè della tua. Il pentirsi è un rampognare se stesso dell’aver
trascurato qualche cosa di utile. Ora il bene conviene di necessità
che sia qualche cosa di utile, e però l’uomo onesto deve averne gran cura.
Ma l’uomo onesto non si pentirà mai dell’aver trascurato un piacere. Adunque
IL PIACERE non è il buono o cosa utile. Che è questa cosa considerate. Sottintendi:
e questa è la ragione per cui l’uomo onesto si pente di aver trascurato di
far del bene. In se stessa e nell’essere suo proprio? che v’ha in essa di
sostanziale e di materiale? che v’ha di causale? Che fa essa nel
mondo? Quanto tempo è per durare? Quando peni a riscuoterti dal
sonno, sovvengati essere particolar mente conforme all’esser tuo e alla natura
dell’uomo il fare opere socievoli. Dove che il DORMIRE ti è comune cogli
animali irragionevoli. Ora ciò che è più particolarmente conforme
alla nostra natura, è anche più particolarmente accomodato a noi,
più facile e ancora più giocondo a fare. Non ommetter in verun caso li
esaminare, per quanto è possibile, ogni cosa, facendo uso degl’ammaestramenti della
FISICA, di quelli dell’ETICA e di quelli della LOGICA. Divisioni principali
della filosofia appo gli stoici. In chiunque tu ti avvenga, di’tosto a te
medesimo. Che opinioni ha costui intorno al buono? Perchè se egli ha
intorno al PIACERE piacere o alla cosa che e produttrice del PIACERE, e intorno
alla gloria e all’ infamia, alla morte e alla vita, certe cotali
opinioni, non mi pare rnaraviglioso nè strano che faccia certe cotali cose.
E mi ricordo sempre lui essere sforzato ad operare in tal guisa. Ricordati
che siccome è da vuol dire. Esamiua ogni oggetto, riferendolo alla natura
generale, e vedendo, secondo il precetto della fisica, elio relazione ha
col tutto. Riferendolo a te stesso, in quanto sei capace di felicità, la
quale non può mai andare disgiunta dalla VIRTÙ ed è sostanzialmente
identica con essa, e vedendo a che cosa ti giova, secondo il
precetto dell'etica; paragonando il giudìzio che tu ne fai con altri giudizi
anteriori, e vedendo se non ìstà in contraddizione con quelli; esaminando
inoltre le conseguenze che si possono dedurre da questo giudizio:
tutto ciò secondo il precetto della LOGICA. stolto il maravigliarsi che la
ficaia produca il fico, così è il maravigliarsi che il mondo
produca quelle cose che è destinato a produrre. Non altrimenti che stolti
sarebbero quel medico e quel pilota i quali si maravigliassero che altri
avesse la febbre e che il vento fosse contrario. Non dimenticare essere
da uomo libero anche il mutar parere e seguire il consiglio di chi
propone un avviso migliore del tuo. Perchè egli è pur sempre tua l’azione
che tu fai coir esercizio della tua volontà, della tua facoltà giudicativa,
e secondo il tuo intendimento. Se la cosa sta in poter tuo, perchè
la fai? Se sta in potere altrui, di chi ti lagni? Degli atomi o degli dei?
E di questi e di quelli il [Se sta in te il fare o non fare yna cosa,
o l’impedire che si faccia da altri, perchè la fai, o lasci che ai faccia
per dolertene poi? lagnarsi è pazzia. Non occorre lagnarsi di nissuno. Perchè se
il puoi, hai a correggere l’uomo. Se non puoi l’uomo, hai a
correggere la cosa. E se anche questa non puoi, il lagnarti a che
giova? Non vuoisi far nulla a caso e senza scopo. Fuori del mondo non
può cadere chi muore. E se riman quivi, quivi anche e non altrove si trasforma
e si risolve ne’ suoi principi, che sono gl’elementi del mondo e
tuoi. E questi ancora si trasmutano d’una in altra forma, e non
mormorano. Non è cosa che non sia nata ad un certo fine: il cavallo, la
vite ecc. Qual meraviglia? Anche il Sole Febo Apollo dice. Io nacqui ad un
certo fine e similmente gl’altri iddii. E tu a che sei nato? A darti bel
tempo? Vedi se ciò concorda col concetto che tu fai dell’uomo. Non
meno che il cominciare. Cioè nel mondo e crescere delle cose la natura ha in
mira il loro decrescere e finire, non altrimenti che il giocatore
che gitta la palla. Ora c^ual bene per questa il salire o il discendere,
od anche il cadere a terra? e qual bene per la bolla d’aria il formarsi
e qual male il dileguarsi? Il medesimo puoi dire della lucerna.
Arrovescialo codesto corpo e vedi qual è: e qual diventa invecchiando, e
ammalandosi e depravandosi.Di corta vita sono e il laudante e il laudato,
il ricordante e il ricordato; ed anche ciò accade in un [Il qual giocatore
non lancia la palla perchè abbia solo ad andare in alto, ma ancora perchè
abbia a discendere. La quale si accende, arde e si spegne, o tutto è naturale
egualmente. S Àrroveciato codc lo corpo. Mettendo coir immaginazione al
di fuori ciò che sta al di dentro. Depravandosi coll’ABUSO DEI PIACERI
SENSUALI. angolo di questa contrada, nè quivi pure sono tutti d’accordo,
e v’ha tale che non è neppure d’accordo con sè medesimo: e tutta la
terra non è poi altro che un punto. Applicati all’oggetto, o
al domma, o all’azione, o al significato. È tua colpa se questo ti
accade. Tu vuoi piuttosto diventare domani che essere oggi uomo
dabbene. So io una cosa? La so riferendola al bene degli uomini. Mi accade
una cosa? La ricevo riferendola agli dei e alla fonte di tutte le cose,
dalla quale procedono in- Cioè fa' che la tua attenzione sia sempre
rivolta ad una di queste quattro cose. O all'oggetto su che tu operi,
esaminando che è in realtà: o al domma o credenza per virtù della
quale tu operi, esaminando se ella è vera; o all’azione tua stessa, esaminando
se tu la fai come vuoi farla; o al SIGNIFICATO della parole, cioè
riferendo il particolare al generale, per capire l’ESSENZA della COSA
SIGNIFICATA. sieme conserte le une colle altre tutte le. cose che
accadono. Che ti pare che sia il lavarsi? Olio, sudore, sudiciume, acqua
fecciosa, cose tutte stomachevoli. Tali sono tutte le singole parti della
vita, tutti li oggetti esteriori. Lucilla fe il corrotto a Vero, poi
altri a Lucilla; Seconda a Massimo, poi altri a Seconda; Epitincano a Diotiino,
poi altri a Epitincano. Antonino a Faustina, poi altri ad Antonino; Celere
ad Adriano. Poi altri a Celere. Sempre e in tutto il medesimo tenore. E
quei belli spiriti, quelli antiveditori dell’avvenire, quei burbanzosi
dove sono egli- no? Come per esempio, fra i belli spiriti, Carace,
Demetrio il Platonico, Eudemone e simili? Tutti sono vissuti un giorno,
tutti son morti da lunga pezza; di alcuni non si è fatta più menzione
nè anche per un poco. Altri sono passati nelle favole, e alcuni di essi
scomparvero già anche dalle favole! Sovvengati dunque come bisognerà
pure che o si dissolva codesto tuo composto, o si spenga codesto tuo spirito
vitale, o sia tramutato altrove e vengagli assegnato un altro
posto. È letizia dell’uomo il fare ciò che è proprio dell’ uomo. E
proprio dell’ uomo è il voler bene a’ suoi congeneri, disprezzare i
moti del senso, distinguere fra le rappresentazioni quelle che sono degne
di fede, contemplare la natura dell’universo e le cose che conformemente a
quella si producono. Tre relazioni. L’una colla causa circostante.
L’altra colla causa divina, dalla quale procede tutto che accade ad
ognuno. La terza cogli uomini che vivono con noi. O il dolore è un
male pel corpo, e se questo è, il corpo ce lo dica. O è un male per
l’anima. Ma questa ha in poter suo il conservar sempre la sua calma
e serenità, e il non fare concetto del dolore come di un male.
Imperocché ogni giudizio, ogni volizione, ogni appetizione o avversione
qualsivoglia è un atto del tuo principio interno, e niun male può salire
insino ad esso. Rimovi da te le false rappresentazioni dicendo continuamente
a te stesso. Ora sta in poter mio il fare che in questa mia anima
non sia veruna malizia, veruna concupiscenza, veruna perturbazione,
in somma; e vedendo le cose nel vero esser loro, fare uso di
ciascheduna secondo il valore di essa. Nel senato e con
chicchessia parla compostamente, fuggendo il soverchio delle parole,
e il tuo ragionare sia senza orpello. Corte di Augusto. Moglie,
figlia, nipoti, progenitori, sorelle. Agrippa, congiunti,
famigliari, amici. Ario, mecenate, medici, sacrificatori. Tutta una
corte che è morta. Procedi innanzi e considera il venir meno non delle
persone ad una ad una, ma, per esempio, della famiglia Pompeia. E quella
scritta che si legge sui sepolcri. L’ultimo della sua schiatta; w e pensa
quanto s’ebbero a travagliare gli antenati di colui perchè non mancasse
loro un successore. Nondimeno è pur forza che qualcheduno sia l’ultimo, ed ecco
allora la morte di una intera prosapia. Colla bontà delle singole
azioni vuoisi procacciare di ben comporre la vita. E se ciascuna di
esse, per quanto è possibile, fa quelli effetti che dee fare, ti basti. Nè
ciò può essere impedito mai da checchessia. Sorgerà qualche impedimento
esteriore. Ninno impedimento che possa toglierti di operar giustamente,
temperantemente, razionalmente. Tale o tale altra opera potrà essere
impedita. Ma se tu accetti di buon animo quello impedimento, e passi
alacremente a far buon uso della nuova occasione che ti vien data,
ecco posta nella serie degli atti di che si compone la vita, in
luogo di quella che ti avevi pro- posta, un’ altra azione la quale
non è meno acconcia a quella buona composizione della vita di che
si favella. 33. Ricevi senza boria, lascia an- dare senza
ripugnanza. Vedesti mai una mano tronca. t Cioè i beni della
fortuna. Gli è come se dicesse: Non tenerti per da più, quando la
fortuna ti viene a trovare; non tenerti per da meno, quando ella se ne
va. o un piede, o una testa giacenti lungi dal corpo onde furono
recisi? Cotale si rende, per quanto sta in lui, chi ripugna ad
accomodarsi r ciò che accade, e si separa a questo modo dalla
società comune, o fa qualche atto contrario al bene di quella. Tu
te ne stai là gittate in un canto, fuori dell’ unione naturale
degli esseri. Perchè tu eri nato parte di quella, e te ne sei spiccato.
Se non che tu puoi sempre rappiccar- viti di nuovo, usando della
facoltà a te concessa da Dio, e non concessa a veruna altra parte
di checchessia, che spiccata una volta dall’ intero potesse rappiccarvisi.Evedi
di quanta eccellenza volle Iddio adornare la costituzione
dell'uomo: chè, primie- ramente, egli pose in potestà di lui il non
separarsi punto dal tutto; e poi il rapprendersi e compigliarsi di
nuovo con quello, quando se ne fosse spiccato, e riprendere il suo posto e
le condizioni sue come parte aderente qual era da prima. 35. Dalla
natura degli intelligenti ha ricevuto ciascuno di noi,’ come tutte
le altre facoltà (e sono tante quasi e tali, quante e quali quella
medesima ne avea ricevute*), e così anche quest’ una: che a
somiglianza di lei, la quale volge e dispone nella serie del fato,
facendone cosa sua e quasi parte di sè medesima, tutto che a lei si
venga ad attraversare e a resisterle; così può T animai ra- gionevole
far cosa sua di ogni im- pedimento, pigliandone materia al suo
operare e all’ esercizio della propria virtù; sia pur qualsivoglia
la cosa nella quale venisse impe- dito (14). 36. Non ti turbi
il pensiero, quale [Intendi: in qnanto siani ragionevoli]. [Sottintendi:
da chi è maggioro di lei. sia per essere tutta la tua vita, e non darti
pena e sconforto coll’an- dare fantafticando quanti e quali
travagli avrai forse ancora a soste- nere: ma ad ogni caso presente
in- terroga te stesso col dire: che v’ha in ciò d’impossibile a
sopportare? Perchè avrai vergogna di rispondere affermando che v’
abbia alcun che di tale. E poi ricorda a te medesi- mo, non essere
mai nè il futuro nè il passato quello che ti grava, ma pur sempre
solo il presente. E que- sto presente s’ impicciolisce assai quando
tu il consideri ne’ suoi pro- pri confini, chiedendo poi alla tua
mente, se anche così impicciolito ella non sia buona da
sopportarlo. Pantea o Pergamo stansi forse tuttavia seduti presso
alla tomba di Vero? o Cauria e Diotiino presso a quella di Adriano?
è follia il chie- derlo. Ma quando pure stessero tut- tavia colà
seduti, forse che ai loro signori ne giungerebbe notizia? e quando
ciò fosse, forse che ne avreb- bero diletto? e quando ne avessero,
sarebbero Pantea e Pergamo e Caiirio e Diotimo immortali? non era egli
destino che anche questi invec- chiassero e poi morissero? e morti
che fossero, che rimarrebbe a fare ai loro signori? fetore è tutto cotesto,
e marciume in un sacco. Se hai la vista acuta, dice egli, '
adoprala, giudicando saviamente delle cose. Una virtù che si opponga alla
giustizia non veggo nella costituzio- ne deir animai ragionevole; ma
una che si opponga al piacere veggo io bene: la temperanza. Togli
via il tuo concetto in- 1 Epitteto. P. Intendi: se hai P
ingegno sottile, fa' che la tna condotta il dimostri, cioè non
contentarti di dire le belle cose, falle. Dai giudizi dipendono, secondo
gli stoici, ne- cessariamente le azioni. torno alle cose che sembrano
darti noia, e tu ti troverai al sicuro. Ma chi è questo tu a cui
favelli? La ragione. Ma io non sono ragione. Sta bene. La ragione non
dia dunque noia a se stessa. E se poi v’ ha altro in te che si
dolga, faccia egli concetto di quel suo dolore. Un male per la
natura anima- le è r impedimento del senso. Ancora un male per lei è ciò
che può impedire la soddisfazione dell’appetito. Medesimamente v’ hanno
im- pedimenti alla natura vegetale, e sono quindi un male per essa.
Adun- (jue ciò'che può recare impedimento alla mente è un male per
la natura intellettiva. Fa’ l’ applicazione di que- sto
ragionamento a te stesso. Il do- lore ti tocca o il piacere? lascia
che ci badi il senso. Qualche ostacolo è sorto ad impedire un
effetto da te voluto? se tu volesti senza la debita riserva, questo
invero fu un male per te, in quanto sei animale ragio- nevole. Ma se
fu una appetizione nel significato comune, tu non hai ricevuto
nocumento nè impedimento alcuno. Perocché tutto che è pro- prio
della mente non può essere impedito che da lei stessa; non è dato
nè a fuoco, nè a ferro, nè a tiranno, nè a maldicenza il giun- gere
insino ad essa: quando si è fatta sferica, permane liscia e rotonda. Allusione
ad alcuni versi d’Empedocle, il quale considerava la sfera come la più
perfetta delle figure; onde che appo Orazio la rotondità potè anche
essere immagine a significare l’eccellenza morale, Sat. II, 7; «Quisnara
igitur liber? Sapiens, sibique imperiosus: Quera neque pauperies,
neque mors, neque vincula ter- reni: Responsare cupidinibus,
contemnere bonores Fortis, et in seipso totus teres, atque
rotundus: etc. » Ai quali versi di Orazio alludeva pur forse Antonino in
que- sto luogo. Anche a Dante piacque una figura geometrica come
immagine di una virtù morale quando disse: < Ben tetragono ai
colpi di ventura. Non debbo, io, che non ho mai voluto contristare
altrui, voler con- tristare me stesso. Chi piglia piacere ad una
cosa, chi ad un’ altra. A me fa piacere se ho una mente sana, che
non abbia avversione a verun uomo, nè a ve- runa delle cose che
sogliono acca- dere all’ uomo, ma guardi ed accetti ogni cosa con
sereno occhio, facendo uso di ciascheduna secondo il valore di
essa. 44. Pigliati questo tempo presente: chi vuol piuttosto
darsi pensiero della fama che lascerà dopo sè, non considera che i
posteri saranno tali tuttavia quali sono i contemporanei eh’ egli
ha in fastidio, e mortali essi pure. A te che rileva al postutto
che dalle bocche loro s’ oda echeggiare tale piuttosto o tal altro
suono, e che essi abbiano di te tale piuttosto o tale altra
opinione? Toglimi di qua e gittami dove vuoi. Colà ancora* avrò meco
il mio genio propizio, vale a dire pago di sè medesimo, quando le
disposizioni. sue sieno conformi alla sua propria natura.
Ciò * vale il pregio che la mia ani- ma se ne turbi e voglia farsi
peg- giore di sè, essere travagliata da desiderii e timori,
sconfortata, im- miserita? E qual cosa troverai tu ' che lo
valga? 4G. Air uomo non può nulla ac- cadere che non sia un
accidente umano, nè al bue che non sia acci- dente’ proprio del
bue, nè alla vite che non sia accidente proprio della vite, nè alla
pietra che non sia ac- cidente proprio della pietra. Ora se a
ciascheduno accade quello che è solito accadergli e gli è
connatura- * Intendi: colà ancora dove mi avrai git- tato, e
dove-che sia, avrò meco ec. Intendi: ciò che ora mi accade, o chec- ché
altro di somigliante. le, a che ti crucceresti? la natura comune non può
arrecarti nulla che tu non sia fatto per tollerare. Se ti attristi
per alcuna cosa esteriore, non è la cosa esteriore quella che ti
turba, ma si il giudizio che tu ne fai. E lo annullare quel
giudizio sta in te. Se ti attristi per alcun che del tuo stato
interiore, chi ti impedisce che tu non raddrizzi l’opinione onde deriva
quel tuo stato? Che se ti attristi perchè non fai tale o tal altra
cosa che ti par buona, chè non ti volgi al farla anzi che
attristarti? — Ma sorse osta- colo più potente di me. Non attristarti
adunque se tua non è la colpa del non fare. Ma non porta il pre-
gio di vivere, se questo non posso fare. Esci dunque pacatamente di
vita (dacché muore anche colui cui vien fatta la cosa che imprende),
o con animo benevolo verso chi ti ha contrariato. Sovvengati
come divenga ines- pugnabile la parte sovrana dell’ uomo quando
rinchiusa in sè stessa non abbia altro proponimento'che di non
lasciarsi indurre a far cosa che essa non voglia, anche nei òasi in'
che quel suo ostinarsi a non volere fosse fuor di ragione. Ora che
non sarà quando la sua risoluzione proceda da sano e ben ponderato
consiglio? La mente scevra da passioni è dun- que una eccelsa
rócca, nè 1’ uomo ha luogo più validamente munito ove raccogliersi
per non esser vinto mai. Chi non conosce questo- rifu- gio, è un
ignorante; chi lo conosce e non vi ricovera, è uno sciagurato.
49. Non dire tu a te stesso più che non siati annunciato dalla
per- cezione immediata. Ti si annuncia che il tale sparla di te.
Questo ti si annuncia; ma che tu ne riceva no- cumento, non ti è
annunciato. Vedo che il figliuolo è ammalato. Questo veggo io; ma
ch’egli sia in pericolo non vedo. Fa’ dunque di attenerti sempre a
ciò che ti dice la perce- zione immediata, non aggiungendovi nulla
del tuo, e così non ti accadrà nulla mai.' Anzi aggiiignivi pur
qual- che cosa, e siano le riflessioni di un uomo che conosce le
relazioni e le con»lizioni vere di tutte lé cose che accadono nel
mondo. Il cocomero è amaro? non man- giarlo. V’hanno sterpi nella via? fa
di non inciamparvi. Tanto ti basti. Non farti a dire: che bisogno ci
avea anche di cotali cose nel mondo? perchè ne avresti le beffe
dell’ uomo versato nella scienza della natura, come avresti quelle
del legnaiuolo Nulla di male, intendi, perchè tutto quello che sarà
oggetto immediato della percezione, senza alcuna aggiunta del tuo,
non sarà mai gran male. Cioè che tutto che accade è nell' ordine della
natura, e vuol essere accettato di buon grado. e del calzolaio se ti
facessi a biasi- marli del trovarsi trucioli e ritagli nelle loro
botteghe.' E nondimeno per costoro v’ha luogo ove gittarli fuori
delle loro officineT mentre la natura dell’ universo non ha fuori
dell’ universo alcun luogo. Ma questo è appunto il mirabile dell’ arte di
costei, che essendo essa circo- scritta da quei limiti che ella
pose a sè stessa, tutto ciò che nella sua officina sembra guasto,
vieto, non più utile a nulla, ella riprende in sè stessa e ne fa
materia alla pro- duzione di cose nuove. Perchè ella non vuole aver
bisogno mai nè di estranea materia, nè di luogo este- riore ove
gittare il vietume, e a lei basta il suo proprio luogo, la sua
propria materia e l’arte sua propria. Fa’ di non essere molle o negligente
nell’ operare, non confuso nel favellare, non vagante qua e là
senza scopo nel pensare; fuggi, in quanto si è agli affetti, lo
scoramento e la subitanea gioia, e nel tenore della vita lo
impigliarti in troppe faccende. Ammazzano, tagliano a pezzi, fanno
imprecazioni. Che vale tutto questo ad impedire che la tua mente
non si conservi pura, assen- nata, temperante e giusta? Se alcu- no
fattosi vicino ad una fontana lim- pida e dolce si ponesse a
maledirla, forse che da quella cesserebbe di scaturire acqua
potabile? Vi gittasse ancor dentro fango e sterco, essa lo avrebbe
sciolto ed espulso in poco d’ ora, e non ne rimarrebbe conta-
minata. Come avrai tu dunque in te una fontana limpida e perenne, e
non un pozzo? Col non cessare di rivendicarti in libertà, serbandoti
sempre mansueto, schietto e verecondo. Chi non sa che cosa è il
mondo, non sa dove sia egli stesso. E chi non sa a che il mondo e
stato fatto, non sa nò qual sia egli stesso, nè " che
cosa sia il mondo.* E chi ignoia r una di queste due cose, non può
neppur dire a che fine egli stesso sia nato. Ora che ti pare di
colui che ambisce esser lodato da tali che non sanno nè dove essi
sono, nè quali essi sono?^ 53. Vuoi tu essere lodato
dall’uo- mo che tre volte all’ora maledice se stesso? Vuoi tu
piacere all uomo il quale non piace egli stesso a sè medesimo?
Piace egli a se medesimo chi si ripente quasi di ogni cosa die va
facendo? Oramai non ti basti' più sola- E chi non so o che il
mondo..... nè che cosa sto il mondo. StiU" interpretazione di
questo luogo diversamente inteso dagli interpreti, si può vedere la nota
nell' edi-zione di Torino. [Intendi quali ^ieno le loro condizioni. mente il
respirare* con l’aria* che ti circonda, ma fa’ eziandio di pen-
sare e di volere con l’ intelligenza universale* che in sè contiene
ogni cosa. Perchè la potenza intellettiva si diffonde e penetra per
ogni dove, chi voglia attingere da essa, non [Respirare: intendi
vivere la vita sensitiva per mezzo della respirazione. Il verbo “respirare”
e il corrispondente nel testo hanno nelle dne lingue rispettive oltre al
senso proprio, quello di vivere. [Con “l’aria”: intendi coll’ aiuto e
cooperazione dell’aria, conformemente - alla na- tura di essa aria, e
insieme con essa; chè essa pure vive è spira, o respira. La preposizione
con e la corrispondente in greco esprìmono nelle due lingue rispettive,
oltre alla relazione di compagnia, quella ancora di conformità,
aiuto reciproco o COOPERAZIONE', esprimono ancora il rapporto di causa sia
istrumentale, sia materiale. Tutte queste rela- zioni di compagnia,
conformità, aiuto e causa materiale, vogliono intendersi come
simul- taneamente espresse, confuse insieme in una idea complessa,
nelle dette preposizioni, così in questa come nella frase seguente. Coll’intelligenza universale: intendi
coir aiuto di ossa, conformemente ad essa e insieme con essa. meno che l’aria
rispetto a chi la aspira. Il vizio, universalmente, non nuoce al
mondo; e singolarmente, non nuoce ad altrui. Nuoce solo a colui al
quale è dato di potersene liberare al primo momento che il voglia. Alla
mia volontà la volontà del vicino ò cosa tanto indifferente quanto
la anim uccia di lui e il cor- picciuolo di lui. Perchè, sebbene
siam nati tutti gli uni per gli altri, la parte sovrana di ciascuno di
noi ha nondimeno il suo proprio domi- nio separato; altrimenti la
malvagità del vicino potrebbe essere un male per me. Il che non fu
voluto da Dio, affinchè non fosse in potestà altrui il far me
infelice. Il sole sembra versarsi per ogni dove, e effettivamente si
diffonde ' Cioè alPuomo vizioso, che può cessare di esser
tale tosto che il voglia. da tutti i lati, ma non però si effon- de.*
Quel suo diftbndersi è uno esten- dersi: e però gli splendori di lui
si chiamano actines (raggi) da ecteine- sthai (estendersi).* Tu
puoi vedere che cosa è un raggio guardando la luce del sole che
penetra per un piccol buco in una camera oscura: ella si allunga in
diritta linea e va come ad applicarsi sul corpo opaco qual siasi,
che le si fa incontro e intercetta 1’ aria al di là.* Quivi si
ferma senza sdrucciolare giù nè ca- dere. Cosi dee pure diffondersi
la mente, non effondersi, ma esten- dersi; e quando s’ appresenta
un ostacolo, applicarvisi senza violenza nè urto, nè tampoco cader
giù, ma Non si versa fuori in modo eh' egli ab- bandoni il luogo
onde parte la sua luce. [Falsa etimologia, simile a tante altre che puoi
incontrare presso' gli antichi. Vale a dire intercetta come corpo opaco
il passaggio della luce agli strati d' aria che sono al di là. star ferma
e- illuminare 1’ obb ietto che la riceve. Che se questo non vorrà
trasmettere la luce, tal sia di lui se rimarrà privo di essa.Chi teme la
morte, teme o di non dover più aver sentimento, o di dover avere un
sentimento diverso dal presente. Ma se tu non avrai più sentimento, non
sentirai verun male; e se tu avrai un sentimento diverso, sarai un
animale diverso, e non avrai cessato di vivere. Gli uomini sono nati
gli uni per gli altri. Ammaestrali dunque, o sopportali. Altro
è il moto della freccia, altro quello della mente. Perchè la mente
anche quando procede cautamente e s’ aggira* nel deliberare, va 1
Intendi: non vorrà lasciarsi penetrare da essa luce, dandole passaggio nelle
parti più interne. Cioè illuminato solo esteriormente, ma al buio
nell' interno. nondimeno per la diritta via verso Io scopo.
61. Entrare nella parte sovrana di ciascheduno, e far sì che
ognuno possa penetrare nella parte sovrana di noi medesimi. Chi fa ingiuria
ad altrui, è reo d’ empietà. Perchè la natura univer- sale avendo
fatto gli animali ragio- nevoli gli uni per gli altri, affinchè r
uno giovi air altro, secondo il merito, e non gli noccia; il trasgre-
dire le intenzioni di lei, è manife- stamente un peccare contro la
più veneranda fra le Dee. Chi mente, è pur reo di quel medesimo
peccato. Perchè la natura universale è natura degli enti, e gli
enti hanno relazione di parentela con tutti gli esistenti. [Secondo il
merito; frase stoica. Di tutti gl'interpreti anteriori all’ornato il Kmtz è il
solo che intendesse bene Oltre che ella è nomata la verità,
ed è la causa prima di tutti i very. E però *chi MENTE CON INTENZIONE*, è
reo verso di lei, in quanto fa torto ad altrui ingannando; e chi
mente senza intenzione,' in quanto che ad ogni modo discorda dalla
natura universale, e turba V ordine andan- do a ritroso della
natura del mon- do; * perchè va a ritroso di essa non senza sua
colpa anche colui che insciente va a ritroso del vero; sendo che non per
altro che per non aver profittato di quelli indirizzi e sussidi di
cui gli fu prov- vida la natura, non è egli più in grado di
distinguere il vero dal falso. Ancora è reo di empietà chi segue il
piacere come un bene e schifa il dolore come un male. Perchè non
questo luogo, ancora che un po' troppo pla- tonicamente. Vedi la
nota dell' Ornato nel- l'edizione di Torino. Cioè per ignoranza, o a
caso. P. * Che è l'ordine per eccellenza. può essere che costui non
mormori spesso contro la natura comune, quasi ’ ella non abbia riguardo
al merito nelle dispensazioni che va facendo ai buoni ed ai tristi,
veg- gendosi spesso i tristi vivere nei piaceri e nella abbondanza
di tutte le cose che li procurano, quando i buoni cadono nel dolore
e van sog- getti a tutti gli accidenti che ne sono cagione. Oltre
che chi teme il dolore, temerà pure talvolta alcune delle cose che
sono per accadere nel mondo: il che è già da per sè cosa empia;* e
chi va in cerca del piacere non si asterrà dal far torto agli
altri. Del resto, chi viiol seguire la natura, dee consentire colla
natura [Epitteto, Manuale XXXII, 4. « Di modo che ciascuno che
procacci di desiderare e fuggire solamente quello che è da essere
desiderato e fuggito, procaccia al tempo medesimo di esser pio » (traduz.
di G. Leopardi). Cfr. Manuale. ed essere indifferente rispetto a
tutte quelle cose rispetto alle quali ella si dimostra indifferente
col far che suc- cedano egualmente nel mondo. K • però chi non fa eguale
stima del dolore e del piacere, della morte e della vita, dell’
infamia e della gloria, delle quali cose fa uso egual- mente la natura
universale, è mani- festamente reo di empietà: dico che la natura
ne fa uso egualmente, vo- lendo significare che sono accidenti a
cui sono deipari sottoposti secondo la legge di anteriorità e
posteriorità,' tutti gli esseri che nascono e si suc- cedono gli
uni agli altri per conseguenza necessaria di.quello impulso primordiale
con cui la previdenza concependo in sè certe ragioni del futuro,* e
determinando virtù gene- ratrici di esistenze, di cangiamenti
1 Abbiamo seguito l' emenda^siono del Ce- rai. Ragioni seminali. e
di successioni conformi a quelle,' diè principio a questo
ordinamento di cose. 2. Certo meglio era per te
serbarti puro di menzogna e di ogni sorta di finzione e di boria
sino al punto della tua dipartenza dagli nomini. Ora il partire
nauseato di queste cose è, dopo quello, il miglior par- tito che ti
rimanga. 0 hai tu forse deliberato di marcir sempre nel vizio, e r
esperienza stessa non ti persua- de ancora a fuggire dalla peste?
Perchè è peste la corruzione della mente ancor più che lo infettarsi
c corrompersi di quest’ aria che ne circonda. L’ una è peste degli
ani- mali in quanto sono animali; l’altro è peste degli uomini in
quanto sono uomini. 3. Non disprezzare la morte, ma
accettala di buon grado, siccome Conformi a quelle ragioni seminali. quella
che è una delle cose che la natura vuole. Perchè quale è il giun-
gere alla adolescenza, alla vecchiaia, il crescere, il giungere alla
virilità, il mettere i denti e la barba, il ge- nerare figliuoli,
portarli, partorirli, e tutti gli altri effetti che arrecano le
stagioni della vita, tale è ancorji il dissolversi. Appartiensi dunque
ad uomo assennato il non procedere alla cieca colla morte, nè all’
avventata nè con superbia, ma aspettarla come uno dei tanti effetti
naturali: come aspetti l’ora che dall’utero della mo- glie esca il
feto, a quello stesso modo aspetta l' ora in che l’ anima tua
uscirà di codesto suo invoglio. Che se ti è bisogno anche di uno
em- piastro da idiota il quale s’ applichi al cuore,' ti gioverà il
considerare Che se ti è bisogno anche appli- chi al cuore. Le
parole del testo, chi ben le intenda, non sono, a parer mìo, senza
una certa ironia. Perchè a far riguardare quali sieno le cose onde t’ hai
a dipartire, e gli umori degli uomini tra i quali l’anima tua non
sarà più impigliata. Non che tu abbia a re- carteli a noia, chè
anzi hai da averne cura e sopportarli con amore; ma potrai
ricordare che non sei per di- partirti da uomini che la pensino
come te. Perchè, se ci avesse cosa con indifferenza la morte, la
ragione specu- lativa data già innanzi dovrebbe, secondo l’autore,
bastare al filosofo, al quale non dovrebbero abbisognare argomenti che
ai indirizzino alla sensibilità, e che Antonino chiama “empiastri
da idiota che s’ applicano al cuore”. Ornato traduce questo luogo come
segue: Che se vuoi inoltre uno espediente da nomo materiale che ti
muova sensibilmente:» notando al margine: c anzi tutto conveniva far
capire il senso, e qui era maggior fedeltà il la- sciare la
lettera. Il primo mezzo, dice An- tonino, era da filosofo: questo secondo
da illetterato: e però quello era speculativo, questo pratico. Ma
vedi se puoi dir meglio, chè sono scontento assai. » Per dir meglio
io ho stimato che fosse da conservare il linguaggio figurato e l'ironia
del testo, non tanto difficile poi a capire anche nella traduzione. che
dovesse affezionarci alla vita, questa sarebbe fuor di dubbio; lo
averla a passare con chi sente e giudica come noi. Chi pecca, pecca
a suo danno: chi commette ingiustizia, fa ingiuria a sè medesimo,
facendo sè malvagio. È ingiusto soventi volte non solo chi fa, ma
ancora chi non fa. Se il giudizio che tu fai nel momento presente è
vero; se l’azione che tu fai nel momento presente si riferisce al
ben comune; se la disposizione in che sei nel momento pre- sente è di
accettare di buon grado quanto avviene per virtù della causa
esteriore; non ti abbisogna più altro. Togli via le false
immagina- zioni; contieni i moti dell’ animo; spegni i desiderii
troppo accesi; fa’ che la mente sia padrona di sè. Una è l’anima distribuita
fra tutti gli animali irragionevoli; una la ragione compartita a
tutti i ra- gionevoli come una è la terra di tutte le cose terree,
una la luce per cui veggiamo, ed una 1 aiia che respiriamo tutti quanti abbiamo
vista! e respiro. Tutte le cose che hanno alcun che di comune
fra loro, tendono l’una verso dell’altra. Il terreo tende verso la
terra, V umido s ac- costa all’umido, l’aereo all’aereo. Il
fuoco va in su per cagione del fuoco elementare; e quaggiù è così
pronto ad unirsi con altro fuoco, che ogni materia un po’ secca s
accende di leggieri per lo esservi mescolata dentro minor quantità
di ciò che impedisce l’unione, h sunilmente ciò che partecipa della
natura intellettiva tende verso il suo congene- re, e con più forza
eziandio: perchè quanto ha più eccellenza delle altre cose, tanto
ha maggiore inclinazione ad unirsi con chi ha somigliante natum, e a
confondersi con esso. E però tu trovi appo gli animali privi di
ragione sciami, mandre, nidiate, e come chi dicesse amori: sono già anime
in essi, e la virtù unitiva, più intensa nel più perfet- to, vi si
manifesta quale non è an- cora nelle piante, nelle pietre o nei
legni. Ed appo i ragionevoli tu vedi città, amicizie, famiglie,
radunanze pubbliche; e anco nelle guerre patti e tregue. E appo gli
esseri ancora più eccellenti l’unione ha luogo in certo modo anche
fra i disgiunti e lontani, come puoi vedere negli astri.' Cosi un
più alto grado di eccellenza può generare scambievole corrispon-. Molti
degli Dei popolari riferivano gli stoici ai gran corpi celesti, al
sole, alla luna, alle stelle. Gli Dei medesimi non sono pure, agli occhi
degli stoici, ciascnno per sò medesimo; ma tutti sono per tutti, per la
loro comunità, pel Dio supremo, pel mondo ecdexiza negli esseri anche a mal
grado della distanza che è tra mezzo. Ma vedi ora a che siamo: soli
i ragio- nevoli sembrano talora aver posto in oblio la loro qualità
che li chiama ad unirsi reciprocamente gli uni cogli altri, e quivi
solo pare che non si trovi sempre concorso reciproco. Nondimeno con
tutto che essi fug- gano a poter loro, e’ sono da ogni parte
arrestati; chè la natura è. più potente di loro. Tu vedrai
manifesto (j nello che io dico, se tu saprai osservare. Perchè ti verrà più
agevolmente fatto di trovar terra scompa- gnata dalla terra, che non uomo
scompagnato dall’ uomo. Porta il suo frutto anche l’ uomo, ed anche Dio,
ed anche il mon- do: e ogni cosa nella sua stagione porta il suo
frutto. Che se l’uso ap- plica questo modo di dire propria- mente
alla vite e alle altre cose di simil fatta, non monta nulla. La ragione
poi porta un frutto c per gli altri e per sè stessa,* e nascono da
lei cose che hanno natura e qualità simili alle sue proprie. Se tu
il puoi, fa’ che si ricre- da; se non puoi, sovvengati che la
benignità ti è stata data per questo.* Anche gli Dei sono benigni a
questi tali; e in certe cose eziandio li aiu- tano, come a
conservare e ricuperare la sanità, ad acquistare fama e ricchezza:
cotanto sono essi amorevoli. Il medesimo puoi fare.tu an- cora; o
veramente di’ chi ti impedisce che tu noi faccia. Lavora non già come un ta-
pino nè come chi voglia farsi com- miscrare o ammirare; ma intendi
a ciò solamente: operare e astenerti. Cioè per tollerare amorevolmente
an- che chi erra e non vuole o non può ricredersi. Intendi « agire o non
agire, » frase solenne appo gli stoici, non traducibile. secondo che la ragion
civile * richiede. Oggi sono uscito d’ ogni mia noia, 0 per dir più
vero, ho cacciato fuori ogni mia noia, perchè non era fuori di me,
ma dentro, nelle mie opinioni. Sion tutte cose, in quanto al
numero delle volte che si sono ripetute, consuete; in quanto alla durata,
transitorie; in quanto alla materia, sordide. Tutte sono ora quali
erano al tempo di coloro che abbiam sep- pelliti. Le cose
stan fuori dell’ uscio, ^ dapersè, nulla sapendo disè, nè giu-
dicando. Chi è dunque che giudica intorno a loro? la parte sovrana. Intendi
il bene della società. Intendi fuori di noi, e non hanno adito a noi nè
potenza di turbarci, se noi non apriamo loro l’uscio, facendo stima di
loro disuguale al vero. Ho creduto di dover con- servare
l'espressione figurata del testo greco. Cioè la ragione. Non nella
passione, ma nella razione sta il bene e
il male dell’animai ragionevole e socievole; come non istà nella passione
ma nell’ azione la virtù di lui e il vizio. Alla pietra
scagliata in aria non è punto un male lo andare in giù, nè un bene
lo andare in su. Penetra nell’interno delle menti loro, e vedrai
che gente è quella di cui tu temi il giudizio, e che sorta di
giudici sono anche verso di sè medesimi. L’esistenza delle cose è un
passare incessante da una in altra forma. E tu stesso non perduri
un istante nel medesimo stato, ma ti vai di continuo alterando e come
a dire dissolvendoti. E
l’universo parimente. Cioè iniqui anche verso sè stessi, non
che verso gli altri; dannando essi la lo(o parte sovrana a servire alla
inferiore. Il fallo altrui coiivien lasciarlo dov’è. Il finire di una
azione, il cessare di una volontà o di un pensiero e, per così dire, il
morir loro, non è punto un male. Considera ora le diverse età: l’infanzia,
L’ADOLESCENZA, la giovinezza, la vecchiaia. Il cessare di quella che precede
per dar luogo a quella che segue, è ancora, come a dire, una morte. È
egli un male? Passa a considerare la vita che vivesti sotto 1’ avolo,
poi quella sotto la madre, e rammenta ancora molte altre diversità
di stati, e mutamenti dall’ uno in un altro, e ces- sazioni; e interroga
te stesso; è egli cotesto un male? Adunque nò anco il cessare
e concludersi della vita, nè il totale mutamento di essa non è
punto un male. Cioè in chi n’è autore, il quale non nuoce che a sè
medesimo. Bada alla tua parte sovrana, a quella dell’ universo, a quella
di costui. Alla tua, per ridurla giusta ed imparziale; a quella
dell’ uni- verso, per non dimenticare di che sei parte; a quella di
costui, per chiarire s’ egli operò per ignoranza ovvero con intenzione, e
ricor- dati ad un tempo che egli ti è congiunto. Come tu medesimo
sei parte del corpo sociale, così anche ciascuna delle tue azioni è parte
inte- grante della vita di quello. Adunque se una qualsivoglia di
esse non ha per iscopo, o immediato o mediato, il bene della
società, ella turba la vita comune rompendone l’ unità, ed è sediziosa
come è sedizioso chi parteggia in una città e guasta, per quanto è
in lui, la comune concordia. Sdegni fanciulleschi, bambo- late,
animucce che portano cadaveri, cose che rappresentano al vivo ciò che
narra Omero delle anime degli spenti. Considera la qualità della
causa, e separando quella dalla materia, fa’ di contemplarla
distintamente in sè stessa; di poi vedi anche e circoscrivi
distintamente entro i suoi confini il tempo che, al sommo, possa
cotal cosa per la natura sua durare. Hai sofferto mille travagli
per non aver voluto appagarti unicamente del far quello a che sei
stato ordinato: ma basti. Quando altri ti lacera o ti odia, o che
schiamazzano contro di te, come fanno ora, pensa alle animucce Farla
di tutte le cose di questo mondo. L’Odissea, lib. XI, discesa di Ulisse all’Inferno.
Intendi: per non aver riposto unica- mente il tuo bene nel far quello ohe
ec.Come schiamazzano ora; relativo a qualche caso particolare. di questi
tali, penetra loro addentro e osserva che uomini sono. Ve- drai che non
ti conviene il dar;(:i briga perchè essi abbiano di te piut- tosto
tale che tale altra opinione. Hai nondimeno a voler loro bene: chè
sono per natura amici tuoi. IC anche gli Dei non lasciano di giovar
loro in ogni modo, per mezzo di sogni, di oracoli, sebbene in
quelle cose soltanto che da costoro si pregiano. Cotale è il
perpetuo giro delle cose mondiali; all’ insù all’ ingiù, d’ età in
età. 0 la mente dell’ uni- verso determina con atti particolari di
volontà ciascuna cosa; e se que- sto è, tu hai da ricevere con
amore il voluto da lei: o ella ha voluto e determinato una volta
per sempre, o tutto pende e procede da quella determinazione; e allora a
che il ri- calcitrare? Egli è, in certo modo, come se non ci avesse
altro che atomi e indivisibili. Al postutto, o egli v’ ha un Dio
intelligente e provvido, e tutto sta bene; o le cose si governano dal
caso; e tu almeno non governare a caso te stesso. Oramai la terra
ci ricoprirà tutti quanti siamo; e poi anche la terra si trasformerà; e poi si
trasformerà quello ancora in che si sarà trasformata la terra; e
quest’ altro ancora di nuovo, air infinito. Davvero chi ripensa a
un cotale incalzarsi di mutamenti e di moti e alla rapidità con che si
suc- cedono, non può essere che al tutto non disprezzi ogni cosa
mortale. La causa universale è un tor- rente che trae seco ogni
cosa. E que- sti omicciuoli che al parer loro ma- neggiano secondo
filosofia gli affari «li Stato, come son piccioli! Veri bimbi in culla.*
0 uomo, attendi a Letteralmento: « pieni,di moccio, moc- ciosi, »
cioè « bimbi col moccio al naso. far quello, che che sia, che la natura
richiede da te nel momento presente, e non andar guardando attorno se
altri il saprà. Non isperare la repubblica di Platone, e sii contento ad
ogni po’ di progresso che tu vegga; pensando che anche il ridurre questo
ad- effetto non è pic- cola cosa. Perchè le opinioni degli uomini
chi può mutarle? E senza correggere le opinioni, che puoi tu avere
se non ischiavi che gemono e s’infingono di obbedire? Or va’, non
istar più ad allegarmi Alessandro, Filippo, Demetrio Falereo. Buon
per loro, se conobbero che cosa vuol la natura comune, e seppero
raffrenare e governar sè medesimi. Che se operarono solo per parere,'
nissuno ha moT'oeuXy direbbero i Francesi. Dal novero di
questi bimbi non pare che Antonino intendesse escludere sè medesimo. Fare il
bene per amor del bene piutto- sto che della lode, voler essere
piuttosto che parere ottimo, è il tratto più essenziale condannato
me ad imitarli. Semplice e modesta è l’opera della filosofia. Non
indurmi ad ostentazione di gravità. Contempla, come da un’ alta vetta,
mandre infinite d’uomini, usi di religione innumerevoli, e un na-
vigar da ogni banda, in tempesta, in bonaccia, e diversità di
nascenti, di conviventi, di morenti; pensa an- cora alla vita che
si vivea per lo addietro, e a quella che si vivrà dopo te, e a
quella che tra le nazioni barbare si vive ora, e quanti v’ ha che
di te ignorano anche il nome, dì un gran carattere morale, dipinto
da Eschilo con tre versi sublimi nei Sette a Tebe parlando di
Amfiarao, in parte fran- tesi dal Belletti; e la cui traduzione
let- terale, per quanto è possibile, sarebbe: « non sembrare, ma
essere ottimo ei vuole, fa- cendo fruttificare il fertile terreno
della sua mente, ove germinano gli assennati pensieri. [ Bellissimo e
nobilissimo paragrafo ! quanti insegnamenti, e per quanti, si compendiano
in esso! P e quanti che sono per dimenticarlo in breve, e quanti che ti
lodano forse ora, e ti biasimeranno tantosto: e come non è da fare
stima nè della ricordanza, nè della gloria, nè di ve- runa cosa quaggiù.
Imperturbabilità rispetto alle cose che procedono dalle cause este-
riori; rettitudine nelle cose di che tu stesso sei causa: vale a dire, determinazioni
ed azioni non aventi altro fine che sè medesime, cioè d’o- perare
socievolmente, siccome cosa che è secondo la tua natura. Fra le
cose che ti molestano, molte le quali hanno sede nella tua opinione,
tu puoi sgombrare da te, o darai cosi campo ed agio a te stesso.
Fa’ di abbracciar colla mente l’uni- verso mondo, e concepir nel
pensie- ro r eternità dei secoli, e considera la rapida
trasformazione di ciascuna cosa particolare, e quanto è breve
l’intervallo dalla nascita alla dissoluzione, e infinito il tempo che
precedet- te la nascita, e infinito del pari quello che terrà dietro
alla dissoluzione. Tutte le cose che tu vedi si tlissolverannò tra
breve, e coloro che le vedranno dissolversi, si dissolveranno tra breve
anch’essi. E chi morrà d'estrema vecchiezza, si tro- verà ad un
medesimo ragguaglio con chi mori anzi tempo. Che menti son quelle di
costoro ! e per che motivi amano e onorano altrui! abbi in uso
diveder nude le loro animucce. Quando si credono nuocere
biasimando, o giovare lodando, che vanità! Una perdita di che che sia non è
altro che una trasformazione. Edi ' questo si compiace la natura dell’universo,
conforme alla quale tutto [Intendi: qual vanissimo errore!] Perchè
la lode e il biasimo di chi che sia noii aggiunge e non toglie nulla al
valor vero degli uomini o dello cose. si fa bene. Per secoli
innumerevoli le cose si sono fatte a questo modo, e continueranno a
farsi' a questo modo per altri secoli innumerevoli. Che dirai
dunque? Che sempre sensi fatte male, e che continueranno a farsi
male per l’avvenire? Or nissuno dunque s’ è mai trovato fra cotanti Iddìi, il
quale avesse potestà di correggere tutto questo? E il mondo è egli
condannato a mali che non avranno mai fine? Vedi il marcio della
materia che sottosta alle cose: acqua, polvere, ossicini, sudiciume. Il
marmo, callosità della terra; l’oro e r argento, capomorto di quella;
la veste, peli; la porpora, sangue: cosi di tutto il rimanente. E la materia
organica vivente, altrettale: di La conclusione è che le perdite, i
mu- tamenti, e tante coso allo quali il^ volgo dà il nome di mali, non
sono mali veri. quei medesimi ingredienti si com- pone, e in quelli si
risolve. Abbastanza hai tapinato, abbastanza hai mormorato,
abbastanza hai fatto la scimmia. Che ti turba? Che t’interviene di
nuovo? Che è ciò che ti trae dal senno? La causa? vedila. La
materia? vedi la materia. Da queste cose in fuori non v’ ha nulla.
Ma anche fa’ di essere più pio verso gli Dei e più semplice.
Lo stare a veder queste cose tre o cento anni è tutt’uno. Se
egli ha peccato, in lui sta il male. Ma forse non ha peccato. 0 da una
sola fonte intelligen- te, come in corpo organato procedono tutte le cose;
e se ciò è, non appartiensi alla parte il querelarsi di ciò che
fassi ad utilità comune del tutto; o sono gli atomi. E tutto che
esiste, accozzamento del caso, vien dissipato dal caso. A che dunque ti
turbi? Di’ alla parte sovrana: sei tu morta? sei tu fradicia? sei
tu altra cosa che te? sei tu imbestiata? sei tu giumento? sei tu
pecora? gli Dei non possono far
nul- la, o possono. Se non possono; a che li preghi? Ma se possono,
che non li preghi piuttosto perchè ti concedano di non temere nè
desidarare alcuna di queste cose, nè di rattristarti per esse, anzi che
pre- garli che tu possa ottenerle o evitarle? perchè ad ogni modo, se e’
pos- sono aiutare gli uomini, debbono poterli aiutare anche in
questo. Dirai forse: cotesto gli Dei hanno posto in mia facoltà. 0, non è
dunque meglio valerti con altezza d’ animo indipendente di ciò che
sta in poter tuo, anzi c he affannarti abbiettamente e servilmente per
ciò che non dipende da te? E poi chi ti ha detto che gli Dei non ci
aiutino anche nelle cose che stanno in poter no- stro? provati di
pregarli, e vedrai. Altri prega: fa’ che io possa giacere con
colei. E tu prega: fa’ che io non desideri di giacere con colei. Altri:
fa’ che io mi possa liberare dal tale. E tu: fa’ che io non abbia
bisogno li liberarmi dal tale. Altri ancora: fa’ che io non perda il
figliuolo. E tu: fa’ che io non tema di perderlo. In somma
raddrizza cosi le tue pre- ghiere, e sta’ a vedere che ne segue.
4L Dice Epicuro: « Ammalato, io non facea mai parola delle
affezioni del mio corpicciuolo nè d’altre co- tali cose, quali
sogliono essere quelle di che amano gli infermi inti’atte- nersi
con coloro che li vengono a visitare. Ma attendeva tuttavia a ragionare
intorno ai punti principali della filosofia naturale, soprasUmdo
ad investigare e dimostrare ciò ap- punto: come possa V anima,
ancora che partecipe dei moti del corpo, serbarsi nondimeno
imperturbata, e conservare in sè quel bene che è proprio di lei: nè
dava, aggiunge egli, materia ai medici d’insupei- bire, come se
facessero gran che: chè la mia vita, anche in quello stato, non era
senza calma e giocon- dità. » Ora fa’ tu altrettanto, sia,
ponghiamo caso, che tu ammali, o t’ intervenga qualsivoglia altra
mo- lestia: perchè"' il dover serbar fede alla filosofia in
ogni congiuntura qualsiasi, e non delirare con lo stolto e con
l’ignaro, è precetto comune a tutte le sètte. Bada unicamente a ciò
che tu fai nel momento presente, e all’ istro- rnento con che il fai.
Quando ti senti offeso dall’impudenza di alcuno, interroga tosto te
n'iedesimo: ò egli possibile che non ci abbia impudenti nel mondo?
Non è. Non voler dunque l’impos- sibile: questo è uno di quelli
impu- denti che di necessità hanno ad essorci. Lo stesso hai da dirti e
del furbo e del disleale, e di qualunque altro vizioso che pecchi
in qualsi- voglia modo. Perchè ricordandoti essere impossibile che
tal sorta di gente non sia, tu ti farai più mite verso ciascuno.
Giova ancora il pen- sare subito. Qual virtù ha dato all’uomo la natura
contro questo peccato'? Ha dato, per modo di eseni- [Intendi: tosto
che ci sentiamo offesi por tale 0 tal altro fatto biasimevole di
chicchessia. Intendi: contro al sentirsi offeso da questo peccato del
vicino. Perchè colle stesse parole in altro luogo potrebbesi anche
si- gnificare: qual virtù diede all'uomo la na- tura.per combattere
in sè medesimo questo peccato e serbarne puro sè stesso. pio, contro all’
ingrato la mansuotudino, 0 contro a ciascuno altro vizio, altre virtù. Ad
ogni modo tu puoi far prova di ravviare quel traviato; perchè chi
fallisce, fallisce Io scopo a cui mirava, ed è quindi traviato.' E
ancora tu hai a pensare qual danno te ne viene: eli è troverai
nissuno di costoro, contro ai quali ti adiri, aver fatto cosa per
cui la mente tua sia. per divenir peggiore. Ed ogni tuo male, ogni
tuo danno, ben sai, non poter essere altrove che in quella. E poi
che male ci ha, o che v’ ha egli di strano se l’indotto fa cose da
indotto?- Vedi piuttosto che tu non abbia a rampognar te medesimo, il
quale non hai aspettato da colui tal sorta di fallo. Perchè a te la
ragione porgeva argomenti a pre- vedere che costui fallirebbe
probabilmente in quella guisa; ’ e tu non badasti, ed ora ti vai
maravigliando eh’ egli abbia fallito. Massimamente (juando parratti
aver rimproveri a fare a un disleale, a un ingrato, fa’ che tu
rivolga contro te medesimo r accusa: sendo manifestamente tuo r
errore se hai creduto che un uomo in cotale disposizione d’animo
fosse ' per mantenere la fede; o,se facendo tu del bene ad altrui,
non l’hai fatto senza un rispetto al mondo ad altra cosa che al
bene che volevi fare, nè con r intento di avere a raccogliere
immediatamente e unicamente dal fatto stesso dello aver compiuta
una buona azione, tutto ed intero il frutto di essa. Nel vero
quando tu hai beneficato un uomo, che vuoi tu an- cora di più?^ Non
ti basta aver fatto II saggio, diceano gli stoici, avrà amici, ma li amerà
per utile loro, e non di sè stesso. un’azione che è conforme alla
tua natura, e vuoi inoltre ima mercede, come se gli occhi avessero
ad esser pagati perchè vedono, e i piedi perchè camminano? Perchè
siccome queste membra furono così confor- mate affinchè avessero a
fare cotali uffici, e quando hanno fatto i servigi a che furono ordinate,
hanno ricevuto tutto ciò che è dovuto loro; cosi l’uomo, per
'natura benefico, quando ha operato alcun che di bene, o
semplicemente aiutato altrui nelle cose medie, ha fatto quello a che
è stato ordinato ed ha ricevuto tutto quello che gli è dovuto. E
quando mai, o anima, sarai tu buona, o schietta, ed una, e ignuda, e più
appariscente ' del corpo che ti (àrconda? Quando gusterai tu di
quello stato che è tutto dilezione ed amore? Quando sarai tu
fornita di tutto punto, non mancante di nulla, non agognando nè
desiderando nissuna cosa, sia animata o sia ina- nimata, per
pigliarne diletto? nè tempo perchè il diletto più duri? nè ' luogo
od opportunità di paese o di clima, nè conformità d’uomini che ti
vadano a genio? ma sarai paga [Intendi visibile, chè questo senso
ha pure il vocabolo appariscente] del tuo stato presente, facendo
piacer tuo di tutte le cose presenti, e persuadendo a te stessa che tu
hai tutto e che tutto va bene, e che tutto li viene dagli Dei e
tutto andrà bene, checché piaccia ad essi d’ inviarti per la salute
di quello animale per- fetto e buono e giusto e bello, il quale
genera tutte le cose, e tutte le contiene ed abbraccia e riceve al-
lorché si dissolvono per la riprodu- zione di altre simiglianti?
Quando mai sarai tale che, vivendo in una società con gli' Dei e
con gli uomi- ni, non ti accada mai né di dolerti di loro, né di essere
condannato da loro? Vedi quello che richiede la tua natura in
quanto sei governato dalla sola natura,’ e fàllo o accettalo ogni
volta che non sia per patirne danno la tua natura d’animale; Di poi os- Cioè a dire in quanto soi organismo viventi. serva
quel che richiede la tua na- tura d’ animale, e questo ancora ri-
duci ad atto ogni volta che non sia per patirne danno la tua natura
razionale. Ma il razionale importa, qual conseguenza immediata, il
so- cievole. Metti in pratica queste re- gole, e non darti pensiero
più d’altro. Checché ti accada, è o non è comportabile alla tua
natura. Se è, non hai motivo di crucciartene, ma Adunque Antonino,
come già gli stoici antichi, come i fllosofl moderni (vedi particolarmente
Burdach, Antropologia), tre diverse nature, o per dire più propriamente,
tre diversi gradi simultanei di vita distin- gueva nell' uomo: la vita
plastica o vegeta- tiva, la vita animale, e la vita razionale.
Quanto al principio unico, o moltiplico di queste tre vite, le idee degli
stoici erano confuse. E Antonino errava lungi dal vero quando
diceva, parlando della vita plastica o vegetativa, questa essere «
governata dalla sola natura, » se con ciò intendea che a produrne,
o a spiegarne tutti i fenomeni bastassero quelle leg^ che i moderni
chia- mano « leggi generali della natura. attendi a portartelo in pace,
essendo tu nato a ciò. Se non è, ancora non crucciartene; perchè
verrà meno come prima ti avrà consunto. Ma sovvengati che sei tale
per natura da poter tollerare tutto ciò che sta in potere della tua
mente di rendere tollerabile col persuaderti che ti giovi 0 sia
dover tuo il tollerarlo. Se falla, correggilo amorevol- mente, e
mostragli in che ha falla- to. Se noi puoi, incolpane te stesso, o
veramente nè anche te stesso. Qualunque accidente ti occorra, egli ti era
da secoli innumerevoli predestinato, e la serie fatale delle cause * avea
connesso insieme quello accidente colla tua esistenza. 6.
Atomi, o nature, quale che fosse dei due, io pongo per fermo in
primo luogo che io sono parte di ^ Concatenazione delle cause, o
serie delle cause è appo gli stoici la definizione stessa del fato.
un tutto governato da una natura; e- in secondo luogo che io ho
rela- zione di affinità con tutte le parti a ine congeneri. Avendo
ferme nel- r animo queste due cose, in quanto io sono parte, non
avrò a grave nulla di ciò che mi viene compartito dal tutto, non
essendo nocevole alla parte quello che al tutto è giovevo- le; nè
potendo il tutto aver nulla in sè che non conferisca al bene di lui;
primieramente perchè questa è proprietà generale di tutte le na-
ture, e poi perchè la natura del- r universo ha questo ancora di
più, che non è càusa alcuna esteriore da cui possa essere
necessitata a pro- durre mai cosa la quale sia per nuo- cerle.
Ricordandomi adunque che io sono parte di un tutto cotale, avrò
caro ogni cosa che avvenga. E in quanto ho relazione di affinità
colle parti a me congeneri, attenderò a non far nulla mai che non
si riferisca a quelle; ma anzi mirando sem- pre a» miei simili, rivolgerò
tutte le mie forze a procacciare il ben co- mune, e mi asterrò da
tutto che possa ridondare in altrui danno. E così governandomi' non
può essere che la vita non abbia un corso fe- lice; come felice
stimeresti il corso della vita del cittadino il quale pro- cedesse
d’ una in altra opera giove- vole ai suoi compagni di patria, e
avesse caro tutto quello che fosse voluto dal comune. Alle parti del
tutto, quante per natura contengonsi nell’ universo, è necessità il
corrompersi: questo sia •detto per significare lo alterarsi di
esse. Il quale alterarsi se fosse per natura un male, come è una
neces- sità, poco felici sarebbero le condi- zioni del tutto, le
parti di lui es- sendo, come a dire, avute in odio da chi governa,
e da lui fatte tali da doversi chi in uno, chi in altro modo
corrompere. Dove converrebbe dire o che la natura avesse' voluto
nuocere ella stessa alle proprie sue parti (20), sottoponendole al male,
e facendole tali che dovessero neces- sariamente incappare ' nel
male, o che ciò sia avvenuto senza che sia stato voluto nè
avvertito da lei. Delle quali cose nè V una nè 1’ altra ò da
credere. Che se taluno, messa da canto la natura, presumesse espli-
care il nodo affermando le cose essere nate a ciò, non sarà punto
meno strano il dire essere le parti del tutto nate ai mutamenti, e
ad un tempo il maravigliarsi e dolersi quan- do questi mutamenti si
compiono: massimamente quando noi veggiamo che esse risolvonsi
sempre in quei medesimi elementi di che è compo- sta ciascuna.
Avvegnaché la corru- zione o dissoluzione delle cose altro non
possa essere e non sia in ef- fetto che una disgregazione e dispersione
di quegli elementi, del cui ag- gregato esse si compongono, o vogliam
dire un ritorno al terreo di I ciò che v’ ha in esse di solido, e
al- r aereo di ciò che v’ha in esse di vitale,' di modo che la
ragione se- minale dell’universo riprenda di nuo- vo in sè questi
elementi, perchè al- r ultimo sieho consunti dal fuoco, se r universo
è sottoposto a conflagrazioni periodiche, o servano con per- petua
vicenda al continuo rinnovel- lamento di lui, se egli dura eterno
ed incorrotto.* E questo solido e que- sto vitale non darti già a
credere I che sia quello che tu avesti dalla madre nascendo: perchè
ieri, e ier r altro è venuto ad aggregarsi in te [Ricorda siccome
appo gli stoici la vita consiste nella respirazione, e quindi T es-
senza di quella è 1' aria. Opinione degli stoici più antichi: Ze- none,
Cleante, Crisippo. Opinione di molti stoici posteriori: Zenone da Tarso, Boeto,
Posidouiu, Panezio. e tiai cibi, e (-l’aria die hai respi rata. Questo adunque
che ti si è assrefiato ora si trasforma, e non oo o
più. quello che partoriva la madre. Fa’ che tu vi sottoponga col
pensiero quel che ti lega sì strettamente a ([ueste tali e tali altre
cose, le quali sono un nulla, cred’ io, jrispetto a quello di che
io ragiono Avendo tu imposto a te mede- simo questi nomi di buono, di
mc- ciosto, di veritiero, di assennato, di, consenziente, di
magnanimo, fa’ che non abbiansi a mutare nei loro con- trari; e ove
mai ti accadesse di per- dere quelli, fa’ che tu non tardi a ri-
cuperarli. E ricordati che con la pa- rola assennata, tu volevi
significare r attenzione discernitiva a ciascuna cosa presente, e
il non pensare ad altro in quel mentre. Con la parola consenziente,
l’accettazione volontaria di quanto ti viene compartito dalla natura
comune; e con la parola ma(filammo, la elevazione dello spirito al di
sopra di ogni moto soave o insoave della carne, e al di sopra I
della gloriuzza, della morte c di si- mili cose. Se adunque tu ti
assicu- rerai il possesso di quei nomi senza bramare che ti vengano
dati da al- trui, sarai un alti ò uomo ed entrerai in ima vita
nuova. Percìiè il continuare ad essere per lo innanzi quale sei stato
infino ad ora, e il continuare a voltolarti fra le brutture e I Je
angosce di una vita cotale, troppo è da uomo stupido e codardo,
simile a quei bestiari ' mezzo rosi dalle fiere, i quali pieni di
ferite e con- taminati di sangue e di loto, pre- gano pure di essere
conservati infine al domani, ancora che.consapevoli di dover essere
di nuovo esposti, conci in quel modo, alle medesi- Cosi chiamavano
i Romani quelli accoltollatori che negli spettacoli combatte- vano contro
le fiere. me unghie e ai medesimi denti. Gittati adunque con animo
delibe- rato in su quei pochi nomi, e se puoi tenertivi saldo ed
eretto, tien- tivi, non altrimenti che se tu fossi venuto ad
abitare in qualche isola fortunata; se ti accorgi che tu vi
tentenni, e non possa vincere la prova, vattene animoso in qualche
cantuccio ove tu sia certo di vincer- la; od anche esci al tutto di
vita, senza adirarti, ma semplicemente, liberamente, modestamente
contento di aver fatto pure una cosa nella vita: Tesserne uscito in
cotal modo.* E al farti ricordare di quei nomi gio- verà non poco
il ricordarti degli Dei, i quali non vogliono essere adulati; * ma
bensì che tutti gli esseri ragio- nevoli facciano di assomigliarsi
a Epitteto, Manuale. La pietà verso gli Dei consiste massimanientG
in avere sane e rette opinioni intorno a quelli (traduz. del
Leopardi). loro, e che il fico faccia le
cose che s’appartengono al fico, il cane quelle che si appartengono
al cane, e Tuomo quelle che s’appartengono all’ uomo. Il teatro, la
guerra, lo sbigot- timento, la torpidezza, la servilità andranno in
te cancellando di giorno in giorno quelle sante massime, le quali
tu apprendi bensì colla imma- ginativa e confidi alla memoria, ma
senza dar loro fondamento nè fer- marle colla considerazione del tuttto
022). Egli ti bisogna vedere le cose e fare in modo che e il
particolare che è intorno a te, sia bene osser- vato, e la
relazione di quello al tutto sia contemplata, e quella compia-
cenza di sè medesimo che nasce dalla scienza di ciascuna cosa si
con- servi nell’ interno tuo, segreta, ma non celata. Altrimenti
quando godrai i frutti della semplicità? quando quelli della
gravità e sodezza? quan- do quelli della conoscenza di ciascuna cosa, quale
ella è per essenza, che posto occupa nel mondo, quanto tempo è per
sussistere, di che è composta, in quali obbietti si può trovare, e
chi sono coloro che possono darla o toglierla. Il ragno superbisce se ha
preso una mosca; altri, se un lepratto; altri, se un’ acciuga;
altri, se un cinghiale o un orso; altri, se fece prigioni alcuni
Sarmati. Non sono dunque assassini costoro se tu consideri i principii
che li movono? Fa’ che tu impari il modo ac- concio di contemplare
come tutte le cose si mutano le ime nelle altre, e attendi senza
ristare a questa parte della filosofìa, e vienti esercitando in
essa. Perchè nuli’ altro è che tanto innalzi 1’ animo. Chi è
assiduo in questa contemplazione si spoglia, sto quasi per dire,
del corpo, e considerando siccome in poco d’ ora gli converrà lasciare
tutte le cose di qua e partirsi dagli uomini, non at- tende più ad
altro che a conformarsi alla. giustizia e alla natura dell’ uni-
verso in tutto che egli fa o patisce. Che dirà un tale, che opinione
avrà di lui 0 che farà contro di lui uìi tal altro, egli non se ne
dà un pen- siero al mondo, pago e contento di queste sole due cose;
se egli fa con giustizia ciò che egli fa nel mo- mento presente, e
s’ egli ha caro qualsiasi cosa presentemente gli ac- cada. Tutte le
altre cure e negozi lascia andare, e d’ altro non gli calo che di
camminare perla diritUivia, tenendo dietro a chi sempre cam- mina
per la diritta via, a Dio. A che il sospetto quando tu puoi
ricercare che cosa è da fare nella congiuntura presente? Che se tu
il vedi, mettiti a ciò, e va’ in- nanzi alacremente per quella via,
senza guardarti dietro; se noi vedi, sospendi il giud^io, e aiutati
del consiglio degli ottimi. Se insorgono ostacoli al compiere quello
che hai deliberato, governati razionalmente secondo la nuova
occasione che si presenta,* attenendoti sempre a quel- lo che ti
par giusto. Perchè questa è r ottima cosa da conseguire, sendo che
lo scostarsi dalla giustizia è un decadere dalla natura umana. Egli
è un certo che di lento e posato e insieme di mobile ed alacre, di
ilare e sereno e insieme di serio e grave, colui che segue la
ragione in ogni cosa. Appena riscosso dal sonno chiedi a te
medesimo se ti impor- terà che da altri anzi che da te si faccia
quello che sta bene ed è giusto. Non te ne importerà: o avre- sti
tu dimenticato quali sono costoro che superbiscono nel farsi
dispensa- M t Cioè volgi l'ostacolo a profitto, servendoti
di Ini come di nuova materia ad azione. tori della lode e del biasimo,
quali nel letto, quali a mensa; e quali cose facciano e quali
fuggano, a quali intendano, e quali rubino e quali rapiscano ' non
colle mani o coi pie- di: ma colla parte più nobile di loro, la
quale può diventare, solo ch’ella il voglia, fede, verecondia,
verità, legge, buon genio. Alla natura che dà e ritoglie tutte le
cose, 1’ uomo bene instituito e modesto dice: « Da’ quello che
vuoi, togli quello che vuoi, o natura. E questo dice non già con baldanza
orgogliosa, ma con intimo senso di alfettuosa obbedienza verso di
lei. Appo gli stoici imà virtù è la parte so- vrana deir anima
talmente modificata. [‘Natura’ per gli stoici è lo stesso che ‘Dio’. Queste
parole di Marcaurelio corri- spondono perfettamente a quelle di
Giobbe: Dominui dedita Dominus abstulit, osserva qui bouissimo il
Pierron. Poco^ è questo che ti rimane a vivere. Vivi dunque come in
sulla montagna. Perchè a qui, o colà, nulla monta, se, dove che tu
sii, tu vivi sempre nel mondo come in una città. E veggano e
conoscano pure* gli uomini un uomo davvero, il quale vive secondo
natura. Se noi possono tollerare, uccidanlo. Meglio questo che
vivere com’ essi fanno.* 1(». Non è più tempo di far parola
intorno a ciò che deve essere Tiiomo dabbene, ma di incominciare ad
esserlo. Il pensiero del tempo universo e della materia universa ti
sia del continuo presente, e che tutte le cose particolari sono,
rispetto a que- sta, un granello di miglio, e rispetto a quello, un
batter d’ occhiò. Considerando ciascuno degli obbietti che offronsi alla
tua osser- Letteralmente: un volger di trapano. vazione, fa’ di
rappresentartelo come già in atto di dissolversi e trasfor- marsi;
d’ infradiciare, per esempio, o dileguarsi in fumo, o altro,
secondo il genere di morte a cui nacque. Vedili quando mangiano,
quan- do dormono, quando usano con fem- mina, quando sono al cesso,
o fanno altre cose tali. Vedili poi (piando stanno in sussiego o
fan cipiglio, quando van tronfi e pettoruti, o s'adi- rano, rabbuffano
altrui con alterigia. E poco innanzi servivano pure come schiavi a
tante cose, e per quali motivi ! E poco dopo ritorneranno a quelle
medesime cose. Giova a ciascuno ciò che ar- reca a ciascuno la
natura comune. Ed allora giova, quando essa lo arreca. La
terra ama la pioggia; e l’ama ancora 1’etere venerando. E il mondo ama far
quello che è per accadere. Dico adunque al mondo: Io amo con te. E non
dicesi egli parimenti che una tal cosa ama accadere? 0 tu vivi qua, e ci sei già avvezzo; 0 vai
fuori, e questo tu desi- deravi; 0 muori, ed hai finito il tuo
compito. Fuori di questi tre casi non v’ ha altro. Adunque stattene di
buona voglia. Abbiti sempre per certo che quel tuo vivere in
villa non è punto diverso da questo, e che tutte son qui le cose
come in sulla cima del monte, o sulla spiaggia del mare, o dove che
tu voglia. Perchè ti si pa- rerà davanti a bella prima il detto di
Platone: « Egli sta nella reggia come in una capanna sul monte, mugnendo
l’armento. Che è in questo istante la mia parte sovrana? e quale la fo io?
A che Tadop ro io? Non è ella per av- 8Ìde«nd^‘°R sognando o
deventura vuota di ragione? Non è ella separata, divelta dalla
comunità? Non è ella cosi congiunta, conglu- tinata col corpo, da
doverne seguire tutti i moti?* 25. Chi fugge dal suo signore,
è servo fuggitivo. Ma la legge è signora: chi trasgredisce la legge,
è dunque un servo fuggitivo. E similmente chi s’ attrista, o teme, o
non vorrebbe che fosse accaduta o acca- desse 0 fosse per accadere
alcuna qualsivoglia di quelle cose che ha ordinato il reggitore di
ogni cosa, cioè la legge distributrice di quello che tocca a ciascheduno.
Adunque Bene rammenta qnì ìi Gataker ciò che Platone avea già.detto
nel Fedone: «Cia- scun piacere e ciascun dolore, non altri- menti
che un chiodo confìgge l'anima al corpo e con esso la unifica per modo
che ella, accetta per vero tutto che è affermato dal corpo. La
legge di cui qui parla Antonino è la legge universale, quella della
natura, di Dio. chi teme, o s’ attrista, o s’ adira, è nn servo
fuggitivo. 2(ì. Chi introdusse il seme nella matrice, se ne
va; un’ altra causa sottentra immantinente, e lavora e conduce a
termine il feto. Qual cosa e da quale? Ancora, egli manda giù il
cibo per la gola: e tosto un’ altra causa sottentrando produce
senso, moto, vita, vigore, eccetera. Quante e quali cose? Queste
maraviglie, che si compiono sotto un velo si impe- netrabile,
sianti spesso subbietto di contemplazione, e sappi fare concetto
della potenza operatrice di ({uelle, come facciamo della causa che
fa gravitare i corpi o li spinge in al- to, la quale non vediamo cogli
occhi, ma non però meno certamente. Non dimenticare che tutte
queste cose, che ora si fanno, si sono fatte prima d’ ora: e pensa*
che si faranno per l’avvenire. Pònti da- vanti agli occhi quanti
drammi o scene vedesti tu stesso, o leggesti nelle antiche storie:
come, verbi- grazia, tutta intera la Corte di Adrian no, tutta
intera quella di Antonino, tutta intera quella di Filippo, di
Alessandro, di Creso: perchè erano tutte la stessa cosa che adesso, solamente
erano diversi gli attori. Fa’ ragione che colui il quale si
attrista d’ alcuna cosa, o l’ ha a male, non è punto dissomigliante
dal porcellino percosso dal ferro del sagrifìcatore, il quale ricalcitra
e grida. Non altro concetto hai da farti di chi lamenta solitario
sul suo lettuccio le catene che ne stringono. E pensa come al solo
animale ragionevole è dato seguire volontario gli eventi: che in quanto
al se- guirli ad ogni modo, è forza di ne- cessità per tutti.
1 Lettuccio è qui come chi dicesse il canapè su cui l’uomo lavora e
studia. Cosi, bene il Casaubono. Considera segregatamente in sè
stessa ciascuna delle cose che vai facendo, e interroga te medesimo
se la morte è un male perchè ti priverà del potere di farla. Quando
per l’ altrui fallo ti senti montare la collera, rivolgiti tosto
sopra te stesso ed esamina in qual cosa simile a quella tu pecchi:
stimando, per esempio, che le ricchezze siano un bene, o il piacere, o la
gloria; secondo il genere del- l’altrui peccato che ti sprona all’ira.
Perchè se tu badi a ciò, presto cesserà la tua collera. E ancora
con- sidererai che colui è forzato.* E in vero che farebbe egli?
Ovvero, se tu il puoi, rimovi da lui ciò che lo sforza. Cioè a
dire, rimovi dalla sua mente l’errore, il falso giudizio; perchè gli
stoici deriTavano interamente il bene morale dal giudizio
razionale, e riferivano quindi uni- camente alla luce della ragione le
risoln- [Veggendo Satirione, immagina di vedere Socratico o
Imene: veggendo Eufrate, immagina Eutichione 0 Silvano: quando vedi Alcifrone,
immagina Tropeoforo. Qquando vedi Senofonte, immagina Oritene o Severo; e
in te stesso figurati di ve- dere qualcheduno dei Cesari; e così
via via. Poi ti occorra alla mente: ora dove sono costoro? In
nissun luogo, 0 chi sa dove. Di questa maniera tu verrai avvezzandoti a
consi- derare le cose umane come un fumo ed un nulla: massimamente
se ti rammenterai come ciò che fu mu- tato una volta, non
riprenderà mai più quella forma in tutto il tempo infinito. E tu in
qual tempo? Che non ti basta adunque il passare co- zioni
virtuose della volontà: secondo essi il giudizio determina la volontà
necessariamente. Intendi: se gli altri non ci ritornano mai più, ti credi
tu di averci a ritornare tu solo? 0, stumatamente questo poco che ti
è dato? Da qual materia d’ azione, da quale impresa rifuggi? Tutte
queste cose che ti accadono, sono esse altro che occasioni di
esercizio alla ra- gione, la quale abbia diligentemen- te, e come
si addice allo studioso della natura, considerate le cose che
avvengono nella vita? Rimanti adun- que finché tu abbia assimilato a
te medesimo ancor questo,' come il valente stomaco assimila a sè
tutti i cibi, come lo splendido fuoco fa fiamma e luce di tutto che
tu getti in esso. Nissuno sia veritiero il quale dica di te che non
sei sempli- ce e schietto, che non sei uomo dabbene: ma menta
chiunque fac- cia di te un tal giudizio. E tutto ciò sta in poter
tuo. Perchè chi è [Intendi: ciò che ora ti è dato per ma- teria di
azione f frase solenne ad Antonino. quegli che ti possa impedire che tu non
sii schietto e dabbene? Solo che tu abbia fermo nell’ animo di non voler
più vivere quando tu non sii tale. Nè la ragione il vorrebbe. Che è
ciò che in questa occa- sione che mi è data si può fare o dire per
lo meglio? Checché egli sia, è in mia facoltà il farlo, o il dirlo.
Non iscusarti col dire che ne sei im- pedito. Non prima cesserai dai lamenti
che non sii fatto tale, che r operare conforme air istituzione tua
in (jualsivoglia caso non sia per te la stessa cosa che è pel sen-
suale la voluttà. Perocché ciò ap- punto vuoisi dall’ uomo avere in
conto di vero godimento. L’operare. In questa occasione - in qualsivoglia
caso.» Chi preferisse la frase stoica dica: « in questa materia — in
qualunque materia a te sottoposta » come disse Ornato. A me parve troppo
alieno dall’ uso, ed anche poco chiaro in italiano. conformemente alla propria
natura. E questo può egli in ogni caso. Al cilindro in tutti i casi
non è dato potersi muovere in quella forma di moto che gli è
propria, nè all’acqua, nè al fuoco, nè a nissuna delle cose che sono
governate o da natura inanimata, 0 da anima irrazionale: molti sono gli
impedimenti che loro si frappongono, molte le resistenze. Ma la
mente, la ragione può seguire, solo che il voglia, la sua propria
via vincendo tutti gli ostacoli. Questo potere e agevolezza che ha
la ragione di seguire la sua via in tutte le direzioni, all’alto, al
basso, per 10 declive, come il fuoco, la pietra, il cilindro,
pònti davanti agli occhi, e non cercare più oltre. Tutti gli
ostacoli che tu puoi incontrare non hanno relazione se non se al
corpo che è cosa morta; o veramente, se non sottentra l’ opinione,
e se la mente non cede, non possono nuocere nè far male veruno.
Altrimenti chi ne patisse, dovrebbe eziandio pa- tire
deterioramento, come veggiamo di tutte le altre produzioni sia
della natura sia dell’ arte; le quali tutte trovansi deteriorate
ove incolga loro alcun male; ma, qui al contrario, r uomo, se ho a
dirlo, si fa migliore e più degno d’ encomio, quando fa retto uso
degli accidenti, quali essi sieno, che gli incontrano. In som- ma
ricordati che non offende il ve- ro cittadino ciò che non offende
la città; che non offende la città ciò che non offende la legge; e
che nissuna di tutte queste così dette avversità offende la legge.
E se non offende la legge, non of- fende adunque nè la città nè il
citadino. A colui che fu ben penetrato dalle vere credenze, basta
il più breve detto, anche di quelli che sono a tutti i più noti, a
sgombrargli dall’animo la tristezza o il timore. Per esempio. Quali sono
le foglie, e tali sono Le schiatte degli umani. Quelle il vento A
terra sparge, ed altre ne produce La germogliante selva a
primavera. Cosi le schiatte degli umani: questa Or nasce, or quella
muore. Foglie sono i tuoi figliuoli, foglie tutti costoro che ti
acclamano, e schiamazzano sì forte da far credere che dicano il vero;
foglie questi altri che altamente ti maledicono, o ti vilipen- dono
e lacerano in segreto. Foglie sono ancora quelli che ricorderanno
il tuo nome dopo la tua morte. Tutte queste cose spuntano fuori alla
verde stagione, poi fi vento le sparge a terra, e(i altre in loro
vece ne ri- produce' la germofjliante selva. Il durar poco è comune
a tutte. Ma tu le fuggi 0 le cerchi come se aves- sero a durar
sempre. Ancora un poco e chiuderai gli occhi; e a quello che ti
comporrà sul rogo, altri farà il corrotto. 35. L’ occhio sano
deve essere dis- posto a vedere tutto ciò che è vi- sibile, e non
dire: io voglio vedere solamente il verde; perchè ciò è da occhio
ammalato. L’ orecchio sano e r odorato debbono essere disposti a
udire tutti i suoni e a sentire tutti gli odori. E lo stomaco sano
deve essere preparato a digerire tutti i cibi, non altrimenti che
la macina è pronta a macinare tutto quello che ella fu fatta per
macinare. E così pure la mente sana deve essere pronta ad accettare
tutto quello che accade. Colui il quale dice: « sieno salvi i
figliuoli » e « tutti lodino le mie azioni » è come 1’ occhio che
vuol vedere solamente il verde, o come i denti che vogliono
masticare sol cose tenere. 36. Nissuno è tanto
avventurato che al suo morire non sia per avere intorno a sè chi si
rallegrerà del male che gli incontra. Savio e dab- ben uomo sia
stato; non mancherà all’ ultimo chi in sè stesso dirà. Respireremo una
volta da questo pedagogo. A nissuno di noi diede noia con rampogne,
è vero; ma ci siam pure avveduti che in cuor suo ci condannava. »
Questo si dirà del- r uom savio. E di noi, quante altre cose
possono fare a molti desiderare che ce ne andiamo! A questo pen-
serai quando sarai per morire, e la tua partenza ti verrà fatta più
facile. Ragionerai teco stesso: me ne vo da questa vita, dalla
quale questi miei concittadini, pei quali ho in essa tanti travagli
sostenuto, tante preghiere fatto, tante cure avuto, vogliono ora
essi medesimi. eh’ io me ne vada, sperando forse che debba seguirne
loro qualche profitto. Chi dunqu e potrebbe desiderare d’avere
a starci più lungamente? Non per questo partirai tu men benevolo
verso di quelli, ma, serbando inai- terato il costume e 1’ indole
tua, amico loro tuttavia qual fosti, pro- pizio e amorevole a
tutti, e non però mesto nè ripugnante. Ma co- me veggiamo in chi
muore di fa- cile morte V anima soavemente scio- gliersi dal corpo,
cosi conviene che si faccia la tua separazione da co- loro. Perchè
la natura ti avea pure congiunto e complicato con essi. Ora me ne
disgiunge? Ed io mi lascio disgiungere come da amici e carissimi
congiunti, non però turbato nè ripugnante, ma tranquillo e di mio buon
grado. Perchè anche questa è una delle cose volute dalla
natura. A ciascuna cosa che tu vegga fare a chicchessia, vienti
avvezzando, per quanto è possibile, a ricercare, ragionando teco
medesimo: costui a che riferisce quello che sta facendo? E incomincia da
te, esami- nando te stesso il primo. 38. Ricordati che chi dà
V impulso e muove, per cosi dire, le fila del fantoccino, è il
celato nel di dentro. Quello è il dicitore che persuade, t|uello è
la vita, quello è, se vogliam dire il vero, V uomo propriamente.
Guardati dal figurartelo come una sola cosa con esso il vaso le cui
pa- reti lo circondano, o con questi in- gegni che songli cresciuti
intorno.* Questi somigliano alla scure; se non che gli sono per natura
aderenti. Si capisce facilmente che per ingegni bassi qui ad
in- tendere ordigni, cioè gli organi e le mem- bra del corpo. Gli
Inglesi e i Francesi presero dai classici Italiani questa parola
ingegno con questo senso, e dicono quelli engine e questi engin; come ne
presero tante altre bellissime o utilissime dello quali si servono
quotidianamente; e di tali ancora che noi abbiamo interamente
dimen- ticato: e per significar poi quelle cose di cui abbiamo
dimenticato i nomi italiani, an- diamo ad accattar vocaboli dai
forestieri, E in effetto, allontanata la causa che li muove, non è uso
alcuno di essi pili che non sia della spola, senza la mano, al
tesserandolo, nè della penna allo scrittore, nè della frusta al
cocchiere. È proprio deir anima razionale' il veder sè medesima; il
conoscere partitamente sè medesima; il far sè meilesima quale ella
vuole: il cogliere essa medesima il frutto che ella produce, laddove i
frutti delle piante e i portati degli animali sono colti da altrui;
il giugnere sempre allo scopo che è proprio di lei, in qualsivoglia
punto arrivi il termine della vita: perchè 1’ azione di lei, in
qualsiasi momento ne sia arrestato il corso, non rimane imperfetta,
co- [Razionale per distinguerla da quella dei bruti, che
dagli stoici è chiamata anima semplicemente. me nelle rappresentazioni
sceniche o nel hallo, o in simili cose; ma anzi in qualsivoglia
istante, in qual- sivoglia luogo le sopravvenga la mor- te, ella
compie nondimeno intera- mente, e in modo soddisfacente a sè stessa,
quanto si avea proposto (28), e può dir sempre: io ho tutto il mio.
Ancora ella va spaziando colla speculazione per tutto il mondo e il vuoto
che lo circonda, e contempla la forma di quello, e si estende nella
infinità dei secoli, e abbraccia col pensiero i rinascimenti periodici
della università delle cose; e contemplan- doli si fa capace che
non rimane da vedere nulla di nuovo ai nostri po- steri, siccome
nulla di più videro i nostri antichi; chè anzi 1’ uomo giunto
all’età di quaranf anni, per poco che abbia di buon discorso, ha
1 Tutto il mondo: intendi ciò che noi di- remmo tntto il creato. Ma
l'idea di crea- zione era aliena dagli stoici. in certo modo veduto e
conosciuto tutto ciò che fu e tutto ciò che sarà per la somiglianza
che hanno le cose fra loro. Ancora è proprio del- r anima razionale
l’ amore del pros- simo, la veracità e la verecondia, e il non
anteporre nulla a sè mede- sima: * il che è proprio eziandio della
legge. Onde segue che la retta ra- gione e la ragione di giustizia
sono una sola cosa. I canti aggradevoli e le danze e gli
esercizi ginnastici ti cadranno Bene avverte qui il Gataker come an-che
la legge cristiana ci prescrive di non avere a nulla maggior rispetto che
alla propria anima (confer. s. Matt. Evang. XVI, 26; s. Marco Vili, 36).
E san Gregorio Nazianzeno: c nulla, disse, è più prezioso a ciascuno che
la propria anima» riproducendo quasi nella sua prosa il verso 301 dell’Alceste
di Euripide. [Esercizi ginnastici, letteralmente il pancrazio.
Ognuno sa che i romani per mezzo della ginnastica voleano esercitata la
forza del corpo con signiftcazione di leggiadria. E quindi i giuochi
ginnastici erano pur uno degli spettacoli più graditi ad un popolo,
in disprezzo, se tu dividi, per esempio, la cantilena melodiosa in ciascuno
dei suoni di che ella si compone, e ad uno ad uno considerandoli, domandi a te
stesso, è egli questo quel che mi vince? » perchè ne avrai
vergogna. E similmente in- torno alla danza, considerando sepa-
ratamente ciascuno dei moti, cia- scuno degli atteggiamenti; e così
per gli esercizi ginnastici. E gene- ralmente in tutto ciò che non
è virtù, o che non procede da virtù, i sovvengati di ricorrere alla
divisione delle cose nelle parti loro (29), si che divise a quel
modo elle ti cadano in dispregio. Fa’ l’applicazione di ciò anche
alla vita intera. Quale debba essere 1’ anima in tutto r ordine
della cui vita regnava sovranamente l'idea della bellezza. Cioè, dividi
la vita umana in tante pic- cole porzioni, per disprezzarla tutta
insieme. Sottintendi ronsi'lera, o ricordati. apparecchiata a sciogliersi, ove
oc- corra, immantinente dal corpo, a spegnersi o a dissiparsi, o ad
entrare in una nuova condizione di esistenza. E questa disposizione
proceda da giudizio particolare della mente, non da sola pervicacia
di volontà, come nei Cristiani; sia scevra da ogni tragica
ostentazione, non però senza dignità, da poter anche persuadere gli
altri. Ho io fatto qualche cosa che giovi alla società? Adunque ho
gio- 0 ad entrare eiUtenta; letteralmente: 0 a perdurare. Ornato traduce:
o a rimanere ancora dopo morte Non mi piacque, ma la mia versione,
che svolge il pensiero dell’ autore, ha un coloro troppo
moderno. I Cristiani erano ancora
comunemente mal conosciuti, e creduti settari fanatici, nemici
dell’ impero. Cioè a dire; sia tale, non solo intimamente. ma anche pe’ suoi
caratteri esteriori, da poter persuadere altrui che essa procede da
ben ponderato giudizio,* nòn da codardia 0 vanità o da intemperata
esaltazione o concitazione di mente.
vate a me stesso.' Questo pensiero ti occorra sempre pronto alla
mente, e ti conforti a perseverare. Qual è r arte tua? L’esser
buono. E quest’ arte come altrimenti s’acquista, se non per le buone
dottrine, le une intorno alla natura dell’uni- verso, le altre
intorno alla costituzione propria dell’ uomo? Da prima fu istituita la
tragedia a ricordare i casi che sogliono av- venire e come essi
sieno così fatti per natura, e ad avvertirci nel medesimo tempo essere
una contrad- dizione il pigliarne diletto quando li vediamo sulla
scena del teatro e dolercene poi quando accadono sopra una scena
maggiore. Voi vedete di [Sono le parole di' Salomone, Prov.
XI, 17: « Benefacit sibi ipsi vir beneficus.» Epitteto svolgo il
medesimo concetto, dis- sert. I, 19; Seneca, epist. 48, disse: «Non
potest beate degere qui se tantum intuetur, qui omnia ad utilitates suas
couvertit: al- teri viVas oportet, si vis tibi vivere.» fatti essere pur forza che 1’ azione si
compia a quel modo (30), e che deb- bono ad ogni modo soffrirlo
anche coloro che esclamano: « 0 Citerone, ahi lasso.* w E invero
alcune cose diconsi utilmente dagli autori di tra- gedie siccome
questa: Che se gli Iddìi Di me nè de’ miei tigli non
han cura, Ragion pur anco a ciò li move. E quest’ altra. Contro
alle cose lo adirarsi è vano. » E ancora quest’ altra:
€ Mieter la vita Come spiga matura -» E le altre
di cotal fatta. Dopo la tragedia fu introdotta hi t
Parole di Edipo. Vedi Sofocle, Edipo re, vers. 1391. Ecco, secondo la
traduzione del Belletti, i tre versi che formano il periodo intero
di cui quelle parole sono il comin- ciamonto: Oh Citeron!
perchè raccormi? o tosto Perchè morte non darmi, ond' io giammai
L'origin mia non rivelassi al mondo! vecchia commedia, la quale, con
quella sua libertà, facesse come da aio al popolo, e con quel suo
chia- mare le cose coi nomi loro, ne ri- cordasse agli uomini la
vanità: i quali modi assunse poi Diogene ezian- dio ad un fine
somigliante. Dopo la vecchia, quale sia stata la mezzana commedia,
ed ultimamente poi la nuova, e quale scopo abbia questa, che a
poco^a poco si è ridotta ad, essere puro artificio di imitazione, lascio
a te il considerare. Che anche da costoro si dicano alcune cose
utili, non è da negare: ma l’ inten- zione generale di un tal genere
di poesia e di composizioni drammati- che, qual è ella mai? Come
vedi tu chiaro nissun’ al- tra setta' essere così acconcia al
1 Setta, intendo della setta illosodca in che Marco vivea, e non
dello stato o- condizione sociale. Ho qualche dubbio, e parrai che il
3iou filosofare, come quella in che sei ora? Un ramo
spiccato da un altro ramo non può non essere separato dalla pianta
intera. Parimente un uomo diviso da un altro uomo è sca- duto dalla
società intera degli uo- mini. Il ramo vien divelto per mano
d’altri. L’uomo si separa egli stesso dal suo vicino, quando egli l’
odia, quando lo ha in dispetto; e non s’ avvede eh’ egli si
distacca ad un, tempo dalla intera comunità. Se non che, per dono
di Giove autore dplla comunità, può ciascuno di noi che siasi distaccato
dal prossimo, riap- ÙTTóOeo'.y potrebbe anche voler dire
qualche cosa che non fosse nè la condizione sociale-y nè la setta
filosofica^ ma bensi il modo e r ordine ili vita adottato da Antonino
nella condizione sociale in cui vivea: e cosi l’in- tesero anche il
Gatakero e lo Schultz, i quali_ tradussero vitee genus. Ma siccome
rOrriato pare che fosse ben fermo in quella sua opinione, ho conservato
la sua parola fetta. P, piccarvisi e farsi di nuovo parte in-
tegrante del tutto. Vero è che quando ciò accade più volte, più diffìcile
diviene la riunione o il ristabili- mento a suo luogo della parte
stac- cata. E ad ogni modo egli è diverso il ramo che crebbe da
principio in- sieme cogli altri e sempre rimase unito con essi, dal
ramo che vi fu innestato dopo esserne stato divelto: checche ne
dicano i giardinieri, fa un albero solo cogli altri rami, ma non un
solo disegno. La vegetazione è una, ma la forma non è una. Questo
potrebbe dirsi di un ramo di pe- sco, p. es,, che fosse innestato in
quello di un noce; ma quando un ramo del uoco che ne fosse stato
spiccato fosse innestato in un altro ramo del noce medesimo,
sarebbe una la vegetazione cd una ancora la forma. Mi è anco
sospetto quello ófJioJoyjjiaTetv parlandosi di piante. Io propendo a
credere, coi migliori critici, questo luogo corrotto o manchevole
nel testo. Alcuni di quest' ulti- ma frase fanno un paragrafo separato:
e remato stesso non era ben risoluto. Chiunque voglia avversarti in
cosa che tu faccia secondo la retta ragione, siccome non avrà forza
dà distoglierti dall’ azione incominciata, cosi ancora non ti
riinova dal sen- timento di benevolenza che devi avere per lui: ma
fa’ che tu ti serbi co- stante nel giudicare e nell’ operar
rettamente, e ad un tempo amore- vole verso chi cerca di impedirti
o in qualsivoglia modo ripugni a ciò che tu fai. Perchè non sarebbe
mi- nore fiacchezza lo adirarti contro questi tali, che il ritrarti
dall’ im- presa e dar luogo per paura; essendo egualmente disertore
chi teine e fugge dall’ ordinanza, e chi s’ allon- tana dal
congiunto e dall’ amico suo naturale. IO. Non è natura alcuna
la quale sia da meno dell’ arte che ne è imi- tatrice; nè la più
perfetta fra le na- ture, quella che comprende in sè tutte le
nature, può essere da meno di un’ arte qualsivoglia. Ora le arti
tutte fanno le parti inen nobili di ciascuna delle opere loro per
amore delle più nobili;' adunque anche la natura comune. Quindi ha
origine la giustizia, e da questa procedono tutte le altre virtù. Perchè
mal potrà conservarsi giusto colui, il quale o non sarà
indiflerente verso le cose medie, o si lascierà facilmente in-
gannare dalle apparenze, o sarà pre- Come, per esempio, un pittore farà
ciò che pone nel fondo di un suo quadro per dare maggior risalto a
ciò che ne è il sog- getto principale. E (la questa procedono tutte le
altre virtù. Intendo che dallo aver la natura voluto che si
osservasse la giustizia, procedette che essa natura istituisse le altre
virtù; quelle cioè di cui parla poco dopò; le quali sono necessarie
alla pratica della giustizia e fu- rono dalla natura istituite per amore
di essa giustizia, còme un artefice fa le parti men nobili di una
sua opera per amore delle più nobili. Ricordi il lettore che appo
gli stoici posteriori parte sovrana della filosofia • era la morale:
la logica, anche per gli stoici antichi, era subordinata alla
morale. cipitoso nel giudicare, o mal fermo
nel giudizio fatto. Non le cose, il cui desiderio o timore ti turba,
vengono alla volta tua; ma tu in certo modo vai alla volta loro.'
Ora fa’ che il tuo giudi- zio intorno a quelle stia cheto, e quelle
rimarransi quete del pari, e tu non sarai veduto desiderar nulla nè
temere. La sfera dell’anima ha la forma che è propria di lei, quando
ella nè si estende al di fuori verso checchessia, nè si ritrae al di
dentro, nè si dissipa, nè si accascia,* ma splende di una luce per
la quale ella vede la verità che è nell’ universo e quella che è in
lei. Un tale mi disprezza? Tal
sia di lui. A me basta parlare e operare Inteudi che l' anima è
nello stato con- forme a natura, quando ella non ha nè de- siderio,
nè timore, nè piacere, nè dolore. in modo che nissun mio detto o fatto
meriti disprezzo. Mi odierà? Tal sia di lui. Quanto si è a me, io mi
ser- berò mansueto e benevolo verso ognu- no, pronto a chiarire
dell’ error suo anche colui che mi odia, non con parole di
rimprovero nè ostentando pazienza, ma cortesemente e con sin- cera
amorevólezza, come Focione so- lea fare (31), supposto che non
s’infin- gesse. Perchè la mansuetudine vuol essere interna, sì che
gli Dei veggano in te un uomo disposto a non ricevere nulla con isdegno
nè a ma- lincuore. Qual malej in fatti, per te, se tu fai ora quel
che s’ addice alla tua natura e ricevi ciòcche ora è giu- dicato
opportuno dalla natura uni- versale, tu uomo ordinato a questo fine
che sempre si faccia il comun bene, sia qualsivoglia lo strumento
per cui si faccia? Si disprezzano l’un l’altro, e si vanno
piaggiando l’un 1’altro. L'uno vuol essere da pii» che l’altro, e s’
inchinano 1’uno all’ altro scawi- bievolmente. Che fradiciume e che
doppiez- za non è il dir di taluno: a Io ho deliberato di trattar
teco schietta- mente. » 0 uomo che fai? Non è bisogno' di questo
preambolo. Alla prova si vedrà. Sulla fronte conviene ti si legga
immantinente ciò che tu di’, perchè è cosa di tal natura che tosto
si manifesta negli occhi, come nello sguardo dell’ amante ogni cosa
conosce immantinente l’ amato. L’uo- mo schietto e buono dev’ essere
come chi sa di caprino, sì che al solo ac- costarsegli altri il
senta, voglia o non voglia. La schiettezza simulata è un’ arme da
traditore. Non è cosa più turpe che l’amicizia del lupo. L’ amicizia del
lupo espressione proverbiale presso i romani, ed era allusione a quella
favola di Esopo, nella quale i lupi persuadono le pecore a dar loro i
cani come ostaggi, e ad accettare alcuni giovani lupi A tutto
potere fuggi cotesto. Alfuom dabbene, all’ uomo schietto, all’ uom
benevolo sono appariscenti negli oc- chi tjuelle qìialità loro, e non è
bisogno di parole a manifestarle. Vivere beatamente è cosa che sta
in potere dell’anima, solo ch’ella voglia essere indifferente verso
le cose indifferenti. E questo le succederà se ella considererà ciascheduna
di esse nelle sue parti e nelle sue relazioni col tutto, non dimen-
ticando che nissuna di esse viene alla volta nostra nè ci sforza a
fare di lei tale o tal altro concetto; ma • anzi elle si stanno
tutte immobili dove sono, e noi siamo quelli che facciamo i.
giudizi intorno ad esse, e li scriviamo, per così dire, dentro di
noi, potendo non farlo; e ancora. come gaardiatii in luogo di
quelli; e divo- rano poi le infelici che lascìaronsi gabbare dalle
belle parole e dalle belle promesse. Cioè le cose fuori di noi. quando ciò ne
venga fatto inavver- titamente e senza avvedercene, po- tendoli
cancellare immediatamente e rammentando inoltre che pocd^ha a durare
questa fatica di considerare le cose in tal modo, e saremo poi
fuori della vita per sempre. E che v’ha poi di tanto arduo in esse?
Se sono secondo natura, pigliane piacere, e ti diverranno facili; se
sono contro natura, vedi tu che cosa è secondo la tua natura, e a
quello attendi, ancora che sia senza gloria. È sempre degno di
scusa chi va in traccia del proprio bene. Donde sia venuta
ciascuna cosa, di che elementi sia composta, ed in che si
trasformi, e qual divenga trasformata, e siccome non è per soffrire alcun
male per la trasformazione. E in primo luogo,* quale rela-
[Sottintendi: Considera] [Sottintendido considerare, o altra zione
io abbiaceli essi e come siam nati gli uni per gli altri, ed io,
per altri rispetti sono nato per essere loro guida, come l’ariete
della greggia e il toro deir armento. Risali più in alto: se gli atomi
non sono, la natura è quella che governa l’uni- verso; e se questo
è, gli esseri meno perfetti sono nati pei più perfetti, e questi
gli uni per gli altri. Quali essi sono a mensa, a letto, negli altri
momenti della vita. E massimamente a che sorta di azioni siano necessitati
per le credenze che essi hanno, e con quanta presun- zione di
sapere fanno essi ciò che fanno. Che se essi fanno ciò a buon
diritto, e’ non ti bisogna avertelo a male; se a torto, essi il fanno
indubitatamente malgrado loro, non sa- pendo quel che si fanno.
Perciocché frase cotale; e cosi al principio di ciascuno
degli otto capi seguenti. siccome è involontaria negli uomini la
privazione del vero, così involon- tario è ancora il non portarsi
verso altrui secondo le norme del giusto: il che provano collo
adirarsi quando sono chiamati ingiusti, ingrati, cu- pidi dello
altrui, o rei di qualsivoglia colpa verso il vicino. Che tu ancora pecchi
non di rado, e sei pur uno del numero loro; e se da certi peccati
ti astieni, hai nondimeno la disposizione a com- metterli, benché,
sia per difetto di audacia, sia per vanità o per altro cotal vizio,
tu noi faccia. Ancora, che tu non sai di certa scienza che essi
pecchino: perchè molte azioni, che paiono malvage si fanno talora a
fin di bene o per meno male: e ad ogni modo è me- stieri sapere di
molte cose a poter sentenziare convenientemente sulle azioni
altrui. 6® Quando senti che sìa per occuparti r ira od anche solo
l’ impazienza; che la vita umana dura un mo- mento, e poi saremo tutti
sotterra. Che non sono le azioni loro quelle che ti turbano,
standosi quelle nei loro autori, ma bensì le nostre opinioni.
Adunque togli via, sappi rimovere da te il concetto che tu fai di
quelle, e l’ ira se ne andrà parimente. E come rimovere quel
concetto? Col considerare che le azioni altrui non hanno nulla di
dis- onesto per te. Che se il male tutto non consistesse nella sola
disonestà dell’agente, di necessità peccheresti tu ancora, e
saresti tu pure assas- sino, e macchiato di ribalderie d’ogni
forma. Siccome le ire, i rammarichi intorno a siffatte cose
arrecano seco troppo più gravi danni che non siano quelli di che ci
adiriamo e ramma- richiamo. Che r amorevolezza è
sempre vittoriosa, quando sia schietta, e non sia una affettazione o
una parte che tu reciti. E in vero che ti può egli fare 1’ uomo il
più iracondo e inso- lente, se tu ti mostri a lui tuttavia
amorevole e se, venendo il caso, tu lo ammonisci cortesemente e
cerchi di farlo ricredere in quel tempo me- desimo che egli intende
ad offen- derti? No, figliuol mio; noi siamo nati ad altro. A me tu
non nuoci; a te bensì, figliuol mio. E gli dimostri e fai toccar con
mano che la cosa sta COSI universalmente; e come nè le pecchie si
comportano in quella guisa, nè alcun altro ani- male che sia nato a
vivere in co- munanza. Le quali cose vogliono es- ser dette senza
ombra alcuna di ironia nè di rimprovero, ma bensì con amorevolezza,
e senza amaritu- dine alcuna nell’animo; nè ancora come si
direbbero da un maestro in iscuola, nè per farsi ammirare dai
circostanti; ma da solo a solo, e se v’ha altri presente, *
Di questi nove capi fa’ che tu ti ricordi come se tu li avessi
ricevuti in dono dalle muse; e incomincia pure una volta ad esser
uomo men- tre hai vita.* E’ ti conviene ad un tempo guardarti dallo
adulare gli uomini non mejio che dallo adirarti contro di essi:
perchè le sono cose egualmente antisociali e nocive. Quando ti
sentirai provocato all’ira, ti occorra alla mente questo pen-
siero: non esser punto cosa virile lo adirarsi; ma anzi la pacatezza,
la mansuetudine, siccome sono cose più umane, così sono anche più
vi- rili; e che la costanza, il vigore, la fortezza sono nel
mansueto, non in [Ornato collo Schultz, anzi più riso- Intamento
che lo Schultz, stimò che qui il testo fosse manchevole. Seneca, De ira, 111,43, disse. Humanitatem
colamns, dnm inter homines snmus. »
chi si adira o s’impazientisce. Per- chè più quegli si avvicina
alla im- passibilità, tanto più partecipa della forza; laddove l’
ira, siccome il do- lore, è propria del debole: lo adirato e lo
addolorato furono egualmente piagati e ambidue cedettero egual-
mente. E un decimo ricordo ancora ricevi, se vuoi, dal Musagete: *
essere da pazzo il volere che i malvagi non pecchino, perch’ egli è
un voler l’im- possibile. Il voler poi che essi por- tinsi da pari
loro verso tutti gli altri e noi facciano con te, è da stolto e da
tiranno. Contro quattro specie di de- terminazioni* della parte tua
prin- cipale ti bisogna sopra tutto stare in guardia, e tosto che
una ti venga [Conduttor delle muse, o Apollo, o se vuoi.
Ercole. Piuttosto quello che questo. Vedi il Gatakero] nsieri, moti,
determinazioni, volon- avvertita, cancellarla, ragionando teco
medesimo intorno a ciascuna di esse in questa guisa: Intorno a
quelle della prima specie: questo pensiero non è necessario.
Intorno a quelle -della seconda: questo pen- siero tende a
sciogliere la società. Intorno a quelle della terza: tu stai ora
per dire cose che intimamente non credi: e il dir cose che inti-
mamente non credonsi è da essere annoverato fra le massime assurdi-
tà. Intorno a quelle finalmente del- la quarta specie, rampognerai
te medesimo dicendo: tu lasciasti che fosse vinta la parte più
divina di te, e sottoposta a quella che è men nobile e mortale,
cioè a di- re al corpo e ai grossi piaceri di quello. Quattro cose
da prevenire od allontanare. Pensieri inutili oziosi. Volontà od azioni
ingiuste, dove sono anche compresi i moti di irascibilità; Quanto è
in te di aereo e di igneo, benché abbia naturale ten- denza ad
innalzarsi, acconciandosi nondimeno all’ordinamento del tutto si
rimane quaggiù nel tuo corpo. E similmente le parti terree é le acquo- |
se, benché tendano naturalmente allo ' ingiù, tengonsi non pertanto
solle- vate ed erette in una forma che non é loro naturale: tanto
anche gli ele- menti sono obbedienti alla legge dell’ universo, e
facendo forza a sé medesimi serbano costantemente il posto in che
furono collocati, finché da quella medesima legge sia dato il segno
dello scioglimento. Ora non é egli singolarmente strano che sola la
parte intelligente dell’ esser tuo non voglia obbedire e si rammarichi
del posto che le fu assegnato? e pure nulla di violento le è
comandato [Disaccordo della mente e delle parole; cioè falsità
voluta, o non avvertita. Moti di concupiscenza], ma cose soltanto che sono secondo
la natura di lei. Con tutto ciò non vi si vuole acconciare, e vuole
andare a ritroso. Perchè le ingiu- stizie, le dissolutezze, l’ira, la tristezza,
il timore, sonò tutti moti a ritroso della natura. E ancora allor-
quando r anima non s’ acconcia di buon grado agli avvenimenti, ella
abbandona il suo posto, essendo ella stata instituita alla santità,
alla pietà, non meno che alla giustizia, poiché quelle non meno di
questa fanno parte della sociabilità: chè anzi gli atti di
giustizia succedono piuttosto (-he non precedano a quelli della
pietà e della santità. Intendi la pietà religiosa, o la pietà verso Dio o
la natura, che è tutt’uno presso gli stoici, e non dimenticare che il
rasse- gnarsi volentieri a tutti i casi esteriori, è atto religioso
appo gli stoici. Cioè Tnomo ha relazioni con Dio prima che con gli
nomini, e le sue relazioni con questi hanno per fondamento le sue relazioni
con quello. Chi non ha sempre il medesimo proposito, il medesimo istituto
di vita, non può essere in tutta la vita il medesimo uomo. Ma ciò
non basta se non aggiungi ancora quale esser debba questo proposito
o isti- tuto di vita. Perchè siccome non di tutti quelli che al
volgo paiono beni è invariabile negli uomini il giudizio, ma di
quelli soltanto che sono univer- sali e comuni; ' così lo scopo
comune e civile dell’ umana famiglia, è quello che l’uomo dee
proporre a sè stesso. Colui adunque il quale indirizzerà a questo
scopo comune l’esercizio di tutte le sue facoltà, quegli farà che
tutte le sue azioni sieno fra loro somiglianti, e per tal guisa sarà
egli costantemente il medesimo uomo. Intendi che T idea del bene
privato varia nella stessa persona, secondo che varia la
sensibilità; laddove l'idea del bene pubblico è costante e invariabile,
siccome quella che dipende solo dalla ragione, la quale non varia. Rammenta
il topo di monta- gna e il topo di casa, e lo spavento - di questo
e il correre precipitoso.' Socrate chiamava befane le
credenze del volgo, spauracchi di fanciulli. I Lacedemoni nella loro
solen- nità ponevano pei forestieri i sedili all’ ombra, ed essi
sedevano dovunque. A Perdicca, che gii chiedea perchè non
andasse a lui, Socrate rispondea, Per non morire di pes- sima morte
» cioè a dire, « per non ridurmi alla condizione di non poter
ricambiare beneficii eh’ io avessi ricevuti.
Nelle lettere degli Epicurei era una esortazione all’ aver sempre
pre- sente al pensiero alcuno di quelli antichi che praticarono la
virtù. I Pitagorici prescriveano che [Gli interpreti allegano
Orazio, sat. VI, lib. II. Ma riscontra in Esopo, fav. 301. Ogni giorno di buon mattino si do-
vesse volgere gli sguardi al Cielo, affinchè per la contemplazione
di quelli esseri che sempre percorrono le medesime vie e sempre
compiono a un modo il loro ufficio, l’ uomo avesse ad ìfver sempre
vivo in sè il pensiero dell’ordine, della purità e della nudità.'
Perchè le stelle non hanno velo che le ricovera. Qual fu a vedere Socrate
cinto di una pelliccia, allorché uscì fuori Santippe colla veste di
lui; e le cose che egli disse agli amici i quali arrossivano e si
ritraevano indietro, vedendolo assettato in quel modo. Nell’arte dello
scrivere nè in quella del leggere non puoi essere maestro se prima
non fosti discepo- [Il diligentissimo ed ernditissimo
Gatalcer non seppe egli pnre trovare qual fosse il caso particolare
della vita di Socrate, e il detto di Ini, ai quali fa qui allusione
Antonino. Meno amcora lo potrai nell’arte (Iella vita. Sei
servo, a te concesso favellar non è. Ed il mio cor ne rise. E la
virtute Àccuseran con rigido parole. Pazzo chi vuole aver
fìchf di verno; pazzo ancora chi desidera aver iigliolanza quando
non è più tempo da ciò. Quando tu baci un tuo figliuolo, esortava
Epitteto, fa' che tu dica teco medesimo: domani sarà forse morto.
Cattivi augurii, cotesti. Nulla è cattivo augurio di ciò che accenna ad
un effetto naturale. Agresto, uva, zibibbo, tutte [Nei testo è
un verso iambico di autore incognito a noi. È la fine del verso 413, lib.
I dell'Odissea. Nel testo è un verso esametro che ha
qualche somiglianza con un verso di Esiodo mutazioni; non dall’ essere al
non essere, ma dall’ essere ciò che è all’ essere ciò che ora non
è. Assassini della volontà non ci sono; sentenza di Epitteto. Diceva
ancora (Epitteto) dovensi procacciare V arte dello assen- tire; stare
all’ erta coi moti della volontà, affinchè tutti sieno condi-
zionali, sempre indirizzati ad un fine, al bene universale, sempre
propor- zionati in intensità al valore intrinseco delle cose; astenerci
in tutto dalla appetizione, e non dare luogo mai all’ avversione
per cose che non sieno in nostra potestà. Piccolo adunque, diceva
egli, non è il frutto della vittoria o il danno della sconfìtta; ma
l’ esser savio, o r esser pazzo. 39. Socrate dicea: che
volete voi! Vuol dire Antonino che il libero eser- cizio della
volontà non può esserci tolto da nìssuna forza esteriore. avere anime di
animali ragionevoli, 0 di irragionevoli? Di ragionevoli. Di quali
ragionevoli? di sani o di corrotti? Di sani. Perchè dunque non le
cercate? Perchè già le abbiamo. Perchè dunque batta- gliate fra voi
e siete discordi? Anche il Gataker non potè trovare da quale opera
socratica abbia tratto Antonino questa argomentazione: ma moltissimi
scritti della scuola socratica non abbiamo più noi, i quali esistevano
ai tempi di Marco nostro. Tutte quelle
cose, alle quali tu . studi di pervenire per mille andiri- vieni, tu
puoi avere immediatamente, se tu non vuoi male a te stesso. E ciò
sarà, se tu metti da banda il pas- sato e lasci alla Provvidenza la
cura del futuro, e attendi solo ad usare il presente, secondo le
norme della santità e della giustizia: della san- tità, coir
accettare volonterosamente i casi tutti che ti intervengono, es-
sendo essi dalla natura prodotti per te, e tu per essi; della giustìzia,
col dire liberamente e senza ambagi la verità e far ciò che è con- forme
alla legge e alla dignità delle l'ose,’ non lasciandoti
frastornare mai nè da malizia altrui, nè da opinione, nè da
discorso di chi che sia, nè da affezione veruna di quel corpicciuolo
che ti è venuto crescendo all’ intor- no: sta a lui che è il paziente a
pen- sarci. Or dunque, prossimo o lontano sia per essere il termine
della tua vita, se tu, deposto ogni altro pen- siero, non
attenderai che ad onorare la parte principale e divina dell’ os-
sei’ tuo, e tuo solo timore sarà, non già di dover cessare quando che
sia di vivere, ma di non aver per anco incominciato a vivere
secondo natu- ra; tu sarai uomo degno del mondo che ti ha generato,
non sarai più [Le prescrizioni della l^igge sono gene- rali; la
dignità delle cose esteriori serve di guida nell' applicazione della
legge. Ta altro modo si potea dire: « ciò che è confor- me alla
legge nelle circostanze particolari in che ti’ trovi.» Ma quello è più
stoica- mente detto. Per dignità delle cose intendi il loro va-
lore ret»tivo. straniero nella tua patria, non ti
maraviglierai più di ciò che accade tutto dì come di cosa insolita;
non sarai più dipendente da chi nè da che che sia. Iddio vede
tutte le menti de- nudate di questi vasi materiali e involucri e
sudiciumi. Quelle solo egli attinge colla pura sua intelligenza, le
quali da lui scaturite sono deri-^ vate in essi. Se ti avvezzi a far
tu pure il medesimo, tu avrai meno di molte distrazioni e
perturbazioni. Perchè chi non guarda all’ involucro della carne, si
lascierà egli turbare o distrarre alla vista dell’abito, o delle
case, o della riputazione, o di altri cosi fatti involucri e
addobbi? Di tre cose sei composto: il corpicciuolo, il soffio
vitale e la mente. Delle quali le due prime non sono tue se non in
quanto tu hai a prenderne cura; la terza, questa sola è tua
veramente. Laonde se tu rimovi da te, o per dir più proprio dal tuo
pensiero, tutte le cose che altri fa e dice in presente, e le pas-
sate che tu facesti e dicesti, e le future delle quali 1’ aspqttamento
ti turba, e quelle che riferendosi al corpo onde sei circondato e
al soffio vitale congenito con esso, sono in te involontarie, e
quelle che il vor- tice di fuori va agitando intorno a te, si che
pura e sciolta da ogni esterna fatalità la potenza intellet- tiva
se ne viva libera da sè, ope- rando il giusto, avendo caro ogni
evento qualsiasi, e dicendo il vero; se, dico, tu rimovi da codesta parte
dell’ esser tuo tutto ciò che presen- temente le sta come a dire
appiccato per mezzo dello appetito sensitivo, e tutto r avvenire e
tutto il passa- to, e ti fai siccome quella di Empedocle da GIRGENTU
ri tonda Sfera che posa e in suo posar s’ appaga, e attendi solo a
vivere quel tempo che vivi, cioè il presente; ti verrà fatto di
passare tranquillamente, nobilmente e in pace col genio tuo, quello che
ti rimane ancora insino al morire. Soventi volte mi sono
maravi- gliato che ciascuno arai sè stesso più che non arai
qualunque altro uomo, e faccia poi minor conto dei propri giudizi
intorno a sè medesimo, che di quelli degli altri.' Per- chè se a taluno
fosse da un Dio che gli apparisse, o da qualche savio maestro
comandato che non pensasse e non volgesse nulla in mente che tosto,
appena ne fosse conscio ' Anche i Pitagorici, benché non ne
fa- cessero nn precetto assoluto, raccomanda- vano che ciascuno
avesse massimamente rispetto a sè medesimo, cioè ai propri giudizi
intorno a sè stesso. Tra i versi dorati at- tribuiti a Pitagora, ecco la
traduzione di quello che compendiosamente esprime la detta
raccomandazione. Più che di chiunque altro abbi vergogna di te ste.««so. » a sè stesso, noi manifestasse; noi
sosterrebbe pure un solo giorno. Tanto abbiamo noi maggiore
rispetto a ciò che di noi potrà pensare il vicino, che a ciò che ne
pensiamo noi stessi. Come mai avendo gli Dei propizi all’uomo
ottimamente ordinato ogni cosa, questo solo lasciarono passare
inavvertito, che anco i migliori fra gli uomini, quelli i quali
entrarono, sto per dire, in più stretta alleanza colla divinità, e per la
pietà e santità loro vissero in più intimo commercio con essa,
quando una volta sian morti, non abbiano più mai a rivivere, ma
sieno spenti per sempre? Se tale è veramente la condizione di tutti
gli uomini indi- stintamente, abbi per indubitato, che ove avesse
dovuto essere altrimenti, avrebbero gli Dei altrimenti ordinato: perchè
se un ordine diverso fosse stato giusto, sarebbe anche Stato
possibile; e se fosse stato secondo natura, la natura lo avrebbe recato
ad effetto. Ora dal non essere le cose in questi termini, supposto
che veramente non sieno, tu hai a trarre argomento che non dovea essere
altrimenti da quello che è. Per- chè tu vedi pure che mentre tu vai
facendo queste investigazioni, tu. disputi del diritto con Dio; la
qual cosa non faremmo con gli Dei, se essi non fossero ottimi e
giustissimi; e tali essendo, non possono aver mai tollerato nè
lasciato correre inavvertitamente nell’ ordinamento del tutto,
nulla che fosse ingiusto 0 irragionevole. Vienti esercitando anche
in ciò a che tu credi aver poca attitudine. La mano sinistra, la
quale per difetto di esercizio è disadatta ad altri uffici, tiene il
freno più saldamente che noi faccia la destra, perchè a ciò fu
esercitata. In che stato debba essere l’uo- mo, e rispetto al corpo
e rispetto all’ anima, al sopraggiungere della morte; ' la brevità
della vita, l’abisso del tempo passato e del tempo avvenire, la debolezza
di tutta la materia. Osservare le cause denudate della loro
corteccia; il fine delle azioni; che sia il dolore, che il pia-
cere, che la morte, che la gloria; chi sia quegli che è cagione di
tra- vagli a sè stesso; siccome nissuno è mai impedito da altrui; che
tutto è opinione. Nel far uso dei precetti della filosofia, fa’ di
rassomigliare piutto- sto al pugillatore che al gladiatore; perchè
questi, lasciata cadere la spada, vien morto; ma quegli ha la
destra sempre, e non gli è mestieri d’altro che di chiudere e
scagliare il pugno. Sottintendi: contidera. Vedere quali sono le
cose in sè stesse, risolvendole nei loro elementi, la materia, la
causa, il fine. Che potere ha l’uomo ! di non fare se non ciò
solamente che Iddio sia per approvare, e di accettare tutto che
Iddio sia per inviargli. Ciò che è conforme alla natura. Non ti dolere
degli Dei, perchè gli Dei non peccano nè volon- tariamente nè involontariamente;
nè degli uomini, perchè gli uomini non peccano mai se non malgrado
loro. Di nessuno dunque ti devi doere. Quanto è mai ridicoloso e nuovo
colui che si maraviglia di al- cuna delle -cose che accadono nella
vita! In tutte le edizioni che io conosco si incomincia con questa
frase il paragrafo se- guente; ma non si fa alt^o che guastarvi il
senso. O necessità fatale e ordine di cose impreteribile, o‘
provvidenza esorabile, o confusione a caso e senza governo. Se
necessità inflessibile *, a che resisti? Se provvidenza esora- bile;
fa’ che tu sia degno dell’ aiuto divino. Se confusione senza
governo; pur beato che in tanta tempesta tu hai dentro di te una
mente governatrice. Che se la bufera ti rapisce seco, rapisca a sua posta
il corpicciuolo e la parte animale di te e cotali altre cose; non potrà
rapir seco la mente. Che? il lume della lampada, fmch’ ella
non si estingue, risplende e non perde della sua luce; e in te,
prima che la vita si spegneranno la verità, la giustizia, la
temperanza? Quando altri ti dà materia a supporre che egli abbia
permeato, di’ teco stesso: come so io che ciò sia un peccato? E se
è peccato, ch’egli non siasi già condannato da per sè? il che h come
nn graffìarsi il pro- prio volto. ' Pensa ancora che il non volere
che il dappoco erri, è un non volere che il fico acerbo abbia lattifìcìo,
che i bambini vagiscano, che il cavallo annitrisca, ed altri simili
effetti naturali e necessari. E che può egli fare in cotale disposizione?
Se tu sei da tanto, incomincia a curar quella. Se non è giusto, noi fare;
se non è vero, noi dire: perchè la tua volontà è libera. Esaminare
in ogni incontro che è la cosa che fa impressione in te, ed
esplicarla distinguendovi la causa, la materia, il tempo entro il
quale avrà a cessare. Seneca, De ira. Nulla maior pccna neqnìtiie est-,
quiim quod sibi displicet. Con questo paragrafo finisco Pinterpro'
taziono lasciata dalPOrnato, la quale, tran- ne i luoghi indicati, io ho fodcljnonto.seguita
noi mio volgarizzamento dal § 42 del lib. VI, Accorgiti finalmente
che tu hai in te stesso alcun che di più potente, di più divino che
non sia ciò da cui si generano gli affetti e che al tutto ti trac
qua e là come per ima fu- nicella. Che è ora la mia mente? Non è
ella timore? Sospetto? Cupidità, 0 altra cosa cotale? Primieramente nulla
si faccia a caso, nè senza uno scopo. Poi, nulla sia riferito ad
altro fine che a quello universale e civile di
tutta l’umanità. Che in breve tu non sarai più, nè alcuna delle
cose che vedi, nè alcuno di quelli che ora vivono. Per- chè ogni
cosa nacque per alterarsi, mutarsi o morire, affinchè altre possano
nascere secondo l’ordine di successione. fin qni. Quanto
all' interpretazione dei pa- ragrafi che seguono, l'Ornato lasciò
sola- mente due otre note delle quali sarà parlato al loro luogo. Che
tutto è opinione, e questa è in poter tuo. Adunque togli via,
quando ti piaccia, l’opinione, e come navigante che appena superato
il passo di un promontorio, trovasi in acque tranquille; così tu ti
troverai in perfetta calma e, come a dire, entrato in un seno non
agitati) da .alcun flutto. 23. Una azione qualsivoglia,
quando cessa a suo tempo, non patisce al- cun male per la
cessazione. Ancora r autore dell’ azione, per la medesi- ma
cessazione, non patisce alcun male. Medesimamente il complesso, 0
vogliasi dire la serie di tutte le azioni, che è quanto dire la
vita, quando cessa a suo tempo, non pa- tisce alcun male per la cessazione,
, nè ancora chi cessa da questa serie di azioni, soffre per ciò alcun
male. Il tempo proprio poi è determinato dalla natura: talvolta
dalla natura .particolare, quando avviene nella vecchiezza, ma ad
ogni modo dalla natura dell’ universo: le cui parti trasformandosi
e rinnovandosi del continuo, ne segue che sempre nuovo e sempre
giovane si conserva nella sua totalità il mondo. E bello sem- pre e
tempestivo è ciò che profitta al tutto. Adunque la cessazione della
vita non è un male all’ uomo individuo, poiché non è cosa disonesta, come
quella che non dipende dal- r arbitrio di lui, nè ripugna al fine
universale e sociale della umanità; ed è in sé stessa un bene, perchè
è tempestiva e profittevole al tutto e armonizzante con esso. E
similmente è divino r uomo che è mosso nella medesima direzione e
verso i mede- simi fini che Iddio, ed ha caro di essere mosso verso
questi fini e in questa medesima direzione. Tutto questo periodo è nel
testo gre- co oscurissimo e diversamente inteso dai comontatori. Chi
è grecista vegga nella Queste tre cose non dimenticare. In primo luogo,
per rispetto a ciò che tu fai, che nulla sia fatto a caso nè
altrimenti che si farebbe dalla giustizia in persona; e per
rispetto agli avvenimenti esteriori, sieno essi effetti del caso o
della Provvidenza, che non vuoisi mai nè incolpare il caso, nè
mormorare con- tro la Provvidenza. In secondo luo- go, qual sia
ciascun vivente dal mo- mento della fecondazione sino a quello
della animazione, e da quello della animazione fino a quello in cui
cessa la vita,' e di che elementi sia nota a questo paragrafo
nell' edizione di To- rino le ragioni della nostra interpretazione
diversa da tntte le precedenti. Bene ricorda qui Gatakero com'egli era
opinione degli stoici il feto non essere animato fino al momento in cui
^sce dal seno materno. Fino a quel momento essi consideravanlo come
parte del corpo della iinadre, come un ramo vegetante sul tronco
dell'albero a cui appartiene. Abbiamo ve- duto (vedi la nota (26) in fine
del volnme) composto e in quali sia per risol- versi. In terzo
luogo, che se tu levato in altissima parte vedessi di là tutte le cose
umane e la grande varietà loro, e vedessi ad un’ ora quanta sia la
moltitudine degli es- seri aerei ed eterei che popolano gli spazi
all’ intorno; per quante volte che tu venissi cosi levato in alto,
vedresti pur sempre le medesime cose, la somiglianza ^ che sempre hanno
fra loro e la breve durata di tutte. Di cotali cose insu- perbisci?
25. Espelli da te T opinione, e sei salvo. Chi dunque ti impedisce
que- sta espulsione? 26. Quando stai di mala voglia per
cagione di qualsisia cosa o persona, tu dimentichi che tutto succede
se- come gli stoici fossero ignoranti di anato- mia: lo
erano ancora più di fisiologia. Intendi le succedenti rispetto allo
antecedenti. condo la natura dell’ imiverso; che l’altrui colpa è male
altrui; e inol- tre che le cose che avvengono sono sempre. avvenute
e sempre avver- ranno, e avvengono ora in ogni luogo al modo stesso; e
ancora tu di- mentichi quanto intima sia la pa- rentela che ha
ciascun uomo con tutta la famiglia umana: perocché non di sangue o
di seme, ma è co-^ munanza di mente. Tu dimentichi ancora che la
mente di ciascun uomo è divina e da Dio scaturita; che nulla è
proprio di nissuno, ma e il figlio- lino, e il corpicciuolo e
Tanimuccia stessa, tutto venne da quello. Tu di- mentichi
finalmente che tutto è opi- nione; che ciascuno vive solo il mo-
mento presente, e perde solo il momento presente. Recati spesso al
pensiero co- loro i quali di alcun che fieramente adiraronsi,
coloro che per grandis- simi onori, o sventure, o inimicizie, o
altre fortune quali si fossero, di- vennero illustri; poi- chiedi a
te stesso; ora dove sono? Fumo, ce- nere, languido romore di” fama,
o neppur questo. Poi ti occorrano alla mente tutti questi cotali;
Fabio Ca- tullinOjin villa, Lucio Lupo negli .orti, Stertinio a
Baia, Tiberio nel- r isola di Capri, Rufo a Velia, e, per dire in
somma, tutte queste diverse inclinazioni verso checchessia gene-
rate dall’ opinione; e quanto sieno di poco pregio in sè medesime tutte
queste cose che con tanto studio si ricercano; e quanto sia più da
filo- sofo il saper far buon uso delle cir- costanze qualunque esse
sieno, o per dir più proprio, della materia quale ci è data, serbandoci
sempre giusti, temperanti e con semplicità obbedienti a Dio. Perchè
1’orgoglio dell’umiltà è di tutti il più abbomi- nevple. A colóro
che ti chiedono dove tu iibbia veduto gli Dei e donde avuto certa otizia
dell’ esser loro, perchè tu abbia a venerarli - rispondi
primieramente. Anche alla vista sono percettibili. E poi. Nè ancora la
mia mente veggo io, e nondimeno io l’ho in onore: e così da quelli
effetti che mi rivelano la loro potenza argomentando che essi sono,
venero io gli Dei. Salvezza di tutta la vita è il vedere ciascuna cosa
quale sia in sè stessa, quale la materia di essa, quale la ' causa;
e attendere con tutta r anima a operare il giusto e a dire il vero.
Poi, che ti rimane a faie, se non se godere della vita, facendo
senza ristare che un bene succeda Opportunamente avverto qui il
Gatakero come Antonino potesse, stoicamente, dire benissimo, gli
Dei essere visibili anche al- r occhio, poiché il mondo
primieramente era per essi il Dio supremo; e poi fra gli Dei
generati essi veneravano il sole, gli astri, gli elementi eo.
immediatamente ad un altro, non lasciando fra due neppure un menomo
intervallo? Una è la luco del sole, ancora che divisa all’ infinito da
pareti, da •monti, da altri obbietti innumerevoli. Una è la materia
comune, ancora che divisa in una moltitudine innu- merevole di
corpi, ciascuno dei quali ha le proprie qualità. Una è la vita,
ancora che distribuita in una molti- tudine innumerevole di nature particolari.
Una è r anima intelligente, ' ancora che sembri divisa in tante
unità. Ora tutte le altre cose sopra- scritte, esseri organici viventi ed
es- seri privi di vita; non hanno comunanza. [Intendi: Quando tu sia ben
risolato di non attendere ad altro chò ad operare il giusto e a
dire il vero, non avrai più briga alcuna, e non avrai che a godere della
vita; il qual godimento consiste appunto nel dire il vero e praticare
la giustizia; e il godi- mento.sarà continuo, se tu non cessi un
momento dalle azioni virtuose che sono il vero bene. nanzà fra loro nè
corrispondenza alcuna di sensibilità, sebbene anche ad esse il
respirare e il gravitare verso un centro sia a tutte comune.’ Ma
alla mente è proprio il tendere verso ciò che le è congenere, e con
• esso ella si unisce, nè può essere esclusa da lei questa
corrispondenza di affetti e di sensi. Che brami? Campare? Non
questo. Che dunque? Aver sensazioni, moto, incremento, appetiti? Far uso
della facoltà della parola, di quella del raziocinio? E che di tutto
ciò ti sembra degno da desiderare? Se ciascuna di queste cose ti sembra
dunque in sè poco prege- vole, volgiti à quella che sola rima- ne,
al seguire la ragione e Dio. Ma a questo culto ripugna eh’ e’ ti
gravi [Il testo in questo luogo è certamente corrotto. Chi '
vuol vedere come sia stato emendato e quindi interpretato dair
Ornato in una lunga sua nota, ricorra all' Adizione di Torino] il
dover essere per la morte escluso dalle cose dette dianzi. Qual
particella del tempo infinito fu assegnata a ciascuno? Tosto perderassi
nell’eternità. Qual particella di tutfii la materia? Qual particella di tutta
l’anima? Sopra qual particella di tutta la.terra ti vai strascicando?
Questi pensieri ti ricordino che non hai a fare gran caso di nulla, fuori
l’operare se- condo che la natura ti guida, e tol- lerare tuttociò
che la natura comune ti arreca. Che uso fa di sè stessa la
mente? Questo è il tutto per te. Tutto il rimanente, sia o non sia
sottoposto alla tua volontà, è per te cadavere e fumo. 34. A
farti disprezzare la morte gioverà il pensare come anche coloro che
ebbero il piacere per un bene e il dolore per un male, non di meno
la disprezzarono. A colui al quale ciò solo che è tempestivo è un
bene, poco importandogli il maggiore o minor numero di azioni virtuose
che saràgli concesso di compiere, a colui, dico, la morte non ha nulla di
pauroso. L’ uomo, facesti le tue parti di cittadino in questa grande
città. Che rileva a te se per cinque o solo tre anni? Ciò che è
secondo la legge, è giusto ed equo per tutti. Come puoi dunque
rammaricarti se sei rimandato, non da un tiranno, non da un giudice
iniquo, ma dalla natura che ti avea introdotto, non altrimenti che un
attore è rimandato dalla scena dal direttore della commedia che ve
lo avea chiamato? Ma io non ho recitato i cinque atti. Bene dicesti. Ma
nella vita anche tre atti bastano a compiere il dramma. Perciocché chi ne
determina il fine, è quel medesimo che allora fu autore della
plasmazione, cd ora ò della dissoluzione. Tu non fosti autore
nè dell’ una nè dell’altra. Vattene dunque in pace e contento, chè
quegli ancóra che ti accommiata è contento e propizio. Epistle
of Marcus Aurelius to the senate, in which he testifies that the Christians
were the cause of his victory.1919 The Emperor Cæsar Marcus Aurelius Antoninus,
Germanicus, Parthicus, Sarmaticus, to the People of Rome, and to the sacred
Senate greeting: I explained to you my grand design, and what advantages I
gained on the confines of Germany, with much labour and suffering, in
consequence of the circumstance that I was surrounded by the enemy; I myself
being shut up in Carnuntum by seventy-four cohorts, nine miles off. And the
enemy being at hand, the scouts pointed out to us, and our general Pompeianus
showed us that there was close on us a mass of a mixed multitude of 977,000
men, which indeed we saw; and I was shut up by this vast host, having with me
only a battalion composed of the first, tenth, double and marine legions.
Having then examined my own position, and my host, with respect to the vast
mass of barbarians and of the enemy, I quickly betook myself to prayer to the
gods of my country. But being disregarded by them, I summoned those who among
us go by the name of Christians. And having made inquiry, I discovered a great
number and vast host of them, and raged against them, which was by no means
becoming; for afterwards I learned their power. Wherefore they began the battle,
not by preparing weapons, nor arms, nor bugles; for such preparation is hateful
to them, on account of the God they bear about in their conscience. Therefore
it is probable that those whom we suppose to be atheists, have God as their
ruling power entrenched in their conscience. For having cast themselves on the
ground, they prayed not only for me, but also for the whole army as it stood,
that they might be delivered from the present thirst and famine. For during
five days we had got no water, because there was none; for we were in the heart
of Germany, and in the enemy’s territory. And simultaneously with their casting
themselves on the ground, and praying to God (a God of whom I am ignorant),
water poured from heaven, upon us most refreshingly cool, but upon the enemies
of Rome a withering1920hail. And immediately we recognised the presence of God
following on the prayer-a God unconquerable and indestructible. Founding upon
this, then, let us pardon such as are Christians, lest they pray for and obtain
such a weapon against ourselves. And I counsel that no such person be accused
on the ground of his being a Christian. But if any one be found laying to the
charge of a Christian that he is a Christian, I desire that it be made manifest
that he who is accused as a Christian, and acknowledges that he is one, is
accused of nothing else than only this, that he is a Christian; but that he who
arraigns him be burned alive. And I further desire, that he who is entrusted
with the government of the province shall not compel the Christian, who
confesses and certifies such a matter, to retract; neither shall he commit him.
And I desire that these things be confirmed by a decree of the Senate. And I
command this my edict to be published in the Forum of Trajan, in order that it
may be read. The prefect Vitrasius Pollio will see that it be transmitted to
all the provinces round about, and that no one who wishes to make use of or to
possess it be hindered from obtaining a copy from the document I now
publish.1921 1919 [Spurious, no doubt; but the literature of
the subject is very rich. See text and notes, Milman’s Gibbon, vol. ii. 46.]
1920 Literally, “fiery.” 1921 [Note I. (See
capp. xxvi. and lvi.) I recognised this stone in the Vatican, and read it
with emotion. I copied it, as follows: “Semoni Sanco Deo Fidio Sacrvm
Sex. Pompeius. S. P. F. Col. Mussianvs. Quinquennalis Decur Bidentalis Donum
Dedit.” The explanation is possibly this: Simon Magus was actually
recognised as the God Semo, just as Barnabas and Paul were supposed to be Zeus
and Hermes (Acts xiv. 12.), and were offered divine honours accordingly. Or the
Samaritans may so have informed Justin on their understanding of this
inscription, and with pride in the success of their countryman (Acts viii.
10.), whom they had recognised “as the great power of God.” See Orelli, Insc., . (The Thundering Legion.)
The bas-relief on the column of Antonine, in Rome, is a very striking
complement of the story, but an answer to prayer is not a miracle. I simply
transcribe from the American Translation of Alzog’s Universal Church History
the references there given to the Legio Fulminatrix: “Tertull., Apol., cap. 5;
Ad Scap., cap. 4; Euseb., v. 5; Greg. Nyss. Or., II in Martyr.; Oros., vii. 15;
Dio. Cass. Epit.: Xiphilin., lib. lxxi. cap. 8; Jul. Capitol, in Marc.
Antonin., cap. 24.”] Antonino. Aurelio. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, "Grice, Marc'Aurelio e Frontino,”
per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria,
Italia.
Grice ed Antonio
– Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Antonio was a friend of
Porfirio. It is assumed that he shared his friend’s interest in philosophy and
perhaps also became a student of Plotino.
Grice ed Aosta – dio in gioco –
logica e sovversione – filosofia italiana – Luigi Speranza (Aosta).
Filosofo Italiano. Grice: “I like Aosta; my favuorite piece of his
philosophising is strangely nott he one on paronymy – or the worn-off
paralogism on God’s existence; rather, the more obscure “De casu primi angeli,’
on the fall of the most beautiful angels of all! And more seriously – the
previous ‘de casu diaboli’ – his rambles on ‘Dialectica’ – or dialettica, as
the Italians prefer; you see axioma was Elio Gelliio thinks in “Notti attiche’
– and Varrone – the ‘proloquium,’ from ‘proloquor’ of course – the ‘pro’
suggests something like a ‘prae-miss’ – This is all very stoic, but we are not
sure if Aosta knew this!” Grice: “Aosta
would of course be familiar with Augustin’s De Dialectica, where ‘proloquium’
means ‘pro-positio,’ something Quine abhorred!” -- Anselmo d'Aosta, noto anche
come Anselmo di Canterbury o Anselmo di Le Bec (Aosta, 1033 o 1034 –
Canterbury, 21 aprile 1109), è stato un teologo, filosofo e arcivescovo cattolico
franco, considerato tra i massimi esponenti del pensiero medievale di area
cristiana. Anselmo è noto soprattutto per i suoi argomenti a dimostrazione
dell'esistenza di Dio; specialmente il cosiddetto argomento ontologico ebbe una
significativa influenza su gran parte della filosofia successiva. Nato da
una nobile famiglia di Aosta, se ne allontanò poco più che ventenne per seguire
la vocazione religiosa; divenne monaco nell'abbazia di Notre-Dame du Bec e,
grazie alle sue qualità di uomo di fede e fine intellettuale ne divenne presto
priore, e quindi abate. Si rivelò un abile amministratore e, avendo
intrattenuto alcune relazioni con il regno d'Inghilterra, all'età di 60 anni
ricevette l'importante carica di arcivescovo di Canterbury. Negli anni successivi,
dapprima sotto il regno di Guglielmo II, quindi di Enrico I, ricoprì un ruolo
rilevante nella lotta per le investiture che vedeva contrapposti i sovrani
d'Inghilterra e il papato. Grazie al suo lavoro politico e diplomatico, svolto
in accordo con il programma riformista gregoriano e finalizzato a garantire
alla Chiesa l'autonomia dal potere politico, la questione si risolse infine con
un compromesso piuttosto vantaggioso per i religiosi. La riflessione
filosofica e teologica di Anselmo, caratterizzata dal primario ruolo
riconosciuto alla ragione nell'approfondimento e nella comprensione dei dati di
fede, si articolò su diversi problemi: dimostrazioni a priori e a posteriori
dell'esistenza di Dio, indagini sui suoi attributi, analisi di questioni di
dialettica e di logica sulla verità e sulla conoscibilità di Dio, studio di
problemi dottrinali come quello circa la Trinità o quelli legati al libero
arbitrio, al peccato originale, alla grazia e in generale al male.
Anselmo venne canonizzato e proclamato dottore della Chiesa nel 1720 da papa
Clemente XI (1649–1721). Sant'Anselmo d'Aosta
AnselmstatuecanterburycathedraloutsideUna statua di Anselmo d'Aosta collocata
all'esterno della cattedrale di Canterbury. Arcivescovo di Canterbury,
santo e dottore della Chiesa NascitaAosta, 1033 o 1034
MorteCanterbury, 21 aprile 1109 Venerato daChiesa cattolica e Chiesa anglicana
CanonizzazioneAutorizzazione all'elevazione del corpo concessa da Papa
Alessandro III nel 1163[1] Attributibastone pastorale[1] e nave. Anselmo
d'Aosta, noto anche come Anselmo di Canterbury o Anselmo di Le Bec (Aosta, 1033
o 1034 – Canterbury, 21 aprile 1109), è stato un teologo, filosofo e
arcivescovo cattolico franco, considerato tra i massimi esponenti del pensiero
medievale di area cristiana. Anselmo è noto soprattutto per i suoi argomenti a
dimostrazione dell'esistenza di Dio; specialmente il cosiddetto argomento
ontologico ebbe una significativa influenza su gran parte della filosofia
successiva. Nato da una nobile famiglia di Aosta, se ne allontanò poco
più che ventenne per seguire la vocazione religiosa; divenne monaco
nell'abbazia di Notre-Dame du Bec e, grazie alle sue qualità di uomo di fede e
fine intellettuale ne divenne presto priore, e quindi abate. Si rivelò un abile
amministratore e, avendo intrattenuto alcune relazioni con il regno
d'Inghilterra, all'età di 60 anni ricevette l'importante carica di arcivescovo
di Canterbury. Negli anni successivi, dapprima sotto il regno di Guglielmo II,
quindi di Enrico I, ricoprì un ruolo rilevante nella lotta per le investiture
che vedeva contrapposti i sovrani d'Inghilterra e il papato. Grazie al suo
lavoro politico e diplomatico, svolto in accordo con il programma riformista
gregoriano e finalizzato a garantire alla Chiesa l'autonomia dal potere
politico, la questione si risolse infine con un compromesso piuttosto
vantaggioso per i religiosi. La riflessione filosofica e teologica di
Anselmo, caratterizzata dal primario ruolo riconosciuto alla ragione
nell'approfondimento e nella comprensione dei dati di fede, si articolò su
diversi problemi: dimostrazioni a priori e a posteriori dell'esistenza di Dio,
indagini sui suoi attributi, analisi di questioni di dialettica e di logica
sulla verità e sulla conoscibilità di Dio, studio di problemi dottrinali come
quello circa la Trinità o quelli legati al libero arbitrio, al peccato
originale, alla grazia e in generale al male. Anselmo venne canonizzato
nel 1163[2] e proclamato dottore della Chiesa nel 1720 da papa Clemente XI
(1649–1721). Una targa a memoria di Anselmo è collocata sulla sua presunta
casa natale ad Aosta, via Sant'Anselmo.Anselmo nacque a (o nei pressi di)
Aosta, allora parte del regno di Arles al confine con la Lombardia. La sua era una
famiglia nobile, anche se in declino,[9] imparentata con la casa Savoia[10] e
con ampi possedimenti terrieri. Suo padre, Gundulfo (o Gandolfo),[11] era un
longobardo, apparentemente molto dedito agli affari e non particolarmente
affettuoso verso il figlio; sua madre, Ermemberga (o Eremberga),[11] apparteneva
a un'antica famiglia nobile burgunda ed era legata da rapporti di parentela a
Oddone di Savoia; risulta che fosse una madre di famiglia pia e
virtuosa.[1][12] Fin da bambino Anselmo espresse un forte sentimento
religioso e un'altrettanta forte sete di conoscenza; il suo biografo Eadmero di
Canterbury riferisce che, vivendo in una zona montuosa, il giovinetto si formò
l'ingenua convinzione che il paradiso, in cui Dio stesso doveva risiedere, si
trovasse in cima alle montagne.[12] Anselmo venne affidato a un
istitutore, suo parente, che però si rivelò tanto severo da produrre in lui uno
stato di infermità, dal quale guarì lentamente grazie alle cure materne. La sua
educazione successiva venne affidata ai benedettini di Aosta.[1] All'età di quindici
anni Anselmo espresse il desiderio di diventare monaco; il padre tuttavia,
fermamente intenzionato a fare del ragazzo il proprio erede, si oppose a questa
decisione e i monaci del convento locale, non volendo contrariare Gandolfo,
respinsero la domanda di Anselmo.[1][12] La delusione e la frustrazione
per il rifiuto causarono una forte reazione nel giovane, che, sempre secondo il
biografo, pregò Dio di ammalarsi in modo tale da impietosire i monaci e
convincerli così ad accoglierlo; una crisi psicosomatica effettivamente si
verificò, ma questo non bastò a far sì che Anselmo venisse accettato nel
monastero.[12] In seguito l'ardore religioso del giovane si raffreddò e, benché
egli rimanesse intenzionato a ottenere il suo scopo in un futuro più o meno
lontano, poco alla volta le passioni mondane lo coinvolsero e, soprattutto dopo
la morte della madre (che avvenne nel 1050),[5] si dedicò sempre più spesso a
interessi di carattere materiale.[12] Nel frattempo i suoi rapporti con il
padre si facevano sempre più tesi, e infine, all'età di ventitré anni,[8]
Anselmo partì, accompagnato da un servo, con l'intenzione di oltrepassare il
colle del Moncenisio alla volta della Francia.[1][12] Superate le Alpi,
Anselmo e il suo compagno girovagarono per tre anni tra la Burgundia e la
Francia prima di giungere ad Avranches, in Normandia, nel 1059;[8] qui Anselmo
venne a sapere dell'abbazia benedettina che era stata fondata a Bec nel 1034,
dove insegnava il famoso dialettico Lanfranco di Pavia; attirato dalla fama di Lanfranco
vi si recò, riuscendo nel 1060 ad esservi ammesso come novizio.[8][12] Il
ventisettenne Anselmo si sottometteva così alla regola benedettina, che nel
corso del decennio successivo ne avrebbe influenzato significativamente il
pensiero.[13] L'abbazia di Notre-Dame du Bec. Da Bec a Canterbury I
progressi di Anselmo negli studi furono rapidi e brillanti e il giovane entrò
presto nelle grazie del maestro, tanto che, quando nel 1063 Lanfranco venne
nominato abate dell'abbazia di Saint-Étienne di Caen, Anselmo (pur avendo
intrapreso la vita monastica da appena tre anni) venne eletto a succedergli
quale priore dell'abbazia di Bec.[12][14] Alcuni dei monaci più anziani,
ritenendosi maggiormente in diritto di ricoprire la carica di priore, si
considerarono offesi dalla sua promozione; tuttavia ben presto le sue doti di
cortesia, il suo senso della misura nel gestire la carica e le sue competenze
di insegnante gli valsero l'affetto di tutta la comunità monastica.[12]
Nei quindici anni in cui fu priore a Bec, diviso tra i doveri derivanti dalla
sua carica e l'aspirazione all'isolamento e alla contemplazione, Anselmo era
solito rimanere desto durante la notte, impegnato nella preghiera o nella
scrittura. Risale infatti a quegli anni (a partire dal 1070) l'inizio della sua
attività di scrittore, che aveva principalmente il fine di munire i suoi
allievi all'interno del monastero (ma anche alcune nobildonne laiche al di
fuori di esso) di testi su cui meditare e pregare.[15] La composizione di due
delle sue opere teologiche più rilevanti, il Monologion (Soliloquio) del 1076 e
il Proslogion (Colloquio) del 1078, avvenne proprio in quel
periodo.[1][12] Nel 1078, alla morte del fondatore dell'abbazia di Bec,
Erluino, Anselmo gli succedette come abate venendo consacrato il 22 febbraio
1079 dal vescovo di Évreux.[16] Fu con riluttanza che Anselmo accettò la
carica, che avrebbe comportato ulteriori responsabilità e doveri sottraendogli
tempo alla riflessione e alla preghiera;[12] la resistenza di Anselmo fu vinta
dalle insistenze unanimi dei confratelli.[1] Anselmo fu molto apprezzato
come abate per via del suo acume, della virtuosità con cui conduceva la sua
vita e della sua capacità di rapportarsi con gentilezza con tutti dentro e
fuori il monastero;[1] la nuova carica lo portò a stringere rapporti con
l'Inghilterra, dove l'abbazia normanna aveva alcuni possedimenti; viaggiò fino
a Canterbury, di cui Lanfranco era diventato arcivescovo nel 1070, ed ebbe modo
di farsi conoscere e apprezzare dalla nobiltà e dalla corte inglesi,[1][12]
oltre che dallo stesso re Guglielmo il Conquistatore;[11] divenne così il
candidato naturale a succedere a Lanfranco come arcivescovo di Canterbury.[17]
Anselmo fu anche costretto a battersi per conservare l'indipendenza
dell'abbazia di Bec dalle autorità civili ed ecclesiastiche.[18] Nonostante la
rilevanza dei suoi impegni di amministratore e di guida, e la puntualità con
cui li assolveva, Anselmo rimase per tutta la vita innanzitutto un
intellettuale:[3] nel periodo in cui fu abate di Bec portò avanti una
significativa attività pedagogica e didattica e, tra il 1080 e il 1085, compose
il De grammatico (Sul significato della parola "grammatico") e i tre
dialoghi sulla libertà, il De veritate (Sulla verità), il De libertate arbitrii
(Sulla libertà della volontà) e il De casu diaboli (La caduta del diavolo).[19]
Sotto Anselmo, Bec divenne uno dei centri di studio e insegnamento più
importanti d'Europa, attirando studenti da tutta la Francia, dall'Italia e da
altri Paesi.[20] La cattedrale di Canterbury, sede
dell'arcivescovato di Canterbury, in un'incisione del 1821. Quando, nel 1089,
morì Lanfranco di Pavia, Guglielmo II d'Inghilterra confiscò i possedimenti e
le rendite della sede arcivescovile di Canterbury e si astenne dal nominare un
successore di Lanfranco.[12] Anselmo, che pure desiderava tenersi lontano
dall'Inghilterra per non far pensare che aspirasse al ruolo vacante di
arcivescovo di Canterbury, accettò l'invito di Ugo d'Avranches a recarsi
oltremanica nel 1092.[12] Fu costretto a trattenervisi per quasi quattro mesi,
e in un'occasione, giungendo in Canterbury alla vigilia della Natività della
Beata Vergine Maria, venne salutato entusiasticamente dalla folla come prossimo
arcivescovo; quando ebbe esaurito i suoi impegni, il re gli negò il permesso di
rientrare in Francia.[12] Nel 1093, però, Guglielmo cadde gravemente malato ad
Alveston e, desideroso di fare ammenda per la condotta peccaminosa alla quale
attribuiva la causa del suo male,[21] ordinò che Anselmo venisse nominato
arcivescovo di Canterbury all'inizio di marzo.[11][22] Nei mesi
successivi, tuttavia, Anselmo tentò di rifiutare la carica sostenendo di non
essere adatto, in quanto monaco, a occuparsi di affari secolari[17] e adducendo
come scuse anche l'età e alcuni problemi di salute.[6] Il 24 agosto Anselmo
sottopose a Guglielmo le condizioni alle quali avrebbe accettato
l'arcivescovato (condizioni peraltro in linea con il programma della riforma
gregoriana): che Guglielmo restituisse le terre confiscate; che accettasse la
preminenza di Anselmo sul piano spirituale; che riconoscesse Urbano II come
Papa, in opposizione all'antipapa Clemente III.[23] Guglielmo era estremamente
riluttante ad accettare tali richieste e, benché la situazione favorisse
Anselmo, il re era disposto ad accondiscendere solo alla prima.[24] Arrivò al
punto di sospendere i preparativi per l'investitura di Anselmo, ma infine,
sotto la pressione della volontà pubblica, fu costretto a portare a termine
l'assegnazione della carica. Riuscì tuttavia ad accordarsi con Anselmo
raggiungendo un compromesso vantaggioso per la monarchia: la restituzione delle
terre rimase l'unica concessione fatta dal re all'arcivescovato.[25] Anselmo
ottenne dunque il consenso dei suoi ex confratelli ad essere dispensato dai
doveri che lo legavano all'abbazia di Bec, rese l'omaggio feudale a Guglielmo,
e il 25 settembre 1093 si insediò a Canterbury,[11] ricevendo le terre
precedentemente confiscate all'arcivescovato;[24] il 4 dicembre dello stesso
anno venne consacrato arcivescovo di Canterbury.[24] È stato messo in
dubbio che la riluttanza di Anselmo ad accettare la carica fosse sincera:
mentre studiosi come R. W. Southern sostengono che avrebbe davvero preferito
rimanere a Bec, altri, come Sally Vaughn, sottolineano che una certa recalcitranza
nell'accettare importanti posizioni di potere ecclesiastiche era d'uso nel
Medioevo, dal momento che se per esempio Anselmo avesse espresso il desiderio
di succedere a Lanfranco come arcivescovo sarebbe stato considerato un
ambizioso carrierista; inoltre, sostiene sempre Vaughn, Anselmo comprendeva gli
obiettivi di Guglielmo e agì in modo da ottenere i massimi vantaggi per il suo
eventuale arcivescovato oltre che per il movimento riformista
gregoriano.[26] Arcivescovo di Canterbury sotto Guglielmo II Scena
raffigurante Anselmo costretto quasi a forza ad accettare il bastone pastorale,
simbolo della carica di vescovo, da Guglielmo II d'Inghilterra gravemente
malato. Prima ancora della fine di quello stesso anno 1093 ebbe luogo uno dei
primi conflitti tra Anselmo e Guglielmo: il re era in procinto di avviare una
spedizione militare contro suo fratello maggiore, Roberto II di Normandia, e
avendo bisogno di fondi aspettava una donazione dall'arcivescovo di
Canterbury;[27] Anselmo mise a disposizione 500 sterline, che il re rifiutò
chiedendo una somma due volte maggiore.[12] Più tardi, un gruppo di vescovi
convinse Guglielmo ad accettare la cifra originale, ma Anselmo fece loro sapere
di aver già donato il denaro ai poveri.[11] Quando si recò ad Hastings
per benedire la spedizione che si accingeva a salpare per la Normandia, Anselmo
rinnovò le pressioni volte a tutelare gli interessi di Canterbury e della
Chiesa inglese, oltre che, più in generale, a riformare il rapporto tra Stato e
Chiesa[11] secondo la visione della «teocrazia pontificia» espressa da papa
Gregorio VII:[28] Anselmo concepiva la Chiesa come un'entità universale, con la
sua autonomia e autorità, dalla quale lo Stato doveva dipendere per la sua
missione e per la sua investitura;[29] questo andava in direzione opposta
rispetto alla visione di Guglielmo la quale, in continuità con quanto già
sostenuto dal suo predecessore, attribuiva al re il controllo sia sullo Stato
che sulla Chiesa.[11][30] La figura di Anselmo, in effetti, è vista dagli
storici tanto come quella di un monaco assorto nella contemplazione quanto come
quella di un politico intelligente e capace, determinato a conservare i
privilegi della sede episcopale di Canterbury.[31] Nuovi attriti sorsero
subito dopo, quando, come era tradizione, Anselmo avrebbe dovuto ottenere il
pallio dalle mani del Papa per rendere definitiva la consacrazione: in quel
periodo, infatti, la legittimità di papa Urbano II era messa in discussione
dall'antipapa Clemente III. Quest'ultimo, nel 1074, aveva rifiutato
esplicitamente l'autorità di papa Gregorio VII e, con il supporto di Enrico IV
di Franconia, si era fatto eleggere Papa nel 1080, venendo qualificato da
coloro che rimasero fedeli a Gregorio e ai suoi successori come
"Antipapa".[32] Guglielmo vietò ad Anselmo di partire per Roma, dove
si trovava la sede di Urbano II, riconosciuto dal regno di Francia così come da
Anselmo stesso; non sembra che il re d'Inghilterra fosse incline a riconoscere
l'autorità di Clemente III, ma insisteva affinché la decisione dell'arcivescovo
di Canterbury di partire per Roma fosse subordinata al suo riconoscimento
ufficiale di Urbano II, riconoscimento che si faceva attendere. Per dirimere la
questione venne convocato a Rockingham, nel marzo 1095, un consiglio del regno
in cui Anselmo, tenendo un discorso che rimane una testimonianza memorabile
della dottrina della supremazia papale, ribadì la sua fedeltà a Urbano II come
unico vero successore di Pietro.[12] Il concilio nazionale di Rockingham, che
fu un momento di grande tensione tra i vescovi, i nobili e la monarchia
dell'Inghilterra, fu per Anselmo una vittoria morale, ma per il momento la
questione dell'investitura rimase insoluta.[11] Anselmo, allora, inviò in
segreto a Roma alcuni messaggeri.[33] Urbano II, in risposta, mandò a
Canterbury un suo legato, Gualterio di Albano, per consegnare il pallio ad
Anselmo in sua vece.[34] Guglielmo e Gualterio negoziarono in privato la
questione, e infine il re acconsentì a riconoscere Urbano II come Papa in
cambio del diritto di autorizzare o negare agli ecclesiastici la possibilità di
ricevere lettere del papato; ottenne inoltre che Urbano non gli inviasse più
alcun legato se non su esplicita richiesta. Guglielmo avrebbe anche voluto che
Anselmo venisse deposto, ma finì per riconoscere l'autorità di papa Urbano II
senza che ci fosse alcun avvicendamento per la carica di arcivescovo di
Canterbury. Il re tentò allora di avere del denaro da Anselmo in cambio del
pallio, ma senza esito; cercò anche di ottenere di poter consegnare personalmente
il pallio all'arcivescovo, ma anche questo gli venne negato: si raggiunse un
compromesso facendo in modo che Gualtiero, in rappresentanza del Papa,
deponesse l'oggetto sacro sull'altare della cattedrale anziché consegnarlo ad
Anselmo con le sue mani; Anselmo indossò quindi da solo il pallio nel corso di
una cerimonia solenne che si tenne nella cattedrale di Canterbury nel giugno
1095.[35] Nei due anni successivi non ci furono aperte dispute tra
Anselmo e il re, anche se questi fece del suo meglio per impedire che Anselmo
portasse avanti una riforma della Chiesa in senso gregoriano. Nel frattempo,
nel 1094, Anselmo aveva ultimato la composizione dell'Epistola de incarnatione
Verbi (Lettera sull'incarnazione del Verbo), il cui dedicatario era proprio
Urbano II.[11] Nel 1097, dopo l'insuccesso di una campagna militare
diretta a sedare una rivolta in Galles, Guglielmo accusò Anselmo di avergli
fornito una quantità insufficiente di truppe e gli ordinò di comparire presso
il tribunale reale;[12] Anselmo rifiutò e chiese al re di potersi recare a Roma
per chiedere consiglio al Papa, ma ciò gli venne negato.[36] Nel corso di un
negoziato che si tenne a Winchester, Anselmo venne messo di fronte a due
possibilità: partire, ma in questo caso non avrebbe più potuto fare ritorno al
suo incarico di arcivescovo, o rimanere, ma avrebbe dovuto pagare un
risarcimento a Guglielmo e rinunciare a ogni ulteriore appello a Roma.[36]
Anselmo, deciso a difendere la visione di una Chiesa non sottomessa ad alcuna
autorità terrena,[30] scelse l'esilio, e nell'ottobre 1097 lasciò l'Inghilterra
diretto a Roma.[12] Guglielmo si impossessò immediatamente delle rendite della
sede arcivescovile di Canterbury, anche se formalmente Anselmo conservò la
carica di arcivescovo.[37] Primo esilio Ritratto di Anselmo nel
Salone ducale del municipio di Aosta. Anselmo giunse a Cluny in dicembre, e
passò il resto dell'inverno a Lione, presso il suo amico Ugo di Romans; nella
primavera del 1098 riprese il viaggio, e attraversò il Moncenisio in compagnia
di due confratelli. All'arrivo a Roma, Anselmo fu salutato dal Papa con grandi
manifestazioni di stima e simpatia. Urbano II, che non voleva essere coinvolto
più del necessario nelle vicende che contrapponevano Anselmo a Guglielmo II,
non poté fare altro che indirizzare al sovrano inglese una lettera di
rimostranze e l'invito a reintegrare l'arcivescovo nella carica.[12] Anselmo
passò l'estate a Sclavia, presso il suo amico (già monaco a Bec e ora abate del
monastero di Telese) Giovanni di Telese; qui terminò la sua opera Cur Deus homo
(Perché Dio [si è fatto] uomo), che aveva iniziato in Inghilterra.[11]
Incisione della prima metà del XVI secolo raffigurante Anselmo d'Aosta.
Anselmo trascorse quindi un periodo presso Capua, dove fu raggiunto da papa
Urbano II. Questi, nell'ottobre 1098, indisse a Bari un concilio destinato a
risolvere una questione dottrinale posta dalla Chiesa greca a proposito della
processione dello Spirito Santo; più in generale, tra gli obiettivi del sinodo
era quello di ricondurre a una comune posizione teologica i due grandi ceppi
ecclesiastici venutisi a formare con lo scisma del 1054.[1] Ad Anselmo, che già
si era espresso sull'argomento nell'Epistola de incarnatione Verbi,[11] fu
chiesto di partecipare alla discussione e il Papa gli assegnò un ruolo
importante nella disputa: espose infatti la posizione della Chiesa latina,
secondo la quale lo Spirito Santo procede tanto dal Padre quanto dal Figlio, in
modo così convincente da risolvere la disputa e persuadere i rappresentanti della
Chiesa greca[1] (i suoi argomenti in seguito sarebbero stati raccolti nel testo
De processione Spiritus Sancti, Sulla processione dello Spirito Santo). Anche
il caso individuale di Anselmo venne sottoposto all'attenzione dell'assemblea,
la quale avrebbe scomunicato Guglielmo se non fosse stato per l'intercessione
di Anselmo stesso.[12] Anselmo e i suoi compagni, a questo punto,
sarebbero volentieri rientrati a Lione, ma venne loro ordinato di trattenersi
in Italia per partecipare a un altro concilio, che doveva tenersi a Roma verso
il periodo di Pasqua del 1099. Durante questo sinodo venne nuovamente ed
energicamente sottolineata la posizione della Chiesa contro l'investitura del
potere spirituale da parte dei laici,[30] contro la simonia e contro il concubinato
dei religiosi.[1] A Roma si verificarono ulteriori attriti tra Urbano II e
Guglielmo di Warelwast, rappresentante di Guglielmo II d'Inghilterra, con nuove
minacce di scomunica al re se Anselmo non avesse riottenuto la sua carica;
tuttavia, ancora una volta, la questione venne rimandata e, a causa della morte
di Urbano in luglio, rimase di fatto insoluta.[11] Infine, nel corso
dello stesso anno 1099, Anselmo poté tornare a Lione; durante il soggiorno in
questa città portò a compimento il trattato De conceptu virginali et originali
peccato (Sull'Immacolata Concezione e sul peccato originale) e la Meditatio de
humana redemptione (Meditazione sulla redenzione dell'uomo).[11] Ritorno
in Inghilterra sotto Enrico I Guglielmo II rimase ucciso durante una partita di
caccia il 2 agosto dell'anno 1100. Gli succedette il fratello minore, Enrico I,
il quale invitò Anselmo a tornare in Inghilterra e si impegnò a farne un suo
consigliere.[38] Enrico cercava di ottenere l'appoggio di Anselmo nella propria
rivendicazione del trono, a discapito, tra gli altri, del fratello maggiore
Roberto. Di ritorno, in settembre, Anselmo fu accolto con calore, ma il
problema delle investiture si pose subito e in modo grave: il re, che pure
inizialmente era stato del tutto conciliante, esigeva che Anselmo gli rendesse
l'omaggio feudale[39] e che si assoggettasse a ricevere da lui l'investitura ad
arcivescovo di Canterbury.[40] Anselmo non poteva tuttavia sottomettersi a
queste richieste, dal momento che il papato (proprio con il recente concilio di
Roma) aveva vietato agli ecclesiastici di rendere l'omaggio ai laici e di
ricevere da questi l'investitura a cariche religiose.[12] Enrico e
Anselmo inviarono messaggeri a Roma a richiedere un'esenzione che consentisse
al re di investire personalmente l'arcivescovo e di ottenerne l'omaggio.[12]
Nel frattempo i due riuscirono a collaborare: Anselmo contribuì a rimuovere gli
ostacoli al matrimonio di Enrico con Matilde di Scozia, l'erede dei sovrani di
Sassonia, ostacoli dati dal fatto che Matilde era entrata in convento per
qualche tempo pur senza prendere i voti; diede poi la sua personale benedizione
a tale matrimonio[12] e rimase sempre in contatto epistolare con la nuova
regina.[11] Inoltre, mentre l'Inghilterra era minacciata d'invasione da parte
delle truppe di Roberto II di Normandia, Anselmo si schierò pubblicamente a
favore di Enrico e, minacciando Roberto e i suoi sostenitori di scomunica,
contribuì a volgere la situazione in favore del sovrano inglese, causando la
ritirata del rivale.[12][41] Papa Pasquale II, succeduto a Urbano II, non
era intenzionato a derogare ai divieti del suo predecessore riguardo
all'investitura da parte del potere laico e l'omaggio feudale.[41] Un nuovo
gruppo di legati (due uomini di Anselmo e tre di Enrico) lasciò l'Inghilterra
diretto verso la sede pontificia, nonostante alcuni ritardi dovuti all'impegno
del re nel sedare la rivolta di Roberto II di Bellême; al loro ritorno i legati
di Enrico, pur recando una lettera che continuava a sostenere le posizioni
iniziali del pontefice, affermarono che Pasquale aveva acconsentito a
un'eccezione nel caso di Enrico e Anselmo e che non aveva messo per iscritto
questa decisione onde evitare di offendere gli altri sovrani europei. Tutto ciò
fu però negato dai legati di Anselmo, il quale continuò a rifiutarsi di
consacrare i vescovi investiti dal re.[11] Enrico chiese allora ad Anselmo di
recarsi a Roma personalmente e questi, pur conscio di essere prossimo a un
nuovo esilio, decise di partire per discutere la questione con il Papa.[12]
Accompagnato dal funzionario del re Guglielmo di Warelwast, Anselmo lasciò
l'Inghilterra il 27 aprile 1103.[11][42] Secondo esilio Anselmo si
trattenne a Bec sino quasi alla fine dell'estate per evitare di trovarsi a Roma
nel periodo più caldo dell'anno; quando giunse nella sede pontificia e discusse
con Pasquale II la questione dei rapporti tra potere temporale e spirituale,
ottenne dal Papa ancora una volta una netta opposizione all'investitura degli
ecclesiastici da parte dei laici e all'omaggio; l'ambasciatore del re
d'Inghilterra, Guglielmo di Warelwast, non ebbe miglior successo. Sulla via del
ritorno, a Lione, tra la fine del 1103 e l'inizio del 1104, Anselmo ricevette
un messaggio di Guglielmo che interpretò come un invito a non tornare in
Inghilterra se non con l'intenzione di (e l'autorizzazione a) ripristinare le
pratiche dell'investitura degli ecclesiastici da parte dei laici e
dell'omaggio. Anselmo dunque rimase a Lione, dove stese il De processione
spiritus sancti.[11] Anselmo si trattenne a Lione fino al marzo 1105,
quando il Papa scomunicò Roberto di Beaumont, consigliere di Enrico I, che
aveva insistito affinché il re continuasse a praticare l'investitura da parte
di laici,[43] insieme ad altri prelati investiti da Enrico o da altri
rappresentanti del potere temporale,[44] mentre si limitò, per il sovrano, a
minacciare la scomunica.[11] Anselmo, che non sperava più in un aiuto concreto
del Papa, si recò in Normandia per incontrare Enrico e minacciarlo
personalmente di scomunica,[11][45] con lo scopo di costringerlo una volta per
tutte a raggiungere un accordo sulla questione delle investiture.[46]
Anche grazie alla mediazione della sorella di Enrico, Adele d'Inghilterra, che
Anselmo aveva assistito durante una malattia, l'arcivescovo e il re riuscirono
a incontrarsi a l'Aigle nel luglio 1105 e raggiunsero un compromesso: la
scomunica di Roberto di Beaumont e degli altri funzionari di Enrico I venne
revocata (cosa che Anselmo fece grazie alla sua sola autorità, e di cui dovette
poi rendere conto a papa Pasquale II)[43][47] a patto che essi tenessero sempre
conto della volontà della Chiesa nel consigliare il re; inoltre Enrico avrebbe
rinunciato al diritto di investire gli ecclesiastici se Anselmo avesse ottenuto
dal Papa che agli ecclesiastici venisse consentito l'omaggio ai nobili laici;
le entrate della sede arcivescovile di Canterbury furono restituite alla Chiesa
e venne confermato il divieto per i sacerdoti di prendere moglie. Prima di
tornare in Inghilterra, comunque, Anselmo volle che l'accordo fosse approvato
dal Papa; questi, con una lettera del 23 marzo 1106, ratificò il compromesso:
nonostante la rinuncia da parte del re al diritto di investitura costituisse
un'importante vittoria per la Chiesa,[47] sia Anselmo che Pasquale
consideravano il compromesso di l'Aigle come un accordo temporaneo, in vista di
ulteriori azioni che, perseguendo gli obiettivi della riforma gregoriana,
avrebbero dovuto abolire anche la pratica dell'omaggio degli ecclesiastici ai
laici.[48] La lettera del Papa autorizzava Anselmo anche a revocare la
scomunica di coloro che erano stati investiti da laici o che a laici avevano
reso l'omaggio feudale, e lo invitava ad assolvere il re e la regina
d'Inghilterra da tutti i loro peccati.[11] Il ritorno di Anselmo a
Canterbury comunque fu rimandato, anche a causa di alcuni problemi di salute
dell'anziano arcivescovo; il 15 agosto Anselmo incontrò Enrico a Bec; il re
aggiunse alle concessioni fatte anche la restituzione delle chiese confiscate a
suo tempo da Guglielmo II e promise di risarcire il clero inglese dei danni
economici patiti a causa della lotta per le investiture. Così, i due si
riappacificarono.[11] Ritorno in Inghilterra e ultimi anni Anselmo fece
trionfale ritorno in Inghilterra nel 1107. Da un'assemblea dei vescovi e dei
principi inglesi tenuta il 1º agosto risultò il "concordato di
Londra", che formalizzava e annunciava pubblicamente il compromesso tra
Enrico e Anselmo:[49] nessun vescovo avrebbe dovuto ricevere l'investitura da
un laico, ma il fatto di aver reso l'omaggio a un laico non avrebbe impedito a
nessuno di ricoprire la carica di vescovo. Le sedi vescovili e abbaziali
vacanti (alcune delle quali erano vacanti ancora dai tempi di Guglielmo II)
vennero assegnate, e Anselmo, riprese le funzioni di arcivescovo di Canterbury,
consacrò tutti i nuovi vescovi.[11] Anche nella fase finale della sua
vita Anselmo continuò ad occuparsi dei doveri di arcivescovo e,
contemporaneamente, a meditare e a scrivere testi di teologia, come il De
concordia praescientiae et praedestinationis et gratiae Dei cum libero arbitrio
(Sulla compatibilità della prescienza, della predestinazione e della grazia di
Dio con il libero arbitrio). Anselmo lavorò per innalzare il livello spirituale
del regno e, in particolare, delle regioni dell'Irlanda e della Scozia; fu
inoltre coinvolto in una disputa circa il primato dell'arcidiocesi di
Canterbury su quella di York, disputa che non sarebbe stata superata (con la
riaffermazione della supremazia di Canterbury) se non dopo la sua
morte.[11] Anselmo morì il 21 aprile 1109, mercoledì santo, e venne
sepolto nella cattedrale di Canterbury. Le sue spoglie vennero però esumate
durante i disordini a sfondo religioso che ebbero luogo durante il regno di
Enrico VIII d'Inghilterra e se ne persero le tracce.[11] La tomba
di Anselmo all'interno della cattedrale di Canterbury. Il processo di
canonizzazione di Anselmo fu avviato da Tommaso Becket (uno di coloro che ne
continuarono l'opera volta a garantire l'indipendenza della Chiesa inglese dal
potere politico) e venne portato a termine da papa Alessandro III nel 1163.
Anselmo fu dichiarato dottore della Chiesa da papa Clemente XI il 3 febbraio
1720[50]. Pensiero Oltre ad aver svolto un importante ruolo politico
nella disputa sulle investiture in Inghilterra, Anselmo d'Aosta fu anche un
pensatore di grande spessore nell'ambito della filosofia cristiana medievale,
considerato uno dei principali esponenti della riflessione di area europea[3],
il principale filosofo dell'XI secolo[8][51] e il primo grande pensatore del
Medioevo dopo Giovanni Scoto Eriugena[4]. Influenze Il lavoro di Anselmo
è caratterizzato da una grande originalità e sono rari, nella sua opera, i
riferimenti a pensatori del passato: ciò rende difficile identificare le
influenze che hanno contribuito a dar forma al suo pensiero[15]. Posto che la
fonte principale della riflessione di Anselmo è l'autorità della Bibbia, è
tuttavia ugualmente possibile riconoscere nel neoplatonismo cristiano di
Agostino d'Ippona un importante punto di riferimento; l'importanza
dell'influenza di pensatori come Giovanni Scoto Eriugena e lo Pseudo-Dionigi
l'Areopagita, un tempo considerata significativa, è oggi giudicata tutto
sommato trascurabile, mentre si tende a evidenziare l'importanza rivestita da
Aristotele e dal suo traduttore e commentatore Severino Boezio nel determinare
certi aspetti dialettici della filosofia di Anselmo, oltre che, tra le altre
cose, la sua concezione del male come privo di positività ontologica e la
teoria dei futuri contingenti che garantiscono la compatibilità della
prescienza di Dio con la libertà umana[52]. L'influenza del maestro Lanfranco
probabilmente non fu, se non forse per l'interesse alla dialettica,
determinante[15]. Rapporto tra ragione e fede Nella riflessione di
Anselmo, che pure ha un carattere prevalentemente teologico, la ragione svolge
un ruolo di fondamentale importanza: nella concezione anselmiana del rapporto
che, per un buon filosofo cristiano, dovrebbe sussistere tra la ragione e la
fede (cioè, sostanzialmente, tra la filosofia e la teologia) la dimensione
della ricerca razionale ha infatti un posto molto rilevante[3]. Anselmo
riteneva che il presupposto di ogni sapere dovesse essere necessariamente la
fede nella rivelazione delle sacre scritture, e che, quindi, si dovesse credere
per comprendere piuttosto che comprendere per credere ("credo ut
intelligam")[53]; in altre parole sosteneva, ispirandosi alle parole di
Isaia (7, 9) «se non hai fede, non capirai» ("nisi credideritis, non
intelligetis")[54], che il fondamento di ogni conoscenza dovesse provenire
dalla fede, e che solo su di essa potesse innestarsi il lavoro della ragione,
volto all'approfondimento e alla comprensione dei dogmi[53]. Anselmo
tuttavia riponeva grande fiducia nella capacità della ragione di portare avanti
con successo questo suo ruolo di chiarificazione e comprensione dei dati di
fede: come disse il medievista francese Étienne Gilson, egli giudicava
«presunzione non mettere per prima cosa la fede, [...] negligenza non fare successivamente
appello alla ragione»[53]. Dunque, benché fosse per lui impensabile
sottomettere o subordinare i misteri della fede alla dialettica, cioè alla
logica, Anselmo riteneva che fondandosi saldamente sulla rivelazione fosse
possibile usare la ragione per approfondire la comprensione di tali misteri o,
anche, per dimostrare inconfutabilmente la necessità di accettarli come
tali[55]. In effetti per lui esistevano dogmi non suscettibili di esatta
comprensione razionale, come ad esempio quello della Trinità, ma riteneva che
fosse ugualmente possibile raggiungere, tramite ragionamenti per analogia, una
parziale comprensione di tali dogmi e che, inoltre, fosse possibile provare
razionalmente la necessità di abbracciarli[56]. Una significativa espressione
anselmiana, che può essere considerata il suo motto filosofico, è «la fede in
cerca della comprensione»[8]. Con ciò Anselmo intendeva riaffermare la priorità
della fede e, parallelamente, l'opportunità di tentare di rischiarare i
contenuti della rivelazione per mezzo della riflessione razionale, senza che la
ragione prendesse il posto della fede e senza che la fede soffocasse la
ragione[8]. Nella concezione anselmiana della fede aveva molta importanza
la dimensione affettiva (cioè legata all'ambito della volontà): l'amore di Dio
che alimenta la fede è in gran parte assimilabile a un amore per la conoscenza
di Dio stesso, e dunque viene attribuita una notevole importanza alla ragione,
in quanto veicolo di questa ricerca di conoscenza[8]. Alcuni commentatori evidenziano
come nella riflessione di Anselmo gli elementi esistenziali e legati all'ambito
morale siano strettamente interconnessi con quelli teoretici e legati
all'ambito della ricerca razionale[57]. Esistenza di Dio e attributi
divini dimostrati a posteriori: il Monologion Magnifying glass icon
mgx2.svgMonologion. Benché concepisse la fede come fondamento di ogni
conoscenza, Anselmo riteneva che un argomento razionale potesse convincere
anche un non credente.[8] Nel suo primo scritto filosofico importante, il
Monologion, Anselmo si pone dalla prospettiva di chi ignori la rivelazione
cristiana o non vi creda e, adottando tale prospettiva, intende dimostrare
l'esistenza di Dio e dedurre alcuni dei suoi attributi per mezzo di
procedimenti razionali a posteriori (cioè basati su evidenze tratte dal mondo
sensibile e sviluppate con procedimenti razionali).[3][53] La
dimostrazione dell'esistenza di Dio proposta da Anselmo nel Monologion è di
ascendenza platonica,[58] ed è ispirata almeno in parte al neoplatonismo di
Agostino d'Ippona.[59] Il fondamentale presupposto di tale prova infatti, a
parte la constatazione che le cose del mondo sono caratterizzate da gradi
diversi di perfezione, è la convinzione che se le cose sono più o meno perfette
(o comunque presentano una certa caratteristica positiva con grado maggiore o
minore di intensità), ciò dipende dal fatto che tali cose partecipano in
maniera più o meno diretta di un ente assolutamente perfetto (o che comunque
possiede quella certa caratteristica positiva al massimo grado).[59]
Iniziale miniata da un manoscritto del Monologion risalente al XII
secolo. Tale idea viene sviluppata, per esempio, a proposito del bene: dal
momento che possiamo constatare che esistono nella realtà molti beni, diversi
tra loro e buoni in grado maggiore o minore, dobbiamo secondo Anselmo dedurne
con certezza che essi sono buoni in virtù di un solo principio del bene
assoluto, cioè a causa della loro partecipazione in diverso modo e in diverso
grado di un unico sommo bene; tale bene è buono in sé e per sé, mentre ogni
altra cosa è buona riferendola a quel bene che si colloca a un livello
gerarchicamente superiore a ogni altro bene.[58] Dopodiché, avendo
dimostrato che deve esistere un ente che corrisponde al sommo bene, Anselmo applica
il medesimo procedimento ad attributi come la perfezione e la stessa esistenza,
così da provare che deve esistere qualcosa caratterizzato da assoluta
perfezione e assoluta pienezza d'essere (e dal quale tutte le creature finite
ricavano la loro misura di perfezione e di esistenza).[58] Secondo
Anselmo, tanto l'ente sommamente buono, quanto quello caratterizzato dal sommo
grado di esistenza, quanto quello sommamente perfetto, coincidono con il Dio
della rivelazione cristiana, la cui esistenza è quindi provata a partire da
dati di esperienza come la gradazione del bene e della perfezione, e come il
processo di causazione degli enti da un essere primo.[60] La seconda
parte, quantitativamente preponderante, del Monologion è dedicata all'analisi degli
attributi, cioè delle caratteristiche, di Dio.[61] Alcuni di questi attributi
divini (come la bontà, la perfezione e il ruolo di causa incausata di tutti gli
esseri finiti) sono conseguenze immediate dell'argomento appena esposto.
Tuttavia Anselmo intende spingersi oltre nella definizione degli attributi di
Dio, e sostiene che la perfezione divina implica, per esempio, anche le
caratteristiche di eternità e intelligenza.[58] Alla luce del carattere
creativo di Dio, dal quale dipende tutto l'esistente, Anselmo propone poi una
rielaborazione della dottrina del Logos (Verbo),[15] tradizionalmente inteso
come corrispondente alla seconda persona della Trinità (il Figlio) e come
intermediario tra Dio e il Mondo, così come nella filosofia neoplatonica era
intermediario tra l'Uno e il Mondo.[62] Anselmo giunge alla conclusione che
ogni ente creato dal nulla esisteva, prima di essere creato, nella mente di
Dio.[15] Pertanto Anselmo sostiene che nella mente di Dio esistono i modelli
ideali su cui sono costruiti tutti gli enti finiti che risultano dalla
creazione, e che la creazione consiste nell'atto con cui Dio pronuncia fra sé e
sé il Verbo che è fondamento di tutte le creature.[58] Anselmo,
discutendo dell'analogia che sussiste tra il Verbo divino e il pensiero (o Logos)
umano, sostiene che gli uomini conoscono le cose per mezzo di immagini delle
cose stesse, e che tali immagini sono tanto più veritiere quanto più aderiscono
alla cosa; simmetricamente, in Dio esiste il Verbo, che costituisce l'essenza
delle cose, e le cose sono modellate su di esso.[15] La terza persona della
Trinità, lo Spirito Santo, viene identificata con la facoltà umana dell'amore.
In Dio, afferma Anselmo, sussistono tre distinte persone che formano una sola
essenza e una sola divinità;[15] questo può essere reso più comprensibile alla
ragione per mezzo di un'analogia di origine agostiniana: come l'anima umana,
pur essendo assolutamente unitaria, si compone di tre facoltà (memoria,
intelligenza e volontà), così Dio, pur essendo assolutamente unitario, si
compone di tre persone (Padre, Figlio e Spirito Santo).[63] L'autore
analizza poi altri modi per descrivere la sostanza divina, e propone di
considerarla come ciò che c'è di più grande, di sommo, cioè maggiore di tutte
le creature; o, ancora, come ciò che presenta tutte e sole le caratteristiche
che è meglio avere piuttosto che non avere.[15] Con ciò, Dio comunque possiede
tali caratteristiche in virtù di sé stesso, e non di altri principi; inoltre la
molteplicità di tali caratteristiche non significa che Dio sia composito, dal
momento che nell'essenza divina ogni attributo coincide con tutti gli altri e
con la stessa essenza divina in una suprema unità e semplicità.[15]
Esistenza di Dio e attributi divini dimostrati a priori: il Proslogion Magnifying
glass icon mgx2.svgProslogion e Argomento ontologico. Statua di Anselmo
ad Aosta, in via Xavier de Maistre. Sullo sfondo, i campanili della cattedrale
di Aosta; a destra si intravede il seminario maggiore. (la) «Domine, non solum
es quo maius cogitari nequit, sed es quiddam maius quam cogitari possit.
Quoniam namque valet cogitari esse aliquid huiusmodi: si tu non es hoc ipsum,
potest cogitari aliquid maius te; quod fieri nequit.» «O Signore, tu non
solo sei ciò di cui non si può pensare nulla di più grande, ma sei più grande
di tutto quanto si possa pensare; poiché infatti è lecito pensare che esista
qualcosa di simile. Se tu non fossi tale, si potrebbe pensare qualcosa più
grande di te, ma questo è impossibile.» (Anselmo, Proslogion seu alloquium
de Dei existentia, 15, 235C) Anselmo rimase parzialmente insoddisfatto della
dimostrazione dell'esistenza di Dio e dell'indagine sulle sue caratteristiche
per come esse erano state condotte nel Monologion: egli aspirava infatti a
costruire un argomento più semplice e interamente autosufficiente in grado di
portare alle stesse conclusioni. Un simile argomento, ricercato affannosamente
e infine trovato[64], venne esposto nel Proslogion (il cui titolo,
originariamente, era stato Fides quaerens intellectum, cioè «la fede in cerca
della comprensione»)[65][66]. L'argomento del Proslogion (noto anche,
secondo una denominazione attribuitagli da Immanuel Kant, come argomento
ontologico)[8] è del tipo a priori: è cioè basato su una definizione di Dio
ricavata dalla fede e sviluppata secondo un procedimento razionale che aspira
ad essere valido in sé, anteriormente a ogni dato di esperienza[66].
Schema logico dell'argomento ontologico Chi nega l'esistenza di Dio (come lo
stolto del Salmo: «che disse in cuor suo: Dio non esiste».) deve avere il
concetto di Dio non si può infatti negare la realtà di qualcosa che non si
pensa neppure, per negarla devo pensarla avere il concetto di Dio significa:
pensare un essere di cui non si può pensare nulla di maggiore ("aliquid
quo nihil maius cogitari possit") ma poiché «si potrebbe pensare un ente
che, oltre agli attributi riconosciuti proprî di Dio, possedesse anche quello
dell'esistenza, e quindi fosse maggiore di lui.»[67] questa, allora, sarebbe
un'idea maggiore di quella di Dio quindi, ciò di cui non possiamo pensare nulla
di maggiore, essendo il maggiore di tutti gli enti, non può non avere la
caratteristica dell'esistenza: esistere senza dubbio sia nell'intelletto
sia nella realtà ("existit ergo procul dubio aliquid quo maius cogitari
non valet, et in intellectu et in re")[68] L'argomentazione di Anselmo
prende dunque le mosse dalla definizione di Dio come «ciò di cui non può essere
pensato niente di maggiore». Egli sostiene che chiunque, incluso lo «stolto»
che, secondo i Salmi (14, 1 e 53, 1) «disse in cuor suo: Dio non esiste»[65],
comprende tale definizione, anche se non comprende che l'oggetto di tale
definizione esiste; comunque, nel comprenderla, si forma mentalmente il
concetto di un ente sommamente grande, del quale sia impossibile pensare
qualcosa di maggiore. Ora, sostiene Anselmo, il concetto di «ciò di cui
non può essere pensato niente di maggiore» esiste nella mente dello «stolto» (o
di chiunque altro) come nella mente del pittore esiste l'immagine di qualcosa
che egli è in procinto di disegnare, ma che ancora non esiste al di fuori del
suo pensiero. Tuttavia, qualcosa che esiste solamente nella mente di
qualcuno non è tanto grande quanto qualcosa che esiste anche nella realtà
esterna, nel mondo effettivo delle cose: pertanto ciò di cui non può essere
pensato nulla di maggiore non sarebbe tale se non fosse dotato di un'esistenza
effettiva anche fuori dalla mente di chi si forma quel concetto. Il che conduce
alla conclusione per cui esiste necessariamente qualcosa di cui non può essere
pensato niente di maggiore[65][66], e che non può essere pensato se non come
esistente[15]. Si tratta in fondo di una dimostrazione per assurdo[69], basata
in gran parte sull'approccio apofatico della teologia negativa[70], in base al
quale è doveroso per la mente umana riconoscere l'esistenza di Dio come suo
limite[71]. (LA) «Sic ergo vere es, Domine, Deus meus, ut nec cogitari
possis non esse; et merito. Si enim aliqua mens posset cogitare aliquid melius
te, ascenderet creatura super Creatorem.» «Dunque esisti in modo così
vero, o Signore, mio Dio, che non si può neppure pensare che non esisti. E
giustamente. Se infatti una mente potesse pensare qualcosa migliore di te, la
creatura si eleverebbe sopra il Creatore.» (Anselmo, Proslogion seu
alloquium de Dei existentia, 3, 228B-228C) Come il Monologion, il Proslogion
contiene numerosi capitoli nei quali l'autore indaga gli attributi di Dio:
partendo dalla definizione della divinità come ciò di cui non può essere
pensato il maggiore, Anselmo conclude che Dio deve essere necessariamente
l'essere supremo, e quindi supremamente buono, giusto e felice[72]. Sempre in
relazione al Monologion, risulta ora tanto più giustificata l'idea che Dio
debba essere caratterizzato da tutte le peculiarità che è preferibile avere
piuttosto che non avere.[72] In effetti risulta che un Dio come questo,
che (in accordo anche con gli insegnamenti della Bibbia) è necessariamente
onnipotente, deve essere impossibilitato a fare il male perché è anche
assolutamente benevolo; questo non è però contraddittorio dal momento che, per
Anselmo, la capacità di fare il male non è in realtà una vera potenza, quanto
piuttosto un'impotenza (il che è coerente con la sua interpretazione del male
come privazione, cioè come pura negazione dell'essere e del bene, non dotata di
un'autonoma positività ontologica). Non deve quindi stupire, secondo lui, che
Dio non possa fare il male o contraddirsi[72]. Nei capitoli conclusivi
del testo, Anselmo ribadisce e approfondisce l'analisi degli attributi divini
iniziata nel Monologion, aggiungendo inoltre un accenno all'identità di
esistenza ed essenza in Dio il quale prefigurava, anche se da lontano, i
risultati che avrebbe raggiunto più tardi Tommaso d'Aquino[73]. Le
critiche di Gaunilone all'argomento ontologico e la risposta di Anselmo (LA)
«Gratias ago benignitati tuae et in reprehensione et in laude mei opusculi. Cum
enim ea, quae tibi digna susceptione videntur, tanta laude extulisti, satis
apparet, quia, quae tibi infirma visa sunt, benevolentia, non malevolentia
reprehendisti.» «Ringrazio della tua benevolenza, sia per le critiche sia
per le lodi del mio opuscolo.[74] Poiché infatti hai tanto lodato quelle parti
che ti sembravano degne d'essere accettate, risulta chiaro che hai censurato
per benevolenza, non per malevolenza, quelle che ti sono apparse deboli.»
(Anselmo, Sancti Anselmi liber apologeticus contra Gaunilonem respondentem pro
insipiente, 10, 260B) Schema logico delle obiezioni di Gaunilone e la risposta
di Anselmo nel suo Libro a difesa dello sciocco il monaco Gaunilone
obietta: in realtà l'ateo ha in mente solo la parola Dio non l'idea di
Dio di cui è impossibile per la sua infinitudine avere una conoscenza
sostanziale: ma anche ammesso di avere un'idea perfetta questo non significa
che poi vi debba necessariamente corrisponderne l'esistenza: se così fosse
basterebbe pensare alle mitiche perfette Isole Fortunate perché poi queste
esistessero nella realtà. S.Anselmo controbatte che il suo argomento vale solo
per quella realtà perfettissima che è Dio, in grado cioè non solo di riempire,
ma di trascendere il pensiero stesso che lo ospita. Dio infatti non è soltanto
«ciò di cui non si può pensare nulla di più grande» (id quo maius cogitari
nequit), ma è anche «più grande di quel che si possa pensare» (quod maior sit
quam cogitari):[75] l'ammissione dei propri limiti costringe l'intelletto umano
a riconoscere una realtà ontologica che lo sovrasta.[76] Per spiegare come sia
possibile che lo «stolto» neghi l'esistenza di Dio, nel Proslogion Anselmo
afferma che chiunque dica «Dio non esiste» in realtà proferisce suoni
completamente vuoti, parole di cui non comprende il senso, fermandosi ai segni
senza cogliere i significati[77]. Gaunilone, un monaco benedettino
contemporaneo di Anselmo, usò un argomento simile a questo per attaccare la
prova a priori del Proslogion[78] in un testo intitolato Liber pro insipiente
(Libro a difesa dello stolto); a Gaunilone Anselmo rispose nel Liber
apologeticus adversus respondentem pro insipientem (Libro apologetico contro la
risposta in difesa dello stolto) e da allora, per volontà dello stesso Anselmo,
il Proslogion venne sempre riprodotto con il corredo di questa doppia
appendice[79]. L'argomentazione del Liber pro insipiente, articolata su
diversi punti e accompagnata da alcuni esempi, si può sintetizzare
nell'osservazione di Gaunilone secondo cui il fatto di avere nell'intelletto un
concetto come quello di «ciò di cui non può essere pensato il maggiore», e di
pensarlo come esistente, è profondamente diverso dal fatto che ciò di cui non
può essere pensato il maggiore effettivamente esista: egli cioè sostiene che
non si può passare direttamente dal piano del pensiero al piano
dell'esistenza[80]. Aggiunge inoltre che quello di «ciò di cui non può essere
pensato il maggiore» è un concetto inaccessibile a un intelletto umano,
sostanzialmente superiore alle sue forze: chi ascolta e comprende tale
concetto, afferma Gaunilone, non lo comprende in realtà più di quanto secondo
Anselmo lo «stolto» comprende l'espressione «Dio non esiste»[78]; quindi
pensare Dio come ciò di cui non può essere pensato il maggiore è possibile
solamente a posteriori, e cioè questa concezione di Dio (di per sé giudicata
legittima) deve essere sviluppata a partire da argomenti simili, per esempio, a
quelli platonizzanti del Monologion[80]. Nella sua risposta alle
obiezioni di Gaunilone (il quale peraltro loda il Monologion e tutte le parti
del Proslogion diverse dall'argomento ontologico) Anselmo si stupisce di
ricevere critiche da qualcuno che è uno stolto ma un cattolico. Rispondendo
quindi «al cattolico», Anselmo ravvisa nelle parole di Gaunilone una certa
confusione tra «ciò di cui non può essere pensato il maggiore», limite
innegabile del pensiero, e «la cosa più grande di tutte», che essendo un
concetto impreciso può ancora essere negato senza cadere in contraddizione.
Nella parte principale della sua replica alla replica Anselmo aggiunge che «ciò
di cui non può essere pensato il maggiore» non è un concetto incomprensibile
per l'intelletto umano,[81] a meno di fingere di non capire il concetto stesso
che si vuole negare, «perché se anche ci fosse qualcuno abbastanza sciocco da
dire che ciò di cui non si può pensare il maggiore non è niente, non sarà così
impudente da dire di non riuscire a capire o pensare quel che sta dicendo. O se
invece si trovasse qualcuno di questo genere, non solo il discorso è da
respingere (respuendus), ma lui stesso da coprire di sputi (conspuendus)»[82].
L'esperienza delle cose del mondo, del resto, rende evidente che gli enti
posseggono le diverse perfezioni in diversi gradi e che, dunque, è possibile
stabilire una gerarchia di grandezza in cui di ogni cosa è possibile pensare
qualcosa di maggiore finché si giunge a qualcosa di cui, appunto, non si può
pensare niente di maggiore[83]. È stato fatto notare che con questa operazione,
però, Anselmo dà parzialmente ragione a Gaunilone e riconduce la prova a priori
del Proslogion alla prova a posteriori del Monologion, ammettendo che il
concetto di «ciò di cui non può essere pensato il maggiore» si origina
dall'esperienza[84][85]. In tal modo l'autosufficienza della prova del
Proslogion può risultare compromessa, ma viene stabilita tra esso e il
Monologion una continuità che fa delle due opere altrettanti momenti di un
unico argomento per l'esistenza di Dio, in cui tale esistenza viene dimostrata
inizialmente a partire da osservazioni empiriche, assicurando nel contempo la
legittimità della definizione di Dio come «ciò di cui non può essere pensato il
maggiore», e quindi viene dimostrato che a partire da tale definizione risulta
che Dio non è concepibile se non come dotato dell'esistenza[72][84].
Anselmo dialettico: il De grammatico e gli altri scritti logici L'aspetto del
pensiero di Anselmo legato alla logica (la quale nel Medioevo era indicata
indifferentemente come dialettica o anche come grammatica, in una prospettiva
paragonabile a quella della moderna filosofia del linguaggio) ha un'importanza
non trascurabile, anche se tale importanza è stata rivalutata solo dalla
critica della seconda metà del XX secolo[84]. Anselmo ritratto in
una vetrata inglese. Anselmo considerava la logica uno strumento utile per il
teologo: già nel Monologion il suo approccio si era caratterizzato per
l'attenta disamina delle possibili ambiguità legate a espressioni come
«[esistenza] per sé» e «[creazione dal] nulla», e anche nel Proslogion Anselmo
aveva compiuto operazioni simili; ora, nel De grammatico, egli analizza nello
specifico il problema della paronimia, ossia dello scambio di due parole dal
suono simile ma prive di attinenza nel significato: si trattava di capire se la
parola "grammatico" (così come tutti gli altri «denominativi», cioè
quelle parole che derivano da una radice da cui differiscono solo per la
desinenza, in questo caso "grammatica"), corrispondano a sostanze o
qualità[86]. In effetti, sostiene Anselmo, pare ugualmente possibile
sostenere che "grammatico" sia sostanza (essenza) o che sia qualità
(accidente):[87] nel primo caso perché "grammatico" indica un uomo, e
a ogni uomo corrisponde una sostanza; nel secondo perché "grammatico"
indica una particolare caratteristica dell'uomo in questione. Anselmo afferma
però che non ci troviamo di fronte a una contraddizione, dal momento che i due
modi di intendere la parola si riferiscono a due punti di vista ben diversi: è
infatti necessario, prosegue, distinguere la significatio di un termine, cioè
il piano del suo significato, dalla sua appellatio, cioè il piano del suo
riferimento. Pertanto "grammatico" è una significazione della grammatica,
ma il suo riferimento è all'uomo[88]. Inoltre, aggiunge Anselmo, per se (cioè
in modo diretto, cioè sul piano della significazione) la parola
"grammatico" significa una qualità, ma può anche fare riferimento per
aliud (cioè in modo indiretto, cioè sul piano del riferimento) a una
sostanza[15][88]. Alcuni commentatori hanno rilevato che, con questo, Anselmo
prefigurava la teoria della suppositio che sarebbe stata approfondita dai
dialettici del XIII secolo e successivi[88]. In altre opere di carattere
logico, abbozzate da Anselmo ma mai stese in forma compiuta, egli analizzava
altre possibili ambiguità linguistiche legate all'uso di certe parole in
filosofia e teologia: considerò con particolare attenzione i concetti e i
termini necessitas ("necessità"), potestas ("potenza",
"capacità"), voluntas ("volontà"), facere
("fare", ma anche "far fare", "patire") e aliquid
("qualcosa")[89]. Il problema del male, dell'onnipotenza divina
e del libero arbitrio nella trilogia sulla libertà Nella cosiddetta «trilogia
della libertà», composta dai dialoghi De veritate, De libertate arbitrii e De
casu diaboli, Anselmo analizza le questioni etiche legate alla rettitudine[19]
da un punto di vista teologico-dogmatico (analogo a quello che avrebbe adottato
anche nelle opere successive) piuttosto che strettamente filosofico (come era
stato invece quello adottato nei testi precedenti)[90]. La scelta della
forma dialogica, debitrice in qualche misura della tradizione platonica ma non
priva di una sua originalità d'interpretazione, era dovuta all'esigenza di
rendere più vivace la discussione dei problemi teologici e al vantaggio di
poter risolvere dialetticamente le difficoltà che via via si presentavano; essa
inoltre corrispondeva al modo in cui Anselmo teneva le sue lezioni, le quali
consistevano sostanzialmente in conversazioni tra gruppi ristretti di discenti
legati da rapporti reciproci di confidenza che facilitavano il confronto di
idee[91]. Il De veritate Magnifying glass icon mgx2.svgDe veritate
(Anselmo d'Aosta). Il De veritate (primo in ordine logico, anche se non è
chiaro in che ordine cronologico furono composte le tre opere) analizza in
particolare il rapporto sussistente tra la virtù morale, la verità e la
giustizia.[19] Anselmo propone una teoria della verità in cui sono
compresenti una matrice platonica (per cui la verità delle cose e delle
affermazioni particolari risiede nella loro partecipazione alla verità in sé) e
la tesi della verità come corrispondenza tra discorso e realtà (per cui la
verità sta nell'aderenza delle asserzioni allo stato delle cose); la nozione di
verità per come la intende Anselmo, quindi, è particolarmente ampia proprio
perché per l'appunto essa è ricondotta sia alla corrispondenza di linguaggio e
realtà sia all'aderenza di un'azione al suo fine teleologicamente proprio (che
nel caso del linguaggio è esattamente quello di significare la realtà);[8]
traducendosi in un più ampio concetto di rettitudine, la verità può quindi
essere propria anche della volontà (la volontà vera è volontà retta) e delle
azioni (le azioni vere sono azioni buone), oltre che dei sensi, delle essenze
stesse delle cose eccetera.[8][15] Tuttavia, aggiunge Anselmo, dal
momento che tutte le cose veridiche devono trarre la loro verità da una verità
suprema che, evidentemente, viene identificata con Dio, e dal momento che Dio è
ugualmente fonte di tutta la verità e di tutto l'essere, tutto ciò che esiste
deve esistere veridicamente e, quindi, rettamente; è qui che, data l'esperienza
comune a tutti dell'esistenza del male, la questione acquisisce la sua
importanza sul piano etico, dal momento che sorge per l'appunto il problema del
male.[15] La questione di come sia possibile che qualcosa di male accada
a causa di (o nonostante) un Dio buono è risolta nel De Veritate osservando
che, se i due termini opposti vengono considerati sotto rispetti diversi,
l'apparente contraddizione tra l'esistenza del male e la bontà di Dio non è
realmente problematica: Dio può permettere che il male esista senza causare il
male, e d'altro canto quello che risulta malvagio in una prospettiva umana non
è necessariamente malvagio in senso proprio. Anselmo sostiene che, come è
possibile che un uomo riceva a buon diritto delle percosse benché per un certo
altro uomo sia illegittimo somministrargliele, così è in generale possibile che
essere l'oggetto passivo di un'azione sia male mentre esserne il soggetto
attivo sia bene o viceversa; e, quindi, il problema di conciliare l'esperienza
del male con un Dio onnipotente e buono si risolve se si considera che Dio e il
male vengono considerati da due differenti punti di vista.[15] In
conclusione, Anselmo chiama verità quel particolare tipo di rettitudine che è
percettibile solo alla mente; benché infatti in generale i concetti di verità,
giustizia e rettitudine siano interscambiabili la verità ha un carattere
proprio di retta intellezione, mentre la giustizia è legata più strettamente
alla rettitudine della volontà.[15] La rettitudine della volontà è poi
direttamente collegata con l'aderenza del volere dell'uomo a quello di Dio, e
la verità stessa ha la sua unità garantita dalla sua relazione con la verità
suprema e assoluta di Dio: l'apparenza di molte verità particolari separate e
indipendenti non toglie che ciascuna di esse sia vera unitamente a tutte le
altre nella partecipazione a Dio.[15] Il De libertate arbitrii Magnifying
glass icon mgx2.svgDe libertate arbitrii. Il De libertate arbitrii è il testo
della trilogia dedicato specificamente alla libertà della volontà dell'uomo in
relazione alla sua facoltà di compiere il bene o di peccare e, in generale, al
problema della grazia e del male.[92] Fin dalle prime pagine dell'opera
Anselmo rifiuta la definizione della libertà come la possibilità di scegliere
senza condizionamenti se peccare o non peccare:[93] se, infatti, la facoltà di
peccare rientrasse in tale definizione, la libertà vedrebbe irrimediabilmente
compromesso il suo valore positivo (se, cioè, fosse la libertà a rendere
possibile il peccato, essa non sarebbe più un carattere buono); e ne risulterebbe
inoltre la conclusione assurda che Dio, non potendo fare il male (cioè non
potendo peccare), non sarebbe libero.[72][92] Anselmo sostiene al
contrario che il peccato è dovuto non tanto alla libertà in sé quanto a una
degenerazione della libertà; e aggiunge, alla luce di queste considerazioni,
che la più opportuna definizione di libertà sarebbe quella per cui essa è
«potere di conservare la rettitudine della volontà per amore della rettitudine
stessa».[94] La libertà è dunque sostanzialmente la facoltà che ci consente non
di perseguire ciò che vogliamo senza condizionamenti, ma di adeguare la nostra
volontà a ciò che è giusto che noi vogliamo (a ciò che, in altre parole,
sarebbe nostro dovere volere).[94] La libertà dunque è tanto più libera (tanto
più corrispondente all'ideale di libertà) quanto più è retta.[96] Questo
comunque non toglie che la volontà possa cedere a una tentazione: in questo
caso essa si rivolgerà al peccato anziché alla grazia e lo farà non per
costrizione da parte dei condizionamenti esterni, ma in modo autonomo;[96]
tuttavia, stante la definizione che si è data sopra, questo non sarà un esempio
di libertà ma un esempio di corruzione della libertà. Infine Anselmo
spiega che, in ogni caso, il modo in cui la libertà della volontà ci consente
di volere ciò che è giusto che noi vogliamo (e di volerlo unicamente in virtù
del fatto che è giusto che lo vogliamo) è legato strettamente all'intervento
divino: in seguito alla caduta, infatti, all'uomo è preclusa la possibilità di
agire bene in modo disinteressato con le sue sole forze (e, più in generale, un
peccatore è incapace di risollevarsi senza aiuto)[97] ed è dunque solo con l'intercessione
della grazia di Dio che la libertà si può esplicare al massimo delle sue
potenzialità e può realmente condurre l'uomo verso Dio.[95] In conclusione
l'autore propone una distinzione tra la libertà increata e interamente autonoma
che è propria di Dio e la libertà creata che gli angeli e gli uomini ricevono
da Dio; e ribadisce che la libertà pur imperfetta dell'uomo, aiutata dalla
grazia, può e dovrebbe elevarsi a Dio.[98] Il De casu diaboli Magnifying
glass icon mgx2.svgDe casu diaboli. Il De casu diaboli tratta dei problemi
legati alla rettitudine e alla libertà con particolare riferimento, come da
titolo, alla caduta del diavolo[19] – cioè al momento della narrazione biblica
in cui l'angelo Lucifero, avendo ricevuto da Dio una certa misura di esistenza
(e dunque di bontà) e una volontà libera (cioè quella facoltà che gli avrebbe
consentito di raggiungere la sua piena realizzazione adeguando la sua volontà a
quella di Dio) scelse di non perseverare nel conservare la sua volontà aderente
a quella divina, lasciò che la sua libertà si corrompesse e abbandonò quindi la
rettitudine per tentare di assomigliare a Dio più di quanto fosse suo diritto. Anselmo
dunque prende tale esempio come questione paradigmatica per un'analisi
dell'origine e della natura del male.[100][101] La sua ricerca prende le mosse
ancora una volta da un'attenta analisi logico-linguistica, volta in questo caso
a chiarire il significato del termine nihil ("nulla"): afferma
Anselmo che tale termine non indica, per il semplice fatto di esistere, una
realtà positiva, e che anzi esso significa per negazione (sottraendo una
proprietà e non aggiungendola). Il nulla dunque è un ente puramente razionale,
perché "nulla" indica non tanto una realtà quanto la negazione di una
realtà; ciò avviene, secondo un esempio riportato da Anselmo stesso,
analogamente al modo un cui si dice di qualcuno che è cieco anche se la cecità
non è tanto una facoltà quanto la negazione della facoltà della
vista.[101] Anselmo fa così propria la concezione, già espressa da un
Agostino che l'aveva a sua volta mutuata dal neoplatonismo di Ambrogio,[102]
del male come privazione, ovvero nega la positività ontologica del male stesso:
come bisogna parlare del nulla come negazione dell'esistente e della cecità
come negazione della vista, bisogna parlare del male come mancanza di bene. Dunque
Lucifero, cui Dio aveva dato la facoltà di scegliere se perseguire la giustizia
(adeguandosi alla volontà divina) o se perseguire la felicità (ribellandosi e
tentando di sostituirsi a Dio) abbandonò la rettitudine e compì un moto di
allontanamento da Dio; compì cioè un'ingiustizia che, però, non era nient'altro
che una negazione della giustizia. Prendendo le mosse dall'esempio del diavolo,
Anselmo dunque sviluppa la sua riflessione relativamente all'uomo: l'essere
umano è creato da Dio ed è dotato da Dio stesso di una volontà libera, la cui
piena realizzazione si ha nella conservazione della rettitudine – cioè
nell'adesione alla legge che Dio, con un atto di grazia, dona all'uomo. Tuttavia
al momento del peccato originale anche l'uomo, come già il diavolo, corrompe la
sua libertà; e non gli è possibile tornare ad agire rettamente se non grazie a
un nuovo dono di grazia da parte di Dio.[105] Come Anselmo avrebbe approfondito
nel De concordia la volontà, che essendo libera ha facoltà (in potenza) di
perseguire la rettitudine, non può di fatto (in atto) perseguire tale
rettitudine se non in virtù del fatto di essere retta, e dunque il ruolo della
grazia concessa da Dio è fondante. Un capolettera decorato da un
manoscritto del Cur Deus homo del XII secolo. La necessità di un Dio-uomo
redentore: il Cur Deus homo Magnifying glass icon mgx2.svg Cur Deus homo. Nel
dialogo in due libri Cur Deus homo Anselmo spiega come, malgrado
l'impossibilità dell'uomo di riparare al peccato di Adamo ed Eva contro Dio,
Dio stesso si è riconciliato con l'umanità facendosi uomo.[106] Il testo
contiene anche, come è reso inevitabile dal suo soggetto, un'apologia del dogma
cristiano dell'incarnazione di Dio (che, per l'appunto, si è fatto uomo in
Gesù) contro le critiche di ebrei e musulmani; tuttavia non è questo il suo
tema principale, e in effetti il Cur Deus homo è un testo di ampio respiro che
di fatto conclude, insieme al successivo De concordia, l'esposizione della visione
teologica di Anselmo.Il testo si apre con una chiarificazione metodologica, in
cui Anselmo ribadisce la sua posizione sul rapporto tra ragione e fede: come
già si era riscontrato nel Monologion, e in accordo con la consueta dinamica
dell'intellectus fidei (comprensione della fede), egli tratta sempre la fede
come il necessario punto di partenza di ogni riflessione teologica ma giudica
«negligenza» astenersi poi dal portare a compimento razionalmente tale
riflessione. Dopodiché, Anselmo procede a spiegare il carattere necessario
della volontà divina: Dio, sostiene l'autore, è dotato di una volontà spontanea
e autonoma (non è cioè soggetto né a costrizioni né a impedimenti) ma tale
volontà è talmente rigida nella sua assoluta immutabilità da far sì che essa
possa essere considerata necessaria; si può dire, ad esempio, che è necessario
che Dio non menta perché la volontà di Dio, tesa per sua stessa natura verso la
verità (e da cui anzi la verità stessa trae la sua natura) è invariabile e
incorruttibile nella sua costanza, e non può in alcun modo rivolgersi verso la
menzogna.[109] Si è già visto che questa non può secondo Anselmo essere
considerata una limitazione della potenza divina. È proprio per via della
necessità e assoluta immodificabilità del piano che Dio aveva predisposto per
l'uomo all'inizio del tempo che, in seguito alla perdita dell'immortalità
dovuta alla caduta di Adamo ed Eva, si è reso necessario un intervento di Dio
per redimere l'uomo dal peccato originale e ripristinare tale immortalità
(sotto forma della possibilità di vivere in eterno nell'altra vita).[110]
Dopodiché, risulta necessario che la remissione da parte di Dio dei peccati
dell'uomo passi attraverso un'effettiva espiazione: se infatti Dio si
riconciliasse con l'uomo con un atto di pura misericordia, senza che il peccato
ricevesse una giusta e proporzionata punizione, il disordine generato dal
peccato non verrebbe ricondotto all'ordine e, in generale, la legalità
dell'universo morale umano e divino risulterebbe compromessa.[111] Bisogna
dunque che l'uomo restituisca a Dio l'onore che peccando gli ha negato – anche
se resta inteso che le azioni dell'uomo non aggiungono né tolgono nulla a Dio,
dato che è impossibile privare dell'onore un Dio che coincide con lo stesso
onore e con tutte le altre qualità positive: restituire a Dio l'onore che gli è
dovuto significa semplicemente ripristinare la sottomissione, venuta meno con
il peccato originale, della volontà umana a quella divina. Tuttavia l'uomo, che
anche prima della caduta in quanto creatura era incapace di compiere il bene se
non in virtù della partecipazione al bene supremo di Dio, non può espiare la
sua colpa da solo: gli è impossibile rendere a Dio la giusta soddisfazione, perché
la bontà di ogni azione di riparazione sarebbe comunque dovuta a Dio. È così
che Anselmo dimostra che il salvatore dell'uomo deve necessariamente essere di
natura divina; quindi egli procede ad argomentare che, per la precisione, egli
deve essere un Dio-uomo.[112] Risulta infatti che a rendere soddisfazione
a Dio non può essere qualcuno che sia inferiore a Dio, e d'altra parte è
necessario che ad espiare il peccato dell'uomo sia un uomo: pertanto le
caratteristiche che le scritture attribuiscono a Gesù, vero uomo e vero Dio,
partecipe in ugual modo e nello stesso tempo di entrambe le nature, sono
esattamente quelle necessarie a spiegare razionalmente la redenzione
dell'umanità[15] dal momento che, come scrive il filosofo Giuseppe Colombo,
«Dio (per sé preso) non deve nulla a nessuno e l'uomo (per sé preso) non può
nulla». Dunque Gesù, non macchiato dal peccato in virtù della sua natura divina
e perciò privo di doveri e di debiti nei confronti di Dio, offrì
volontariamente e liberamente la sua vita innocente a Dio stesso e così
facendo, essendo uomo, espiò il peccato originale dell'umanità. La
compatibilità di prescienza divina e libertà umana: il De concordia Il De
concordia praescientiae et praedestinationis et gratiae Dei cum libero
arbitrio, l'ultima opera di Anselmo, è volto a dimostrare la compatibilità
della prescienza divina, oltre che della predestinazione e della grazia, con il
libero arbitrio dell'uomo. Un manoscritto del nord della Francia del De
concordia, risalente alla metà del XII secolo. Il problema dell'apparente
inconciliabilità della prescienza e della predestinazione divina con la libertà
umana, che risulta dal fatto che pare impossibile prevedere (e a maggior
ragione predeterminare) un fatto senza far venir meno il suo carattere libero e
non necessario, è risolta da Anselmo con un duplice argomento. In primo luogo,
egli osserva, bisogna distinguere la necessità ontologica da quella logica, dal
momento che quella ontologica ha una priorità su quella logica: se infatti
qualcosa è necessario ontologicamente (come il sorgere del sole) allora lo è
anche logicamente (nel momento in cui il sole sorge, sorge necessariamente);
tuttavia se qualcosa è necessario logicamente (nel momento in cui avviene,
avviene necessariamente) può anche non essere necessario ontologicamente (è il
caso, ad esempio, di una rivolta popolare).[115] In secondo luogo Anselmo
propone una tesi già affermata da Agostino e da Boezio: la nostra concezione di
predestinazione e predeterminazione è limitata alla nostra coscienza temporale
delle priorità cronologiche, ma Dio si colloca in un'eternità al di fuori e al
di sopra del tempo, in cui non «nulla è passato o futuro, ma tutto è
simultaneamente e senza divenire»; pertanto, Dio conosce e determina gli eventi
che per noi sono passati, presenti e futuri da una prospettiva sovratemporale
in cui tali eventi sono tutti simultanei; stando così le cose, non c'è
contraddizione tra il fatto che egli conosca o determini un evento libero in
quanto libero (allo stesso modo di come vede o determina eventi necessari in
quanto necessari). Il problema di conciliare la grazia di Dio con il libero
arbitrio invece sorge dalla contrapposizione di coloro che da un lato,
«superbi», considerano la virtù e quindi la salvezza suscettibili di essere
raggiunte dalla sola libera volontà dell'uomo; e di coloro che, dall'altro
lato, attribuiscono così tanta importanza alla grazia divina nella redenzione
dell'uomo da negare addirittura la sua libertà.[117] Anselmo assume nella
controversia una posizione intermedia, in cui cioè grazia e libertà vengono armonizzate:
egli sostiene infatti che, come si era già visto nel De casu diaboli, per agire
rettamente è necessario volere rettamente, e per volere rettamente è necessaria
una retta volontà; tuttavia l'uomo non può darsi da solo tale rettitudine della
volontà, poiché (mentre si può autonomamente conservare la rettitudine della
volontà quando la si ha) non si può volere la rettitudine con il solo libero
arbitrio quando non si ha una volontà retta;[118] e dunque se è vero che è Dio,
per grazia, a dare all'uomo questa facoltà, è vero anche che sta alla libertà
dell'uomo conservarla – i due aspetti non sono quindi contraddittori, bensì
complementari.[117] Il testo prosegue con un'analisi dei significati
della parola "volontà" e delle sue interazioni con il concetto di
giustizia, e si conclude con una ricapitolazione dei punti già trattati:
l'autore ribadisce che la volontà, creata come ente positivo e quindi di per sé
orientata a Dio e alla conservazione della sua originaria bontà, è stata
corrotta dalla deviazione del volere dell'uomo per un cattivo uso della
libertà; pertanto la volontà umana ha perso la rettitudine necessaria a volere
rettamente, e ha bisogno che tale rettitudine sia ripristinata dalla grazia
divina prima di poter ricominciare ad agire con giustizia, preservando grazie
alla libertà la rettitudine della sua volontà.[118] Altri scritti
Miniatura inglese del XII secolo di un capolettera delle Orationes sive
meditationes. Anselmo d'Aosta fu autore di diversi altri scritti di carattere
teologico, ma pur sempre animati da uno spirito filosofico: l'Epistola de
incarnatione Verbi e il successivo De processione Spiritus Sancti trattavano
del problema della processione dello Spirito Santo e delle modalità della sua
incarnazione; il De conceptu virginali et de peccato originali analizzava le
questioni dottrinali dell'Immacolata Concezione e del peccato originale, e
inoltre ripercorreva ragionamenti già portati avanti nelle opere precedenti; a
ciò si aggiungono meditazioni, preghiere e opuscoli minori, oltre a una serie
di frammenti provenienti da un'opera non conclusa e a un De moribus (Sui
costumi [morali]) in parte spurio che tratta delle affezioni
dell'anima.[15] Le preghiere scritte da Anselmo sono raccolte in un'opera
nota come Orationes sive meditationes (Preghiere ovvero meditazioni); esse,
scritte lungo tutta la vita dell'autore dal periodo di Bec all'episcopato
inglese, costituiscono un ulteriore esempio dell'ideale anselmiano di
comprensione della fede: benché orientate più alla contemplazione e al raccoglimento
spirituale che alla vera e propria filosofia o teologia, il loro scopo è
infatti quello di suscitare nel lettore quel sentimento rivolto verso la verità
e la rettitudine che è necessario presupposto tanto della teoresi quanto della
stessa vita buona.[119] Di Anselmo si è poi conservato un epistolario
particolarmente significativo, che testimonia in modo efficace sia della sua
personalità che della sua figura pubblica: risulta infatti chiaramente, da una
parte, l'affetto, la carità, la sensibilità e la ferma pazienza che Anselmo
infondeva nelle lettere ai monaci suoi amici e suoi discepoli; e dall'altra la
sua determinazione nelle faticose e a volte frustranti questioni politiche
legate alla sua posizione di arcivescovo. Esercita un'influenza estremamente
significativa sulla storia della filosofia sia. La sua riflessione giunse a
livelli di estrema profondità in tutti i campi in cui si espresse, anche se è
forse vero che tali campi furono relativamente pochi. Infatti alla sua
filosofia, estremamente raffinata dal punto di vista dialettico, fa difetto
un'approfondita analisi del campo della filosofia della natura – la quale
sarebbe stata necessaria per poter dire che le riflessioni di Anselmo formano
un sistema forganico e completo. La discussione di Anselmo di certi problemi come
quelli della libertà e del male, ebbe la sua risonanza nella filosofia, venendo
ripresa ad esempio da Riccardo di San Vittore. L’'attenzione di Anselmo per la
dimensione logico-dialettica della filosofia fa poi di lui, secondo alcuni
critici, un precursore della filosofia scolastica. D'altra parte le pagine più
famose della sua opera sono certamente quelle in cui, nel “Proslogion” egli
espone il suo argomento a priori per la dimostrazione dell'esistenza di Dio. Esse,
considerate un punto di riferimento di importanza capitale per la storia della filosofia,
genera una mole di saggi sia critici che apologetici. A proposito della rilevanza dell'argomento di
Anselmo, le sue implicazioni sono tanto ricche che il solo fatto di averle
ammesse o rifiutate è sufficiente a determinare il gruppo a cui una filosofia
appartiene. Ciò che è comune a tutti coloro che l'ammettono è l'identificazione
dell'essere reale con l'essere intelligibile concepito col pensiero. Ciò che è
comune a tutti coloro che ne condannano il principio è il rifiuto di porre un
problema d'esistenza separato da un dato esistente empiricamente. Dopo
Gaunilone, che fu praticamente l'unico a mostrare interesse per il cosiddetto
argomento ontologico durante la vita di Anselmo, esso venne citato da Guglielmo
d'Auxerre e ripreso criticamente da diversi altri pensatori nel XIII secolo,
tra cui i più degni di nota sono Aquino e Fidanza. Aquino contesta la validità
di tale dimostrazione, Fidanza la difese. Oltre a Fidanza, altri dottori della
Chiesa, tra cui Enrico di Gand e Alberto Magno, accettarono la prova
anselmiana. Nel Medioevo anche Alessandro di Hales e Duns Scoto si espressero
sull'argomento, entrambi condividendolo, anche se Duns Scoto sostenne che la
formulazione sarebbe stata più appropriata se anziché dal concetto di dio Anselmo
fosse partito dal concetto d’ente. Cartesio riprese a sua volta l'argomento,
considerandolo valido e apprezzando la sua indipendenza da considerazioni di
carattere empirico, disinteressandosi però di quegli aspetti della prova
anselmiana che implicavano la necessaria trascendenza di Dio come fondamento
del suo argomentare.[129] Passando tramite Cartesio, una dimostrazione simile
alla prova a priori di Anselmo entrò anche nel sistema metafisico dell'Ethica
di Spinoza, il quale dimostrava l'esistenza della sostanza (poi identificata
con Dio stesso) sulla base del fatto che, per la definizione stessa della
sostanza, la sua essenza implica l'esistenza. Leibniz sostenne la validità in
sé della dimostrazione, ma contesta un'apparente leggerezza da parte di
Anselmo. Leibniz riconosce infatti che l'autore del Proslogion in effetti
dimostra che, SE Dio (inteso come l'essere massimamente perfetto) è possibile,
allora è necessario, ma sosteneva che non avesse dimostrato che è possibile se
non con argomenti a posteriori. L’argomento fu oggetto di critiche da parte di
Hume e soprattutto di Kant: quest'ultimo in particolare, nella Critica della
ragion pura, evidenzia che l'esistenza non può essere considerata un predicato
(non senza cadere nelle contraddizioni messe in evidenza dai filosofi della
scuola di Velia) e che, dunque, non si può dire che l'esistenza è un predicato
positivo che un Dio di cui non può essere pensato il maggiore non potrebbe non
avere. Hegel torna a difendere la dimostrazione di Anselmo affermando che in
Dio essenza ed esistenza coincidono, e che la distinzione tra le due è tipica
esclusivamente del mondo materiale. Secondo Russell, l'argomento è ancora alla
base del sistema di Hegel e dei suoi seguaci, e riappare nel principio di
Bradley. Ciò che può essere e dev'essere, è. La dimostrazione anselmiana piacce
inoltre a Gioberti e Rosmini, che se ne appropriarono modificandola. La critica
si è rivolta soprattutto all'analisi del rapporto tra fede e ragione negli
scritti di Anselmo e si è interrogata sulla misura in cui le singole opere
dovrebbero essere considerate filosofiche. Si è inoltre discusso sul valore
della logica costruita da Anselmo e sono state analizzate le implicazioni
esistenziali, con particolare riferimento al problema del peccato e della
salvezza e al concetto di rettitudine. Barth vede Anselmo tra i suoi principali
punti di riferimento, ed è stato un attento studioso della sua filosofia. Sono
altresì degne di nota le rivisitazioni della prova anselmiana, con l'intento di
emendarla da aporie ed equivoci logici, operate da Hartshorne e Malcolm. Di
diverso tenore l'analisi di Findlay, che ha mosso una critica serrata, sotto il
profilo linguistico, alla nozione di dio come ente assoluto utilizzata da
Anselmo. In occasione dell'ottavo centenario della morte di Anselmo, il 21
aprile 1909, papa Pio X promulgò l'enciclica Communium Rerum in cui ne celebra
la figura e ne promuoveva il culto. Papa San Giovanni Paolo II nell'enciclica
Fides et ratio guardava alla prova ontologica di Anselmo come a un modello di
quella complementarità imprescindibile tra fede e ragione, grazie a cui l'armonia
fondamentale della conoscenza filosofica e della conoscenza di fede è ancora
una volta confermata: la fede chiede che il suo oggetto venga compreso con
l'aiuto della ragione; la ragione, al culmine della sua ricerca, ammette come
necessario ciò che la fede presenta. Altre opere: “Monologion”; “Proslogion”;
“De grammatico”; De veritate”; “De libertate arbitrii”; “De casu diaboli”; “Epistola
de incarnatione Verbi”; “Cur Deus homo”; “De conceptu virginali et de peccato
originali”; “Meditatio de humana redemptione”; “De processione Spiritus
Sancti”; “Epistola de sacrificio azymi et fermentati”; “Epistola de sacramentis
Ecclesiae”; “De concordia praescientiae et praedestinationis et gratiae Dei cum
libero arbitrio”; “De potestate et impotentia, possibilitate et
impossibilitate, necessitate et libertate:; “Orationes sive meditationes
Epistolae. Fabio Arduino, Sant'Anselmo d'Aosta, in Santi, beati e testimoni -
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Dio. 4000 anni di religioni monoteiste, Milano, CDE, 1997,217,non
esistente. Gilson,292-293. Giuseppe Colombo, Invito al pensiero di
Sant'Anselmo, Milano, Mursia, 1990,106,88-425-0707-5. Colombo,56. Simonetta,476.
Gilson,293. Gilson,294-296. Thomas
Williams, Introduction to the Monologion and Proslogion (PDF), su University of
South Florida. URL consultato il 9 settembre 2012. Tale interpretazione nacque dalla sintesi
neoplatonico-cristiana operata da Agostino. Si veda Simonetta,440. Simonetta,442 e 476. Colombo,44. Gilson,296.
Simonetta,477. G. C., Enciclopedia
Italiana (1935), alla voce "argomento ontologico" Proslogion, cap. II. Che l'argomento di Anselmo consista
principalmente in una reductio ad absurdum è stato evidenziato soprattutto da
Alvin Plantinga, esponente della filosofia analitica, in A. Plantinga, The
nature of necessity, cap. X,196-221, Oxford University Press, 1974. Karl Barth fa notare in proposito che Anselmo
non attribuisce a Dio alcun contenuto positivo, enunciando il suo argomento più
che altro come regola del pensiero, come divieto di pensare in modo
inappropriato (K. Bart, Filosofia e rivelazione [1931], trad. di V. Vinay,123 e
segg., Silva, Milano 1965). Coloman
Étienne Viola, Anselmo D'Aosta: fede e ricerca dell'intelligenza,58-80, Senso
della formula dialettica del Proslogion, Jaka Book, 2000.
Simonetta,479. Colombo,53. A proposito della disputa sull'esistenza di
Dio, avuta col benedettino Gaunilone.
Proslogion, cap. 15, Opera Omnia, I, 112. Cfr. Coloman Étienne Viola, Anselmo D'Aosta:
fede e ricerca dell'intelligenza,58-80, Senso della formula dialettica del
Proslogion, Jaka Book, 2000.
Colombo,52. Simonetta,478.
Colombo,56-57. Colombo,57-58.
Per Anselmo, infatti, anche il sole non è fissabile direttamente dallo
sguardo, eppure attraverso la luce del giorno riusciamo benissimo a vedere la
sua stessa luce (cfr. Monologio e Proslogio, a cura di Italo Sciuto,296,
Bompiani, 2002). «Nam etsi quisquam est
tam insipiens, ut dicat non esse aliquid, quo maius non possit cogitari, non
tamen ita erit impudens, ut dicat se non posse intelligere aut cogitare, quid
dicat. Aut si quis talis invenitur, non modo sermo eius est respuendus, sed et
ipse conspuendus» (Liber apologeticus contra Gaunilonem respondentem pro
insipiente, 9, 258C).
Colombo,59-60. Colombo,61.
Simonetta,478-479. Colombo,61-62. Colombo,62-63. Colombo,63. Colombo,64-67. Colombo,67.
Giacobbe, Marchetti,7-8. Colombo,73. Tale definizione era stata proposta da
Giovanni Scoto Eriugena. Si veda Simonetta, 479. Colombo, 74.
Simonetta, 490. Colombo,75.
Colombo, 75-76. Colombo,73,
76. Colombo,76-77. Giacobbe, Marchetti,10.
Colombo,77. Il quale l'aveva a sua volta
ricavata da Plotino e Porfirio. Si veda Simonetta,440. Colombo,78. Su questi argomenti Anselmo si esprimeva
anche nel De concordia. Si veda Colombo,79. Colombo,79. Colombo,80.
Colombo,81-82. Colombo,82. Colombo,82-23. Colombo,82, 84. Colombo,85.
Colombo,86. Colombo,86-87. Colombo,87. Colombo,88. Simonetta,480. Colombo,89.
Colombo,91. Colombo,95. Colombo,91-95. Gilson,303. Gilson,302-303. Colombo,135. Colombo,132. Gilson,298.
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Colombo,132-133. Francesco
Tomatis, L'argomento ontologico: l'esistenza di Dio da Anselmo a
Schelling,56-57, Città Nuova, 2010: mentre Anselmo intendeva mostrare la
contraddizione logica di chi rinnega la fede in Dio, la preoccupazione di
Cartesio è garantire l'autonomia interna del pensiero privandolo di sbocchi al
trascendente. È stato rilevato come Cartesio sia caduto in fondo nello stesso
errore di Gaunilone, concependo Dio soltanto in termini positivi come «il più
grande di tutti» (maius omnibus), anziché in maniera negativa (nihil maius,
«niente di più grande»): cfr. Virgilio Melchiorre, La via analogica,10-11, nota
18, Vita e Pensiero, 1996. Nello stesso equivoco sarebbe caduto Hegel (A.
Molinaro, Anselmo, Hegel e l'argomento ontologico, in AA.VV., L'argomento
ontologico, «Archivio di filosofia»,353-370, 1-3, 1990). Emanuela Scribano, Guida alla lettura
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Alessandro Caretta e Luigi Samarati, Introduzione al pensiero di Anselmo
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Cristianesimo Eadmero di Canterbury Filosofia medievale Gaunilone Libero
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biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.Anselmo d'Aosta,
su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana.Anselmo d'Aosta, su Find a Grave.Opere
di Anselmo d'Aosta, su openMLOL, Horizons Unlimited srl.Opere di Anselmo
d'Aosta / Anselmo d'Aosta (altra versione), su Open Library, Internet
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il 12 novembre 2017. (LA) 1033-1109 – Anselmus Cantuariensis – Operum Omnium
Conspectus seu 'Index of available writings', su Documenta Catholica Omnia. URL
consultato il 12 novembre 2017. PredecessoreArcivescovo di
CanterburySuccessoreArchbishcantarms.png Lanfranco di Pavia Ralph d'Escures V ·
D · M Anselmo d'Aosta V · D · M Padri e dottori della Chiesa cattolica V · D ·
M Ordine di San Benedetto V · D · M Santi della Legenda Aurea di Iacopo da
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AostaMorti a CanterburyArcivescovi di CanterburyDottori della Chiesa
cattolicaMonaci cristiani franchiPersonaggi citati nella Divina Commedia
(Paradiso) Santi benedettiniSanti del XII secoloSanti franchiSanti per
nomeAbati benedettiniScrittori medievali in lingua latina. anselmo “I would call him ‘Canterbury,’ only he was an
Italian!”H. P. Grice. Saint, called Anselm of Canterbury, philosopher
theologian. A Benedictine monk and the second Norman archbishop of Canterbury,
he is best known for his distinctive method
fides quaerens intellectum; his “ontological” argument for the existence
of God in his treatise Proslogion; and his classic formulation of the
satisfaction theory of the Atonement in the Cur Deus homo. Like Augustine
before him, Anselm is a Christian Platonist in metaphysics. He argues that the
most accessible proofs of the existence of God are through value theory: in his
treatise Monologion, he deploys a cosmological argument, showing the existence
of a source of all goods, which is the Good per se and hence supremely good;
that same thing exists per se and is the Supreme Being. In the Proslogion,
Anselm begins with his conception of a being a greater than which cannot be
conceived, and mounts his ontological argument that a being a greater than
which cannot be conceived exists in the intellect, because even the fool
understands the phrase when he hears it; but if it existed in the intellect
alone, a greater could be conceived that existed in reality. This supremely
valuable object is essentially whatever it is
other things being equal that is
better to be than not to be, and hence living, wise, powerful, true, just,
blessed, immaterial, immutable, and eternal per se; even the paradigm of
sensory goods Beauty, Harmony,
Sweetness, and Pleasant Texture, in its own ineffable manner. Nevertheless, God
is supremely simple, not compounded of a plurality of excellences, but “omne et
unum, totum et solum bonum,” a being a more delectable than which cannot be
conceived. Everything other than God has its being and its well-being through
God as efficient cause. Moreover, God is the paradigm of all created natures,
the latter ranking as better to the extent that they more perfectly resemble
God. Thus, it is better to be human than to be horse, to be horse than to be
wood, even though in comparison with God everything else is “almost nothing.” For
every created nature, there is a that-for-which-it-ismade ad quod factum est.
On the one hand, Anselm thinks of such teleology as part of the internal
structure of the natures themselves: a creature of type F is a true F only
insofar as it is/does/exemplifies that for which F’s were made; a defective F,
to the extent that it does not. On the other hand, for Anselm, the telos of a
created nature is that-for-which-God-made-it. Because God is personal and acts
through reason and will, Anselm infers that prior in the order of explanation
to creation, there was, in the reason of the maker, an exemplar, form,
likeness, or rule of what he was going to make. In De veritate Anselm maintains
that such teleology gives rise to obligation: since creatures owe their being
and well-being to God as their cause, so they owe their being and well-being to
God in the sense of having an obligation to praise him by being the best beings
they can. Since every creature is of some nature or other, each can be its best
by being that-for-which-God-made-it. Abstracting from impediments, non-rational
natures fulfill this obligation and “act rightly” by natural necessity;
rational creatures, when they exercise their powers of reason and will to
fulfill God’s purpose in creating them. Thus, the goodness of a creature how
good a being it is is a function of twin factors: its natural telos i.e., what
sort of imitation of divine nature it aims for, and its rightness in exercising
its natural powers to fulfill its telos. By contrast, God as absolutely
independent owes no one anything and so has no obligations to creatures. In De
casu diaboli, Anselm underlines the optimism of his ontology, reasoning that
since the Supreme Good and the Supreme Being are identical, every being is good
and every good a being. Two further conclusions follow. First, evil is a
privation of being, the absence of good in something that properly ought to
have it e.g., blindness in normally sighted animals, injustice in humans or
angels. Second, since all genuine powers are given to enable a being to fulfill
its natural telos and so to be the best being it can, all genuine
metaphysically basic powers are optimific and essentially aim at goods, so that
evils are merely incidental side effects of their operation, involving some
lack of coordination among powers or between their exercise and the surrounding
context. Thus, divine omnipotence does not, properly speaking, include
corruptibility, passibility, or the ability to lie, because the latter are
defects and/or powers in other things whose exercise obstructs the flourishing
of the corruptible, passible, or potential liar. Anselm’s distinctive action
theory begins teleologically with the observation that humans and angels were
made for a happy immortality enjoying God, and to that end were given the
powers of reason to make accurate value assessments and will to love
accordingly. Anselm regards freedom and imputability of choice as essential and
permanent features of all rational beings. But freedom cannot be defined as a
power for opposites the power to sin and the power not to sin, both because
neither God nor the good angels have any power to sin, and because sin is an
evil at which no metaphysically basic power can aim. Rather, freedom is the
power to preserve justice for its own sake. Choices and actions are imputable
to an agent only if they are spontaneous, from the agent itself. Creatures
cannot act spontaneously by the necessity of their natures, because they do not
have their natures from themselves but receive them from God. To give them the
opportunity to become just of themselves, God furnishes them with two
motivaAnselm Anselm 31 31 tional drives
toward the good: an affection for the advantageous affectio commodi or a tendency
to will things for the sake of their benefit to the agent itself; and an
affection for justice affectio justitiae or a tendency to will things because
of their own intrinsic value. Creatures are able to align these drives by
letting the latter temper the former or not. The good angels, who preserved
justice by not willing some advantage possible for them but forbidden by God
for that time, can no longer will more advantage than God wills for them,
because he wills their maximum as a reward. By contrast, creatures, who sin by
refusing to delay gratification in accordance with God’s will, lose both
uprightness of will and their affection for justice, and hence the ability to
temper their pursuit of advantage or to will the best goods. Justice will never
be restored to angels who desert it. But if animality makes human nature
weaker, it also opens the possibility of redemption. Anselm’s argument for the
necessity of the Incarnation plays out the dialectic of justice and mercy so
characteristic of his prayers. He begins with the demands of justice: humans
owe it to God to make all of their choices and actions conform to his will;
failure to render what was owed insults God’s honor and makes the offender
liable to make satisfaction; because it is worse to dishonor God than for
countless worlds to be destroyed, the satisfaction owed for any small sin is
incommensurate with any created good; it would be maximally indecent for God to
overlook such a great offense. Such calculations threaten certain ruin for the
sinner, because God alone can do/be immeasurably deserving, and depriving the
creature of its honor through the eternal frustration of its telos seems the
only way to balance the scales. Yet, justice also forbids that God’s purposes
be thwarted through created resistance, and it was divine mercy that made
humans for a beatific immortality with him. Likewise, humans come in families
by virtue of their biological nature which angels do not share, and justice
allows an offense by one family member to be compensated by another. Assuming
that all actual humans are descended from common first parents, Anselm claims
that the human race can make satisfaction for sin, if God becomes human and
renders to God what Adam’s family owes. When Anselm insists that humans were
made for beatific intimacy with God and therefore are obliged to strive into
God with all of their powers, he emphatically includes reason or intellect
along with emotion and will. God, the controlling subject matter, is in part
permanently inaccessible to us because of the ontological incommensuration
between God and creatures and our progress is further hampered by the
consequences of sin. Our powers will function best, and hence we have a duty to
follow right order in their use: by submitting first to the holistic discipline
of faith, which will focus our souls and point us in the right direction. Yet
it is also a duty not to remain passive in our appreciation of authority, but
rather for faith to seek to understand what it has believed. Anselm’s works
display a dialectical structure, full of questions, objections, and contrasting
opinions, designed to stir up the mind. His quartet of teaching dialogues De grammatico, De veritate, De libertate
arbitrii, and De casu diaboli as well as his last philosophical treatise, De
concordia, anticipate the genre of the Scholastic question quaestio so dominant
in the thirteenth and fourteenth centuries. His discussions are likewise
remarkable for their attention to modalities and proper-versus-improper
linguistic usage. Fin dagli esordi della filosofia
medievale, la dottrina dei segni riguarda la questione dell’interpretazione, o
addirittura dell'intero mondo reale, inteso come insieme di segni attraverso i
quali l’assoluto di Bradley si fa manifesto, e attraverso i quali ci indirizza
alla verità. Siamo agli albori di una logica del segno, con Alenino, lo
Pseudo-Dionigi l'Areopagita, Scoto Eriugena, Beda il Venerabile. Al principio
dell'xi secolo iniziano la vera e propria logica e la semantica medievali.
Sant'Anselmo d'Aosta elabora una dot- trina della verità finalizzata alla
dimostrazione dell'esistenza di Dio. È convinto, infatti, che la fede possa
essere confermata dal- la ragione, anche se la sua origine -vieneprima della
ragione stes- sa. Nelle sue opere {Monologion, Proslogion, De veritate) vengo-
no articolate così le prove dell'esistenza dell’Assoluto, che costituiscono un
momento di notevole interesse semiotico. Nel “Proslogion”, Anselmo d’Aosta sostiene
la differenza fra linguaggio (o segno, segnante) e realtà (segnato). Se, secondo
il linguaggio si può dire che l’Assoluto non esiste, non lo si può però pensare
secondo il reale. Si tratta della cosiddetta "prova ontologica",
importante perché distingue fra una verità referenziale e una verità *proposizionale*.
La verita proposizionale è limitata a una pura asserzione di *esistenza*, che
ha valore indipendentemente dall'*essenza* della cosa. Nel dialogo “De veritate”,
la dicotomia fra segno (segno, segnante) e referente (relatum, segnatum) è
maggiormente sviluppata, su base aristotelica, distinguendo fra verità di un
segno (del segnato) -- la significazione -- e verità stretta della
proposizione. Una cosa o avvenimento – l’alpha e beta -- determina la verità o
falsita (il valore di verita) della proposizione ‘l’alpha e beta’ Fido is
shaggy, ma non costituisce la sua verità. La verita IN-tensionale della
proposizione e, infatti, data a priori, analiticamente, da una propria legge
logica interna. Dunque, la verità di quello ‘segnato’, ‘comunicato’ o impiegato
o impicato (la significazione) non è mai certa o provata. Questa dipende dalla
realtà -- o livello ontologico -- con la quale non può essere coerente. Dunque,
la verità della significazione, che può essere detta "semantica" o
del segno, non si applica che al comunicato o impiegato della conversazione o
discorso umano, che riflette piti o meno la cosa, evvento, o situazione
(l’alpha e beta), mentre il verbum dell’assoluto è con-sustanziale alla natura, ed è, alla
Velia, Uno e Indivisibile. MAESTRO: Quando una proposizione, “Fido is shaggy”,
è vera? DISCEPOLO: Quando esiste realmente ciò che essa enuncia affermandolo
(il fatto che Fido e shaggy) o negandolo (il fatto che non e shaggy). Voglio
dire che *esiste* -- una x che e Fido e che e shaggy -- ciò che essa *enuncia*
*anche* se essa nega l'esistenza di ciò che non è. E questo perché, così, essa,
“l’alpha e beta”, enuncia, in un certo modo, che una cosa è (“l’alpha e – Ex Kx
e Bx). M: Ti sembra dunque che la cosa *enunciate* sia la verità della
proposizione? DISCEPOLO. No!. MAESTRO: Perché? DISCEPOLO: Perché *nulla* -- cf.
Heidegger -- è vero che per partecipazione alla verità, ed è così che la idea
della verità sta nel vero. Ma la cosa enunciata (che Fido e shaggy) non sta
nella proposizione vera. Perciò, non deve essere detta la sua verità, ma la *causa*
(ragione) della verità della proposizione. MAESTRO. Vedi allora se il tuo *discorso*
(il segnante) stesso o il segnato (la significazione del segnante) o qualche
elemento della definizione della proposizione non siano ciò che tu cerchi.
DISCEPOLO. Non lo penso! MAESTRO: Perché? DISCEPOLO. Perché se fosse così, *ogni*
discorso –il discorso, la proposizione -- sarebbe vero o vera, poiché tutti gli
elementi della definizione della proposizione – l’alpha e beta -- restano gli
stessi, che ciò che essa enuncia esista o meno. Il discorso, la è lo stesso; la signi-ficazione (lo segnato) anche
e vero, e così tutto il resto. MAESTRO: Che cosa ti sembra essere dunque il
vero? DISCEPOLO: Non ne so nulla, se non che, quando essa signi-fica esistere
ciò che realmente è, ha in sé della verità, ed è vera. La prova dell'esistenza
dell’Assoluto bradleyiano consiste nella discussione sul linguaggio che Aosta
considera un vero e proprio rispecchiamento della natura, un po' come il logos
platonico o il verbum agostiniano. La differenza fra il segno da natura
(dell’assoluto) e il segno d’arte umana sta nel fatto che il segno dalla natura
è cons-ustanziale alla natura, ne è l'esatta immagine, e per questo è perfetto
(“If those spots mean measles, he has measles”). Invece, il segno dall’arte permette
solo di "pensare alle cose", ed è pertanto necessariamente
imperfetto: 1 Anselmo d'Aosta, Deventate, 11. 51 Questo basta per
la verità della significazione di cui abbiamo cominciato a parlare. In effetti,
la stessa ragione di verità che noi scopriamo in un segno dall’arte è
applicabile a ogni segno che si fanno per affermare o negare qualcosa, come gli
scritti, il linguaggio o i gesti. Ogni segno dall’arte e con l'aiuto del quale
noi diciamo le cose, cioè di quel ci serviamo per pensar le cose, e una rassomiglianze
o immagine (fantasma, manifestazione) della cose che il segno de-nota. Ora, ogni
rassomiglianza o immagine è più o meno vera a seconda della sua maggiore o minore
fedeltà alle cose che essa rappresenta. La logica o dialettica è, di norma,
considerata come la solida roccia cui ancorare la filosofia. Infatti nella
dialettica riteniamo di trovare garanzia di chiarezza, verità, comprensibilità.
Ma quanto è affidabile questa garanzia? Parrebbe non molto, stando a quel che argomenta
in modo provocatorio Anselmo d’Aosta. Colla sua dialettica e sovversione –
dialettica sovversiva – Aosta rivela l’altra faccia della dialettica, quella
perturbatrice, una dialettica che non è stabile e chiara, bensì ingannevole e
torbida. Aosta propone, come caso di studio di una dialettica sovversiva che
svia l’umana ragione, la argomentazione addotta a sostegno della prova
ontologica dell’esistenza di dio. L’intento anselmiano e quello di stilare una
ricetta dagli ingredienti ben poco amalgamabili – ragione, dialettica, e fede –
per sfornare la ciambella del “credo ut intelligam”, da servire al posto di
quella del “credo quia absurdum” di Tertulliano. Infatti, è da presumere che
Aosta non fosse assillato da alcun dubbio circa il suo credo. Quindi cercava
solo di *intelligere* la sua fede [credenza] senza ricorrere ad alcuna sua demonstratio.
In soldoni, Aosta, con il suo argomento ontologico forne all’insipiente -- che nel Salmo 13
sentenzia, in ebraico, “Dio non c’è” (dio non e) -- una prova cogente
dell’esistenza di dio oppure Aosta credente vuole convincersi e convincere
gl’altri credente, ancor di più dell’oggetto del loro credo? Ma da un
attento e diffidente esame dell’intero corpus del fondatore della scolastica, con
un’irritante, ma utile, tattica vuol risvegliare nel destinatario il memento
che, sicuramente l’uso della ragione può combattere l’eresia. Ma, al contempo,
un *abuso* dell’argomentare può sottilmente minare la stessa ortodossia.
Infatti, nel progetto d’Aosta la ragione dialettica svolge ruoli differenti a livelli
differenti. La ragione dialettica, da un lato, per la sua natura normativa,
impone limiti a ogni eccesso. All’altro lato, però, la ragione dialettica apre
un vasto spazio di sperimentazione in cui non si raggiunge mai un
limite. Il programma di natura tipicamente dialettica impostato d’Aosta
perché possa farci pensare più correttamente al signore ineffabile di tutte le
cose anziché schiarire l’orizzonte crea una selva di interrogative. Nell’arco
di un dialogo, Aosta è costretto a ricorrere al punto di domanda per ben 19
volte). L’illusione del possibile conseguimento di una perfezione morale e
logica che sa tanto di viaggio verso l’isola che non c’è, fa diventare il
problema dell’illuminazione razionale oggetto di una ermeneutica del sospetto
alla Ricoeur. Pertanto, è più che naturale chiedersi che senso ha seguire
l’incoraggiamento d’Aosta a cercar di raggiungere quel che è fuori portata. Come
possiamo tracciare un percorso se non ne conosciamo la meta? Non è che forse stiamo
in realtà facendo qualcos’altro quando cerchiamo’ così? Pur ammettendo la
necessità delle considerazioni dialettico-razionali d’Aosta, che trovano il
loro punto di partenza nella “fides quaerens intellectum”, c’è da chiedersi se
nello “Proslogion” Aosta non avesse intenzione di convertire gli infedeli per
mezzo di un sillogismo. A tal proposito, vale la pena riportare quanto ebbe a
filosofare Newman in “Un saggio per aiuta di una grammatical dell’assentimento.
La logica fa una triste retorica colla multitude. Il primo tiro, il colpo alla
cieca, accircola le quadre, ma tu non despera da convertirte da un sillogismo! Infatti,
usando la metafora del far partire il colpo alla cieca, Newman implica che
bisogna partire dalla fede e dalla rivelazione – teologia revelata no naturale.
Solo quando si accetta l’esistenza di Dio per revelazione, fede revelata, assiomaticamente,
per assunzione, senza alcun tipo di dimostrazione, prova, presupposizione, o
premessa, solo allora si è pronti a una conversione mediante un argomento
dialettico-razionale. Pertanto, esistono dunque buoni motivi per cui il “gioco”
d’Aosta debbe essere ristretto al suo destinatario gia credente. La chiave di
lettura dell’argomentazione d’Aosta è da individuare, tramite la citazione di
quello Salmo ebraico, numero 13, in ebreo, “Dio non c’e” -- nella figura dello
stultus et “insipiens”. Certa critica ha sostenuto che Aosta ha messo in scena
lo stolto per meglio promuovere la sua tesi. In un certo senso potrebbe essere
cosi. Ma la caratterizzazione del *miscredente* come uno stolto è sfruttata
sottilmente per dimostrarci che è possibile individuare un argomento *razionale*
che consenta di affermare che *deum esse*, che dio e. Giungere a possedere un
tale argomento dialettico razionale che concluse ‘Dio c’e” non serve solo nel
caso in cui se ci imbattessimo in uno stolto sapremmo come comportarci. E che
il destinatario di Aosta e stolto (discepolo, non maestro) in certa misura. La
ricerca di trasparenza suggerita d’Aosta contribute a renderci – a rendere il
destinatio – *meno* stolti. Lo stolto non è tale perché non vede che l’esistere
di Dio è analiticamente, a priore, di manire intensionale, a priori, per se
notum, per se notificatum, per se segnatum, per se segnatum per il segnante, ma
lo è perché egli *sbaglia* nell’usare o proffirere una profferenza della forma
logica, “dio e” – non-ente, ‘dio’ come suggeto di una enunciazione della forma
“il S e P”. E stolto perche persevera in questo modo di *esprimersi* -- a
negazione ‘non c’e’ del salmo interpretata per implicatura come interna – cf.
‘il re di Francia non e calvo, dato che ‘il presente re di Francia’ e una
descrizione vacua – ‘Pegaso vuola’ – Grice, “Nomi vacuii”. Se il profferente
usa correttamente l’espressione ‘dio’, riconosce che deve dire che dio esiste
-- il ‘Deum esse’ di d’Aquino. Ma con questa affermazione (dio e – l’esistenza
non e un predicato ma la copola) non puo pretendere di avere afferrato l’essenza
di Dio (il ‘Dei esse’ d’Aquino– quello che dio e, s’e. ). Infatti, per Aosta la
prova dell’esistenza di ‘dio’ (o dell’assoluto della scuola di Velia e di
Bradley) può funzionare solo se dio o l’assoluto (o Assoluto, come preferisce
Croce) è inteso (=df, alla Peano) come “id, quo nihil majus cogitari possit”. Tanto
è che anche chi, vestendo i panni dello stolto, dice in cuor suo “non esiste
alcun Dio” può *pensare* concivere il concetto di “quello da che niente
maggiore puo essere cogitato”. Perché altrimenti non potrebbe neanche *formularne*
la negazione. L’espressione soggeto “quello da che niente maggiore puo
essere cogitato” diventa per Aosta una vera e propria macchina-generante-attributi-divini
– il dio dei filosofi della filosofia naturale --. L’assoluto (quello da che
niente maggior puo essere cogitato) deve essere onnipotente. Se non lo fosse,
tu possi concepire un essere maggiore di lui. Ma l’assoluto è, per definizione,
quello da che ninente maggiore puo essere cogitato. Quindi, l’assoluto deve
essere onnipotente. Allo stesso modo, l’assoluto deve essere giusto,
misericordioso, eterno, immutabile e così via. Se mancasse solo di una di
queste qualità, non sarebbe più quello che l’assoluto e per definizione, =df –
quello da cui niente maggiore puo essere cogitato, il che è
impossibile. La semplicità teoretica di questa impostazione è fuorviante.
L’apparente successo nel generare molteplici attributi divini per mezzo
dell’argomento ontologico comporta un problema che innesca una reazione a
catena. Si deve dimostrare che gli attributi divini siano non contraddittori
l’uno con l’altro – in altri termini, dimostrare la possibilità della loro
compresenza in un solo identico ente. Ecco il punto: il filosofo con la sua
ratio argomentativa può rintracciare tutte le possibili relazioni
intercorrenti, per esempio, fra bontà, giustizia e misericordia, ed è in grado
anche di dimostrare che Dio non solo *può* -- il diamante dellla logica modale
-- ma anche *deve* -- il quadrato della logica modale -- possedere tutti e tre
questi attributi, pur tuttavia non esiste animale razionale al mondo che possa
dar conto del perché l’assoluto si mostri giusto e misericordioso proprio nel
modo in cui lo fa. L’algoritmo nel programma d’Aosta o porta all’output. Dunque,
Signore, tu non sei solo colui di cui non può pensarsi il maggiore. Tu sei
anche qualcosa di maggiore di tutto ciò che può essere pensato. Questa
proposizione molecolare richiamano tutte le argomentazioni circa gli esiti di
impossibilità della logica contemporanea. Tu possi pensare che esista qualcosa
di maggiore di qualsiasi cosa io possa pensare, quindi ciò di cui non posso
pensare il maggiore deve essere tale che non posso pensarlo” (p. 109). Anselmo
ben sapeva di iniziare una partita impossibile – la razionalizzazione della
fede – nella quale un ruolo chiave era svolto dalla inaccessibilità di Dio, pur
tuttavia impostando come limite ultimo il concetto di quello di cui non puo
pensarsi il maggiore, tenta di procurarsi una giustificazione razionale per
l’inevitabile fallimento della ragione! Una mossa azzardata che dava in questo *gioco*
la possibilità all’antagonista (l’infedele, la stessa ragione che è negativa
per vocazione) di contrattaccare arrecando danno con una manciata di domande
ben azzeccate, che possono trovarci pronti a fornire comunque una risposta o in
subordine occuparci la coscienza con la loro presenza importuna. Possiamo,
dunque, senz’altro dire che Aosta ha svolto egregiamente una ricognizione
dell’aporia della ragiona trovando anche addentellati significativi circa
l’esercizio della libertà intellettuale con un efficace richiamo a Bruno e
Turing. Alcune perplessità sorgono dai commenti approntati dall’autore sull’argomento
ontologico. Per esempio, vengono riportate queste parole d’Aosta. Così quando
si *dice* ‘ente di cui non si può pensare il maggiore’, senza dubbio queste
parole possono essere capite e pensate, anche se la cosa stessa di cui non si
può pensare nulla di maggiore non può essere pensata o compresa. Subito si
attribuisce ad Aosta l’utilizzo di una via negativa per giungere alla
comprensione dell’assoluto. Non si sa veramente un gran che di qualcosa se si
sa solo ciò che quella cosa *non* è. Ma non bisogna farsi confondere da questa
limitazione. Non si tratta qui di avere un’intuizione dell’assoluto, ma di
fornire un fondamento razionale per la verità di una proposizione. E tale
operazione, lo sappiamo, spesso può essere compiuta per via puramente negativa
– prova ne siano le argomentazioni attraverso reductio ad absurdum. Sull’argomento
della reductio, si cita un passo tratto dalla Responsio d’Aosta. Si può pensare
a cio di cui non si puo pensare il maggiore. Quindi, c’è un mondo m (pensabile)
dove cio di cui non si puo pensare il maggiore esiste. Ora supponiamo che cio
di cui non si puo pensare il maggiore non esista nel mondo reale. Allora *è* possibile
pensare, in m, qualcosa di maggiore di cio di cui non si puo pensare il
maggiore. Ma questa è una falsità logica. L’argomentazione è una reductio
ad absurdum e la terza premessa è la premessa da dimostrare *assurda*, il che
la rende indisputabile. Riterra che
l’argomentazione funziona se almeno stabilisce che l’assoluto esiste, senza
renderlo molto incomprensibile o inconcepibile di quanto fosse prima
dell’argomentazione. Dalla combinazione di questi due passi si ricava che si ritenga
che la reductio sia particolarmente adatta per rendere accetta l’esistenza di
cose inconcepibili. Rivisitando l’abusato sillogismo su “Socrate è ….”, si
supponga che Socrate non è mortale; che Socrate è un uomo, e tutti gli uomini
sono mortali; sicché Socrate è sia mortale che non mortale. Ma la terza
premessa è necessariamente falsa e la seconda premessa è vera. Perciò la prima
premessa è falsa. La seconda premessa non assume riguardo a Socrate una forma
puramente negative. Pertanto in questo caso la reductio ad absurdum non può
essere addotta in difesa dell’uso della via negativa. Perciò, anche se vi sono
reductiones ad absurdum che possono essere formulate con premesse del tipo via
negativa, non si spiega cosa di speciale vi sia nell’argomentazione per
reductio ad absurdum da renderla adatta per esprimersi per via puramente
negativa, e quindi la legittimità della reduction ad absurdum non suffraga
l’accettabilità della via negativa. P(φ) φ è
positivo (o φ ∈
P) ASSIOMA 1. P(φ). P(ψ) ⊃ P(φ. ψ) ASSIOMA 2. P(φ) ∨ P(∼φ)
(Disgiunzione esclusiva) DEFINIZIONE 1. G(x) ≡ (φ) [ P(φ) ⊃ φ(x) ] (Dio) DEFINIZIONE 2. φ
Ess.x ≡ (ψ) [ ψ(x) ⊃
N(y) [ φ(y) ⊃ ψ(y)
]] (Essenza di x) p ⊃
Nq = N(p ⊃ q)
(Necessità) ASSIOMA 3. P(φ) ⊃ NP(φ) ∼P(φ)
⊃ N ∼P(φ) Poiché ciò segue dalla
natura della proprietà. TEOREMA. G(x) ⊃ G Ess.x DEFINIZIONE 3. E(x) = (φ) [φ Ess. x ⊃ N (∃x) φ(x) ] (Esistenza
necessaria) ASSIOMA 4. P(E) TEOREMA. G(x) ⊃ N(∃y) G(y) quindi (∃x) G(x) ⊃ N(∃y) G(y) quindi M(∃x) G(x) ⊃ MN(∃y) G(y) sibilità) (M = pos- M(∃x) G(x) significa che il
sistema di tutte le proprietà positive è compatibile. Ciò è reso grazie a:
ASSIOMA 5. P(φ). φ ⊃
Nψ: ⊃ P(ψ) x
= x è positivo x ≠ x è negative. Anselmo
d’Aosta. Aosta. Keywords: L’implicatura sovversiva.: Grice,
“Anselmo’s “De grammatico” and paronymy.” Speranza, “Grice and Anselm on
paronymy: a ‘quaestio subtilissima.’” Implicatura sovversiva, cio di cui non si
puo pensare il maggiore, semantica, concetto, pensare, Turing, Bruno, Il programma Le critiche al programma La revisione del
programma Ciò di cui non si può pensare il maggiore Appendici La logica di
un’illusione Dottrine esotericheil programma sovversivo di Anselmo,
eresia. Keywords. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice ed Aosta” – The Swimming-Pool Library.
Grice
ed Apellas – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. According to Diogene Laerzio, Apellas was a follower of the Scesi and
wrote an essay entitled “Agrippa.”
Grice
ed Apelles – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo italiano. Apelles was a gnostic who advanced a complicated theology
claimed by Ippolito di Roma to postulate *five* and five only gods.
Grice
ed Apollonides – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. Apollonides was a member of the Porch, and a friend and companion of
Cato Minore. He was present at the latter’s death.
Grice
ed Apollonides – Roma –filosofia italiana – Luigi Speranza (Nizza). Filosofo
italiano. Apollonides wrote commentaries on lampoons composed by Timone di Flio
and dedicated them to TIBERIO, the prince of Rome. Apollonides was presumably a
member of the Scessi himself.
Grice
ed Apollonio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. Apollonio was a member of the Porch, a friend of Cicerone, and like
him, had been tutured by Diodoto.
Grice
ed Apollonio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. Apollonio was a celebrated teacher of rhetoric. CICERONE and GIULIO
CESARE were among hi pupils. He wrote a book on philosophy in which he argues
that the oracle at Delphi had NOT declared Socrates to be the wisest person
alive because the pronouncement in question did not conform to the correct
format of Delphic utterances.
Grice
ed Apollonio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. Apollonio was a member of the
Porch who taught two Roman emperors, Commodo and Antonino. He was regarded with
some suspicion by Antonino Pio, who thought he charged too much – but Antonino
came to admire him greatly. In his “Ad seipsum”, Antoninoo describes Apollonio
as someone full of energy who knew how to relax, as someone who taught him how
to deal with pain and rely on reason, and as someone whose teachings were a
model of clarity.
Grice
ed Apollonio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). FIlosofo
italiano Apollonio belonged to the Porch and taught in Rome.
Grice
ed Apollophanes – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. He was in Pergamo, and sent on a mission to Rome on the city’s
behalf. A follower of the Garden.
Grice
ed Appio: il primo filosofo inglese, il primo filosofo romano – Roma –
filosofia italiana – Luigi Speranza. Murford. Wikipedia
Ricerca Appio Claudio Cieco politico e letterato romano Lingua Segui Modifica
Appio Claudio Cieco Project Rome logo Clear.png Console della Repubblica romana
Appio Claudio Cieco in Senato.jpg Appio Claudio Cieco accompagnato dai senatori
nella Curia, simbolo del potere di Roma nell'epoca repubblicana Nome
originaleAppius Claudius Caecus GensClaudia Consolato307 a.C., 296 a.C. Appio
Claudio Cieco (in latino: Appius Claudius Caecus; 350 a.C. – 271 a.C.) è stato
un politico e letterato romano, nato di nobili origini in quanto membro
dell'antica gens Claudia. Secondo la leggenda, la sua cecità, da cui gli derivò
il cognomen"Caecus", "Cieco",[1] fu dovuta all'ira degli
dèi per la sua idea di unificare il pantheon greco romano con quello celtico e
quello germanico.[2] Fu un personaggio particolarmente significativo,
caratterizzato da una marcata sensibilità verso la società greca, che lo portò
ad intendere la fusione tra di essa e il mondo romano come un profondo
arricchimento per l'Urbe.[3] Fu il primo intellettuale latino, dedito
all'attività letteraria e interessato alla filosofia, nella tradizione romana arcaica
considerate attività infruttuose ed indegne di un civis. Biografia
Modifica Placca commemorativa ad Appio Claudio Cieco (Museo della
Civiltà, Roma) Percorse un brillante cursus honorum, in quanto rivestì quasi
tutte le più importanti cariche pubbliche e militari. Fu censore nel 312 a.C.,
quando ridistribuì i nullatenenti, originariamente presenti nelle 4
tribùcittadine, tra tutte le tribù allora esistenti.[4] Fu console nel
307[5] e nel 296 a.C., sempre con Lucio Volumnio Flamma Violente come collega.[6]
Mentre a Voluminio era toccata la campagna nel Sannio, ad Appio, toccò quella
in Etruria, dove i popoli Etruschi si erano nuovamente sollevati, in seguito
all'arrivo di un grosso esercito Sannita.[6] Dopo aver fronteggiato gli
eserciti nemici in piccole scaramucce di poco conto, all'esercito romano in
Etruria arrivò l'aiuto di quello condotto da Volumnio, arrivato dal Sannio,
dove si era inizialmente recato. Nonostante l'inimicizia tra i due consoli,
l'esercito romano riunito ebbe la meglio su quello Etrusco-Sannita.[7]
Nel 295 a.C., con poteri proconsolari, insieme all'altro proconsole Lucio
Volumnio Flamma Violente, sconfisse quanto restava dell'esercito Sannita,
scampato alla battaglia del Sentino, in uno scontro in campo aperto, nei pressi
di Caiatia.[8] Fu inoltre dittatore nel 292 e nel 285 a.C. Ebbe un ruolo
rilevante nelle guerre contro Etruschi, Latini, Sabini e Sanniti, che sconfisse
in battaglia nel 296 a.C. A lui si deve la costruzione del primo
acquedotto, l'Aqua Appia, della via Appia, che da lui prese nome e che
rappresenta una chiara traccia dell'interesse di Appio Claudio per
un'espansione romana verso la Magna Grecia,[9] e del tempio di Bellona. Pur
essendo un patrizio appartenente all'alta aristocrazia romana, aprì in qualità
di censore il senato ai cittadini di bassa estrazione sociale e ai figli di
liberti. Combattendo le istanze più conservatrici della società romana, decise
anche di ripartire i cittadini tra le classi previste dall'ordinamento
centuriato tenendo in considerazione i beni mobili oltre che le proprietà
terriere. Permise, inoltre, agli abitanti humiles di Roma di iscriversi alle
tribù rustiche, che erano precedentemente controllate dai membri
dell'aristocrazia terriera. Di lui si ricorda la grande abilità oratoria:
fu una sua orazione del 280 a.C., in senato, a dissuadere i Romani
dall'accettare le proposte di pace di Pirro. Secondo la testimonianza di
Cicerone, questa orazione fu il primo testo letterario latino ad essere
trascritto e conservato.[10] Per sua iniziativa nel 304 a.C. fu
pubblicato a cura del suo segretario Gneo Flavio il civile ius, il testo delle
formule di procedura civile (legis actiones), chiamato Ius Flavianum e il
calendario in cui erano distinti i dies fasti e dies nefasti. Sarebbe stato
punito con la cecità e l'estinzione della famiglia, per avere ceduto allo stato
romano il diritto di officiare al culto di Ercole[11] tradizionalmente
attribuito ai membri della Gens Potitia.[12] Letteratura Modifica
Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Età
preletteraria latina. A suo nome ci è giunta una raccolta di Sententiae,
massime a carattere moraleggiante e filosofeggiante particolarmente apprezzate
dal filosofo greco Panezio, nel II secolo a.C. Secondo un'informazione fornita
da Cicerone,[13] Appio Claudio avrebbe risentito dell'influenza della dottrina
pitagorica, mentre risulta oggi più probabile che le sue massime siano da
collegarsi ai versi sentenziosi della contemporanea commedia nuova greca.
Nell'opera, di cui ci sono giunti esclusivamente tre frammenti, Appio Claudio
sviluppava argomenti vari di carattere sapienziale; particolarmente importante
risulta la risoluzione che egli propose per alcuni problemi dell'ortografia
latina, quali l'applicazione del rotacismo, ovvero la trasformazione della
"s" intervocalica in "r", e l'abolizione dell'uso della
"z" per indicare la "s" sonora. Risulta probabile che
l'intera opera fosse scritta in versi saturni, come due dei tre frammenti di cui
disponiamo: (LA) «aequi animi compotem esse ne quid fraudis
stuprique ferocia pariat.» (IT) «essere padrone di un animo
equilibrato, affinché la dismisura non provochi danno e disonore.»
(Frammento 1 Morel; trad. di G. Pontiggia.) (LA) «Amicum cum vides
obliviscere miserias; inimicus si es commentus, nec libens aeque.»
(IT) «Quando vedi un amico, dimentichi gli affanni: ma se pensi che ti
sia nemico, non li dimentichi così facilmente.» (Frammento 2 Morel; trad.
di G. Pontiggia.) Il terzo frammento ci è giunto per tradizione indiretta tramite
lo Pseudo Sallustio,[14] e risulta dunque alterato rispetto alla sua forma
originale: (LA) «fabrum esse suae quemque fortunae.»
(IT) «Ciascuno è artefice del proprio destino.» (Frammento 3 Morel;
trad. di G. Pontiggia.) Un'altra opera attribuita all'autore è il De
usurpationibus, risalente al IV secolo a.C. Su questo punto, però, si registra
nella letteratura romanistica un generale scetticismo.[15] Note Modifica
^ Il cognomen era uno dei tria nomina che componevano i nomi di persona nella
Roma antica: il praenomen, cioè quello che oggi chiamiamo primo nome
("Appio"); il nomen, o gentilizio, che identificava la famiglia
(gens) di appartenenza ("Claudio"); e infine il cognomen, che non era
obbligatorio, ma veniva attribuito alle persone in seguito ad atti
significativi compiuti vita, nel qual caso venivano detti cognomina ex virtute:
per esempio, Gneo Marcio venne detto Coriolano per le sue gesta nella guerra
contro Corioli; ovvero, Publio Cornelio Scipione fu detto Africanus perché
sconfisse i cartaginesi in Africa. I cognomina potevano essere attribuiti in
base a determinate caratteristiche di una persona, e Appio Claudio ottenne il
proprio, appunto, dalla sua cecità. ^ Romano Impero: APPIO CLAUDIO CIECO. ^
Clemente, p. 43. ^ Tito Livio, Ab Urbe condita libri, IX, 46. ^ Tito Livio, Ab
Urbe condita, IX, 42. ^ a b Tito Livio, Ab Urbe condita, X, 15. ^ Tito Livio,
Ab Urbe condita, X, 18-20. ^ Tito Livio, Ab Urbe condita, X, 31. ^ Clemente, p.
44. ^ Marco Conti, Letteratura Latina (1a) - Dalle Origini All'Età di Silla,
Sansoni per la scuola, p. 2. ^ Compendio delle antichità romane ossia leggi,
costumi, usanze, e cerimonie dei romani. Compilato per l'istruzione della
gioventù. Traduzione dal francese, G. Miglio, 1817 - 224 pagine, pg 81-82 ^
Tito Livio, I, 7. ^ Tusculanae disputationes, IV, 2, 4. ^ Epistula ad Caesarem,
I, 1, 2: in carminibus Appius ait fabrum esse suae quemque fortunae, nei
carmina Appio dice che ciascuno è artefice del proprio destino. ^ Masiello,
Corso di Storia del Diritto Romano, p. 114. Bibliografia Modifica G. Clemente,
Basi sociali e assetti istituzionali nell'età della conquista in AAVV, Storia
Einaudi dei Greci e dei Romani. Repubblica imperiale. L'età della conquista,
Einaudi, 2008. A. Garzetti, Appio Claudio Cieco nella storia politica del suo
tempo, in Athenaeum, Michel Humm, Appius Claudius Caecus: la République
accomplie, Paris, BEFRA, G. Pontiggia, M.C. Grandi, Letteratura latina. Storia
e testi, Milano, Principato, 1996. Voci correlate Modifica Aqua Appia Via Appia
Appio Claudio (Roma) Marcius Vates Altri progetti Modifica Collabora a
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Rulliano politico romano Terza guerra sannitica conflitto tra Roma e i
Sanniti (298 a.C.- 290 a.C.) Lucio Volumnio Flamma Violente politico e
militare romano Wikipedia Il contenuto
Gride ed Apuleio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza.
He studied in Rome, where he practiced as a lawyer.
Grice ed Aquilino – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza
(Roma). Giulio Aquilino was a philosopher of considerable learning and
eloquence. In Rome, he debated with members of the Accademia of his day,
although it is unclear what his own philosophical views were. He was a close
friend of Marco Cornelio Frontone.
Grice ed Aquino – teoria
dell’intenzione – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roccasecca).
Filosofo italiano. Grice: “Srawson used to joke and call me St. Thomas, as I
rushed to tutor on ‘De interpretatione’ ‘That’s precisely what Aquino did at
Bologna! Can’t the tutee not interpret it by himself?!’” Tommaso d'Aquino
(Roccasecca, 1225 – Abbazia di Fossanova, 7 marzo 1274) è stato un religioso,
teologo, filosofo e accademico italiano. Frate domenicano esponente della
Scolastica, era definito Doctor Angelicus dai suoi contemporanei. È venerato
come santo dalla Chiesa cattolica che dal 1567 lo considera anche dottore della
Chiesa. Tommaso rappresenta uno dei principali pilastri teologici e
filosofici della Chiesa cattolica: egli è anche il punto di raccordo fra la
cristianità e la filosofia classica, che ha i suoi fondamenti e maestri in
Socrate, Platone e Aristotele, e poi passati attraverso il periodo ellenistico,
specialmente in autori come Plotino. Fu allievo di sant'Alberto Magno, che lo
difese quando i compagni lo chiamavano "il bue muto" dicendo: «Ah!
Voi lo chiamate il bue muto! Io vi dico, quando questo bue muggirà, i suoi
muggiti si udranno da un'estremità all'altra della terra!». San Tommaso
d'Aquino San Tommaso d'Aquino e gli angeliSan Tommaso sorretto dagli angeli,
del Guercino Sacerdote e Dottore della Chiesa
Nascita1225 Morte7 marzo 1274 Venerato daChiesa cattolica e Chiesa anglicana
Canonizzazione18 luglio 1323 da Papa Giovanni XXII Santuario principaleChiesa
dei Giacobini Tolosa Ricorrenza28 gennaio; 7 marzo (forma straordinaria)
AttributiAbito domenicano, libro, penna e calamaio, modellino di chiesa, sole
raggiato sul petto, colomba. Patrono diTeologi, accademici, librai, scolari,
studenti, fabbricanti di matite; regione Campania; comune di Aquino,
Grottaminarda, Monte San Giovanni Campano e Priverno; diocesi di
Sora-Cassino-Aquino-Pontecorvo; Belcastro; Falerna; San Mango
d'Aquino. San Tommaso in una vetrata della Cattedrale di Saint-Rombouts,
Mechelen (Belgio). Tommaso dei conti d'Aquino nacque, forse, nel 1225
nella contea di Aquino, territorio dell'odierna Roccasecca, nel Regno di Sicilia
(Sgarbossa). Secondo altre tesi, San Tommaso sarebbe nato a Belcastro; a
sostegno di esse si segnalano quelle di fra' Giovanni Fiore da Cropani, storico
calabrese del XVII secolo, che lo scriveva nella sua opera Della Calabria
illustrata, di Gabriele Barrio nella sua opera De antiquitate et situ Calabriae
e di padre Girolamo Marafioti, teologo dell'ordine dei Minori Osservanti, nella
sua opera Croniche ed antichità di Calabria. Il castello paterno di
Roccasecca rimane comunque ancora oggi il luogo più accreditato della sua
nascita, da Landolfo d'Aquino e da Donna Teodora Galluccio, nobildonna teanese
appartenente al ramo Rossi della famiglia napoletana dei Caracciolo. La sua
data di nascita non è certa, ma è calcolata in maniera approssimativa a partire
da quella della sua morte. Bernardo Gui, ad esempio, afferma che Tommaso è
morto quando aveva compiuto i suoi quarantanove anni e iniziato il suo
cinquantesimo anno. Oppure, in un testo un po' anteriore, Tolomeo da Lucca fa
eco ad un'incertezza: «Egli è morto all'età di 50 anni, ma alcuni dicono 48».
Tuttavia, oggi, sembra che ci sia accordo nel fissare la sua data di nascita
tra il 1224 e il 1226. Da Montecassino a Napoli Secondo le usanze del
tempo Tommaso, essendo il figlio più piccolo, era destinato alla vita
ecclesiastica e proprio per questo a soli cinque anni fu inviato dal padre
Landolfo come oblato nella vicina Abbazia di Montecassino, di cui era abate
Landolfo Sinibaldo, figlio di Rinaldo d'Aquino, per ricevere l'educazione
religiosa e succedere a Sinibaldo in qualità di abate. In ossequio alla regola
benedettina, Landolfo versò un'oblazione di venti once d'oro al monastero
cassinese perchè accettasero il figlio di una nobile famiglia e in tenera età.In
quegli anni l'abbazia si trovava in un periodo di decadenza e costituiva una
preda contesa dal Papa e dall'imperatore. Ma il trattato di San Germano,
concluso tra il Papa Gregorio IX e l'imperatore Federico II il 23 luglio 1230,
inaugurava un periodo di relativa pace ed è proprio allora che si può collocare
l'ingresso di Tommaso nel monastero. In quel luogo Tommaso ricevette i primi
rudimenti delle lettere e fu iniziato alla vita religiosa benedettina. Ma
a partire dal 1236 la calma di cui godeva il monastero fu nuovamente turbata e
Landolfo, consigliato dal nuovo abate, Stefano di Corbario, volle mettere al
riparo il figlio dai disordini e inviò Tommaso, oramai adolescente, a Napoli,
perché potesse seguire degli studi più approfonditi. Così nell'autunno del
1239, a quattordici o quindici anni, Tommaso si iscrisse al nuovo Studium
generale, l'Università degli studi fondata nel 1224 da Federico II per formare
la classe dirigente del suo Impero. Fu proprio a Napoli, dove era stato
fondato un convento, che Tommaso conobbe i Domenicani, ordine in cui entrò a
far parte e in cui fece la sua vestizione nell'aprile del 1244. Ma
l'ingresso di Tommaso presso i Frati predicatori comprometteva definitivamente
i piani dei suoi genitori riguardo al suo futuro incarico di abate di
Montecassino. Così la madre inviò un corriere ai suoi figli, che in quel
periodo stavano guerreggiando nella regione di Acquapendente, perché
intercettassero il loro fratello e glielo conducessero. Essi, accompagnati da
un piccolo drappello, catturarono facilmente il giovane religioso, lo fecero
salire su di un cavallo e lo condussero al Castello di Monte San Giovanni
Campano, un castello di famiglia ove fu tenuto prigioniero per due anni. Qui
tutta la famiglia tentò di far cambiare idea a Tommaso, ma inutilmente.
Tuttavia bisogna precisare che egli non fu né maltrattato né rinchiuso in
qualche prigione, si trattava piuttosto di un soggiorno obbligato, in cui
Tommaso poteva entrare e uscire a piacimento e anche ricevere visite. Ma
prendendo atto che Tommaso era ben saldo nella sua risoluzione, la sua famiglia
lo restituì al convento di Napoli nell'estate del 1245. Ciò avvenne in
occasione del Concilio di Lione del 17 luglio 1245, allorché papa Innocenzo IV
ufficializzò la deposizione dell'imperatore Federico II di Svevia. Gli studi a Parigi
e a Colonia Beato Angelico: San Tommaso d'Aquino Dipinto del Velazquez I
Domenicani di Napoli ritennero che non fosse sicuro trattenere presso di loro
il novizio e lo inviarono a Roma dove si trovava il maestro dell'Ordine,
Giovanni Teutonico, il quale stava per partire alla volta di Parigi, dove si
sarebbe celebrato il Capitolo generale del 1246. Egli accolse Tommaso
inviandolo prima a Parigi e poi a Colonia, dove c'era un fiorente Studium
generale sotto la direzione di fra Alberto (il futuro sant'Alberto Magno),
maestro in teologia, il quale era ritenuto sapiente in tutti i campi del
sapere. Al seguito di Giovanni Teutonico, si sarebbe dunque messo in
viaggio per Parigi e vi avrebbe trascorso tre anni scolastici. Qui potrebbe
aver studiato le arti, sia in facoltà che in convento. Partì per Colonia con
fra' Alberto, presso il quale continuò il suo studio della teologia e il suo
lavoro di assistente. Il soggiorno di Tommaso a Colonia, al contrario di quello
a Parigi, non è mai stato messo in dubbio, poiché è ben testimoniato dalle
fonti. Il capitolo generale dei Domenicani riunito a Parigi decise la creazione
di uno studium generale a Colonia, città nella quale esisteva già un convento domenicano
fondato da fra' Enrico, compagno di Giordano di Sassonia. L'incarico di
insegnare venne affidato a fra Alberto, la cui reputazione in quel periodo era
già notevole. Questo soggiorno a Colonia costituì una tappa decisiva nella vita
di Tommaso. Per quattro anni, dai 23 ai 27 anni, Tommaso poté assimilare
profondamente il pensiero di Alberto. Un esempio di questa influenza lo
troviamo nell'opera nota con il nome di Tabula libri Ethicorum, la quale si
presenta come un lessico le cui definizioni sono molto spesso delle citazioni
quasi letterali di Alberto. Il primo periodo di insegnamento a Parigi. Chiesa
dei domenicani di Friesach: San Tommaso e papa Urbano V e il dogma della
transustanziazione Quando il Maestro Generale dei Domenicani domandò ad Alberto
di indicargli un giovane teologo che potesse essere nominato baccelliere per
insegnare a Parigi, Alberto gli propose Tommaso che stimava sufficientemente
preparato in scientia et vita. Sembra che Giovanni Teutonico abbia esitato per
via della giovane età del prescelto, 27 anni, perché secondo gli statuti
dell'Università egli avrebbe dovuto averne 29 per poter assumere canonicamente
quest'impegno. Fu grazie alla mediazione del cardinale Ugo di Saint-Cher che la
richiesta di Alberto fu esaudita e Tommaso ricevette quindi l'ordine di recarsi
subito a Parigi e di prepararsi a insegnare. Egli iniziò il suo insegnamento
come baccelliere nel settembre di quello stesso anno, cioè del 1252, sotto la
responsabilità del maestro Elia Brunet de Bergerac che occupava il posto
lasciato vacante a causa della partenza di Alberto. A Parigi Tommaso
trovò un clima intellettuale meno tranquillo di quello di Colonia. Ancora era
vietato commentare i libri di Aristotele, ma durante la prima parte del
soggiorno di Tommaso, la Facoltà delle Arti avrebbe finalmente ottenuto il
permesso di insegnare pubblicamente tutti i libri del grande filosofo
greco. Fu nuovamente in Italia, impegnato nell'insegnamento e negli
scritti teologici: fu prima assegnato a Orvieto, come lettore, vale a dire
responsabile per la formazione continua della comunità. Qui ebbe il tempo per
completare la stesura della Summa contra Gentiles e della Expositio super Iob
ad litteram. Inoltre qui Tommaso, che non conosceva direttamente il greco in
maniera sufficiente a leggere i testi di Aristotele in originale, si poté
avvalere dell'opera di traduzione di un confratello, Guglielmo di Moerbeke,
eccellente grecista. Guglielmo rifece o rivide le traduzioni delle opere di
Aristotele e pure dei principali commentatori greci (Temistio, Ammonio,
Proclo). Alcune fonti riportano addirittura che Guglielmo avrebbe tradotto
Aristotele dietro richiesta (ad istantiam) di Tommaso stesso. Il contributo di
Guglielmo, anche lui in Italia come Tommaso dopo il 1260, fornì a Tommaso un
prezioso apporto che gli permise di redigere le prime parti dei Commenti alle
opere di Aristotele, spesso validi ancora oggi per la comprensione e
discussione del testo aristotelico. Soggiornò a Roma come maestro reggente. Nel
febbraio 1265 il neoeletto papa Clemente IV lo convocò a Roma come teologo
pontificio. Nello stesso anno gli fu ordinato dal Capitolo domenicano di Agnani
di insegnare allo studium conventuale del convento romano della Basilica di
Santa Sabina, fondato alcuni anni prima. Lo studium di Santa Sabina diviene un
esperimento per i domenicani, il primo studium provinciale dell'Ordine, una
scuola intermedia tra lo studium conventuale e lo studium generale. Prima di
allora la Provincia romana non offriva una formazione specializzata di alcun
tipo, solo semplici scuole conventuali, con i loro corsi di base di teologia
per i frati residenti. Il nuovo studium provinciale di Santa Sabina divenne la
scuola più avanzata per la provincia. Durante il suo soggiorno romano, Tommaso
cominciò a scrivere la Summa Theologiae e compilò numerosi altri scritti su
varie questioni economiche, canoniche e morali. Durante questo periodo, ebbe
l'opportunità di lavorare con la corte papale (che non era residente a Roma). Nel
secondo periodo di insegnamento a Parigi, la sua occupazione principale fu
l'insegnamento della Sacra Pagina e proprio a questo periodo risalgono alcune
delle sue opere più celebri, come i commenti alla Scrittura e le Questioni
Disputate. Anche se i commenti al Nuovo Testamento restano il cuore della sua
attività, egli si segnala anche per la varietà della sua produzione, come ad
esempio la scrittura di diversi brevi scritti (come ad esempio il De Mixtione
elementorum, il De motu cordis, il De operationibus occultis naturae...) e per
la partecipazione alle problematiche del suo tempo: che si tratti di secolari o
dell'averroismo vediamo Tommaso impegnato su tutti i fronti. A questa
multiforme attività bisogna aggiungere un ultimo tratto: Tommaso è anche il
commentatore di Aristotele. Tra queste opere ricordiamo: l' Expositio libri
Peri ermenias, l' Expositio libri Posteriorum, la Sententia libri Ethicorum, la
Tabula libri Ethicorum, il Commento alla Fisica e alla Metafisica. Vi sono poi
anche delle opere incompiute, come la Sententia libri Politicorum, il De Caelo
et Mundo, il De Generatione et corruptione, il Super Meteora. Gli ultimi
anni e la morte Ritratto di Tommaso ad opera di Fra Bartolomeo Fu quindi
richiamato in Italia a Firenze per il Capitolo generale dell'Ordine dei
Domenicani[8], secondo dopo quello del 1251[9]. Lascia definitivamente Parigi e
poco dopo la Pentecoste di quello stesso anno il capitolo della provincia
domenicana di Roma gli affidò il compito di organizzare uno Studium generale di
teologia, lasciandolo libero di scegliere il luogo, le persone e il numero
degli studenti. Ma la scelta di Napoli era già stata designata da un precedente
capitolo provinciale ed è anche verosimile che Carlo I d'Angiò abbia fatto
pressione perché venisse scelta la sua capitale come sede e che a capo di
questo nuovo centro di teologia venisse insediato un maestro di fama. Tommaso
D'Aquino abitò per oltre un anno San Domenico Maggiore nell'ultimo periodo
della sua vita, lasciandovi scritti e reliquie[10]. Gli fu offerto
l'arcivescovado di Napoli, che non volle mai accettare, continuando a vivere in
povertà, dedito allo studio e alla preghiera. Durante gli ultimi anni del
periodo napoletano, continuò a procurarsi testi filosofici che leggeva e
commentava con cura, disputandone i contenuti con i suoi confratelli e
studenti. Si dedicò anche alle opere scientifiche di Aristotele relative ai
fenomeni atmosferici e ai terremoti, cercando di procurarsi testi sulla
costruzione degli acquedotti e la possibilità di applicazione della geometria
alle costruzioni, commentando le traduzioni di testi greci e arabi in
latino. La famiglia D'aquino era in rapporti con Federico II di Svevia
che aveva istituzionalizzato la Scuola Medica Salernitana, primo centro di
fruizione culturale degli scritti medici e filosofici di Avicenna e Averroè,
noti al Dottore Angelico. Stabilendosi presso la sorella Teodora al Castello
dei Sanseverino[13], tenne una serie di lezioni straordinarie nella celebre
Scuola Medica che aveva sollecitato l'onore ed il decoro della parola
dell'Aquinate[8]. A memoria del suo soggiorno, nella Chiesa di San Domenico si
conservano la reliquia del suo braccio e le spoglie delle sorelle. Partecipò al
capitolo della sua provincia a Roma in qualità di definitore. Ma alcune
settimane più tardi, mentre celebrava la Messa nella cappella di San Nicola,
Tommaso ebbe una sorprendente visione tanto che dopo la messa non scrisse, non
dettò più nulla e anzi si sbarazzò persino degli strumenti per scrivere. A
Reginaldo da Piperno, che non comprendeva ciò che accadeva, Tommaso rispose
dicendo: «Non posso più. Tutto ciò che ho scritto mi sembra paglia in confronto
con quanto ho visto». «San Bonaventura, entrato nello studio di Tommaso
mentre scriveva, vide la colomba dello Spirito accanto al suo volto. Ultimato
il trattato sull'Eucaristia, lo depose sull'altare davanti al crocifisso per
ricevere dal Signore un segno. Subito fu sollevato da terra e udì le parole:
Bene scripsisti, Thoma, de me quam ergo mercedem accipies? E rispose Non aliam
nisi te, Domine. Anche Paolo fu rapito al terzo cielo, e poi Antonio e tutta
una serie di santi fino a Caterina; il volo, il levarsi in aria indica la
vicinanza con il cielo e con Dio, con archetipo nelle figure di Enoch e
Elia.» (Il piccolo Tommaso e l'"appetito" per i libri in
L'Osservatore Romano, 28 gennaio 2010. Tommaso e il socius si misero in viaggio
per partecipare al Concilio che Gregorio X aveva convocato per il 1º maggio
1274 a Lione. Dopo qualche giorno di viaggio arrivarono al castello di Maenza,
dove abitava sua nipote Francesca. È qui che si ammalò e perse del tutto
l'appetito. Dopo qualche giorno, sentendosi un po' meglio, tentò di riprendere
il cammino verso Roma, ma dovette fermarsi all'abbazia di Fossanova per
riprendere le forze. Tommaso rimase a Fossanova per qualche tempo e tra il 4 e
il 5 marzo, dopo essersi confessato da Reginaldo, ricevette l'eucaristia e
pronunciò, com'era consuetudine, la professione di fede eucaristica. Il giorno
successivo ricevette l'unzione dei malati, rispondendo alle preghiere del rito.
Morì di lì a tre giorni, mercoledì 7 marzo 1274, alle prime ore del mattino
dopo aver ricevuto l'Eucaristia. Le spoglie di Tommaso d'Aquino sono conservate
nella chiesa domenicana detta Les Jacobins a Tolosa. La reliquia della mano
destra, invece, si trova a Salerno, nella chiesa di San Domenico; il suo cranio
si trova invece nella concattedrale di Priverno, mentre la costola del cuore
nella Basilica concattedrale di Aquino. Il pensiero di Tommaso San
Tommaso d'Aquino, ritratto di Carlo Crivelli Per Tommaso l'anima è creata
"a immagine e somiglianza di Dio" (come dice la Genesi), unica,
immateriale (priva di volume, peso ed estensione), forma del corpo e non
localizzata in un punto particolare di esso, trascendente come Dio e come lui
in una dimensione al di fuori dello spazio e del tempo in cui sono il corpo e
gli altri enti. L'anima è tota in toto corpore, contenuta interamente in ogni
parte del corpo, e in questo senso legata ad esso indissolubilmente: si veda,
sul tema, la questione 76 della Prima Parte della Summa theologiae, questione
dedicata appunto al rapporto tra anima e corpo. Secondo Tommaso: «Ciò che
si accetta per fede sulla base della rivelazione divina non può essere
contrario alla conoscenza naturale... Dio non può indurre nell'uomo un'opinione
o una fede contro la conoscenza naturale... tutti gli argomenti contro la fede
non procedono rettamente dai primi principii per sé noti.» (Tommaso
d'Aquino, Summa contra Gentiles, I, 7.) Nella filosofia tomista Dio è descritto
con le seguenti proprietà:[senza fonte] massimo grado possibile di ogni
qualità (che è, è stata o possa essere fra gli enti), fra queste: sommo amore e
sommo bene immutabile, semplice e indivisibile: è da sempre e per sempre uguale
a sé stesso, a lui nulla manca e in lui nulla cambia. eterno: non nasce e non
muore, vive da sempre e per sempre infinito in atto (non infinito potenziale):
non ha limite-confine di tempo o di spazio onnisciente unico: nessuno, nemmeno
Dio può creare un altro Dio onnipotente: ma non può perpetrare il male e non
può creare un altro Dio per sé: non riceve la vita o altre proprietà da alcuno,
poteva esistere senza gli enti da lui creati, che perciò non nascono come parte
di lui e non sono Dio. trascendente: Dio non è un ente qualunque tra gli altri
enti, la differenza tra Dio e gli altri enti è una differenza quantitativa,
vale a dire stesse qualità ma in un minore grado di completezza e perfezione.
Gli enti creati, fra cui gli angeli e l'uomo, in infiniti gradi a lui somigliano,
sono come Dio, ma non sono Dio: non hanno una parte fisica dell'essere per
essenza, poiché l'essere è semplice, senza parti e indivisibile. Questo essere
(inteso da S.Tommaso come "Ipsum esse subsistens") ha molte proprietà
in comune con l'essere della filosofia greca, così come lo definì Parmenide:
uno e unico, semplice e indivisibile, infinito ed eterno, onnisciente. La
differenza sostanziale però consiste nel fatto che crea gli enti, è più grande
della somma di essi, e può esistere senza. Anche nell'ultima forma del pensiero
greco, quello di Plotino, troviamo che l'emanazione dall'essere agli enti è un
fatto eterno, ma anche necessario e reversibile, non una libera scelta
dell'assoluto, che avrebbe potuto non manifestarsi. Il concetto di creazione
("produzione dal nulla") è peraltro estraneo alla filosofia greca ed
è proprio del pensiero giudaico-cristiano. Se la trascendenza nega il
panteismo, la personalità di Dio nega a sua volta il deismo (che sarà proprio
degli Illuministi): trascendenza ed essere per sé non significano lontananza
inarrivabile. Gli uomini non nascono, ma hanno la possibilità di diventare
parte integrante di Dio e, già in questa esistenza terrena, di identificare la
propria vita con la vita del creatore. In modo identico, si può dire che
l'essere per san Tommaso non è solo l'essere comune o la piattaforma di tutto
ciò che esiste, ma è l’esse ut actus inteso come atto puro che perfeziona ogni
altra perfezione (essenza, sostanza, forma). Dio è atto puro, puro da ogni potenza,
limite e imperfezione. Quando l'essere è mischiato o ricevuto in una potenza,
allora è atto misto ed è ente finito. Tommaso fonda la sua concezione
metafisica sul concetto di Analogia, rielaborando in maniera molto originale il
pensiero aristotelico. Le cinque vie per dimostrare l'esistenza di Dio
San Tommaso distinse tre forme di conoscenza umana in relazione all'ente e al
suo Creatore: an sit ("se sia"), quomodo sit ("in che modo
sia"), quid sit ("che cosa sia"). La conoscenza umana di Dio è
possibile soltanto in merito alla Sua esistenza e ad un quomodo sit negativo,
nel quale la mente umana procede ad analizzare il creato sensibile, e, per
analogia e differenza, identifica tutte le qualità dell'ente che non possono
essere proprie di Dio Creatore, pur essendone l'opera. Tale percorso fu
chiamato via negationis (o anche ' via remotionis) ordinata al fine di
descrivere il quomodo non sit("in che modo non sia") di Dio. Esso è
effetto della grazia divina ed è possibile soltanto perché il Creatore decide
liberamente di rivelarSi all'uomo, conducendolo per mano da una serie di
negazioni delle qualità dell'ente colte con i cinque sensi fino a pervenire ad
un'affermazione intelligibile e positiva di Lui. L'autore delle Cinque
Vie, infine, escluse che la dimostrazione razionale dell'esistenza e unicità di
Dio potesse rivelare all'uomo anche la Sua vera essenza, quel qui sit che
rimane un mistero accessibile soltanto alla virtù ed è ritenuto un limite
esterno per il dominio possibile della ragione. La conoscenza teologica può
essere soltanto indiretta, relativa agli effetti della causa prima e del fine ultimo
sulla Sua creazione. Molti pensatori cristiani hanno elaborato diversi percorsi
razionali per cercare di dimostrare l'esistenza di Dio: mentre Anselmo d'Aosta,
sulla scia neoplatonica di Agostino d'Ippona procedeva sia a simultaneo, cioè
dal concetto stesso di Dio, da lui ritenuto id quo maius cogitari nequit (nel
Proslogion, cap.2.3), sia a posteriori (nel Monologion) per dimostrare
l'esistenza di Dio, l'unico modo per arrivarci, secondo Tommaso, consiste nel
procedere a posteriori: partendo cioè dagli effetti, dall'esperienza sensibile,
che è la prima a cadere sotto i nostri sensi, per dedurne razionalmente la sua
Causa prima. Si tratta di quella che chiama demonstratio quia, cioè, appunto
dagli effetti, il cui risultato è ammettere necessariamente che esista il punto
d'arrivo della dimostrazione, anche se non è pienamente intelligibile, come in
questo caso, ed in altri, il perché (demonstratio quid, es. i sillogismi: le
premesse esprimono proprietà che sono cause della conclusione: «Ogni uomo è
mortale; ogni ateniese è uomo; ogni ateniese è mortale": essere uomo e
mortale è necessaria causa della mortalità di ogni ateniese)» Sulla base
di questo sfondo di pensiero Tommaso espone le sue prove dell'esistenza di Dio,
Tutte e cinque, con alcune variazioni, seguono questa struttura. Constatazione
di un fatto in rerum natura, nell'esperienza sensibile ordinaria (movimento
inteso come trasformazione; causalità efficiente subordinata; inizio e fine
dell'esistenza degli esseri generabili e corruttibili, perciò materiali,
contingenti nel suo vocabolario, che quindi possono essere e non essere;
gradualità degli esseri nelle perfezioni trascendentali, come bontà, verità,
nobiltà ed essere stesso; finalità nei processi degli esseri non
intelligenti); 2) analisi metafisica di quel dato iniziale esperenziale
alla luce del principio metafisico di causalità, enunciato in varie
formulazioni ("Tutto ciò che si muove è mosso da un altro"; "È
impossibile che una cosa sia causa efficiente di sé stessa"; "Ora, è
impossibile che tutte di tal natura siano state sempre, perché ciò che può non
essere un tempo non esisteva"; "Ma il grado maggiore o minore si attribuiscono
alle diverse cose secondo che si accostano di più o di meno a qualcosa di sommo
o di assoluto"; "Ora, ciò che è privo di intelligenza non tende al
fine se non perché è diretto da un essere conoscitivo e
intelligente"); 3) impossibilità di un regressus in infinitum inteso
in senso metafisico, non quantitativo, perché ciò renderebbe inintelligibile,
inspiegabile pienamente il dato di fatto di partenza esistente ("Ora, non
si può in tal modo procedere all'infinito, perché altrimenti non vi sarebbe un
primo motore, e di conseguenza nessun altro motore..."; "Ma procedere
all'infinito nelle cause efficienti equivale ad eliminare la prima causa
efficiente; e così non avremmo neppure l'effetto ultimo, né le cause
intermedie..."; "Dunque non tutti gli esseri sono contingenti, ma
bisogna che nella realtà ci sia qualcosa di necessario. Ora, tutto ciò che è
necessario, o ha la causa della sua necessità in un altro essere oppure no.
D'altra parte [in questo genere di esseri] non si può procedere
all'infinito..."; questo passaggio manca, per la sua evidenza agli occhi
dell'Aquinate manca nella quarta via e nella quinta via, si passa direttamente
alla conclusione; 4) conclusione deduttiva strettamente razionale (senza
nessuna cogenza di fede) che identifica il 'conosciuto' sotto quel determinato
aspetto con quello "che tutti chiamano Dio", o espressioni simili
("Dunque è necessario arrivare ad un primo motore che non sia mosso da
altri; e tutti riconoscono che esso è Dio"; "Dunque bisogna ammettere
una prima causa efficiente, che tutti chiamano Dio"; "Dunque bisogna
concludere all'esistenza di un essere che sia di per sé necessario e non tragga
da altri la propria necessità, ma sia causa di necessità agli altri. E questo
tutti dicono Dio"; "Ora ciò che è massimo in un dato genere è causa
di tutti gli appartenenti a quel genere, come il fuoco, caldo al massimo, è
causa di ogni calore, come dice lo stesso Aristotele. Dunque vi è qualcosa che
per tutti gli enti è causa dell'essere, della bontà e di qualsiasi perfezione.
E questo chiamiamo Dio"; "Vi è dunque un qualche essere intelligente,
dal quale tutte le cose naturali sono ordinate ad un fine: e quest'essere
chiamiamo Dio". I cinque percorsi indicati da San Tommaso sono: Ex
motu et mutatione rerum (tutto ciò che si muove esige un movente primo perché,
come insegna Aristotele nella Metafisica: "Non si può andare all'infinito
nella ricerca di un primo motore"); Ex ordine causarum efficientium (cioè
"dalla causa efficiente", intesa in senso subordinato, non in senso
coordinato nel tempo. Tommaso non è, per sola ragione, in grado di escludere la
durata indefinita nel tempo di un mondo creato da Dio, la cosiddetta creatio ab
aeterno: ogni essere finito, partecipato, dipende nell'essere da un altro detto
causa; necessità di una causa prima incausata); Ex rerum contingentia (cioè
"dalla contingenza". Nella terminologia di Tommaso la generabilità e
corruttibilità sono prese come segno evidente della possibilità di essere e non
essere legata alla materialità, sinonimo, nel suo vocabolario di "contingenza",
ben diverso dall'uso più comune, legato ad una terminologia avicenniana, dove
"contingente" è qualsiasi realtà che non sia Dio. Tommaso, in questa
argomentazione della Summa Theologiae distingue attentamente il necessario
dipendente da altro (anima umana e angeli) e necessario assoluto (Dio).
L'esistenza di esseri generabili e corruttibili è in sé insufficiente
metafisicamente, rimanda ad esseri necessari, dapprima dipendenti da altro,
quindi ad un essere assolutamente necessario); Ex variis gradibus perfectionis
(le cose hanno diversi gradi di perfezioni, intese in senso trascendentale,
come verità, bontà, nobiltà ed essere, sebbene sia usato un 'banale' esempio
fisico legato al fuoco e al calore; ma solo un grado massimo di perfezione
rende possibile, in quanto causa, i gradi intermedi); Ex rerum gubernatione
(cioè "dal governo delle cose": le azioni di realtà non intelligenti
nell'universo sono ordinate secondo uno scopo, quindi, non essendo in loro
quest'intelligenza, ci deve essere un'intelligenza ultima che le ordina così).
Kant, pur ammettendo l'esistenza di Dio come postulato della ragion pratica,
ritiene che l'esistenza di Dio sia indimostrabile da un punto di vista
teoretico-speculativo: nella Dialettica trascendentale della Critica della
ragion pura, Kant ha contestato tali dimostrazioni, pur non prendendo in realtà
in considerazione direttamente le cinque "vie" di San Tommaso, ma le
prove dell'esistenza di Dio nella filosofia leibniziano-wollfiana. La critica
kantiana si rivolge infatti alla: 1) prova ontologica; 2) prova cosmologica e
3) prova fisico-teologica. Se per quanto riguarda almeno nelle conclusioni sia
S.Tommaso, sia Kant sono concordi nel rifiutare la prova ontologica, per quanto
riguarda la prova cosmologica e quella fisico- teologica, Kant critica queste
due prove (a cui si possono ridurre le cinque "vie tomistiche), in quanto
sarebbero legate ad un'estensione indebita dell'uso della ragione (nel suo uso
teoretico-speculativo), i cui concetti razionali, cioè le idee, sono vuote. Solo
l'intuizione empirica infatti potrebbe ovviare a ciò: per questo motivo l'idea
di Dio è assolutamente non verificabile tramite la ragione, superando i limiti
dell'esperienza possibile. Processo conoscitivo. Tommaso, affermava che la
conoscenza dell'essere umano, in quanto dotato di un corpo creato da Dio, muove
sempre dall'universo immanente, sensibile e corporeo nella direzione
dell'universo trascendente, intellegibile (invisibile) e incorporeo. In tale
aspetto, si differenziò da sant'Agostino, che pensava che questa avvenisse
tramite l'illuminazione divina.[senza fonte] Agostino sostenne che la
sorgente del sapere e dell'essere è la stessa, Dio Creatore dell'universo, e
che quindi i due piani dell'essere e del sapere non possono cadere in
contraddizione l'uno con l'altro. Senza negare Agostino[senza fonte], San
Tommaso aggiunse che il corpo umano deve poter essere capace di conoscere il
creato mediante la sua mente e i suoi sensi, poiché l'uomo non soltanto è una
creatura di Dio, ma più di ogni altro vivente è l'unico creato a immagine e
somiglianza della mente e del Suo corpo umano-divino di Dio Padre e di Gesù,
Suo Figlio. Tommaso aggiunse che i due piani dell'essere e del sapere sono tra
loro comunicanti: infatti, le Cinque Vie dimostrarono che dall'essere della
natura corporea è possibile giungere a conoscere e dimostrare la possibilità,
la realtà e la necessità dell'esistenza e dell'unicità di Dio. Prima
ancora di questo, mediante ogni conoscenza (anche scientifica[senza fonte]) del
creato, Tommaso riuscì a raggiungere il dono e il raro privilegio della visione
del Corpo del Cristo risorto e del dialogo personale con Lui, il giorno della
ricorrenza di San Nicola, poco tempo prima di completare la Summa theologica e
di morire. Ciò non significa che Tommaso disconoscesse il pensiero di
sant'Agostino, che è invece citato a più riprese nella Summa Theologica', e che
fu dichiarato Dottore della Chiesa nel 1298, dopo la morte dell'Aquinate.
La conoscenza degli universali però appartiene solo alle intelligenze
angeliche; noi, invece, conosciamo gli universali post-rem, ossia li ricaviamo
dalla realtà sensibile. Soltanto Dio conosce ante rem. La conoscenza è,
quindi, un processo di adeguamento dell'anima o dell'intelletto e della cosa,
secondo una formula che dà ragione del sofisticato aristotelismo di Tommaso. Veritas:
Adaequatio intellectus ad rem. Adaequatio rei ad intellectum. Adaequatio
intellectus et rei.» «Verità: Adeguamento dell'intelletto alla cosa.
Adeguamento della cosa all'intelletto. Adeguamento dell'intelletto e della
cosa.» (Tommaso d'Aquino) La creazione secondo Tommaso Tommaso spiega che
l'uomo può stabilire a partire dalla ragione il rapporto creaturale di
dipendenza dell'universo da Dio ovvero la creatio ex nihilo intesa come totale
dipendenza dell'essere creato, anche quello sostanziale, dall'Essere
divino[26]. Ciò che la sola ragione non può stabilire è se il mondo è eterno o
se è stato creato nel tempo ovvero se ha un cominciamento. La verità della
seconda alternativa (la creazione con un inizio temporale) può essere
conosciuta, secondo Tommaso, solamente per fede a partire dalla rivelazione
divina. Dio, creando l'uomo, fornisce l'esistenza all'uomo secondo una dinamica
simile a quella di atto e potenza, e lo rende quindi ente reale, fornito di esistenza
(che è propriamente definita da Tommaso actus essendi oltre che di essenza.
Soltanto in Dio, atto puro, essenza ed esistenza coincidono. Il rapporto tra
Dio (necessario) e la creatura (contingente) è analogico in un solo senso: le
creature sono simili a Dio. Il rapporto è di somiglianza non univoca né
equivoca. Secondo Tommaso tutti gli enti sono buoni, poiché somigliano a Dio:
"bonum" è uno dei tre trascendenti (o trascendentali), ovvero di
caratteri applicabili a ogni ente e perciò trascendenti le categorie di
Aristotele. Gli altri due sono "unum" e "verum".
Nelle opere di Tommaso l'universo (o cosmo) ha una struttura rigorosamente
gerarchica[senza fonte]: posto al vertice da Dio che viene posto come al di là
della fisicità, governa da solo il mondo al di sopra di tutte le cose e gli
enti; al di sotto di Dio troviamo gli angeli (forme pure e immateriali), ai
quali Tommaso attribuisce la definizione di intelligenze motrici dei cieli
anch'esse ordinate gerarchicamente tra di loro; poi un gradino più in basso
troviamo l'uomo, posto al confine tra il mondo delle sostanze spirituali e il
regno della corporeità, in ogni uomo infatti si ha l'unione del corpo (elemento
materiale) con l'anima intellettiva (ovvero la forma, che secondo Tommaso
costituisce l'ultimo grado delle intelligenze angeliche): l'uomo è l'unico ente
che fa parte sia del mondo fisico, sia del mondo spirituale. Tommaso crede che
la conoscenza umana cominci con i sensi: l'uomo, non avendo il grado di
intelligenza degli angeli, non è in grado di apprendere direttamente gli
intelligibili, ma può apprendere solamente attribuendo alle cose una forma e
quindi solamente grazie all'esperienza sensibile. Un'altra facoltà
necessaria che caratterizza l'uomo è la sua tendenza a realizzare pienamente la
propria natura ovvero compiere ciò per cui è stato creato[senza fonte]. Ciascun
uomo infatti corrisponde all'idea divina su cui è modellato, di cui l'uomo è
consapevole e razionale, conscio delle proprie finalità, alle quali si dirige
volontariamente avvalendosi dell'uso dell'intelletto: l'uomo prende le proprie
decisioni sulla base di un ragionamento pratico, attraverso il quale tra due
beni sceglie sempre quello più consono al raggiungimento del suo fine. Nel fare
ciò segue la Legge naturale, che è scritta nel cuore dell'uomo. La legge
naturale, che è un riflesso della Legge eterna, deve essere il fondamento della
Legge positiva, cioè l'insieme delle norme che gli uomini stabiliscono
storicamente in un dato tempo ed in un dato luogo. Al di sotto dell'uomo
troviamo le piante e le varie molteplicità degli elementi. Concezione
della donna Sacra conversazione di Monticelli (Ghirlandaio, XV secolo)
Tommaso riprende e cita, nella prima parte della Summa theologiae, alle
questioni 92 e 99, l'affermazione di Aristotele (De generatione et corruptione
2,3) per cui la donna sarebbe un uomo mancato (mas occasionatus). L'aquinate
afferma che "rispetto alla natura particolare la femmina è un essere
difettoso e manchevole" (I, 92, 1). «Infatti la virtù attiva racchiusa
nel seme del maschio tende a produrre un essere perfetto simile a sé, di sesso
maschile, e il fatto che ne derivi una femmina può dipendere dalla debolezza
della virtù attiva, o da un'indisposizione della materia, o da una
trasmutazione causata dal di fuori, per esempio dai venti australi, che sono
umidi, come dice il filosofo.» Ma aggiunge: «Rispetto invece alla natura
nella sua universalità, la femmina non è un essere mancato, ma è espressamente
voluto in ordine alla generazione. Ora, l'ordinamento della natura nella sua
universalità dipende da Dio, il quale è l'autore universale della natura.
Quindi, nel creare la natura, egli produsse non solo il maschio, ma anche la
femmina 2. Ci sono due specie di sudditanza. La prima, servile, è quella per
cui chi è a capo si serve dei sottoposti per il proprio interesse: e tale
dipendenza sopravvenne dopo il peccato. Ma vi è una seconda sudditanza,
economica o politica, in forza della quale chi è a capo si serve dei sottoposti
per il loro interesse e per il loro bene. E tale sudditanza ci sarebbe stata
anche prima del peccato, poiché senza il governo dei più saggi sarebbe mancato
il bene dell'ordine nella società umana. E in questa sudditanza la donna è
naturalmente soggetta all'uomo: poiché l'uomo ha per natura un più vigoroso
discernimento razionale.» (Somma teologica, I, 92, 1, ad 1) «la diversità
dei sessi rientra nella perfezione della natura umana» (Somma teologica,
I, 99, 2, ad 1.) Importanza ed eredità Magnifying glass icon mgx2.svgTomismo.
Tommaso disputa con Averroè Trionfo di san Tommaso, di Lippo Memmi
Trionfo di san Tommaso, di Benozzo Gozzoli San Tommaso fu uno dei pensatori più
eminenti della filosofia Scolastica, che verso la metà del XIII secolo aveva
raggiunto il suo apice. Egli indirizzò diversi aspetti della filosofia del
tempo: la questione del rapporto tra fede e ragione, le tesi sull'anima (in
contrapposizione ad Averroè), le questioni sull'autorità della religione e
della teologia, che subordina ogni campo della conoscenza. Tali punti
fermi del suo pensiero furono difesi da diversi suoi seguaci successivi, tra i
quali Reginaldo da Piperno, Tolomeo da Lucca, Giovanni di Napoli, il domenicano
francese Giovanni Capreolus e Antonino di Firenze. Infine però, con la lenta
dissoluzione della Scolastica, si ebbe parallelamente anche la dissoluzione del
Tomismo, col conseguente prevalere di un indirizzo di pensiero nominalista nel
successivo sviluppo della filosofia, e una progressiva sfiducia nelle
possibilità metafisiche della ragione, che indurrà Lutero a giudicare
quest'ultima «cieca, sorda, stolta, empia e sacrilega».[30] Oggigiorno il
pensiero di Tommaso d'Aquino trova ampio consenso anche in ambienti non
cattolici (studiosi protestanti statunitensi, ad esempio) e perfino non cristiani,
grazie al suo metodo di lavoro, fortemente razionale e aperto a fonti e
contributi di ogni genere: la sua indagine intellettuale procede dalla Bibbia
agli autori pagani, dagli ebrei ai musulmani, senza alcun pregiudizio, ma
tenendo sempre il suo centro nella Rivelazione cristiana, alla quale ogni
cultura, dottrina o autore antico faceva capo.[senza fonte] Il suo operato
culmina nella Summa Theologiae (cioè "Il complesso di teologia"), in
cui tratta in maniera sistematica il rapporto fede-ragione e altre grandi
questioni teologiche. Agostino vedeva il rapporto fede-ragione come un
circolo ermeneutico (dal greco ermeneuo, cioè "interpreto") in cui
credo ut intelligam et intelligo ut credam (ossia "credo per comprendere e
comprendo per credere"). Tommaso porta la fede su un piano superiore alla
ragione, affermando che dove la ragione e la filosofia non possono proseguire
inizia il campo della fede e il lavoro della teologia.[senza fonte] Dunque,
fede e ragione sono certamente in circolo ermeneutico e crescono insieme sia in
filosofia che in teologia. Mentre però la filosofia parte da dati
dell'esperienza sensibile o razionale, la teologia inizia il circolo con i dati
della fede, su cui ragiona per credere con maggiore consapevolezza ai misteri
rivelati. La ragione, ammettendo di non poterli dimostrare, riconosce che essi,
pur essendo al di sopra di sé, non sono mai assurdi o contro la ragione stessa:
fede e ragione, sono entrambe dono di Dio e non possono contraddirsi. Questa
posizione esalta ovviamente la ricerca umana: ogni verità che io posso scoprire
non minaccerà mai la Rivelazione anzi, rafforzerà la mia conoscenza complessiva
dell'opera di Dio e della Parola di Cristo. Si vede qui un esempio tipico della
fiducia che nel Medioevo si riponeva nella ragione umana. Nel XIV secolo queste
certezze andranno in crisi, coinvolgendo l'intero impianto culturale del
periodo precedente. La teologia, in ambito puramente speculativo,
rispetto alla tradizione classica, era considerata una forma inferiore di
sapere, poiché usava in prestito gli strumenti della filosofia, ma Tommaso fa
notare, citando Aristotele, che anche la filosofia non può dimostrare tutto,
perché sarebbe un processo all'infinito. Egli distingue due tipi di scienze:
quelle che esaminano i propri principi e quelle che ricevono i principi da
altre scienze. L'ideale, per uno spirito concreto come Tommaso, sarebbe
superare la fede e raggiungere la conoscenza ma, sui misteri fondamentali della
Rivelazione, questo non è possibile nella vita terrena del corpo. Avverrà nella
vita eterna dello spirito. La filosofia è dunque ancilla theologiae e
regina scientiarum, prima fra i saperi delle scienze. Il primato del sapere
teologico non è nel metodo, ma nei contenuti divini che affronta, per i quali è
sacrificabile anche la necessità filosofica. Il punto di discrimine fra
filosofia e teologia è la dimostrazione dell'esistenza di Dio; dei due misteri
fondamentali della Fede (Trinitario e Cristologico), la ragione può dimostrare
solamente il primo, l'esistenza di Dio, mentre non può dimostrare che questo
Dio è necessariamente Trinitario. Ciò non è un paradosso razionale, perché da
una premessa falsa non possono che derivare nel sillogismo conseguenze false, è
più semplicemente qualcosa che la ragione non può spiegare: un Dio Uno e Trino.
Il maggior servizio che la ragione può fare alla fede è che non è possibile
nemmeno dimostrare il contrario, che Dio non è Trinitario, che la negazione non
dimostrabile della Trinità a sua volta porta conseguenze paradossali e
contraddittorie, laddove invece la Sua affermazione per fede è feconda di
verità e conseguenze non contraddittorie. La ragione non può entrare nella
parte storica dei misteri religiosi, può mostrare solo prove storiche che tal
"profeta" è esistito, ma non che era Dio, e il senso della Sua
missione, che è appunto un dato, un fatto a cui si può credere o meno. Il
primato della teologia verrà fortemente discusso nei secoli successivi, ma sarà
anche lo studio praticato da tutti i filosofi cristiani nel Medioevo e oltre,
tant'è che Pascal fece la sua famosa "scommessa" ancora nel XVII
secolo. La teologia era questione sentita dal popolo nelle sacre
rappresentazioni, era il mondo dei medioevali e degli zelanti studenti che
attraversavano a piedi le paludi di Francia per ascoltare le lectiones
dell'Aquinate nella prestigiosa Università della Sorbonne di Parigi,
incontrandosi da tutta Europa. Gli storici della filosofia richiamano
l'attenzione anche sulla prevalenza dell'intelletto rispetto ad una prevalenza
della volontà nella vita intellettuale/spirituale dell'uomo. La prima è seguita
da San Tommaso e dalla sua scuola, mentre l'altra è propria di San Bonaventura
e della scuola francescana. Per Tommaso il fine supremo è "vedere
Dio", mentre per Bonaventura fine ultimo dell'uomo è "amare
Dio". Quindi per Tommaso la categoria più alta è "il vero",
mentre per Bonaventura è "il bene". Per ambedue però, "il
vero" è anche "il bene", e "il bene" è anche "il
vero". Il pensiero di Tommaso ebbe influenza anche su autori non
cristiani, a cominciare dal famoso pensatore ebreo Hillel da Verona. A
partire dal secondo Novecento poi il suo pensiero viene ripreso nel dibattito
etico da autori cattolici e non, quali Gertrude Elizabeth Margaret Anscombe,
Alasdair MacIntyre, Philippa Ruth Foot e Jacques Maritain. Culto Fu
canonizzato nel 1323 da papa Giovanni XXII. La sua memoria viene celebrata
dalla Chiesa cattolica il 28 gennaio; la stessa, nella Forma straordinaria, lo
ricorda il 7 marzo. La Chiesa luterana lo ricorda l'8 marzo. San Tommaso
d'Aquino è patrono dei teologi, degli accademici, dei librai e degli studenti.
È patrono della città e della diocesi privernate e della Città e della diocesi
aquinate. L'11 aprile 1567 papa Pio V lo dichiarò dottore della Chiesa
con la bolla Mirabilis Deus. Il 29 giugno 1923, nel VI centenario della
canonizzazione, papa Pio XI gli dedicò l'enciclica Studiorum Ducem.
L'enciclica Aeterni Patris di papa Leone XIII ricorda san Tommaso come il più
illustre esponente della Scolastica. Gli statuti dei Benedettini, degli
Carmelitani, degli Agostiniani, della Compagnia di Gesù dispongono
l'obbligatorietà dello studio e della messa in pratica delle dottrine di
Tommaso, del quale l'enciclica afferma: «Per la verità, sopra tutti i
Dottori Scolastici, emerge come duce e maestro San Tommaso d’Aquino, il quale,
come avverte il cardinale Gaetano, “perché tenne in somma venerazione gli
antichi sacri dottori, per questo ebbe in sorte, in certo qual modo,
l’intelligenza di tutti”. Le loro dottrine, come membra dello stesso corpo
sparse qua e là, raccolse Tommaso e ne compose un tutto; le dispose con ordine
meraviglioso, e le accrebbe con grandi aggiunte, così da meritare di essere
stimato singolare presidio ed onore della Chiesa Cattolica. Clemente VI, Nicolò
V, Benedetto XIII ed altri attestano che tutta la Chiesa viene illustrata dalle
sue meravigliose dottrine; San Pio V poi confessa che mercé la stessa dottrina
le eresie, vinte e confuse, si disperdono come nebbia, e che tutto il mondo si
salva ogni giorno per merito suo dalla peste degli errori. Altri, con Clemente
XII, affermano che dagli scritti di lui sono pervenuti a tutta la Chiesa
copiosissimi beni, e che a lui è dovuto quello stesso onore che si rende ai
sommi Dottori della Chiesa Gregorio, Ambrogio, Agostino e Girolamo. Altri,
infine, non dubitarono di proporlo alle Accademie e ai grandi Licei quale
esempio e maestro da seguire a piè sicuro. A conferma di questo Ci sembrano
degnissime di essere ricordate le seguenti parole del Beato Urbano V
all’Accademia di Tolosa: “Vogliamo, e in forza delle presenti vi imponiamo, che
seguiate la dottrina del Beato Tommaso come veridica e cattolica, e che vi
studiate con tutte le forze di ampliarla”. Successivamente innocenzo XII, nella
Università di Lovanio, e Benedetto XIV, nel Collegio Dionisiano presso Granata,
rinnovarono l’esempio di Urbano.» (Enciclica Aeterni Patris[31]) Opere di
San Tommaso Sintesi teologiche Scriptum super libros Sententiarum Summa contra
Gentiles Summa Theologiae Questioni disputate Quaestiones disputatae de
Veritate Quaestiones disputatae De potentia Quaestio disputata De anima
Quaestio disputata De spiritualibus creaturis Quaestiones disputatae De malo
Quaestiones disputatae De uirtutibus Quaestio disputata De unione uerbi
incarnati Quaestiones de Quodlibet I-XII Commenti biblici Expositio super
Isaiam ad litteram Super Ieremiam et Threnos Principium “Rigans montes de
superioribus” et “Hic est liber mandatorum Dei” Expositio super Iob ad litteram
Glossa continua super Evangelia (Catena Aurea) Lectura super Mattheum Lectura
super Ioannem Expositio et Lectura super Epistolas Pauli Apostoli Postilla
super Psalmos Commenti ad Aristotele Sententia Libri De anima Sententia
Libri De sensu et sensato Sententia super Physicam Sententia super Meteora
Expositio Libri Peryermenias Expositio Libri Posteriorum Sententia Libri
Ethicorum Tabula Libri Ethicorum Sententia Libri Politicorum Sententia super
Metaphysicam Sententia super Librum De caelo et mundo Sententia super Libros De
generatione et corruptione Super libros de generatione et corruptione
Altri commenti Super Boetium De Trinitate Expositio Libri Boetii De ebdomadibus
Super Librum Dionysii De divinis nomibus Super Librum De Causis Scritti
polemici Contra impugnantes Dei cultum et religionem De perfectione spiritualis
vitae Contra doctrinam retrahentium a religione De unitate intellectus contra
Avveroistas De aeternitate mundi Trattati De ente et essentia De
principiis naturae Compendium theologiae seu brevis compilatio theologiae ad
fratrem Raynaldum De regno ad regem Cypri De substantiis separatis
Lettere e pareri De emptione et venditione ad tempus Contra errores Graecorum
De rationibus fidei ad Cantorem Antiochenum Expositio super primam et secundam
Decretalem ad Archidiaconum Tudertinum De articulis fidei et ecclesiae
sacramentis ad archiepiscopum Panormitanum Responsio ad magistrum Ioannem de
Vercellis de 108 articulis De forma absolutionis De secreto Liber De sortibus
ad dominum Iacobum de Tonengo Responsiones ad lectorem Venetum de 30 et 36
articulis Responsio ad magistrum Ioannem de Vercellis de 43 articulis Responsio
ad lectorem Bisuntinum de 6 articulis Epistola ad ducissam Brabantiae De
mixtione elementorum ad magistrum Philippum de Castro Caeli De motu cordis ad
magistrum Philippum de Castro Caeli De operationibus occultis naturae ad
quendam militem ultramontanum De iudiciis astrorum Epistola ad Bernardum
abbatem casinensem Opere liturgiche, prediche, preghiere Officium de
festo Corporis Christi ad mandatum Urbani Papae Inno Adoro te devote
Collationes in decem precepta Collationes in orationem dominicam in Symbolum
Apostolorum in salutationem angelicam. Traduzioni italiane Lo specchio
dell'anima, La sentenza di Tommaso d'Aquino sul "De anima" di
Aristotele, Traduzione e testo latino a fronte, Ed. San Paolo, Milano 2012. (È
tradotto anche il testo dell'Aristotele latino). Catena aurea, Glossa continua
super Evangelia vol. 1, Matteo, Bologna, Matteo, Bologna, Marco, Bologna 2007
Commento ai Libri di Boezio, Super Boetium De Trinitate, Expositio Libri Boetii
De Ebdomadibus, Bologna, Commento ai Nomi Divini di Dionigi, Super Librum
Dionysii de Divinis Nominibus vol. 1, Bologna 2004 vol. 2, (comprende anche De
ente et essentia), Bologna, 2004 Commento al Corpus Paulinum, Expositio et
lectura super Epistolas Pauli Apostoli vol. 1, Romani, Bologna 2004 vol. 2, 1
Corinzi, Bologna 2004 vol. 3, 2 Corinzi, Galati, Bologna, 2004 vol. 4, Efesini,
Filippesi, Colossesi, Bologna, 2004 vol. 5, Tessalonicesi, Timoteo, Tito,
Filemone, Bologna, Ebrei, Bologna, Commento al Libro di Giobbe, Bologna, 1995
Commento all'Etica Nicomachea di Aristotele, Sententia Libri Ethicorum, in 2
volumi, Bologna, 1998 Commento alla Fisica di Aristotele, Sententia super
Physicorum vol. 1, Bologna, 2004 vol. 2, Bologna, 2004 vol. 3, Bologna, 2005
Commento alla Metafisica di Aristotele, Sententia super Metaphysicorum vol. 1,
Bologna, Bologna, 2005 vol. 3, Bologna, 2005 Commento alla Politica di
Aristotele, Sententia Libri Politicorum, Bologna, Commento alle Sentenze di
Pietro Lombardo, Scriptum super Libros Sententiarum in 10 volumi, Bologna, Ed.
ESD, 2002 Compendio di teologia, Compendium theologiae, Bologna, I Sermoni e le
due Lezioni inaugurali, Bologna, 2003 La conoscenza sensibile, Commenti ai
libri di Aristotele: Il senso e il sensibile; La memoria e la reminiscenza,
Bologna, La perfezione cristiana nella vita consacrata, Bologna, 1995 De
venerabili sacramentu altaris, Bologna, 1996 La Somma contro i Gentili, Summa
contra Gentiles vol. 1, (traduzione Tito Centi), Bologna (traduzione Tito
Centi), Bologna, 2001 vol. 3, (traduzione Tito Centi), Bologna, 2001 La Somma
Teologica, Summa Theologiae, in 35 volumi La Somma Teologica, Summa Theologiae,
in 6 volumi, Bologna, Ed. ESD Le Questioni Disputate, Quaestiones Disputatae vol.
1, La Verità, Bologna, 1992 vol. 2, La Verità, Bologna, 1992 vol. 3, La Verità,
Bologna, 1993 vol. 4, L'anima umana, Bologna, 2001 vol. 5, Le virtù, Bologna,
2002 vol. 6, Il male, Bologna, Il male, Bologna, La potenza divina, Bologna, La potenza divina,
Bologna, Questioni su argomenti vari, Bologna, Questioni su argomenti vari,
Bologna, Logica dell'enunciazione, Commento al libro di Aristotele Peri
Hermeneias, Expositio Libri Peryermenias, Bologna, Opuscoli politici: Il
governo dei principi, Lettera alla duchessa del Brabante, La dilazione nella
compravendita, Bologna, Opuscoli spirituali: Commenti al Credo, Padre Nostro,
Ave Maria, Dieci Comandamenti, Ufficio e Messa per la Festa del Corpus Domini,
Le preghiere di san Tommaso, Lettera a uno studente, Bologna, Pagine di
Filosofia: I principi della natura, De principiis naturae ad fratrem
Silvestrum, sola trad. it., e antologia ragionata e commentata di altri brani
filosofici di antropologia, gnoseologia, teologia naturale, etica, politica e
pedagogia. Inni eucaristici A Tommaso d'Aquino sono classicamente attribuiti
gli inni eucaristici per la solennità del Corpus Domini, usati per secoli in
occasione dell'adorazione eucaristica. Gli inni sono stati confermati nella
liturgia solenne dal Concilio Vaticano II: Adoro te devote Pange lingua,
che contiene al termine il Tantum ergo sacramentum Sacris sollemniis Verbum supernum
prodiens Note Napoli A.N. Rossi, Delle
dissertazioni di Alessio Niccolo Rossi intorno ad alcune materie alla citta di
Napoli appartenenti, Pasquale Cayro, Storia sacra e profana d'Aquino e sua
diocesi del signor D. Pasquale Cayro, patrizio anagnino, Vincenzo Orsino,
1808,348. Ferante della Marra, Discorsi
delle famiglie estinte, forastiere o non comprese ne' seggi di Napoli
imparentate colla casa della Marra. Composti dal signor Ferrante della Marra
duca della Guardia, dati in luce da Camillo Tutini, Ottavio Beltrano, Jean-Pierre
Torrell, O. P., Amico della verità: vita e opere di Tommaso d'Aquino, Edizioni
Studio Domenicano, Fino a pochi anni fa gli storici avevano dei dubbi sulla
veridicità del soggiorno di Tommaso a Parigi nel periodo immediatamente
successivo a quello in cui la sua famiglia lo restituì all'Ordine. Dallo studio
delle fonti, Walz-Novarina concludono che il viaggio di Tommaso in compagnia di
Giovanni Teutonico «... senza essere certo, può considerarsi probabile... », ma
erano più riservati circa la questione degli studi a Parigi. Grandi eruditi
come Denifle e De Groot si associano a questa opinione, ma altri come
Mandonnet, Chenu e Glorieux, osservano che il viaggio a Parigi non avrebbe
avuto alcun senso se Tommaso non avesse dovuto svolgervi i suoi studi, questo
perché lo studium generale di Colonia non era funzionante prima del 1248, data
della sua apertura dovuta a fra Alberto al momento del suo ritorno in questa
città. Sofia Vanni Rovighi, Introduzione
a Tommaso d'Aquino, Roma-Bari, Laterza, Aristotele, Etica Nicomachea, a cura di
Marcello Zanatta, traduzione di Marcello Zanatta, vol. 1, 8. ed, Milano,
Rizzoli, Astrid Filangieri, La vita e le Opere di San Tommaso d'Aquino. Storia
dell'Ordine Domenicano a Firenze, su fiorentininelmondo.La cella di San Tommaso
a San Domenico Maggiore (Napoli). G. Bosco, Storia ecclesiastica ad uso della
gioventù utile ad ogni grado di persone, Torino, Libreria Salesiana Editore, con
l'approvazione del card. Lorenzo Gastaldi, arcivescovo di Torino Filmato audio Luca Bianchi, Onorato Grassi e
Costantino Esposito, Tommaso e la sua eredità - il pensiero che nasce
dall'esperienza, Centro Culturale di Milano,
«Non è vero che alcuni traduttori
lavorassero al suo servizio, come Guglielmo di Moerbeke». (v. 1h 14'). Premio letterario internazionale San Tommaso
d’Aquino, sabato 4 a Mercato San Severino., su gazzettadisalerno, Mercato San
Severino (SA), Convento di San Domenico a Salerno, oggi caserma, su salernodavedere.
Sandra Isetta, Il piccolo Tommaso e l'"appetito" per i libri, in
L'Osservatore Romano. Jean-Pierre Torrell, Amico della verità,392 Quaestio 76 della Parte I della Summa
Theologiae di San Tommaso d'Aquino. A cura di Marcello Landi Massimo
Adinolfi, Francesco Paolo Adorno, Francesco Berto, Massimo Cacciari, Piero
Coda, Carmela Covino, Adriano Fabris, Franco Ferrari, Ernesto Forcellino, Carlo
Sini, Luigi Vero Tarca, Vincenzo Vitiello, La conoscenza di Dio tra remotio e
revelatio nella "Summa theologiae" di San Tommaso D'Aquino, in Il
Pensiero. Rivista di filosifia, XLVI, Inschibboleth Edizioni, S. Th. I, q.2, a.2, c. e luoghi paralleli nei
commenti aristotelici Cf. Summa
Theologiae, Iª q. 2 a. 3 Cf. Summa
Theologiae, pars I, quaestio 2 articolo 3.
Immanuel Kant, Critica della ragion pura, Laterza, Leo Elders, The
Philosophical Theology of St. Thomas Aquinas, E.J. Brill, When St. Thomas
Aquinas had a foretaste of heaven on St. Nicholas’ feast day, su
lifesitenews.com, Cf. Quaestio disputata de anima, a. 3 ad 1; Summa Theologiae,
Iª q. 16 aa. 1-2. Sofia Vanni Rovighi,
Introduzione a Tommaso d'Aquino, Roma-Bari, Laterza, Summa contra gentiles, libro II, 31-37 e Summa
theologiae, pars I quaestio 46 La Somma
Teologica. Sola trad. italiana: Volume 1 - Prima Parte, Edizioni Studio Domenicano,
«Né prima né dopo, si è pensato con tanta precisione, con tanta intima
sicurezza logica, quanto nell'epoca dell'alta Scolastica. L'essenziale è che
allora il puro pensiero si svolgeva con matematica sicurezza di idea in idea,
di giudizio in giudizio, di conclusione in conclusione» (Rudolf Steiner, La
filosofia di Tommaso d'Aquino, II, Opera Omnia, 74). Steiner aggiungeva che «il
nominalismo è il padre di tutto lo scetticismo moderno» (conferenza del marzo
1908, cit. in Posizione dell'antroposofia nei confronti della filosofia, O.O.,
108). Martin Lutero, Servo arbitrio, WA
51, 126. Encilica Aeterni Patris, su
vatican.va. (o la traduzione similare qui riportata. Heinrich Fries, Georg Kretschmar (a cura di),
I classici della teologia, Jaca Book, 2005,978-88-16-30402-4. Annotazioni Nella Sala del Tesoro di San Domenico
Maggiore è conservato un arazzo raffigurante il Carro del Sole, parte delle
Storie ed alle Virtù di san Tommaso d’Aquino, donato ai domenicani da Vincenza
Maria d’Aquino Pico Bibliografia Tommaso d'Aquino, Super libros de generatione
et corruptione, Jacques Myt, Jacques Giunta. Thomas Aquinas; Richard J. Regan,
Compendium of theology Oxford University Press. Aimé Forest, Saint Thomas d'Aquin,Mellottée,
Le Ragioni del Tomismo dopo il centenario dell'enciclica "Aeterni
Patris", Ares, Milano, Maria Cristina Bartolomei, Tomismo e Principio di
non contraddizione, Milani, Padova, 1973 Giuseppe Barzaghi, La Somma Teologica
di San Tommaso d'Aquino, in Compendio. Edizioni Studio Domenicano, Bologna,
2009 Inos Biffi, La teologia e un teologo. San Tommaso d'Aquino, Edizioni
Piemme, Casale Monferrato (AL), [ Krzysztof Charamsa, Dispensa introduttiva
“Trinità di San Tommaso”, Pontificio Ateneo Regina Apostolorum - Facoltà di
Teologia, 2006. Marie-Dominique Chenu, Introduzione allo studio di S. Tommaso
d'Aquino, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, Gilbert Keith Chesterton,
Tommaso d'Aquino, Guida Editori, Napoli, Piero Coda, Contemplare e condividere
la luce di Dio: la missione della Teo-logia in Tommaso d'Aquino, Città Nuova,
Roma, 2014 Marco D'Avenia, La Conoscenza per Connaturalità, Edizioni Studio
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nozione metafisica di partecipazione secondo S. Tommaso d'Aquino, S.E.I.,
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San Tommaso d'Aquino, Milano, Jaca Book 2011 Marcello Landi, Un contributo allo
studio della scienza nel Medio Evo. Il trattato Il cielo e il mondo di Giovanni
Buridano e un confronto con alcune posizioni di Tommaso d'Aquino, in Divus
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correlate Corpus Domini Dio, essere e ragione in Tommaso d'Aquino Ebraismo e
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et Essentia, su ariannascuola.eu. Traduzione italiana del De Ente et essentia
in formato epub, su ledizioni. Traduzione parziale della Lettera alla Duchessa
di Brabante, sui rapporti con gli Ebrei (PDF), su digilander.libero. Diego
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catechismo di san Tommaso d'Aquino, su lettereadioealluomo.com (summa di 5 opere, con l'imprimatur di Mons.
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Tommaso, su mondodomani.org. Scheda su san Tommaso a cura di Marcello Landi, su
lgxserver.uniba (archiviato dall'url originale il 25 novembre 2005). Le cinque
vie di Tommaso, su ariannascuola.eu. V · D · M Padri e dottori della Chiesa
cattolica V · D · M Famiglia domenicana. ·Biografie Portale Biografie
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del XIII secoloNati nel 1225Morti nel 1274Morti il 7 marzoNati a
RoccaseccaTommaso d'AquinoAccademici italianiProfessori dell'Università di
ParigiDottori della Chiesa cattolicaFilosofi cattoliciFilosofi della
politicaDomenicani italianiScolasticiSanti italiani del XIII secoloSanti
canonizzati da Giovanni XXIISanti domenicaniSanti per nomePersonaggi citati
nella Divina Commedia (Paradiso)Studenti dell'Università degli Studi di Napoli
Federico IIScrittori medievali in lingua latinaTomismoSanti incorrotti[altre] “Perhaps the Italian most studied at
Oxford!”Grice. Aquino and intentionalityClarkArmini -- aquinokeyword: “medieval pragmatics”! -- thomism, the theology
and philosophy of Thomas Aquinas. The term is applied broadly to various
thinkers from different periods who were heavily influenced by Aquinas’s
thought in their own philosophizing and theologizing. Here three different eras
and three different groups of thinkers will be distinguished: those who
supported Aquinas’s thought in the fifty years or so following his death in
1274; certain highly skilled interpreters and commentators who flourished
during the period of “Second Thomism” sixteenthseventeenth centuries; and
various late nineteenth- and twentieth-century thinkers who have been deeply
influenced in their own work by Aquinas. Thirteenth- and fourteenth-century
Thomism. Although Aquinas’s genius was recognized by many during his own
lifetime, a number of his views were immediately contested by other Scholastic
thinkers. Controversies ranged, e.g., over his defense of only one substantial
form in human beings; his claim that prime matter is purely potential and
cannot, therefore, be kept in existence without some substantial form, even by
divine power; his emphasis on the role of the human intellect in the act of
choice; his espousal of a real distinction betweeen the soul and its powers;
and his defense of some kind of objective or “real” rather than a merely
mind-dependent composition of essence and act of existing esse in creatures.
Some of Aquinas’s positions were included directly or indirectly in the 219
propositions condemned by Bishop Stephen Tempier of Paris in 1277, and his
defense of one single substantial form in man was condemned by Archbishop
Robert Kilwardby at Oxford in 1277, with renewed prohibitions by his successor
as archbishop of Canterbury, John Peckham, in 1284 and 1286. Only after
Aquinas’s canonization in 1323 were the Paris prohibitions revoked insofar as
they touched on his teaching in 1325. Even within his own Dominican order,
disagreement about some of his views developed within the first decades after
his death, notwithstanding the order’s highly sympathetic espousal of his cause.
Early English Dominican defenders of his general views included William Hothum
d.1298, Richard Knapwell d.c.1288, Robert Orford b. after 1250, fl.129095,
Thomas Sutton d. c. and William Macclesfield, Dominican Thomists included
Bernard of Trilia d.1292, Giles of Lessines in present-day Belgium d.c.1304?,
John Quidort of Paris d. 1306, Bernard of Auvergne d. after 1307, Hervé Nédélec
d.1323, Armand of Bellevue fl. 131634, and William Peter Godin d.1336. The
secular master at Paris, Peter of Auvergne d. 1304, while remaining very
independent in his own views, knew Aquinas’s thought well and completed some of
his commentaries on Aristotle. Sixteenth- and seventeenth-century Thomism.
Sometimes known as the period of Second Thomism, this revival gained impetus
from the early fifteenth-century writer John Capreolus 13801444 in his Defenses
of Thomas’s Theology Defensiones theologiae Divi Thomae, a commentary on the
Sentences. A number of fifteenth-century Dominican and secular teachers in G.
universities also contributed: Kaspar Grunwald Freiburg; Cornelius Sneek and
John Stoppe in Rostock; Leonard of Brixental Vienna; Gerard of Heerenberg,
Lambert of Heerenberg, and John Versor all at Cologne; Gerhard of Elten; and in
Belgium Denis the Carthusian. Outstanding among various sixteenth-century
commentators on Thomas were Tommaso de Vio Cardinal Cajetan, Francis Sylvester
of Ferrara, Francisco de Vitoria Salamanca, and Francisco’s disciples Domingo
de Soto and Melchior Cano. Most important among early seventeenth-century
Thomists was John of St. Thomas, who lectured at Piacenza, Madrid, and Alcalá,
and is best known for his Cursus philosophicus and his Cursus theologicus.
Theravada Buddhism Thomism 916 916 The
nineteenth- and twentieth-century revival. By the early to mid-nineteenth
century the study of Aquinas had been largely abandoned outside Dominican
circles, and in most Roman Catholic s and seminaries a kind of Cartesian and
Suarezian Scholasticism was taught. Long before he became Pope Leo XIII,
Joachim Pecci and his brother Joseph had taken steps to introduce the teaching
of Thomistic philosophy at the diocesan seminary at Perugia in 1846. Earlier
efforts in this direction had been made by Vincenzo Buzzetti, by Buzzetti’s
students Serafino and Domenico Sordi, and by Taparelli d’Aglezio, who became
director of the Collegio Romano Gregorian
in 1824. Leo’s encyclical Aeterni Patris1879 marked an official effort
on the part of the Roman Catholic church to foster the study of the philosophy
and theology of Thomas Aquinas. The intent was to draw upon Aquinas’s original
writings in order to prepare students of philosophy and theology to deal with
problems raised by contemporary thought. The Leonine Commission was established
to publish a critical edition of all of Aquinas’s writings; this effort
continues today. Important centers of Thomistic studies developed, such as the
Higher Institute of Philosophy at Louvain founded by Cardinal Mercier, the
Dominican School of Saulchoir in France, and the Pontifical Institute of
Mediaeval Studies in Toronto. Different groups of Roman, Belgian, and Jesuits acknowledged a deep indebtedness to
Aquinas for their personal philosophical reflections. There was also a
concentration of effort in the United States at universities such as The
Catholic of America, St. Louis, Notre
Dame, Fordham, Marquette, and Boston, to mention but a few, and by the
Dominicans at River Forest. A great weakness of many of the nineteenthand
twentieth-century Latin manuals produced during this effort was a lack of
historical sensitivity and expertise, which resulted in an unreal and highly
abstract presentation of an “Aristotelian-Thomistic” philosophy. This weakness
was largely offset by the development of solid historical research both in the
thought of Aquinas and in medieval philosophy and theology in general,
championed by scholars such as H. Denifle, M. De Wulf, M. GrabmannMandonnet, F.
Van Steenberghen, E. Gilson and many of his students at Toronto, and by a host
of more recent and contemporary scholars. Much of this historical work
continues today both within and without Catholic scholarly circles. At the same
time, remarkable diversity in interpreting Aquinas’s thought has emerged on the
part of many twentieth-century scholars. Witness, e.g., the heavy influence of
Cajetan and John of St. Thomas on the Thomism of Maritain; the much more
historically grounded approaches developed in quite different ways by Gilson
and F. Van Steenberghen; the emphasis on the metaphysics of participation in
Aquinas in the very different presentations by L. Geiger and C. Fabro; the
emphasis on existence esse promoted by Gilson and many others but resisted by
still other interpreters; the movement known as Transcendental Thomism,
originally inspired byRousselot and by J. Marechal in dialogue with Kant; and
the long controversy about the appropriateness of describing Thomas’s
philosophy and that of other medievals as a Christian philosophy. An increasing
number of non-Catholic thinkers are currently directing considerable attention
to Aquinas, and the varying backgrounds they bring to his texts will
undoubtedly result in still other interesting interpretations and applications
of his thought to contemporary concerns.
: --a strange genitive for
“Aquino,” the little village where the saint was born. while Grice, being C. of
E., would avoid Aquinas like the rats, he was aware of Aquinas’s clever
‘intention-based semantics’ in his commentary of Aristotle’s De
Interpretatione. Thomas,
philosopher-theologian, the most influential thinker of the medieval period. He
produced a powerful philosophical synthesis that combined Aristotelian and
Neoplatonic elements within a Christian context in an original and ingenious
way. Life and works. Thomas was born at Aquino castle in Roccasecca, Italy, and
took early schooling at the Benedictine Abbey of Monte Cassino. He then studied
liberal arts and philosophy at the of
Naples 123944 and joined the Dominican order. While going to Paris for further
studies as a Dominican, he was detained by his family for about a year. Upon
being released, he studied with the Dominicans at Paris, perhaps privately,
until 1248, when he journeyed to a priori argument Aquinas, Saint Thomas 36 36 Cologne to work under Albertus Magnus.
Thomas’s own report reportatio of Albertus’s lectures on the Divine Names of
Dionysius and his notes on Albertus’s lectures on Aristotle’s Ethics date from
this period. In 1252 Thomas returned to Paris to lecture there as a bachelor in
theology. His resulting commentary on the Sentences of Peter Lombard dates from
this period, as do two philosophical treatises, On Being and Essence De ente et
essentia and On the Principles of Nature De principiis naturae. In 1256 he
began lecturing as master of theology at Paris. From this period 125659 date a
series of scriptural commentaries, the disputations On Truth De veritate,
Quodlibetal Questions VIIXI, and earlier parts of the Summa against the
Gentiles Summa contra gentiles; hereafter SCG. At different locations in Italy
from 1259 to 1269, Thomas continued to write prodigiously, including, among
other works, the completion of the SCG; a commentary on the Divine Names;
disputations On the Power of God De potentia Dei and On Evil De malo; and Summa
of Theology Summa theologiae; hereafter ST, Part I. In January 1269, he resumed
teaching in Paris as regent master and wrote extensively until returning to
Italy in 1272. From this second Parisian regency date the disputations On the
Soul De anima and On Virtues De virtutibus; continuation of ST; Quodlibets IVI
and XII; On the Unity of the Intellect against the Averroists De unitate
intellectus contra Averroistas; most if not all of his commentaries on
Aristotle; a commentary on the Book of Causes Liber de causis; and On the
Eternity of the World De aeternitate mundi. In 1272 Thomas returned to Italy
where he lectured on theology at Naples and continued to write until December
6, 1273, when his scholarly work ceased. He died three months later en route to
the Second Council of Lyons. Doctrine. Aquinas was both a philosopher and a
theologian. The greater part of his writings are theological, but there are
many strictly philosophical works within his corpus, such as On Being and
Essence, On the Principles of Nature, On the Eternity of the World, and the
commentaries on Aristotle and on the Book of Causes. Also important are large
sections of strictly philosophical writing incorporated into theological works
such as the SCG, ST, and various disputations. Aquinas clearly distinguishes
between strictly philosophical investigation and theological investigation. If
philosophy is based on the light of natural reason, theology sacra doctrina
presupposes faith in divine revelation. While the natural light of reason is
insufficient to discover things that can be made known to human beings only
through revelation, e.g., belief in the Trinity, Thomas holds that it is
impossible for those things revealed to us by God through faith to be opposed
to those we can discover by using human reason. For then one or the other would
have to be false; and since both come to us from God, God himself would be the
author of falsity, something Thomas rejects as abhorrent. Hence it is
appropriate for the theologian to use philosophical reasoning in theologizing.
Aquinas also distinguishes between the orders to be followed by the theologian
and by the philosopher. In theology one reasons from belief in God and his
revelation to the implications of this for created reality. In philosophy one
begins with an investigation of created reality insofar as this can be
understood by human reason and then seeks to arrive at some knowledge of divine
reality viewed as the cause of created reality and the end or goal of one’s
philosophical inquiry SCG II, c. 4. This means that the order Aquinas follows
in his theological Summae SCG and ST is not the same as that which he
prescribes for the philosopher cf. Prooemium to Commentary on the Metaphysics.
Also underlying much of Aquinas’s thought is his acceptance of the difference
between theoretical or speculative philosophy including natural philosophy,
mathematics, and metaphysics and practical philosophy. Being and analogy. For
Aquinas the highest part of philosophy is metaphysics, the science of being as
being. The subject of this science is not God, but being, viewed without
restriction to any given kind of being, or simply as being Prooemium to
Commentary on Metaphysics; In de trinitate, qu. 5, a. 4. The metaphysician does
not enjoy a direct vision of God in this life, but can reason to knowledge of
him by moving from created effects to awareness of him as their uncreated
cause. God is therefore not the subject of metaphysics, nor is he included in
its subject. God can be studied by the metaphysician only indirectly, as the
cause of the finite beings that fall under being as being, the subject of the
science. In order to account for the human intellect’s discovery of being as
being, in contrast with being as mobile studied by natural philosophy or being
as quantified studied by mathematics, Thomas appeals to a special kind of
intellectual operation, a negative judgment, technically named by him
“separation.” Through this operation one discovers that being, in order to be
realized as such, need not be material and changAquinas, Saint Thomas Aquinas,
Saint Thomas 37 37 ing. Only as a
result of this judgment is one justified in studying being as being. Following
Aristotle and Averroes, Thomas is convinced that the term ‘being’ is used in
various ways and with different meanings. Yet these different usages are not
unrelated and do enjoy an underlying unity sufficient for being as being to be
the subject of a single science. On the level of finite being Thomas adopts and
adapts Aristotle’s theory of unity by reference to a first order of being. For
Thomas as for Aristotle this unity is guaranteed by the primary referent in our
predication of being substance. Other
things are named being only because they are in some way ordered to and
dependent on substance, the primary instance of being. Hence being is
analogous. Since Thomas’s application of analogy to the divine names
presupposes the existence of God, we shall first examine his discussion of that
issue. The existence of God and the “five ways.” Thomas holds that unaided
human reason, i.e., philosophical reason, can demonstrate that God exists, that
he is one, etc., by reasoning from effect to cause De trinitate, qu. 2, a. 3;
SCG I, c. 4. Best-known among his many presentations of argumentation for God’s
existence are the “five ways.” Perhaps even more interesting for today’s
student of his metaphysics is a brief argument developed in one of his first
writings, On Being and Essence c.4. There he wishes to determine how essence is
realized in what he terms “separate substances,” i.e., the soul, intelligences
angels of the Christian tradition, and the first cause God. After criticizing
the view that created separate substances are composed of matter and form,
Aquinas counters that they are not entirely free from composition. They are
composed of a form or essence and an act of existing esse. He immediately
develops a complex argument: 1 We can think of an essence or quiddity without
knowing whether or not it actually exists. Therefore in such entities essence
and act of existing differ unless 2 there is a thing whose quiddity and act of
existing are identical. At best there can be only one such being, he continues,
by eliminating multiplication of such an entity either through the addition of
some difference or through the reception of its form in different instances of
matter. Hence, any such being can only be separate and unreceived esse, whereas
esse in all else is received in something else, i.e., essence. 3 Since esse in
all other entities is therefore distinct from essence or quiddity, existence is
communicated to such beings by something else, i.e., they are caused. Since
that which exists through something else must be traced back to that which
exists of itself, there must be some thing that causes the existence of everything
else and that is identical with its act of existing. Otherwise one would
regress to infinity in caused causes of existence, which Thomas here dismisses
as unacceptable. In qu. 2, a. 1 of ST I Thomas rejects the claim that God’s
existence is self-evident to us in this life, and in a. 2 maintains that God’s
existence can be demonstrated by reasoning from knowledge of an existing effect
to knowledge of God as the cause required for that effect to exist. The first
way or argument art. 3 rests upon the fact that various things in our world of
sense experience are moved. But whatever is moved is moved by something else.
To justify this, Thomas reasons that to be moved is to be reduced from
potentiality to actuality, and that nothing can reduce itself from potency to
act; for it would then have to be in potency if it is to be moved and in act at
the same time and in the same respect. This does not mean that a mover must
formally possess the act it is to communicate to something else if it is to
move the latter; it must at least possess it virtually, i.e., have the power to
communicate it. Whatever is moved, therefore, must be moved by something else.
One cannot regress to infinity with moved movers, for then there would be no
first mover and, consequently, no other mover; for second movers do not move
unless they are moved by a first mover. One must, therefore, conclude to the
existence of a first mover which is moved by nothing else, and this “everyone
understands to be God.” The second way takes as its point of departure an
ordering of efficient causes as indicated to us by our investigation of
sensible things. By this Thomas means that we perceive in the world of sensible
things that certain efficient causes cannot exercise their causal activity
unless they are also caused by something else. But nothing can be the efficient
cause of itself, since it would then have to be prior to itself. One cannot
regress to infinity in ordered efficient causes. In ordered efficient causes,
the first is the cause of the intermediary, and the intermediary is the cause
of the last whether the intermediary is one or many. Hence if there were no
first efficient cause, there would be no intermediary and no last cause. Thomas
concludes from this that one must acknowledge the existence of a first
efficient cause, “which everyone names God.” The third way consists of two
major parts. Some Aquinas, Saint Thomas Aquinas, Saint Thomas 38 38 textual variants have complicated the
proper interpretation of the first part. In brief, Aquinas appeals to the fact
that certain things are subject to generation and corruption to show that they
are “possible,” i.e., capable of existing and not existing. Not all things can
be of this kind revised text, for that which has the possibility of not existing
at some time does not exist. If, therefore, all things are capable of not
existing, at some time there was nothing whatsoever. If that were so, even now
there would be nothing, since what does not exist can only begin to exist
through something else that exists. Therefore not all beings are capable of
existing and not existing. There must be some necessary being. Since such a
necessary, i.e., incorruptible, being might still be caused by something else,
Thomas adds a second part to the argument. Every necessary being either depends
on something else for its necessity or it does not. One cannot regress to
infinity in necessary beings that depend on something else for their necessity.
Therefore there must be some being that is necessary of itself and that does
not depend on another cause for its necessity, i.e., God. The statement in the
first part to the effect that what has the possibility of not existing at some
point does not exist has been subject to considerable dispute among
commentators. Moreover, even if one grants this and supposes that every
individual being is a “possible” and therefore has not existed at some point in
the past, it does not easily follow from this that the totality of existing
things will also have been nonexistent at some point in the past. Given this,
some interpreters prefer to substitute for the third way the more satisfactory
versions found in SCG I ch. 15 and SCG II ch. 15. Thomas’s fourth way is based
on the varying degrees of perfection we discover among the beings we experience.
Some are more or less good, more or less true, more or less noble, etc., than
others. But the more and less are said of different things insofar as they
approach in varying degrees something that is such to a maximum degree.
Therefore there is something that is truest and best and noblest and hence that
is also being to the maximum degree. To support this Thomas comments that those
things that are true to the maximum degree also enjoy being to the maximum
degree; in other words he appeals to the convertibility between being and truth
of being. In the second part of this argument Thomas argues that what is
supremely such in a given genus is the cause of all other things in that genus.
Therefore there is something that is the cause of being, goodness, etc., for
all other beings, and this we call God. Much discussion has centered on
Thomas’s claim that the more and less are said of different things insofar as
they approach something that is such to the maximum degree. Some find this
insufficient to justify the conclusion that a maximum must exist, and would
here insert an appeal to efficient causality and his theory of participation.
If certan entities share or participate in such a perfection only to a limited
degree, they must receive that perfection from something else. While more
satisfactory from a philosophical perspective, such an insertion seems to
change the argument of the fourth way significantly. The fifth way is based on
the way things in the universe are governed. Thomas observes that certain
things that lack the ability to know, i.e., natural bodies, act for an end.
This follows from the fact that they always or at least usually act in the same
way to attain that which is best. For Thomas this indicates that they reach
their ends by “intention” and not merely from chance. And this in turn implies
that they are directed to their ends by some knowing and intelligent being.
Hence some intelligent being exists that orders natural things to their ends.
This argument rests on final causality and should not be confused with any
based on order and design. Aquinas’s frequently repeated denial that in this
life we can know what God is should here be recalled. If we can know that God
exists and what he is not, we cannot know what he is see, e.g., SCG I, c. 30.
Even when we apply the names of pure perfections to God, we first discover such
perfections in limited fashion in creatures. What the names of such perfections
are intended to signify may indeed be free from all imperfection, but every
such name carries with it some deficiency in the way in which it signifies.
When a name such as ‘goodness’, for instance, is signified abstractly e.g.,
‘God is goodness’, this abstract way of signifying suggests that goodness does
not subsist in itself. When such a name is signified concretely e.g., ‘God is
good’, this concrete way of signifying implies some kind of composition between
God and his goodness. Hence while such names are to be affirmed of God as
regards that which they signify, the way in which they signify is to be denied
of him. This final point sets the stage for Thomas to apply his theory of
analogy to the divine names. Names of pure perfections such as ‘good’, ‘true’,
‘being’, etc., cannot be applied to God with Aquinas, Saint Thomas Aquinas,
Saint Thomas 39 39 exactly the same
meaning they have when affirmed of creatures univocally, nor with entirely
different meanings equivocally. Hence they are affirmed of God and of creatures
by an analogy based on the relationship that obtains between a creature viewed
as an effect and God its uncaused cause. Because some minimum degree of
similarity must obtain between any effect and its cause, Thomas is convinced
that in some way a caused perfection imitates and participates in God, its
uncaused and unparticipated source. Because no caused effect can ever be equal
to its uncreated cause, every perfection that we affirm of God is realized in
him in a way different from the way we discover it in creatures. This
dissimilarity is so great that we can never have quidditative knowledge of God
in this life know what God is. But the similarity is sufficient for us to
conclude that what we understand by a perfection such as goodness in creatures
is present in God in unrestricted fashion. Even though Thomas’s identification
of the kind of analogy to be used in predicating divine names underwent some
development, in mature works such as On the Power of God qu. 7, a. 7, SCG I
c.34, and ST I qu. 13, a. 5, he identifies this as the analogy of “one to
another,” rather than as the analogy of “many to one.” In none of these works
does he propose using the analogy of “proportionality” that he had previously
defended in On Truth qu. 2, a. 11. Theological virtues. While Aquinas is
convinced that human reason can arrive at knowledge that God exists and at
meaningful predication of the divine names, he does not think the majority of
human beings will actually succeed in such an effort SCG I, c. 4; ST IIIIae,
qu. 2, a. 4. Hence he concludes that it was fitting for God to reveal such
truths to mankind along with others that purely philosophical inquiry could
never discover even in principle. Acceptance of the truth of divine revelation
presupposes the gift of the theological virtue of faith in the believer. Faith
is an infused virtue by reason of which we accept on God’s authority what he
has revealed to us. To believe is an act of the intellect that assents to
divine truth as a result of a command on the part of the human will, a will
that itself is moved by God through grace ST II IIae, qu. 2, a. 9. For Thomas
the theological virtues, having God the ultimate end as their object, are prior
to all other virtues whether natural or infused. Because the ultimate end must
be present in the intellect before it is present to the will, and because the
ultimate end is present in the will by reason of hope and charity the other two
theological virtues, in this respect faith is prior to hope and charity. Hope
is the theological virtue through which we trust that with divine assistance we
will attain the infinite good eternal
enjoyment of God ST IIIIae, qu. 17, aa. 12. In the order of generation, hope is
prior to charity; but in the order of perfection charity is prior both to hope
and faith. While neither faith nor hope will remain in those who reach the eternal
vision of God in the life to come, charity will endure in the blessed. It is a
virtue or habitual form that is infused into the soul by God and that inclines
us to love him for his own sake. If charity is more excellent than faith or
hope ST II IIae, qu. 23, a. 6, through charity the acts of all other virtues
are ordered to God, their ultimate end qu. 23, a. 8. Aquino -- Aquinismo“If followers of William
are called Occamists, followers of a Saint should surely call themselves
“Aquinistae”! -- neo-Thomismas opposed to palaeo-Thomism --, a
philosophical-theological movement in the nineteenth and twentieth centuries
manifesting a revival of interest in Aquinas. It was stimulated by Pope Leo
XIII’s encyclical Aeterni Patris 1879 calling for a renewed emphasis on the
teaching of Thomistic principles to meet the intellectual and social challenges
of modernity. The movement reached its peak in the 0s, though its influence
continues to be seen in organizations such as the Catholic Philosophical Association. Among its
major figures are Joseph Kleutgen, Désiré Mercier, Joseph Maréchal, Pierre
Rousselot, Réginald Garrigou-LaGrange, Martin Grabmann, M.-D. Chenu, Jacques
Maritain, Étienne Gilson, Yves R. Simon, Josef Pieper, Karl Rahner, Cornelio
Fabro, Emerich Coreth, Bernard Lonergan, and W. Norris Clarke. Few, if any, of
these figures have described themselves as NeoThomists; some explicitly
rejected the designation. Neo-Thomists have little in common except their
commitment to Aquinas and his relevance to the contemporary world. Their
interest produced a more historically accurate understanding of Aquinas and his
contribution to medieval thought Grabmann, Gilson, Chenu, including a
previously ignored use of the Platonic metaphysics of participation Fabro. This
richer understanding of Aquinas, as forging a creative synthesis in the midst
of competing traditions, has made arguing for his relevance easier. Those
Neo-Thomists who were suspicious of modernity produced fresh readings of
Aquinas’s texts applied to contemporary problems Pieper, Gilson. Their
influence can be seen in the revival of virtue theory and the work of Alasdair
MacIntyre. Others sought to develop Aquinas’s thought with the aid of later
Thomists Maritain, Simon and incorporated the interpretations of
Counter-Reformation Thomists, such as Cajetan and Jean Poinsot, to produce more
sophisticated, and controversial, accounts of the intelligence, intentionality,
semiotics, and practical knowledge. Those Neo-Thomists willing to engage modern
thought on its own terms interpreted modern philosophy sympathetically using
the principles of Aquinas Maréchal, Lonergan, Clarke, seeking dialogue rather
than confrontation. However, some readings of Aquinas are so thoroughly
integrated into modern philosophy that they can seem assimilated Rahner,
Coreth; their highly individualized metaphysics inspired as much by other
philosophical influences, especially Heidegger, as Aquinas. Some of the labels
currently used among Neo-Thomists suggest a division in the movement over critical,
postKantian methodology. ‘Existential Thomism’ is used for those who emphasize
both the real distinction between essence and existence and the role of the
sensible in the mind’s first grasp of being. ‘Transcendental Thomism’ applies
to figures like Maréchal, Rousselot, Rahner, and Coreth who rely upon the
inherent dynamism of the mind toward the real, rooted in Aquinas’s theory of
the active intellect, from which to deduce their metaphysics of being.
Dedicatio. Dilecto sibi praeposito Lovaniensi frater Thomas de Aquino
salutem et verae sapientiae incrementa. Diligentiae tuae, qua in iuvenili
aetate non vanitati sed sapientiae intendis, studio provocatus, et desiderio
satisfacere cupiens, libro Aristotelis, qui peri hermeneias dicitur, multis obscuritatibus
involuto, inter multiplices occupationum mearum sollicitudines, expositionem
adhibere curavi, hoc gerens in animo sic altiora pro posse perfectioribus
exhibere, ut tamen iunioribus proficiendi auxilia tradere non recusem.
Suscipiat ergo studiositas tua praesentis expositionis munus exiguum, ex quo si
profeceris, provocare me poteris ad maiora. 1 Sicut dicit philosophus in III de
anima, duplex est operatio intellectus: una quidem, quae dicitur indivisibilium
intelligentia, per quam scilicet intellectus apprehendit essentiam
uniuscuiusque rei in seipsa; alia est operatio intellectus scilicet componentis
et dividentis. Additur autem et tertia operatio, scilicet ratiocinandi,
secundum quod ratio procedit a notis ad inquisitionem ignotorum. Harum autem operationum
prima ordinatur ad secundam: quia non potest esse compositio et divisio, nisi
simplicium apprehensorum. Secunda vero ordinatur ad tertiam: quia videlicet
oportet quod ex aliquo vero cognito, cui intellectus assentiat, procedatur ad
certitudinem accipiendam de aliquibus ignotis. There is a twofold operation of
the intellect, as the Philosopher says in III De anima [6: 430a 26]. One is the
understanding of simple objects, that is, the operation by which the intellect
apprebends just the essence of a thing alone; the other is the operation of
composing and dividing. There is also a third operation, that of reasoning, by
which reason proceeds from what is known to the investigation of things that
are unknown. The first of these operations is ordered to the second, for there
cannot be composition and division unless things have already been apprehended
simply. The second, in turn, is ordered to the third, for clearly we must
proceed from some known truth to which the intellect assents in order to have certitude
about something not yet known. Aquinas pr. 2 Cum autem logica dicatur
rationalis scientia, necesse est quod eius consideratio versetur circa ea quae
pertinent ad tres praedictas operationes rationis. De his igitur quae pertinent
ad primam operationem intellectus, idest de his quae simplici intellectu
concipiuntur, determinat Aristoteles in libro praedicamentorum. De his vero,
quae pertinent ad secundam operationem, scilicet de enunciatione affirmativa et
negativa, determinat philosophus in libro perihermeneias. De his vero quae
pertinent ad tertiam operationem determinat in libro priorum et in
consequentibus, in quibus agitur de syllogismo simpliciter et de diversis
syllogismorum et argumentationum speciebus, quibus ratio de uno procedit ad
aliud. Et ideo secundum praedictum ordinem trium operationum, liber
praedicamentorum ordinatur ad librum perihermeneias, qui ordinatur ad librum
priorum et sequentes. 2. Since logic is called rational science it must direct
its consideration to the things that belong to the three operations of reason
we have mentioned. Accordingly, Aristotle treats those belonging to the first
operation of the intellect, i.e., those conceived by simple understanding, in
the book Praedicamentorum; those belonging to the second operation, i.e.,
affirmative and negative enunciation, in the book Perihermeneias; those
belonging to the third operation in the book Priorum and the books following it
in which he treats the syllogism absolutely, the different kinds of syllogism,
and the species of argumentation by which reason proceeds from one thing to
another. And since the three operations of reason are ordered to each other so
are the books: the Praedicamenta to the Perihermeneias and the Perihermeneias
to the Priora and the books following it. Aquinas pr. 3. Dicitur ergo liber
iste, qui prae manibus habetur, perihermeneias, quasi de interpretatione.
Dicitur autem interpretatio, secundum Boethium, vox significativa, quae per se
aliquid significat, sive sit complexa sive incomplexa. Unde coniunctiones et
praepositiones et alia huiusmodi non dicuntur interpretationes, quia non per se
aliquid significant. Similiter etiam voces signi-ficantes naturaliter, non ex
proposito aut cum imaginatione aliquid significandi, sicut sunt voces brutorum
animalium, interpretationes dici non possunt. Qui enim interpretatur aliquid
exponere intendit. Et ideo sola nomina et verba et orationes dicuntur
interpretationes, de quibus in hoc libro determinatur. Sed tamen nomen et
verbum magis interpretationis principia esse videntur, quam interpretationes.
Ille enim interpretari videtur, qui exponit aliquid esse verum vel falsum. Et
ideo sola oratio enunciativa, in qua verum vel falsum invenitur, interpretatio
vocatur. Caeterae vero orationes, ut optativa et imperativa, magis ordinantur
ad exprimendum affectum, quam ad interpretandum id quod in intellectu habetur.
Intitulatur ergo liber iste de interpretatione, ac si dicetur de enunciativa
oratione: in qua verum vel falsum invenitur. Non autem hic agitur de nomine et
verbo, nisi in quantum sunt partes enunciationis. Est enim proprium
uniuscuiusque scientiae partes subiecti tradere, sicut et passiones. Patet
igitur ad quam partem philosophiae pertineat liber iste, et quae sit necessitas
istius, et quem ordinem teneat inter logicae libros.3. The one we are now
examining is named Perihermeneias, that is, On Interpretation. Interpretation,
according to Boethius, is "significant vocal sound —whether complex or
incomplex — which signifies something by itself.” Conjunctions, then, and
prepositions and other words of this kind are not called interpretations since
they do not signify anything by themselves. Nor can sounds signifying naturally
but not from purpose or in connection with a mental image of signifying
something—such as the sounds of brute animals—be called interpretations, for
one who in terprets intends to explain something. Therefore only names and
verbs and speech are called interpretations and these Aristotle treats in this
book. The name and verb, however, seem to be principles of interpretation
rather than interpretations, for one who interprets seems to explain something
as either true or false. Therefore, only enunciative speech in which truth or
falsity is found is called interpretation. Other kinds of speech, such as
optatives and imperatives, are ordered rather to expressing volition than to
interpreting what is in the intellect. This book, then, is entitled On
Interpretation, that is to say, On Enunciative Speech in which truth or falsity
is found. The name and verb are treated only insofar as they are parts of the
enunciation; for it is proper to a science to treat the parts of its subject as
well as its properties. It is clear, then, to which part of philosophy this
book belongs, what its necessity is, and what its place is among the books on
logic. I. 1. Praemittit autem huic operi philosophus prooemium, in quo
sigillatim exponit ea, quae in hoc libro sunt tractanda. Et quia omnis scientia
praemittit ea, quae de principiis sunt; partes autem compositorum sunt eorum
principia; ideo oportet intendenti tractare de enunciatione praemittere de
partibus eius. Unde dicit: primum oportet constituere, idest definire quid sit
nomen et quid sit verbum. In Graeco habetur, primum oportet poni et idem
significat. Quia enim demonstrationes definitiones praesupponunt, ex quibus
concludunt, merito dicuntur positiones. Et ideo praemittuntur hic solae
definitiones eorum, de quibus agendum est: quia ex definitionibus alia
cognoscuntur. The Philosopher begins this work with an introduction in which he
points out one by one the things that are to be treated. For, since every
science begins with a treatment of the principles, and the principles of
composite things are their parts, one who intends to treat enunciation must
begin with its parts, Therefore Aristotle begins by saying: First we must
determine, i.e., define, what a name is and what a verb is. In the Greek text
it is First we must posit, which signifies the same thing, for demonstrations
presuppose definitions, from which they conclude, and hence definitions are
rightly called "positions.” This is the reason he only points out here the
definitions of the things to be treated; for from definitions other things are
known. 2. Si quis autem quaerat, cum in libro praedicamentorum de simplicibus
dictum sit, quae fuit necessitas ut hic rursum de nomine et verbo
determinaretur. Ad hoc dicendum quod simplicium dictionum triplex potest esse
consideratio. Una quidem, secundum quod absolute significant simplices
intellectus, et sic earum consideratio pertinet ad librum praedicamentorum.
Alio modo, secundum rationem, prout sunt partes enunciationis. Et sic
determinatur de eis in hoc libro; et ideo traduntur sub ratione nominis et
verbi: de quorum ratione est quod significent aliquid cum tempore vel sine
tempore, et alia huiusmodi, quae pertinent ad rationem dictionum, secundum quod
constituunt enunciationem. Tertio modo, considerantur secundum quod ex eis
constituitur ordo syllogisticus, et sic determinatur de eis sub ratione terminorum
in libro priorum. It might be asked why it is necessary to treat simple things
again, i.e., the name and the verb, for they were treated in the book
Praedicamentorum. In answer to this we should say that simple words can be
considered in three ways: first, as they signify simple intellection
absolutely, which is the consideration proper to the book Praedicamentorum;
secondly, according to their function as parts of the enunciation, which is the
way they are considered in this book. Hence, they are treated here under the
formality of the name and the verb, and under this formality they signify
something with time or without time and other things of the kind that belong to
the formality of words as they are components of an enunciation. Finally,
simple words may be considered as they are components of a syllogistic
ordering. They are treated then under the formality of terms and this Aristotle
does in the book Priorum. 3 Potest iterum dubitari quare, praetermissis aliis
orationis partibus, de solo nomine et verbo determinet. Ad quod dicendum est
quod, quia de simplici enunciatione determinare intendit, sufficit ut solas
illas partes enunciationis pertractet, ex quibus ex necessitate simplex oratio
constat. Potest autem ex solo nomine et verbo simplex enunciatio fieri, non
autem ex aliis orationis partibus sine his; et ideo sufficiens ei fuit de his
duabus determinare. Vel potest dici quod sola nomina et verba sunt principales
orationis partes. Sub nominibus enim comprehenduntur pronomina, quae, etsi non
nominant naturam, personam tamen determinant, et ideo loco nominum ponuntur:
sub verbo vero participium, quod consignificat tempus: quamvis et cum nomine
convenientiam habeat. Alia vero sunt magis colligationes partium orationis,
significantes habitudinem unius ad aliam, quam orationis partes; sicut clavi et
alia huiusmodi non sunt partes navis, sed partium navis coniunctiones. It might
be asked why he treats only the name and verb and omits the other parts of
speech. The reason could be that Aristotle intends to establish rules about the
simple enunciation and for this it is sufficient to consider only the parts of
the enunciation that are necessary for simple speech. A simple enunciation can
be formed from just a name and a verb, but it cannot be formed from other parts
of speech without these. Therefore, it is sufficient to treat these two.On the
other hand, the reason could be that names and verbs are the principal parts of
speech. Pronouns, which do not name a nature but determine a person-and
therefore are put in place of names-are comprehended under names. The
participle-althougb it has similarities with the name-signifies with time and
is therefore comprehended under the verb. The others are things that unite the
parts of speech. They signify relations of one part to another rather than as
parts of speech; as nails and other parts of this kind are not parts of a ship,
but connect the parts of a ship. 4 His igitur praemissis quasi principiis,
subiungit de his, quae pertinent ad principalem intentionem, dicens: postea quid
negatio et quid affirmatio, quae sunt enunciationis partes: non quidem
integrales, sicut nomen et verbum (alioquin oporteret omnem enunciationem ex
affirmatione et negatione compositam esse), sed partes subiectivae, idest
species. Quod quidem nunc supponatur, posterius autem manifestabitur. After he
has proposed these parts [the name and the verb] as principles, Aristotle
states what he principally intends to establish:... then what negation is and
affirmation. These, too, are parts of the enunciation, not integral parts
however, as are the name and the verb—otherwise every enunciation would have to
be formed from an affirmation and negation—but subjective parts, i.e., species.
This is supposed here but will be proved later. 5 Sed potest dubitari: cum
enunciatio dividatur in categoricam et hypotheticam, quare de his non facit
mentionem, sicut de affirmatione et negatione. Et potest dici quod hypothetica
enunciatio ex pluribus categoricis componitur. Unde non differunt nisi secundum
differentiam unius et multi. Vel potest dici, et melius, quod hypothetica
enunciatio non continet absolutam veritatem, cuius cognitio requiritur in
demonstratione, ad quam liber iste principaliter ordinatur; sed significat
aliquid verum esse ex suppositione: quod non sufficit in scientiis
demonstrativis, nisi confirmetur per absolutam veritatem simplicis
enunciationis. Et ideo Aristoteles praetermisit tractatum de hypotheticis
enunciationibus et syllogismis. Subdit autem, et enunciatio, quae est genus
negationis et affirmationis; et oratio, quae est genus enunciationis. Since
enunciation is divided into categorical and hypothetical, it might be asked why
he does not list these as well as affirmation and negation. In reply to this we
could say that Aristotle has not added these because the hypothetical
enunciation is composed of many categorical propositions and hence categorical
and hypothetical only differ according to the difference of one and many.Or we
could say—and this would be a better reason—that the hypothetical enunciation
does not contain absolute truth, the knowledge of which is required in
demonstration, to which this book is principally ordered; rather, it signifies
something as true by supposition, which does not suffice for demonstrative
sciences unless it is confirmed by the absolute truth of the simple
enunciation. This is the reason Aristotle does not treat either hypothetical
enunciations or syllogisms. He adds, and the enunciation, which is the genus of
negation and affirmation; and speech, which is the genus of enunciation. 6 Si quis ulterius quaerat, quare non facit
ulterius mentionem de voce, dicendum est quod vox est quoddam naturale; unde
pertinet ad considerationem naturalis philosophiae, ut patet in secundo de
anima, et in ultimo de generatione animalium. Unde etiam non est proprie
orationis genus, sed assumitur ad constitutionem orationis, sicut res naturales
ad constitutionem artificialium. If it should be asked why, besides these, he
does not mention vocal sound, it is because vocal sound is something natural
and therefore belongs to the consideration of natural philosophy, as is evident
in II De Anima [8: 420b 5-421a 6] and at the end of De generatione animalium
[ch. 8]. Also, since it is something natural, vocal sound is not properly the genus
of speech but is presupposed for the forming of speech, as natural things are
presupposed for the formation of artificial things. 7 Videtur autem ordo enunciationis
esse praeposterus. Nam affirmatio naturaliter est prior negatione, et iis prior
est enunciatio, sicut genus. Et per consequens oratio enunciatione. Sed
dicendum quod, quia a partibus inceperat enumerare, procedit a partibus ad
totum. Negationem autem, quae divisionem continet, eadem ratione praeponit
affirmationi, quae consistit in compositione: quia divisio magis accedit ad
partes, compositio vero magis accedit ad totum. Vel potest dici, secundum
quosdam, quod praemittitur negatio, quia in iis quae possunt esse et non esse,
prius est non esse, quod significat negatio, quam esse, quod significat
affirmatio. Sed tamen, quia sunt species ex aequo dividentes genus, sunt simul
natura; unde non refert quod eorum praeponatur. In this introduction, however,
Aristotle seems to have inverted the order of the enunciation, for affirmation
is naturally prior to negation and enunciation prior to these as a genus; and
consequently, speech to enunciation. We could say in reply to this that he
began to enumerate from the parts and consequently he proceeds from the parts
to the whole. He puts negation, which contains division, before affirmation,
which consists of composition, for the same reason: division is closer to the
parts, composition closer to the whole. Or we could say, as some do, that he
puts negation first because in those things that can be and not be, non-being,
which negation signifies, is prior to being, which affirmation signifies.
Aristotle, however, does not refer to the fact that one of them is placed
before the other, for they are species equally dividing a genus and are
therefore simultaneous according to nature. Praemisso prooemio, philosophus
accedit ad propositum exequendum. Et quia ea, de quibus promiserat se dicturum,
sunt voces signi-ficativae complexae vel incomplexae, ideo praemittit tractatum
de sign-ificatione vocum. Et deinde de vocibus signi-ficativis determinat de
quibus in prooemio se dicturum promiserat. Et hoc ibi:. Nomen ergo est vox
significativa et cetera. Circa primum duo facit. Pprimo, determinat qualis sit
sign-ificatio vocum. Scundo, ostendit differentiam significationum vocum
complexarum et incomplexarum. Ibi: est autem quemadmodum et cetera. Circa
primum duo facit. Primo quidem, praemittit ordinem signi-ficationis vocum. Secundo,
ostendit qualis sit vocum signi-ficatio, utrum sit ex natura vel *ex
impositione* [ex positione, ex arte non ex natura – signo ex natura – signo ex
arte, segno da natura, segno d’arte --. Ibi: et quemadmodum nec litterae et
cetera. After his introduction the Philosopher begins to investigate the things
he has proposed. Since the things he promised to speak of are either complex or
incomplex significant vocal sounds, he prefaces this with a treatment of the
signification of vocal sounds; then he takes up the significant vocal sounds he
proposed in the introduction where he says, A name, then, is a vocal sound
significant by convention, without time, etc. In regard to the signification of
vocal sounds he first determines what kind of signification vocal sound has and
then shows the difference between the signification of complex and incomplex
vocal sounds where he says, As sometimes there is thought in the soul, etc.
With respect to the first point, he presents the order of the signification of
vocal sounds and then shows what kind of signification vocal sound has, i.e.,
whether it is from nature or by imposition. This he does where he says, And
just as letters are not the same for all men, etc. 2 Est ergo considerandum
quod circa primum tria proponit, ex quorum uno intelligitur quartum.
Aristoteles proponit enim scripturam, voces et animae passiones, ex quibus
intelliguntur res. Nam passio est ex im-pressione alicuius agentis. Et sic
passiones animae originem habent ab ipsis rebus [teoria causale della
percezione]. Et si quidem homo esset naturaliter animal solitarium, sufficerent
sibi animae passiones, quibus ipsis rebus conformaretur, ut earum *notitiam*
[nota, notitia – notizia – notatura --]
in se haberet. Sed quia homo est animal naturaliter politicum et sociale
[chi ama la comunicazione!], necesse fuit quod conceptiones unius hominis *innotescerent*
[co-gnoscere] [informare, notificare, essibire, per influire] aliis, quod fit
per vocem. Et ideo necesse fuit esse voces signi-ficativas, ad hoc quod homines
ad invicem conviverent. Unde illi, qui sunt diversarum linguarum, non possunt
bene convivere ad invicem. Rursum si homo uteretur sola cognitione sensitiva,
quae respicit solum ad hic et nunc, sufficeret sibi ad convivendum aliis vox
signi-ficativa, sicut et caeteris animalibus, quae per quasdam voces, suas
conceptiones invicem sibi manifestant. Sed quia homo utitur etiam intellectuali
cognitione, quae abstrahit ab hic et nunc. Consequitur ipsum sollicitudo non
solum de praesentibus secundum locum et tempus, sed etiam de his quae distant
loco et futura sunt tempore. Unde ut homo conceptiones suas etiam his qui
distant secundum locum et his qui venturi sunt in futuro tempore manifestet,
necessarius fuit usus scripturae. Apropos of the order of signification of
vocal sounds he proposes three things, from one of which a fourth is
understood. He proposes writing, vocal sounds, and passions of the soul; things
is understood from the latter, for passion is from the impression of something
acting, and hence passions of the soul have their origin from things. Now if
man were by nature a solitary animal the passions of the soul by which he was
conformed to things so as to have knowledge of them would be sufficient for
him; but since he is by nature a political and social animal it was necessary
that his conceptions be made known to others. This he does through vocal sound.
Therefore there had to be significant vocal sounds in order that men might live
together. Whence those who speak different languages find it difficult to live
together in social unity. Again, if man had only sensitive cognition, which is
of the here and now, such significant vocal sounds as the other animals use to
manifest their conceptions to each other would be sufficient for him to live
with others. But man also has the advantage of intellectual cognition, which
abstracts from the here and now, and as a consequence, is concerned with things
distant in place and future in time as well as things present according to time
and place. Hence the use of writing was necessary so that he might manifest his
conceptions to those who are distant according to place and to those who will
come in future time. 3. Sed quia logica ordinatur ad cognitionem de rebus
sumendam, signi-ficatio vocum, quae est *immediate* [senza medio, non-mediata]
ipsis conceptionibus intellectus, pertinet ad principalem considerationem
ipsius. Signi-ficatio autem litterarum, tanquam magis remota [mediate], non
pertinet ad eius considerationem, sed magis ad considerationem grammatici e non
filosofi. Et ideo exponens ordinem signi-ficationum non incipit a litteris, sed
a vocibus. Quarum primo signi-ficationem exponens, dicit: sunt ergo ea, quae
sunt in voce, notae, idest, signa earum passionum quae sunt in anima. Dicit
autem ergo, quasi ex praemissis concludens. Qquia supra dixerat determinandum
esse de nomine et verbo et aliis praedictis. Haec autem sunt voces signi-ficativae.
Ergo oportet vocum significationem exponere. However, since logic is ordered to
obtaining knowledge about things, the signification of vocal sounds, which is
immediate to the conceptions of the intellect, is its principal consideration.
The signification of written signs, being more remote, belongs to the
consideration of the grammarian rather than the logician. Aristotle therefore
begins his explanation of the order of signification from vocal sounds, not
written signs. First he explains the signification of vocal sounds: Therefore
those that are in vocal sound are signs of passions in the soul. He says
"therefore” as if concluding from premises, because he has already said
that we must establish what a name is, and a verb and the other things he
mentioned; but these are significant vocal sounds; therefore, signification of
vocal sounds must be explained. 4. Utitur autem hoc modo loquendi, ut dicat, ea
quae sunt in voce, et non, voces, ut quasi continuatim loquatur cum praedictis.
Dixerat enim dicendum esse de nomine et verbo et aliis huiusmodi. Haec autem
tripliciter habent esse. Uno quidem modo, in conceptione intellectus. Alio
modo, in prolatione vocis. Tertio modo, in conscriptione litterarum. Dicit ergo,
ea quae sunt in voce etc. Ac si dicat, nomina et verba et alia consequentia,
quae tantum sunt in voce, sunt notae. Vel, quia non omnes voces sunt signi-ficativae,
et earum quaedam sunt signi-ficativae *naturaliter*, quae longe sunt a ratione
nominis et verbi et aliorum consequentium. Ut appropriet suum dictum ad ea de
quibus intendit, ideo dicit, ea quae sunt in voce, idest quae continentur sub
voce, sicut partes sub toto. Vel, quia vox est quoddam naturale, nomen autem et
verbum signi-ficant *ex institutione humana*, quae advenit rei naturali sicut materiae,
ut forma lecti ligno. Ideo ad *de-signandum* [DE-SIGNARE, desegno] nomina et
verba et alia consequentia dicit, ea quae sunt in voce, ac si de lecto diceretur,
ea quae sunt in ligno. When he says "Those that are in vocal sound,” and
not "vocal sounds,” his mode of speaking implies a continuity with what he
has just been saying, namely, we must define the name and the verb, etc. Now
these have being in three ways: in the conception of the intellect, in the
utterance of the voice, and in the writing of letters. He could therefore mean
when he says "Those that are in vocal sound,” etc., names and verbs and
the other things we are going to define, insofar as they are in vocal sound,
are signs. On the other hand, he may be speaking in this way because not all
vocal sounds are significant, and of those that are, some are significant
naturally and hence are different in nature from the name and the verb and the
other things to be defined. Therefore, to adapt what he has said to the things
of which he intends to speak he says, "Those that are in vocal sound,”
i.e., that are contained under vocal sound as parts under a whole. There could
be still another reason for his mode of speaking. Vocal sound is something
natural. The name and verb, on the other hand, signify by human institution,
that is, the signification is added to the natural thing as a form to matter,
as the form of a bed is added to wood. Therefore, to designate names and verbs
and the other things he is going to define he says, "Those that are in
vocal sound,” in the same way he would say of a bed, "that which is in
wood.” 5. Circa id autem quod dicit, earum quae sunt in anima passionum, considerandum
est quod passiones animae communiter dici solent appetitus *sensibilis*
affectiones, sicut ira, gaudium et alia huiusmodi, ut dicitur in II Ethicorum.
Et verum est quod huiusmodi passiones significant naturaliter quaedam voces
hominum, ut gemitus infirmorum [infirmi], et aliorum animalium, ut dicitur in I
politicae. Sed nunc sermo est de vocibus significativis *ex institutione*
humana. Et ideo oportet passiones animae hic intelligere intellectus
conceptiones, quas nomina et verba et orationes significant immediate, secundum
sententiam Aristotelis. Non enim potest esse quod significent immediate ipsas
res, ut ex ipso modo significandi apparet. Significat enim hoc nomen ‘homo’ naturam
humanam [homo] in abstractione a singularibus. Unde non potest esse quod
significet immediate hominem singularem. Unde Platonici posuerunt quod
significaret ipsam *ideam* [hominis] separatam. Sed quia hoc secundum suam
abstractionem non subsistit realiter secundum sententiam Aristotelis, sed est
in solo intellectu. Ideo necesse fuit Aristoteli dicere quod voces significant
intellectus conceptiones immediate [IN-MEDIATA, NON-MEDIATA – senza medio] et
eis mediantibus [MEDIATA -- medio] res. U segna [mediatamente] che piove non
che CREDE che piove. When he speaks of
passions in the soul we are apt to think of the affections of the sensitive
appetite, such as anger, joy, and the other passions that are customarily and
commonly called passions of the soul, as is the case in II Ethicorum [5: 1105b
21]. It is true that some of the vocal sounds man makes signify passions of
this kind naturally, such as the groans of the sick and the sounds of other
animals, as is said in I Politicae [2: 1253a 10-14]. But here Aristotle is
speaking of vocal sounds that are significant by human institution. Therefore
"passions in the soul” must be understood here as conceptions of the
intellect, and names, verbs, and speech, signify these conceptions of the
intellect immediately according to the teaching of Aristotle. They cannot
immediately signify things, as is clear from the mode of signifying, for the
name "man” signifies human nature in abstraction from singulars; hence it
is impossible that it immediately signify a singular man. The Platonists for
this reason held that it signified the separated idea of man. But because in
Aristotle’s teaching man in the abstract does not really subsist, but is only
in the mind, it was necessary for Aristotle to say that vocal sounds signify
the conceptions of the intellect immediately and things by means of them. 6. Sed
quia non est consuetum quod conceptiones intellectus Aristoteles nominet
passiones. Ideo Andronicus posuit hunc librum non esse Aristotelis. Sed
manifeste invenitur in 1 de anima quod passiones animae vocat omnes animae *operations*
[judicate/volere – accetare]. Unde et ipsa conceptio intellectus passio dici
potest. Vel quia intelligere nostrum non est sine “phantasmate” [sing. fantasma
– etym. – fendere, offendere, manifestare, diafano]. Quod non est sine
corporali [del corpo] passione. Unde et *imaginativam* philosophus in III de
anima vocat passivum [non activum] intellectum. Vel quia extenso nomine
passionis ad omnem receptionem, etiam ipsum intelligere intellectus possibilis [passibilis]
quoddam *pati* est, ut dicitur in III de anima. Utitur autem potius nomine
passionum, quam intellectuum: tum quia ex aliqua animae passione provenit, puta
*ex amore* vel odio, ut homo interiorem conceptum per vocem alteri significare
velit. Tum etiam quia significatio vocum refertur ad conceptionem intellectus,
secundum quod oritur a rebus per modum cuiusdam *impressionis* [im-primere –
ex-primere] vel passionis. Since Aristotle did not customarily speak of
conceptions of the intellect as passions, Andronicus took the position that
this book was not Aristotle’s. In I De anima, however, it is obvious that he
calls all of the operations of the soul "passions” of the soul. Whence
even the conception of the intellect can be called a passion and this either
because we do not understand without a phantasm, which requires corporeal
passion (for which reason the Philosopher calls the imaginative power the
passive intellect) [De Anima III, 5: 430a 25]; or because by extending the name
"passion” to every reception, the understanding of the possible intellect
is also a kind of undergoing, as is said in III De anima [4: 429b 29].
Aristotle uses the name "passion,” rather than "understanding,”
however, for two reasons: first, because man wills to signify an interior
conception to another through vocal sound as a result of some passion of the
soul, such as love or hate; secondly, because the signification of vocal sound
is referred to the conception of the intellect inasmuch as the conception
arises from things by way of a kind of impression or passion. 7. Secundo, cum
dicit: et ea quae scribuntur etc., agit de signi-ficatione Scripturae: et
secundum Alexandrum hoc inducit ad manifestandum praecedentem sententiam per
modum similitudinis, ut sit sensus. Ita ea quae sunt in voce sunt signa
passionum animae, sicut et litterae sunt signa vocum. Quod etiam manifestat per
sequentia, cum dicit: et quemadmodum nec litterae etc.; inducens hoc quasi
signum praecedentis. Quod enim litterae significent voces, significatur per
hoc, quod, sicut sunt diversae voces apud diversos, ita et diversae litterae.
Et secundum hanc expositionem, ideo non dixit, et litterae eorum quae sunt in
voce, sed ea quae scribuntur. Quia dicuntur litterae etiam in prolatione et
Scriptura, quamvis magis proprie, secundum quod sunt in Scriptura, dicantur
litterae; secundum autem quod sunt in prolatione, dicantur elementa vocis. Sed
quia Aristoteles non dicit, sicut et ea quae scribuntur, sed continuam
narrationem facit, melius est ut dicatur, sicut Porphyrius exposuit, quod
Aristoteles procedit ulterius ad complendum ordinem significationis. Postquam
enim dixerat quod *nomina* [Fido -- denotatum] et verba [-- is shaggy --
attributum], quae sunt in voce, sunt *signa* eorum quae sunt *in* *anima*,
continuatim subdit quod nomina et verba quae scribuntur, signa sunt eorum
nominum et verborum quae sunt in voce. When he says, and those that are written
are signs of those in vocal sound, he treats of the signification of writing.
According to Alexander he introduces this to make the preceding clause evident
by means of a similitude; and the meaning is: those that are in vocal sound are
signs of the passions of the soul in the way in which letters are of vocal
sound; then he goes On to manifest this point where he says, And just as
letters are not the same for all men so neither are vocal sounds the same—by
introducing this as a sign of the preceding. For when he says in effect, just
as there are diverse vocal sounds among diverse peoples so there are diverse
letters, he is signifying that letters signify vocal. sounds. And according to
this exposition Aristotle said those that are written are signs... and not,
letters are signs of those that are in vocal sound, because they are called
letters in both speech and writing, alt bough they are more properly called
letters in writing; in speech they are called elements of vocal sound.
Aristotle, however, does not say, just as those that are written, but continues
with his account. Therefore it is better to say as Porphyry does, that Aristotle
adds this to complete the order of signification. For after he says that names
and verbs in vocal sound are signs of those [names and verbs – ‘Fido is shaggy’
denotative – attributive – the S is P -- in the soul, he adds—in continuity
with this—that names and verbs that are written are signs of the names and
verbs that are in vocal sound. 8. Deinde cum dicit: et quemadmodum nec litterae
etc., ostendit differentiam praemissorum signi-ficantium et signi-ficatorum,
quantum ad hoc, quod est esse secundum naturam, vel non esse. Et circa hoc tria
facit. Primo enim, ponit quoddam signum, quo manifestatur quod nec voces nec
litterae naturaliter significant. Ea enim, quae naturaliter significant sunt
eadem apud omnes. Significatio autem litterarum et vocum, de quibus nunc
agimus, non est eadem apud omnes. Sed hoc quidem apud nullos unquam dubitatum
fuit quantum ad litteras. Quarum non solum *ratio significandi est ex impositione*
[positione], sed etiam ipsarum formatio fit *per artem* [per arte ma non
‘artificiale’ – signo di natura, signo di arte, signum naturae, signum artis,
signum naturalis – signum artis – segno artato -- --. [non per naturam]. Voces
autem naturaliter formantur; unde et apud quosdam dubitatum fuit, utrum
naturaliter significent. Sed Aristoteles hic determinat ex similitudine
litterarum, quae sicut non sunt eaedem apud omnes, ita nec voces. Unde
manifeste relinquitur quod sicut nec litterae, ita nec voces naturaliter
significant, sed *ex institutione* humana. Voces autem illae, quae naturaliter
signi-FICANT, sicut gemitus infirmorum [infirmi] et alia huiusmodi, sunt
*eadem* apud omnes. Then where he says, And just as letters are not the same
for all men so neither are vocal sounds the same, he shows that the foresaid
things differ as signified and signifying inasmuch as they are either according
to nature or not. He makes three points here. He first posits a sign to show
that neither vocal sounds nor letters signify naturally; things that signify
naturally are the same among all men; but the signification of letters and
vocal sounds, which is the point at issue here, is not the same among all men.
There has never been any question about this in regard to letters, for their
character of signifying is from imposition and their very formation is through
art. Vocal sounds, however, are formed naturally and hence there is a question
as to whether they signify naturally. Aristotle determines this by comparison
with letters: these are not the same among all men, and so neither are vocal
sounds the same. Consequently, like letters, vocal sounds do not signify
naturally but by human institution. The vocal sounds that do signify naturally,
such as groans of the sick and others of this kind, are the same among all
men. 9. Secundo, ibi. Quorum autem etc.,
ostendit passiones animae naturaliter esse, sicut et res, per hoc quod eaedem
sunt apud omnes. Unde dicit. Quorum autem. Idest sicut passiones animae sunt
eaedem omnibus (quorum primorum, idest quarum passionum primarum, hae, scilicet
voces, sunt *notae*, idest *signa*; comparantur enim passiones animae ad voces,
sicut primum ad secundum. Voces enim non proferuntur, nisi ad ex-primendum [exprimere]
in-teriores [interior/exterior] animae passiones), et res etiam eaedem,
scilicet sunt apud omnes, quorum, idest quarum rerum, hae, scilicet passiones
animae sunt similitudines. Ubi attendendum est quod litteras dixit esse notas,
idest signa vocum, et voces passionum animae similiter. Passiones autem animae
dicit esse similitudines rerum. Et hoc ideo, quia res non cognoscitur ab anima
nisi per aliquam sui similitudinem existentem vel in sensu vel in intellectu.
Litterae autem ita sunt signa vocum, et voces passionum, quod non attenditur
ibi aliqua ratio similitudinis, sed sola ratio *institutionis*, sicut et in
multis aliis signis. Ut *tuba* est signum [sola ratio institutionis] belli
[notifica la partenza dalla battaglia]. In passionibus autem animae oportet
attendi rationem similitudinis ad exprimendas res, quia naturaliter eas designant,
non ex institutione. Secondly, when he says, but the passions of the soul, of
which vocal sounds are the first signs, are the same for all, he shows that
passions of the soul exist naturally, just as things exist naturally, for they
are the same among all men. For, he says, but the passions of the soul, i.e.,
just as the passions of the soul are the same for all men; of which first,
i.e., of which passions, being first, these, namely, vocal sounds, are tokens
[cf. teach] --,” i.e., signs” (for passions of the soul are compared to vocal
sounds as first to second since vocal sounds are produced *only* to express
interior passions of the soul), so also the things... are the same, i.e., are
the same among all, of which, i.e., of which things, passions of the soul are
likenesses. Notice he says here that letters are signs, i.e., signs of vocal
sounds, and similarly vocal sounds are signs of passions of the soul, but that
passions of the soul are likenesses of things. This is because a thing is not
known by the soul unless there is some likeness of the thing existing either in
the sense or in the intellect. Now letters are signs of vocal sounds and vocal
sounds of passions in such a way that we do not attend to any idea of likeness
in regard to them but *only one [idea] of institution, as is the case in regard
to many other signs, for example, the trumpet as a sign of war. But in the
passions of the soul we have to take into account the idea of a likeness to the
things represented, since passions of the soul designate things naturally, not
by institution. 10 Obiiciunt autem quidam, ostendere volentes contra hoc quod
dicit passiones animae, quas significant voces, esse omnibus easdem. Primo
quidem, quia diversi diversas sententias habent de rebus, et ita non videntur
esse eaedem apud omnes animae passiones. Ad quod respondet Boethius quod
Aristoteles hic nominat passiones animae conceptiones intellectus, qui numquam
decipitur; et ita oportet eius conceptiones esse apud omnes easdem. Quia, si
quis a vero discordat, hic non intelligit. Sed quia etiam in intellectu potest
esse falsum, secundum quod componit et dividit, non autem secundum quod
cognoscit quod quid est, idest essentiam rei, ut dicitur in III de anima;
referendum est hoc ad simplices intellectus conceptiones (quas significant
voces incomplexae), quae sunt eaedem apud omnes: quia, si quis vere intelligit
quid est [homo] [viz. animale razionale], quodcunque aliud aliquid, quam [hominem]
apprehendat, non intelligit hominem. Huiusmodi autem simplices conceptiones intellectus
sunt, quas primo voces significant. Unde dicitur in IV metaphysicae quod ratio,
quam significat nomen, est definitio. Et ideo *signanter* dicit. Quorum
primorum hae *notae* sunt, ut scilicet referatur ad primas conceptiones a vocibus
primo signi-ficatas. There are some who object to Aristotle’s position that
passions of the soul, which vocal sounds signify, are the same for all men.
Their argument against it is as follows. Different men have different opinions
about things. Therefore, passions of the soul do not seem to be the same among
all men. Boethius in reply to this objection says that here Aristotle is using
‘passions of the soul’ to denote conceptions of the intellect, and since the
intellect is never deceived, conceptions of the intellect must be the same
among all men. For if someone is at variance with what is true, in this
instance he does not understand. However, since what is false can also be in
the intellect, not as it *knows* what a thing is, i.e., the essence of a thing,
but as it composes and divides, as is said in III De anima [6: 430a 26].
Aristotle’s statement should be referred to the simple conceptions of the
intellect — that are signified by the incomplex vocal sounds — which are the
same among all men. For if someone truly understands what man [homo[ is [viz.
animale razionale], whatever else than man he apprehends he does not understand
*as* man. Simple conceptions of the intellect, which vocal sounds first
signify, are of this kind. This is why Aristotle says in IV Metaphysicae [IV,
4: 1006b 4] that the notion which the name signifies is the definition.” And
this is the reason Aristotle expressly says, ‘of which first [passions] these
are signs [notae]’, I.e., so that this will be referred to the first
conceptions [conceptiones] first signified by vocal sounds. 11. Sed adhuc
obiiciunt aliqui de nominibus aequi-vocis, in quibus eiusdem vocis non est
eadem passio, quae significatur apud omnes. Et respondet ad hoc Porphyrius quod
unus homo, qui vocem profert, ad unam intellectus conceptionem signi-ficandam
eam refert. Et si aliquis alius, cui loquitur, aliquid aliud intelligat, ille
qui loquitur, se exponendo, faciet quod referet intellectum ad idem. Sed melius
dicendum est quod intentio Aristotelis non est asserere *identitatem*
conceptionis animae per comparationem ad vocem, ut scilicet unius vocis una sit
conception. Quia voces sunt diversae apud diversos. Sed intendit asserere
identitatem conceptionum animae per comparationem ad res, quas similiter dicit
esse easdem. The equivocal name is given as another objection to this position,
for in the case of an equivocal name the same vocal sound does *not* signify
the same passion among all men. Porphyry answers this by pointing out that a
man who utters a vocal sound *intends* it to signify one conception of the
intellect. If the person to whom he is speaking understands something else by
it, the one who is speaking, by explaining himself, will make the one to whom
he is speaking refer his understanding to the same thing. However it is better
to say that it is not Aristotle’s intention to maintain an identity of the
conception of the soul in relation to a vocal sound such that there is one
conception in relation to one vocal sound, for vocal sounds are different among
different peoples. Rather, he intends to maintain an identity of the
conceptions of the soul in relation to things, which things he also says are the
same. 12 Tertio, ibi: de his itaque etc., excusat se a diligentiori harum
consideratione: quia quales sint *animae passiones*, et quomodo sint rerum
similitudines, dictum est in libro de anima. Non enim hoc pertinet ad logicum
negocium, sed ad naturale. Thirdly when he says, This has been discussed,
however, in our study of the soul, etc., he excuses himself from a further
consideration of these things, for the nature of the passions of the soul and
the way in which they are likenesses of things does not pertain to logic but to
philosophy of nature and has already been treated in the book De anima [III,
4-8]. III. 1. Postquam philosophus tradidit ordinem signi-ficationis vocum, hic
agit de diversa vocum signi-ficatione. Quarum quaedam significant verum vel
falsum, quaedam non. Et circa hoc duo facit: primo, praemittit differentiam. Secundo,
manifestat eam; ibi: circa compositionem enim et cetera. Quia vero conceptiones
intellectus prae-ambulae sunt ordine naturae vocibus, quae *ad eas exprimendas*
[exprimere] proferuntur [pro-ferere], ideo ex similitudine differentiae, quae
est circa intellectum, assignat differentiam, quae est circa signi-ficationes
vocum. Ut scilicet haec manifestatio non solum sit ex simili, sed etiam ex causa
quam imitantur effectus. After the Philosopher has treated the order of the
signification of vocal sounds, he goes on to discuss a diversity in the
signification of vocal sounds, i.e., some of them signify the true or the
false, others do not. He first states the difference and then manifests it
where he says, for in composition and division there is truth and falsity. Now
because in the order of nature conceptions of the intellect precede vocal
sounds, which are uttered to express them, he assigns the difference in respect
to the significations of vocal sounds from a likeness to the difference in
intellection. Thus the manifestation is from a likeness and at the same time
from the cause which the effects imitate. 2. Est ergo considerandum quod, sicut
in principio dictum est, duplex est operatio intellectus, ut traditur in III de
anima. In quarum una non invenitur verum et falsum, in altera autem invenitur.
Et hoc est quod dicit quod in anima aliquoties est intellectus sine vero et
falso, aliquoties autem ex necessitate habet alterum horum. Et quia voces
significativae [notae, signa, vestigial] formantur ad exprimendas – exprimere
-- conceptiones – conceptus -- intellectus, ideo ad hoc quod *signum* [signans
– segno -- segnante] conformetur [conformatur] signato [segnato], necesse est
quod etiam vocum significativarum similiter quaedam significent sine vero et
falso, quaedam autem cum vero et falso. The operation of the intellect is
twofold, as was said in the beginning, and as is explained in III De anima [6:
430a 26]. Now truth and falsity is found in one of these operations but not in
the other. This is what Aristotle says at the beginning of this portion of the
text, i.e., that in the soul sometimes there is thought without truth and
falsity, but sometimes of necessity it has one or the other of these. And since
significant vocal sounds are formed to express these conceptions of the
intellect, it is necessary that some significant vocal sounds signify without
truth and falsity, others with truth and falsity—in order that the sign be
conformed to what is signified. 3 Deinde cum dicit: circa compositionem etc.,
manifestat quod dixerat. Et primo, quantum ad id quod dixerat de intellectu;
secundo, quantum ad id quod dixerat de assimilatione vocum ad intellectum; ibi:
nomina igitur ipsa et verba et cetera. Ad ostendendum igitur quod intellectus
quandoque est sine vero et falso, quandoque autem cum altero horum, dicit primo
quod veritas et falsitas est circa compositionem et divisionem. Ubi oportet
intelligere quod una duarum operationum intellectus est indivisibilium
intelligentia: in quantum scilicet intellectus intelligit absolute cuiusque rei
quidditatem sive essentiam per seipsam, puta quid est homo vel quid album vel
quid aliud huiusmodi. Alia vero operatio intellectus est, secundum quod
huiusmodi simplicia concepta simul componit et dividit. Dicit ergo quod in hac
secunda operatione intellectus, idest componentis et dividentis, invenitur
veritas et falsitas: relinquens quod in prima operatione non invenitur, ut etiam
traditur in III de anima. Then when he says, for in composition and division
there is truth and falsity, he manifests what he has just said: first with
respect to what he has said about thought; secondly, with respect to what he
has said about the likeness of vocal sounds to thought, where he says Names and
verbs, then are like understanding without composition or division, etc. To
show that sometimes there is thought without truth or falsity and sometimes it
is accompanied by one of these, he says first that truth and falsity concern
composition and division. To understand this we must note again that one of the
two operations of the intellect is the understanding of what is indivisible.
This the intellect does when it understands the quiddity or essence of a thing
absolutely, for instance, what man is or what white is or what something else
of this kind is. The other operation is the one in which it composes and
divides simple concepts of this kind. He says that in this second operation of
the intellect, i.e., composing and dividing, truth and falsity is found; the
conclusion being that it is not found in the first, as he also says in III De
anima [6: 430a 26]. 4 Sed circa hoc primo videtur esse dubium: quia cum divisio
fiat per resolutionem ad indivisibilia sive simplicia, videtur quod sicut in
simplicibus non est veritas vel falsitas, ita nec in divisione. Sed dicendum
est quod cum conceptiones intellectus sint similitudines rerum, ea quae circa
intellectum sunt dupliciter considerari et nominari possunt. Uno modo, secundum
se: alio modo, secundum rationes rerum quarum sunt similitudines. Sicut imago
Herculis secundum se quidem dicitur et est cuprum; in quantum autem est
similitudo Herculis nominatur homo. Sic etiam, si consideremus ea quae sunt
circa intellectum secundum se, semper est compositio, ubi est veritas et
falsitas; quae nunquam invenitur in intellectu, nisi per hoc quod intellectus
comparat unum simplicem conceptum alteri. Sed si referatur ad rem, quandoque
dicitur compositio, quandoque dicitur divisio. Compositio quidem, quando
intellectus comparat unum conceptum alteri, quasi apprehendens coniunctionem
aut identitatem rerum, quarum sunt conceptiones; divisio autem, quando sic
comparat unum conceptum alteri, ut apprehendat res esse diversas. Et per hunc
etiam modum in vocibus affirmatio dicitur compositio, in quantum coniunctionem
ex parte rei significat; negatio vero dicitur divisio, in quantum significat
rerum separationem. There seems to be a difficulty about this point, for
division is made by resolution to what is indivisible, or simple, and therefore
it seems that just as truth and falsity is not in simple things, so neither is
it in division. To answer this it should be pointed out that the conceptions of
the intellect are likenesses of things and therefore the things that are in the
intellect can be considered and named in two ways: according to themselves, and
according to the nature of the things of which they are the likenesses. For
just as a statue—say of Hercules—in itself is called and is bronze but as it is
a likeness of Hercules is named man, so if we consider the things that are in
the intellect in themselves, there is always composition where there is truth
and falsity, for they are never found in the intellect except as it compares
one simple concept with another. But if the composition is referred to reality,
it is sometimes called composition, sometimes division: composition when the
intellect compares one concept to another as though apprehending a conjunction
or identity of the things of which they are conceptions; division, when it so
compares one concept with another that it apprehends the things to be diverse.
In vocal sound, therefore, affirmation is called composition inasmuch as it
signifies a conjunction on the part of the thing and negation is called
division inasmuch as it signifies the separation of things. 5 Ulterius autem
videtur quod non solum in compositione et divisione veritas consistat. Primo
quidem, quia etiam res dicitur vera vel falsa, sicut dicitur aurum verum vel
falsum. Dicitur etiam quod ens et verum convertuntur. Unde videtur quod etiam
simplex conceptio intellectus, quae est similitudo rei, non careat veritate et
falsitate. Praeterea, philosophus dicit in Lib. de anima quod sensus propriorum
sensibilium semper est verus; sensus autem non componit vel dividit; non ergo
in sola compositione vel divisione est veritas. Item, in intellectu divino
nulla est compositio, ut probatur in XII metaphysicae; et tamen ibi est prima
et summa veritas; non ergo veritas est solum circa compositionem et divisionem.
There is still another objection in relation to this point. It seems that truth
is not in composition and division alone, for a thing is also said to be true
or false. For instance, gold is said to be true gold or false gold.
Furthermore, being and true are said to be convertible. It seems, therefore,
that the simple conception of the intellect, which is a likeness of the thing,
also has truth and falsity. Again, the Philosopher says in his book De anima
[II, 6: 418a 15], that the sensation of proper sensibles is always true. But
the sense does not compose or divide. Therefore, truth is not in composition
and division exclusively. Moreover, in the divine intellect there is no
composition, as is proved in XII Metaphysicae [9: 1074b 15–1075a 11]. But the
first and highest truth is in the divine intellect. Therefore, truth is not in
composition and division exclusively. 6 Ad huiusmodi igitur evidentiam
considerandum est quod veritas in aliquo invenitur dupliciter: uno modo, sicut
in eo quod est verum: alio modo, sicut in dicente vel cognoscente verum.
Invenitur autem veritas sicut in eo quod est verum tam in simplicibus, quam in
compositis; sed sicut in dicente vel cognoscente verum, non invenitur nisi
secundum compositionem et divisionem. Quod quidem sic patet. To answer these
difficulties the following considerations are necessary. Truth is found in
something in two ways: as it is in that which is true, and as it is in the one
speaking or knowing truth. Truth as it is in that which is true is found in
both simple things and composite things, but truth in the one speaking or
knowing truth is found only according to composition and division. This will
become clear in what follows. 7 Verum enim, ut philosophus dicit in VI
Ethicorum, est bonum intellectus. Unde de quocumque dicatur verum, oportet quod
hoc sit per respectum ad intellectum. Comparantur autem ad intellectum voces
quidem sicut signa, res autem sicut ea quorum intellectus sunt similitudines.
Considerandum autem quod aliqua res comparatur ad intellectum dupliciter. Uno
quidem modo, sicut mensura ad mensuratum, et sic comparantur res naturales ad
intellectum speculativum humanum. Et ideo intellectus dicitur verus secundum
quod conformatur rei, falsus autem secundum quod discordat a re. Res autem
naturalis non dicitur esse vera per comparationem ad intellectum nostrum, sicut
posuerunt quidam antiqui naturales, existimantes rerum veritatem esse solum in
hoc, quod est videri: secundum hoc enim sequeretur quod contradictoria essent
simul vera, quia contradictoria cadunt sub diversorum opinionibus. Dicuntur
tamen res aliquae verae vel falsae per comparationem ad intellectum nostrum,
non essentialiter vel formaliter, sed effective, in quantum scilicet natae sunt
facere de se veram vel falsam existimationem; et secundum hoc dicitur aurum
verum vel falsum. Alio autem modo, res comparantur ad intellectum, sicut mensuratum
ad mensuram, ut patet in intellectu practico, qui est causa rerum. Unde opus
artificis dicitur esse verum, in quantum attingit ad rationem artis; falsum
vero, in quantum deficit a ratione artis. Truth, as the Philosopher says in VI
Ethicorum [2: 1139a 28-30], is the good of the intellect. Hence, anything that
is said to be true is such by reference to intellect. Now vocal sounds are
related to thought as signs, but things are related to thought as that of which
thoughts are likenesses. It must be noted, however, that a thing is related to
thought in two ways: in one way as the measure to the measured, and this is the
way natural things are related to the human speculative intellect. Whence
thought is said to be true insofar as it is conformed to the thing, but false
insofar as it is not in conformity with the thing. However, a natural thing is
not said to be true in relation to our thought in the way it was taught by
certain ancient natural philosophers who supposed the truth of things to be
only in what they seemed to be. According to this view it would follow that
contradictories could be at once true, since the opinions of different men can
be contradictory. Nevertheless, some things are said to be true or false in
relation to our thought—not essentially or formally, but effectively—insofar as
they are so constituted naturally as to cause a true or false estimation of
themselves. It is in this way that gold is said to be true or false. In another
way, things are compared to thought as measured to the measure, as is evident
in the practical intellect, which is a cause of things. In this way, the work
of an artisan is said to be true insofar as it achieves the conception in the
mind of the artist, and false insofar as it falls short of that conception. 8
Et quia omnia etiam naturalia comparantur ad intellectum divinum, sicut
artificiata ad artem, consequens est ut quaelibet res dicatur esse vera
secundum quod habet propriam formam, secundum quam imitatur artem divinam. Nam
falsum aurum est verum aurichalcum. Et hoc modo ens et verum convertuntur, quia
quaelibet res naturalis per suam formam arti divinae conformatur. Unde
philosophus in I physicae, formam nominat quoddam divinum. Now all natural
things are related to the divine intellect as artifacts to art and therefore a
thing is said to be true insofar as it has its own form, according to which it
represents divine art; false gold, for example, is true copper. It is in terms
of this that being and true are converted, since any natural thing is conformed
to divine art through its form. For this reason the Philosopher in I Physicae
[9: 192a 17] says that form is something divine. 9. Et sicut res dicitur vera
per comparationem ad suam mensuram, ita etiam et sensus vel intellectus, cuius
mensura est res extra animam. Unde sensus dicitur verus, quando per formam suam
conformatur rei extra animam existenti. Et sic intelligitur quod sensus proprii
sensibilis sit verus. Et hoc etiam modo intellectus apprehendens quod quid est
absque compositione et divisione, semper est verus, ut dicitur in III de anima.
Est autem considerandum quod quamvis sensus proprii obiecti sit verus, non
tamen cognoscit hoc esse verum. Non enim potest cognoscere habitudinem
conformitatis suae ad rem, sed solam rem apprehendit; intellectus autem potest
huiusmodi habitudinem conformitatis cognoscere; et ideo solus intellectus
potest cognoscere veritatem. Unde et philosophus dicit in VI metaphysicae quod
veritas est solum in mente, sicut scilicet in cognoscente veritatem. Cognoscere
autem praedictam conformitatis habitudinem nihil est aliud quam iudicare ita
esse in re vel non esse: quod est componere et dividere; et ideo intellectus
non cognoscit veritatem, nisi componendo vel dividendo per suum iudicium. Quod
quidem iudicium, si consonet rebus, erit verum, puta cum intellectus iudicat
rem esse quod est, vel non esse quod non est. Falsum autem quando dissonat a
re, puta cum iudicat non esse quod est, vel esse quod non est. Unde patet quod
veritas et falsitas sicut in cognoscente et dicente non est nisi circa
compositionem et divisionem. Et hoc modo philosophus loquitur hic. Et quia
voces sunt signa intellectuum, erit vox vera quae significat verum intellectum,
falsa autem quae significat falsum intellectum: quamvis vox, in quantum est res
quaedam, dicatur vera sicut et aliae res. Unde haec vox, homo est asinus, est
vere vox et vere signum; sed quia est signum falsi, ideo dicitur falsa. And
just as a thing is said to be true by comparison to its measure, so also is
sensation or thought, whose measure is the thing outside of the soul.
Accordingly, sensation is said to be true when the sense through its form is in
conformity with the thing existing outside of the a soul. It is in this way
that the sensation of proper sensibles is true, and the intellect apprehending
what a thing is apart from composition and division is always true, as is said
in III De anima. It should be noted, however, that although the sensation of
the proper object is true the sense does not perceive the sensation to be true,
for it cannot know its relationship of conformity with the thing but only
apprehends the thing. The intellect, on the other hand, can know its
relationship of conformity and therefore only the intellect can know truth.
This is the reason the Philosopher says in VI Metaphysicae [4: 1027b 26] that
truth is only in the mind, that is to say, in one knowing truth. To know this
relationship of conformity is to judge that a thing is such or is not, which is
to compose and divide; therefore, the intellect does not know truth except by
composing and dividing through its judgment. If the judgment is in accordance
with things it will be true, i.e., when the intellect judges a thing to be what
it is or not to be what it is not. The judgment will be false when it is not in
accordance with the thing, i.e., when it judges that what is, is not, or that
what is not, is. It is evident from this that truth and falsity as it is in the
one knowing and speaking is had only in composition and division. This is what
the Philosopher is speaking of here. And since vocal sounds are signs of
thought, that vocal sound will be true which signifies true thought, false
which signifies false thought, although vocal sound insofar as it is a real
thing is said to be true in the same way other things are. Thus the vocal sound
"Man is an ass” is truly vocal sound and truly a sign, but because it is a
sign of something false it is said to be false. 10 Sciendum est autem quod
philosophus de veritate hic loquitur secundum quod pertinet ad intellectum
humanum, qui iudicat de conformitate rerum et intellectus componendo et
dividendo. Sed iudicium intellectus divini de hoc est absque compositione et
divisione: quia sicut etiam intellectus noster intelligit materialia
immaterialiter, ita etiam intellectus divinus cognoscit compositionem et
divisionem simpliciter. It should be noted that the Philosopher is speaking of
truth here as it relates to the human intellect, which judges of the conformity
of things and thought by composing and dividing. However, the judgment of the
divine intellect concerning this is without composition and division, for just
as our intellect understands material things immaterially, so the divine
intellect knows composition and division simply.” Deinde cum dicit: nomina
igitur ipsa et verba etc., manifestat quod dixerat de similitudine vocum ad
intellectum. Et primo, manifestat propositum. Secundo, probat per signum. Ibi:
huius autem signum et cetera. Concludit ergo ex praemissis quod, cum solum
circa compositionem et divisionem sit veritas et falsitas in intellectu,
consequens est quod ipsa nomina et verba, divisim accepta, assimilentur
intellectui qui est sine compositione et divisione; sicut cum homo vel album
dicitur, si nihil aliud addatur: non enim verum adhuc vel falsum est; sed
postea quando additur esse vel non esse, fit verum vel falsum. When he says,
Names and verbs, then, are like thought without composition or division, he
manifests what he has said about the likeness of vocal sounds to thought. Next
he proves it by a sign when he says, A sign of this is that "goatstag”
signifies something but is neither true nor false, etc. Here he concludes from
what has been said that since there is truth and falsity in the intellect only
when there is composition or division, it follows that names and verbs, taken
separately, are like thought which is without composition and division; as when
we say "man” or "white,” and nothing else is added. For these are
neither true nor false at this point, but when "to be” or "not to be”
is added they be come true or false. Nec est instantia de eo, qui per unicum
nomen veram responsionem dat ad interrogationem factam; ut cum quaerenti: quid
natat in mari? Aliquis respondet, piscis. Nam intelligitur verbum quod fuit in
interrogatione positum. Et sicut nomen per se positum non significat verum vel
falsum, ita nec verbum per se dictum. Nec est instantia de verbo primae et
secundae personae, et de verbo exceptae actionis: quia in his intelligitur
certus et determinatus nominativus. Unde est *implicita* -- im-plicata –
implicatura – implicitura -- compositio, licet non explicita – ex-plicata –
explicatura – explicitura --. Although
one might think so, the case of someone giving a,, single name as a true
response to a question is not an instance that can be raised against this
position; for example, suppose someone asks, "What swims in the sea?” and
the answer is "Fish”; this is not opposed to the position Aristotle is
taking here, for the verb that was posited in the question is understood. And
just as the name said by itself does not signify truth or falsity, so neither
does the verb said by itself. The verbs of the first and second person and the
intransitive verb” are not instances opposed to this position either, for in
these a particular and determined nominative is understood. Consequently there
is implicit composition, though not explicit. 13. Deinde cum dicit: signum autem etc.,
inducit signum ex nomine composito, scilicet “hirco-cervus”, quod componitur ex
“hirco” et “cervus” et quod in graeco dicitur “tragelaphos” -- nam “tragos” est
‘hircus’, et “elaphos” ‘cervus’. [Benedetto Croce – Calogero – antifascism –
liberaldemocrazia – Berlusconi – ‘che diavolo e un icocerco? Una chimera, ma
anche un obggetivo possibile”] Huiusmodi enim nomina significant aliquid,
scilicet quosdam conceptus simplices, licet rerum compositarum; et ideo non est
verum vel falsum, nisi quando additur esse vel non esse, per quae exprimitur
iudicium intellectus. Potest autem addi esse vel non esse, vel secundum
praesens tempus, quod est esse vel non esse in actu, et ideo hoc dicitur esse
simpliciter; vel secundum tempus praeteritum, aut futurum, quod non est esse
simpliciter, sed secundum quid; ut cum dicitur aliquid fuisse vel futurum esse.
Signanter autem utitur exemplo ex nomine significante quod non est in rerum
natura, in quo statim falsitas apparet, et quod sine compositione et divisione
non possit verum vel falsum esse. Then
he says, A sign of this is that "goatstag” signifies something but is
neither true nor false unless "to be or "not to be” is added either
absolutely or according to time. Here he introduces as a sign the composite
name "goatstag,” from "goat” and "stag.” In Greek the word is
"tragelaphos,” from "tragos” meaning goat and "elaphos” meaning
stag. Now names of this kind signify something, namely, certain simple concepts
(although the things they signify are composite), and therefore are not true or
false unless "to be” or "not to be” is added, by which a judgment of
the intellect is expressed. The "to be” or "not to be” can be added
either according to present time, which is to be or not to be in act and for
this reason is to be simply; or according to past or future time, which is to
be relatively, not simply; as when we say that something has been or will be.
Notice that Aristotle expressly uses as an example here a name signifying
something that does not exist in reality, in which fictiveness is immediately
evident, and which cannot be true or false without composition and
division. IV. 1. Postquam [Aristoteles] philosophus
determinavit de ordine significationis vocum, hic accedit ad determinandum de
ipsis vocibus signi-ficativis. Et quia principaliter intendit de enunciatione,
quae est subiectum huius libri. In qualibet autem scientia oportet praenoscere
principia subiecti. Ideo primo, determinat de principiis enunciationis; secundo,
de ipsa enunciatione. Ibi: enunciativa vero non omnis et cetera. Circa primum
duo facit: primo enim, determinat principia quasi materialia enunciationis,
scilicet partes integrales ipsius. Secundo, determinat principium formale,
scilicet orationem, quae est enunciationis genus. Ibi: oratio autem est vox
signi-ficativa et cetera. Circa primum duo facit. Primo, determinat de nomine,
quod signi-ficat rei substantiam. Secundo, determinat de verbo, quod significat
actionem vel passionem procedentem a re. Ibi: verbum autem est quod con-significat
tempus et cetera. Circa primum tria facit. Primo, definit nomen; secundo,
definitionem exponit. Ibi: in nomine enim quod est equiferus etc. Tertio,
excludit quaedam, quae perfecte rationem nominis non habent, ibi: non homo vero
non est nomen. [“Having determined the order of the signification of vocal
sounds, the Philosopher begins here to establish the definitions of the
significant vocal sounds. His principal intention is to establish what an
enunciation is—which is the subject of this book—but since in any science the
principles of the subject must be known first, he begins with the principles of
the enunciation and then establishes what an enunciation is where he says, All
speech is not enunciative, etc.” With respect to the principles of the
enunciation he first determines the nature of the quasi material principles,
i.e., its integral parts, and secondly the formal principle, i.e., speech,
which is the genus of the enunciation, where he says, Speech is significant
vocal sound, etc.” Apropos of the quasi material principles of the enunciation
he first establishes that a name signifies the substance of a thing and then
that the verb signifies action or passion proceeding from a thing, where he
says The verb is that which signifies with time, etc.” In relation to this
first point, he first defines the name, and then explains the definition where
he says, for in the name "Campbell” the part "bell,” as such,
signifies nothing, etc., and finally excludes certain things—those that do not
have the definition of the name perfectly—where he says, "Non-man,”
however, is not a name, etc.”] 2. Circa primum considerandum est quod definitio
ideo dicitur terminus, quia includit totaliter rem. Ita scilicet, quod nihil
rei est extra definitionem, cui scilicet definitio non conveniat. Nec aliquid
aliud est infra definitionem, cui scilicet definitio conveniat. [“It should be
noted in relation to defining the name, that a definition is said to be a limit
because it includes a thing totally, i.e., such that nothing of the thing is
outside of the definition, that is, there is nothing of the thing to which the
definition does not belong; nor is any other thing under the definition, that
is, the definition belongs to no other thing.”] 3 Et ideo quinque ponit in
definitione nominis. Primo, ponitur vox per modum generis, per quod
distinguitur nomen ab omnibus sonis, qui non sunt voces. Nam vox est sonus ab
ore animalis prolatus, cum imaginatione quadam, ut dicitur in II de anima.
Additur autem prima differentia, scilicet *signi-ficativa*, ad differentiam
quarumcumque vocum non significantium, sive sit vox litterata et articulata,
sicut “biltris”, sive non litterata et non articulata, sicut sibilus pro nihilo
factus. Et quia de signi-ficatione vocum in superioribus actum est, ideo ex
praemissis concludit quod nomen est vox signi-ficativa. Aristotle posits five
parts in the definition of the name. Vocal sound is given first, as the genus.
This distinguishes the name from all sounds that are not vocal; for vocal sound
is sound produced from the mouth of an animal and involves a certain kind of
mental image, as is said in II De anima [8: 420b 30-34]. The second part is the
first difference, i.e., significant, which differentiates the name from any
non-significant vocal sound, whether lettered and articulated, such as
"biltris,” or non-lettered and non-articulated, as a hissing for no
reason. Now since he has already determined the signification of vocal sounds,
he concludes from what has been established that a name is a significant vocal
sound. 4 Sed cum vox sit quaedam res *naturalis*,
nomen autem non est aliquid naturale sed ab hominibus institutum, videtur quod
non debuit genus nominis ponere vocem, quae est *ex natura*, sed magis *signum*,
quod est *ex institutione*. Ut diceretur: nomen est *signum* vocale. Sicut
etiam convenientius definiretur scutella, si quis diceret quod est vas ligneum,
quam si quis diceret quod est lignum formatum in vas. But vocal sound is a natural thing, whereas a
name is not natural but instituted by men; it seems, therefore, that Aristotle
should have taken sign, which is from institution, as the genus of the name,
rather than vocal sound, which is from nature. Then the definition would be: a
name is a vocal sign, etc., just as a salver would be more suitably defined as
a wooden dish than as wood formed into a dish. 5. Sed dicendum quod *arti-ficialia*
sunt quidem in genere substantiae ex parte materiae, in genere autem
accidentium ex parte formae. Nam formae *arti-ficialium* accidentia sunt. Nomen
ergo signi-ficat formam accidentalem ut concretam subiecto. Cum autem in
definitione omnium accidentium oporteat poni subiectum, necesse est quod, si
qua nomina accidens in abstracto signi-ficant quod in eorum definitione ponatur
accidens in recto, quasi genus, subiectum autem in obliquo, quasi differentia;
ut cum dicitur, simitas est curvitas nasi. Si qua vero nomina accidens
significant in concreto, in eorum definitione ponitur materia, vel subiectum,
quasi genus, et accidens, quasi differentia; ut cum dicitur, simum est nasus
curvus. Si igitur nomina rerum *arti-ficialium* significant formas
accidentales, ut concretas subiectis *naturalibus*, convenientius est, ut in
eorum definitione ponatur res *naturalis* quasi genus, ut dicamus quod scutella
est lignum figuratum, et similiter quod nomen est vox signi-ficativa. Secus
autem esset, si nomina *arti-ficialium* acciperentur, quasi signi-ficantia
ipsas formas arti-ficiales in abstracto. [5. “It should be noted, however, that
while it is true that artificial things are in the genus of substance on the
part of matter, they are in the genus of accident on the part of form, since
the forms of artificial things are accidents. A name, therefore, signifies an
accidental form made concrete in a subject. Now the subject must be posited in
the definition of every accident; hence, when names signify an accident in the
abstract the accident has to be posited directly (i.e., in the nominative case)
as a quasi-genus in their definition and the subject posited obliquely (i.e.,
in an oblique case such as the genitive, dative, or accusative) as a
quasi-difference; as for example, when we define snubness as curvedness of the
nose. But when names signify an accident ill the concrete, the matter or
subject has to be posited in their definition as a quasi-genus and the accident
as a quasi-difference, as when we say that a snub nose is a curved nose.
Accordingly, if the names of artificial things signify accidental forms as made
concrete in *natural* subjects, then it is more appropriate to posit the
natural thing in their definition as a quasi-genus. We would say, therefore,
that a salver is shaped wood, and likewise, that a name is a significant vocal
sound. It would be another matter if names of *artificial* things were taken as
signifying artificial forms in the abstract”]. Aristotele ponit secundam
differentiam cum dicit: ‘secundum placitum’, idest *secundum institutionem
humanam a beneplacito hominis procedentem*. Et per hoc differt nomen a vocibus
signi-FICANTIBUS *naturaliter*, sicut sunt *gemitus infirmorum* [gemitus
infirmi] et voces brutorum animalium. Ponit tertiam differentiam, scilicet sine
tempore, per quod differt nomen a verbo. Sed videtur hoc esse falsum: quia hoc
nomen dies vel annus significat tempus. Sed dicendum quod circa tempus tria
possunt considerari. Primo quidem, ipsum tempus, secundum quod est res quaedam,
et sic potest significari a nomine, sicut quaelibet alia res. Alio modo, potest
considerari id, quod tempore mensuratur, in quantum huiusmodi: et quia id quod
primo et principaliter tempore mensuratur est motus, in quo consistit actio et
passio, ideo verbum quod significat actionem vel passionem, significat cum
tempore. Substantia autem secundum se considerata, prout significatur per nomen
et pronomen, non habet in quantum huiusmodi ut tempore mensuretur, sed solum
secundum quod subiicitur motui, prout per participium significatur. Et ideo
verbum et participium significant cum tempore, non autem nomen et pronomen.
Tertio modo, potest considerari ipsa habitudo temporis mensurantis; quod
significatur per adverbia temporis, ut cras, heri et huiusmodi. The fourth part
is the third difference, i.e., without time, which differentiates the name from
the verb. This, however, seems to be false, for the name "day” or
"year” signifies time. But there are three things that can be considered
with respect to time; first, time itself, as it is a certain kind of thing or
reality, and then it can be signified by a name just like any other thing;
secondly, that which is measured by time, insofar as it is measured by time.
Motion, which consists of action and passion, is what is measured first and
principally by time, and therefore the verb, which signifies action and
passion, signifies with time. Substance considered in itself, which a name or a
pronoun signify, is not as such measured by time, but only insofar as it is
subjected to motion, and this the participle signifies. The verb and the
participle, therefore, signify with time, but not the name and pronoun. The
third thing that can be considered is the very relationship of time as it
measures. This is signified by adverbs of time such as "tomorrow,”
"yesterday,” and others of this kind. 8 Quinto, ponit quartam differentiam
cum subdit: cuius nulla pars est significativa separata, scilicet a toto
nomine; comparatur tamen ad significationem nominis secundum quod est in toto.
Quod ideo est, quia significatio est quasi forma nominis; nulla autem pars
separata habet formam totius, sicut manus separata ab homine non habet formam
humanam. Et per hoc distinguitur nomen ab oratione, cuius pars significat
separata; ut cum dicitur, homo iustus. The fifth part is the fourth difference,
no part of which is significant separately, that is, separated from the whole
name; but it is related to the signification of the name according as it is in
the whole. The reason for this is that signification is a quasi-form of the
name. But no separated part has the form of the whole; just as the hand
separated from the man does not have the human form. This difference
distinguishes the name from speech, some parts of which signify separately, as
for example in "just man.” 9 Deinde cum dicit: in nomine enim quod est
etc., manifestat praemissam definitionem. Et primo, quantum ad ultimam
particulam; secundo, quantum ad tertiam; ibi: secundum vero placitum et cetera.
Nam primae duae particulae manifestae sunt ex praemissis; tertia autem
particula, scilicet sine tempore, manifestabitur in sequentibus in tractatu de
verbo. Circa primum duo facit: primo, manifestat propositum per nomina
composita; secundo, ostendit circa hoc differentiam inter nomina simplicia et
composita; ibi: at vero nonquemadmodum et cetera. Manifestat ergo primo quod
pars nominis separata nihil significat, per nomina composita, in quibus hoc
magis videtur. In hoc enim nomine quod est equiferus, haec pars ferus, per se
nihil significat sicut significat in hac oratione, quae est equus ferus. Cuius
ratio est quod unum nomen imponitur ad significandum unum simplicem
intellectum; aliud autem est id a quo imponitur nomen ad significandum, ab eo
quod nomen significat; sicut hoc nomen lapis imponitur a laesione pedis, quam
non significat: quod tamen imponitur ad significandum conceptum cuiusdam rei.
Et inde est quod pars nominis compositi, quod imponitur ad significandum
conceptum simplicem, non significat partem conceptionis compositae, a qua imponitur
nomen ad significandum. Sed oratio significat ipsam conceptionem compositam:
unde pars orationis significat partem conceptionis compositae. When he says,
for in the name "Campbell” the part "bell” as such signifies nothing,
etc., he explains the definition. First he explains the last part of the
definition; secondly, the third part, by convention. The first two parts were
explained in what preceded, and the fourth part, without time, will be
explained later in the section on the verb. And first he explains the last part
by means of a composite name; then he shows what the difference is between
simple and composite names where he says, However the case is not exactly the
same in simple names and composite names, etc. First, then, he shows that a part
separated from a name signifies nothing. To do this he uses a composite name
because the point is more striking there. For in the name "Campbell” the
part "bell” per se signifies nothing, although it does signify something
in the phrase "camp bell.” The reason for this is that one name is imposed
to signify one simple conception; but that from which a name is imposed to
signify is different from that which a name signifies. For example, the name
"pedigree”, The Latin here is lapis, from laesione pedis. To bring out the
point St. Thomas is making herean equivalent English word of Latin derivation,
i.e., "pedigree,” has been used. Close is imposed from pedis and grus
[crane’s foot] which it does not signify, to signify the concept of a certain
thing. Hence, a part of the composite name—which composite name is imposed to
signify a simple concept—does not signify a part of the composite conception
from which the name is imposed to signify. Speech, on the other hand, does
signify a composite conception. Hence, a part of speech signifies a part of the
composite conception. 10. Deinde cum dicit: at vero non etc., ostendit quantum
ad hoc differentiam inter nomina simplicia et composita, et dicit quod non ita
se habet in nominibus simplicibus, sicut et in compositis: quia in simplicibus
pars nullo modo est significativa, neque secundum veritatem, neque secundum
apparentiam; sed in compositis vult quidem, idest apparentiam habet
significandi; nihil tamen pars eius significat, ut dictum est de nomine
equiferus. Haec autem ratio differentiae est, quia nomen simplex sicut
imponitur ad significandum conceptum simplicem, ita etiam imponitur ad
significandum ab aliquo simplici conceptu; nomen vero compositum imponitur a
composita conceptione, ex qua habet apparentiam quod pars eius significet. When
he says, However, the case is not exactly the same in simple names and
composite names, etc., he shows that there is a difference between simple and
composite names in regard to their parts not signifying separately. Simple
names are not the same as composite names in this respect because in simple
names a part is in no way significant, either according to truth or according
to appearance, but in composite names the part has meaning, i.e., has the
appearance of signifying; yet a part of it signifies nothing, as is said of the
name "breakfast.” The reason for this difference is that the simple name
is imposed to signify a simple concept and is also imposed from a simple
concept; but the composite name is imposed from a composite conception, and
hence has the appearance that a part of it signifies. 11. Deinde cum dicit: “secundum
placitum”, etc., manifestat tertiam partem praedictae definitionis; et dicit
quod ideo dictum est quod nomen “significat secundum placitum”, quia nullum
nomen est “naturaliter”. Ex hoc enim est nomen, quod significat: non autem
significat *naturaliter*, sed *ex institutione*. Et hoc est quod subdit: sed
quando fit nota, idest quando imponitur ad significandum. Id enim quod
naturaliter significat *non fit* [cfr. signi-FICARE], sed naturaliter est
signum. Et hoc *signi-ficat* cum dicit. Illitterati enim soni, ut ferarum, quia
scilicet litteris *signi-FICARI* non possunt. Et dicit potius sonos quam voces,
quia quaedam animalia non habent vocem, eo quod carent pulmone, sed tantum
quibusdam sonis proprias *passiones* *naturaliter* *signi-FICANT*. Nihil autem
horum sonorum est nomen. Ex quo manifeste datur intelligi quod nomen non
significat naturaliter. -Sciendum tamen est quod circa hoc fuit diversa
quorumdam opinio. Quidam enim dixerunt quod nomina nullo modo naturaliter
significant: nec differt quae res quo nomine significentur. Alii vero dixerunt
quod nomina omnino naturaliter significant, quasi nomina sint naturales
similitudines rerum. Quidam vero dixerunt quod nomina non naturaliter
significant quantum ad hoc, quod eorum significatio non est a natura, ut
Aristoteles hic intendit; quantum vero ad hoc naturaliter significant quod
eorum significatio congruit naturis rerum, ut Plato dixit. Nec obstat quod una
res multis nominibus significatur: quia unius rei possunt esse multae
similitudines; et similiter ex diversis proprietatibus possunt uni rei multa
diversa nomina imponi. Non est autem intelligendum quod dicit: quorum nihil est
nomen, quasi soni animalium non habeant nomina: nominantur enim quibusdam
nominibus, sicut dicitur rugitus leonis et mugitus bovis; sed quia nullus talis
sonus est nomen, ut dictum est. However, there were diverse opinions about
this. Some men said that names in no way signify naturally and that it makes no
difference which things are signified by which names. Others said that names
signify naturally in every way, as if names were natural likenesses of things.
Still others said names do not signify naturally, i.e., insofar as their
signification is not from nature, as Aristotle maintains here, but that names
do signify naturally in the sense that their signification corresponds to the natures
of things, as Plato held. The fact that one thing is signified by many names is
not in opposition to Aristotle’s position here, for there can be many
likenesses of one thing; and similarly, from diverse properties many diverse
names can be imposed on one thing. When Aristotle says, but none of them is a
name, he does not mean that the sounds of animals are not named, for we do have
names for them; "roaring,” for example, is said of the sound made by a
lion, and "lowing” of that of a cow. What he means is that no such sound
is a name. 13 Deinde cum dicit: non homo vero etc., excludit quaedam a nominis
ratione. Et primo, nomen infinitum; secundo, casus nominum; ibi: Catonis autem
vel Catoni et cetera. Dicit ergo primo quod non homo non est nomen. Omne enim
nomen significat aliquam naturam determinatam, ut homo; aut personam
determinatam, ut pronomen; aut utrumque determinatum, ut Socrates. Sed hoc quod
dico non homo, neque determinatam naturam neque determinatam personam
significat. Imponitur enim a negatione hominis, quae aequaliter dicitur de
ente, et non ente. Unde non homo potest dici indifferenter, et de eo quod non
est in rerum natura; ut si dicamus, Chimaera est non homo, et de eo quod est in
rerum natura; sicut cum dicitur, equus est non homo. Si autem imponeretur a
privatione, requireret subiectum ad minus existens: sed quia imponitur a
negatione, potest dici de ente et de non ente, ut Boethius et Ammonius dicunt.
Quia tamen significat per modum nominis, quod potest subiici et praedicari,
requiritur ad minus suppositum in apprehensione. Non autem erat nomen positum
tempore Aristotelis sub quo huiusmodi dictiones concluderentur. Non enim est
oratio, quia pars eius non significat aliquid separata, sicut nec in nominibus
compositis; similiter autem non est negatio, id est oratio negativa, quia
huiusmodi oratio superaddit negationem affirmationi, quod non contingit hic. Et
ideo novum nomen imponit huiusmodi dictioni, vocans eam nomen infinitum propter
indeterminationem significationis, ut dictum est. When he says, "Non-man,”
however, is not a name, etc., he points out that certain things do not have the
nature of a name. First he excludes the infinite name; then the cases of the
name where he says, "Of Philo” and "to Philo,” etc. He says that
"non-man” is not a name because every name signifies some determinate
nature, for example, "man,” or a determinate person in the case of the
pronoun, or both determinately, as in "Socrates.” But when we say
"non-man” it signifies neither a determinate nature nor a determinate
person, because it is imposed from the negation of man, which negation is
predicated equally of being and non-being. Consequently, "non-man” can be
said indifferently both of that which does not exist in reality, as in "A
chimera is non-man,” and of that which does exist in reality, as in "A
horse is non-man.” Now if the infinite name were imposed from a privation it
would require at least an existing subject, but since it is imposed from a
negation, it can be predicated of being and nonbeing, as Boethius and Ammonius
say. However, since it signifies in the mode of a name, and can therefore be
subjected and predicated, a suppositum is required at least in apprehension. In
the time of Aristotle there was no name for words of this kind. They are not speech
since a part of such a word does not signify something separately, just as a
part of a composite name does not signify separately; and they are not
negations, i.e., negative speech, for speech of this kind adds negation to
affirmation, which is not the case here. Therefore he imposes a new name for
words of this kind, the "infinite name,” because of the indetermination of
signification, as has been said. 14 Deinde cum dicit: Catonis autem vel Catoni
etc., excludit casus nominis; et dicit quod Catonis vel Catoni et alia
huiusmodi non sunt nomina, sed solus nominativus dicitur principaliter nomen,
per quem facta est impositio nominis ad aliquid significandum. Huiusmodi autem
obliqui vocantur casus nominis: quia quasi cadunt per quamdam declinationis originem
a nominativo, qui dicitur rectus eo quod non cadit. Stoici autem dixerunt etiam
nominativos dici casus: quos grammatici sequuntur, eo quod cadunt, idest
procedunt ab interiori conceptione mentis. Et dicitur rectus, eo quod nihil
prohibet aliquid cadens sic cadere, ut rectum stet, sicut stilus qui cadens
ligno infigitur. When he says, "Of Philo” and "to Philo” and all such
expressions are not names but modes of names, he excludes the cases of names
from the nature of the name. The nominative is the one that is said to be a
name principally, for the imposition of the name to signify something was made
through it. Oblique expressions of the kind cited are called cases of the name
because they fall away from the nominative as a kind of source of their declension.
On the other hand, the nominative, because it does not fall away, is said to be
erect. The Stoics held that even the nominatives were cases (with which the
grammarians agree), because they fall, i.e., proceed from the interior
conception of the mind; and they said they were also called erect because
nothing prevents a thing from falling in such a way that it stands erect, as
when a pen falls and is fixed in wood. Aquinas lib. 1 l. 4 n. 15Deinde cum
dicit: ratio autem eius etc., ostendit consequenter quomodo se habeant obliqui
casus ad nomen; et dicit quod ratio, quam significat nomen, est eadem et in
aliis, scilicet casibus nominis; sed in hoc est differentia quod nomen
adiunctum cum hoc verbo est vel erit vel fuit semper significat verum vel
falsum: quod non contingit in obliquis. Signanter autem inducit exemplum de
verbo substantivo: quia sunt quaedam alia verba, scilicet impersonalia, quae
cum obliquis significant verum vel falsum; ut cum dicitur, poenitet Socratem,
quia actus verbi intelligitur ferri super obliquum; ac si diceretur, poenitentia
habet Socratem. Then he says, The definition of these is the same in all other
respects as that of the name itself, etc. Here Aristotle shows how oblique
cases are related to the name. The definition, as it signifies the name, is the
same in the others, namely, in the cases of the name. But they differ in this
respect: the name joined to the verb "is” or "will be” or "has
been” always signifies the true or false; in oblique cases this is not so. It
is significant that the substantive verb is the one he uses as an example, for
there are other verbs, i.e., impersonal verbs, that do signify the true or
false when joined with a name in an oblique case, as in "It grieves
Socrates,” because the act of the verb is understood to be carried over to the
oblique cases, as though what were said were, "Grief possesses Socrates.”
Aquinas lib. 1 l. 4 n. 16Sed contra: si nomen infinitum et casus non sunt
nomina, inconvenienter data est praemissa nominis definitio, quae istis convenit.
Sed dicendum, secundum Ammonium, quod supra communius definit nomen, postmodum
vero significationem nominis arctat subtrahendo haec a nomine. Vel dicendum
quod praemissa definitio non simpliciter convenit his: nomen enim infinitum
nihil determinatum significat, neque casus nominis significat secundum primum
placitum instituentis, ut dictum est. However, an objection could be made
against Aristotle’s position in this portion of his text. If the infinite name
and the cases of the name are not names, then the definition of the name (which
belongs to these) is not consistently presented. There are two ways of
answering this objection. We could say, as Ammonius does, that Aristotle
defines the name broadly, and afterward limits the signification of the name by
subtracting these from it. Or, we could say that the definition Aristotle has
given does not belong to these absolutely, since the infinite name signifies
nothing determinate, and the cases of the name do not signify according to the
first intent of the one instituting the name, as has been said. V. 1. Postquam
philosophus determinavit de nomine: hic determinat de verbo. Et circa hoc tria
facit: primo, definit verbum; secundo, excludit quaedam a ratione verbi; ibi:
non currit autem, et non laborat etc.; tertio, ostendit convenientiam verbi ad
nomen; ibi: ipsa quidem secundum se dicta verba, et cetera. Circa primum duo
facit: primo, ponit definitionem verbi; secundo exponit eam; ibi: dico autem
quoniam consignificat et cetera. After determining the nature of the name the
Philosopher now determines the nature of the verb. First he defines the verb;
secondly, he excludes certain forms of verbs from the definition, where he
says, "Non-matures” and "non-declines” I do not call verbs, etc.;
finally, he shows in what the verb and name agree where he says, Verbs in
themselves, said alone, are names, etc. First, then, he defines the verb and
immediately begins to explain the definition where he says, I mean by
"signifies with time,” etc. 2 Est autem considerandum quod Aristoteles,
brevitati studens, non ponit in definitione verbi ea quae sunt nomini et verbo
communia, relinquens ea intellectui legentis ex his quae dixerat in definitione
nominis. Ponit autem tres particulas in definitione verbi: quarum prima distinguit
verbum a nomine, in hoc scilicet quod dicit quod consignificat tempus. Dictum
est enim in definitione nominis quod nomen significat sine tempore. Secunda
vero particula est, per quam distinguitur verbum ab oratione, scilicet cum
dicitur: cuius pars nihil extra significat. In order to be brief, Aristotle
does not give what is common to the name and the verb in the definition of the
verb, but leaves this for the reader to understand from the definition of the
name. He posits three elements in the definition of the verb. The first of
these distinguishes the verb from the name, for the verb signifies with time,
the name without time, as was stated in its definition. The second element, no
part of which signifies separately, distinguishes the verb from speech. 3 Sed
cum hoc etiam positum sit in definitione nominis, videtur hoc debuisse
praetermitti, sicut et quod dictum est, vox significativa ad placitum. Ad quod
respondet Ammonius quod in definitione nominis hoc positum est, ut distinguatur
nomen ab orationibus, quae componuntur ex nominibus; ut cum dicitur, homo est
animal. Quia vero sunt etiam quaedam orationes quae componuntur ex verbis; ut
cum dicitur, ambulare est moveri, ut ab his distinguatur verbum, oportuit hoc
etiam in definitione verbi iterari. Potest etiam aliter dici quod quia verbum
importat compositionem, in qua perficitur oratio verum vel falsum significans,
maiorem convenientiam videbatur verbum habere cum oratione, quasi quaedam pars
formalis ipsius, quam nomen, quod est quaedam pars materialis et subiectiva
orationis; et ideo oportuit iterari. This second element was also given in the
definition of the name and therefore it seems that this second element along
with vocal sound significant by convention, should have been omitted. Ammonius
says in reply to this that Aristotle posited this in the definition of the name
to distinguish it from speech which is composed of names, as in "Man is an
animal”; but speech may also be composed of verbs, as in "To walk is to
move”; therefore, this also bad to be repeated in the definition of the verb to
distinguish it from speech. We might also say that since the verb introduces
the composition which brings about speech signifying truth or falsity, the verb
seems to be more like speech (being a certain formal part of it) than the name
which is a material and subjective part of it; therefore this had to be repeated.
4 Tertia vero particula est, per quam distinguitur verbum non solum a nomine,
sed etiam a participio quod significat cum tempore; unde dicit: et est semper
eorum, quae de altero praedicantur nota, idest signum: quia scilicet nomina et
participia possunt poni ex parte subiecti et praedicati, sed verbum semper est
ex parte praedicati. The third element distinguishes the verb not only from the
name, but also from the participle, which also signifies with time. He makes
this distinction when he says, and it is a sign of something said of something
else, i.e., names and participles can be posited on the part of the subject and
the predicate, but the verb is always posited on the part of the predicate. 5 Sed
hoc videtur habere instantiam in verbis infinitivi modi, quae interdum ponuntur
ex parte subiecti; ut cum dicitur, ambulare est moveri. Sed dicendum est quod
verba infinitivi modi, quando in subiecto ponuntur, habent vim nominis: unde et
in Graeco et in vulgari Latina locutione suscipiunt additionem articulorum
sicut et nomina. Cuius ratio est quia proprium nominis est, ut significet rem
aliquam quasi per se existentem; proprium autem verbi est, ut significet
actionem vel passionem. Potest autem actio significari tripliciter: uno modo,
per se in abstracto, velut quaedam res, et sic significatur per nomen; ut cum
dicitur actio, passio, ambulatio, cursus et similia; alio modo, per modum
actionis, ut scilicet est egrediens a substantia et inhaerens ei ut subiecto,
et sic significatur per verba aliorum modorum, quae attribuuntur praedicatis.
Sed quia etiam ipse processus vel inhaerentia actionis potest apprehendi ab
intellectu et significari ut res quaedam, inde est quod ipsa verba infinitivi
modi, quae significant ipsam inhaerentiam actionis ad subiectum, possunt accipi
ut verba, ratione concretionis, et ut nomina prout significant quasi res
quasdam. But it seems that verbs are used as subjects. The verb in the infinitive
mode is an instance of this, as in the example, "To walk is to be moving.”
Verbs of the infinitive mode, however, have the force of names when they are
used as subjects. (Hence in both Greek and ordinary Latin usage articles are
added to them as in the case of names.) The reason for this is that it is
proper to the name to signify something as existing per se, but proper to the
verb to signify action or passion. Now there are three ways of signifying
action or passion. It can be signified per se, as a certain thing in the
abstract and is thus signified by a name such as "action,” "passion,”
"walking,” "running,” and so on. It can also be signified in the mode
of an action, i.e., as proceeding from a substance and inhering in it as in a
subject; in this way action or passion is signified by the verbs of the
different modes attributed to predicates. Finally—and this is the third way in
which action or passion can be signified—the very process or inherence of
action can be apprehended by the intellect and signified as a thing. Verbs of
the infinitive mode signify such inherence of action in a subject and hence can
be taken as verbs by reason of concretion, and as names inasmuch as they
signify as things. 6 Potest etiam obiici de hoc quod etiam verba aliorum
modorum videntur aliquando in subiecto poni; ut cum dicitur, curro est verbum.
Sed dicendum est quod in tali locutione, hoc verbum curro, non sumitur
formaliter, secundum quod eius significatio refertur ad rem, sed secundum quod
materialiter significat ipsam vocem, quae accipitur ut res quaedam. Et ideo tam
verba, quam omnes orationis partes, quando ponuntur materialiter, sumuntur in
vi nominum. On this point the objection may also be raised that verbs of other
modes sometimes seem to be posited as subjects; for example when we say,
"‘Matures’is a verb.” In such a statement, however, the verb
"matures” is not taken formally according as its signification is referred
to a thing, but as it signifies the vocal sound itself materially, which vocal
sound is taken as a thing. When posited in this way, i.e., materially, verbs
and all parts of speech are taken with the force of names. 7 Deinde cum dicit: dico vero quoniam
consignificat etc., exponit definitionem positam. Et primo, quantum ad hoc quod
dixerat quod consignificat tempus; secundo, quantum ad hoc quod dixerat quod
est nota eorum quae de altero praedicantur, cum dicit: et semper est et cetera.
Secundam autem particulam, scilicet: cuius nulla pars extra significat, non
exponit, quia supra exposita est in tractatu nominis. Exponit ergo primum quod
verbum consignificat tempus, per exemplum; quia videlicet cursus, quia
significat actionem non per modum actionis, sed per modum rei per se
existentis, non consignificat tempus, eo quod est nomen. Curro vero cum sit
verbum significans actionem, consignificat tempus, quia proprium est motus
tempore mensurari; actiones autem nobis notae sunt in tempore. Dictum est autem
supra quod consignificare tempus est significare aliquid in tempore mensuratum.
Unde aliud est significare tempus principaliter, ut rem quamdam, quod potest
nomini convenire, aliud autem est significare cum tempore, quod non convenit
nomini, sed verbo. Then he says, I mean by "signifies with time” that
"maturity,” for example, is a name, but "matures” is a verb, etc.”’
With this he begins to explain the definition of the verb: first in regard to
signifies with time; secondly, in regard to the verb being a sign of something
said of something else. He does not explain the second part, no part of which
signifies separately, because an explanation of it has already been made in
connection with the name. First, he shows by an example that the verb signifies
with time. "Maturity,” for example, because it signifies action, not in
the mode of action but. in the mode of a thing existing per se, does not
signify with time, for it is a name. But "matures,” since it is a verb
signifying action, signifies with time, because to be measured by time is
proper to motion; moreover, actions are known by us in time. We have already
mentioned that to signify with time is to signify something measured in time.
Hence it is one thing to signify time principally, as a thing, which is
appropriate to the name; however, it is another thing to signify with time,
which is not proper to the name but to the verb. 8 Deinde cum dicit: et est
semper etc., exponit aliam particulam. Ubi notandum est quod quia subiectum
enunciationis significatur ut cui inhaeret aliquid, cum verbum significet
actionem per modum actionis, de cuius ratione est ut inhaereat, semper ponitur ex
parte praedicati, nunquam autem ex parte subiecti, nisi sumatur in vi nominis,
ut dictum est. Dicitur ergo verbum semper esse nota eorum quae dicuntur de
altero: tum quia verbum semper significat id, quod praedicatur; tum quia in
omni praedicatione oportet esse verbum, eo quod verbum importat compositionem,
qua praedicatum componitur subiecto. Then he says, Moreover, a verb is always a
sign of something that belongs to something, i.e., of something present in a
subject. Here he explains the last part of the definition of the verb. It
should be noted first that the subject of an enunciation signifies as that in
which something inheres. Hence, when the verb signifies action through the mode
of action (the nature of which is to inhere) it is always posited on the part
of the predicate and never on the part of the subject—unless it is taken with
the force of a name, as was said. The verb, therefore, is always said to be a
sign of something said of another, and this not only because the verb always
signifies that which is predicated but also because there must be a verb in
every predication, for the verb introduces the composition by which the
predicate is united with the subject. Aquinas lib. 1 l. 5 n. 9Sed dubium
videtur quod subditur: ut eorum quae de subiecto vel in subiecto sunt. Videtur
enim aliquid dici ut de subiecto, quod essentialiter praedicatur; ut, homo est
animal; in subiecto autem, sicut accidens de subiecto praedicatur; ut, homo est
albus. Si ergo verba significant actionem vel passionem, quae sunt accidentia,
consequens est ut semper significent ea, quae dicuntur ut in subiecto. Frustra
igitur dicitur in subiecto vel de subiecto. Et ad hoc dicit Boethius quod
utrumque ad idem pertinet. Accidens enim et de subiecto praedicatur, et in
subiecto est. Sed quia Aristoteles disiunctione utitur, videtur aliud per
utrumque significare. Et ideo potest dici quod cum Aristoteles dicit quod,
verbum semper est nota eorum, quae de altero praedicantur, non est sic
intelligendum, quasi significata verborum sint quae praedicantur, quia cum
praedicatio videatur magis proprie ad compositionem pertinere, ipsa verba sunt
quae praedicantur, magis quam significent praedicata. Est ergo intelligendum
quod verbum semper est signum quod aliqua praedicentur, quia omnis praedicatio
fit per verbum ratione compositionis importatae, sive praedicetur aliquid
essentialiter sive accidentaliter. The last phrase of this portion of the text
presents a difficulty, namely, "of something belonging to [i.e., of] a
subject or in a subject.” For it seems that something is said of a subject when
it is predicated essentially, as in "Man is an animal”; but in a subject,
when it is an accident that is predicated of a subject, as in "Man is
white.” But if verbs signify action or passion (which are accidents), it
follows that they always signify what is in a subject. It is useless,
therefore, to say "belonging to [i.e., of] a subject or in a subject.” In
answer to this Boethius says that both pertain to the same thing, for an
accident is predicated of a subject and is also in a subject. Aristotle,
however, uses a disjunction, which seems to indicate that he means something
different by each. Therefore it could be said in reply to this that when
Aristotle says the verb is always a sign of those things that are predicated of
another” it is not to be understood as though the things signified by verbs are
predicated. For predication seems to pertain more properly to composition;
therefore, the verbs themselves are what are predicated, rather than signify
predicates.” The verb, then, is always a sign that something is being
predicated because all predication is made through the verb by reason of the
composition introduced, whether what is being predicated is predicated
essentially or accidentally. Aquinas lib. 1 l. 5 n. 10Deinde cum dicit: non
currit vero et non laborat etc., excludit quaedam a ratione verbi. Et primo,
verbum infinitum; secundo, verba praeteriti temporis vel futuri; ibi: similiter
autem curret vel currebat. Dicit ergo primo quod non currit, et non laborat,
non proprie dicitur verbum. Est enim proprium verbi significare aliquid per
modum actionis vel passionis; quod praedictae dictiones non faciunt: removent
enim actionem vel passionem, potius quam aliquam determinatam actionem vel
passionem significent. Sed quamvis non proprie possint dici verbum, tamen
conveniunt sibi ea quae supra posita sunt in definitione verbi. Quorum primum
est quod significat tempus, quia significat agere et pati, quae sicut sunt in
tempore, ita privatio eorum; unde et quies tempore mensuratur, ut habetur in VI
physicorum. Secundum est quod semper ponitur ex parte praedicati, sicut et verbum:
et hoc ideo, quia negatio reducitur ad genus affirmationis. Unde sicut verbum
quod significat actionem vel passionem, significat aliquid ut in altero
existens, ita praedictae dictiones significant remotionem actionis vel
passionis. When he says, "Non-matures” and "non-declines” I do not
call verbs, etc., he excludes certain forms of verbs from the definition of the
verb. And first he excludes the infinite verb, then the verbs of past and
future time. "Non-matures” and "non-declines” cannot strictly speaking
be called verbs for it is proper to the verb to signify something in the mode
of action or passion. But these words remove action or passion rather than
signify a determinate action or passion. Now while they cannot properly be
called verbs, all the parts of the definition of the verb apply to them. First
of all the verb signifies time, because it signifies to act or to be acted
upon; and since these are in time so are their privations; whence rest, too, is
measured by time, as is said in VI Physicorum. Again, the infinite verb is
always posited on the part of the predicate just as the verb is; the reason is
that negation is reduced to the genus of affirmation. Hence, just as the verb,
which signifies action or passion, signifies something as existing in another,
so the foresaid words signify the remotion of action or passion. 11 Si quis
autem obiiciat: si praedictis dictionibus convenit definitio verbi; ergo sunt
verba; dicendum est quod definitio verbi supra posita datur de verbo communiter
sumpto. Huiusmodi autem dictiones negantur esse verba, quia deficiunt a
perfecta ratione verbi. Nec ante Aristotelem erat nomen positum huic generi
dictionum a verbis differentium; sed quia huiusmodi dictiones in aliquo cum
verbis conveniunt, deficiunt tamen a determinata ratione verbi, ideo vocat ea
verba infinita. Et rationem nominis assignat, quia unumquodque eorum
indifferenter potest dici de eo quod est, vel de eo quod non est. Sumitur enim
negatio apposita non in vi privationis, sed in vi simplicis negationis. Privatio
enim supponit determinatum subiectum. Differunt tamen huiusmodi verba a verbis
negativis, quia verba infinita sumuntur in vi unius dictionis, verba vero negativa
in vi duarum dictionum. Now someone might object that if the definition of the
verb applies to the above words, then they are verbs. In answer to this it
should be pointed out that the definition which has been given of the verb is
the definition of it taken commonly. Insofar as these words fall short of the
perfect notion of the verb, they are not called verbs. Before Aristotle’s time
a name bad not been imposed for a word that differs from verbs as these do. He
calls them infinite verbs because such words agree in some things with verbs
and yet fall short of the determinate notion of the verb. The reason for the
name, he says, is that an infinite verb can be said indifferently of what is or
what is not; for the adjoined negation is taken, not with the force of
privation, but with the force of simple negation since privation supposes a determinate
subject. Infinite verbs do differ from negative verbs, however, for infinite
verbs are taken with the force of one word, negative verbs with the force of
two. 12 Deinde cum dicit: similiter autem curret etc., excludit a verbo verba
praeteriti et futuri temporis; et dicit quod sicut verba infinita non sunt
simpliciter verba, ita etiam curret, quod est futuri temporis, vel currebat,
quod est praeteriti temporis, non sunt verba, sed sunt casus verbi. Et
differunt in hoc a verbo, quia verbum consignificat praesens tempus, illa vero
significant tempus hinc et inde circumstans. Dicit autem signanter praesens
tempus, et non simpliciter praesens, ne intelligatur praesens indivisibile,
quod est instans: quia in instanti non est motus, nec actio aut passio; sed
oportet accipere praesens tempus quod mensurat actionem, quae incepit, et
nondum est determinata per actum. Recte autem ea quae consignificant tempus
praeteritum vel futurum, non sunt verba proprie dicta: cum enim verbum proprie
sit quod significat agere vel pati, hoc est proprie verbum quod significat
agere vel pati in actu, quod est agere vel pati simpliciter: sed agere vel pati
in praeterito vel futuro est secundum quid. When he says, Likewise, "has
matured” and "will mature” are not verbs, but modes of verbs, etc., he
excludes verbs of past and future time from the definition. For just as
infinite verbs are not verbs absolutely, so "will mature,” which is of
future time, and "has matured,” of past time, are not verbs. They are
cases of the verb and differ from the verb—which signifies with present time—by
signifying time before and after the present. Aristotle expressly says
"present time” and not just "present” because he does not mean here
the indivisible present which is the instant; for in the instant there is
neither movement, nor action, nor passion. Present time is to be taken as the
time that measures action which has begun and has not yet been terminated in
act. Accordingly, verbs that signify with past or future time are not verbs in
the proper sense of the term, for the verb is that which signifies to act or to
be acted upon and therefore strictly speaking signifies to act or to be acted
upon in act, which is to act or to be acted upon simply, whereas to act or to
be acted upon in past or future time is relative. 13 Dicuntur etiam verba
praeteriti vel futuri temporis rationabiliter casus verbi, quod consignificat
praesens tempus; quia praeteritum vel futurum dicitur per respectum ad
praesens. Est enim praeteritum quod fuit praesens, futurum autem quod erit
praesens. It is with reason that verbs of past or future time are called cases
of the verb signifying with present time, for past or future are said with
respect to the present, the past being that which was present, the future, that
which will be present. Aquinas lib. 1 l. 5 n. 14Cum autem declinatio verbi
varietur per modos, tempora, numeros et personas, variatio quae fit per numerum
et personam non constituit casus verbi: quia talis variatio non est ex parte
actionis, sed ex parte subiecti; sed variatio quae est per modos et tempora
respicit ipsam actionem, et ideo utraque constituit casus verbi. Nam verba
imperativi vel optativi modi casus dicuntur, sicut et verba praeteriti vel
futuri temporis. Sed verba indicativi modi praesentis temporis non dicuntur
casus, cuiuscumque sint personae vel numeri. Although the inflection of the
verb is varied by mode, time, number, and person, the variations that are made
in number and person do not constitute cases of the verb, the reason being that
such variation is on the part of the subject, not on the part of the action.
But variation in mode and time refers to the action itself and hence both of
these constitute cases of the verb. For verbs of the imperative or optative
modes are called cases as well as verbs of past or future time. Verbs of the
indicative mode in present time, however, are not called cases, whatever their
person and number. 15 Deinde cum dicit: ipsa itaque etc., ostendit
convenientiam verborum ad nomina. Et circa hoc duo facit: primo, proponit quod
intendit; secundo, manifestat propositum; ibi: et significant aliquid et
cetera. Dicit ergo primo, quod ipsa verba secundum se dicta sunt nomina: quod a
quibusdam exponitur de verbis quae sumuntur in vi nominis, ut dictum est, sive
sint infinitivi modi; ut cum dico, currere est moveri, sive sint alterius modi;
ut cum dico, curro est verbum. Sed haec non videtur esse intentio Aristotelis,
quia ad hanc intentionem non respondent sequentia. Et ideo aliter dicendum est
quod nomen hic sumitur, prout communiter significat quamlibet dictionem
impositam ad significandum aliquam rem. Et quia etiam ipsum agere vel pati est
quaedam res, inde est quod et ipsa verba in quantum nominant, idest significant
agere vel pati, sub nominibus comprehenduntur communiter acceptis. Nomen autem,
prout a verbo distinguitur, significat rem sub determinato modo, prout scilicet
potest intelligi ut per se existens. Unde nomina possunt subiici et praedicari.
He points out the conformity between verbs and names where he says, Verbs in
themselves, said alone, are names. He proposes this first and then manifests
it. He says then, first, that verbs said by themselves are names. Some have
taken this to mean the verbs that are taken with the force of names, either
verbs of the infinitive mode, as in "To run is to be moving,” or verbs of
another mode, as in "‘Matures’ is a verb.” But this does not seem to be
what Aristotle means, for it does not correspond to what he says next.
Therefore "name” must be taken in another way here, i.e., as it commonly
signifies any word whatever that is imposed to signify a thing. Now, since to
act or to be acted upon is also a certain thing, verbs themselves as they name,
i.e., as they signify to act or to be acted upon, are comprehended under names
taken commonly. The name as distinguished from the verb signifies the thing
under a determinate mode, i.e., according as the thing can be understood as
existing per se. This is the reason names can be subjected and predicated. 6 Deinde
cum dicit: et significant aliquid etc., probat propositum. Et primo, per hoc
quod verba significant aliquid, sicut et nomina; secundo, per hoc quod non
significant verum vel falsum, sicut nec nomina; ibi: sed si est, aut non est et
cetera. Dicit ergo primo quod in tantum dictum est quod verba sunt nomina, in
quantum significant aliquid. Et hoc probat, quia supra dictum est quod voces
significativae significant intellectus. Unde proprium vocis significativae est
quod generet aliquem intellectum in animo audientis. Et ideo ad ostendendum
quod verbum sit vox significativa, assumit quod ille, qui dicit verbum,
constituit intellectum in animo audientis. Et ad hoc manifestandum inducit quod
ille, qui audit, quiescit. He proves the point he has just made when he says,
and signify something, etc., first by showing that verbs, like names, signify
something; then by showing that, like names, they do not signify truth or
falsity when he says, for the verb is not a sign of the being or nonbeing of a
thing. He says first that verbs have been said to be names only insofar as they
signify a thing. Then he proves this: it has already been said that significant
vocal sound signifies thought; hence it is proper to significant vocal sound to
produce something understood in the mind of the one who hears it. To show,
then, that a verb is significant vocal sound he assumes that the one who utters
a verb brings about understanding in the mind of the one who bears it. The
evidence he introduces for this is that the mind of the one who bears it is set
at rest. 17 Sed hoc videtur esse falsum: quia sola oratio perfecta facit
quiescere intellectum, non autem nomen, neque verbum si per se dicatur. Si enim
dicam, homo, suspensus est animus audientis, quid de eo dicere velim; si autem
dico, currit, suspensus est eius animus de quo dicam. Sed dicendum est quod cum
duplex sit intellectus operatio, ut supra habitum est, ille qui dicit nomen vel
verbum secundum se, constituit intellectum quantum ad primam operationem, quae
est simplex conceptio alicuius, et secundum hoc, quiescit audiens, qui in
suspenso erat antequam nomen vel verbum proferretur et eius prolatio
terminaretur; non autem constituit intellectum quantum ad secundam operationem,
quae est intellectus componentis et dividentis, ipsum verbum vel nomen per se
dictum: nec quantum ad hoc facit quiescere audientem. But what Aristotle says
here seems to be false, for it is only perfect speech that makes the intellect
rest. The name or the verb, if said by themselves, do not do this. For example,
if I say "man,” the mind of the hearer is left in suspense as to what I
wish to say about mail; and if I say "runs,” the bearer’s mind is left in
suspense as to whom I am speaking of. It should be said in answer to this
objection that the operation of the intellect is twofold, as was said above,
and therefore the one who utters a name or a verb by itself, determines the
intellect with respect to the first operation, which is the simple conception
of something. It is in relation to this that the one hearing, whose mind was undetermined
before the name or the verb was being uttered and its utterance terminated, is
set at rest. Neither the name nor the verb said by itself, however, determines
the intellect in respect to the second operation, which is the operation of the
intellect composing and dividing; nor do the verb or the name said alone set
the hearer’s mind at rest in respect to this operation. 18 Et ideo statim
subdit: sed si est, aut non est, nondum significat, idest nondum significat
aliquid per modum compositionis et divisionis, aut veri vel falsi. Et hoc est
secundum, quod probare intendit. Probat autem consequenter per illa verba, quae
maxime videntur significare veritatem vel falsitatem, scilicet ipsum verbum
quod est esse, et verbum infinitum quod est non esse; quorum neutrum per se
dictum est significativum veritatis vel falsitatis in re; unde multo minus
alia. Vel potest intelligi hoc generaliter dici de omnibus verbis. Quia enim
dixerat quod verbum non significat si est res vel non est, hoc consequenter
manifestat, quia nullum verbum est significativum esse rei vel non esse, idest
quod res sit vel non sit. Quamvis enim omne verbum finitum implicet esse, quia
currere est currentem esse, et omne verbum infinitum implicet non esse, quia
non currere est non currentem esse; tamen nullum verbum significat hoc totum,
scilicet rem esse vel non esse. Aristotle therefore immediately adds, but they
do not yet signify whether a thing is or is not, i.e., they do not yet signify
something by way of composition and division, or by way of truth or falsity.
This is the second thing he intends to prove, and he proves it by the verbs
that especially seem to signify truth or falsity, namely the verb to be and the
infinite verb to non-be, neither of which, said by itself, signifies real truth
or falsity; much less so any other verbs. This could also be understood in a
more general way, i.e., that here he is speaking of all verbs; for he says that
the verb does not signify whether a thing is or is not; he manifests this
further, therefore, by saying that no verb is significative of a thing’s being
or non-being, i.e., that a thing is or is not. For although every finite verb
implies being, for "to run” is "to be running,” and every infinite
verb implies nonbeing, for "to non-run” is "to be non-running,”
nevertheless no verb signifies the whole, i.e., a thing is or a thing is not. 19
Et hoc consequenter probat per id, de quo magis videtur cum subdit: nec si hoc
ipsum est purum dixeris, ipsum quidem nihil est. Ubi notandum est quod in
Graeco habetur: neque si ens ipsum nudum dixeris, ipsum quidem nihil est. Ad
probandum enim quod verba non significant rem esse vel non esse, assumpsit id
quod est fons et origo ipsius esse, scilicet ipsum ens, de quo dicit quod nihil
est (ut Alexander exponit), quia ens aequivoce dicitur de decem praedicamentis;
omne autem aequivocum per se positum nihil significat, nisi aliquid addatur
quod determinet eius significationem; unde nec ipsum est per se dictum
significat quod est vel non est. Sed haec expositio non videtur conveniens, tum
quia ens non dicitur proprie aequivoce, sed secundum prius et posterius; unde
simpliciter dictum intelligitur de eo, quod per prius dicitur: tum etiam, quia
dictio aequivoca non nihil significat, sed multa significat; et quandoque hoc,
quandoque illud per ipsam accipitur: tum etiam, quia talis expositio non multum
facit ad intentionem praesentem. Unde Porphyrius aliter exposuit quod hoc ipsum
ens non significat naturam alicuius rei, sicut hoc nomen homo vel sapiens, sed
solum designat quamdam coniunctionem; unde subdit quod consignificat quamdam
compositionem, quam sine compositis non est intelligere. Sed neque hoc
convenienter videtur dici: quia si non significaret aliquam rem, sed solum
coniunctionem, non esset neque nomen, neque verbum, sicut nec praepositiones
aut coniunctiones. Et ideo aliter exponendum est, sicut Ammonius exponit, quod
ipsum ens nihil est, idest non significat verum vel falsum. Et rationem huius
assignat, cum subdit: consignificat autem quamdam compositionem. Nec accipitur
hic, ut ipse dicit, consignificat, sicut cum dicebatur quod verbum
consignificat tempus, sed consignificat, idest cum alio significat, scilicet
alii adiunctum compositionem significat, quae non potest intelligi sine
extremis compositionis. Sed quia hoc commune est omnibus nominibus et verbis,
non videtur haec expositio esse secundum intentionem Aristotelis, qui assumpsit
ipsum ens quasi quoddam speciale. He proves this point from something in which
it will be clearer when he adds, Nor would it be a sign of the being or
nonbeing of a thing if you were to say "is” alone, for it is nothing. It
should be noted that the Greek text has the word "being” in place of
"is” here. In order to prove that verbs do not signify that a thing is or
is not, he takes the source and origin of to be [esse], i.e., being [ens]
itself, of which he says, it is nothing. Alexander explains this passage in the
following way: Aristotle says being itself is nothing because "being”
[ens] is said equivocally of the ten predicaments; now an equivocal name used
by itself signifies nothing unless something is added to determine its
signification; hence, "is” [est] said by itself does not signify what is
or is not. But this explanation is not appropriate for this text. In the first
place "being” is not, strictly speaking, said equivocally but according to
the prior and posterior. Consequently, said absolutely, it is understood of
that of which it is said primarily. Secondly, an equivocal word does not
signify nothing, but many things, sometimes being taken for one, sometimes for
another. Thirdly, such an explanation does not have much application here.
Porphyry explains this passage in another way. He says that "being” [ens]
itself does not signify the nature of a thing as the name "man” or
"wise” do, but only designates a certain conjunction and this is why
Aristotle adds, it signifies with a composition, which cannot be conceived
apart from the things composing it. This explanation does not seem to be
consistent with the text either, for if "being” itself does not signify a
thing, but only a conjunction, it, like prepositions and conjunctions, is
neither a name nor a verb. Therefore Ammonius thought this should be explained
in another way. He says "being itself is nothing” means that it does not
signify truth or falsity. And the reason for this is given when Aristotle says,
it signifies with a composition. The "signifies with,” according to
Ammonius, does not mean what it does when it is said that the verb signifies
with time; "signifies with,” means here signifies with something, i.e.,
joined to another it signifies composition, which cannot be understood without
the extremes of the composition. But this explanation does not seem to be in
accordance with the intention of Aristotle, for it is common to all names and
verbs not to signify truth or falsity, whereas Aristotle takes "being”
here as though it were something special. Aquinas lib. 1 l. 5 n. 20 Et ideo ut
magis sequamur verba Aristotelis considerandum est quod ipse dixerat quod
verbum non significat rem esse vel non esse, sed nec ipsum ens significat rem
esse vel non esse. Et hoc est quod dicit, nihil est, idest non significat
aliquid esse. Etenim hoc maxime videbatur de hoc quod dico ens: quia ens nihil
est aliud quam quod est. Et sic videtur et rem significare, per hoc quod dico
quod et esse, per hoc quod dico est. Et si quidem haec dictio ens significaret
esse principaliter, sicut significat rem quae habet esse, procul dubio
significaret aliquid esse. Sed ipsam compositionem, quae importatur in hoc quod
dico est, non principaliter significat, sed consignificat eam in quantum
significat rem habentem esse. Unde talis consignificatio compositionis non
sufficit ad veritatem vel falsitatem: quia compositio, in qua consistit veritas
et falsitas, non potest intelligi, nisi secundum quod innectit extrema
compositionis. Therefore in order to understand what Aristotle is saying we
should note that he has just said that the verb does not signify that a thing
exists or does not exist [rem esse vel non esse]; nor does "being” [ens]
signify that a thing exists or does not exist. This is what he means when he
says, it is nothing, i.e., it does not signify that a thing exists. This is
indeed most clearly seen in saying "being” [ens], because being is nothing
other than that which is. And thus we see that it signifies both a thing, when
I say "that which,” and existence [esse] when I say "is” [est]. If
the word "being” [ens] as signifying a thing having existence were to
signify existence [esse] principally, without a doubt it would signify that a
thing exists. But the word "being” [ens] does not principally signify the
composition that is implied in saying "is” [est]; rather, it signifies
with composition inasmuch as it signifies the thing having existence. Such
signifying with composition is not sufficient for truth or falsity; for the
composition in which truth and falsity consists cannot be understood unless it
connects the extremes of a composition. 21 Si vero dicatur, nec ipsum esse, ut
libri nostri habent, planior est sensus. Quod enim nullum verbum significat rem
esse vel non esse, probat per hoc verbum est, quod secundum se dictum, non
significat aliquid esse, licet significet esse. Et quia hoc ipsum esse videtur
compositio quaedam, et ita hoc verbum est, quod significat esse, potest videri
significare compositionem, in qua sit verum vel falsum; ad hoc excludendum
subdit quod illa compositio, quam significat hoc verbum est, non potest
intelligi sine componentibus: quia dependet eius intellectus ab extremis, quae
si non apponantur, non est perfectus intellectus compositionis, ut possit in ea
esse verum, vel falsum. If in place of what Aristotle says we say nor would
"to be” itself [nec ipsum esse], as it is in our texts, the meaning is
clearer. For Aristotle proves through the verb "is” [est] that no verb
signifies that a thing exists or does not exist, since "is” said by itself
does not signify that a thing exists, although it signifies existence. And
because to be itself seems to be a kind of composition, so also the verb
"is” [est], which signifies to be, can seem to signify the composition in
which there is truth or falsity. To exclude this Aristotle adds that the
composition which the verb "is” signifies cannot be understood without the
composing things. The reason for this is that an understanding of the
composition which "is” signifies depends on the extremes, and unless they
are added, understanding of the composition is not complete and hence cannot be
true or false. 22 Ideo autem dicit quod hoc verbum est consignificat
compositionem, quia non eam principaliter significat, sed ex consequenti;
significat enim primo illud quod cadit in intellectu per modum actualitatis
absolute: nam est, simpliciter dictum, significat in actu esse; et ideo significat
per modum verbi. Quia vero actualitas, quam principaliter significat hoc verbum
est, est communiter actualitas omnis formae, vel actus substantialis vel
accidentalis, inde est quod cum volumus significare quamcumque formam vel actum
actualiter inesse alicui subiecto, significamus illud per hoc verbum est, vel
simpliciter vel secundum quid: simpliciter quidem secundum praesens tempus;
secundum quid autem secundum alia tempora. Et ideo ex consequenti hoc verbum est
significat compositionem. Therefore he says that the verb "is” signifies
with composition; for it does not signify composition principally but
consequently. it primarily signifies that which is perceived in the mode of
actuality absolutely; for "is” said simply, signifies to be in act, and
therefore signifies in the mode of a verb. However, the actuality which the
verb "is” principally signifies is the actuality of every form commonly,
whether substantial or accidental. Hence, when we wish to signify that any form
or act is actually in some subject we signify it through the verb "is,”
either absolutely or relatively; absolutely, according to present time,
relatively, according to other times; and for this reason the verb "is”
signifies composition, not principally, but consequently. VI. 1. Postquam philosophus
determinavit de nomine et de verbo, quae sunt principia materialia
enunciationis, utpote partes eius existentes; nunc determinat de oratione, quae
est principium formale enunciationis, utpote genus eius existens. Et circa hoc
tria facit: primo enim, proponit definitionem orationis; secundo, exponit eam;
ibi: dico autem ut homo etc.; tertio, excludit errorem; ibi: est autem oratio
omnis et cetera. Having established and explained the definition of the name
and the verb, which are the material principles of the enunciation inasmuch as
they are its parts, the Philosopher now determines and explains what speech is,
which is the formal principle of the enunciation inasmuch as it is its genus.
First he proposes the definition of speech; then he explains it where he says,
Let me explain. The word "animal” signifies something, etc.; finally, he
excludes an error where he says, But all speech is significant—not just as an
instrument, however, etc. 2 Circa primum
considerandum est quod philosophus in definitione orationis primo ponit illud
in quo oratio convenit cum nomine et verbo, cum dicit: oratio est vox
significativa, quod etiam posuit in definitione nominis, et probavit de verbo
quod aliquid significet. Non autem posuit in eius definitione, quia supponebat
ex eo quod positum erat in definitione nominis, studens brevitati, ne idem
frequenter iteraret. Iterat tamen hoc in definitione orationis, quia
significatio orationis differt a significatione nominis et verbi, quia nomen
vel verbum significat simplicem intellectum, oratio vero significat intellectum
compositum. In defining speech the Philosopher first states what it has in
common with the name and verb where he says, Speech is significant vocal sound.
This was posited in the definition of the name but not repeated in the case of
the verb, because it was supposed from the definition of the name. This was
done for the sake of brevity and to avoid repetition; but subsequently he did
prove that the verb signifies something. He repeats this, however, in the
definition of speech because the signification of speech differs from that of
the name and the verb; for the name and the verb signify simple thought,
whereas speech signifies composite thought. 3 Secundo autem ponit id, in quo
oratio differt a nomine et verbo, cum dicit: cuius partium aliquid
significativum est separatim. Supra enim dictum est quod pars nominis non
significat aliquid per se separatum, sed solum quod est coniunctum ex duabus
partibus. Signanter autem non dicit: cuius pars est significativa aliquid
separata, sed cuius aliquid partium est significativum, propter negationes et
alia syncategoremata, quae secundum se non significant aliquid absolutum, sed
solum habitudinem unius ad alterum. Sed quia duplex est significatio vocis, una
quae refertur ad intellectum compositum, alia quae refertur ad intellectum
simplicem; prima significatio competit orationi, secunda non competit orationi,
sed parti orationis. Unde subdit: ut dictio, non ut affirmatio. Quasi dicat:
pars orationis est significativa, sicut dictio significat, puta ut nomen et
verbum, non sicut affirmatio, quae componitur ex nomine et verbo. Facit autem
mentionem solum de affirmatione et non de negatione, quia negatio secundum
vocem superaddit affirmationi; unde si pars orationis propter sui simplicitatem
non significat aliquid, ut affirmatio, multo minus ut negatio. Secondly, he
posits what differentiates speech from the name and verb when he says, of which
some of the parts are significant separately; for a part of a name taken
separately does not signify anything per se, except in the case of a name
composed of two parts, as he said above. Note that he says, of which some of
the parts are significant, and not, a part of which is significant separately;
this is to exclude negations and the other words used to unite categorical
words, which do not in themselves signify something absolutely, but only the
relationship of one thing to another. Then because the signification of vocal
sound is twofold, one being referred to composite thought, the other to simple
thought (the first belonging to speech, the second, not to speech but to a part
of speech), he adds, as words but not as an affirmation. What he means is that
a part of speech signifies in the way a word signifies, a name or a verb, for
instance; it does not signify in the way an affirmation signifies, which is
composed of a name and a verb. He only mentions affirmation because negation
adds something to affirmation as far as vocal sound is concerned for if a part
of speech, since it is simple, does not signify as an affirmation, it will not
signify as a negation. 4 Sed contra hanc definitionem Aspasius obiicit quod
videtur non omnibus partibus orationis convenire. Sunt enim quaedam orationes,
quarum partes significant aliquid ut affirmatio; ut puta, si sol lucet super
terram, dies est; et sic de multis. Et ad hoc respondet Porphyrius quod in
quocumque genere invenitur prius et posterius, debet definiri id quod prius
est. Sicut cum datur definitio alicuius speciei, puta hominis, intelligitur
definitio de eo quod est in actu, non de eo quod est in potentia; et ideo quia
in genere orationis prius est oratio simplex, inde est quod Aristoteles prius
definivit orationem simplicem. Vel potest dici, secundum Alexandrum et
Ammonium, quod hic definitur oratio in communi. Unde debet poni in hac
definitione id quod est commune orationi simplici et compositae. Habere autem
partes significantes aliquid ut affirmatio, competit soli orationi, compositae;
sed habere partes significantes aliquid per modum dictionis, et non per modum
affirmationis, est commune orationi simplici et compositae. Et ideo hoc debuit
poni in definitione orationis. Et secundum hoc non debet intelligi esse de
ratione orationis quod pars eius non sit affirmatio: sed quia de ratione orationis
est quod pars eius sit aliquid quod significat per modum dictionis, et non per
modum affirmationis. Et in idem redit solutio Porphyrii quantum ad sensum,
licet quantum ad verba parumper differat. Quia enim Aristoteles frequenter
ponit dicere pro affirmare, ne dictio pro affirmatione sumatur, subdit quod
pars orationis significat ut dictio, et addit non ut affirmatio: quasi diceret,
secundum sensum Porphyrii, non accipiatur nunc dictio secundum quod idem est
quod affirmatio. Philosophus autem, qui dicitur Ioannes grammaticus, voluit
quod haec definitio orationis daretur solum de oratione perfecta, eo quod
partes non videntur esse nisi alicuius perfecti, sicut omnes partes domus
referuntur ad domum: et ideo secundum ipsum sola oratio perfecta habet partes
significativas. Sed tamen hic decipiebatur, quia quamvis omnes partes
referantur principaliter ad totum perfectum, quaedam tamen partes referuntur ad
ipsum immediate, sicut paries et tectum ad domum, et membra organica ad animal:
quaedam vero mediantibus partibus principalibus quarum sunt partes; sicut
lapides referuntur ad domum mediante pariete; nervi autem et ossa ad animal
mediantibus membris organicis, scilicet manu et pede et huiusmodi. Sic ergo
omnes partes orationis principaliter referuntur ad orationem perfectam, cuius
pars est oratio imperfecta, quae etiam ipsa habet partes significantes. Unde
ista definitio convenit tam orationi perfectae, quam imperfectae. Aspasius
objects to this definition because it does not seem to belong to all parts of
speech. There is a kind of speech he says, in which some of the parts signify
as an affirmation; for instance, "If the sun shines over the earth, it is
day,” and so in many other examples. Porphyry says in reply to this objection
that in whatever genus there is something prior and posterior, it is the prior
thing that has to be defined. For example, when we give the definition of a
species—say, of man—the definition is understood of that which is in act, not
of that which is in potency. Since, then, in the genus of speech, simple speech
is prior, Aristotle defines it first. Or, we can answer the objection in the
way Alexander and Ammonious do. They say that speech is defined here commonly.
Hence what is common to simple and composite speech ought to be stated in the
definition. Now to have parts signifying something as an affirmation belongs
only to composite speech, but to have parts signifying something in the mode of
a word and not in the mode of an affirmation is common to simple and composite
speech. Therefore this had to be posited in the definition of speech. We should
not conclude, however, that it is of the nature of speech that its part not be
an affirmation, but rather that it is of the nature of speech that its parts be
something that signify in the manner of words and not in the manner of an
affirmation. Porphyry’s solution reduces to the same thing as far as meaning is
concerned, although it is a little different verbally. Aristotle frequently
uses "to say” for "to affirm,” and hence to prevent "word” from
being taken as "affirmation” when he says that a part of speech signifies
as a word, he immediately adds, not as an affirmation, meaning—according to
Porphyry’s view—"word” is not taken here in the sense in which it is the
same as "affirmation.” A philosopher called John the Grammarian thought
that this definition could only apply to perfect speech because there only seem
to be parts in the case of something perfect, or complete; for example, a house
to which all of the parts are referred. Therefore only perfect speech has
significant parts. He was in error on this point, however, for while it is true
that all the parts are referred principally to the perfect, or complete whole,
some parts are referred to it immediately, for example, the walls and roof to a
house and organic members to an animal; others, however, are referred to it
through the principal parts of which they are parts; stones, for example, to
the house by the mediate wall, and nerves and bones to the animal by the
mediate organic members like the hand and the foot, etc. In the case of speech,
therefore, all of the parts are principally referred to perfect speech, a part
of which is imperfect speech, which also has significant parts. Hence this
definition belongs both to perfect and to imperfect speech. Aquinas lib. 1 l. 6
n. 5Deinde cum dicit: dico autem ut homo etc., exponit propositam definitionem.
Et primo, manifestat verum esse quod dicitur; secundo, excludit falsum
intellectum; ibi: sed non una hominis syllaba et cetera. Exponit ergo quod
dixerat aliquid partium orationis esse significativum, sicut hoc nomen homo,
quod est pars orationis, significat aliquid, sed non significat ut affirmatio
aut negatio, quia non significat esse vel non esse. Et hoc dico non in actu,
sed solum in potentia. Potest enim aliquid addi, per cuius additionem fit
affirmatio vel negatio, scilicet si addatur ei verbum. When he says, Let me
explain. The word "animal” signifies something, etc., he elucidates the
definition. First he shows that what he says is true; secondly, he excludes a
false understanding of it where he says, But one syllable of "animal” does
not signify anything, etc. He explains that when he says some parts of speech
are significant, he means that some of the parts signify something in the way the
name "animal,” which is a part of speech, signifies something and yet does
not signify as an affirmation or negation, because it does not signify to be or
not to be. By this I mean it does not signify affirmation or negation in act,
but only in potency; for it is possible to add something that will make it an
affirmation or negation, i.e., a verb. 6 Deinde cum dicit: sed non una hominis
etc., excludit falsum intellectum. Et posset hoc referri ad immediate dictum,
ut sit sensus quod nomen erit affirmatio vel negatio, si quid ei addatur, sed
non si addatur ei una nominis syllaba. Sed quia huic sensui non conveniunt
verba sequentia, oportet quod referatur ad id, quod supra dictum est in
definitione orationis, scilicet quod aliquid partium eius sit significativum
separatim. Sed quia pars alicuius totius dicitur proprie illud, quod immediate
venit ad constitutionem totius, non autem pars partis; ideo hoc intelligendum
est de partibus ex quibus immediate constituitur oratio, scilicet de nomine et
verbo, non autem de partibus nominis vel verbi, quae sunt syllabae vel
litterae. Et ideo dicitur quod pars orationis est significativa separata, non
tamen talis pars, quae est una nominis syllaba. Et hoc manifestat in syllabis,
quae quandoque possunt esse dictiones per se significantes: sicut hoc quod dico
rex, quandoque est una dictio per se significans; in quantum vero accipitur ut
una quaedam syllaba huius nominis sorex, soricis, non significat aliquid per
se, sed est vox sola. Dictio enim quaedam est composita ex pluribus vocibus,
tamen in significando habet simplicitatem, in quantum scilicet significat
simplicem intellectum. Et ideo in quantum est vox composita, potest habere
partem quae sit vox, inquantum autem est simplex in significando, non potest
habere partem significantem. Unde syllabae quidem sunt voces, sed non sunt
voces per se significantes. Sciendum tamen quod in nominibus compositis, quae
imponuntur ad significandum rem simplicem ex aliquo intellectu composito,
partes secundum apparentiam aliquid significant, licet non secundum veritatem.
Et ideo subdit quod in duplicibus, idest in nominibus compositis, syllabae quae
possunt esse dictiones, in compositione nominis venientes, significant aliquid,
scilicet in ipso composito et secundum quod sunt dictiones; non autem
significant aliquid secundum se, prout sunt huiusmodi nominis partes, sed eo modo,
sicut supra dictum est. He excludes a false understanding of what has been said
by his next statement. But one syllable of "animal” does not signify
anything. This could be referred to what has just been said and the meaning
would be that the name will be an affirmation or negation if something is added
to it, but not if what is added is one syllable of a name. However, what he
says next is not compatible with this meaning and therefore these words should
be referred to what was stated earlier in defining speech, namely, to some
parts of which are significant separately. Now, since what is properly called a
part of a whole is that which contributes immediately to the formation of the
whole, and not that which is a part of a part, "some parts” should be
understood as the parts from which speech is immediately formed, i.e., the name
and verb, and not as parts of the name or verb, which are syllables or letters.
Hence, what is being said here is that a part of speech is significant
separately but not such a part as the syllable of a name. He manifests this by
means of syllables that sometimes can be words signifying per se. "Owl,”
for example, is sometimes one word signifying per se. When taken as a syllable
of the name "fowl,” however, it does not signify something per se but is
only a vocal sound. For a word is composed of many vocal sounds, but it has
simplicity in signifying insofar as it signifies simple thought. Hence, a word
inasmuch as it is a composite vocal sound can have a part which is a vocal
sound, but inasmuch as it is simple in signifying it cannot have a signifying
part. Whence syllables are indeed vocal sounds, but they are not vocal sounds
signifying per se. In contrast to this it should be noted that in composite
names, which are imposed to signify a simple thing from some composite
understanding, the parts appear to signify something, although according to
truth they do not. For this reason he adds that in compound words, i.e.,
composite names, the syllables may be words contributing to the composition of
a name, and therefore signify something, namely, in the composite, and
according as they are words; but as parts of this kind of name they do not signify
something per se, but in the way that has already been explained. 7 Deinde cum
dicit: est autem oratio etc., excludit quemdam errorem. Fuerunt enim aliqui
dicentes quod oratio et eius partes significant naturaliter, non ad placitum.
Ad probandum autem hoc utebantur tali ratione. Virtutis naturalis oportet esse
naturalia instrumenta: quia natura non deficit in necessariis; potentia autem
interpretativa est naturalis homini; ergo instrumenta eius sunt naturalia.
Instrumentum autem eius est oratio, quia per orationem virtus interpretativa
interpretatur mentis conceptum: hoc enim dicimus instrumentum, quo agens
operatur. Ergo oratio est aliquid naturale, non ex institutione humana significans,
sed naturaliter. Then he says, But all speech is significant—not just as an
instrument, however, etc. Here he excludes the error of those who said that
speech and its parts signify naturally rather than by convention. To prove
their point they used the following argument. The instruments of a natural
power must themselves be natural, for nature does not fail in regard to what is
necessary; but the interpretive power is natural to man; therefore, its
instruments are natural. Now the instrument of the interpretive power is speech
since it is through speech that expression is given to the conception of the
mind; for we mean by an instrument that by which an agent operates. Therefore,
speech is something natural, signifying, not from human institution, but
naturally. Aquinas lib. 1 l. 6 n. 8Huic autem rationi, quae dicitur esse Platonis
in Lib. qui intitulatur Cratylus, Aristoteles obviando dicit quod omnis oratio
est significativa, non sicut instrumentum virtutis, scilicet naturalis: quia
instrumenta naturalia virtutis interpretativae sunt guttur et pulmo, quibus
formatur vox, et lingua et dentes et labia, quibus litterati ac articulati soni
distinguuntur; oratio autem et partes eius sunt sicut effectus virtutis
interpretativae per instrumenta praedicta. Sicut enim virtus motiva utitur
naturalibus instrumentis, sicut brachiis et manibus ad faciendum opera
artificialia, ita virtus interpretativa utitur gutture et aliis instrumentis
naturalibus ad faciendum orationem. Unde oratio et partes eius non sunt res
naturales, sed quidam artificiales effectus. Et ideo subdit quod oratio significat
ad placitum, idest secundum institutionem humanae rationis et voluntatis, ut
supra dictum est, sicut et omnia artificialia causantur ex humana voluntate et
ratione. Sciendum tamen quod, si virtutem interpretativam non attribuamus
virtuti motivae, sed rationi; sic non est virtus naturalis, sed supra omnem
naturam corpoream: quia intellectus non est actus alicuius corporis, sicut
probatur in III de anima. Ipsa autem ratio est, quae movet virtutem corporalem
motivam ad opera artificialia, quibus etiam ut instrumentis utitur ratio: non
sunt autem instrumenta alicuius virtutis corporalis. Et hoc modo ratio potest
etiam uti oratione et eius partibus, quasi instrumentis: quamvis non
naturaliter significent. Aristotle refutes this argument, which is said to be
that of Plato in the Cratylus, when he says that all speech is significant, but
not as an instrument of a power, that is, of a natural power; for the natural
instruments of the interpretive power are the throat and lungs, by which vocal
sound is formed, and the tongue, teeth and lips by which letters and articulate
sounds are formulated. Rather, speech and its parts are effects of the
interpretative power through the aforesaid instruments. For just as the motive
power uses natural instruments such as arms and hands to make an artificial
work, so the interpretative power uses the throat and other natural instruments
to make speech. Hence, speech and its parts are not natural things, but certain
artificial effects. This is the reason Aristotle adds here that speech
signifies by convention, i.e., according to the ordinance of human will and
reason. It should be noted, however, that if we do not attribute the
interpretative power to a motive power, but to reason, then it is not a natural
power but is beyond every corporeal nature, since thought is not an act of the
body, as is proved in III De anima [4: 429a 10]. Moreover, it is reason itself
that moves the corporeal motive power to make artificial works, which reason
then uses as instruments; and thus artificial works are not instruments of a
corporeal power. Reason can also use speech and its parts in this way, i.e., as
instruments, although they do not signify naturally. Postquam philosophus
determinavit de principiis enunciationis, hic incipit determinare de ipsa
enunciatione. Et dividitur pars haec in duas: in prima, determinat de
enunciatione absolute; in secunda, de diversitate enunciationum, quae provenit
secundum ea quae simplici enunciationi adduntur; et hoc in secundo libro; ibi:
quoniam autem est de aliquo affirmatio et cetera. Prima autem pars dividitur in
partes tres. In prima, definit enunciationem; in secunda, dividit eam; ibi: est
autem una prima oratio etc., in tertia, agit de oppositione partium eius ad
invicem; ibi: quoniam autem est enunciare et cetera. Circa primum tria facit:
primo, ponit definitionem enunciationis; secundo, ostendit quod per hanc
definitionem differt enunciatio ab aliis speciebus orationis; ibi: non autem in
omnibus etc.; tertio, ostendit quod de sola enunciatione est tractandum, ibi:
et caeterae quidemrelinquantur. Having defined the principles of the
enunciation, the Philosopher now begins to treat the enunciation itself. This
is divided into two parts. In the first he examines the enunciation absolutely;
in the second the diversity of enunciations resulting from an addition to the
simple enunciation. The latter is treated in the second book, where he says,
Since an affirmation signifies something about a subject, etc.”’ The first
part, on the enunciation absolutely, is divided into three parts. In the first
he defines enunciation; in the second he divides it where he says, First
affirmation, then negation, is enunciative speech that is one, etc.;” in the
third he treats of the opposition of its parts to each other, where he says,
Since it is possible to enunciate that what belongs to a subject does not
belong to it, etc. In the portion of the text treated in this lesson, which is
concerned with the definition of enunciation, he first states the definition,
then shows that this definition differentiates the enunciation from other
species of speech, where he says, Truth and falsity is not present in all
speech however, etc., and finally indicates that only the enunciation is to be
treated in this book where he says, Let us therefore consider enunciative
speech, etc. 2 Circa primum considerandum est quod oratio, quamvis non sit
instrumentum alicuius virtutis naturaliter operantis, est tamen instrumentum
rationis, ut supra dictum est. Omne autem instrumentum oportet definiri ex suo
fine, qui est usus instrumenti: usus autem orationis, sicut et omnis vocis
significativae est significare conceptionem intellectus, ut supra dictum est:
duae autem sunt operationes intellectus, in quarum una non invenitur veritas et
falsitas, in alia autem invenitur verum vel falsum. Et ideo orationem
enunciativam definit ex significatione veri et falsi, dicens quod non omnis
oratio est enunciativa, sed in qua verum vel falsum est. Ubi considerandum est
quod Aristoteles mirabili brevitate usus, et divisionem orationis innuit in hoc
quod dicit: non omnis oratio est enunciativa, et definitionem enunciationis in
hoc quod dicit: sed in qua verum vel falsum est: ut intelligatur quod haec sit
definitio enunciationis, enunciatio est oratio, in qua verum vel falsum est. The
point has just been made that speech, although it is not an instrument of a
power operating naturally, is nevertheless an instrument of reason. Now every
instrument is defined by its end, which is the use of the instrument. The use
of speech, as of every significant vocal sound, is to signify a conception of
the intellect. But there are two operations of the intellect. In one truth and
falsity is found, in the other not. Aristotle therefore defines enunciative
speech by the signification of the true and false: Yet not all speech is
enunciative; but only speech in which there is truth or falsity. Note with what
remarkable brevity he signifies the division of speech by Yet not all speech is
enunciative, and the definition by, but only speech in which there is truth or
falsity. This, then, is to be understood as the definition of the enunciation:
speech in which there is truth and falsity. 3 Dicitur autem in enunciatione
esse verum vel falsum, sicut in signo intellectus veri vel falsi: sed sicut in
subiecto est verum vel falsum in mente, ut dicitur in VI metaphysicae, in re
autem sicut in causa: quia ut dicitur in libro praedicamentorum, ab eo quod res
est vel non est, oratio vera vel falsa est. True or false is said to be in the
enunciation as in a sign of true or false thought; but true or false is in the
mind as in a subject (as is said in VI Metaphysicae), and in the thing as in a
cause (as is said in the book Predicamentorum [5: 4a 35–4b 9])—for it is from
the facts of the case, i.e., from a thing’s being so or not being so, that
speech is true or false. 4 Deinde cum dicit: non autem in omnibus etc.,
ostendit quod per hanc definitionem enunciatio differt ab aliis orationibus. Et
quidem de orationibus imperfectis manifestum est quod non significant verum vel
falsum, quia cum non faciant perfectum sensum in animo audientis, manifestum
est quod perfecte non exprimunt iudicium rationis, in quo consistit verum vel
falsum. His igitur praetermissis, sciendum est quod perfectae orationis, quae
complet sententiam, quinque sunt species, videlicet enunciativa, deprecativa,
imperativa, interrogativa et vocativa. (Non tamen intelligendum est quod solum
nomen vocativi casus sit vocativa oratio: quia oportet aliquid partium
orationis significare aliquid separatim, sicut supra dictum est; sed per
vocativum provocatur, sive excitatur animus audientis ad attendendum; non autem
est vocativa oratio nisi plura coniungantur; ut cum dico, o bone Petre). Harum
autem orationum sola enunciativa est, in qua invenitur verum vel falsum, quia
ipsa sola absolute significat conceptum intellectus, in quo est verum vel
falsum. Next he shows that this definition differentiates the enunciation from
other speech, when he says, Truth or falsity is not present in all speech
however, etc. In the case of imperfect or incomplete speech it is clear that it
does not signify the true or false, since it does not make complete sense to
the mind of the hearer and therefore does not completely express a judgment of
reason in which the true or false consists. Having made this point, however, it
must be noted that there are five species of perfect speech that are complete
in meaning: enunciative, deprecative, imperative, interrogative, and vocative.
(Apropos of the latter it should be noted that a name alone in the vocative
case is not vocative speech, for some of the parts must signify something
separately, as was said above. So, although the mind of the hearer is provoked
or aroused to attention by a name in the vocative case, there is not vocative
speech, unless many words are joined together, as in "O good Peter!”) Of
these species of speech the enunciative is the only one in which there is truth
or falsity, for it alone signifies the conception of the intellect absolutely
and it is in this that there is truth or falsity. 5 Sed quia intellectus vel
ratio, non solum concipit in seipso veritatem rei tantum, sed etiam ad eius
officium pertinet secundum suum conceptum alia dirigere et ordinare; ideo
necesse fuit quod sicut per enunciativam orationem significatur ipse mentis
conceptus, ita etiam essent aliquae aliae orationes significantes ordinem
rationis, secundum quam alia diriguntur. Dirigitur autem ex ratione unius
hominis alius homo ad tria: primo quidem, ad attendendum mente; et ad hoc
pertinet vocativa oratio: secundo, ad respondendum voce; et ad hoc pertinet
oratio interrogativa: tertio, ad exequendum in opere; et ad hoc pertinet
quantum ad inferiores oratio imperativa; quantum autem ad superiores oratio
deprecativa, ad quam reducitur oratio optativa: quia respectu superioris, homo
non habet vim motivam, nisi per expressionem sui desiderii. Quia igitur istae
quatuor orationis species non significant ipsum conceptum intellectus, in quo
est verum vel falsum, sed quemdam ordinem ad hoc consequentem; inde est quod in
nulla earum invenitur verum vel falsum, sed solum in enunciativa, quae
significat id quod mens de rebus concipit. Et inde est quod omnes modi
orationum, in quibus invenitur verum vel falsum, sub enunciatione continentur:
quam quidam dicunt indicativam vel suppositivam. Dubitativa autem ad
interrogativam reducitur, sicut et optativa ad deprecativam. But the intellect,
or reason, does not just conceive the truth of a thing. It also belongs to its
office to direct and order others in accordance with what it conceives.
Therefore, besides enunciative speech, which signifies the concept of the mind,
there had to be other kinds of speech to signify the order of reason by which
others are directed. Now, one man is directed by the reason of another in
regard to three things: first, to attend with his mind, and vocative speech
relates to this; second, to respond with his voice, and interrogative speech
relates to this; third, to execute a work, and in relation to this, imperative
speech is used with regard to inferiors, deprecative with regard to superiors.
Optative speech is reduced to the latter, for a man does not have the power to
move a superior except by the expression of his desire. These four species of
speech do not signify the conception of the intellect in which there is truth
or falsity, but a certain order following upon this. Consequently truth or
falsity is not found in any of them, but only in enunciative speech, which
signifies what the mind conceives from things. It follows that all the modes of
speech in which the true or false is found are contained under the enunciation,
which some call indicative or suppositive. The dubitative, it should be noted,
is reduced to the interrogative, as the optative is to the deprecative. 6 Deinde
cum dicit: caeterae igitur relinquantur etc., ostendit quod de sola enunciativa
est agendum; et dicit quod aliae quatuor orationis species sunt relinquendae,
quantum pertinet ad praesentem intentionem: quia earum consideratio
convenientior est rhetoricae vel poeticae scientiae. Sed enunciativa oratio
praesentis considerationis est. Cuius ratio est, quia consideratio huius libri
directe ordinatur ad scientiam demonstrativam, in qua animus hominis per
rationem inducitur ad consentiendum vero ex his quae sunt propria rei; et ideo
demonstrator non utitur ad suum finem nisi enunciativis orationibus,
significantibus res secundum quod earum veritas est in anima. Sed rhetor et
poeta inducunt ad assentiendum ei quod intendunt, non solum per ea quae sunt
propria rei, sed etiam per dispositiones audientis. Unde rhetores et poetae
plerumque movere auditores nituntur provocando eos ad aliquas passiones, ut
philosophus dicit in sua rhetorica. Et ideo consideratio dictarum specierum
orationis, quae pertinet ad ordinationem audientis in aliquid, cadit proprie
sub consideratione rhetoricae vel poeticae, ratione sui significati; ad
considerationem autem grammatici, prout consideratur in eis congrua vocum constructio.
Then Aristotle says, Let us therefore consider enunciative speech, etc. Here he
points out that only enunciative speech is to be treated; the other four
species must be omitted as far as the present intention is concerned, because
their investigation belongs rather to the sciences of rhetoric or poetics.
Enunciative speech belongs to the present consideration and for the following
reason: this book is ordered directly to demonstrative science, in which the
mind of man is led by an act of reasoning to assent to truth from those things
that are proper to the thing; to this end the demonstrator uses only
enunciative speech, which signifies things according as truth about them is in
the mind. The rhetorician and the poet, on the other hand, induce assent to
what they intend not only through what is proper to the thing but also through the
dispositions of the hearer. Hence, rhetoricians and poets for the most part
strive to move their auditors by arousing certain passions in them, as the
Philosopher says in his Rhetorica. This kind of speech, therefore, which is
concerned with the ordination of the hearer toward something, belongs to the
consideration of rhetoric or poetics by reason of its intent, but to the
consideration of the grammarian as regards a suitable construction of the vocal
sounds. VIII. 1. Postquam philosophus definivit enunciationem, hic dividit eam.
Et dividitur in duas partes: in prima, ponit divisionem enunciationis; in
secunda, manifestat eam; ibi: necesse est autem et cetera. Having defined the
enunciation the Philosopher now divides it. First he gives the division, and
then manifests it where he says, Every enunciative speech however, must contain
a verb, etc. 2 Circa primum considerandum est quod Aristoteles sub breviloquio
duas divisiones enunciationis ponit. Quarum una est quod enunciationum quaedam
est una simplex, quaedam est coniunctione una. Sicut etiam in rebus, quae sunt
extra animam, aliquid est unum simplex sicut indivisibile vel continuum,
aliquid est unum colligatione aut compositione aut ordine. Quia enim ens et
unum convertuntur, necesse est sicut omnem rem, ita et omnem enunciationem
aliqualiter esse unam. It should be noted that Aristotle in his concise way
gives two divisions of the enunciation. The first is the division into one
simply and one by conjunction. This parallels things outside of the soul where
there is also something one simply, for instance the indivisible or the
continuum, and something one either by aggregation or composition or order. In
fact, since being and one are convertible, every enunciation must in some way
be one, just as every thing is. 3 Alia vero subdivisio enunciationis est quod
si enunciatio sit una, aut est affirmativa aut negativa. Enunciatio autem
affirmativa prior est negativa, triplici ratione, secundum tria quae supra
posita sunt: ubi dictum est quod vox est signum intellectus, et intellectus est
signum rei. Ex parte igitur vocis, affirmativa enunciatio est prior negativa,
quia est simplicior: negativa enim enunciatio addit supra affirmativam
particulam negativam. Ex parte etiam intellectus affirmativa enunciatio, quae
significat compositionem intellectus, est prior negativa, quae significat
divisionem eiusdem: divisio enim naturaliter posterior est compositione, nam
non est divisio nisi compositorum, sicut non est corruptio nisi generatorum. Ex
parte etiam rei, affirmativa enunciatio, quae significat esse, prior est
negativa, quae significat non esse: sicut habitus naturaliter prior est
privatione. The other is a subdivision of the enunciation: the division of it
as it is one into affirmative and negative. The affirmative enunciation is
prior to the negative for three reasons, which are related to three things
already stated. It was said that vocal sound is a sign of thought and thought a
sign of the thing. Accordingly, with respect to vocal sound, affirmative enunciation
is prior to negative because it is simpler, for the negative enunciation adds a
negative particle to the affirmative. With respect to thought, the affirmative
enunciation, which signifies composition by the intellect, is prior to the
negative, which signifies division, for division is posterior by nature to
composition since division is only of composite things—just as corruption is
only of generated things. With respect to the thing, the affirmative
enunciation, which signifies to be is prior to the negative, which signifies
not to be, as the having of something is naturally prior to the privation of
it. 4 Dicit ergo quod oratio enunciativa una et prima est affirmatio, idest
affirmativa enunciatio. Et contra hoc quod dixerat prima, subdit: deinde negatio,
idest negativa oratio, quia est posterior affirmativa, ut dictum est. Contra id
autem quod dixerat una, scilicet simpliciter, subdit quod quaedam aliae sunt
unae, non simpliciter, sed coniunctione unae. What he says, then, is this:
Affirmation, i.e., affirmative enunciation, is one and the first enunciative
speech. And in opposition to first he adds, then negation, i.e., negative
speech, for it is posterior to affirmative, as we have said. In Opposition to
one, i.e., one simply, he adds, certain others are one, not simply, but one by
conjunction. 5 Ex hoc autem quod hic dicitur argumentatur Alexander quod
divisio enunciationis in affirmationem et negationem non est divisio generis in
species, sed divisio nominis multiplicis in sua significata. Genus enim univoce
praedicatur de suis speciebus, non secundum prius et posterius: unde
Aristoteles noluit quod ens esset genus commune omnium, quia per prius
praedicatur de substantia, quam de novem generibus accidentium. From what
Aristotle says here Alexander argues that the division of enunciation into
affirmation and negation is Dot a division of a genus into species, but a
division of a multiple name into its meanings; for a genus is not predicated
according to the prior and posterior, but is predicated univocally of its
species; this is the reason Aristotle would not grant that being is a common
genus of all things, for it is predicated first of substance, and then of the
nine genera of accidents. 6 Sed dicendum quod unum dividentium aliquod commune
potest esse prius altero dupliciter: uno modo, secundum proprias rationes, aut
naturas dividentium; alio modo, secundum participationem rationis illius
communis quod in ea dividitur. Primum autem non tollit univocationem generis,
ut manifestum est in numeris, in quibus binarius secundum propriam rationem
naturaliter est prior ternario; sed tamen aequaliter participant rationem
generis sui, scilicet numeri: ita enim est ternarius multitudo mensurata per
unum, sicut et binarius. Sed secundum impedit univocationem generis. Et propter
hoc ens non potest esse genus substantiae et accidentis: quia in ipsa ratione
entis, substantia, quae est ens per se, prioritatem habet respectu accidentis,
quod est ens per aliud et in alio. Sic ergo affirmatio secundum propriam
rationem prior est negatione; tamen aequaliter participant rationem
enunciationis, quam supra posuit, videlicet quod enunciatio est oratio in qua
verum vel falsum est. However, in the division of that which is common, one of
the dividing members can be prior to another in two ways: according to the
proper notions” or natures of the dividing members, or according to the
participation of that common notion that is divided in them. The first of these
does not destroy the univocity of a genus, as is evident in numbers. Twoness,
according to its proper notion, is naturally prior to threeness, yet they
equally participate in the notion of their genus, i.e., number; for both a
multitude consisting of three and a multitude consisting of two is measured by
one. The second, however, does impede the univocity of a genus. This is why
being cannot be the genus of substance and accident, for in the very notion of
being, substance, which is being per se, has priority in respect to accident,
which is being through another and in another. Applying this distinction to the
matter at hand, we see that affirmation is prior to negation in the first way,
i.e., according to its notion, yet they equally participate in the definition
Aristotle has given of the enunciation, i.e., speech in which there is truth or
falsity. 7 Deinde cum dicit: necesse est autem etc., manifestat propositas
divisiones. Et primo, manifestat primam, scilicet quod enunciatio vel est una
simpliciter vel coniunctione una; secundo, manifestat secundam, scilicet quod
enunciatio simpliciter una vel est affirmativa vel negativa; ibi: est autem
simplex enunciatio et cetera. Circa primum duo facit: primo, praemittit
quaedam, quae sunt necessaria ad propositum manifestandum; secundo, manifestat
propositum; ibi: est autem una oratio et cetera. Where he says, Every
enunciative speech, however, must contain a verb or a mode of the verb, etc.,
he explains the divisions. He gives two explanations, one of the division of
enunciation into one simply and one by conjunction, the second of the division
of the enunciation which is one simply into affirmative or negative. The latter
explanation begins where he says, A simple enunciation is vocal sound
signifying that something belongs or does not belong to a subject, etc. Before
he explains the first division, i.e., into one simply and one by conjunction,
he states certain things that are necessary for the evidence of the
explanation, and then explains the division where he says, Enunciative speech
is one when it signifies one thing, etc. 8 Circa primum duo facit: primo, dicit
quod omnem orationem enunciativam oportet constare ex verbo quod est praesentis
temporis, vel ex casu verbi quod est praeteriti vel futuri. Tacet autem de
verbo infinito, quia eumdem usum habet in enunciatione sicut et verbum
negativum. Manifestat autem quod dixerat per hoc, quod non solum nomen unum
sine verbo non facit orationem perfectam enunciativam, sed nec etiam oratio
imperfecta. Definitio enim oratio quaedam est, et tamen si ad rationem hominis,
idest definitionem non addatur aut est, quod est verbum, aut erat, aut fuit,
quae sunt casus verbi, aut aliquid huiusmodi, idest aliquod aliud verbum seu
casus verbi, nondum est oratio enunciativa. He states the first thing that is
necessary for his explanation when he says that every enunciative speech must
contain a verb in present time, or a case of the verb, i.e., in past or future
time. (The infinite verb is not mentioned because it has the same function in
the enunciation as the negative verb.) To manifest this he shows that one name,
without a verb, does not even constitute imperfect enunciative speech, let
alone perfect speech. Definition, he points out, is a certain kind of speech,
and yet if the verb "is” or modes of the verb such as "was” or
"has been” or something of the kind, is not added to the notion of man,
i.e., to the definition, it is not enunciative speech. 9 Potest autem esse
dubitatio: cum enunciatio constet ex nomine et verbo, quare non facit mentionem
de nomine, sicut de verbo? Ad quod tripliciter responderi potest. Primo quidem,
quia nulla oratio enunciativa invenitur sine verbo vel casu verbi; invenitur
autem aliqua enunciatio sine nomine, puta cum nos utimur infinitivis verborum
loco nominum; ut cum dicitur, currere est moveri. Secundo et melius, quia, sicut
supra dictum est, verbum est nota eorum quae de altero praedicantur.
Praedicatum autem est principalior pars enunciationis, eo quod est pars
formalis et completiva ipsius. Unde vocatur apud Graecos propositio categorica,
idest praedicativa. Denominatio autem fit a forma, quae dat speciem rei. Et
ideo potius fecit mentionem de verbo tanquam de parte principaliori et
formaliori. Cuius signum est, quia enunciatio categorica dicitur affirmativa
vel negativa solum ratione verbi, quod affirmatur vel negatur; sicut etiam
conditionalis dicitur affirmativa vel negativa, eo quod affirmatur vel negatur
coniunctio a qua denominatur. Tertio, potest dici, et adhuc melius, quod non
erat intentio Aristotelis ostendere quod nomen vel verbum non sufficiant ad
enunciationem complendam: hoc enim supra manifestavit tam de nomine quam de
verbo. Sed quia dixerat quod quaedam enunciatio est una simpliciter, quaedam
autem coniunctione una; posset aliquis intelligere quod illa quae est una
simpliciter careret omni compositione: sed ipse hoc excludit per hoc quod in
omni enunciatione oportet esse verbum, quod importat compositionem, quam non
est intelligere sine compositis, sicut supra dictum est. Nomen autem non
importat compositionem, et ideo non exigit praesens intentio ut de nomine
faceret mentionem, sed solum de verbo. But, one might ask, why mention the verb
and not the name, for the enunciation consists of a name and a verb? This can
be answered in three ways. First of all because enunciative speech is not
attained without a verb or a mode of the verb, but it is without a name, for
instance, when infinitive forms of the verb are used in place of names, as in
"To run is to be moving.” A second and better reason for speaking only of
the verb is that the verb is a sign of what is predicated of another. Now the
predicate is the principal part of the enunciation because it is the formal
part and completes it. This is the reason the Greeks called the enunciation a
categorical, i.e., predicative, proposition. It should also be noted that
denomination is made from the form which gives species to the thing. He speaks
of the verb, then, but not the name, because it is the more principal and
formal part of the enunciation. A sign of this is that the categorical
enunciation is said to be affirmative or negative solely by reason of the verb
being affirmed or denied, and the conditional enunciation is said to be
affirmative or negative by reason of the conjunction by which it is denominated
being affirmed or denied. A third and even better reason is that Aristotle did
not intend to show that the name or verb is not sufficient for a complete
enunciation, for he explained this earlier. Rather, he is excluding a
misunderstanding that might arise from his saying that one kind of enunciation
is one simply and another kind is one by conjunction. Some might think this
means that the kind that is one simply, lacks all composition. But he excludes
this by saying that there must be a verb in every enunciation; for the verb
implies composition and composition cannot be understood apart from the things
composed, as he said earlier.” The name, on the other hand, does not imply
composition and therefore did not have to be mentioned. 10 Secundo; ibi: quare
autem etc., ostendit aliud quod est necessarium ad manifestationem propositi,
scilicet quod hoc quod dico, animal gressibile bipes, quae est definitio
hominis, est unum et non multa. Et eadem ratio est de omnibus aliis
definitionibus. Sed huiusmodi rationem assignare dicit esse alterius negocii.
Pertinet enim ad metaphysicum; unde in VII et in VIII metaphysicae ratio huius
assignatur: quia scilicet differentia advenit generi non per accidens sed per
se, tanquam determinativa ipsius, per modum quo materia determinatur per
formam. Nam a materia sumitur genus, a forma autem differentia. Unde sicut ex
forma et materia fit vere unum et non multa, ita ex genere et differentia. The
other, point necessary for the evidence of the first division is made where he
says, but then the question arises as to why the definition "terrestrial
biped animal” is something one, etc. He indicates by this that
"terrestrial biped animal,” which is a definition of man, is one and not
many. The reason it is one is the same as in the case of all definitions but,
he says, to assign the reason belongs to another subject of inquiry. It
belongs, in fact, to metaphysics and he assigns the reason in VII and VIII
Metaphysicae which is this: the difference does not accrue to the genus
accidentally but per se and is determinative of it in the way in which form
determines matter; for the genus is taken from matter, the difference from
form. Whence, just as one thing—not many—comes to be from form and matter, so
one thing comes to be from the genus and difference. 11 Excludit autem quamdam
rationem huius unitatis, quam quis posset suspicari, ut scilicet propter hoc
definitio dicatur unum, quia partes eius sunt propinquae, idest sine aliqua
interpositione coniunctionis vel morae. Et quidem non interruptio locutionis necessaria
est ad unitatem definitionis, quia si interponeretur coniunctio partibus
definitionis, iam secunda non determinaret primam, sed significarentur ut actu
multae in locutione: et idem operatur interpositio morae, qua utuntur rhetores
loco coniunctionis. Unde ad unitatem definitionis requiritur quod partes eius
proferantur sine coniunctione et interpolatione: quia etiam in re naturali,
cuius est definitio, nihil cadit medium inter materiam et formam: sed praedicta
non interruptio non sufficit ad unitatem definitionis, quia contingit etiam hanc
continuitatem prolationis servari in his, quae non sunt simpliciter unum, sed
per accidens; ut si dicam, homo albus musicus. Sic igitur Aristoteles valde
subtiliter manifestavit quod absoluta unitas enunciationis non impeditur, neque
per compositionem quam importat verbum, neque per multitudinem nominum ex
quibus constat definitio. Et est eadem ratio utrobique, nam praedicatum
comparatur ad subiectum ut forma ad materiam, et similiter differentia ad
genus: ex forma autem et materia fit unum simpliciter. The reason for the unity
of this definition might be supposed by some to be only that of juxtaposition
of the parts, i.e., that "terrestrial biped animal” is said to be one only
because the parts are side by side without conjunction or pause. But he
excludes such a notion of its unity. Now it is true that non-interruption of
locution is necessary for the unity of a definition, for if a conjunction were
put between the parts the second part would not determine the first immediately
and the many in locution would consequently signify many in act. The pause used
by rhetoricians in place of a conjunction would do the same thing. Whence it is
a requirement for the unity of a definition that its parts be uttered without
conjunction and interpolation, the reason being that in the natural thing,
whose definition it is, nothing mediates between matter and form. However,
non-interruption of locution is not the only thing that is needed for unity of
the definition, for there can be continuity of utterance in regard to things
that are not one simply, but are accidentally, as in white musical man.”
Aristotle has therefore manifested very subtly that absolute unity of the
enunciation is not impeded either by the composition which the verb implies or
by the multitude of names from which a definition is established. And the
reason is the same in both cases, i.e., the predicate is related to the subject
as form to matter, as is the difference to a genus; but from form and matter a
thing that is one simply comes into existence. 12 Deinde cum dicit: est autem
una oratio etc., accedit ad manifestandam praedictam divisionem. Et primo,
manifestat ipsum commune quod dividitur, quod est enunciatio una; secundo,
manifestat partes divisionis secundum proprias rationes; ibi: harum autem haec
simplex et cetera. Circa primum duo facit: primo, manifestat ipsam divisionem;
secundo, concludit quod ab utroque membro divisionis nomen et verbum
excluduntur; ibi: nomen ergo et verbum et cetera. Opponitur autem unitati
pluralitas; et ideo enunciationis unitatem manifestat per modos pluralitatis. He
begins to explain the division when he says, Enunciative speech is one when it
signifies one thing, etc. First he makes the common thing that is divided
evident, i.e., the enunciation as it is one; secondly, he makes the parts of
the division evident according to their own proper notions, where he says, Of
enunciations that are one, simple enunciation is one kind, etc. After he has
made the division of the common thing evident, i.e., enunciation, he then concludes
that the name and the verb are excluded from each member of the division where
he says, Let us call the name or the verb a word only, etc. Now plurality is
opposed to unity. Therefore he is going to manifest the unity of the
enunciation through the modes of plurality. 13 Dicit ergo primo quod enunciatio
dicitur vel una absolute, scilicet quae unum de uno significat, vel una
secundum quid, scilicet quae est coniunctione una. Per oppositum autem est
intelligendum quod enunciationes plures sunt, vel ex eo quod plura significant
et non unum: quod opponitur primo modo unitatis; vel ex eo quod absque
coniunctione proferuntur: et tales opponuntur secundo modo unitatis. He begins
his explanation by saying that enunciation is either one absolutely, i.e., it
signifies one thing said of one thing, or one relatively, i.e., it is one by
conjunction. In opposition to these are the enunciations that are many, either
because they signify not one but many things, which is opposed to the first
mode of unity or because they are uttered without a connecting particle, which
is opposed to the second mode of unity. 14 Circa quod considerandum est,
secundum Boethium, quod unitas et pluralitas orationis refertur ad
significatum; simplex autem et compositum attenditur secundum ipsas voces. Et
ideo enunciatio quandoque est una et simplex puta cum solum ex nomine et verbo componitur
in unum significatum; ut cum dico, homo est albus. Est etiam quandoque una
oratio, sed composita, quae quidem unam rem significat, sed tamen composita est
vel ex pluribus terminis; sicut si dicam, animal rationale mortale currit, vel
ex pluribus enunciationibus, sicut in conditionalibus, quae quidem unum
significant et non multa. Similiter autem quandoque in enunciatione est
pluralitas cum simplicitate, puta cum in oratione ponitur aliquod nomen multa
significans; ut si dicam, canis latrat, haec oratio plures est, quia plura
significat, et tamen simplex est. Quandoque vero in enunciatione est pluralitas
et compositio, puta cum ponuntur plura in subiecto vel in praedicato, ex quibus
non fit unum, sive interveniat coniunctio sive non; puta si dicam, homo albus
musicus disputat: et similiter est si coniungantur plures enunciationes, sive
cum coniunctione sive sine coniunctione; ut si dicam, Socrates currit, Plato
disputat. Et secundum hoc sensus litterae est quod enunciatio una est illa,
quae unum de uno significat, non solum si sit simplex, sed etiam si sit
coniunctione una. Et similiter enunciationes plures dicuntur quae plura et non
unum significant: non solum quando interponitur aliqua coniunctio, vel inter
nomina vel verba, vel etiam inter ipsas enunciationes; sed etiam si vel
inconiunctione, idest absque aliqua interposita coniunctione plura significat,
vel quia est unum nomen aequivocum, multa significans, vel quia ponuntur plura
nomina absque coniunctione, ex quorum significatis non fit unum; ut si dicam,
homo albus grammaticus logicus currit. Boethius interprets this passage in the
following way. "Unity” and "plurality” of speech refers to what is signified,
whereas "simple” and "composite” is related to the vocal sounds.
Accordingly, an enunciation is sometimes one and simple, namely, when one thing
is signified by the composition of name and verb, as in "Man is white.”
Sometimes it is one and composite. In this case it signifies one thing, but is
composed either from many terms, as in "A mortal rational animal is
running,” or from many enunciations, as in conditionals that signify one thing
and not many. On the other hand, sometimes there is plurality along with
simplicity, namely, when a name signifying many things is used, as in "The
dog barks,” in which case the enunciation is many because it signifies many
things [i.e., it signifies equivocally], but it is simple as far as vocal sound
is concerned. But sometimes there is plurality and composition, namely, when
many things are posited on the part of the subject or predicate from which one
thing does not result, whether a conjunction intervenes or not, as in "The
musical white man is arguing.” This is also the case if there are many
enunciations joined together, with or without connecting particles as in
"Socrates runs, Plato discusses. According to this exposition the meaning
of the passage in question is this: an enunciation is one when it signifies one
thing said of one thing, and this is the case whether the enunciation is one
simply or is one by conjunction; an enunciation is many when it signifies not
one but many things, and this not only when a conjunction is inserted between
either the names or verbs or between the enunciations themselves, but even if
there are many things that are not conjoined. In the latter case they signify
many things either because an equivocal name is used or because many names
signifying many things from which one thing does not result are used without
conjunctions, as in "The white grammatical logical man is running.” Sed
haec expositio non videtur esse secundum intentionem Aristotelis. Primo quidem,
quia per disiunctionem, quam interponit, videtur distinguere inter orationem
unum significantem, et orationem quae est coniunctione una. Secundo, quia supra
dixerat quod est unum quoddam et non multa, animal gressibile bipes. Quod autem
est coniunctione unum, non est unum et non multa, sed est unum ex multis. Et
ideo melius videtur dicendum quod Aristoteles, quia supra dixerat aliquam
enunciationem esse unam et aliquam coniunctione unam, vult hic manifestare quae
sit una. Et quia supra dixerat quod multa nomina simul coniuncta sunt unum,
sicut animal gressibile bipes, dicit consequenter quod enunciatio est iudicanda
una non ex unitate nominis, sed ex unitate significati, etiam si sint plura
nomina quae unum significent. Vel si sit aliqua enunciatio una quae multa
significet, non erit una simpliciter, sed coniunctione una. Et secundum hoc,
haec enunciatio, animal gressibile bipes est risibile, non est una quasi
coniunctione una, sicut in prima expositione dicebatur, sed quia unum
significat. However, this exposition does not seem to be what Aristotle had in
mind. First of all the disjunction he inserts seems to indicate that he is
distinguishing between speech signifying one thing and speech which is one by
conjunction. In the second place, he has just said that terrestrial biped
animal is something one and not many. Moreover, what is one by conjunction is
not one, and not many, but one from many. Hence it seems better to say that
since he has already said that one kind of enunciation is one simply and
another kind is one by conjunction be is showing here what one enunciation is.
Having said, then, that many names joined together are something one as in the
example "terrestrial biped animal,” he goes on to say that an enunciation
is to be judged as one, not from the unity of the name but from the unity of
what is signified, even if there are many names signifying the one thing; and
if an enunciation which signifies many things is one, it will not be one
simply, but one by conjunction. Hence, the enunciation "A terrestrial
biped animal is risible,” is not one in the sense of one by conjunction as the
first exposition would have it, but because it signifies one thing. 16 Et quia
oppositum per oppositum manifestatur, consequenter ostendit quae sunt plures
enunciationes, et ponit duos modos pluralitatis. Primus est, quod plures
dicuntur enunciationes quae plura significant. Contingit autem aliqua plura
significari in aliquo uno communi; sicut cum dico, animal est sensibile, sub
hoc uno communi, quod est animal, multa continentur, et tamen haec enunciatio
est una et non plures. Et ideo addit et non unum. Sed melius est ut dicatur hoc
esse additum propter definitionem, quae multa significat quae sunt unum: et hic
modus pluralitatis opponitur primo modo unitatis. Secundus modus pluralitatis
est, quando non solum enunciationes plura significant, sed etiam illa plura
nullatenus coniunguntur, et hic modus pluralitatis opponitur secundo modo
unitatis. Et secundum hoc patet quod secundus modus unitatis non opponitur
primo modo pluralitatis. Ea autem quae non sunt opposita, possunt simul esse.
Unde manifestum est, enunciationem quae est una coniunctione, esse etiam
plures: plures in quantum significat plura et non unum. Secundum hoc ergo
possumus accipere tres modos enunciationis. Nam quaedam est simpliciter una, in
quantum unum significat; quaedam est simpliciter plures, in quantum plura
significat, sed est una secundum quid, in quantum est coniunctione una; quaedam
sunt simpliciter plures, quae neque significant unum, neque coniunctione aliqua
uniuntur. Ideo autem Aristoteles quatuor ponit et non solum tria, quia
quandoque est enunciatio plures, quia plura significat, non tamen est
coniunctione una, puta si ponatur ibi nomen multa significans. Then — because
an opposite is manifested through an opposite — he goes on to show which
enunciations are many, and he posits two modes of plurality. Enunciations are
said to be many which signify many things. Many things may be signified in some
one common thing however; when I say, for example, "An animal is a
sentient being,” many things are contained under the one common thing, animal,
but such an enunciation is still one, not many. Therefore Aristotle adds, and
not one. It would be better to say, however, that the and not one is added
because of definition, which signifies many things that are one. The mode of
plurality he has spoken of thus far is opposed to the first mode of unity. The
second mode of plurality covers enunciations that not only signify many things
but many that are in no way joined together. This mode is opposed to the second
mode of unity. Thus it is evident that the second mode of unity is not opposed
to the first mode of plurality. Now those things that are not opposed can be
together. Therefore, the enunciation that is one by conjunction is also many
many insofar as it signifies many and not one. According to this understanding
of the text there are three modes of the enunciation: the enunciation that is
one simply inasmuch as it signifies one thing; the enunciation that is many
simply inasmuch as it signifies many things, but is one relatively inasmuch as
it is one by conjunction; finally, the enunciations that are many simply—those
that do not signify one thing and are not united by any conjunction. Aristotle
posits four kinds of enunciation rather than three, for an enunciation is sometimes
many because it signifies many things, and yet is not one by conjunction; a
case in point would be an enunciation in which a name signifying many things is
used. 17 Deinde cum dicit: nomen ergo et verbum etc., excludit ab unitate
orationis nomen et verbum. Dixerat enim quod enunciatio una est, quae unum
significat: posset autem aliquis intelligere, quod sic unum significaret sicut
nomen et verbum unum significant. Et ideo ad hoc excludendum subdit: nomen
ergo, et verbum dictio sit sola, idest ita sit dictio, quod non enunciatio. Et
videtur, ex modo loquendi, quod ipse imposuerit hoc nomen ad significandum
partes enunciationis. Quod autem nomen et verbum dictio sit sola manifestat per
hoc, quod non potest dici quod ille enunciet, qui sic aliquid significat voce,
sicut nomen, vel verbum significat. Et ad hoc manifestandum innuit duos modos
utendi enunciatione. Quandoque enim utimur ipsa quasi ad interrogata
respondentes; puta si quaeratur, quis sit in scholis? Respondemus, magister.
Quandoque autem utimur ea propria sponte, nullo interrogante; sicut cum
dicimus, Petrus currit. Dicit ergo, quod ille qui significat aliquid unum
nomine vel verbo, non enunciat vel sicut ille qui respondet aliquo
interrogante, vel sicut ille qui profert enunciationem non aliquo interrogante,
sed ipso proferente sponte. Introduxit autem hoc, quia simplex nomen vel
verbum, quando respondetur ad interrogationem, videtur verum vel falsum
significare: quod est proprium enunciationis. Sed hoc non competit nomini vel
verbo, nisi secundum quod intelligitur coniunctum cum alia parte proposita in
interrogatione. Ut si quaerenti, quis legit in scholis? Respondeatur, magister,
subintelligitur, ibi legit. Si ergo ille qui enunciat aliquid nomine vel verbo
non enunciat, manifestum est quod enunciatio non sic unum significat, sicut
nomen vel verbum. Hoc autem inducit sicut conclusionem eius quod supra
praemisit: necesse est omnem orationem enunciativam ex verbo esse vel ex casu
verbi. Where he says, Let us call the name or the verb a word only, etc., he
excludes the name and the verb from the unity of speech. His reason for making
this point is that his statement, "an enunciation is one inasmuch as it
signifies one thing,” might be taken to mean that an enunciation signifies one
thing in the same way the name or verb signify one thing. To prevent such a
misunderstanding he says, Let us call the name or the verb a word only, i.e., a
locution which is not an enunciation. From his mode of speaking it would seem
that Aristotle himself imposed the name "phasis” [word] to signify such
parts of the enunciation. Then he shows that a name or verb is only a word by
pointing out that we do not say that a person is enunciating when be signifies
something in vocal sound in the way in which a name or verb signifies. To
manifest this he suggests two ways of using the enunciation. Sometimes we use
it to reply to questions; for example if someone asks "Who is it who
discusses,” we answer "The teacher.” At other times we use the
enunciation, not in reply to a question, but of our own accord, as when we say
"Peter is running.” What Aristotle is saying, then, is that the person who
signifies something one by a name or a verb is not enunciating in the way in
which either the person who replies to a question or who utters an enunciation
of his own accord is enunciating. He introduces this point because the simple
name or verb, when used in reply to a question seems to signify truth or
falsity and truth or falsity is what is proper to the enunciation. Truth and
falsity is not proper, however, to the name or verb unless it is understood as
joined to another part proposed in a question; if someone should ask, for
example, "Who reads in the schools,” we would answer, "The teacher,”
understanding also, "reads there.” If, then, something expressed by a name
or verb is not an enunciation, it is evident that the enunciation does not
signify one thing in the same way as the name or verb signify one thing.
Aristotle draws this by way of a conclusion from, Every enunciative speech must
contain a verb or a mode of the verb, which was stated earlier. 18 Deinde cum
dicit: harum autem haec simplex etc., manifestat praemissam divisionem secundum
rationes partium. Dixerat enim quod una enunciatio est quae unum de uno
significat, et alia est quae est coniunctione una. Ratio autem huius divisionis
est ex eo quod unum natum est dividi per simplex et compositum. Et ideo dicit:
harum autem, scilicet enunciationum, in quibus dividitur unum, haec dicitur
una, vel quia significat unum simpliciter, vel quia una est coniunctione. Haec
quidem simplex enunciatio est, quae scilicet unum significat. Sed ne
intelligatur quod sic significet unum, sicut nomen vel verbum, ad excludendum
hoc subdit: ut aliquid de aliquo, idest per modum compositionis, vel aliquid ab
aliquo, idest per modum divisionis. Haec autem ex his coniuncta, quae scilicet
dicitur coniunctione una, est velut oratio iam composita: quasi dicat hoc modo,
enunciationis unitas dividitur in duo praemissa, sicut aliquod unum dividitur
in simplex et compositum. Then when he says, Of enunciations that are one,
simple enunciation is one kind, etc., he manifests the division of enunciation
by the natures of the parts. He has said that the enunciation is one when it
signifies one thing or is one by conjunction. The basis of this division is the
nature of one, which is such that it can be divided into simple and composite.
Hence, Aristotle says, Of these, i.e., enunciations into which one is divided,
which are said to be one either because the enunciation signifies one thing
simply or because it is one by conjunction, simple enunciation is one kind,
i.e., the enunciation that signifies one thing. And to exclude the
understanding of this as signifying one thing in the same way as the name or
the verb signifies one thing he adds, something affirmed of something, i.e., by
way of composition, or something denied of something, i.e., by way of division.
The other kind—the enunciation that is said to be one by conjunction—is
composite, i.e., speech composed of these simple enunciations. In other words,
he is saying that the unity of the enunciation is divided into simple and
composite, just as one is divided into simple and composite. 19 Deinde cum
dicit: est autem simplex etc., manifestat secundam divisionem enunciationis,
secundum videlicet quod enunciatio dividitur in affirmationem et negationem.
Haec autem divisio primo quidem convenit enunciationi simplici; ex consequenti
autem convenit compositae enunciationi; et ideo ad insinuandum rationem
praedictae divisionis dicit quod simplex enunciatio est vox significativa de eo
quod est aliquid: quod pertinet ad affirmationem; vel non est aliquid: quod
pertinet ad negationem. Et ne hoc intelligatur solum secundum praesens tempus,
subdit: quemadmodum tempora sunt divisa, idest similiter hoc habet locum in
aliis temporibus sicut et in praesenti. He manifests the second division of the
enunciation where he says, A simple enunciation is vocal sound signifying that
something belongs or does not belong to a subject, i.e., the division of
enunciation into affirmation and negation. This is a division that belongs
primarily to the simple enunciation and consequently to the composite
enunciation; therefore, in order to suggest the basis of the division he says
that a simple enunciation is vocal sound signifying that something belongs to a
subject, which pertains to affirmation, or does not belong to a subject, which
pertains to negation. And to make it clear that this is not to be understood
only of present time he adds, according to the divisions of time, i.e., this
holds for other times as well as the present. Alexander autem existimavit quod
Aristoteles hic definiret enunciationem; et quia in definitione enunciationis
videtur ponere affirmationem et negationem, volebat hic accipere quod
enunciatio non esset genus affirmationis et negationis, quia species nunquam
ponitur in definitione generis. Id autem quod non univoce praedicatur de multis
(quia scilicet non significat aliquid unum, quod sit unum commune multis), non
potest notificari nisi per illa multa quae significantur. Et inde est quod quia
unum non dicitur aequivoce de simplici et composito, sed per prius et
posterius, Aristoteles in praecedentibus semper ad notificandum unitatem
enunciationis usus est utroque. Quia ergo videtur uti affirmatione et negatione
ad notificandum enunciationem, volebat Alexander accipere quod enunciatio non
dicitur de affirmatione et negatione univoce sicut genus de suis speciebus. Alexander
thought that Aristotle was defining the enunciation here and because he seems
to put affirmation and negation in the "definition” he took this to mean
that enunciation is not the genus of affirmation and negation, for the species
is never posited in the definition of the genus. Now what is not predicated
univocally of many (namely, because it does not signify something one that is
common to many) cannot be made known except through the many that are
signified. "One” is not said equivocally of the simple and composite, but
primarily and consequently, and hence Aristotle always used both "simple”
and "composite” in the preceding reasoning to make the unity of the
enunciation known. Now, here he seems to use affirmation and negation to make
the enunciation known; therefore, Alexander took this to mean that enunciation
is not said of affirmation and negation univocally as a genus of its species. 21
Sed contrarium apparet ex hoc, quod philosophus consequenter utitur nomine
enunciationis ut genere, cum in definitione affirmationis et negationis subdit
quod, affirmatio est enunciatio alicuius de aliquo, scilicet per modum
compositionis, negatio vero est enunciatio alicuius ab aliquo, scilicet per
modum divisionis. Nomine autem aequivoco non consuevimus uti ad notificandum
significata eius. Et ideo Boethius dicit quod Aristoteles suo modo breviloquio
utens, simul usus est et definitione et divisione eius: ita ut quod dicit de eo
quod est aliquid vel non est, non referatur ad definitionem enunciationis, sed
ad eius divisionem. Sed quia differentiae divisivae generis non cadunt in eius
definitione, nec hoc solum quod dicitur vox significativa, sufficiens est
definitio enunciationis; melius dici potest secundum Porphyrium, quod hoc totum
quod dicitur vox significativa de eo quod est, vel de eo quod non est, est
definitio enunciationis. Nec tamen ponitur affirmatio et negatio in definitione
enunciationis sed virtus affirmationis et negationis, scilicet significatum
eius, quod est esse vel non esse, quod est naturaliter prius enunciatione.
Affirmationem autem et negationem postea definivit per terminos utriusque cum
dixit: affirmationem esse enunciationem alicuius de aliquo, et negationem
enunciationem alicuius ab aliquo. Sed sicut in definitione generis non debent
poni species, ita nec ea quae sunt propria specierum. Cum igitur significare
esse sit proprium affirmationis, et significare non esse sit proprium
negationis, melius videtur dicendum, secundum Ammonium, quod hic non definitur
enunciatio, sed solum dividitur. Supra enim posita est definitio, cum dictum
est quod enunciatio est oratio in qua est verum vel falsum. In qua quidem
definitione nulla mentio facta est nec de affirmatione, nec de negatione. Est
autem considerandum quod artificiosissime procedit: dividit enim genus non in
species, sed in differentias specificas. Non enim dicit quod enunciatio est
affirmatio vel negatio, sed vox significativa de eo quod est, quae est
differentia specifica affirmationis, vel de eo quod non est, in quo tangitur
differentia specifica negationis. Et ideo ex differentiis adiunctis generi
constituit definitionem speciei, cum subdit: quod affirmatio est enunciatio
alicuius de aliquo, per quod significatur esse; et negatio est enunciatio
alicuius ab aliquo quod significat non esse. But the contrary appears to be the
case, for the Philosopher subsequently uses the name "enunciation” as a
genus when in defining affirmation and negation he says, Affirmation is the
enunciation of something about something, i.e., by way of composition; negation
is the enunciation of something separated from something, i.e., by way of
division. Moreover, it is not customary to use an equivocal name to make known
the things it signifies. Boethius for this reason says that Aristotle with his
customary brevity is using both the definition and its division at once. Therefore
when he says that something belongs or does not belong to a subject he is not
referring to the definition of enunciation but to its division. However, since
the differences dividing a genus do not fall in its definition and since vocal
sound signifying is not a sufficient definition of the enunciation, Porphyry
thought it would be better to say that the whole expression, vocal sound
signifying that something belongs or does not belong to a subject, is the
definition of the enunciation. According to his exposition this is not
affirmation and negation that is posited in the definition, but capacity for
affirmation and negation, i.e., what the enunciation is a sign of, which is to
be or not to be, which is prior in nature to the enunciation. Then immediately
following this he defines affirmation and negation in terms of themselves when
he says, Affirmation is the enunciation of something about something; negation
the enunciation of something separated from something. But just as the species
should not be stated in the definition of the genus, so neither should the
properties of the species. Now to signify to be is the property of the
affirmation, and to signify not to be the property of the negation. Therefore
Ammonius thought it would be better to say that the enunciation was not defined
here, but only divided. For the definition was posited above when it was said
that the enunciation is speech in which there is truth or falsity—in which
definition no mention is made of either affirmation or negation. It should be noticed,
however, that Aristotle proceeds very skillfully here, for he divides the
genus, not into species, but into specific differences. He does not say that
the enunciation is an affirmation or negation, but vocal sound signifying that
something belongs to a subject, which is the specific difference of
affirmation, or does not belong to a subject, which is the specific difference
of negation. Then when he adds, Affirmation is the enunciation of something
about something which signifies to be, and negation is the enunciation of
something separated from something, which signifies not to be, he establishes
the definition of the species by joining the differences to the genus. IX. 1. Posita
divisione enunciationis, hic agit de oppositione partium enunciationis,
scilicet affirmationis et negationis. Et quia enunciationem esse dixerat
orationem, in qua est verum vel falsum, primo, ostendit qualiter enunciationes
ad invicem opponantur; secundo, movet quamdam dubitationem circa
praedeterminata et solvit; ibi: in his ergo quae sunt et quae facta sunt et
cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit qualiter una enunciatio
opponatur alteri; secundo, ostendit quod tantum una opponitur uni; ibi:
manifestum est et cetera. Prima autem pars dividitur in duas partes: in prima,
determinat de oppositione affirmationis et negationis absolute; in secunda,
ostendit quomodo huiusmodi oppositio diversificatur ex parte subiecti; ibi:
quoniam autem sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit quod omni
affirmationi est negatio opposita et e converso; secundo, manifestat
oppositionem affirmationis et negationis absolute; ibi: et sit hoccontradictio
et cetera.Having mad e the division of the enunciation, Aristotle now deals
with the opposition of the parts of the enunciation, i.e., the opposition of
affirmation and negation. He has already said that the enunciation is speech in
which there is truth or falsity; therefore, he first shows how enunciations are
opposed to each other; secondly, he raises a doubt about some things previously
determined and then resolves it where he says, In enunciations about that which
is or has taken place, etc. He not only shows how one enunciation is opposed to
another, but that only one is opposed to one, where he says, It is evident also
that there is one negation of one affirmation. In showing how one enunciation
is opposed to another, he first treats of the opposition of affirmation and
negation absolutely, and then shows in what way opposition of this kind is
diversified on the part of the subject where he says, Since some of the things
we are concerned with are universal and others singular, etc. With respect to
the opposition of affirmation and negation absolutely, he first shows that
there is a negation opposed to every affirmation and vice versa, and then where
he says, We will call this opposed affirmation and negation
"contradiction,” he explains the opposition of affirmation and negation
absolutely. 2 Circa primum considerandum est quod ad ostendendum suum
propositum philosophus assumit duplicem diversitatem enunciationis: quarum
prima est ex ipsa forma vel modo enunciandi, secundum quod dictum est quod
enunciatio vel est affirmativa, per quam scilicet enunciatur aliquid esse, vel
est negativa per quam significatur aliquid non esse; secunda diversitas est per
comparationem ad rem, ex qua dependet veritas et falsitas intellectus et
enunciationis. Cum enim enunciatur aliquid esse vel non esse secundum
congruentiam rei, est oratio vera; alioquin est oratio falsa. In relation to
the first point, that there is a negation opposed to every affirmation and vice
versa, the Philosopher assumes a twofold diversity of enunciation. The first
arises from the very form or mode of enunciating. According to this diversity,
enunciation is either affirmative—in which it is enunciated that something is —
or negative — in which it is signified that something is not. The second is the
diversity that arises by comparison to reality. Truth and falsity of thought
and of the enunciation depend upon this comparison, for when it is enunciated
that something is or is not, if there is agreement with reality, there is true
speech; otherwise there is false speech. 3 Sic igitur quatuor modis potest
variari enunciatio, secundum permixtionem harum duarum divisionum. Uno modo,
quia id quod est in re enunciatur ita esse sicut in re est: quod pertinet ad
affirmationem veram; puta cum Socrates currit, dicimus Socratem currere. Alio
modo, cum enunciatur aliquid non esse quod in re non est: quod pertinet ad
negationem veram; ut cum dicitur, Aethiops albus non est. Tertio modo, cum
enunciatur aliquid esse quod in re non est: quod pertinet ad affirmationem
falsam; ut cum dicitur, corvus est albus. Quarto modo, cum enunciatur aliquid
non esse quod in re est: quod pertinet ad negationem falsam; ut cum dicitur,
nix non est alba. Philosophus autem, ut a minoribus ad potiora procedat, falsas
veris praeponit: inter quas negativam praemittit affirmativae, cum dicit quod
contingit enunciare quod est, scilicet in rerum natura, non esse. Secundo autem,
ponit affirmativam falsam cum dicit: et quod non est, scilicet in rerum natura,
esse. Tertio autem, ponit affirmativam veram, quae opponitur negativae falsae,
quam primo posuit, cum dicit: et quod est, scilicet in rerum natura, esse.
Quarto autem, ponit negativam veram, quae opponitur affirmationi falsae, cum
dicit: et quod non est, scilicet in rerum natura, non esse. The enunciation can
therefore be varied in four ways according to a combination of these two
divisions: in the first way, what is in reality is enunciated to be as it is in
reality. This is characteristic of true affirmation. For example, when Socrates
runs, we say, "Socrates is running.” In the second way, it is enunciated
that something is not what in reality it is not. This is characteristic of true
negation, as when we say, "An Ethiopian is not white.” In the third way,
it is enunciated that something is what in reality it is not. This is
characteristic of a false affirmation, as in "The raven is white.” In the
fourth way, it is enunciated that something is not what it is in reality. This
is characteristic of a false negation, as in "Snow is not white.” In order
to proceed from the weaker to the stronger the Philosopher puts the false
before the true, and among these he states the negative before the affirmative.
He begins, then, with the false negative; it is possible to enunciate, that
what is, namely, in reality, is not. Secondly, he posits the false affirmative,
and that what is not, namely, in reality, is. Thirdly, he posits the true
affirmative—which is opposed to the false negative he gave first—and that what
is, namely, in reality, is. Fourthly, he posits the true negative—which is
opposed to the false affirmative—and that what is not, namely, in reality, is
not. Aquinas lib. 1 l. 9 n. 4Non est autem intelligendum quod hoc quod dixit:
quod est et quod non est, sit referendum ad solam existentiam vel non
existentiam subiecti, sed ad hoc quod res significata per praedicatum insit vel
non insit rei significatae per subiectum. Nam cum dicitur, corvus est albus,
significatur quod non est, esse, quamvis ipse corvus sit res existens. In
saying what is and what is not, Aristotle is not referring only to the
existence or nonexistence of a subject. What he is saying is that the reality
signified by the predicate is in or is not in the reality signified by the
subject. For what is signified in saying, "The raven is white,” is that
what is not, is, although the raven itself is an existing thing. 5 Et sicut
istae quatuor differentiae enunciationum inveniuntur in propositionibus, in
quibus ponitur verbum praesentis temporis, ita etiam inveniuntur in
enunciationibus in quibus ponuntur verba praeteriti vel futuri temporis. Supra
enim dixit quod necesse est enunciationem constare ex verbo vel ex casu verbi.
Et hoc est quod subdit: quod similiter contingit, scilicet variari diversimode
enunciationem circa ea, quae sunt extra praesens tempus, idest circa praeterita
vel futura, quae sunt quodammodo extrinseca respectu praesentis, quia praesens
est medium praeteriti et futuri. These four differences of enunciations are
found in propositions in which there is a verb of present time and also in
enunciations in which there are verbs of past or future time. He said earlier
that every enunciative speech must contain a verb or a mode of the verb. Here
he makes this point in relation to the four differences of enunciations:
similarly it is possible to enunciate these, i.e., that the enunciation be
varied in diverse ways in regard to those times outside of the present, i.e.,
with respect to the past or future, which are in a certain way extrinsic in
respect to the present, since the present is between the past and the future. 6
Et quia ita est, contingit omne quod quis affirmaverit negare, et omne quod
quis negaverit affirmare: quod quidem manifestum est ex praemissis. Non enim
potest affirmari nisi vel quod est in rerum natura secundum aliquod trium
temporum, vel quod non est; et hoc totum contingit negare. Unde manifestum est
quod omne quod affirmatur potest negari, et e converso. Et quia affirmatio et
negatio opposita sunt secundum se, utpote ex opposito contradictoriae,
consequens est quod quaelibet affirmatio habeat negationem sibi oppositam et e
converso. Cuius contrarium illo solo modo posset contingere, si aliqua
affirmatio affirmaret aliquid, quod negatio negare non posset. Since there are
these four differences of enunciation in past and future time as well as in
present time, it is possible to deny everything that is affirmed and to affirm
everything that is denied. This is evident from the premises, for it is only
possible to affirm either that which is in reality according to past, present,
or future time, or that which is not; and it is possible to deny all of this.
It is clear, then, that everything that is affirmed can be denied or vice
versa. Now, since affirmation and negation are per se opposed, i.e., in an
opposition of contradiction, it follows that any affirmation would have a
negation opposed to it, and conversely. The contrary of this could happen only
if an affirmation could affirm something that the negation could not deny. 7 Deinde
cum dicit: et sit hoc contradictio etc., manifestat quae sit absoluta oppositio
affirmationis et negationis. Et primo, manifestat eam per nomen; secundo, per
definitionem; ibi: dico autem et cetera. Dicit ergo primo quod cum cuilibet
affirmationi opponatur negatio, et e converso, oppositioni huiusmodi imponatur
nomen hoc, quod dicatur contradictio. Per hoc enim quod dicitur, et sit hoc
contradictio, datur intelligi quod ipsum nomen contradictionis ipse imposuerit
oppositioni affirmationis et negationis, ut Ammonius dicit. When he says, We
will call this opposed affirmation and negation "contradiction,” he
explains what absolute opposition of affirmation and negation is. He does this
first through the name; secondly, through the definition where he says, I mean
by "opposed” the enunciation of the same thing of the same subject, etc.
"Contradiction,” he says, is the name imposed for the kind of opposition
in which a negation is opposed to an affirmation and conversely. By saying We
will call this "contradiction,” we are given to understand—as Ammonius
points out—that he has himself imposed the name "contradiction” for the
opposition of affirmation and negation. 8 Deinde cum dicit: dico autem opponi
etc., definit contradictionem. Quia vero, ut dictum est, contradictio est
oppositio affirmationis et negationis, illa requiruntur ad contradictionem,
quae requiruntur ad oppositionem affirmationis et negationis. Oportet autem
opposita esse circa idem. Et quia enunciatio constituitur ex subiecto et
praedicato, requiritur ad contradictionem primo quidem quod affirmatio et
negatio sint eiusdem praedicati: si enim dicatur, Plato currit, Plato non
disputat, non est contradictio; secundo, requiritur quod sint de eodem
subiecto: si enim dicatur, Socrates currit, Plato non currit, non est
contradictio. Tertio, requiritur quod identitas subiecti et praedicati non
solum sit secundum nomen, sed sit simul secundum rem et nomen. Nam si non sit
idem nomen, manifestum est quod non sit una et eadem enunciatio. Similiter
autem ad hoc quod sit enunciatio una, requiritur identitas rei: dictum est enim
supra quod enunciatio una est, quae unum de uno significat; et ideo subdit: non
autem aequivoce, idest non sufficit identitas nominis cum diversitate rei, quae
facit aequivocationem. Then he defines contradiction when he says, I mean by
"opposed” the enunciation of the same thing of the same subject, etc.
Since contradiction is the opposition of affirmation and negation, as he has
said, whatever is required for the opposition of affirmation and negation is
required for contradiction. Now, opposites must be about the same thing and
since the enunciation is made up of a subject and predicate the first
requirement for contradiction is affirmation and negation of the same
predicate, for if we say "Plato runs” and "Plato does not discuss,”
there is no contradiction. The second is that the affirmation and negation be
of the same subject, for if we say "Socrates runs” and "Plato does
not run,” there is no contradiction. The third requirement is identity of
subject and predicate not only according to name but according to the thing and
the name at once; for clearly, if the same name is not used there is not one
and the same enunciation; similarly there must be identity of the thing, for as
was said above, the enunciation is one when it signifies one thing said of one
thing.”’ This is why he adds, not equivocally however, for identity of name
with diversity of the thing—which is equivocation—is not sufficient for
contradiction. Aquinas lib. 1 l. 9 n. 9Sunt autem et quaedam alia in
contradictione observanda ad hoc quod tollatur omnis diversitas, praeter eam
quae est affirmationis et negationis: non enim esset oppositio si non omnino
idem negaret negatio quod affirmavit affirmatio. Haec autem diversitas potest
secundum quatuor considerari. Uno quidem modo, secundum diversas partes
subiecti: non enim est contradictio si dicatur, Aethiops est albus dente et non
est albus pede. Secundo, si sit diversus modus ex parte praedicati: non enim
est contradictio si dicatur, Socrates currit tarde et non movetur velociter;
vel si dicatur, ovum est animal in potentia et non est animal in actu. Tertio,
si sit diversitas ex parte mensurae, puta loci vel temporis; non enim est
contradictio si dicatur, pluit in Gallia et non pluit in Italia; aut, pluit
heri, hodie non pluit. Quarto, si sit diversitas ex habitudine ad aliquid
extrinsecum; puta si dicatur, decem homines esse plures quoad domum, non autem
quoad forum. Et haec omnia designat cum subdit: et quaecumque caetera talium
determinavimus, idest determinare consuevimus in disputationibus contra
sophisticas importunitates, idest contra importunas et litigiosas oppositiones
sophistarum, de quibus plenius facit mentionem in I elenchorum. There are also
certain other things that must be observed with respect to contradiction in
order that all diversity be destroyed except the diversity of affirmation and
negation, for if the negation does not deny in every way the same thing that
the affirmation affirms there will not be opposition. Inquiry can be made about
this diversity in respect to four things: first, are there diverse parts of the
subject, for if we say "An Ethiopian is white as to teeth” and "An
Ethiopian is not white as to foot,” there is no contradiction; secondly, is
there a diverse mode on the part of the predicate, for there is no
contradiction if we say "Socrates runs slowly” and "Socrates is not
moving swiftly,” or "An egg is an animal in potency” and "An egg is
not an animal in act”; thirdly, is there diversity on the part of measure, for
instance, of place or time, for there is no contradiction if we say "It is
raining in Gaul” and "It is not raining in Italy,” or "It rained
yesterday” and "It did not rain today”; fourthly, is there diversity from
a relationship to something extrinsic, as when we say "Ten men are many in
respect to a house, but not in respect to a court house.” Aristotle designates
all of these when he adds, nor in any of the other ways that we have
distinguished, i.e., that it is usual to determine in disputations against the
specious difficulties of the sophists, i.e., against the fallacious and
quarrelsome objections of the sophists, which he mentions more fully in I
Elenchorum [5: 166b 28–167a 36]. X. 1 Quia philosophus dixerat oppositionem
affirmationis et negationis esse contradictionem, quae est eiusdem de eodem,
consequenter intendit distinguere diversas oppositiones affirmationis et
negationis, ut cognoscatur quae sit vera contradictio. Et circa hoc duo facit:
primo, praemittit quamdam divisionem enunciationum necessariam ad praedictam
differentiam oppositionum assignandam; secundo, manifestat propositum; ibi: si
ergo universaliter et cetera. Praemittit autem divisionem enunciationum quae
sumitur secundum differentiam subiecti. Unde circa primum duo facit: primo,
dividit subiectum enunciationum; secundo, concludit divisionem enunciationum,
ibi: necesse est enunciare et cetera. The Philosopher has just said that
contradiction is the opposition of the affirmation and negation of the same
thing of the same subject. Following upon this he distinguishes the diverse
oppositions of affirmation and negation, the purpose being to know what true
contradiction is. He first states a division of enunciation which is necessary
in order to assign the difference of these oppositions; then he begins to
manifest the different oppositions where he says, If, then, it is universally
enunciated of a universal that something belongs or does not belong to it, etc.
The division he gives is taken from the difference of the subject and therefore
he divides the subject of enunciations first; then he concludes with the
division of enunciation, where he says, we have to enunciate either of a
universal or of a singular, etc. 2 Subiectum autem enunciationis est nomen vel
aliquid loco nominis sumptum. Nomen autem est vox significativa ad placitum
simplicis intellectus, quod est similitudo rei; et ideo subiectum enunciationis
distinguit per divisionem rerum, et dicit quod rerum quaedam sunt universalia,
quaedam sunt singularia. Manifestat autem membra divisionis dupliciter: primo
quidem per definitionem, quia universale est quod est aptum natum de pluribus
praedicari, singulare vero quod non est aptum natum praedicari de pluribus, sed
de uno solo; secundo, manifestat per exemplum cum subdit quod homo est universale,
Plato autem singulare. Now the subject of an enunciation is a name or something
taken in place of a name. A name is a vocal sound significant by convention of
simple thought, which, in turn, is a likeness of the thing. Hence, Aristotle
distinguishes the subject of enunciation by a division of things; and he says
that of things, some are universals, others singulars. He then explains the
members of this division in two ways. First he defines them. Then he manifests
them by example when he says, "man” is universal, "Plato” singular. 3
Accidit autem dubitatio circa hanc divisionem, quia, sicut probat philosophus
in VII metaphysicae, universale non est aliquid extra res existens. Item, in
praedicamentis dicitur quod secundae substantiae non sunt nisi in primis, quae
sunt singulares. Non ergo videtur esse conveniens divisio rerum per universalia
et singularia: quia nullae res videntur esse universales, sed omnes sunt
singulares. There is a difficulty about this division, for the Philosopher
proves in VII Metaphysicae [14: 1039a 23] that the universal is not something
existing outside of the thing; and in the Predicamenta [5: 2a 11] he says that
second substances are only in first substances, i.e., singulars. Therefore, the
division of things into universals and singulars does not seem to be
consistent, since according to him there are no things that are universal; on
the contrary, all things are singular. 4 Dicendum est autem quod hic dividuntur
res secundum quod significantur per nomina, quae subiiciuntur in
enunciationibus: dictum est autem supra quod nomina non significant res nisi
mediante intellectu; et ideo oportet quod divisio ista rerum accipiatur secundum
quod res cadunt in intellectu. Ea vero quae sunt coniuncta in rebus intellectus
potest distinguere, quando unum eorum non cadit in ratione alterius. In
qualibet autem re singulari est considerare aliquid quod est proprium illi rei,
in quantum est haec res, sicut Socrati vel Platoni in quantum est hic homo; et
aliquid est considerare in ea, in quo convenit cum aliis quibusdam rebus, sicut
quod Socrates est animal, aut homo, aut rationalis, aut risibilis, aut albus.
Quando igitur res denominatur ab eo quod convenit illi soli rei in quantum est
haec res, huiusmodi nomen dicitur significare aliquid singulare; quando autem
denominatur res ab eo quod est commune sibi et multis aliis, nomen huiusmodi
dicitur significare universale, quia scilicet nomen significat naturam sive
dispositionem aliquam, quae est communis multis. Quia igitur hanc divisionem
dedit de rebus non absolute secundum quod sunt extra animam, sed secundum quod
referuntur ad intellectum, non definivit universale et singulare secundum
aliquid quod pertinet ad rem, puta si diceret quod universale extra animam,
quod pertinet ad opinionem Platonis, sed per actum animae intellectivae, quod
est praedicari de multis vel de uno solo. The things divided here, however, are
things as signified by names—which names are subjects of enunciations. Now,
Aristotle has already said that names signify things only through the mediation
of the intellect; therefore, this division must be taken as a division of
things as apprehended by the intellect. Now in fact, whatever is joined
together in things can be distinguished by the intellect when one of them does
not belong to the notion of the other. In any singular thing, we can consider
what is proper to the thing insofar as it is this thing, for instance, what is
proper to Socrates or to Plato insofar as he is this man. We can also consider
that in which it agrees with certain other things, as, that Socrates is an
animal, or man, or rational, or risible, or white. Accordingly, when a thing is
denominated from what belongs only to this thing insofar as it is this thing,
the name is said to signify a singular. When a thing is denominated from what
is common to it and to many others, the name is said to signify a universal
since it signifies a nature or some disposition which is common to many.
Immediately after giving this division of things, then—not of things absolutely
as they are outside of the soul, but as they are referred to the
intellect—Aristotle defines the universal and the singular through the act of
the intellective soul, as that which is such as to be predicated of many or of
only one, and not according to anything that pertains to the thing, that is, as
if he were affirming such a universal outside of the soul, an opinion relating
to Plato’s teaching. 5 Est autem considerandum quod intellectus apprehendit rem
intellectam secundum propriam essentiam, seu definitionem: unde et in III de
anima dicitur quod obiectum proprium intellectus est quod quid est. Contingit
autem quandoque quod propria ratio alicuius formae intellectae non repugnat ei
quod est esse in pluribus, sed hoc impeditur ab aliquo alio, sive sit aliquid
accidentaliter adveniens, puta si omnibus hominibus morientibus unus solus
remaneret, sive sit propter conditionem materiae, sicut est unus tantum sol,
non quod repugnet rationi solari esse in pluribus secundum conditionem formae
ipsius, sed quia non est alia materia susceptiva talis formae; et ideo non
dixit quod universale est quod praedicatur de pluribus, sed quod aptum natum
est praedicari de pluribus. There is a further point we should consider in
relation to this portion of the text. The intellect apprehends the
thing—understood according to the thing’s essence or definition. This is the
reason Aristotle says in III De anima [4:429b 10] that the proper object of the
intellect is what the thing essentially is. Now, sometimes the proper nature of
some understood form is not repugnant to being in many but is impeded by
something else, either by something occurring accidentally (for instance if all
men but one were to die) or because of the condition of matter; the sun, for
instance, is only one, not because it is repugnant to the notion of the sun to
be in many according to the condition of its form, but because there is no other
matter capable of receiving such a form. This is the reason Aristotle did not
say that the universal is that which is predicated of many, but that which is
of such a nature as to be predicated of many. Aquinas lib. 1 l. 10 n. 6Cum
autem omnis forma, quae nata est recipi in materia quantum est de se,
communicabilis sit multis materiis; dupliciter potest contingere quod id quod
significatur per nomen, non sit aptum natum praedicari de pluribus. Uno modo,
quia nomen significat formam secundum quod terminata est ad hanc materiam,
sicut hoc nomen Socrates vel Plato, quod significat naturam humanam prout est
in hac materia. Alio modo, secundum quod nomen significat formam, quae non est
nata in materia recipi, unde oportet quod per se remaneat una et singularis; sicut
albedo, si esset forma non existens in materia, esset una sola, unde esset
singularis: et propter hoc philosophus dicit in VII Metaphys. quod si essent
species rerum separatae, sicut posuit Plato, essent individua. Now, since every
form which is so constituted as to be received in matter is communicable to
many matters, there are two ways in which what is signified by a name may not
be of such a nature as to be predicated of many: in one way, because a name
signifies a form as terminated in this matter, as in the case of the name
"Socrates” or "Plato,” which signifies human nature as it is in this
matter; in another way, because a name signifies a form which is not
constituted to be received in matter and consequently must remain per se one and
singular. Whiteness, for example, would be only one if it were a form not a
existing in matter, and consequently singular. This is the reason the
Philosopher says in VII Metaphysicae [6: 1045a 36–1045b 7] that if there were
separated species of things, as Plato held, they would be individuals. 7 Potest
autem obiici quod hoc nomen Socrates vel Plato est natum de pluribus
praedicari, quia nihil prohibet multos esse, qui vocentur hoc nomine. Sed ad
hoc patet responsio, si attendantur verba Aristotelis. Ipse enim non divisit
nomina in universale et particulare, sed res. Et ideo intelligendum est quod
universale dicitur quando, non solum nomen potest de pluribus praedicari, sed
id, quod significatur per nomen, est natum in pluribus inveniri; hoc autem non
contingit in praedictis nominibus: nam hoc nomen Socrates vel Plato significat
naturam humanam secundum quod est in hac materia. Si vero hoc nomen imponatur
alteri homini significabit naturam humanam in alia materia; et sic eius erit
alia significatio; unde non erit universale, sed aequivocum. It could be
objected that the name "Socrates” or "Plato” is of such a kind as to
be predicated of many, since there is nothing to prevent their being applied to
many. The response to this objection is evident if we consider Aristotle’s
words. Notice that he divides things into universal and particular, not names.
It should be understood from this that what is said to be universal not only
has a name that can be predicated of many but what is signified by the name is
of such a nature as to be found in many. Now this is not the case in the
above-mentioned names, for the name "Socrates” or "Plato” signifies
human nature as it is in this matter. If one of these names is imposed on
another man it will signify human nature in other matter and thus another
signification of it. Consequently, it will be equivocal, not universal. 8 Deinde
cum dicit: necesse est autem enunciare etc., concludit divisionem
enunciationis. Quia enim semper enunciatur aliquid de aliqua re; rerum autem
quaedam sunt universalia, quaedam singularia; necesse est quod quandoque
enuncietur aliquid inesse vel non inesse alicui universalium, quandoque vero
alicui singularium. Et est suspensiva constructio usque huc, et est sensus:
quoniam autem sunt haec quidem rerum etc., necesse est enunciare et cetera. When
he says, we have to enunciate either of a universal or of a singular that
something belongs or does not belong to it, he infers the division of the
enunciation. Since something is always enunciated of some thing, and of things
some are universals and some singulars, it follows that sometimes it will be
enunciated that something belongs or does not belong to something universal,
sometimes to something singular. The construction of the sentence was
interrupted by the explanation of universal and singular but now we can see the
meaning: Since some of the things we are concerned with are universal and
others singular... we have to enunciate either of a universal or of a singular
that something belongs or does not belong to it. 9 Est autem considerandum quod
de universali aliquid enunciatur quatuor modis. Nam universale potest uno modo
considerari quasi separatum a singularibus, sive per se subsistens, ut Plato
posuit, sive, secundum sententiam Aristotelis, secundum esse quod habet in
intellectu. Et sic potest ei aliquid attribui dupliciter. Quandoque enim
attribuitur ei sic considerato aliquid, quod pertinet ad solam operationem
intellectus, ut si dicatur quod homo est praedicabile de multis, sive
universale, sive species. Huiusmodi enim intentiones format intellectus
attribuens eas naturae intellectae, secundum quod comparat ipsam ad res, quae
sunt extra animam. Quandoque vero attribuitur aliquid universali sic
considerato, quod scilicet apprehenditur ab intellectu ut unum, tamen id quod
attribuitur ei non pertinet ad actum intellectus, sed ad esse, quod habet
natura apprehensa in rebus, quae sunt extra animam, puta si dicatur quod homo
est dignissima creaturarum. Hoc enim convenit naturae humanae etiam secundum
quod est in singularibus. Nam quilibet homo singularis dignior est omnibus
creaturis irrationalibus; sed tamen omnes homines singulares non sunt unus homo
extra animam, sed solum in acceptione intellectus; et per hunc modum
attribuitur ei praedicatum, scilicet ut uni rei. Alio autem modo attribuitur
universali, prout est in singularibus, et hoc dupliciter. Quandoque quidem
ratione ipsius naturae universalis, puta cum attribuitur ei aliquid quod ad
essentiam eius pertinet, vel quod consequitur principia essentialia; ut cum dicitur,
homo est animal, vel homo est risibilis. Quandoque autem attribuitur ei aliquid
ratione singularis in quo invenitur, puta cum attribuitur ei aliquid quod
pertinet ad actionem individui; ut cum dicitur, homo ambulat. Singulari autem
attribuitur aliquid tripliciter: uno modo, secundum quod cadit in
apprehensione; ut cum dicitur, Socrates est singulare, vel praedicabile de uno
solo. Quandoque autem, ratione naturae communis; ut cum dicitur, Socrates est
animal. Quandoque autem, ratione sui ipsius; ut cum dicitur, Socrates ambulat.
Et totidem etiam modis negationes variantur: quia omne quod contingit
affirmare, contingit negare, ut supra dictum est. In relation to the point
being made here we have to consider the four ways in which something is
enunciated of the universal. On the one band, the universal can be considered
as though separated from singulars, whether subsisting per se as Plato held or according
to the being it has in the intellect as Aristotle held; considered thus,
something can be attributed to it in two ways. Sometimes we attribute something
to it which pertains only to the operation of the intellect; for example when
we say, "Man,” whether the universal or the species, "is predicable”
of many. For the intellect forms intentions of this kind, attributing them to
the nature understood according as it compares the nature to the things outside
of the mind. But sometimes we attribute something to the universal thus
considered (i.e., as it is apprehended by the intellect as one) which does not
belong to the act of the intellect but to the being that the nature apprehended
has in things outside of the soul; for example, when we say "Man is the
noblest of creatures.” For this truly belongs to human nature as it is in
singulars, since any single man is more noble than all irrational creatures;
yet all singular men are not one man outside of the mind, but only in the
apprehension of the intellect; and the predicate is attributed to it in this
way, i.e., as to one thing. On the other hand, we attribute something to the
universal as in singulars in another way, and this is twofold: sometimes it is
in view of the universal nature itself; for instance, when we attribute
something to it that belongs to its essence, or follows upon the essential
principles, as in "Man is an animal,” or "Man is risible.” Sometimes
it is in view of the singular in which the universal is found; for instance,
when we attribute something to the universal that pertains to the action of the
individual, as in "Man walks. Moreover, something is attributed to the
singular in three ways: in one way, as it is subject to the intellect, as when
we say "Socrates is a singular,” or "predicable of only one”; in
another way, by reason of the common nature, as when we say "Socrates is
an animal”; in the third way, by reason of itself, as when we say
"Socrates is walking.” The negations are varied in the same number of
ways, since everything that can be affirmed can also be denied, as was said
above. 10 Est autem haec tertia divisio enunciationis quam ponit philosophus.
Prima namque fuit quod enunciationum quaedam est una simpliciter, quaedam vero
coniunctione una. Quae quidem est divisio analogi in ea de quibus praedicatur
secundum prius et posterius: sic enim unum dividitur secundum prius in simplex
et per posterius in compositum. Alia vero fuit divisio enunciationis in
affirmationem et negationem. Quae quidem est divisio generis in species, quia
sumitur secundum differentiam praedicati ad quod fertur negatio; praedicatum
autem est pars formalis enunciationis; et ideo huiusmodi divisio dicitur
pertinere ad qualitatem enunciationis, qualitatem, inquam, essentialem,
secundum quod differentia significat quale quid. Tertia autem est huiusmodi
divisio, quae sumitur secundum differentiam subiecti, quod praedicatur de
pluribus vel de uno solo, et ideo dicitur pertinere ad quantitatem
enunciationis, nam et quantitas consequitur materiam. This is the third
division the Philosopher has given of the enunciation. The first was the
division of the enunciation into one simply and one by conjunction. This is an
analogous division into those things of which one is predicated primarily and
consequently, for one is divided according to the prior and posterior into
simple and composite. The second was the division of enunciation into
affirmation and negation. This is a division of genus into species, for it is
taken from the difference of the predicate to which a negation is added. The
predicate is the formal part of the enunciation and hence such a division is
said to pertain to the quality of the enunciation. By "quality” I mean
essential quality, for in this case the difference signifies the quality of the
essence. The third division is based upon the difference of the subject as
predicated of many or of only one, and is therefore a division that pertains to
the quantity of the enunciation, for quantity follows upon matter. 11 Deinde
cum dicit: si ergo universaliter etc., ostendit quomodo enunciationes
diversimode opponantur secundum diversitatem subiecti. Et circa hoc duo facit:
primo, distinguit diversos modos oppositionum in ipsis enunciationibus;
secundo, ostendit quomodo diversae oppositiones diversimode se habent ad verum
et falsum; ibi: quocirca hasquidem impossibile est et cetera.Aristotle shows
next how enunciations are opposed in diverse ways according to the diversity of
the subject when he says, If, then, it is universally enunciated of a universal
that something belongs or does not belong to it, etc. He first distinguishes the
diverse modes of opposition in enunciations; secondly, he shows how these
diverse oppositions are related in different ways to truth and falsity where he
says, Hence in the case of the latter it is impossible that both be at once
true, etc. Aquinas lib. 1 l. 10 n. 12Circa primum considerandum est quod cum
universale possit considerari in abstractione a singularibus vel secundum quod
est in ipsis singularibus, secundum hoc diversimode aliquid ei attribuitur, ut
supra dictum est. Ad designandum autem diversos modos attributionis inventae sunt
quaedam dictiones, quae possunt dici determinationes vel signa, quibus
designatur quod aliquid de universali, hoc aut illo modo praedicetur. Sed quia
non est ab omnibus communiter apprehensum quod universalia extra singularia
subsistant, ideo communis usus loquendi non habet aliquam dictionem ad
designandum illum modum praedicandi, prout aliquid dicitur in abstractione a
singularibus. Sed Plato, qui posuit universalia extra singularia subsistere,
adinvenit aliquas determinationes, quibus designaretur quomodo aliquid
attribuitur universali, prout est extra singularia, et vocabat universale
separatum subsistens extra singularia quantum ad speciem hominis, per se
hominem vel ipsum hominem et similiter in aliis universalibus. Sed universale
secundum quod est in singularibus cadit in communi apprehensione hominum; et
ideo adinventae sunt quaedam dictiones ad significandum modum attribuendi aliquid
universali sic accepto. First, then, he distinguishes the diverse modes of
opposition and since these depend upon a diversity in the subject we must first
consider the latter diversity. Now the universal can be considered either in
abstraction from singulars or as it is in singulars, and by reason of this
something is attributed in diverse modes to the universal, as we have already
said. To designate diverse modes of attribution certain words have been
conceived which may be called determinations or signs and which designate that
something is predicated in this or that mode. But first we should note that
since it is not commonly apprehended by all men that universals subsist outside
of singulars there is no word in common speech to designate the mode of
predicating in which something is said of a universal thus in abstraction from
singulars. Plato, who held that universals subsist outside of singulars, did,
however, invent certain determinations to designate the way in which something
is attributed to the universal as it is outside of singulars. With respect to
the species man he called the separated universal subsisting outside of
singulars "man per se”’or "man itself,” and he designated other such
universals in like manner. The universal as it is in singulars, however, does
fall within the common apprehension of men and accordingly certain words have
been conceived to signify the mode of attributing something to the universal
taken in this way. 13 Sicut autem supra dictum est, quandoque aliquid
attribuitur universali ratione ipsius naturae universalis; et ideo hoc dicitur
praedicari de eo universaliter, quia scilicet ei convenit secundum totam
multitudinem in qua invenitur; et ad hoc designandum in affirmativis
praedicationibus adinventa est haec dictio, omnis, quae designat quod
praedicatum attribuitur subiecto universali quantum ad totum id quod sub
subiecto continetur. In negativis autem praedicationibus adinventa est haec
dictio, nullus, per quam significatur quod praedicatum removetur a subiecto
universali secundum totum id quod continetur sub eo. Unde nullus dicitur quasi
non ullus, et in Graeco dicitur, udis quasi nec unus, quia nec unum solum est
accipere sub subiecto universali a quo praedicatum non removeatur. Quandoque
autem attribuitur universali aliquid vel removetur ab eo ratione particularis;
et ad hoc designandum, in affirmativis quidem adinventa est haec dictio,
aliquis vel quidam, per quam designatur quod praedicatum attribuitur subiecto
universali ratione ipsius particularis; sed quia non determinate significat
formam alicuius singularis, sub quadam indeterminatione singulare designat;
unde et dicitur individuum vagum. In negativis autem non est aliqua dictio
posita, sed possumus accipere, non omnis; ut sicut, nullus, universaliter
removet, eo quod significat quasi diceretur, non ullus, idest, non aliquis, ita
etiam, non omnis, particulariter removeat, in quantum excludit universalem
affirmationem. As was said above, sometimes something is attributed to the
universal in view of the universal nature itself; for this reason it is said to
be predicated of the universal universally, i.e., that it belongs to the universal
according to the whole multitude in which it is found. The word "every”
has been devised to designate this in affirmative predications. It designates
that the predicate is attributed to the universal subject with respect to the
whole of what is contained under the subject. In negative predications the word
"no” has been devised to signify that the predicate is removed from the
universal subject according to the whole of what is contained under it. Hence,
saying nullus in Latin is like saying non ullus [not any] and in Greek??de??
[none] is like??de e?? [not one], for not a single one is understood under the
universal subject from which the predicate is not removed. Sometimes something
is either attributed to or removed from the universal in view of the
particular. To designate this in affirmative enunciations, the word
"some,” or "a certain one,” has been devised. We designate by this
that the predicate is attributed to the universal subject by reason of the
particular. "Some,” or "a certain one,” however, does not signify the
form of any singular determinately, rather, it designates the singular under a
certain indetermination. The singular so designated is therefore called the
vague individual. In negative enunciations there is no designated word, but
"not all” can be used. just as "no,” then, removes universally, for
it signifies the same thing as if we were to say "not any,” (i.e.,
"not some”) so also "not all” removes particularly inasmuch as it
excludes universal affirmation. Aquinas lib. 1 l. 10 n. 14Sic igitur tria sunt
genera affirmationum in quibus aliquid de universali praedicatur. Una quidem
est, in qua de universali praedicatur aliquid universaliter; ut cum dicitur,
omnis homo est animal. Alia, in qua aliquid praedicatur de universali particulariter;
ut cum dicitur, quidam homo est albus. Tertia vero est, in qua aliquid de
universali praedicatur absque determinatione universalitatis vel
particularitatis; unde huiusmodi enunciatio solet vocari indefinita. Totidem
autem sunt negationes oppositae. There are, therefore, three kinds of
affirmations in which something is predicated of a universal: in one, something
is predicated of the universal universally, as in "Every man is an
animal”; in another, something is predicated of the universal particularly, as
in "Some man is white.” The third is the affirmation in which something is
predicated of the universal without a determination of universality or
particularity. Enunciations of this kind are customarily called indefinite.
There are the same number of opposed negations. De singulari autem quamvis
aliquid diversa ratione praedicetur, ut supra dictum est, tamen totum refertur
ad singularitatem ipsius, quia etiam natura universalis in ipso singulari
individuatur; et ideo nihil refert quantum ad naturam singularitatis, utrum
aliquid praedicetur de eo ratione universalis naturae; ut cum dicitur, Socrates
est homo, vel conveniat ei ratione singularitatis. In the case of the singular,
although something is predicated of it in a different respect, as was said
above, nevertheless the whole is referred to its singularity because the
universal nature is individuated in the singular; therefore it makes no difference
as far as the nature of singularity is concerned whether something is
predicated of the singular by reason of the universal nature, as in
"Socrates is a man,” or belongs to it by reason of its singularity.
Aquinas lib. 1 l. 10 n. 16Si igitur tribus praedictis enunciationibus addatur
singularis, erunt quatuor modi enunciationis ad quantitatem ipsius pertinentes,
scilicet universalis, singularis, indefinitus et particularis. If we add the
singular to the three already mentioned there will be four modes of enunciation
pertaining to quantity: universal singular, indefinite, and particular. 17 Sic
igitur secundum has differentias Aristoteles assignat diversas oppositiones
enunciationum adinvicem. Et primo, secundum differentiam universalium ad
indefinitas; secundo, secundum differentiam universalium ad particulares; ibi:
opponi autem affirmationem et cetera. Circa primum tria facit: primo, agit de
oppositione propositionum universalium adinvicem; secundo, de oppositione
indefinitarum; ibi: quando autem in universalibus etc.; tertio, excludit
dubitationem; ibi: in eo vero quod et cetera. Aristotle assigns the diverse
oppositions of enunciations according to these differences. The first
opposition is based on the difference of universals and indefinites; the second
bn the difference of universals and particulars, the latter being treated where
he says, Affirmation is opposed to negation in the way I call contradictory,
etc. With respect to the first opposition, the one between universals and
indefinites, the opposition of universal propositions to each other is treated
first, and then the opposition of indefinite enunciations where he says, On the
other hand, when the enunciations are of a universal but not universally
enunciated, etc. Finally he precludes a possible question where he says, In the
predicate, however, the universal universally predicated is not true, etc.
Aquinas lib. 1 l. 10 n. 18Dicit ergo primo quod si aliquis enunciet de subiecto
universali universaliter, idest secundum continentiam suae universalitatis,
quoniam est, idest affirmative, aut non est, idest negative, erunt contrariae
enunciationes; ut si dicatur, omnis homo est albus, nullus homo est albus.
Huius autem ratio est, quia contraria dicuntur quae maxime a se distant: non
enim dicitur aliquid nigrum ex hoc solum quod non est album, sed super hoc quod
est non esse album, quod significat communiter remotionem albi, addit nigrum
extremam distantiam ab albo. Sic igitur id quod affirmatur per hanc
enunciationem, omnis homo est albus, removetur per hanc negationem, non omnis
homo est albus. Oportet ergo quod negatio removeat modum quo praedicatum
dicitur de subiecto, quem designat haec dictio, omnis. Sed super hanc
remotionem addit haec enunciatio, nullus homo est albus, totalem remotionem,
quae est extrema distantia a primo; quod pertinet ad rationem contrarietatis.
Et ideo convenienter hanc oppositionem dicit contrarietatem. He says first,
then, that if someone enunciates universally of a universal subject, i.e.,
according to the content of its universality, that it is, i.e., affirmatively,
or is not, i.e., negatively, these enunciations will be contrary; as when we
say, "Every man is white,” "No man is white.” And the reason is that
the things that are most distant from each other are said to be contraries. For
a thing is not said to be black only because it is not white but because over
and beyond not being white—which signifies the remotion of white commonly—it
is, in addition, black, the extreme in distance from white. What is affirmed by
the enunciation "Every man is white” then, is removed by the negation
"Not every man is white”; the negation, therefore, removes the mode in
which the predicate is said of the subject which the word "every”
designates. But over and beyond this remotion, the enunciation "No man is
white” which is most distant from "Every man is white,” adds total
remotion, and this belongs to the notion of contrariety. He therefore
appropriately calls this opposition contrariety. Aquinas lib. 1 l. 10 n.
19Deinde cum dicit: quando autem etc., ostendit qualis sit oppositio
affirmationis et negationis in indefinitis. Et primo, proponit quod intendit;
secundo, manifestat propositum per exempla; ibi: dico autem non universaliter
etc.; tertio, assignat rationem manifestationis; ibi: cum enim universale sit
homo et cetera. Dicit ergo primo quod quando de universalibus subiectis affirmatur
aliquid vel negatur non tamen universaliter, non sunt contrariae enunciationes,
sed illa quae significantur contingit esse contraria. Deinde cum dicit: dico
autem non universaliter etc., manifestat per exempla. Ubi considerandum est
quod non dixerat quando in universalibus particulariter, sed non universaliter.
Non enim intendit de particularibus enunciationibus, sed de solis indefinitis.
Et hoc manifestat per exempla quae ponit, dicens fieri in universalibus
subiectis non universalem enunciationem; cum dicitur, est albus homo, non est
albus homo. Et rationem huius expositionis ostendit, quia homo, qui subiicitur,
est universale, sed tamen praedicatum non universaliter de eo praedicatur, quia
non apponitur haec dictio, omnis: quae non significat ipsum universale, sed
modum universalitatis, prout scilicet praedicatum dicitur universaliter de
subiecto; et ideo addita subiecto universali, semper significat quod aliquid de
eo dicatur universaliter. Tota autem haec expositio refertur ad hoc quod
dixerat: quando in universalibus non universaliter enunciatur, non sunt
contrariae. When he says, On the other hand, when the enunciations are of a
universal but not universally enunciated, etc., he shows what kind of
opposition there is between affirmation and negation in indefinite
enunciations. First he states the point; he then manifests it by an example
when he says, I mean by "enunciated of a universal but not universally,”
etc. Finally he gives the reason for this when he says, For while "man” is
a universal, it is not used as universal, etc. He says first, then, that when
something is affirmed or denied of a universal subject, but not universally,
the enunciations are not contrary but the things that are signified may be
contraries. He clarifies this with examples where he says, I mean by
"enunciated of a universal but not universally,” etc. Note in relation to
this that what he said just before this was "when... of universals but not
universally enunciated” and not, "when... of universals particularly,” the
reason being that he only intends to speak of indefinite enunciations, not of
particulars. This he manifests by the examples he gives. When we say "Man
is white” and "Man is not white,” the universal subjects do not make them
universal enunciations. He gives as the reason for this, that although man,
which stands as the subject, is universal, the predicate is not predicated of
it universally because the word "every” is not added, which does not
itself signify the universal, but the mode of universality, i.e., that the
predicate is said universally of the subject. Therefore when "every” is
added to the universal subject it always signifies that something is said of it
universally. This whole exposition relates to his saying, On the other hand,
when the enunciations are of a universal but not universally enunciated, they
are not contraries. Aquinas lib. 1 l. 10 n. 20Sed hoc quod additur: quae autem
significantur contingit esse contraria, non est expositum, quamvis obscuritatem
contineat; et ideo a diversis diversimode exponitur. Quidam enim hoc referre
voluerunt ad contrarietatem veritatis et falsitatis, quae competit huiusmodi
enunciationibus. Contingit enim quandoque has simul esse veras, homo est albus,
homo non est albus; et sic non sunt contrariae, quia contraria mutuo se
tollunt. Contingit tamen quandoque unam earum esse veram et alteram esse
falsam; ut cum dicitur, homo est animal, homo non est animal; et sic ratione
significati videntur habere quamdam contrarietatem. Sed hoc non videtur ad
propositum pertinere, tum quia philosophus nondum hic loquitur de veritate et
falsitate enunciationum; tum etiam quia hoc ipsum posset de particularibus
enunciationibus dici. Immediately after this he adds, although it is possible
for the things signified to be contraries, and in spite of the fact that this
is obscure he does not explain it. It has therefore been interpreted in
different ways. Some related it to the contrariety of truth and falsity proper
to enunciations of this kind, For such enunciations may be simultaneously true,
as in "Man is white” and "Man is not white,” and thus not be
contraries, for contraries mutually destroy each other. On the other hand, one
may be true and the other false, as in "Man is an animal” and "Man is
not an animal,” and thus by reason of what is signified seem to have a certain
kind of contrariety. But this does not seem to be related to what Aristotle has
said: first, because the Philosopher has not yet taken up the point of truth
and falsity of enunciations; secondly, because this very thing can also be said
of particular enunciations. Alii vero, sequentes Porphyrium, referunt hoc ad
contrarietatem praedicati. Contingit enim quandoque quod praedicatum negatur de
subiecto propter hoc quod inest ei contrarium; sicut si dicatur, homo non est albus,
quia est niger; et sic id quod significatur per hoc quod dicitur, non est
albus, potest esse contrarium. Non tamen semper: removetur enim aliquid a
subiecto, etiam si contrarium non insit, sed aliquid medium inter contraria; ut
cum dicitur, aliquis non est albus, quia est pallidus; vel quia inest ei
privatio actus vel habitus seu potentiae; ut cum dicitur, aliquis non est
videns, quia est carens potentia visiva, aut habet impedimentum ne videat, vel
etiam quia non est aptus natus videre; puta si dicatur, lapis non videt. Sic
igitur illa, quae significantur contingit esse contraria, sed ipsae
enunciationes non sunt contrariae, quia ut in fine huius libri dicetur, non
sunt contrariae opiniones quae sunt de contrariis, sicut opinio quod aliquid
sit bonum, et illa quae est, quod aliquid non est bonum. Others, following
Porphyry, relate this to the contrariety of the predicate. For sometimes the
predicate may be denied of the subject because of the presence of the contrary
in it, as when we say, "Man is not white” because he is black; thus it
could be the contrary that is signified by "is not white.” This is not
always the case, however, for we remove something from a subject even when it
is not a contrary that is present in it but some mean between contraries, as in
saying, "So-and-so is not white” because he is pale; or when there is a
privation of act or habit or potency, as in saying, "So-and-so is
non-seeing” because he lacks the power of sight or has an impediment so that he
cannot see, or even because something is not of such a nature as to see, as in
saying, "A stone does not see.” It is therefore possible for the things
signified to be contraries, but the enunciations themselves not to be; for as
is said near the end of this book, opinions that are about contraries are not
contrary,”’ for example, an opinion that something is good and an opinion that
something is evil. Aquinas lib. 1 l. 10 n. 22Sed nec hoc videtur ad propositum
Aristotelis pertinere, quia non agit hic de contrarietate rerum vel opinionum,
sed de contrarietate enunciationum: et ideo magis videtur hic sequenda
expositio Alexandri. Secundum quam dicendum est quod in indefinitis
enunciationibus non determinatur utrum praedicatum attribuatur subiecto
universaliter (quod faceret contrarietatem enunciationum), aut particulariter
(quod non faceret contrarietatem enunciationum); et ideo huiusmodi
enunciationes indefinitae non sunt contrariae secundum modum quo proferuntur.
Contingit tamen quandoque ratione significati eas habere contrarietatem, puta,
cum attribuitur aliquid universali ratione naturae universalis, quamvis non
apponatur signum universale; ut cum dicitur, homo est animal, homo non est
animal: quia hae enunciationes eamdem habent vim ratione significati; ac si
diceretur, omnis homo est animal, nullus homo est animal. This does not seem to
relate to what Aristotle has proposed either, for he is not treating here of
contrariety of things or opinions, but of contrariety of enunciations. For this
reason it seems better here to follow the exposition of Alexander. According to
his exposition, in indefinite enunciations it is not determined whether the
predicate is attributed to the subject universally (which would constitute
contrariety of enunciations), or particularly (which would not constitute
contrariety of enunciations). Accordingly, enunciations of this kind are not
contrary in mode of expression. However, sometimes they have contrariety by
reason of what is signified, i.e., when something is attributed to a universal
in virtue of the universal nature although the universal sign is not added, as
in "Man is an animal” and "Man is not an animal,” for in virtue of
what is signified these enunciations have the same force as "Every man is
an animal” and "No man is an animal.” Aquinas lib. 1 l. 10 n. 23Deinde cum
dicit: in eo vero quod etc., removet quoddam quod posset esse dubium. Quia enim
posuerat quamdam diversitatem in oppositione enunciationum ex hoc quod
universale sumitur a parte subiecti universaliter vel non universaliter, posset
aliquis credere quod similis diversitas nasceretur ex parte praedicati, ex hoc
scilicet quod universale praedicari posset et universaliter et non
universaliter; et ideo ad hoc excludendum dicit quod in eo quod praedicatur
aliquod universale, non est verum quod praedicetur universale universaliter.
Cuius quidem duplex esse potest ratio. Una quidem, quia talis modus praedicandi
videtur repugnare praedicato secundum propriam rationem quam habet in
enunciatione. Dictum est enim supra quod praedicatum est quasi pars formalis
enunciationis, subiectum autem est pars materialis ipsius: cum autem aliquod
universale profertur universaliter, ipsum universale sumitur secundum
habitudinem quam habet ad singularia, quae sub se continet; sicut et quando
universale profertur particulariter, sumitur secundum habitudinem quam habet ad
aliquod contentorum sub se; et sic utrumque pertinet ad materialem
determinationem universalis: et ideo neque signum universale neque particulare
convenienter additur praedicato, sed magis subiecto: convenientius enim
dicitur, nullus homo est asinus, quam, omnis homo est nullus asinus; et
similiter convenientius dicitur, aliquis homo est albus, quam, homo est aliquid
album. Invenitur autem quandoque a philosophis signum particulare appositum
praedicato, ad insinuandum quod praedicatum est in plus quam subiectum, et hoc
praecipue cum, habito genere, investigant differentias completivas speciei,
sicut in II de anima dicitur quod anima est actus quidam. Alia vero ratio
potest accipi ex parte veritatis enunciationis; et ista specialiter habet locum
in affirmationibus quae falsae essent si praedicatum universaliter
praedicaretur. Et ideo manifestans id quod posuerat, subiungit quod nulla
affirmatio est in qua, scilicet vere, de universali praedicato universaliter
praedicetur, idest in qua universali praedicato utitur ad universaliter
praedicandum; ut si diceretur, omnis homo est omne animal. Oportet enim,
secundum praedicta, quod hoc praedicatum animal, secundum singula quae sub ipso
continentur, praedicaretur de singulis quae continentur sub homine; et hoc non
potest esse verum, neque si praedicatum sit in plus quam subiectum, neque si
praedicatum sit convertibile cum eo. Oporteret enim quod quilibet unus homo
esset animalia omnia, aut omnia risibilia: quae repugnant rationi singularis,
quod accipitur sub universali. When he says, But as regards the predicate the
universal universally predicated is not true, etc., he precludes a certain
difficulty. He has already stated that there is a diversity in the opposition
of enunciations because of the universal being taken either universally or not
universally on the part of the subject. Someone might think, as a consequence,
that a similar diversity would arise on the part of the predicate, i.e., that
the universal could be predicated both universally and not universally. To
exclude this he says that in the case in which a universal is predicated it is
not true that the universal is predicated universally. There are two reasons
for this. The first is that such a mode of predicating seems to be repugnant to
the predicate in relation to its status in the enunciation; for, as has been
said, the predicate is a quasi-formal part of the enunciation, while the
subject is a material part of it. Now when a universal is asserted universally
the universal itself is taken according to the relationship it has to the
singulars contained under it, and when it is asserted particularly the
universal is taken according to the relationship it has to some one of what is
contained under it. Thus both pertain to the material determination of the
universal. This is why it is not appropriate to add either the universal or
particular sign to the predicate, but rather to the subject; for it is more
appropriate to say, "No man is an ass” than "Every man is no ass”;
andlikewise, to say, "Some man is white” than, "Man is some white.”
However, sometimes philosophers put the particular sign next to the predicate
to indicate that the predicate is in more than the subject, and this especially
when they have a genus in mind and are investigating the differences which
complete the species. There is an instance of this in II De anima [1:412a 22]
where Aristotle says that the soul is a certain act.”’ The other reason is
related to the truth of enunciations. This has a special place in affirmations,
which would be false if the predicate were predicated universally. Hence to
manifest what he has stated, he adds, for there is no affirmation in which,
i.e., truly, a universal predicate will be predicated universally, i.e., in
which a universal predicate is used to predicate universally, for example,
"Every man is every animal.” If this could be done, the predicate
"animal” according to the singulars contained under it would have to be
predicated of the singulars contained under "man”; but such predication
could not be true, whether the predicate is in more than the subject or is
convertible with the subject; for then any one man would have to be all animals
or all risible beings, which is repugnant to the notion of the singular, which
is taken tinder the universal. Aquinas lib. 1 l. 10 n. 24Nec est instantia si
dicatur quod haec est vera, omnis homo est omnis disciplinae susceptivus:
disciplina enim non praedicatur de homine, sed susceptivum disciplinae;
repugnaret autem veritati si diceretur, omnis homo est omne susceptivum
disciplinae. The truth of the enunciation "Every man is susceptible of
every discipline” is not an instance that can be used as an objection to this
position, for it is not "discipline” that is predicated of man but
"susceptible of discipline.” It would be repugnant to truth if it were
said that "Every man is everything susceptible of discipline.” 25 Signum
autem universale negativum, vel particulare affirmativum, etsi convenientius
ponantur ex parte subiecti, non tamen repugnat veritati etiam si ponantur ex
parte praedicati. Contingit enim huiusmodi enunciationes in aliqua materia esse
veras: haec enim est vera, omnis homo nullus lapis est; et similiter haec est
vera, omnis homo aliquod animal est. Sed haec, omnis homo omne animal est, in
quacumque materia proferatur, falsa est. Sunt autem quaedam aliae tales
enunciationes semper falsae; sicut ista, aliquis homo omne animal est (quae
habet eamdem causam falsitatis cum hac, omnis homo omne animal est); et si quae
aliae similes, sunt semper falsae: in omnibus enim eadem ratio est. Et ideo per
hoc quod philosophus reprobavit istam, omnis homo omne animal est, dedit
intelligere omnes consimiles esse improbandas. On the other hand, although the
negative universal sign or the particular affirmative sign are more
appropriately posited on the part of the subject, it is not repugnant to truth
if they are posited on the part of the predicate, for such enunciations may be
true in some matter. The enunciation "Every man is no stone,” for example,
is true, and so is "Every man is some animal.” But the enunciation
"Every man is every animal,” in whatever matter it occurs, is false. There
are other enunciations of this kind that are always false, such as, "Some
man is every animal” (which is false for the same reason as "Every man is
every animal” is false). And if there are any others like these, they are
always false; and the reason is the same in every case. And, therefore, in
rejecting the enunciation "Every man is every animal,” the Philosopher
meant it to be understood that all similar enunciations are to be rejected. XI.
1. Postquam philosophus determinavit de oppositione enunciationum, comparando
universales enunciationes ad indefinitas, hic determinat de oppositione
enunciationum comparando universales ad particulares. Circa quod considerandum
est quod potest duplex oppositio in his notari: una quidem universalis ad
particularem, et hanc primo tangit; alia vero universalis ad universalem, et
hanc tangit secundo; ibi: contrariae vero et cetera. Now that he has determined
the opposition of enunciations by comparing universal enunciations with
indefinite enunciations, Aristotle determines the opposition of enunciations by
comparing universals to particulars. It should be noted that there is a twofold
opposition in these enunciations, one of universal to particular, and he
touches upon this first; the other is the opposition of universal to universal,
and this he takes up next, where he says, They are opposed contrarily when the
universal affirmation is opposed to the universal negation, etc. 2 Particularis
vero affirmativa et particularis negativa, non habent proprie loquendo
oppositionem, quia oppositio attenditur circa idem subiectum; subiectum autem
particularis enunciationis est universale particulariter sumptum, non pro
aliquo determinato singulari, sed indeterminate pro quocumque; et ideo, cum de
universali particulariter sumpto aliquid affirmatur vel negatur, ipse modus
enunciandi non habet quod affirmatio et negatio sint de eodem: quod requiritur
ad oppositionem affirmationis et negationis, secundum praemissa. The particular
affirmative and particular negative do not have opposition properly speaking,
because opposition is concerned with the same subject. But the subject of a
particular enunciation is the universal taken particularly, not for a
determinate singular but indeterminately for any singular. For this reason,
when something is affirmed or denied of the universal particularly taken, the
mode of enunciating is not such that the affirmation and negation are of the
same thing; hence what is required for the opposition of affirmation and
negation is lacking. 3 Dicit ergo primo quod enunciatio, quae universale
significat, scilicet universaliter, opponitur contradictorie ei, quae non
significat universaliter sed particulariter, si una earum sit affirmativa,
altera vero sit negativa (sive universalis sit affirmativa et particularis
negativa, sive e converso); ut cum dicitur, omnis homo est albus, non omnis
homo est albus: hoc enim quod dico, non omnis, ponitur loco signi particularis
negativi; unde aequipollet ei quae est, quidam homo non est albus; sicut et
nullus, quod idem significat ac si diceretur, non ullus vel non quidam, est
signum universale negativum. Unde hae duae, quidam homo est albus (quae est
particularis affirmativa), nullus homo est albus (quae est universalis negativa),
sunt contradictoriae. First he says that the enunciation that signifies the
universal, i.e., universally, is opposed contradictorily to the one that does
not signify universally but particularly, if one of them is affirmative and the
other negative (whether the universal is affirmative and the particular
negative or conversely), as in "Every man is white,” "Not every man
is white.” For, the "not every” is used in place of the particular
negative sign; consequently, "Not every man is white” is equivalent to
"Some man is not white.” In a parallel way "no,” which signifies the
same thing as "not any” or "not some,” is the universal negative
sign; consequently, the two enunciations, "Some man is white,” which is
the particular affirmative, and "No man is white,” which is the universal
negative, are contradictories. 4 Cuius ratio est quia contradictio consistit in
sola remotione affirmationis per negationem; universalis autem affirmativa
removetur per solam negationem particularis, nec aliquid aliud ex necessitate
ad hoc exigitur; particularis autem affirmativa removeri non potest nisi per
universalem negativam, quia iam dictum est quod particularis affirmativa non
proprie opponitur particulari negativae. Unde relinquitur quod universali
affirmativae contradictorie opponitur particularis negativa, et particulari
affirmativae universalis negativa. The reason for this is that contradiction
consists in the mere removal of the affirmation by a negation. Now the
universal affirmative is removed by merely the negation of the particular and
nothing else is required of necessity; but the particular affirmative can only
be removed by the universal negative because, as has already been said, the
particular negative is not properly opposed to the particular affirmative.
Consequently, the particular negative is opposed contradictorily to the
universal affirmative and the universal negative to the particular affirmative.
5 Deinde cum dicit: contrariae vero etc., tangit oppositionem universalium
enunciationum; et dicit quod universalis affirmativa et universalis negativa
sunt contrariae; sicut, omnis homo est iustus, nullus homo est iustus, quia
scilicet universalis negativa non solum removet universalem affirmativam, sed
etiam designat extremam distantiam, in quantum negat totum quod affirmatio
ponit; et hoc pertinet ad rationem contrarietatis; et ideo particularis
affirmativa et negativa se habent sicut medium inter contraria. When he says,
They are opposed contrarily when the universal affirmation is opposed to the
universal negation, etc., he touches on the opposition of universal
enunciations. The universal affirmative and universal negative, he says, are
contraries, as in "Every man is just... No man is just”; for the universal
negative not only removes the universal affirmative but also designates an
extreme of distance between them inasmuch as it denies the whole that the
affirmation posits; and this belongs to the notion of contrariety. The
particular affirmative and particular negative, for this reason, are related as
a mean between contraries. 6 Deinde cum dicit: quocirca has quidem etc.,
ostendit quomodo se habeant affirmatio et negatio oppositae ad verum et falsum.
Et primo, quantum ad contrarias; secundo, quantum ad contradictorias; ibi:
quaecumque igiturcontradictiones etc.; tertio, quantum ad ea quae videntur
contradictoria, et non sunt; ibi: quaecumque autem in universalibus et cetera.
Dicit ergo primo quod quia universalis affirmativa et universalis negativa sunt
contrariae, impossibile est quod sint simul verae. Contraria enim mutuo se
expellunt. Sed particulares, quae contradictorie opponuntur universalibus
contrariis, possunt simul verificari in eodem; sicut, non omnis homo est albus,
quae contradictorie opponitur huic, omnis homo est albus, et, quidam homo est
albus, quae contradictorie opponitur huic, nullus homo est albus. Et huiusmodi
etiam simile invenitur in contrarietate rerum: nam album et nigrum numquam
simul esse possunt in eodem, sed remotiones albi et nigri simul possunt esse:
potest enim aliquid esse neque album neque nigrum, sicut patet in eo quod est
pallidum. Et similiter contrariae enunciationes non possunt simul esse verae, sed
earum contradictoriae, a quibus removentur, simul possunt esse verae. He shows
how the opposed affirmation and negation are related to truth and falsity when
he says, Hence in the case of the latter it is impossible that both be at once
true, etc. He shows this first in regard to contraries; secondly, in regard to
contradictories, where he says, Whenever there are contradictions with respect
to universal signifying universally, etc.; thirdly, in regard to those that
seem contradictory but are not, where he says, But when the contradictions are
of universals not signifying universally, etc. First, he says that because the
universal affirmative and universal negative are contraries, it is impossible
for them to be simultaneously true, for contraries mutually remove each other.
However, the particular enunciations that are contradictorily opposed to the
universal contraries, can be verified at the same time in the same thing, for
example, "Not every man is white” (which is opposed contradictorily to "Every
man is white”) and "Some man is white” (which is opposed contradictorily
to "No man is white”). A parallel to this is found in the contrariety of
things, for white and black can never be in the same thing at the same time;
but the remotion of white and black can be in the same thing at the same time,
for a thing may be neither white nor black, as is evident in something yellow.
In a similar way, contrary enunciations cannot be at once true, but their
contradictories, by which they are removed, can be true simultaneously. 7 Deinde
cum dicit: quaecumque igitur contradictiones etc., ostendit qualiter veritas et
falsitas se habeant in contradictoriis. Circa quod considerandum est quod,
sicut dictum est supra, in contradictoriis negatio non plus facit, nisi quod removet
affirmationem. Quod contingit dupliciter. Uno modo, quando est altera earum
universalis, altera particularis, ut supra dictum est. Alio modo, quando
utraque est singularis: quia tunc negatio ex necessitate refertur ad idem (quod
non contingit in particularibus et indefinitis), nec potest se in plus
extendere nisi ut removeat affirmationem. Et ideo singularis affirmativa semper
contradicit singulari negativae, supposita identitate praedicati et subiecti.
Et ideo dicit quod, sive accipiamus contradictionem universalium universaliter,
scilicet quantum ad unam earum, sive singularium enunciationum, semper necesse
est quod una sit vera et altera falsa. Neque enim contingit esse simul veras
aut simul falsas, quia verum nihil aliud est, nisi quando dicitur esse quod
est, aut non esse quod non est; falsum autem, quando dicitur esse quod non est,
aut non esse quod est, ut patet ex IV metaphysicorum. Then he says, Whenever
there are contradictions with respect to universals signifying universally, one
must be true and the other false, etc. Here he shows how truth and falsity are
related in contradictories. As was said above, in contradictories the negation
does no more than remove the affirmation, and this in two ways: in one way when
one of them is universal, the other particular; in another way when each is
singular. In the case of the singular, the negation is necessarily referred to
the same thing—which is not the case in particulars and indefinites—and cannot
extend to more than removing the affirmation. Accordingly, the singular
affirmative is always contradictory to the singular negative, the identity of
subject and predicate being supposed. Aristotle says, therefore, that whether
we take the contradiction of universals universally (i.e., one of the universals
being taken universally) or the contradiction of singular enunciations, one of
them must always be true and the other false. It is not possible for them to be
at once true or at once false because to be true is nothing other than to say
of what is, that it is, or of what is not that it is not; to be false, to say
of what is not, that it is, or of what is, that it is not, as is evident in IV
Metaphysicorum [7: 1011b 25]. 8 Deinde cum dicit: quaecumque autem universalium
etc., ostendit qualiter se habeant veritas et falsitas in his, quae videntur
esse contradictoria, sed non sunt. Et circa hoc tria facit: primo proponit quod
intendit; secundo, probat propositum; ibi: si enim turpis non probus etc.;
tertio, excludit id quod facere posset dubitationem; ibi: videbitur autem
subito inconveniens et cetera. Circa primum considerandum est quod affirmatio
et negatio in indefinitis propositionibus videntur contradictorie opponi
propter hoc, quod est unum subiectum non determinatum per signum particulare,
et ideo videtur affirmatio et negatio esse de eodem. Sed ad hoc removendum
philosophus dicit quod quaecumque affirmative et negative dicuntur de
universalibus non universaliter sumptis, non semper oportet quod unum sit
verum, et aliud sit falsum, sed possunt simul esse vera. Simul enim est verum
dicere quod homo est albus, et, homo non est albus, et quod homo est probus,
et, homo non est probus. When he says, But when the contradictions are of
universals not signifying universally, etc., he shows how truth and falsity are
related to enunciations that seem to be contradictory, but are not. First he
proposes how they are related; then he proves it where he says, For if he is
ugly, he is not beautiful, etc.; finally, he excludes a possible difficulty
where he says, At first sight this might seem paradoxical, etc. With respect to
the first point we should note that affirmation and negation in indefinite
propositions seem to be opposed contradictorily because there is one subject in
both of them and it is not determined by a particular sign. Hence, the
affirmation and negation seem to be about the same thing. To exclude this, the
Philosopher says that in the case of affirmative and negative enunciations of
universals not taken universally, one need not always be true and the other
false, but they can be at once true. For it is true to say both that "Man
is white” and that "Man is not white,” and that "Man is honorable”
and "Man is not honorable. 9 In quo quidem, ut Ammonius refert, aliqui
Aristoteli contradixerunt ponentes quod indefinita negativa semper sit
accipienda pro universali negativa. Et hoc astruebant primo quidem tali
ratione: quia indefinita, cum sit indeterminata, se habet in ratione materiae;
materia autem secundum se considerata, magis trahitur ad id quod indignius est;
dignior autem est universalis affirmativa, quam particularis affirmativa; et
ideo indefinitam affirmativam dicunt esse sumendam pro particulari affirmativa:
sed negativam universalem, quae totum destruit, dicunt esse indigniorem
particulari negativa, quae destruit partem, sicut universalis corruptio peior
est quam particularis; et ideo dicunt quod indefinita negativa sumenda est pro
universali negativa. Ad quod etiam inducunt quod philosophi, et etiam ipse
Aristoteles utitur indefinitis negativis pro universalibus; sicut dicitur in
libro Physic. quod non est motus praeter res; et in libro de anima, quod non
est sensus praeter quinque. Sed istae rationes non concludunt. Quod enim primo
dicitur quod materia secundum se sumpta sumitur pro peiori, verum est secundum
sententiam Platonis, qui non distinguebat privationem a materia, non autem est
verum secundum Aristotelem, qui dicit in Lib. I Physic. quod malum et turpe et
alia huiusmodi ad defectum pertinentia non dicuntur de materia nisi per
accidens. Et ideo non oportet quod indefinita semper stet pro peiori. Dato
etiam quod indefinita necesse sit sumi pro peiori, non oportet quod sumatur pro
universali negativa; quia sicut in genere affirmationis, universalis
affirmativa est potior particulari, utpote particularem affirmativam continens;
ita etiam in genere negationum universalis negativa potior est. Oportet autem
in unoquoque genere considerare id quod est potius in genere illo, non autem id
quod est potius simpliciter. Ulterius etiam, dato quod particularis negativa
esset potior omnibus modis, non tamen adhuc ratio sequeretur: non enim ideo
indefinita affirmativa sumitur pro particulari affirmativa, quia sit indignior,
sed quia de universali potest aliquid affirmari ratione suiipsius, vel ratione
partis contentae sub eo; unde sufficit ad veritatem eius quod praedicatum uni
parti conveniat (quod designatur per signum particulare); et ideo veritas
particularis affirmativae sufficit ad veritatem indefinitae affirmativae. Et
simili ratione veritas particularis negativae sufficit ad veritatem indefinitae
negativae, quia similiter potest aliquid negari de universali vel ratione
suiipsius, vel ratione suae partis. Utuntur autem quandoque philosophi
indefinitis negativis pro universalibus in his, quae per se removentur ab
universalibus; sicut et utuntur indefinitis affirmativis pro universalibus in
his, quae per se de universalibus praedicantur. On this point, as Ammonius
reports, some men, maintaining that the indefinite negative is always to be
taken for the universal negative, have taken a position contradictory to
Aristotle’s. They argued their position in the following way. The indefinite,
since it is indeterminate, partakes of the nature of matter; but matter
considered in itself is regarded as what is less worthy. Now the universal
affirmative is more worthy than the particular affirmative and therefore they
said that the indefinite affirmative was to be taken for the particular
affirmative. But, they said, the universal negative, which destroys the whole,
is less worthy than the particular negative, which destroys the part (just as
universal corruption is worse than particular corruption); therefore, they said
that the indefinite negative was to be taken for the universal negative. They
went on to say in support of their position that philosophers, and even
Aristotle himself, used indefinite negatives as universals. Thus, in the book
Physicorum [III, 1: 200b 32] Aristotle says that there is not movement apart
from the thing; and in the book De anima [III, 1: 424b 20], that there are not
more than five senses. However, these reasons are not cogent. What they say
about matter—that considered in itself it is taken for what is less worthy—is
true according to the opinion of Plato, who did not distinguish privation from
matter; however, it is not true according to Aristotle, who says in I Physicae
[9: 192a 3 & 192a 22], that the evil and ugly and other things of this kind
pertaining to defect, are said of matter only accidentally. Therefore the
indefinite need not stand always for the more ignoble. Even supposing it is
necessary that the indefinite be taken for the less worthy, it ought not to be
taken for the universal negative; for just as the universal affirmative is more
powerful than the particular in the genus of affirmation, as containing the
particular affirmative, so also the universal negative is more powerful in the
genus of negations. Now in each genus one must consider what is more powerful
in that genus, not what is more powerful simply. Further, if we took the
position that the particular negative is more powerful than all other modes,
the reasoning still would not follow, for the indefinite affirmative is not
taken for the particular affirmative because it is less worthy, but because
something can be affirmed of the universal by reason of itself, or by reason of
the part contained under it; whence it suffices for the truth of the particular
affirmative that the predicate belongs to one part (which is designated by the
particular sign); for this reason the truth of the particular affirmative
suffices for the truth of the indefinite affirmative. For a similar reason the
truth of the particular negative suffices for the truth of the indefinite
negative, because in like manner, something can be denied of a universal either
by reason of itself, or by reason of its part. Apropos of the examples cited
for their argument, it should be noted that philosophers sometimes use
indefinite negatives for universals in the case of things that are per se
removed from universals; and they use indefinite affirmatives for universals in
the case of things that are per se predicated of universals. 10 Deinde cum
dicit: si enim turpis est etc., probat propositum per id, quod est ab omnibus
concessum. Omnes enim concedunt quod indefinita affirmativa verificatur, si
particularis affirmativa sit vera. Contingit autem accipi duas affirmativas
indefinitas, quarum una includit negationem alterius, puta cum sunt opposita
praedicata: quae quidem oppositio potest contingere dupliciter. Uno modo,
secundum perfectam contrarietatem, sicut turpis, idest inhonestus, opponitur
probo, idest honesto, et foedus, idest deformis secundum corpus, opponitur
pulchro. Sed per quam rationem ista affirmativa est vera, homo est probus,
quodam homine existente probo, per eamdem rationem ista est vera, homo est
turpis, quodam homine existente turpi. Sunt ergo istae duae verae simul, homo
est probus, homo est turpis; sed ad hanc, homo est turpis, sequitur ista, homo
non est probus; ergo istae duae sunt simul verae, homo est probus, homo non est
probus: et eadem ratione istae duae, homo est pulcher, homo non est pulcher.
Alia autem oppositio attenditur secundum perfectum et imperfectum, sicut moveri
opponitur ad motum esse, et fieri ad factum esse: unde ad fieri sequitur non
esse eius quod fit in permanentibus, quorum esse est perfectum; secus autem est
in successivis, quorum esse est imperfectum. Sic ergo haec est vera, homo est
albus, quodam homine existente albo; et pari ratione, quia quidam homo fit
albus, haec est vera, homo fit albus; ad quam sequitur, homo non est albus.
Ergo istae duae sunt simul verae, homo est albus, homo non est albus. When he
says, For if he is ugly, he is not beautiful, etc., he proves what he has
proposed by something conceded by everyone, namely, that the indefinite
affirmative is verified if the particular affirmative is true. We may take two
indefinite affirmatives, one of which includes the negation of the other, as
for example when they have opposed predicates. Now this opposition can happen
in two ways. It can be according to perfect contrariety, as shameful (i.e.,
dishonorable) is opposed to worthy (i.e., honorable) and ugly (i.e., deformed
in body) is opposed to beautiful. But the reasoning by which the affirmative
enunciation, "Man is worthy,” is true, i.e., by some worthy man existing,
is the same as the reasoning by which "Man is shameful” is true, i.e., by
a shameful man existing. Therefore these two enunciations are at once true,
"Man is worthy” and "Man is shameful.” But the enunciation, "Man
is not worthy,” follows upon "Man is shameful.” Therefore the two
enunciations, " Man is worthy,” and "Man is not worthy,” are at once
true; and by the same reasoning these two, "Man is beautiful” and
"Man is not beautiful.” The other opposition is according to the complete
and incomplete, as to be in movement is opposed to to have been moved, and
becoming to to have become. Whence the non-being of that which is coming to be
in permanent things, whose being is complete, follows upon the becoming but
this is not so in successive things, whose being is incomplete. Thus, "Man
is white” is true by the fact that a white man exists; by the same reasoning,
because a man is becoming white, the enunciation "Man is becoming white”
is true, upon which follows, "Man is not white.” Therefore, the two
enunciations, "Man is white” and "Man is not white” are at once true.
11 Deinde cum dicit: videbitur autem etc., excludit id quod faceret
dubitationem circa praedicta; et dicit quod subito, id est primo aspectu
videtur hoc esse inconveniens, quod dictum est; quia hoc quod dico, homo non
est albus, videtur idem significare cum hoc quod est, nullus homo est albus.
Sed ipse hoc removet dicens quod neque idem significant neque ex necessitate
sunt simul vera, sicut ex praedictis manifestum est. Then when he says, At
first sight this might seem paradoxical, etc., he excludes what might present a
difficulty in relation to what has been said. At first sight, he says, what has
been stated seems to be inconsistent; for "Man is not white” seems to
signify the same thing as "No man is white.” But he rejects this when he
says that they neither signify the same thing, nor are they at once true
necessarily, as is evident from what has been said. XII. 1. Postquam
philosophus distinxit diversos modos oppositionum in enunciationibus, nunc
intendit ostendere quod uni affirmationi una negatio opponitur, et circa hoc
duo facit: primo, ostendit quod uni affirmationi una negatio opponitur;
secundo, ostendit quae sit una affirmatio vel negatio, ibi: una autem
affirmatio et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit quod intendit;
secundo, manifestat propositum; ibi: hoc enim idem etc.; tertio, epilogat quae
dicta sunt; ibi: manifestum est ergo et cetera. Having distinguished the
diverse modes of opposition in enunciations, the Philosopher now proposes to
show that there is one negation opposed to one affirmation. First he shows that
there is one negation opposed to one affirmation; then he manifests what one
affirmation and negation are, where he says, Affirmation or negation is one
when one thing is signified of one thing, etc. With respect to what he intends
to do he first proposes the point; then he manifests it where he says, for the
negation must deny the same thing that the affirmation affirms, etc. Finally,
he gives a summary of what has been said, where he says, We have said that
there is one negation opposed contradictorily to one affirmation, etc. 2 Dicit ergo primo, manifestum esse quod unius
affirmationis est una negatio sola. Et hoc quidem fuit necessarium hic dicere:
quia cum posuerit plura oppositionum genera, videbatur quod uni affirmationi
duae negationes opponerentur; sicut huic affirmativae, omnis homo est albus,
videtur, secundum praedicta, haec negativa opponi, nullus homo est albus, et
haec, quidam homo non est albus. Sed si quis recte consideret huius
affirmativae, omnis homo est albus, negativa est sola ista, quidam homo non est
albus, quae solummodo removet ipsam, ut patet ex sua aequipollenti, quae est,
non omnis homo est albus. Universalis vero negativa includit quidem in suo
intellectu negationem universalis affirmativae, in quantum includit
particularem negativam, sed supra hoc aliquid addit, in quantum scilicet
importat non solum remotionem universalitatis, sed removet quamlibet partem
eius. Et sic patet quod sola una est negatio universalis affirmationis: et idem
apparet in aliis. He says, then, that it is evident that there is only one
negation of one affirmation. It is necessary to make this point here because he
has posited many kinds of opposition and it might appear that two negations are
opposed to one affirmation. Thus it might seem that the negative enunciations,
"No man is white” and "Some man is not white” are both opposed to the
affirmative enunciation, "Every man is white.” But if one carefully
examines what has been said it will be evident that the only negative opposed
to "Every man is white” is "Some man is not white,” which merely
removes it, as is clear from its equivalent, "Not every man is white.” It
is true that the negation of the universal affirmative is included in the
understanding of the universal negative inasmuch as the universal negative
includes the particular negative, but the universal negative adds something
over and beyond this inasmuch as it not only brings about the removal of
universality but removes every part of it. Thus it is evident that there is
only one negation of a universal affirmation, and the same thing is evident in
the others. 3 Deinde cum dicit: hoc enim etc., manifestat propositum: et primo,
per rationem; secundo, per exempla; ibi: dico autem, ut est Socrates albus.
Ratio autem sumitur ex hoc, quod supra dictum est quod negatio opponitur
affirmationi, quae est eiusdem de eodem: ex quo hic accipitur quod oportet negationem
negare illud idem praedicatum, quod affirmatio affirmavit et de eodem subiecto,
sive illud subiectum sit aliquid singulare, sive aliquid universale, vel
universaliter, vel non universaliter sumptum; sed hoc non contingit fieri nisi
uno modo, ita scilicet ut negatio neget id quod affirmatio posuit, et nihil
aliud; ergo uni affirmationi opponitur una sola negatio. When he says, for the
negation must deny the same thing that the affirmation affirms, etc., he
manifests what he has said: first, from reason; secondly, by example. The
reasoning is taken from what has already been said, namely, that negation is
opposed to affirmation when the enunciations are of the same thing of the same
subject. Here he says that the negation must deny the same predicate the
affirmation affirms, and of the same subject, whether that subject he something
singular or something universal, either taken universally or not taken
universally. But this can only be done in one way, i.e., when the negation
denies what the affirmation posits, and nothing else. Therefore there is only
one negation opposed to one affirmation. 4 Deinde cum dicit: dico autem, ut est
etc., manifestat propositum per exempla. Et primo, in singularibus: huic enim
affirmationi, Socrates est albus, haec sola opponitur, Socrates non est albus,
tanquam eius propria negatio. Si vero esset aliud praedicatum vel aliud
subiectum, non esset negatio opposita, sed omnino diversa; sicut ista, Socrates
non est musicus, non opponitur ei quae est, Socrates est albus; neque etiam
illa quae est, Plato est albus, huic quae est, Socrates non est albus. Secundo,
manifestat idem quando subiectum affirmationis est universale universaliter
sumptum; sicut huic affirmationi, omnis homo est albus, opponitur sicut propria
eius negatio, non omnis homo est albus, quae aequipollet particulari negativae.
Tertio, ponit exemplum quando affirmationis subiectum est universale
particulariter sumptum: et dicit quod huic affirmationi, aliquis homo est
albus, opponitur tanquam eius propria negatio, nullus homo est albus. Nam
nullus dicitur, quasi non ullus, idest, non aliquis. Quarto, ponit exemplum
quando affirmationis subiectum est universale indefinite sumptum et dicit quod
isti affirmationi, homo est albus, opponitur tanquam propria eius negatio illa
quae est, non est homo albus. In manifesting this by example, where he says,
For example, the negation of "Socrates is white,” etc., he first takes
examples of singulars. Thus, "Socrates is not white” is the proper
negation opposed to "Socrates is white.” If there were another predicate
or another subject, it would not be the opposed negation, but wholly different.
For example, "Socrates is not musical” is not opposed to "Socrates is
white,” nor is "Plato is white” opposed to "Socrates is not white.”
Then he manifests the same thing in an affirmation with a universal universally
taken as the subject. Thus, "Not every man is white,” which is equivalent
to the particular negative, is the proper negation opposed to the affirmation,
"Every man is white.” Thirdly, he gives an example in which the subject of
the affirmation is a universal taken particularly. The proper negation opposed
to the affirmation "Some man is white” is "No man is white,” for to
say "no” is to say "not any,” i.e., "not some.” Finally, he
gives as an example enunciations in which the subject of the affirmation is the
universal taken indefinitely; "Man is not white” is the proper negation
opposed to the affirmation "Man is white.” 5 Sed videtur hoc esse contra
id, quod supra dictum est quod negativa indefinita verificatur simul cum
indefinita affirmativa; negatio autem non potest verificari simul cum sua
opposita affirmatione, quia non contingit de eodem affirmare et negare. Sed ad hoc
dicendum quod oportet quod hic dicitur intelligi quando negatio ad idem
refertur quod affirmatio continebat; et hoc potest esse dupliciter: uno modo,
quando affirmatur aliquid inesse homini ratione sui ipsius (quod est per se de
eodem praedicari), et hoc ipsum negatio negat; alio modo, quando aliquid
affirmatur de universali ratione sui singularis, et pro eodem de eo negatur. The
last example used to manifest his point seems to be contrary to what he has
already said, namely, that the indefinite negative and the indefinite
affirmative can be simultaneously verified; but a negation and its opposite
affirmation cannot be simultaneously verified, since it is not possible to
affirm and deny of the same subject. But what Aristotle is saying here must be
understood of the negation when it is referred to the same thing the
affirmation contained, and this is possible in two ways: in one way, when
something is affirmed to belong to man by reason of what he is (which is per se
to be predicated of the same thing), and this very thing the negation denies;
secondly, when something is affirmed of the universal by reason of its
singular, and the same thing is denied of it. 6 Deinde cum dicit: quod igitur
una affirmatio etc., epilogat quae dicta sunt, et concludit manifestum esse ex
praedictis quod uni affirmationi opponitur una negatio; et quod oppositarum
affirmationum et negationum aliae sunt contrariae, aliae contradictoriae; et
dictum est quae sint utraeque. Tacet autem de subcontrariis, quia non sunt
recte oppositae, ut supra dictum est. Dictum est etiam quod non omnis contradictio
est vera vel falsa; et sumitur hic large contradictio pro qualicumque
oppositione affirmationis et negationis: nam in his quae sunt vere
contradictoriae semper una est vera, et altera falsa. Quare autem in quibusdam
oppositis hoc non verificetur, dictum est supra; quia scilicet quaedam non sunt
contradictoriae, sed contrariae, quae possunt simul esse falsae. Contingit
etiam affirmationem et negationem non proprie opponi; et ideo contingit eas
esse veras simul. Dictum est autem quando altera semper est vera, altera autem
falsa, quia scilicet in his quae vere sunt contradictoria. He concludes by
summarizing what has been said: We have said that there is one negation opposed
contradictorily to one affirmation, etc. He considers it evident from what has
been said that one negation is opposed to one affirmation; and that of opposite
affirmations and negations, one kind are contraries, the other contradictories;
and that what each kind is has been stated. He does not speak of subcontraries
because it is not accurate to say that they are opposites, as was said above.
He also says here that it has been shown that not every contradiction is true
or false, "contradiction” being taken here broadly for any kind of
opposition of affirmation and negation; for in enunciations that are truly
contradictory one is always true and the other false. The reason why this may
not be verified in some kinds of opposites has already been stated, namely,
because some are not contradictories but contraries, and these can be false at
the same time. It is also possible for affirmation and negation not to be
properly opposed and consequently to be true at the same time. It has been
stated, however, when one is always true and the other false, namely, in those
that are truly contradictories. 7 Deinde cum dicit: una autem affirmatio etc.,
ostendit quae sit affirmatio vel negatio una. Quod quidem iam supra dixerat,
ubi habitum est quod una est enunciatio, quae unum significat; sed quia
enunciatio, in qua aliquid praedicatur de aliquo universali universaliter vel
non universaliter, multa sub se continet, intendit ostendere quod per hoc non
impeditur unitas enunciationis. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit quod
unitas enunciationis non impeditur per multitudinem, quae continetur sub universali,
cuius ratio una est; secundo, ostendit quod impeditur unitas enunciationis per
multitudinem, quae continetur sub sola nominis unitate; ibi: si vero duobus et
cetera. Dicit ergo primo quod una est affirmatio vel negatio cum unum
significatur de uno, sive illud unum quod subiicitur sit universale
universaliter sumptum sive non sit aliquid tale, sed sit universale
particulariter sumptum vel indefinite, aut etiam si subiectum sit singulare. Et
exemplificat de diversis sicut universalis ista affirmativa est una, omnis homo
est albus; et similiter particularis negativa quae est eius negatio, scilicet
non est omnis homo albus. Et subdit alia exempla, quae sunt manifesta. In fine
autem apponit quamdam conditionem, quae requiritur ad hoc quod quaelibet harum
sit una, si scilicet album, quod est praedicatum, significat unum: nam sola
multitudo praedicati impediret unitatem enunciationis. Ideo autem universalis
propositio una est, quamvis sub se multitudinem singularium comprehendat, quia
praedicatum non attribuitur multis singularibus, secundum quod sunt in se
divisa, sed secundum quod uniuntur in uno communi. The Philosopher explains
what one affirmation or negation is where he says, Affirmation or negation is
one when one thing is signified of one thing, etc. He did in fact state this
earlier when he said that an enunciation is one when it signifies one thing,
but because the enunciation in which something is predicated of a universal,
either universally or not universally, contains under it many things, he is
going to show here that unity of enunciation is not impeded by this. First he
shows that unity of enunciation is not impeded by the multitude contained under
the universal, whose notion is one. Then he shows that unity of enunciation is
impeded by the multitude contained under the unity of a name only, where he
says, But if one name is imposed for two things, etc. He says, then, that an
affirmation or negation is one when one thing is signified of one thing,
whether the one thing that is subjected be a universal taken universally, or
not, i.e., it may be a universal taken particularly or indefinitely, or even a
singular. He gives examples of the differ6nt kinds: such as, the universal
affirmative "Every man is white” and the particular negative, which is its
negation, "Not every man is white,” each of which is one. There are other
examples which are evident. At the end he states a condition that is required
for any of them to be one, i.e., provided the "white,” which is the
predicate, signifies one thing; for a multiple predicate with a subject
signifying one thing would also impede the unity of an enunciation. The
universal proposition is therefore one, even though it comprehends a multitude
of singulars under it, for the predicate is not attributed to many singulars
according as each is divided from the other, but according as they are united
in one common thing. 8 Deinde cum dicit: si vero duobus etc., ostendit quod
sola unitas nominis non sufficit ad unitatem enunciationis. Et circa hoc
quatuor facit: primo, proponit quod intendit; secundo, exemplificat; ibi: ut si
quis ponat etc.; tertio, probat; ibi: nihil enim differt etc.; quarto, infert
corollarium ex dictis; ibi: quare nec in his et cetera. Dicit ergo primo quod
si unum nomen imponatur duabus rebus, ex quibus non fit unum, non est
affirmatio una. Quod autem dicit, ex quibus non fit unum, potest intelligi
dupliciter. Uno modo, ad excludendum hoc quod multa continentur sub uno
universali, sicut homo et equus sub animali: hoc enim nomen animal significat utrumque,
non secundum quod sunt multa et differentia ad invicem, sed secundum quod
uniuntur in natura generis. Alio modo, et melius, ad excludendum hoc quod ex
multis partibus fit unum, sive sint partes rationis, sicut sunt genus et
differentia, quae sunt partes definitionis: sive sint partes integrales
alicuius compositi, sicut ex lapidibus et lignis fit domus. Si ergo sit tale
praedicatum quod attribuatur rei, requiritur ad unitatem enunciationis quod
illa multa quae significantur, concurrant in unum secundum aliquem dictorum
modorum; unde non sufficeret sola unitas vocis. Si vero sit tale praedicatum
quod referatur ad vocem, sufficiet unitas vocis; ut si dicam, canis est nomen. When
he says, But if one name is imposed for two things, he shows that unity of name
alone does not suffice for unity of an enunciation. He first makes the point;
secondly, he gives an example, where he says, if someone were to impose the
name "cloak” on horse and man, etc.; thirdly, he proves it where he says,
For this is no different from saying "Horse and man is white,” etc.;
finally, he infers a corollary from what has been said, where he says,
Consequently, in such enunciations, it is not necessary, etc. If one name is
imposed for two things, he says, from which one thing is not formed, there is
not one affirmation. The from which one thing is not formed can be understood
in two ways. It can be understood as excluding the many that are contained
under one universal, as man and horse under animal, for the name "animal”
signifies both,.not as they are many and different from each other but as they
are united in the nature of the genus. It can also be understood—and this would
be more accurate—as excluding the many parts from which something one is
formed, whether the parts of the notion as known, as the genus and the
difference, which are parts of the definition, or the integral parts of some
composite, as the stones and wood from which a house is made. If, then, there
is such a predicate which is attributed to a thing, the many that are signified
must concur in one thing according to some of the modes mentioned in order that
there be one enunciation; unity of vocal sound alone would not suffice.
However, if there is such a predicate which is referred to vocal sound, unity
of vocal sound would suffice, as in "‘Dog’is a name.” 9 Deinde cum dicit:
ut si quis etc., exemplificat quod dictum est, ut si aliquis hoc nomen tunica
imponat ad significandum hominem et equum: et sic, si dicam, tunica est alba,
non est affirmatio una, neque negatio una. Deinde cum dicit: nihil enim differt
etc., probat quod dixerat tali ratione. Si tunica significat hominem et equum,
nihil differt si dicatur, tunica est alba, aut si dicatur, homo est albus, et,
equus est albus; sed istae, homo est albus, et equus est albus, significant
multa et sunt plures enunciationes; ergo etiam ista, tunica est alba, multa
significat. Et hoc si significet hominem et equum ut res diversas: si vero
significet hominem et equum ut componentia unam rem, nihil significat, quia non
est aliqua res quae componatur ex homine et equo. Quod autem dicit quod non
differt dicere, tunica est alba, et, homo est albus, et, equus est albus, non
est intelligendum quantum ad veritatem et falsitatem. Nam haec copulativa, homo
est albus et equus est albus, non potest esse vera nisi utraque pars sit vera:
sed haec, tunica est alba, praedicta positione facta, potest esse vera etiam
altera existente falsa; alioquin non oporteret distinguere multiplices
propositiones ad solvendum rationes sophisticas. Sed hoc est intelligendum
quantum ad unitatem et multiplicitatem. Nam sicut cum dicitur, homo est albus
et equus est albus, non invenitur aliqua una res cui attribuatur praedicatum;
ita etiam nec cum dicitur, tunica est alba. He gives an example of what he
means where he says, For example, if someone were to impose the name
"cloak,” etc. That is, if someone were to impose the name "cloak” to
signify man and horse and then said, "Cloak is white,” there would not be
one affirmation, nor would there be one negation. He proves this where he says,
For this is no different from saying, etc. His argument is as follows. If
"cloak” signifies man and horse there is no difference between saying
"Cloak is white” and saying, "Man is white, and, Horse is white.” But
"Man is white, and, horse is white” signify many and are many
enunciations. Therefore, the enunciation, "Cloak is white,” signifies many
things. This is the case if "cloak” signifies man and horse as diverse
things; but if it signifies man and horse as one thing, it signifies nothing,
for there is not any thing composed of man and horse. When Aristotle says that
there is no difference between saying "Cloak is white” and, "Man is
white, and, horse is white,” it is not to be understood with respect to truth
and falsity. For the copulative enunciation "Man is white and horse is
white” cannot be true unless each part is true; but the enunciation "Cloak
is white,” under the condition given, can be true even when one is false;
otherwise it would not be necessary to distinguish multiple propositions to
solve sophistic arguments. Rather, it is to be understood with respect to unity
and multiplicity, for just as in "Man is white and horse is white” there
is not some one thing to which the predicate is attributed, so also in
"Cloak is white.” 10 Deinde cum dicit: quare nec in his etc., concludit ex
praemissis quod nec in his affirmationibus et negationibus, quae utuntur
subiecto aequivoco, semper oportet unam esse veram et aliam falsam, quia
scilicet negatio potest aliud negare quam affirmatio affirmet. When he says,
Consequently, it is not necessary in such enunciations, etc., he concludes from
what has been said that in affirmations and negations that use an equivocal
subject, one need not always be true and the other false since the negation may
deny something other than the affirmation affirms. XIII. 1. Postquam
philosophus determinavit de oppositione enunciationum et ostendit quomodo
dividunt verum et falsum oppositae enunciationes; hic inquirit de quodam quod
poterat esse dubium, utrum scilicet id quod dictum est similiter inveniatur in
omnibus enunciationibus vel non. Et circa hoc duo facit: primo, proponit
dissimilitudinem; secundo, probat eam; ibi: nam si omnis affirmatio et cetera. Now
that he, has treated opposition of enunciations and has shown the way in which
opposed enunciations divide truth and falsity, the Philosopher inquires about a
question that might arise, namely, whether what has been said is found to be so
in all enunciations or not. And first he proposes a dissimilarity in
enunciations with regard to dividing truth and falsity, then proves it where he
says, For if every affirmation or negation is true or false, etc. 2 Circa
primum considerandum est quod philosophus in praemissis triplicem divisionem
enunciationum assignavit, quarum prima fuit secundum unitatem enunciationis,
prout scilicet enunciatio est una simpliciter vel coniunctione una; secunda
fuit secundum qualitatem, prout scilicet enunciatio est affirmativa vel
negativa; tertia fuit secundum quantitatem, utpote quod enunciatio quaedam est
universalis, quaedam particularis, quaedam indefinita et quaedam singularis. In
relation to the dissimilarity which he intends to prove we should recall that
the Philosopher has given three divisions of the enunciation. The first was in
relation to the unity of enunciation, and according to this it is divided into
one simply and one by conjunction; the second was in relation to quality, and
according to this it is divided into affirmative and negative; the third was in
relation to quantity, and according to this it is either universal, particular,
indefinite, or singular. 3 Tangitur autem hic quarta divisio enunciationum
secundum tempus. Nam quaedam est de praesenti, quaedam de praeterito, quaedam
de futuro; et haec etiam divisio potest accipi ex his quae supra dicta sunt:
dictum est enim supra quod necesse est omnem enunciationem esse ex verbo vel ex
casu verbi; verbum autem est quod consignificat praesens tempus; casus autem
verbi sunt, qui consignificant tempus praeteritum vel futurum. Potest autem
accipi quinta divisio enunciationum secundum materiam, quae quidem divisio
attenditur secundum habitudinem praedicati ad subiectum: nam si praedicatum per
se insit subiecto, dicetur esse enunciatio in materia necessaria vel naturali;
ut cum dicitur, homo est animal, vel, homo est risibile. Si vero praedicatum
per se repugnet subiecto quasi excludens rationem ipsius, dicetur enunciatio
esse in materia impossibili sive remota; ut cum dicitur, homo est asinus. Si
vero medio modo se habeat praedicatum ad subiectum, ut scilicet nec per se
repugnet subiecto, nec per se insit, dicetur enunciatio esse in materia
possibili sive contingenti. Here he treats of a fourth division of enunciation,
a division according to time. Some enunciations are about the present, some
about the past, some about the future. This division could be seen in what
Aristotle has already said, namely, that every enunciation must have a verb or
a mode of a verb, the verb being that which signifies the present time, the
modes with past or future time. In addition, a fifth division of the
enunciation can be made, a division in regard to matter. It is taken from the
relationship of the predicate to the subject. If the predicate is per se in the
subject, it will be said to be an enunciation in necessary or natural matter.
Examples of this are "Man is an animal” and "Man is risible.” If the
predicate is per se repugnant to the subject, as excluding the notion of it, it
is said to be an enunciation in impossible or remote matter; for example, the
enunciation "Man is an ass.” If the predicate is related to the subject in
a way midway between these two, being neither per se repugnant to the subject
nor per se in it, the enunciation is said to be in possible or contingent matter.
4 His igitur enunciationum differentiis consideratis, non similiter se habet
iudicium de veritate et falsitate in omnibus. Unde philosophus dicit, ex
praemissis concludens, quod in his quae sunt, idest in propositionibus de
praesenti, et in his quae facta sunt, idest in enunciationibus de praeterito,
necesse est quod affirmatio vel negatio determinate sit vera vel falsa.
Diversificatur tamen hoc, secundum diversam quantitatem enunciationis; nam in
enunciationibus, in quibus de universalibus subiectis aliquid universaliter
praedicatur, necesse est quod semper una sit vera, scilicet affirmativa vel
negativa, et altera falsa, quae scilicet ei opponitur. Dictum est enim supra
quod negatio enunciationis universalis in qua aliquid universaliter praedicatur,
est negativa non universalis, sed particularis, et e converso universalis
negativa non est directe negatio universalis affirmativae, sed particularis; et
sic oportet, secundum praedicta, quod semper una earum sit vera et altera falsa
in quacumque materia. Et eadem ratio est in enunciationibus singularibus, quae
etiam contradictorie opponuntur, ut supra habitum est. Sed in enunciationibus,
in quibus aliquid praedicatur de universali non universaliter, non est necesse
quod semper una sit vera et altera sit falsa, qui possunt ambae esse simul verae,
ut supra ostensum est. Given these differences of enunciations, the judgment of
truth and falsity is not alike in all. Accordingly, the Philosopher says, as a
conclusion from what has been established: In enunciations about that which is,
i.e., in propositions about the present, or has taken place, i.e., in
enunciations about the past, the affirmation or the negation must be
determinately true or false. However, this differs according to the different
quantity of the enunciations. In enunciations in which something is universally
predicated of universal subjects, one must always be true, either the
affirmative or negative, and the other false, i.e., the one opposed to it. For
as was said above, the negation of a universal enunciation in which something
is predicated universally, is not the universal negative, but the particular
negative, and conversely, the universal negative is not directly the negation
of the universal affirmative, but the particular negative. According to the
foregoing, then, one of these must always be true and the other false in any
matter whatever. And the same is the case in singular enunciations, which are
also opposed contradictorily. However, in enunciations in which something is
predicated of a universal but not universally, it is not necessary that one
always be true and the other false, for both could be at once true. 5 Et hoc
quidem ita se habet quantum ad propositiones, quae sunt de praeterito vel de
praesenti: sed si accipiamus enunciationes, quae sunt de futuro, etiam
similiter se habent quantum ad oppositiones, quae sunt de universalibus vel
universaliter vel non universaliter sumptis. Nam in materia necessaria omnes
affirmativae determinate sunt verae, ita in futuris sicut in praeteritis et
praesentibus; negativae vero falsae. In materia autem impossibili, e contrario.
In contingenti vero universales sunt falsae et particulares sunt verae, ita in
futuris sicut in praeteritis et praesentibus. In indefinitis autem, utraque
simul est vera in futuris sicut in praesentibus vel praeteritis. The case as it
was just stated has to do with propositions about the past or the present.
Enunciations about the future that are of universals taken either universally
or not universally are also related in the same way in regard to oppositions.
In necessary matter all affirmative enunciations are determinately true; this
holds for enunciations in future time as well as in past and present time; and
negative enunciations are determinately false. In impossible matter the
contrary is the case. In contingent matter, however, universal enunciations are
false and particular enunciations true. This is the case in enunciations about
the future as well as those of the past and present. In indefinite enunciations,
both are at once true in future enunciations as well as in those of the present
or the past. 6 Sed in singularibus et futuris est quaedam dissimilitudo. Nam in
praeteritis et praesentibus necesse est quod altera oppositarum determinate sit
vera et altera falsa in quacumque materia; sed in singularibus quae sunt de
futuro hoc non est necesse, quod una determinate sit vera et altera falsa. Et
hoc quidem dicitur quantum ad materiam contingentem: nam quantum ad materiam
necessariam et impossibilem similis ratio est in futuris singularibus, sicut in
praesentibus et praeteritis. Nec tamen Aristoteles mentionem fecit de materia
contingenti, quia illa proprie ad singularia pertinent quae contingenter
eveniunt, quae autem per se insunt vel repugnant, attribuuntur singularibus
secundum universalium rationes. Circa hoc igitur versatur tota praesens
intentio: utrum in enunciationibus singularibus de futuro in materia
contingenti necesse sit quod determinate una oppositarum sit vera et altera
falsa. In singular future enunciations, however, there is a difference. In past
and present singular enunciations, one of the opposites must be determinately
true and the other false in any matter whatsoever, but in singulars that are
about the future, it is not necessary that one be determinately true and the
other false. This holds with respect to contingent matter; with respect to
necessary and impossible matter the rule is the same as in enunciations about
the present and the past. Aristotle has not mentioned contingent matter until
now because those things that take place contingently pertain exclusively to
singulars, whereas those that per se belong or are repugnant are attributed to
singulars according to the notions of their universals. Aristotle is therefore
wholly concerned here with this question: whether in singular enunciations
about the future in contingent matter it is necessary that one of the opposites
be determinately true and the other determinately false. 7 Deinde cum dicit:
nam si omnis affirmatio etc., probat praemissam differentiam. Et circa hoc duo
facit: primo, probat propositum ducendo ad inconveniens; secundo, ostendit illa
esse impossibilia quae sequuntur; ibi: quare ergo contingunt inconvenientia et
cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit quod in singularibus et futuris
non semper potest determinate attribui veritas alteri oppositorum; secundo,
ostendit quod non potest esse quod utraque veritate careat; ibi: at vero
nequequoniam et cetera. Circa primum ponit duas rationes, in quarum prima ponit
quamdam consequentiam, scilicet quod si omnis affirmatio vel negatio
determinate est vera vel falsa ita in singularibus et futuris sicut in aliis,
consequens est quod omnia necesse sit vel determinate esse vel non esse. Deinde
cum dicit: quare si hic quidem etc. vel, si itaque hic quidem, ut habetur in
Graeco, probat consequentiam praedictam. Ponamus enim quod sint duo homines,
quorum unus dicat aliquid esse futurum, puta quod Socrates curret, alius vero
dicat hoc idem ipsum non esse futurum; supposita praemissa positione, scilicet
quod in singularibus et futuris contingit alteram esse veram, scilicet vel
affirmativam vel negativam, sequetur quod necesse sit quod alter eorum verum
dicat, non autem uterque: quia non potest esse quod in singularibus
propositionibus futuris utraque sit simul vera, scilicet affirmativa et
negativa: sed hoc habet locum solum in indefinitis. Ex hoc autem quod necesse
est alterum eorum verum dicere, sequitur quod necesse sit determinate vel esse
vel non esse. Et hoc probat consequenter: quia ista duo se convertibiliter
consequuntur, scilicet quod verum sit id quod dicitur, et quod ita sit in re.
Et hoc est quod manifestat consequenter dicens quod si verum est dicere quod
album sit, de necessitate sequitur quod ita sit in re; et si verum est negare,
ex necessitate sequitur quod ita non sit. Et e converso: quia si ita est in re
vel non est, ex necessitate sequitur quod sit verum affirmare vel negare. Et
eadem etiam convertibilitas apparet in falso: quia, si aliquis mentitur falsum
dicens, ex necessitate sequitur quod non ita sit in re, sicut ipse affirmat vel
negat; et e converso, si non est ita in re sicut ipse affirmat vel negat,
sequitur quod affirmans vel negans mentiatur. He proves that there is a
difference between these opposites and the others where he says, For if every
affirmation or negation is true or false, etc. First he proves it by showing
that the opposite position leads to what is unlikely; secondly, he shows that
what follows from this position is impossible, where he says, These absurd
consequences and others like them, etc. In his proof he first shows that in
enunciations about future singulars, truth cannot always be determinately
attributed to one of the opposites, and then he shows that both cannot lack
truth, where he says, But still it is not possible to say that neither is true,
etc. He gives two arguments with respect to the first point. In the first of
these he states a certain consequence, namely, that if every affirmation or
negation is determinately true or false, in future singulars as in the others,
it follows that all things must determinately be or not be. He proves this
consequence where he says, wherefore, if one person says, etc.,or as it is in
the Greek, for if one person says something will be, etc.”’ Let us suppose, he
argues, that there are two men, one of whom says something will take place in
the future, for instance, that Socrates will run, and the other says this same
thing will not take place. If the foregoing position is supposed—that in
singular future enunciations one of them will be true, either the affirmative
or the negative it would follow that only one of them is saying what is true,
because in singular future propositions both cannot be at once true, that is,
both the affirmative and the negative. This occurs only in indefinite
propositions. Moreover, from the fact that one of them must be speaking the
truth, it follows that it must determinately be or not be. Then he proves this
from the fact that these two follow upon each other convertibly, namely, truth
is that which is said and which is so in reality. And this is what he manifests
when he says that, if it is true to say that a thing is white, it necessarily
follows that it is so in reality; and if it is true to deny it, it necessarily
follows that it is not so. And conversely, for if it is so in reality, or is
not, it necessarily follows that it is true to affirm or deny it. The same
convertibility is also evident in what is false, for if someone lies, saying
what is false, it necessarily follows that in reality it is not as he affirms
or denies it to be; and conversely, if it is not in reality as he affirms or
denies it to be, it follows that in affirming or denying it he lies. 8. Est
ergo processus huius rationis talis. Si necesse est quod omnis affirmatio vel
negatio in singularibus et futuris sit vera vel falsa, necesse est quod omnis
affirmans vel negans determinate dicat verum vel falsum. Ex hoc autem sequitur
quod omne necesse sit esse vel non esse. Ergo, si omnis affirmatio vel negatio determinate
sit vera, necesse est omnia determinate esse vel non esse. Ex hoc concludit
ulterius quod omnia sint ex necessitate. Per quod triplex genus contingentium
excluditur. The process of Aristotle’s reasoning is as follows. If it is
necessary that every affirmation or negation about future singulars is true or
false, it is necessary that everyone who affirms or denies, determinately says
what is true or false. From this it follows that it is necessary that
everything be or not be. Therefore, if every affirmation or negation is
determinately true, it is necessary that everything determinately be or not be.
From this he concludes further that all things are of necessity. This would
exclude the three kinds of contingent things. 9 Quaedam enim contingunt ut in
paucioribus, quae accidunt a casu vel fortuna. Quaedam vero se habent ad
utrumlibet, quia scilicet non magis se habent ad unam partem, quam ad aliam, et
ista procedunt ex electione. Quaedam vero eveniunt ut in pluribus; sicut
hominem canescere in senectute, quod causatur ex natura. Si autem omnia ex
necessitate evenirent, nihil horum contingentium esset. Et ideo dicit nihil est
quantum ad ipsam permanentiam eorum quae permanent contingenter; neque fit
quantum ad productionem eorum quae contingenter causantur; nec casu quantum ad
ea quae sunt in minori parte, sive in paucioribus; nec utrumlibet quantum ad ea
quae se habent aequaliter ad utrumque, scilicet esse vel non esse, et ad
neutrum horum sunt determinata: quod significat cum subdit, nec erit, nec non
erit. De eo enim quod est magis determinatum ad unam partem possumus
determinate verum dicere quod hoc erit vel non erit, sicut medicus de
convalescente vere dicit, iste sanabitur, licet forte ex aliquo accidente eius
sanitas impediatur. Unde et philosophus dicit in II de generatione quod futurus
quis incedere, non incedet. De eo enim qui habet propositum determinatum ad
incedendum, vere potest dici quod ipse incedet, licet per aliquod accidens
impediatur eius incessus. Sed eius quod est ad utrumlibet proprium est quod,
quia non determinatur magis ad unum quam ad alterum, non possit de eo
determinate dici, neque quod erit, neque quod non erit. Quomodo autem sequatur
quod nihil sit ad utrumlibet ex praemissa hypothesi, manifestat subdens quod,
si omnis affirmatio vel negatio determinate sit vera, oportet quod vel ille qui
affirmat vel ille qui negat dicat verum; et sic tollitur id quod est ad
utrumlibet: quia, si esse aliquid ad utrumlibet, similiter se haberet ad hoc
quod fieret vel non fieret, et non magis ad unum quam ad alterum. Est autem
considerandum quod philosophus non excludit hic expresse contingens quod est ut
in pluribus, duplici ratione. Primo quidem, quia tale contingens non excludit
quin altera oppositarum enunciationum determinate sit vera et altera falsa, ut
dictum est. Secundo, quia remoto contingenti quod est in paucioribus, quod a
casu accidit, removetur per consequens contingens quod est ut in pluribus:
nihil enim differt id quod est in pluribus ab eo quod est in paucioribus, nisi
quod deficit in minori parte. The three kinds of contingent things are these:
some, the ones that happen by chance or fortune, happen infrequently; others
are in determinate to either of two alternatives because they are not inclined
more to one part than to another, and these proceed from choice; still others
occur for the most part, for example, men becoming gray in old age, which is
caused by nature. If, however, everything took place of necessity, there would
be none of these kinds of contingent things. Therefore, Aristotle says, nothing
is with respect to the very permanence of those things that are contingently
permanent; or takes place with respect to those that are caused contingently;
by chance with respect to those that take place for the least part, or infrequently;
or is indeterminate to either of two alternatives with respect to those that
are related equally to either of two, i.e., to being or to nonbeing, and are
determined to neither of these, which he signifies when he adds, or will be, or
will not be. For of that which is more determined to one part we can truly and
determinately say that it will be or will not be, as for example, the physician
truly says of the convalescent, "He will be restored to health,” although
perchance by some accident his cure may be impeded. The Philosopher makes this
same point when he says in II De generatione [11: 337b 7], "A man about to
walk might not walk.” For it can be truly said of someone who has the
determined intention to walk that he will walk, although by some accident his
walking might be impeded. But in the case of that which is indeterminate to
either of two, it cannot determinately be said of it either that it will be or
that it will not be, for it is proper to it not to be determined more to one
than to another. Then he manifests how it follows from the foregoing hypothesis
that nothing is indeterminate to either of two when he adds that if every
affirmation or negation is determinately true, then either the one who affirms
or the one who denies must be speaking the truth. That which is indeterminate
to either of two is therefore destroyed, for if there is something
indeterminate to either of two, it would be related alike to taking place or
not taking place, and no more to one than to the other. It should be, noted
that the Philosopher is not expressly excluding the contingent that is for the
most part. There are two reasons for this. In the first place, this kind of
contingency still excludes the determinate truth of one of the opposite
enunciations and the falsity of the other, as has been said. Secondly, when the
contingent that is infrequent, i.e., that which takes place by chance, is
removed, the contingent that is for the most part is removed as a consequence,
for there is no difference between that which is for the most part and that
which is infrequent except that the former fails for the least part. 10 Deinde
cum dicit: amplius si est album etc., ponit secundam rationem ad ostendendum
praedictam dissimilitudinem, ducendo ad impossibile. Si enim similiter se habet
veritas et falsitas in praesentibus et futuris, sequitur ut quidquid verum est
de praesenti, etiam fuerit verum de futuro, eo modo quo est verum de praesenti.
Sed determinate nunc est verum dicere de aliquo singulari quod est album; ergo
primo, idest antequam illud fieret album, erat verum dicere quoniam hoc erit
album. Sed eadem ratio videtur esse in propinquo et in remoto; ergo si ante
unum diem verum fuit dicere quod hoc erit album, sequitur quod semper fuit
verum dicere de quolibet eorum, quae facta sunt, quod erit. Si autem semper est
verum dicere de praesenti quoniam est, vel de futuro quoniam erit, non potest
hoc non esse vel non futurum esse. Cuius consequentiae ratio patet, quia ista
duo sunt incompossibilia, quod aliquid vere dicatur esse, et quod non sit. Nam
hoc includitur in significatione veri, ut sit id quod dicitur. Si ergo ponitur
verum esse id quod dicitur de praesenti vel de futuro, non potest esse quin
illud sit praesens vel futurum. Sed quod non potest non fieri idem significat
cum eo quod est impossibile non fieri. Et quod impossibile est non fieri idem
significat cum eo quod est necesse fieri, ut in secundo plenius dicetur.
Sequitur ergo ex praemissis quod omnia, quae futura sunt, necesse est fieri. Ex
quo sequitur ulterius, quod nihil sit neque ad utrumlibet neque a casu, quia
illud quod accidit a casu non est ex necessitate, sed ut in paucioribus; hoc
autem relinquit pro inconvenienti; ergo et primum est falsum, scilicet quod
omne quod est verum esse, verum fuerit determinate dicere esse futurum. When he
says, Furthermore, on such a supposition, if something is now white, it was
true to say formerly that it will be white, etc., he gives a second argument to
show the dissimilarity of enunciations about future singulars. This argument is
by reduction to the impossible. If truth and falsity. are related in like
manner in present and in future enunciations, it follows that whatever is true
of the present was also true of the future, in the way in which it is true of
the present. But it is now determinately true to say of some singular that it
is white; therefore formerly, i.e., before it became white, it was true to say
that this will be white. Now the same reasoning seems to hold for the proximate
and the remote. Therefore, if yesterday it was true to say that this will be
white, it follows that it was always true to say of anything that has taken
place that it will be. And if it is always true to say of the present that it
is, or of the future that it will be, it is not possible that this not be, or,
that it will not be. The reason for this consequence is evident, for these two
cannot stand together, that something truly be said to be, and that it not be;
for this is included in the signification of the true, that that which is said,
is. If therefore that which is said concerning the present or the future is
posited to be true, it is not possible that this not be in the present or
future. But that which cannot not take place signifies the same thing as that
which is impossible not to take place. And that which is impossible not to take
place signifies the same thing as that which necessarily takes place, as will
be explained more fully in the second book. It follows, therefore, that all
things that are future must necessarily take place. From this it follows
further, that there is nothing that is indeterminate to either of two or that
takes place by chance, for what happens by chance does not take place of
necessity but happens infrequently. But this is unlikely. Therefore the first proposition
is false, i.e., that of everything of which it is true that it is, it was
determinately true to say that it would be. 11 Ad cuius evidentiam
considerandum est quod cum verum hoc significet ut dicatur aliquid esse quod
est, hoc modo est aliquid verum, quo habet esse. Cum autem aliquid est in
praesenti habet esse in seipso, et ideo vere potest dici de eo quod est: sed
quamdiu aliquid est futurum, nondum est in seipso, est tamen aliqualiter in sua
causa: quod quidem contingit tripliciter. Uno modo, ut sic sit in sua causa ut
ex necessitate ex ea proveniat; et tunc determinate habet esse in sua causa;
unde determinate potest dici de eo quod erit. Alio modo, aliquid est in sua
causa, ut quae habet inclinationem ad suum effectum, quae tamen impediri potest;
unde et hoc determinatum est in sua causa, sed mutabiliter; et sic de hoc vere
dici potest, hoc erit, sed non per omnimodam certitudinem. Tertio, aliquid est
in sua causa pure in potentia, quae etiam non magis est determinata ad unum
quam ad aliud; unde relinquitur quod nullo modo potest de aliquo eorum
determinate dici quod sit futurum, sed quod sit vel non sit. For clarification
of this point, we must consider the following. Since "true” signifies that
something is said to be what it is, something is true in the manner in which it
has being. Now, when something is in the present it exists in itself, and hence
it can be truly said of it that it is. But as long as something is future, it
does not yet exist in itself, but it is in a certain way in its cause, and this
in a threefold way. It may be in its cause in such a way that it comes from it
necessarily. In this case it has being determinately in its cause, and
therefore it can be determinately said of it that it will be. In another way,
something is in its cause as it has an inclination to its effect but can be
impeded. This, then, is determined in its cause, but changeably, and hence it
can be truly a said of it that it will be but not with complete certainty.
Thirdly, something is in its cause purely in potency. This is the case in which
the cause is as yet not determined more to one thing than to another, and
consequently it cannot in any way be said determinately of these that it is
going to be, but that it is or is not going to be. 12 Deinde cum dicit: at vero
neque quoniam etc., ostendit quod veritas non omnino deest in singularibus
futuris utrique oppositorum; et primo, proponit quod intendit dicens quod sicut
non est verum dicere quod in talibus alterum oppositorum sit verum determinate,
sic non est verum dicere quod non utrumque sit verum; ut si quod dicamus, neque
erit, neque non erit. Secundo, ibi: primum enim cum sit etc., probat propositum
duabus rationibus. Quarum prima talis est: affirmatio et negatio dividunt verum
et falsum, quod patet ex definitione veri et falsi: nam nihil aliud est verum
quam esse quod est, vel non esse quod non est; et nihil aliud est falsum quam
esse quod non est, vel non esse quod est; et sic oportet quod si affirmatio sit
falsa, quod negatio sit vera; et e converso. Sed secundum praedictam positionem
affirmatio est falsa, qua dicitur, hoc erit; nec tamen negatio est vera: et
similiter negatio erit falsa, affirmatione non existente vera; ergo praedicta
positio est impossibilis, scilicet quod veritas desit utrique oppositorum.
Secundam rationem ponit; ibi: ad haec si verum est et cetera. Quae talis est:
si verum est dicere aliquid, sequitur quod illud sit; puta si verum est dicere
quod aliquid sit magnum et album, sequitur utraque esse. Et ita de futuro sicut
de praesenti: sequitur enim esse cras, si verum est dicere quod erit cras. Si
ergo vera est praedicta positio dicens quod neque cras erit, neque non erit,
oportebit neque fieri, neque non fieri: quod est contra rationem eius quod est
ad utrumlibet, quia quod est ad utrumlibet se habet ad alterutrum; ut navale
bellum cras erit, vel non erit. Et ita ex hoc sequitur idem inconveniens quod
in praemissis. Then Aristotle says, But still it is not possible to say that
neither is true, etc. Here he shows that truth is not altogether lacking to
both of the opposites in singular future enunciations. First he says that just
as it is not true to say that in such enunciations one of the opposites is
determinately true, so it is not true to say that neither is true; as if we
could say that a thing neither will take place nor will not take place. Then
when he says, In the first place, though the affirmation be false, etc., he
gives two arguments to prove his point. The first is as follows. Affirmation
and negation divide the true and the false. This is evident from the definition
of true and false, for to be true is to be what in fact is, or not to be what
in fact is not; and to be false is to be what in fact is not, or not to be what
in fact is. Consequently, if the affirmation is false, the negation must be
true, and conversely. But if the position is taken that neither is true, the
affirmation, "This will be” is false, yet the negation is not true;
likewise the negation will be false and the affirmation not be true. Therefore,
the aforesaid position is impossible, i.e., that truth is lacking to both of
the opposites. The second argument begins where he says, Secondly, if it is
true to say that a thing is white and large, etc. The argument is as follows.
If it is true to say something, it follows that it is. For example, if it is
true to say that something is large and white, it follows that it is both. And
this is so of the future as of the present, for if it is true to say that it
will be tomorrow, it follows that it will be tomorrow. Therefore, if the
position that it neither will be or not be tomorrow is true, it will be
necessary that it neither happen nor not happen, which is contrary to the
nature of that which is indeterminate to either of two, for that which is
indeterminate to either of two is related to either; for example, a naval
battle will take place tomorrow, or will not. The same unlikely things follow,
then, from this as from the first argument. XIV. 1. Ostenderat superius
philosophus ducendo ad inconveniens quod non est similiter verum vel falsum
determinate in altero oppositorum in singularibus et futuris, sicut supra de
aliis enunciationibus dixerat; nunc autem ostendit inconvenientia ad quae
adduxerat esse impossibilia. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit impossibilia
ea quae sequebantur; secundo, concludit quomodo circa haec se veritas habeat;
ibi: igitur esse quod est et cetera. The Philosopher has shown—by leading the
opposite position to what is unlikely—that in singular future enunciations
truth or falsity is not determinately in one of the opposites, as it is in
other enunciations. Now he is going to show that the unlikely things to which
it has led are impossibilities. First he shows that the things that followed
are impossibilities; then he concludes what the truth is, where he says, Now
that which is, when it is, necessarily is, etc. 2 Circa primum tria facit:
primo, ponit inconvenientia quae sequuntur; secundo, ostendit haec
inconvenientia ex praedicta positione sequi; ibi: nihil enim prohibet etc.;
tertio, ostendit esse impossibilia inconvenientia memorata; ibi: quod si
haecpossibilia non sunt et cetera. Dicit ergo primo, ex praedictis rationibus
concludens, quod haec inconvenientia sequuntur, si ponatur quod necesse sit
oppositarum enunciationum alteram determinate esse veram et alteram esse falsam
similiter in singularibus sicut in universalibus, quod scilicet nihil in his
quae fiunt sit ad utrumlibet, sed omnia sint et fiant ex necessitate. Et ex hoc
ulterius inducit alia duo inconvenientia. Quorum primum est quod non oportebit
de aliquo consiliari: probatum est enim in III Ethicorum quod consilium non est
de his, quae sunt ex necessitate, sed solum de contingentibus, quae possunt
esse et non esse. Secundum inconveniens est quod omnes actiones humanae, quae
sunt propter aliquem finem (puta negotiatio, quae est propter divitias
acquirendas), erunt superfluae: quia si omnia ex necessitate eveniunt, sive
operemur sive non operemur erit quod intendimus. Sed hoc est contra intentionem
hominum, quia ea intentione videntur consiliari et negotiari ut, si haec
faciant, erit talis finis, si autem faciunt aliquid aliud, erit alius finis. With
respect to the impossibilities that follow he first states the unlikely things
that follow from the opposite position, then shows that these follow from the
aforesaid position, where he says, For nothing prevents one person from saying
that this will be so in ten thousand years, etc. Finally he shows that these
are impossibilities where he says, But these things appear to be impossible,
etc. He says, then, concluding from the preceding reasoning, that these
unlikely things follow—if the position is taken that of opposed enunciations
one of the two must be determinately true and the other false in the same way
in singular as in universal enunciations—namely, that in things that come about
nothing is indeterminate to either of two, but all things are and take place of
necessity. From this he infers two other unlikely things that follow. First, it
will not be necessary to deliberate about anything; whereas he proved in III
Ethicorum that counsel is not concerned with things that take place necessarily
but only with contingent things, i.e., things which can be or not be. Secondly,
all human actions that are for the sake of some end (for example, a business
transaction to acquire riches) will be superfluous, because what we intend will
take place whether we take pains to bring it about or not—if all things come
about of necessity. This, however, is in opposition to the intention of men, for
they seem to deliberate and to transact business with the intention that if
they do this there will be such a result, but if they do something else, there
will be another result. 3 Deinde cum dicit: nihil enim prohibet etc., probat
quod dicta inconvenientia consequantur ex dicta positione. Et circa hoc duo
facit: primo, ostendit praedicta inconvenientia sequi, quodam possibili posito;
secundo, ostendit quod eadem inconvenientia sequantur etiam si illud non
ponatur; ibi: at nec hoc differt et cetera. Dicit ergo primo, non esse
impossibile quod ante mille annos, quando nihil apud homines erat
praecogitatum, vel praeordinatum de his quae nunc aguntur, unus dixerit quod
hoc erit, puta quod civitas talis subverteretur, alius autem dixerit quod hoc
non erit. Sed si omnis affirmatio vel negatio determinate est vera, necesse est
quod alter eorum determinate verum dixerit; ergo necesse fuit alterum eorum ex
necessitate evenire; et eadem ratio est in omnibus aliis; ergo omnia ex
necessitate eveniunt. Where he says, For nothing prevents one person from
saying that this will be so in ten thousand years, etc., he proves that the
said unlikely things follow from the said position. First he shows that the
unlikely things follow from the positing of a certain possibility; then he
shows that the same unlikely things follow even if that possibility is not
posited, where he says, Moreover, it makes no difference whether people have
actually made the contradictory statements or not, etc. He says, then, that it
is not impossible that a thousand years before, when men neither knew nor
ordained any of the things that are taking place now, a man said, "This
will be,” for example, that such a state would be overthrown, and another man
said, "This will not be.” But if every affirmation or negation is
determinately true, one of them must have spoken the truth. Therefore one of
them had to take place of necessity; and this same reasoning holds for all
other things. Therefore everything takes place of necessity. Deinde cum dicit:
at vero neque hoc differt etc., ostendit quod idem sequitur si illud possibile
non ponatur. Nihil enim differt, quantum ad rerum existentiam vel eventum, si
uno affirmante hoc esse futurum, alius negaverit vel non negaverit; ita enim se
habebit res si hoc factum fuerit, sicut si hoc non factum fuerit. Non enim
propter nostrum affirmare vel negare mutatur cursus rerum, ut sit aliquid vel
non sit: quia veritas nostrae enunciationis non est causa existentiae rerum,
sed potius e converso. Similiter etiam non differt quantum ad eventum eius quod
nunc agitur, utrum fuerit affirmatum vel negatum ante millesimum annum vel ante
quodcumque tempus. Sic ergo, si in quocumque tempore praeterito, ita se habebat
veritas enunciationum, ut necesse esset quod alterum oppositorum vere
diceretur; et ad hoc quod necesse est aliquid vere dici sequitur quod necesse
sit illud esse vel fieri; consequens est quod unumquodque eorum quae fiunt, sic
se habeat ut ex necessitate fiat. Et huiusmodi consequentiae rationem assignat
per hoc, quod si ponatur aliquem vere dicere quod hoc erit, non potest non
futurum esse. Sicut supposito quod sit homo, non potest non esse animal
rationale mortale. Hoc enim significatur, cum dicitur aliquid vere dici,
scilicet quod ita sit ut dicitur. Eadem autem habitudo est eorum, quae nunc
dicuntur, ad ea quae futura sunt, quae erat eorum, quae prius dicebantur, ad ea
quae sunt praesentia vel praeterita; et ita omnia ex necessitate acciderunt, et
accidunt, et accident, quia quod nunc factum est, utpote in praesenti vel in
praeterito existens, semper verum erat dicere, quoniam erit futurum.Then he
shows that the same thing follows if this possibility is not posited where he
says, Moreover, it makes no difference whether people have actually made the
contradictory statements or not, etc. It makes no difference in relation to the
existence or outcome of things whether a person denies that this is going to
take place when it is affirmed, or not; for as was previously said, the event
will either take place or not whether the affirmation and denial have been made
or not. That something is or is not does not result from a change in the course
of things to correspond to our affirmation or denial, for the truth of our
enunciation is not the cause of the existence of things, but rather the
converse. Nor does it make any difference to the outcome of what is now being
done whether it was affirmed or denied a thousand years before, or at any other
time before. Therefore, if in all past time, the truth of enunciations was such
that one of the opposites had to have been truly said and if upon the necessity
of something being truly said it follows that this must be or take place, it
will follow that everything that takes place is such that it takes place of
necessity. The reason he assigns for this consequence is the following. If it
is posited that someone truly says this will be, it is not possible that it
will not be, just as having supposed that man is, he cannot not be a rational
mortal animal. For to be truly said means that it is such as is said. Moreover,
the relationship of what is said. now to what will be is the same as the
relationship of what was said previously to what is in the present or the past.
Therefore, all things have necessarily happened, and they are necessarily happening,
and they will necessarily happen, for of what is accomplished now, as existing
in the present or in the past, it was always true to say that it would be. 5 Deinde
cum dicit: quod si haec possibilia non sunt etc., ostendit praedicta esse
impossibilia: et primo, per rationem; secundo, per exempla sensibilia; ibi: et
multa nobis manifesta et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit
propositum in rebus humanis; secundo, etiam in aliis rebus; ibi: et quoniam est
omnino et cetera. Quantum autem ad res humanas ostendit esse impossibilia quae
dicta sunt, per hoc quod homo manifeste videtur esse principium eorum
futurorum, quae agit quasi dominus existens suorum actuum, et in sua potestate
habens agere vel non agere; quod quidem principium si removeatur, tollitur
totus ordo conversationis humanae, et omnia principia philosophiae moralis. Hoc
enim sublato non erit aliqua utilitas persuasionis, nec comminationis, nec
punitionis aut remunerationis, quibus homines alliciuntur ad bona et
retrahuntur a malis, et sic evacuatur tota civilis scientia. Hoc ergo
philosophus accipit pro principio manifesto quod homo sit principium futurorum;
non est autem futurorum principium nisi per hoc quod consiliatur et facit
aliquid: ea enim quae agunt absque consilio non habent dominium sui actus,
quasi libere iudicantes de his quae sunt agenda, sed quodam naturali instinctu
moventur ad agendum, ut patet in animalibus brutis. Unde impossibile est quod
supra conclusum est quod non oporteat nos negotiari vel consiliari. Et sic etiam
impossibile est illud ex quo sequebatur, scilicet quod omnia ex necessitate
eveniant. When he says, But these things appear to be impossible, etc., he
shows that what has been said is impossible. He shows this first by reason,
secondly by sensible examples, where he says, We can point to many clear
instances of this, etc. First he argues that the position taken is impossible
in relation to human affairs, for clearly man seems to be the principle of the
future things that he does insofar as he is the master of his own actions and
has the power to act or not to act. Indeed, to reject this principle would be
to do away with the whole order of human association and all the principles of
moral philosophy. For men are attracted to good and withdrawn from evil by
persuasion and threat, and by punishment and reward; but rejection of this
principle would make these useless and thus nullify the whole of civil science.
Here the Philosopher accepts it as an evident principle that man is the
principle of future things. However, he is not the principle of future things
unless he deliberates about a thing and then does it. In those things that men
do without deliberation they do not have dominion over their acts, i.e., they
do not judge freely about things to be done, but are moved to act by a kind of
natural instinct such as is evident in the case of brute animals. Hence, the
conclusion that it is not necessary for us to take pains about something or to
deliberate is impossible; likewise what it followed from is impossible, i.e.,
that all things take place of necessity. Aquinas lib. 1 l. 14 n. 6Deinde cum
dicit: et quoniam est omnino etc., ostendit idem etiam in aliis rebus.
Manifestum est enim etiam in rebus naturalibus esse quaedam, quae non semper
actu sunt; ergo in eis contingit esse et non esse: alioquin vel semper essent,
vel semper non essent. Id autem quod non est, incipit esse aliquid per hoc quod
fit illud; sicut id quod non est album, incipit esse album per hoc quod fit
album. Si autem non fiat album permanet non ens album. Ergo in quibus contingit
esse et non esse, contingit etiam fieri et non fieri. Non ergo talia ex
necessitate sunt vel fiunt, sed est in eis natura possibilitatis, per quam se
habent ad fieri et non fieri, esse et non esse. Then he shows that this is also
the case in other things where he says, and that universally in the things not
always in act, there is a potentiality to be and not to be, etc. In natural
things, too, it is evident that there are some things not always in act; it is
therefore possible for them to be or not be, otherwise they would either always
be or always not be. Now that which is not begins to be something by becoming
it; as for example, that which is not white begins to be white by becoming
white. But if it does not become white it continues not to be white. Therefore,
in things that have the possibility of being and not being, there is also the
possibility of becoming and not becoming. Such things neither are nor come to
be of necessity but there is in them the kind of possibility which disposes
them to becoming and not becoming, to being and not being. 7 Deinde cum dicit:
ac multa nobis manifesta etc., ostendit propositum per sensibilia exempla. Sit
enim, puta, vestis nova; manifestum est quod eam possibile est incidi, quia nihil
obviat incisioni, nec ex parte agentis nec ex parte patientis. Probat autem
quod simul cum hoc quod possibile est eam incidi, possibile est etiam eam non
incidi, eodem modo quo supra probavit duas indefinitas oppositas esse simul
veras, scilicet per assumptionem contrarii. Sicut enim possibile est istam
vestem incidi, ita possibile est eam exteri, idest vetustate corrumpi; sed si
exteritur non inciditur; ergo utrumque possibile est, scilicet eam incidi et
non incidi. Et ex hoc universaliter concludit quod in aliis futuris, quae non
sunt in actu semper, sed sunt in potentia, hoc manifestum est quod non omnia ex
necessitate sunt vel fiunt, sed eorum quaedam sunt ad utrumlibet, quae non se
habent magis ad affirmationem quam ad negationem; alia vero sunt in quibus
alterum eorum contingit ut in pluribus, sed tamen contingit etiam ut in
paucioribus quod altera pars sit vera, et non alia, quae scilicet contingit ut
in pluribus. Next he shows the impossibility of what was said by examples
perceptible to the senses, where he says, We can point to many clear instances
of this, etc. Take a new garment for example. It is evident that it is possible
to cut it, for nothing stands in the way of cutting it either on the part of
the agent or the patient. He proves it is at once possible that it be cut and
that it not be cut in the same way he has already proved that two opposed
indefinite enunciations are at once true, i.e., by the assumption of
contraries. just as it is possible that the garment be cut, so it is possible
that it wear out, i.e., be corrupted in the course of time. But if it wears out
it is not cut. Therefore both are possible, i.e., that it be cut and that it
not be cut. From this he concludes universally in regard to other future things
which are not always in act, but are in potency, that not all are or take place
of necessity; some are indeterminate to either of two, and therefore are not
related any more to affirmation than to negation; there are others in which one
possibility happens for the most part, although it is possible, but for the
least part, that the other part be true, and not the part which happens for the
most part. 8 Est autem considerandum quod, sicut Boethius dicit hic in
commento, circa possibile et necessarium diversimode aliqui sunt opinati.
Quidam enim distinxerunt ea secundum eventum, sicut Diodorus, qui dixit illud
esse impossibile quod nunquam erit; necessarium vero quod semper erit;
possibile vero quod quandoque erit, quandoque non erit. Stoici vero
distinxerunt haec secundum exteriora prohibentia. Dixerunt enim necessarium
esse illud quod non potest prohiberi quin sit verum; impossibile vero quod
semper prohibetur a veritate; possibile vero quod potest prohiberi vel non
prohiberi. Utraque autem distinctio videtur esse incompetens. Nam prima
distinctio est a posteriori: non enim ideo aliquid est necessarium, quia semper
erit; sed potius ideo semper erit, quia est necessarium: et idem patet in
aliis. Secunda autem assignatio est ab exteriori et quasi per accidens: non
enim ideo aliquid est necessarium, quia non habet impedimentum, sed quia est
necessarium, ideo impedimentum habere non potest. Et ideo alii melius ista
distinxerunt secundum naturam rerum, ut scilicet dicatur illud necessarium,
quod in sua natura determinatum est solum ad esse; impossibile autem quod est
determinatum solum ad non esse; possibile autem quod ad neutrum est omnino
determinatum, sive se habeat magis ad unum quam ad alterum, sive se habeat
aequaliter ad utrumque, quod dicitur contingens ad utrumlibet. Et hoc est quod
Boethius attribuit Philoni. Sed manifeste haec est sententia Aristotelis in hoc
loco. Assignat enim rationem possibilitatis et contingentiae, in his quidem
quae sunt a nobis ex eo quod sumus consiliativi, in aliis autem ex eo quod
materia est in potentia ad utrumque oppositorum. With regard to this question
about the possible and the necessary, there have been different opinions, as
Boethius says in his Commentary, and these will have to be considered. Some who
distinguished them according to result—for example, Diodorus—said that the
impossible is that which never will be, the necessary, that which always will
be, and the possible, that which sometimes will be, sometimes not. The Stoics
distinguished them according to exterior restraints. They said the necessary
was that which could not be prevented from being true, the impossible, that
which is always prevented from being true, and the possible, that which can be
prevented or not be prevented. However, the distinctions in both of those cases
seem to be inadequate. The first distinctions are a posteriori, for something
is not necessary because it always will be, but rather, it always will be
because it is necessary; this holds for the possible as well as the impossible.
The second designation is taken from what is external and accidental, for
something is not necessary because it does not have an impediment, but it does
not have an impediment because it is necessary. Others distinguished these
better by basing their distinction on the nature of things. They said that the
necessary is that which in its nature is determined only to being, the
impossible, that which is determined only to nonbeing, and the possible, that
which is not altogether determined to either, whether related more to one than
to another or related equally to both. The latter is known as that which is
indeterminate to either of two. Boethius attributes these distinctions to
Philo. However, this is clearly the opinion of Aristotle here, for he gives as
the reason for the possibility and contingency in the things we do the fact
that we deliberate, and in other things the fact that matter is in potency to
either it of two opposites. 9 Sed videtur haec ratio non esse sufficiens. Sicut
enim in corporibus corruptibilibus materia invenitur in potentia se habens ad
esse et non esse, ita etiam in corporibus caelestibus invenitur potentia ad
diversa ubi, et tamen nihil in eis evenit contingenter, sed solum ex
necessitate. Unde dicendum est quod possibilitas materiae ad utrumque, si
communiter loquamur, non est sufficiens ratio contingentiae, nisi etiam addatur
ex parte potentiae activae quod non sit omnino determinata ad unum; alioquin si
ita sit determinata ad unum quod impediri non potest, consequens est quod ex
necessitate reducat in actum potentiam passivam eodem modo. But this reasoning
does not seem to be adequate either. While it is true that in corruptible
bodies matter is in potency to being and nonbeing, and in celestial bodies
there is potency to diverse location; nevertheless nothing happens contingently
in celestial bodies, but only of necessity. Consequently, we have to say that
the potentiality of matter to either of two, if we are speaking generally, does
not suffice as a reason for contingency unless we add on the part of the active
potency that it is not wholly determined to one; for if it is so determined to
one that it cannot be impeded, it follows that it necessarily reduces into act
the passive potency in the same mode. 10 Hoc igitur quidam attendentes
posuerunt quod potentia, quae est in ipsis rebus naturalibus, sortitur
necessitatem ex aliqua causa determinata ad unum quam dixerunt fatum. Quorum
Stoici posuerunt fatum in quadam serie, seu connexione causarum, supponentes
quod omne quod in hoc mundo accidit habet causam; causa autem posita, necesse
est effectum poni. Et si una causa per se non sufficit, multae causae ad hoc
concurrentes accipiunt rationem unius causae sufficientis; et ita concludebant
quod omnia ex necessitate eveniunt. Considering this, some maintained that the
very potency which is in natural things receives necessity from some cause
determined to one. This cause they called fate. The Stoics, for example, held
that fate was to be found in a series or interconnection of causes on the
assumption that everything that happens has a cause; but when a cause has been
posited the effect is posited of necessity, and if one per se cause does not
suffice, many causes concurring for this take on the nature of one sufficient
cause; so, they concluded, everything happens of necessity. 11 Sed hanc
rationem solvit Aristoteles in VI metaphysicae interimens utramque
propositionum assumptarum. Dicit enim quod non omne quod fit habet causam, sed
solum illud quod est per se. Sed illud quod est per accidens non habet causam;
quia proprie non est ens, sed magis ordinatur cum non ente, ut etiam Plato
dixit. Unde esse musicum habet causam, et similiter esse album; sed hoc quod
est, album esse musicum, non habet causam: et idem est in omnibus aliis
huiusmodi. Similiter etiam haec est falsa, quod posita causa etiam sufficienti,
necesse est effectum poni: non enim omnis causa est talis (etiamsi sufficiens
sit) quod eius effectus impediri non possit; sicut ignis est sufficiens causa
combustionis lignorum, sed tamen per effusionem aquae impeditur combustio. Aristotle
refutes this reasoning in VI Metaphysicae [2: 1026a 33] by destroying each of
the assumed propositions. He says there that not everything that takes place
has a cause, but only what is per se has a cause. What is accidental does not
have a cause, for it is not properly being but is more like nonbeing, as Plato
also held. Whence, to be musical has a cause and likewise to be white, but to
be musical white does not have a cause; and the same is the case with all
others of this kind. It is also false that when a cause has been posited—even a
sufficient one—the effect must be posited, for not every cause (even if it is
sufficient) is such that its effect cannot be impeded. For example, fire is a
sufficient cause of the combustion of wood, but if water is poured on it the
combustion is impeded. 12 Si autem utraque propositionum praedictarum esset
vera, infallibiliter sequeretur omnia ex necessitate contingere. Quia si
quilibet effectus habet causam, esset effectum (qui est futurus post quinque
dies, aut post quantumcumque tempus) reducere in aliquam causam priorem: et sic
quousque esset devenire ad causam, quae nunc est in praesenti, vel iam fuit in
praeterito; si autem causa posita, necesse est effectum poni, per ordinem
causarum deveniret necessitas usque ad ultimum effectum. Puta, si comedit
salsa, sitiet: si sitiet, exibit domum ad bibendum: si exibit domum, occidetur
a latronibus. Quia ergo iam comedit salsa, necesse est eum occidi. Et ideo
Aristoteles ad hoc excludendum ostendit utramque praedictarum propositionum
esse falsam, ut dictum est. However, if both of the aforesaid propositions were
true, it would follow infallibly that everything happens necessarily. For if
every effect has a cause, then it would be possible to reduce an effect (which
is going to take place in five days or whatever time) to some prior cause, and
so on until it reaches a cause which is now in the present or already has been
in the past. Moreover, if when the cause is posited it is necessary that the
effect be posited, the necessity would reach through an order of causes all the
way to the ultimate effect. For instance, if someone eats salty food, he will
be thirsty; if he is thirsty, he will go outside to drink; if he goes outside
to drink, he will be killed by robbers. Therefore, once he has eaten salty
food, it is necessary that he be killed. To exclude this position, Aristotle
shows that both of these propositions are false. 13 Obiiciunt autem quidam
contra hoc, dicentes quod omne per accidens reducitur ad aliquid per se, et ita
oportet effectum qui est per accidens reduci in causam per se. Sed non
attendunt quod id quod est per accidens reducitur ad per se, in quantum accidit
ei quod est per se, sicut musicum accidit Socrati, et omne accidens alicui
subiecto per se existenti. Et similiter omne quod in aliquo effectu est per
accidens consideratur circa aliquem effectum per se: qui quantum ad id quod per
se est habet causam per se, quantum autem ad id quod inest ei per accidens non
habet causam per se, sed causam per accidens. Oportet enim effectum
proportionaliter referre ad causam suam, ut in II physicorum et in V
methaphysicae dicitur. However, some persons object to this on the grounds that
everything accidental is reduced to something per se and therefore an effect
that is accidental must be reduced to a per se cause. Those who argue in this
way fail to take into account that the accidental is reduced to the per se
inasmuch as it is accidental to that which is per se; for example, musical is
accidental to Socrates, and every accident to some subject existing per se.
Similarly, everything accidental in some effect is considered in relation to
some per se effect, which effect, in relation to that which is per se, has a
per se cause, but in relation to what is in it accidentally does not have a per
se cause but an accidental one. The reason for this is that the effect must be
proportionately referred to its cause, as is said in II Physicorum [3: 195b
25-28] and in V Metaphysicae [2: 1013b 28]. 14 Quidam vero non attendentes
differentiam effectuum per accidens et per se, tentaverunt reducere omnes
effectus hic inferius provenientes in aliquam causam per se, quam ponebant esse
virtutem caelestium corporum in qua ponebant fatum, dicentes nihil aliud esse
fatum quam vim positionis syderum. Sed ex hac causa non potest provenire
necessitas in omnibus quae hic aguntur. Multa enim hic fiunt ex intellectu et
voluntate, quae per se et directe non subduntur virtuti caelestium corporum:
cum enim intellectus sive ratio et voluntas quae est in ratione, non sint actus
organi corporalis, ut probatur in libro de anima, impossibile est quod directe
subdantur intellectus seu ratio et voluntas virtuti caelestium corporum: nulla
enim vis corporalis potest agere per se, nisi in rem corpoream. Vires autem
sensitivae in quantum sunt actus organorum corporalium per accidens subduntur
actioni caelestium corporum. Unde philosophus in libro de anima opinionem
ponentium voluntatem hominis subiici motui caeli adscribit his, qui non
ponebant intellectum differre a sensu. Indirecte tamen vis caelestium corporum
redundat ad intellectum et voluntatem, in quantum scilicet intellectus et
voluntas utuntur viribus sensitivis. Manifestum autem est quod passiones virium
sensitivarum non inferunt necessitatem rationi et voluntati. Nam continens
habet pravas concupiscentias, sed non deducitur, ut patet per philosophum in
VII Ethicorum. Sic igitur ex virtute caelestium corporum non provenit
necessitas in his quae per rationem et voluntatem fiunt. Similiter nec in aliis
corporalibus effectibus rerum corruptibilium, in quibus multa per accidens
eveniunt. Id autem quod est per accidens non potest reduci ut in causam per se
in aliquam virtutem naturalem, quia virtus naturae se habet ad unum; quod autem
est per accidens non est unum; unde et supra dictum est quod haec enunciatio
non est una, Socrates est albus musicus, quia non significat unum. Et ideo
philosophus dicit in libro de somno et vigilia quod multa, quorum signa
praeexistunt in corporibus caelestibus, puta in imbribus et tempestatibus, non
eveniunt, quia scilicet impediuntur per accidens. Et quamvis illud etiam
impedimentum secundum se consideratum reducatur in aliquam causam caelestem;
tamen concursus horum, cum sit per accidens, non potest reduci in aliquam causam
naturaliter agentem. Some, however, not considering the difference between
accidental and per se effects, tried to reduce all the effects that come about
in this world to some per se cause. They posited as this cause the power of the
heavenly bodies and assumed fate to be dependent on this power—fate being,
according to them, nothing else but the power of the position of the
constellations. But such a cause cannot bring about necessity in all the things
accomplished in this world, since many things come about from intellect and
will, which are not subject per se and directly to the power of the heavenly
bodies. For the intellect, or reason, and the will which is in reason, are not
acts of a corporeal organ (as is proved in the treatise De anima [III, 4: 429a
18]) and consequently cannot be directly subject to the power of the heavenly
bodies, since a corporeal force, of itself, can only act on a corporeal thing.
The sensitive powers, on the other hand, inasmuch as they are acts of corporeal
organs, are accidentally subject to the action of the heavenly bodies. Hence,
the Philosopher in his book De anima [III, 3: 427a 21] ascribes the opinion
that the will of man is subject to the movement of the heavens to those who
hold the position that the intellect does not differ from sense. The power of
the heavenly bodies, however, does indirectly redound to the intellect and will
inasmuch as the aq intellect and will use the sensitive powers. But clearly the
passions of the sensitive powers do not induce necessity of reason and will,
for the continent man has wrong desires but is not seduced by them, as is shown
in VII Ethicorum [3: 1146a 5]. Therefore, we may conclude that the power of the
heavenly bodies does not bring about necessity in the things done through reason
and will. This is also the case in other corporeal effects of corruptible
things, in which many things happen accidentally. What is accidental cannot be
reduced to a per se cause in a natural power because the power of nature is
directed to some one thing; but what is accidental is not one; whence it was
said above that the enunciation "Socrates is a white musical being” is not
one because it does not signify one thing. This is the reason the Philosopher
says in the book De somno et vigilia [object] Close that many things of which
the signs pre-exist in the heavenly bodies—for example in storm clouds and
tempests—do not take place because they are accidentally impeded. And although
this impediment considered as such is reduced to some celestial cause, the concurrence
of these, since it is accidental, cannot be reduced to a cause acting naturally.
15 Sed considerandum est quod id quod est per accidens potest ab intellectu
accipi ut unum, sicut album esse musicum, quod quamvis secundum se non sit
unum, tamen intellectus ut unum accipit, in quantum scilicet componendo format
enunciationem unam. Et secundum hoc contingit id, quod secundum se per accidens
evenit et casualiter, reduci in aliquem intellectum praeordinantem; sicut
concursus duorum servorum ad certum locum est per accidens et casualis quantum
ad eos, cum unus eorum ignoret de alio; potest tamen esse per se intentus a
domino, qui utrumque mittit ad hoc quod in certo loco sibi occurrant. However,
what is accidental can be taken as one by the intellect. For example, "the
white is musical,” which as such is not one, the intellect takes as one, i.e.,
insofar as it forms one enunciation by composing. And in accordance with this
it is possible to reduce what in itself happens accidentally and fortuitously
to a preordaining intellect For example, the meeting of two servants at a
certain place may be accidental and fortuitous with respect to them, since
neither knew the other would be there, but be per se intended by their master
who sent each of them to encounter the other in a certain place. 16 Et secundum
hoc aliqui posuerunt omnia quaecumque in hoc mundo aguntur, etiam quae videntur
fortuita vel casualia, reduci in ordinem providentiae divinae, ex qua dicebant
dependere fatum. Et hoc quidem aliqui stulti negaverunt, iudicantes de
intellectu divino ad modum intellectus nostri, qui singularia non cognoscit.
Hoc autem est falsum: nam intelligere divinum et velle eius est ipsum esse
ipsius. Unde sicut esse eius sua virtute comprehendit omne illud quod quocumque
modo est, in quantum scilicet est per participationem ipsius; ita etiam suum
intelligere et suum intelligibile comprehendit omnem cognitionem et omne
cognoscibile; et suum velle et suum volitum comprehendit omnem appetitum et
omne appetibile quod est bonum; ut, scilicet ex hoc ipso quod aliquid est
cognoscibile cadat sub eius cognitione, et ex hoc ipso quod est bonum cadat sub
eius voluntate: sicut ex hoc ipso quod est ens, aliquid cadit sub eius virtute
activa, quam ipse perfecte comprehendit, cum sit per intellectum agens. Accordingly,
some have maintained that everything whatever that is effected in this
world—even the things that seem fortuitous and casual—is reduced to the order
of divine providence on which they said fate depends. Other foolish men have
denied this, judging of the Divine Intellect in the mode of our intellect which
does not know singulars. But the position of the latter is false, for His
divine thinking and willing is His very being. Hence, just as His being by its
power comprehends all that is in any way (i.e., inasmuch as it is through
participation of Him) so also His thinking and what He thinks comprehend all
knowing and everything knowable, and His willing and what He wills comprehend
all desiring and every desirable good; in other words, whatever is knowable
falls under His knowledge and whatever is good falls under His will, just as
whatever is falls under His active power, which He comprehends perfectly, since
He acts by His intellect. 17 Sed si providentia divina sit per se causa omnium
quae in hoc mundo accidunt, saltem bonorum, videtur quod omnia ex necessitate
accidant. Primo quidem ex parte scientiae eius: non enim potest eius scientia
falli; et ita ea quae ipse scit, videtur quod necesse sit evenire. Secundo ex
parte voluntatis: voluntas enim Dei inefficax esse non potest; videtur ergo
quod omnia quae vult, ex necessitate eveniant. It may be objected, however,
that if Divine Providence is the per se cause of everything that happens in
this world, at least of good things, it would look as though everything takes
place of necessity: first on the part of His knowledge, for His knowledge
cannot be fallible, and so it would seem that what He knows happens
necessarily; secondly, on the part of the will, for the will of God cannot be
inefficacious; it would seem, therefore, that everything He wills happens of
necessity. 18 Procedunt autem hae obiectiones ex eo quod cognitio divini
intellectus et operatio divinae voluntatis pensantur ad modum eorum, quae in
nobis sunt, cum tamen multo dissimiliter se habeant. These objections arise
from judging of the cognition of the divine intellect and the operation of the
divine will in the way in which these are in us, when in fact they are very
dissimilar. 19 Nam primo quidem ex parte cognitionis vel scientiae
considerandum est quod ad cognoscendum ea quae secundum ordinem temporis
eveniunt, aliter se habet vis cognoscitiva, quae sub ordine temporis
aliqualiter continetur, aliter illa quae totaliter est extra ordinem temporis.
Cuius exemplum conveniens accipi potest ex ordine loci: nam secundum
philosophum in IV physicorum, secundum prius et posterius in magnitudine est
prius et posterius in motu et per consequens in tempore. Si ergo sint multi
homines per viam aliquam transeuntes, quilibet eorum qui sub ordine
transeuntium continetur habet cognitionem de praecedentibus et subsequentibus,
in quantum sunt praecedentes et subsequentes; quod pertinet ad ordinem loci. Et
ideo quilibet eorum videt eos, qui iuxta se sunt et aliquos eorum qui eos praecedunt;
eos autem qui post se sunt videre non potest. Si autem esset aliquis extra
totum ordinem transeuntium, utpote in aliqua excelsa turri constitutus, unde
posset totam viam videre, videret quidem simul omnes in via existentes, non sub
ratione praecedentis et subsequentis (in comparatione scilicet ad eius
intuitum), sed simul omnes videret, et quomodo unus eorum alium praecedit. Quia
igitur cognitio nostra cadit sub ordine temporis, vel per se vel per accidens
(unde et anima in componendo et dividendo necesse habet adiungere tempus, ut
dicitur in III de anima), consequens est quod sub eius cognitione cadant res
sub ratione praesentis, praeteriti et futuri. Et ideo praesentia cognoscit
tanquam actu existentia et sensu aliqualiter perceptibilia; praeterita autem
cognoscit ut memorata; futura autem non cognoscit in seipsis, quia nondum sunt,
sed cognoscere ea potest in causis suis: per certitudinem quidem, si totaliter
in causis suis sint determinata, ut ex quibus de necessitate evenient; per
coniecturam autem, si non sint sic determinata quin impediri possint, sicut
quae sunt ut in pluribus; nullo autem modo, si in suis causis sunt omnino in
potentia non magis determinata ad unum quam ad aliud, sicut quae sunt ad
utrumlibet. Non enim est aliquid cognoscibile secundum quod est in potentia,
sed solum secundum quod est in actu, ut patet per philosophum in IX
metaphysicae. On the part of cognition or knowledge it should be noted that in
knowing things that take place according to the order of time, the cognitive
power that is contained in any way under the order of time is related to them
in another way than the cognitive power that is totally outside of the order of
time. The order of place provides a suitable example of this. According to the
Philosopher in IV Physicorum [11:219a 14], before and after in movement, and
consequently in time, corresponds to before and after in magnitude. Therefore,
if there arc many men passing along some road, any one of those in the ranks
has knowledge of those preceding and following as preceding and following,
which pertains to the order of place. Hence any one of them sees those who are
next to him and some of those who precede him; but he cannot see those who
follow behind him. If, however, there were someone outside of the whole order
of those passing along the road, for instance, stationed in some high tower
where he could see the whole road, he would at once see all those who were on
the road—not under the formality of preceding and subsequent (i.e., in relation
to his view) but all at the same time and how one precedes another. Now, our
cognition falls under the order of time, either per se or accidentally; whence
the soul in composing and dividing necessarily includes time, as is said in III
De anima [6: 430a 32]. Consequently, things are subject to our cognition under
the aspect of present, past, and future. Hence the soul knows present things as
existing in act and perceptible by sense in some way; past things it knows as
remembered; future things are not known in themselves because they do not yet
exist, but can be known in their causes—with certitude if they are totally
determined in their causes so that they will take place of necessity; by
conjecture if they are not so determined that they cannot be impeded, as in the
case of those things that are for the most part; in no way if in their causes
they are wholly in potency, i.e., not more determined to one than to another,
as in the case of those that are indeterminate to either of two. The reason for
this is that a thing is not knowable according as it is in potency, but only
according as it is in act, as the Philosopher shows in IX Metaphysicae [9: 1051a
22]. 20 Sed Deus est omnino extra ordinem temporis, quasi in arce aeternitatis
constitutus, quae est tota simul, cui subiacet totus temporis decursus secundum
unum et simplicem eius intuitum; et ideo uno intuitu videt omnia quae aguntur
secundum temporis decursum, et unumquodque secundum quod est in seipso
existens, non quasi sibi futurum quantum ad eius intuitum prout est in solo
ordine suarum causarum (quamvis et ipsum ordinem causarum videat), sed omnino
aeternaliter sic videt unumquodque eorum quae sunt in quocumque tempore, sicut
oculus humanus videt Socratem sedere in seipso, non in causa sua. God, however,
is wholly outside the order of time, stationed as it were at the summit of
eternity, which is wholly simultaneous, and to Him the whole course of time is
subjected in one simple intuition. For this reason, He sees in one glance
everything that is effected in the evolution of time, and each thing as it is
in itself, and it is not future to Him in relation to His view as it is in the
order of its causes alone (although He also sees the very order of the causes),
but each of the things that are in whatever time is seen wholly eternally as
the human eye sees Socrates sitting, not in its causes but in itself. 21 Ex hoc
autem quod homo videt Socratem sedere, non tollitur eius contingentia quae
respicit ordinem causae ad effectum; tamen certissime et infallibiliter videt
oculus hominis Socratem sedere dum sedet, quia unumquodque prout est in seipso
iam determinatum est. Sic igitur relinquitur, quod Deus certissime et
infallibiliter cognoscat omnia quae fiunt in tempore; et tamen ea quae in
tempore eveniunt non sunt vel fiunt ex necessitate, sed contingenter. Now from
the fact that man sees Socrates sitting, the contingency of his sitting which
concerns the order of cause to effect, is not destroyed; yet the eye of man
most certainly and infallibly sees Socrates sitting while he is sitting, since
each thing as it is in itself is already determined. Hence it follows that God
knows all things that take place in time most certainly and infallibly, and yet
the things that happen in time neither are nor take place of necessity, but contingently.
22 Similiter ex parte voluntatis divinae differentia est attendenda. Nam
voluntas divina est intelligenda ut extra ordinem entium existens, velut causa
quaedam profundens totum ens et omnes eius differentias. Sunt autem
differentiae entis possibile et necessarium; et ideo ex ipsa voluntate divina
originantur necessitas et contingentia in rebus et distinctio utriusque
secundum rationem proximarum causarum: ad effectus enim, quos voluit
necessarios esse, disposuit causas necessarias; ad effectus autem, quos voluit
esse contingentes, ordinavit causas contingenter agentes, idest potentes
deficere. Et secundum harum conditionem causarum, effectus dicuntur vel
necessarii vel contingentes, quamvis omnes dependeant a voluntate divina, sicut
a prima causa, quae transcendit ordinem necessitatis et contingentiae. Hoc
autem non potest dici de voluntate humana, nec de aliqua alia causa: quia omnis
alia causa cadit iam sub ordine necessitatis vel contingentiae; et ideo oportet
quod vel ipsa causa possit deficere, vel effectus eius non sit contingens, sed
necessarius. Voluntas autem divina indeficiens est; tamen non omnes effectus
eius sunt necessarii, sed quidam contingentes. There is likewise a difference
to be noted on the part of the divine Will, for the divine will must be
understood as existing outside of the order of beings, as a cause producing the
whole of being and all its differences. Now the possible and the necessary are
differences of being, an(] therefore necessity and contingency in things and the
distinction of each according to the nature of their proximate causes originate
from the divine will itself, for He disposes necessary causes for the effects
that He wills to be necessary, and He ordains causes acting contingently (i.e.,
able to fail) for the effects that He wills to be contingent. And according to
the condition of these causes, effects are called either necessary or
contingent, although all depend on the divine will as on a first cause, which
transcends the order of necessity and contingency. This, however, cannot be
said of the human will, nor of any other cause, for every other cause already
falls under the order of necessity or contingency; hence, either the cause
itself must be able to fail or, if not, its effect is not contingent, but
necessary. The divine will, on the other hand, is unfailing; yet not all its
effects are necessary, but some are contingent. 23 Similiter autem aliam
radicem contingentiae, quam hic philosophus ponit ex hoc quod sumus
consiliativi, aliqui subvertere nituntur, volentes ostendere quod voluntas in
eligendo ex necessitate movetur ab appetibili. Cum enim bonum sit obiectum
voluntatis, non potest (ut videtur) ab hoc divertere quin appetat illud quod
sibi videtur bonum; sicut nec ratio ab hoc potest divertere quin assentiat ei
quod sibi videtur verum. Et ita videtur quod electio consilium consequens
semper ex necessitate proveniat; et sic omnia, quorum nos principium sumus per
consilium et electionem, ex necessitate provenient. Some men, in their desire
to show that the will in choosing is necessarily moved by the desirable, argued
in such a way as to destroy the other root of contingency the Philosopher
posits here, based on our deliberation. Since the good is the object of the
will, they argue, it cannot (as is evident) be diverted so as not to seek that
which seems good to it; as also it is not possible to divert reason so that it
does not assent to that which seems true to it. So it seems that choice, which
follows upon deliberation, always takes place of necessity; thus all things of
which we are the principle through deliberation and choice, will take place of
necessity. 24 Sed dicendum est quod similis differentia attendenda est circa
bonum, sicut circa verum. Est autem quoddam verum, quod est per se notum, sicut
prima principia indemonstrabilia, quibus ex necessitate intellectus assentit;
sunt autem quaedam vera non per se nota, sed per alia. Horum autem duplex est
conditio: quaedam enim ex necessitate consequuntur ex principiis, ita scilicet
quod non possunt esse falsa, principiis existentibus veris, sicut sunt omnes
conclusiones demonstrationum. Et huiusmodi veris ex necessitate assentit
intellectus, postquam perceperit ordinem eorum ad principia, non autem prius.
Quaedam autem sunt, quae non ex necessitate consequuntur ex principiis, ita
scilicet quod possent esse falsa principiis existentibus veris; sicut sunt
opinabilia, quibus non ex necessitate assentit intellectus, quamvis ex aliquo
motivo magis inclinetur in unam partem quam in aliam. Ita etiam est quoddam
bonum quod est propter se appetibile, sicut felicitas, quae habet rationem
ultimi finis; et huiusmodi bono ex necessitate inhaeret voluntas: naturali enim
quadam necessitate omnes appetunt esse felices. Quaedam vero sunt bona, quae
sunt appetibilia propter finem, quae comparantur ad finem sicut conclusiones ad
principium, ut patet per philosophum in II physicorum. Si igitur essent aliqua
bona, quibus non existentibus, non posset aliquis esse felix, haec etiam essent
ex necessitate appetibilia et maxime apud eum, qui talem ordinem perciperet; et
forte talia sunt esse, vivere et intelligere et si qua alia sunt similia. Sed
particularia bona, in quibus humani actus consistunt, non sunt talia, nec sub
ea ratione apprehenduntur ut sine quibus felicitas esse non possit, puta,
comedere hunc cibum vel illum, aut abstinere ab eo: habent tamen in se unde
moveant appetitum, secundum aliquod bonum consideratum in eis. Et ideo voluntas
non ex necessitate inducitur ad haec eligenda. Et propter hoc philosophus signanter
radicem contingentiae in his quae fiunt a nobis assignavit ex parte consilii,
quod est eorum quae sunt ad finem et tamen non sunt determinata. In his enim in
quibus media sunt determinata, non est opus consilio, ut dicitur in III
Ethicorum. Et haec quidem dicta sunt ad salvandum radices contingentiae, quas
hic Aristoteles ponit, quamvis videantur logici negotii modum excedere. In
regard to this point there is a similar diversity with respect to the good and
with respect to the true that must be noted. There are some truths that are
known per se, such as the first indemonstrable principles; these the intellect
assents to of necessity. There are others, however, which are not known per se,
but through other truths. The condition of these is twofold. Some follow
necessarily from the principles, i.e., so that they cannot be false when the
principles are true. This is the case with all the conclusions of
demonstrations, and the intellect assents necessarily to truths of this kind
after it has perceived their order to the principles, but not before. There are
others that do not follow necessarily from the principles, and these can be
false even though the principles be true. This is the case with things about
which there can be opinion. To these the intellect does not assent necessarily,
although it may be inclined by some motive more to one side than another.
Similarly, there is a good that is desirable for its own sake, such as
happiness, which has the nature of an ultimate end. The will necessarily
adheres to a good of this kind, for all men seek to be happy by a certain kind
of natural necessity. There are other good things that are desirable for the
sake of the end. These are related to the end as conclusions are to principles.
The Philosopher makes this point clear in II Physicorum [7: 198a 35]. If, then,
there were some good things without the existence of which one could not be
happy, these would be desirable of necessity, and especially by the person who
perceives such an order. Perhaps to be, to live, and to think, and other
similar things, if there are any, are of this kind. However, particular good
things with which human acts are concerned are not of this kind nor are they
apprehended as bein,r such that without tbeni happiness is impossible, for
instance, to eat this food or that, or abstain from it. Such things,
nevertheless, do have in them that whereby they move the appetite according to
some good considered in them. The will, therefore, is not induced to choose
these of necessity. And on this account the Philosopher expressly designates
the root of the contingency of things effected by us on the part of
deliberation—which is concerned with those things that are for the end and yet
are not determined. In those things in which the means are determined there is
no need for deliberation, as is said in III Ethicorum [3: 1112a 30–1113a 14].
These things have been stated to save the roots of contingency that Aristotle
posits here, although they may seem to exceed the mode of logical matter. XV. 1
Postquam philosophus ostendit esse impossibilia ea, quae ex praedictis
rationibus sequebantur; hic, remotis impossibilibus, concludit veritatem. Et
circa hoc duo facit: quia enim argumentando ad impossibile, processerat ab
enunciationibus ad res, et iam removerat inconvenientia quae circa res
sequebantur; nunc, ordine converso, primo ostendit qualiter se habeat veritas
circa res; secundo, qualiter se habeat veritas circa enunciationes; ibi: quare
quoniam orationes verae sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit
qualiter se habeant veritas et necessitas circa res absolute consideratas;
secundo, qualiter se habeant circa eas per comparationem ad sua opposita; ibi:
et in contradictione eadem ratio est et cetera. Now that the Philosopher has
shown the impossibilities that follow from the foresaid arguments, he concludes
what the truth is on this point. In arguing to the impossibility of the
position, he proceeded from enunciations to things, and has already rejected
the unlikely consequences in respect to things. Now, in the converse order, he
first shows the way in which there is truth about things; secondly, the way in
which there is truth in enunciations, where he says, And so, since speech is
true as it corresponds to things, etc. With respect to truth about things be
first shows the way in which there is truth and necessity about things
absolutely considered; secondly, the way in which there is truth and necessity
about things through a comparing of their opposites, where he says, And this is
also the case with respect to contradiction, etc. 2 Dicit ergo primo, quasi ex
praemissis concludens, quod si praedicta sunt inconvenientia, ut scilicet omnia
ex necessitate eveniant, oportet dicere ita se habere circa res, scilicet quod
omne quod est necesse est esse quando est, et omne quod non est necesse est non
esse quando non est. Et haec necessitas fundatur super hoc principium:
impossibile est simul esse et non esse: si enim aliquid est, impossibile est
illud simul non esse; ergo necesse est tunc illud esse. Nam impossibile non
esse idem significat ei quod est necesse esse, ut in secundo dicetur. Et
similiter, si aliquid non est, impossibile est illud simul esse; ergo necesse
est non esse, quia etiam idem significant. Et ideo manifeste verum est quod
omne quod est necesse est esse quando est; et omne quod non est necesse est non
esse pro illo tempore quando non est: et haec est necessitas non absoluta, sed
ex suppositione. Unde non potest simpliciter et absolute dici quod omne quod
est, necesse est esse, et omne quod non est, necesse est non esse: quia non
idem significant quod omne ens, quando est, sit ex necessitate, et quod omne
ens simpliciter sit ex necessitate; nam primum significat necessitatem ex
suppositione, secundum autem necessitatem absolutam. Et quod dictum est de
esse, intelligendum est similiter de non esse; quia aliud est simpliciter ex
necessitate non esse et aliud est ex necessitate non esse quando non est. Et
per hoc videtur Aristoteles excludere id quod supra dictum est, quod si in his,
quae sunt, alterum determinate est verum, quod etiam antequam fieret alterum
determinate esset futurum. 2. He begins, then, as though concluding from
premises: if the foresaid things are unlikely (namely, that all things take
place of necessity), then the case with respect to things must be this:
everything that is must be when it is, and everything that is not, necessarily
not be when it is not. This necessity is founded on the principle that it is
impossible at once to be and not be; for if something is, it is impossible that
it at the same time not be; therefore it is necessary that it be at that time.
For "impossible not to be” signifies the same thing as "necessary to
be,” as Aristotle says in the second book. Similarly, if something is not, it
is impossible that it at the same time be. Therefore it is necessary that it
not be, for they also signify the same thing. Clearly it is true, then, that
everything that is must be when it is, and everything that is not must not be
when it is not. This is not absolute necessity, but necessity by supposition.
Consequently, it cannot be said absolutely and simply that everything that is
must be, and that everything that is not must not be. For "every being,
when it is, necessarily is” does not signify the same thing as "every
being necessarily is, simply. The first signifies necessity by supposition, the
second, absolute necessity. What has been said about to be must be understood
to apply also to not to be, for "necessarily not to be simply” and
"necessarily not to be when it is not” are also different. By this
Aristotle seems to exclude what was said above, namely, that if in those things
that are, one of the two is determinately true, then even before it takes place
one of the two would determinately be going to be. 3 Deinde cum dicit: et in
contradictione etc., ostendit quomodo se habeant veritas et necessitas circa
res per comparationem ad sua opposita: et dicit quod eadem ratio est in
contradictione, quae est in suppositione. Sicut enim illud quod non est
absolute necessarium, fit necessarium ex suppositione eiusdem, quia necesse est
esse quando est; ita etiam quod non est in se necessarium absolute fit
necessarium per disiunctionem oppositi, quia necesse est de unoquoque quod sit
vel non sit, et quod futurum sit aut non sit, et hoc sub disiunctione: et haec
necessitas fundatur super hoc principium quod, impossibile est contradictoria
simul esse vera vel falsa. Unde impossibile est neque esse neque non esse; ergo
necesse est vel esse vel non esse. Non tamen si divisim alterum accipiatur,
necesse est illud esse absolute. Et hoc manifestat per exemplum: quia
necessarium est navale bellum esse futurum cras vel non esse; sed non est
necesse navale bellum futurum esse cras; similiter etiam non est necessarium
non esse futurum, quia hoc pertinet ad necessitatem absolutam; sed necesse est
quod vel sit futurum cras vel non sit futurum: hoc enim pertinet ad
necessitatem quae est sub disiunctione. 3. He shows how truth and necessity is
had about things through the comparing of their opposites where he says, This
is also the case with respect to contradiction, etc. The reasoning is the same,
he says, in respect to contradiction and in respect to supposition. For just as
that which is not absolutely necessary becomes necessary by supposition of the
same (for it must be when it is), so also what in itself is not necessary
absolutely, becomes necessary through the disjunction of the opposite, for of
each thing it is necessary that it is or is not, and that it will or will not
be in the future, and this under disjunction. This necessity is founded upon
the principle that it is impossible for contradictories to be at once true and
false. Accordingly, it is impossible that a thing neither be nor not be;
therefore it is necessary that it either be or not be. However if one of these
is taken separately [i.e., divisively], it is not necessary that that one be
absolutely. This he manifests by example: it is necessary that there will be or
will not be a naval battle tomorrow; but it is not necessary that a naval
battle will take place tomorrow, nor is it necessary that it will not take
place, for this pertains to absolute necessity. It is necessary, however, that
it will take place or will not take place tomorrow. This pertains to the
necessity which is under disjunction. 4 Deinde cum dicit: quare quoniam etc. ex
eo quod se habet circa res, ostendit qualiter se habeat circa orationes. Et
primo, ostendit quomodo uniformiter se habet in veritate orationum, sicut circa
esse rerum et non esse; secundo, finaliter concludit veritatem totius
dubitationis; ibi: quare manifestum et cetera. Dicit ergo primo quod, quia hoc
modo se habent orationes enunciativae ad veritatem sicut et res ad esse vel non
esse (quia ex eo quod res est vel non est, oratio est vera vel falsa),
consequens est quod in omnibus rebus quae ita se habent ut sint ad utrumlibet,
et quaecumque ita se habent quod contradictoria eorum qualitercumque contingere
possunt, sive aequaliter sive alterum ut in pluribus, ex necessitate sequitur
quod etiam similiter se habeat contradictio enunciationum. Et exponit
consequenter quae sint illae res, quarum contradictoria contingere queant; et
dicit huiusmodi esse quae neque semper sunt, sicut necessaria, neque semper non
sunt, sicut impossibilia, sed quandoque sunt et quandoque non sunt. Et ulterius
manifestat quomodo similiter se habeat in contradictoriis enunciationibus; et
dicit quod harum enunciationum, quae sunt de contingentibus, necesse est quod
sub disiunctione altera pars contradictionis sit vera vel falsa; non tamen haec
vel illa determinate, sed se habet ad utrumlibet. Et si contingat quod altera
pars contradictionis magis sit vera, sicut accidit in contingentibus quae sunt
ut in pluribus, non tamen ex hoc necesse est quod ex necessitate altera earum
determinate sit vera vel falsa. Then when he says, And so, since speech is true
as it corresponds to things, etc., he shows how truth in speech corresponds to
the way things are. First he shows in what way truth of speech conforms to the
being and nonbeing of things; secondly, and finally, he arrives at the truth of
the whole question, where he says, Therefore it is clear that it is not
necessary that of every affirmation and negation of opposites, one is true and
one false, etc. He says, then, that enunciative speech is related to truth in
the way the thing is to being or nonbeing (for from the fact that a thing is or
is not, speech is true or false). It follows, therefore, that when things are
such as to be indeterminate to either of two, and when they are such that their
contradictories could happen in whichever way, whether equally or one for the
most part, the contradiction of enunciations must also be such. He explains
next what the things are in which contradictories can happen. They are those
that neither always are (i.e., the necessary), nor always are not (i.e., the
impossible), but sometimes are and some times are not. He shows further how
this is maintained in contradictory enunciations. In those enunciations that
are about contingent things, one part of the contradiction must be true or
false tinder disjunction; but it is related to either, not to this or that
determinately. If it should turn out that one part of the contradiction is more
true, as happens in contingents that are for the most part, it is nevertheless
not necessary on this account that one of them is determinately true or false. 5
Deinde cum dicit: quare manifestum est etc., concludit principale intentum et
dicit manifestum esse ex praedictis quod non est necesse in omni genere
affirmationum et negationum oppositarum, alteram determinate esse veram et
alteram esse falsam: quia non eodem modo se habet veritas et falsitas in his
quae sunt iam de praesenti et in his quae non sunt, sed possunt esse vel non
esse. Sed hoc modo se habet in utriusque, sicut dictum est, quia scilicet in
his quae sunt necesse est determinate alterum esse verum et alterum falsum:
quod non contingit in futuris quae possunt esse et non esse. Et sic terminatur
primus liber. 5. Then he says, Therefore, it is clear that it is not necessary
that of every affirmation and negation of opposites, one is true and one,
false, etc. This is the conclusion he principally intended. It is evident from
what has been said that it is not necessary in every genus of affirmation and
negation of opposites that one is determinately true and the other false, for
truth and falsity is not had in the same way in regard to things that are
already in the present and those that are not but which could be or not be. The
position in regard to each has been explained. In those that are, it is
necessary that one of them be determinately true and the other false; in things
that are future, which could be or not be, the case is not the same. The first
book ends with this. lib. 2 l. 1 n. 1Postquam philosophus in primo libro
determinavit de enunciatione simpliciter considerata; hic determinat de
enunciatione, secundum quod diversificatur per aliquid sibi additum. Possunt
autem tria in enunciatione considerari: primo, ipsae dictiones, quae
praedicantur vel subiiciuntur in enunciatione, quas supra distinxit per nomina
et verba; secundo, ipsa compositio, secundum quam est verum vel falsum in
enunciatione affirmativa vel negativa; tertio, ipsa oppositio unius
enunciationis ad aliam. Dividitur ergo haec pars in tres partes: in prima,
ostendit quid accidat enunciationi ex hoc quod aliquid additur ad dictiones in
subiecto vel praedicato positas; secundo, quid accidat enunciationi ex hoc quod
aliquid additur ad determinandum veritatem vel falsitatem compositionis; ibi:
his vero determinatis etc.; tertio, solvit quamdam dubitationem circa
oppositiones enunciationum provenientem ex eo, quod additur aliquid simplici
enunciationi; ibi: utrum autem contraria est affirmatio et cetera. Est autem
considerandum quod additio facta ad praedicatum vel subiectum quandoque tollit
unitatem enunciationis, quandoque vero non tollit, sicut additio negationis
infinitantis dictionem. Circa primum ergo duo facit: primo, ostendit quid
accidat enunciationibus ex additione negationis infinitantis dictionem;
secundo, ostendit quid accidat circa enunciationem ex additione tollente
unitatem; ibi: at vero unum de pluribus et cetera. Circa primum duo facit:
primo, determinat de enunciationibus simplicissimis, in quibus nomen finitum
vel infinitum ponitur tantum ex parte subiecti; secundo, determinat de
enunciationibus, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur non solum ex
parte subiecti, sed etiam ex parte praedicati; ibi: quando autem est tertium
adiacens et cetera. Circa primum duo facit: primo, proponit rationes quasdam
distinguendi tales enunciationes; secundo, ponit earum distinctionem et
ordinem; ibi: quare prima est affirmatio et cetera. Circa primum duo facit:
primo, ponit rationes distinguendi enunciationes ex parte nominum; secundo,
ostendit quod non potest esse eadem ratio distinguendi ex parte verborum; ibi:
praeter verbum autem et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit
rationes distinguendi enunciationes; secundo, exponit quod dixerat; ibi: nomen
autem dictum est etc.; tertio, concludit intentum; ibi: erit omnis affirmatio
et cetera. 1. In the first book, the Philosopher has dealt with the enunciation
considered simply. Now he is going to treat of the enunciation as it is
diversified by the addition of something to it. There are three things that can
be considered in the enunciation: first, the words that are predicated or
subjected, which he has already distinguished into names and verbs; secondly,
the composition, according to which there is truth or falsity in the affirmative
or negative enunciation; finally, the opposition of one enunciation to another.
This book is divided into three parts which are related to these three things
in the enunciation. In the first, he shows what happens to the enunciation when
something is added to the words posited as the subject or predicate; in the
second, what happens when something is added to determine the truth or falsity
of the composition. He begins this where he says, Having determined these
things, we must consider in what way negations and affirmations of the possible
and not possible, etc. In the third part he solves a question that arises about
the oppositions of enunciations in which something is added to the simple
enunciation. This he takes up where he says, There is a question as to whether
the contrary of an affirmation is a negation, or whether the contrary of an
affirmation is another affirmation, etc. With respect to additions made to the
words used in the enunciation, it should be noted that an addition made to the
predicate or the subject sometimes destroys the unity of the enunciation, and
sometimes not, the latter being the case in which the addition is a negative
making a word infinite. Consequently, he first shows what happens to the
enunciation when the added negation makes a word infinite. Secondly, he shows
what happens when an addition destroys the unity of the enunciation where he
says, Neither the affirmation nor the negation which affirms or denies one
predicate of many subjects or many predicates of one subject is one, unless
something one is constituted from the many, etc. In relation to the first point
he first investigates the simplest of enunciations, in which a finite or
infinite name is posited only on the part of the subject. Then he considers the
enunciation in which a finite or infinite name is posited not only on the part
of the subject, but also on the part of the predicate, where he says, But when
"is” is predicated as a third element in the enunciation, etc. Apropos of
these simple enunciations, he proposes certain grounds for distinguishing such
enunciations and then gives their distinction and order where he says,
Therefore the primary affirmation and negation is "Man is,” "Man is
not,” etc. And first he gives the grounds for distinguishing enunciations on
the part of the name; secondly, he shows that there are not the same grounds
for a distinction on the part of the verb, where he says, There can be no
affirmation or negation without a verb, etc. First, then, he proposes the grounds
for distinguishing these enunciations; secondly, he explains this where he
says, we have already stated what a name is, etc.; finally, he arrives at the
conclusion he intended where he says, every affirmation will be made up of a
name and a verb, or an infinite name and a verb. 2 Resumit ergo illud, quod
supra dictum est de definitione affirmationis, quod scilicet affirmatio est
enunciatio significans aliquid de aliquo; et, quia verbum est proprie nota
eorum quae de altero praedicantur, consequens est ut illud, de quo aliquid
dicitur, pertineat ad nomen; nomen autem est vel finitum vel infinitum; et
ideo, quasi concludens subdit quod quia affirmatio significat aliquid de
aliquo, consequens est ut hoc, de quo significatur, scilicet subiectum
affirmationis, sit vel nomen, scilicet finitum (quod proprie dicitur nomen, ut
in primo dictum est), vel innominatum, idest infinitum nomen: quod dicitur
innominatum, quia ipsum non nominat aliquid cum aliqua forma determinata, sed
solum removet determinationem formae. Et ne aliquis diceret quod id quod in
affirmatione subiicitur est simul nomen et innominatum, ad hoc excludendum
subdit quod id quod est, scilicet praedicatum, in affirmatione, scilicet una,
de qua nunc loquimur, oportet esse unum et de uno subiecto; et sic oportet quod
subiectum talis affirmationis sit vel nomen, vel nomen infinitum. First of all,
he goes back to what was said above in defining affirmation, namely, that
affirmation is an enunciation signifying something about something; and, since
it is peculiar to the verb to be a sign of what is predicated of another, it
follows that that about which something is said pertains to the name; but the
name is either finite or infinite; therefore, as if drawing a conclusion, he
says that since affirmation signifies something about something it follows that
that about which something is signified, i.e., the subject of an affirmation,
is either a finite name (which is properly called a name), or unnamed, i.e., an
infinite name. It is called "unnamed” because it does not name something
with a determinate form but removes the determination of form. And lest anyone
think that what is subjected in an affirmation is at once a name and unnamed,
he adds, and one thing must be signified about one thing in an affirmation,
i.e., in the enunciation, of which we are speaking now; and hence the subject
of such an affirmation must be either the name or the infinite name. 3 Deinde
cum dicit: nomen autem etc., exponit quod dixerat, et dicit quod supra dictum
est quid sit nomen, et quid sit innominatum, idest infinitum nomen: quia, non
homo, non est nomen, sed est infinitum nomen, sicut, non currit, non est
verbum, sed infinitum verbum. Interponit autem quoddam, quod valet ad
dubitationis remotionem, videlicet quod nomen infinitum quodam modo significat
unum. Non enim significat simpliciter unum, sicut nomen finitum, quod
significat unam formam generis vel speciei aut etiam individui, sed in quantum
significat negationem formae alicuius, in qua negatione multa conveniunt, sicut
in quodam uno secundum rationem. Unum enim eodem modo dicitur aliquid, sicut et
ens; unde sicut ipsum non ens dicitur ens, non quidem simpliciter, sed secundum
quid, idest secundum rationem, ut patet in IV metaphysicae, ita etiam negatio
est unum secundum quid, scilicet secundum rationem. Introducit autem hoc, ne
aliquis dicat quod affirmatio, in qua subiicitur nomen infinitum, non
significet unum de uno, quasi nomen infinitum non significet unum. When he
says, we have already stated what a name is, etc., he relates what he has
previously said. We have already stated, he says, what a name is and what that
which is unnamed is, i.e., the infinite name. "Non-man” is not a name but
an infinite name, and "non-runs” is not a verb but an infinite verb. Then
he interposes a point that is useful for the preclusion of a difficulty, i.e.,
that an infinite name in a certain way does signify one thing. It does not
signify one thing simply as the finite name does, which signifies one form of a
genus or species, or even of an individual; rather it signifies one thing
insofar as it signifies the negation of a form, in which negation many things
are united, as in something one according to reason. For something is said to
be one in the same way it is said to be a being. Hence, just as nonbeing is
said to be being, not simply, but according to something, i.e., according to
reason, as is evident in IV Metaphysicae, so also a negation is one according
to something, i.e., according to reason. Aristotle introduces this point so
that no one will say that an affirmation in which an infinite name is the
subject does not signify one thing about one subject on the grounds that an
infinite name does not signify something one. 4 Deinde cum dicit: erit omnis
affirmatio etc., concludit propositum scilicet quod duplex est modus
affirmationis. Quaedam enim est affirmatio, quae constat ex nomine et verbo;
quaedam autem est quae constat ex infinito nomine et verbo. Et hoc sequitur ex hoc
quod supra dictum est quod hoc, de quo affirmatio aliquid significat, vel est nomen
vel innominatum. Et eadem differentia potest accipi ex parte negationis, quia
de quocunque contingit affirmare, contingit et negare, ut in primo habitum est.
When he says, every affirmation will be made up of a name and a verb or an
infinite name and a verb, he concludes that the mode of affirmation is twofold.
One consists of a name and a verb, the other of an infinite name and a verb.
This follows from what has been said, namely, that that about which an
affirmation signifies something is either a name or unnamed. The same
difference can be taken on the part of negation, for of whatever something can
be affirmed it can be denied, as was said in the first book. 5 Deinde cum
dicit: praeter verbum etc., ostendit quod differentia enunciationum non potest
sumi ex parte verbi. Dictum est enim supra quod, praeter verbum nulla est
affirmatio vel negatio. Potest enim praeter nomen esse aliqua affirmatio vel
negatio, videlicet si ponatur loco nominis infinitum nomen: loco autem verbi in
enunciatione non potest poni infinitum verbum, duplici ratione. Primo quidem,
quia infinitum verbum constituitur per additionem infinitae particulae, quae
quidem addita verbo per se dicto, idest extra enunciationem posito, removet
ipsum absolute, sicut addita nomini, removet formam nominis absolute: et ideo
extra enunciationem potest accipi verbum infinitum per modum unius dictionis,
sicut et nomen infinitum. Sed quando negatio additur verbo in enunciatione
posito, negatio illa removet verbum ab aliquo, et sic facit enunciationem negativam:
quod non accidit ex parte nominis. Non enim enunciatio efficitur negativa nisi
per hoc quod negatur compositio, quae importatur in verbo: et ideo verbum
infinitum in enunciatione positum fit verbum negativum. Secundo, quia in nullo
variatur veritas enunciationis, sive utamur negativa particula ut infinitante
verbum vel ut faciente negativam enunciationem; et ideo accipitur semper in
simpliciori intellectu, prout est magis in promptu. Et inde est quod non
diversificavit affirmationem per hoc, quod sit ex verbo vel infinito verbo,
sicut diversificavit per hoc, quod est ex nomine vel infinito nomine. Est autem
considerandum quod in nominibus et in verbis praeter differentiam finiti et
infiniti est differentia recti et obliqui. Casus enim nominum, etiam verbo
addito, non constituunt enunciationem significantem verum vel falsum, ut in
primo habitum est: quia in obliquo nomine non concluditur ipse rectus, sed in
casibus verbi includitur ipsum verbum praesentis temporis. Praeteritum enim et
futurum, quae significant casus verbi, dicuntur per respectum ad praesens. Unde
si dicatur, hoc erit, idem est ac si diceretur, hoc est futurum; hoc fuit, hoc
est praeteritum. Et propter hoc, ex casu verbi et nomine fit enunciatio. Et
ideo subiungit quod sive dicatur est, sive erit, sive fuit, vel quaecumque alia
huiusmodi verba, sunt de numero praedictorum verborum, sine quibus non potest
fieri enunciatio: quia omnia consignificant tempus, et alia tempora dicuntur
per respectum ad praesens. When he says, There can be no affirmation or
negation without a verb, etc., he intends to show that enunciations cannot be
differentiated on the part of the verb. He made the point earlier that there is
no affirmation or negation without a verb. However there can be an affirmation
or negation without a name, i.e., when an infinite name is posited in place of
a name.” An infinite verb, on the other hand, cannot be posited in an
enunciation in place of a verb, and this for two reasons. First of all, the
infinite verb is constituted by the addition of an infinite particle which,
when added to a verb said by itself (i.e., posited outside of the enunciation),
removes it absolutely, just as it removes the form of the name absolutely when
added to it. Therefore, outside of the enunciation, the infinite verb, as well
as the infinite name, can be taken in the mode of one word. But when a negation
is added to the verb in an enunciation it removes the verb from something and
thus makes the enunciation negative, which is not the case with respect to the
name. For an enunciation is made negative by denying the composition which the
verb introduces; hence, an infinite verb posited in the enunciation becomes a
negative verb. Secondly, whichever way we use the negative particle, whether as
making the verb infinite or as making a negative enunciation, the truth of the
enunciation is not changed. The negative particle, therefore, is always taken
in the more absolute sense, as being clearer. This, then, is why Aristotle does
not diversify the affirmation as made up of a verb or infinite verb, but as
made up of a name or an infinite name. It should also be noted that besides the
difference of finite and infinite there is the difference of nominative and
oblique cases. The cases of names even with a verb added do not constitute an
enunciation signifying truth or falsity, as was said in the first book, for the
nominative is not included in an oblique name. The verb of present time,
however, is included in the cases of the verb, for the past and future, which the
cases of the verb signify, are said with respect to the present. Whence, ‘if we
say, "This will be,” it is the same as if we were to say, "This is
future”; and "This has been” the same as "This is past.” A name,
then, and a case of the verb do constitute an enunciation. Therefore Aristotle
adds that "is,” or "will be,” or "was,” or any other verb of
this kind that we use are of the number of the foresaid verbs without which an
enunciation cannot be made, since they all signify with time and past and
future time are said with respect to the present. 6 Deinde cum dicit: quare
prima erit affirmatio etc., concludit ex praemissis distinctionem enunciationum
in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur solum ex parte subiecti, in
quibus triplex differentia intelligi potest: una quidem, secundum affirmationem
et negationem; alia, secundum subiectum finitum et infinitum; tertia, secundum
subiectum universaliter, vel non universaliter positum. Nomen autem finitum est
ratione prius infinito sicut affirmatio prior est negatione; unde primam
affirmationem ponit, homo est, et primam negationem, homo non est. Deinde ponit
secundam affirmationem, non homo est, secundam autem negationem, non homo non
est. Ulterius autem ponit illas enunciationes in quibus subiectum universaliter
ponitur, quae sunt quatuor, sicut et illae in quibus est subiectum non
universaliter positum. Praetermisit autem ponere exemplum de enunciationibus,
in quibus subiicitur singulare, ut, Socrates est, Socrates non est, quia
singularibus nominibus non additur aliquod signum. Unde in huiusmodi
enunciationibus non potest omnis differentia inveniri. Similiter etiam
praetermittit exemplificare de enunciationibus, quarum subiecta particulariter
ponuntur, quia tale subiectum quodammodo eamdem vim habet cum subiecto
universali, non universaliter sumpto. Non ponit autem aliquam differentiam ex
parte verbi, quae posset sumi secundum casus verbi, quia sicut ipse dicit, in
extrinsecis temporibus, idest in praeterito et in futuro, quae circumstant
praesens, est eadem ratio sicut et in praesenti, ut iam dictum est. When he
says, Therefore the primary affirmation and negation is, etc., he infers from
the premises the distinction of enunciations in which the finite and infinite
name is posited only on the part of the subject. Among these there is a
threefold difference to be noted: the first, according to affirmation and
negation; the second, according to finite and infinite subject; the third,
according as the subject is posited universally or not universally. Now the
finite name is prior in notion to the infinite name just as affirmation is
prior to negation. Accordingly, he posits "Man is” as the first
affirmation and "Man is not” as the first negation. Then he posits the
second affirmation, "Non-man is,” and the second negation, "Non-man
is not.” Finally he posits the enunciations in which the subject is universally
posited. These are four, as are those in which the subject is not universally
posited. The reason he does not give examples of the enunciation with a
singular subject, such as "Socrates is” and "Socrates is not,” is
that no sign is added to singular names, and hence not every difference can be
found in them. Nor does he give examples of the enunciation in which the
subject is taken particularly, for such a subject in a certain way has the same
force as a universal subject not universally taken. He does not posit any
difference on the part of the verb according to its cases because, as he
himself says, affirmations and negations in regard to extrinsic times, i.e.,
past and future time which surround the prcsent, are similar to these, as has
already been said. II. 1 Postquam philosophus distinxit enunciationes, in
quibus nomen finitum vel infinitum ponitur solum ex parte subiecti, hic accedit
ad distinguendum illas enunciationes, in quibus nomen finitum vel infinitum
ponitur ex parte subiecti et ex parte praedicati. Et circa hoc duo facit;
primo, distinguit huiusmodi enunciationes; secundo, manifestat quaedam quae
circa eas dubia esse possent; ibi: quoniam vero contrariaest et cetera. Circa
primum duo facit: primo, agit de enunciationibus in quibus nomen praedicatur
cum hoc verbo, est; secundo de enunciationibus in quibus alia verba ponuntur;
ibi: in his vero in quibus et cetera. Distinguit autem huiusmodi enunciationes
sicut et primas, secundum triplicem differentiam ex parte subiecti
consideratam: primo namque, agit de enunciationibus in quibus subiicitur nomen
finitum non universaliter sumptum; secundo de illis in quibus subiicitur nomen
finitum universaliter sumptum; ibi: similiter autem se habent etc.; tertio, de
illis in quibus subiicitur nomen infinitum; ibi: aliae autem habent ad id quod
est non homo et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit diversitatem
oppositionis talium enunciationum; secundo, concludit earum numerum et ponit
earum habitudinem; ibi: quare quatuor etc.; tertio, exemplificat; ibi:
intelligimus vero et cetera. Circa primum duo facit: primo, proponit quod
intendit; secundo, exponit quoddam quod dixerat; ibi: dico autem et cetera. After
distinguishing enunciations in which either a finite or an infinite name is
posited only on the part of the subject, the Philosopher begins here to
distinguish enunciations in which either a finite or an infinite name is
posited as the subject and as the predicate. First he distinguishes these
enunciations, and then he manifests certain things that might be doubtful in
relation to them where he says, Since the negation contrary to "Every
animal is just,” is the one signifying "No animal is just,” etc. With
respect to their distinction he first deals with enunciations in which the name
is predicated with the verb "is”; secondly, with those in which other
verbs are used, where he says, In enunciations in which "is” does not join
the predicate to the subject, for example, when the verb "matures” or
"walks” is used, etc.” He distinguishes these enunciations as he did the
primary enunciations, according to a threefold difference on the part of the
subject, first treating those in which the subject is a finite name not taken
universally, secondly, those in which the subject is a finite name taken
universally where he says, The same is the case when the affirmation is of a
name taken universally, etc.” Thirdly, he treats those in which an infinite
name is the subject, where he says, and there are two other pairs, if something
is added to non-man” as a subject, etc. With respect to the first enunciations
[in which the subject is a finite name not taken universally] he proposes a
diversity of oppositions and then concludes as to their number and states their
relationship, where he says, In this case, therefore, there will be four
enunciations, etc. Finally, he exemplifies this with a table. Aquinas lib. 2 l.
2 n. 2Circa primum duo oportet intelligere: primo quidem, quid est hoc quod
dicit, est tertium adiacens praedicatur. Ad cuius evidentiam considerandum est
quod hoc verbum est quandoque in enunciatione praedicatur secundum se; ut cum
dicitur, Socrates est: per quod nihil aliud intendimus significare, quam quod
Socrates sit in rerum natura. Quandoque vero non praedicatur per se, quasi
principale praedicatum, sed quasi coniunctum principali praedicato ad
connectendum ipsum subiecto; sicut cum dicitur, Socrates est albus, non est
intentio loquentis ut asserat Socratem esse in rerum natura, sed ut attribuat
ei albedinem mediante hoc verbo, est; et ideo in talibus, est, praedicatur ut
adiacens principali praedicato. Et dicitur esse tertium, non quia sit tertium
praedicatum, sed quia est tertia dictio posita in enunciatione, quae simul cum
nomine praedicato facit unum praedicatum, ut sic enunciatio dividatur in duas
partes et non in tres. In relation to the first point two things have to be
understood. First, what is meant by "is” is predicated as a third element
in the enunciation. To clarify this we must note that the verb "is” itself
is sometimes predicated in an enunciation, as in "Socrates is.” By this we
intend to signify that Socrates really is. Sometimes, however, "is” is not
predicated as the principal predicate, but is joined to the principal predicate
to connect it to the subject, as in "Socrates is white.” Here the
intention is not to assert that Socrates really is, but to attribute whiteness
to him by means of the verb "is.” Hence, in such enunciations "is” is
predicated as added to the principal predicate. It is said to be third, not
because it is a third predicate, but because it is a third word posited in the
enunciation, which together with the name predicated makes one predicate. The
enunciation is thus divided into two parts and not three. Considerandum est
quid est hoc, quod dicit quod quando est, eo modo quo dictum est, tertium
adiacens praedicatur, dupliciter dicuntur oppositiones. Circa quod
considerandum est quod in praemissis enunciationibus, in quibus nomen ponebatur
solum ex parte subiecti, secundum quodlibet subiectum erat una oppositio; puta
si subiectum erat nomen finitum non universaliter sumptum, erat sola una
oppositio, scilicet est homo, non est homo. Sed quando est tertium adiacens
praedicatur, oportet esse duas oppositiones eodem subiecto existente secundum
differentiam nominis praedicati, quod potest esse finitum vel infinitum; sicut
haec est una oppositio, homo est iustus, homo non est iustus: alia vero
oppositio est, homo est non iustus, homo non est non iustus. Non enim negatio
fit nisi per appositionem negativae particulae ad hoc verbum est, quod est nota
praedicationis. Secondly, we must consider what he means by when "is” is
predicated as a third element in the enunciation, in the mode in which we have
explained, there are two oppositions. In the enunciations already treated, in
which the name is posited only on the part of the subject, there was one
opposition in relation to any subject. For example, if the subject was a finite
name not taken universally there was only one opposition, "Man is,”
"Man is not.” But when "is” is predicated in addition there are two
oppositions with regard to the same subject corresponding to the difference of
the predicate name, which can be finite or infinite. There is the opposition of
"Man is just,” "Man is not just,” and the opposition, "Man is
non-just,” "Man is not non-just.” For the negation is effected by applying
the negative particle to the verb "is,” which is a sign of a predication. 4
Deinde cum dicit: dico autem, ut est iustus etc., exponit quod dixerat, est
tertium adiacens, et dicit quod cum dicitur, homo est iustus, hoc verbum est,
adiacet, scilicet praedicato, tamquam tertium nomen vel verbum in affirmatione.
Potest enim ipsum est, dici nomen, prout quaelibet dictio nomen dicitur, et sic
est tertium nomen, idest tertia dictio. Sed quia secundum communem usum
loquendi, dictio significans tempus magis dicitur verbum quam nomen, propter
hoc addit, vel verbum, quasi dicat, ad hoc quod sit tertium, non refert utrum
dicatur nomen vel verbum.When he says, I mean by this that in an enunciation
such as"Man is just,” etc., he explains what he means by when "is” is
predicated as a third element in the enunciation. When we say "Man is
just,” the verb "is” is added to the predicate as a third name or verb in
the affirmation. Now "is,” like any other word, may be called a name, and
thus it is a third name, i.e., word. But because, according to common usage, a
word signifying time is called a verb rather than a name Aristotle adds here,
or verb, as if to say that with respect to the fact that it is a third thing,
it does not matter whether it is called a name or a verb. 5 Deinde cum dicit:
quare quatuor erunt etc., concludit numerum enunciationum. Et primo, ponit conclusionem
numeri; secundo, ponit earum habitudinem; ibi: quarum duae quidem etc.; tertio,
rationem numeri explicat; ibi: dico autem quoniam est et cetera. Dicit ergo
primo quod quia duae sunt oppositiones, quando est tertium adiacens
praedicatur, cum omnis oppositio sit inter duas enunciationes, consequens est
quod sint quatuor enunciationes illae in quibus est, tertium adiacens,
praedicatur, subiecto finito non universaliter sumpto. Deinde cum dicit: quarum
duae quidem etc., ostendit habitudinem praedictarum enunciationum ad invicem;
et dicit quod duae dictarum enunciationum se habent ad affirmationem et
negationem secundum consequentiam, sive secundum correlationem, aut analogiam,
ut in Graeco habetur, sicut privationes; aliae vero duae minime. Quod quia
breviter et obscure dictum est, diversimode a diversis expositum est. He goes
on to say, In this case, therefore, there will be four enunciations, etc. Here
he concludes to the number of the enunciations, first giving the number, and
then their relationship where he says, two of which will correspond in their
sequence, in respect of affirmation and negation, with the privations but two
will not. Finally, he explains the reason for the number where he says, I mean
that the "is” will be added either to "just” or to "non-just,”
etc. He says first, then, that since there are two oppositions when "is”
is predicated as a third element in the enunciation, and since every opposition
is between two enunciations, it follows that there are four enunciations in
which "is” is predicated as a third element when the subject is finite and
is not taken universally. When he says, two of which will correspond in their
sequence, etc., he shows their relationship. Two of these enunciations are
related to affirmation and negation according to consequence (or according to
correlation or proportion, as it is in the Greek) like privations; the other
two are not. Because this is said so briefly and obscurely, it has been
explained in diverse ways. 6 Ad cuius evidentiam considerandum est quod
tripliciter nomen potest praedicari in huiusmodi enunciationibus. Quandoque
enim praedicatur nomen finitum, secundum quod assumuntur duae enunciationes,
una affirmativa et altera negativa, scilicet homo est iustus, et homo non est
iustus; quae dicuntur simplices. Quandoque vero praedicatur nomen infinitum,
secundum quod etiam assumuntur duae aliae, scilicet homo est non iustus, homo
non est non iustus; quae dicuntur infinitae. Quandoque vero praedicatur nomen
privativum, secundum quod etiam sumuntur duae aliae, scilicet homo est
iniustus, homo non est iniustus; quae dicuntur privativae. Before we take up
the various explanations of this passage there is a general point in relation
to it that needs to be clarified. In this kind of enunciation a name can be
predicated in three ways. We can predicate a finite name and by this we obtain
two enunciations, one affirmative and one negative, "Man is just” and
"Man is not just.” These are called simple enunciations. Or, we can
predicate an infinite name and by this we obtain two other enunciations,
"Man is non-just” and "Man is not non-just,” These are called
infinite enunciations. Finally, we can predicate a privative name and again we
will have two, "Man is unjust” and "Man is not unjust.” These are called
privative. 7 Quidam ergo sic exposuerunt, quod duae enunciationes earum, quas
praemiserat scilicet illae, quae sunt de infinito praedicato, se habent ad
affirmationem et negationem, quae sunt de praedicato finito secundum
consequentiam vel analogiam, sicut privationes, idest sicut illae, quae sunt de
praedicato privativo. Illae enim duae, quae sunt de praedicato infinito, se
habent secundum consequentiam ad illas, quae sunt de finito praedicato secundum
transpositionem quandam, scilicet affirmatio ad negationem et negatio ad
affirmationem. Nam homo est non iustus, quae est affirmatio de infinito
praedicato, respondet secundum consequentiam negativae de praedicato finito,
huic scilicet homo non est iustus. Negativa vero de infinito praedicato,
scilicet homo non est non iustus, affirmativae de finito praedicato, huic
scilicet homo est iustus. Propter quod Theophrastus vocabat eas, quae sunt de
infinito praedicato, transpositas. Et similiter etiam affirmativa de privativo
praedicato respondet secundum consequentiam negativae de finito praedicato,
scilicet haec, homo est iniustus, ei quae est, homo non est iustus. Negativa
vero affirmativae, scilicet haec, homo non est iniustus, ei quae est, homo est
iustus. Disponatur ergo in figura. Et in prima quidem linea ponantur illae,
quae sunt de finito praedicato, scilicet homo est iustus, homo non est iustus.
In secunda autem linea, negativa de infinito praedicato sub affirmativa de
finito et affirmativa sub negativa. In tertia vero, negativa de privativo
praedicato similiter sub affirmativa de finito et affirmativa sub negativa: ut
patet in subscripta figura. (Figura). Sic ergo duae, scilicet quae sunt de
infinito praedicato, se habent ad affirmationem et negationem de finito
praedicato, sicut privationes, idest sicut illae quae sunt de privativo
praedicato. Sed duae aliae quae sunt de infinito subiecto, scilicet non homo
est iustus, non homo non est iustus, manifestum est quod non habent similem
consequentiam. Et hoc modo exposuit herminus hoc quod dicitur, duae vero, minime,
referens hoc ad illas quae sunt de infinito subiecto. Sed hoc manifeste est
contra litteram. Nam cum praemisisset quatuor enunciationes, duas scilicet de
finito praedicato et duas de infinito, subiungit quasi illas subdividens,
quarum duae quidem et cetera. Duae vero, minime; ubi datur intelligi quod
utraeque duae intelligantur in praemissis. Illae autem quae sunt de infinito
subiecto non includuntur in praemissis, sed de his postea dicetur. Unde
manifestum est quod de eis nunc non loquitur. Now the passage in question has
been explained by some in the following way. Two of the enunciations he has
given, those with an infinite predicate, are related to the affirmation and
negation of the finite predicate according to consequence or analogy, as are
privations, i.e., as those with a privative predicate. For the two with an
infinite predicate are related according to consequence to those with a finite
predicate but in a transposed way, namely, affirmation to negation and negation
to affirmation. That is, "Man is non-just,” the affirmation of the
infinite predicate, corresponds according to consequence to the negative of the
finite predicate, i.e., to "Man is not just”; the negative of the infinite
predicate, "Man is not non-just,” corresponds to the affirmative of the
finite predicate, i.e., to "Man is just.” Theophrastus for this reason
called those with the infinite predicate, "transposed.” The affirmative
with a privative predicate also corresponds according to consequence to the
negative with a finite predicate, i.e., "Man is unjust” to "Man is
not just”; and the negative of the privative predicate to the affirmative of
the finite predicate, "Man is not unjust” to "Man is just.” These
enunciations can therefore be placed in a table in the following way: Man is
just Man is not non-just Man is not unjust Man is not just Man is non-just Man
is unjust This makes it clear that two, those with the infinite predicate, are
related to the affirmation and negation of the finite predicate in the way
privations are, i.e., as those that have a privative predicate. It is also
evident that there are two others that do not have a similar consequence, i.e.,
those with an infinite subject, "Non-man is just” and "Non-man is not
just.” This is the way Herminus explained the words but two will not, i.e., by
referring it to enunciations with an infinite subject. This, however, is
clearly contrary to the words of Aristotle, for after giving the four
enunciations, two with a finite predicate and two with an infinite predicate,
he adds two of which... but two will not, as though he were subdividing them,
which can only mean that both pairs are comprised in what he is saying. He does
not include among these the ones with an infinite subject but will mention them
later. It is clear, then, that he is not speaking of these here. 8 Et ideo, ut
Ammonius dicit, alii aliter exposuerunt, dicentes quod praedictarum quatuor
propositionum duae, scilicet quae sunt de infinito praedicato, sic se habent ad
affirmationem et negationem, idest ad ipsam speciem affirmationis et
negationis, ut privationes, idest ut privativae affirmationes seu negationes.
Haec enim affirmatio, homo est non iustus, non est simpliciter affirmatio, sed
secundum quid, quasi secundum privationem affirmatio; sicut homo mortuus non
est homo simpliciter, sed secundum privationem; et idem dicendum est de
negativa, quae est de infinito praedicato. Duae vero, quae sunt de finito
praedicato, non se habent ad speciem affirmationis et negationis secundum
privationem, sed simpliciter. Haec enim, homo est iustus, est simpliciter
affirmativa, et haec, homo non est iustus, est simpliciter negativa. Sed nec
hic sensus convenit verbis Aristotelis. Dicit enim infra: haec igitur
quemadmodum in resolutoriis dictum est, sic sunt disposita; ubi nihil invenitur
ad hunc sensum pertinens. Et ideo Ammonius ex his, quae in fine I priorum
dicuntur de propositionibus, quae sunt de finito vel infinito vel privativo
praedicato, alium sensum accipit. Since this exposition is not consonant with
Aristotle’s words, others, Ammonius says, have explained this in another way.
According to them, two of the four propositions, those of the infinite
predicate, are related to affirmation and negation, i.e., to the species itself
of affirmation and negation, as privations, that is, as privative affirmations
and negations. For the affirmation, "Man is non-just,” is not an
affirmation simply, but relatively, as though according to privation; as a dead
man is not a man simply, but according to privation. The same thing applies to
the negative enunciation with an infinite predicate. However, the two
enunciations having finite predicates are not related to the species of
affirmation and negation according to privation, but simply, for the
enunciation "Man is just” is simply affirmative and "Man is not just”
is simply negative. But this meaning does not correspond to the words of
Aristotle either, for he says further on: This, then, is the way these are
arranged, as we have said in the Analytics, but there is nothing in that text
pertaining to this meaning. Ammonius, therefore, interprets this differently
and in accordance with what is said at the end of I Priorum [46: 51b 5] about
propositions having a finite or infinite or privative predicate. Aquinas lib. 2
l. 2 n. 9 Ad cuius evidentiam considerandum est quod, sicut ipse dicit,
enunciatio aliqua virtute se habet ad illud, de quo totum id quod in
enunciatione significatur vere praedicari potest: sicut haec enunciatio, homo
est iustus, se habet ad omnia illa, de quorum quolibet vere potest dici quod
est homo iustus; et similiter haec enunciatio, homo non est iustus, se habet ad
omnia illa, de quorum quolibet vere dici potest quod non est homo iustus.
Secundum ergo hunc modum loquendi, manifestum est quod simplex negativa in plus
est quam affirmativa infinita, quae ei correspondet. Nam, quod sit homo non
iustus, vere potest dici de quolibet homine, qui non habet habitum iustitiae;
sed quod non sit homo iustus, potest dici non solum de homine non habente
habitum iustitiae, sed etiam de eo qui penitus non est homo: haec enim est
vera, lignum non est homo iustus; tamen haec est falsa, lignum est homo non
iustus. Et ita negativa simplex est in plus quam affirmativa infinita; sicut
etiam animal est in plus quam homo, quia de pluribus verificatur. Simili etiam
ratione, negativa simplex est in plus quam affirmativa privativa: quia de eo
quod non est homo non potest dici quod sit homo iniustus. Sed affirmativa
infinita est in plus quam affirmativa privativa: potest enim dici de puero et
de quocumque homine nondum habente habitum virtutis aut vitii quod sit homo non
iustus, non tamen de aliquo eorum vere dici potest quod sit homo iniustus.
Affirmativa vero simplex in minus est quam negativa infinita: quia quod non sit
homo non iustus potest dici non solum de homine iusto, sed etiam de eo quod
penitus non est homo. Similiter etiam negativa privativa in plus est quam
negativa infinita. Nam, quod non sit homo iniustus, potest dici non solum de
homine habente habitum iustitiae, sed de eo quod penitus non est homo, de
quorum quolibet potest dici quod non sit homo non iustus: sed ulterius potest
dici de omnibus hominibus, qui nec habent habitum iustitiae neque habent
habitum iniustitiae. To make Ammonius’ explanation clear, it must be noted
that, as Aristotle himself says, the enunciation, by some power, is related to
that of which the whole of what is signified in the enunciation can be truly
predicated. The enunciation, "Man is just,” for example, is related to all
those of which in any way "is a just man” can be truly said. So, too, the
enunciation "Man is not just” is related to all those of which in any way
"is not a just man” can be truly said. According to this mode of speaking
it is evident, then, that the simple negative is wider than the infinite affirmative
which corresponds to it. Thus, "is a non-just man” can truly be said of
any man who does not have the habit of justice; but "is not a just man”
can be said not only of a man not having the habit of justice, but also of what
is not a man at all. For example, it is true to say "Wood is not a just
man,” but false to say, "Wood is a non-just man.” The simple negative,
then, is wider than the infinite affirmative-just as animal is wider than man,
since it is verified of more. For a similar reason the simple negative is wider
than the privative affirmative, for "is an unjust man” cannot be said of
what is not man. But the infinite affirmative is wider than the private
affirmative, for "is a non-just man” can be truly said of a boy or of any man
not yet having a habit of virtue or vice, but "is an unjust man” cannot.
And the simple affirmative is narrower than the infinite negative, for "is
not a non-just man” can be said not only of a just man, but also of what is not
man at all. Similarly, the privative negative is wider than the infinite
negative. For "is not an unjust man” can be said not only of a man having
the habit of justice and of what is not man at all—of which "is not a
non-just man” can be said—but over and beyond this can be said about all men
who neither have the habit of justice nor the habit of injustice. 10 His igitur
visis, facile est exponere praesentem litteram hoc modo. Quarum, scilicet
quatuor enunciationum praedictarum, duae quidem, scilicet infinitae, se
habebunt ad affirmationem et negationem, idest ad duas simplices, quarum una
est affirmativa et altera negativa, secundum consequentiam, idest in modo
consequendi ad eas, ut privationes, idest sicut duae privativae: quia scilicet,
sicut ad simplicem affirmativam sequitur negativa infinita, et non convertitur
(eo quod negativa infinita est in plus), ita etiam ad simplicem affirmativam
sequitur negativa privativa, quae est in plus, et non convertitur. Sed sicut
simplex negativa sequitur ad infinitam affirmativam; quae est in minus, et non
convertitur; ita etiam negativa simplex sequitur ad privativam affirmativam,
quae est in minus, et non convertitur. Ex quo patet quod eadem est habitudo in
consequendo infinitarum ad simplices quae est etiam privativarum. With these
points in mind it is easy to explain the present sentence in Aristotle. Two of
which, i.e., the infinites, will be related to the simple affirmation and
negation according to consequence, i.e., in their mode of following upon the
two simple enunciations, the infinitives will be related as are privations,
i.e., as the two privative enunciations. For just as the infinite negative
follows upon the simple affirmative, and.is not convertible with it (because
the infinite negative is wider), so also the privative negative which is wider
follows upon the simple affirmative and is not convertible. But just as the
simple negative follows upon the infinite affirmative, which is narrower and is
not convertible with it, so also the simple negative follows upon the privative
affirmative, which is narrower and is not convertible. From this it is clear
that there is the same relationship, with respect to consequence, of infinites
to simple enunciations as there is of privatives. 11 Sequitur, duae autem,
scilicet simplices, quae relinquuntur, remotis duabus, scilicet infinitis, a
quatuor praemissis, minime, idest non ita se habent ad infinitas in
consequendo, sicut privativae se habent ad eas; quia videlicet, ex una parte
simplex affirmativa est in minus quam negativa infinita, sed negativa privativa
est in plus quam negativa infinita: ex alia vero parte, negativa simplex est in
plus quam affirmativa infinita, sed affirmativa privativa est in minus quam
infinita affirmativa. Sic ergo patet quod simplices non ita se habent ad
infinitas in consequendo, sicut privativae se habent ad infinitas. He goes on
to say, but two, i.e., the simple entinciations that are left after the two
infinite enunciations have been taken care of, will not, i.e., are not related
to infinites according to consequence as privatives are related to them,
because, on the one hand, the simple affirmative is narrower than the infinite
negative, and the privative negative wider than the infinite negative; and on
the other hand, the simple negative is wider than the infinite affirmative, and
the privative affirmative narrower than the infinite affirmative. Thus it is
clear that simple entinciations are riot related to infinites in respect to
consequence as privatives are related to infinites. 12 Quamvis autem secundum
hoc littera philosophi subtiliter exponatur, tamen videtur esse aliquantulum
expositio extorta. Nam littera philosophi videtur sonare diversas habitudines
non esse attendendas respectu diversorum; sicut in praedicta expositione primo
accipitur similitudo habitudinis ad simplices, et postea dissimilitudo
habitudinis respectu infinitarum. Et ideo simplicior et magis conveniens
litterae Aristotelis est expositio Porphyrii quam Boethius ponit; secundum quam
expositionem attenditur similitudo et dissimilitudo secundum consequentiam
affirmativarum ad negativas. Unde dicit: quarum, scilicet quatuor praemissarum,
duae quidem, scilicet affirmativae, quarum una est simplex et alia infinita, se
habebunt secundum consequentiam ad affirmationem et negationem; ut scilicet ad
unam affirmativam sequatur alterius negativa. Nam ad affirmativam simplicem
sequitur negativa infinita; et ad affirmativam infinitam sequitur negativa
simplex. Duae vero, scilicet negativae, minime, idest non ita se habent ad
affirmativas, ut scilicet ex negativis sequantur affirmativae, sicut ex
affirmativis sequebantur negativae. Et quantum ad utrumque similiter se habent privativae
sicut infinitae. But although this explains the words of the Philosopher in a
subtle manner the explanation appears a bit forced. For the words of the
Philosopher seem to say that diverse relationships will not apply in respect to
diverse things; however, in the exposition we have just seen, first there is an
explanation of a similitude of relationship to simple enunciations and then an
explanation of a dissimilitude of relationship in respect to infinites. The
simpler exposition of this passage of Aristotle by Porphyry, which Boethius
gives, is therefore more apposite. According to Porphyry’s explanation there is
similitude and dissimilitude according to consequence of affirmatives and
negatives. Thus Aristotle is saying: Of which, i.e., the four enunciations we
are discussing, two, i.e., affirmatives, one simple and the other infinite,
will be related according to consequence in regard to affirmation and negation,
i.e., so that upon one affirmative follows the other negative, for the infinite
negative follows upon the simple affirmative and the simple negative upon the
infinite affirmative. But two, i.e., the negatives, will not, i.e., are not so
related to affirmatives, i.e., so that affirmatives follow from negatives. And
with respect to both, privatives are related in the same way as the infinites.
Aquinas lib. 2 l. 2 n. 13Deinde cum dicit: dico autem quoniam etc., manifestat
quoddam quod supra dixerat, scilicet quod sint quatuor praedictae
enunciationes: loquimur enim nunc de enunciationibus, in quibus hoc verbum est
solum praedicatur secundum quod est adiacens alicui nomini finito vel infinito:
puta secundum quod adiacet iusto; ut cum dicitur, homo est iustus, vel secundum
quod adiacet non iusto; ut cum dicitur, homo est non iustus. Et quia in neutra
harum negatio apponitur ad verbum, consequens est quod utraque sit affirmativa.
Omni autem affirmationi opponitur negatio, ut supra in primo ostensum est.
Relinquitur ergo quod praedictis duabus enunciationibus affirmativis respondet
duae aliae negativae. Et sic consequens est quod sint quatuor simplices
enunciationes. Then Aristotle says, I mean that the "is” will be added
either to "just” or to "non-just,” etc. Here he shows how, under
these circumstances, we get four enunciations. We are speaking now of
enunciations in which the verb "is” is predicated as added to some finite
or infinite name, for instance as it adjoins "just” in "Man is just,”
or "non-just” in "Man is non-just.” Now since the negation is not
applied to the verb in either of these, each is affirmative. However, there is
a negation opposed to every affirmation as was shown in the first book.
Therefore, two negatives correspond to the two foresaid affirmative
enunciations, making four simple enunciations. 14 Deinde cum dicit:
intelligimus vero etc., manifestat quod supra dictum est per quandam figuralem
descriptionem. Dicit enim quod id, quod in supradictis dictum est, intelligi
potest ex sequenti subscriptione. Sit enim quaedam quadrata figura, in cuius
uno angulo describatur haec enunciatio, homo est iustus, et ex opposito
describatur eius negatio quae est, homo non est iustus; sub quibus scribantur
duae aliae infinitae, scilicet homo est non iustus, homo non est non iustus.
(Figura). In qua descriptione apparet quod hoc verbum est, affirmativum vel
negativum, adiacet iusto et non iusto. Et secundum hoc diversificantur quatuor
enunciationes. Then he says, The following diagram will make this clear. Here
he manifests what he has said by a diagrammatic description; for, as he says,
what has been stated can be understood from the following diagram. Take a
four-sided figure and in one corner write the enunciation "Man is just.”
Opposite it write its negation "Man is not just,” and under these the two
infinite enunciations, "Man is non-just,” "Man is not non-just.” Man
is just Man is not non-just Man is not just Man is non-just It is evident from
this table that the verb "is” whether affirmative or negative is adjoined
to "just” and "non-just.” It is according to this that the four
enunciations are diversified. 15 Ultimo autem concludit quod praedictae
enunciationes disponuntur secundum ordinem consequentiae, prout dictum est in
resolutoriis, idest in I priorum. Alia littera habet: dico autem, quoniam est
aut homini aut non homini adiacebit, et in figura, est, hoc loco homini et non
homini adiacebit. Quod quidem non est intelligendum, ut homo, et non homo
accipiatur ex parte subiecti, non enim nunc agitur de enunciationibus quae sunt
de infinito subiecto. Unde oportet quod homo et non homo accipiantur ex parte
praedicati. Sed quia philosophus exemplificat de enunciationibus in quibus ex
parte praedicati ponitur iustum et non iustum, visum est Alexandro, quod
praedicta littera sit corrupta. Quibusdam aliis videtur quod possit sustineri
et quod signanter Aristoteles nomina in exemplis variaverit, ut ostenderet quod
non differt in quibuscunque nominibus ponantur exempla. Finally, he concludes
that these enunciations are disposed aaccording to an order of consequence that
he has stated in the Analytics, i.e., in I Priorum [46: 51b 5]. There is a
variant reading of a previous portion of this text, namely, I mean that
"is” will be added either to "man” or to non-man,” and in the diagram
"is” is added to "man” and "non-man. This cannot be understood
to mean that "man” and "non-man” are taken on the part of the
subject; for Aristotle is not treating here of enunciations with an infinite
subject and hence "man” and "non-man” must be taken on the part of
the predicate. This variant text seemed to Alexander to be corrupt, for the
Philosopher has been explicating enunciations in which "just” and
"non-just” are posited on the part of the predicate. Others think it can
be sustained and that Aristotle has intentionally varied the names to show that
it makes no difference what names are used in the examples. III. 1 Postquam
philosophus distinxit enunciationes in quibus subiicitur nomen infinitum non
universaliter sumptum, hic intendit distinguere enunciationes, in quibus
subiicitur nomen finitum universaliter sumptum. Et circa hoc tria facit: primo,
ponit similitudinem istarum enunciationum ad infinitas supra positas; secundo,
ostendit dissimilitudinem earumdem; ibi: sed non similiter etc.; tertio,
concludit numerum oppositionum inter dictas enunciationes; ibi: hae duae igitur
et cetera. Dicit ergo primo quod similes sunt enunciationes, in quibus est
nominis universaliter sumpti affirmatio. Having distinguished enunciations in
which the subject is an infinite name not taken universally, Aristotle now
distinguishes enunciations in which the subject is a finite name taken
universally. He first proposes a similarity between these enunciations and the
infinite enunciations already discussed, and then shows their difference where
he says, But it is not possible, in the same way as in the former case, that
those on the diagonal both be true, etc. Finally, he concludes with the number
of oppositions there are between these enunciations where he says, These two
pairs, then, are opposed, etc. He says first, then, that enunciations in which
the affirmation is of a name taken universally are similar to those already
discussed. 2 Quoad primum notandum est quod in enunciationibus indefinitis
supra positis erant duae oppositiones et quatuor enunciationes, et affirmativae
inferebant negativas, et non inferebantur ab eis, ut patet tam in expositione
Ammonii, quam Porphyrii. Ita in enunciationibus in quibus subiicitur nomen
finitum universaliter sumptum inveniuntur duae oppositiones et quatuor
enunciationes: et affirmativae inferunt negativas et non e contra. Unde
similiter se habent enunciationes supradictae, si nominis in subiecto sumpti
fiat affirmatio universaliter. Fient enim tunc quatuor enunciationes: duae de
praedicato finito, scilicet omnis homo est iustus, et eius negatio quae est non
omnis homo est iustus; et duae de praedicato infinito, scilicet omnis homo est
non iustus, et eius negatio quae est, non omnis homo est non iustus. Et quia
quaelibet affirmatio cum sua negatione unam integrat oppositionem, duae
efficiuntur oppositiones, sicut et de indefinitis dictum est. Nec obstat quod
de enunciationibus universalibus loquens particulares inseruit; quoniam sicut
supra de indefinitis et suis negationibus sermonem fecit, ita nunc de
affirmationibus universalibus sermonem faciens de earum negationibus est
coactus loqui. Negatio siquidem universalis affirmativae non est universalis
negativa, sed particularis negativa, ut in I libro habitum est. It is to be
noted in relation to Aristotle’s first point that in indefinite enunciations
there were two oppositions and four enunciations, the affirmatives inferring
the negatives and not being inferred by them, as is clear in the exposition of
Ammonius as well as of Porphyry. In enunciations in which the finite name
universally taken is the subject there are also two oppositions and four
eminciations, the affirmatives inferring the negatives and not the contrary.
Hence, enunciations are related in a similar way if the affirmation is made
universally of the name taken as the subject. For again, four enunciations will
be made, two with a finite predicate-"Every man is just,” and its
negation, "Not every man is just”-and two with an infinite
predicate-"Every man is non-just” and its negation, "Not every man is
non-just.” And since any affirmation together with its negation makes one whole
opposition, two oppositions are made, as was also said of indefinite
enunciations. There might seem to be an objection to his use of particulars
when speaking of universal enunciations, but this cannot be objected to, for
just as in dealing with indefinite enunciations he spoke of their negations, so
now in dealing with universal affirmatives be is forced to speak of their
negations. The negation of the universal affirmative, however, is not the do
universal but the particular negative as was stated in the first book.
Cajetanus lib. 2 l. 3 n. 3Quod autem similis sit consequentia in istis et
supradictis indefinitis patet exemplariter. Et ne multa loquendo res clara
prolixitate obtenebretur, formetur primo figura de indefinitis, quae supra
posita est in expositione Porphyrii, scilicet ex una parte ponatur affirmativa
finita, et sub ea negativa infinita, et sub ista negativa privativa. Ex altera
parte primo negativa finita, et sub ea affirmativa infinita, et sub ea
affirmativa privativa. Deinde sub illa figura formetur alia figura similis illi
universaliter: ponatur scilicet ex una parte universalis affirmativa de praedicato
finito, et sub ea particularis negativa de praedicato infinito, et ad
complementum similitudinis sub ista particularis negativa de praedicato
privativo; ex altera vero parte ponatur primo particularis negativa de
praedicato infinito, et sub ea universalis affirmativa de praedicato finito, et
sub ista universalis affirmativa de praedicato privativo, hoc modo: (Figura).
Quibus ita dispositis, exerceatur consequentia semper in ista proxima figura,
sicut supra in indefinitis exercita est: sive sequendo expositionem Ammonii, ut
infinitae se habeant ad finitas, sicut privativae se habent ad ipsas finitas;
finitae autem non se habeant ad infinitas medias, sicut privativae se habent ad
ipsas infinitas: sive sectando expositionem Porphyrii, ut affirmativae inferant
negativas, et non e contra. Utrique enim expositioni suprascriptae deserviunt
figurae, ut patet diligenter indaganti. Similiter ergo se habent enunciationes
istae universales ad indefinitas in tribus, scilicet in numero propositionum,
et numero oppositionum, et modo consequentiae. A table will make it evident
that the consequence is similar in these and in indefinite eminciations. And
lest what is clear be made obscure by prolixity let us first make a diagram of
the indefinites posited in the last lesson, based upon the exposition of
Porphyry. Place the finite affirmative on one side and under it the infinite
negative, and under this the privative negative. On the other side put the
finite negative first, under it the infinite affirmative, and under this the
privative affirmative. Then under this diagram make another similar to it but
of universals. On one side put the universal affirmative of the finite
predicate, under it the particular negative of the infinite predicate, and to
complete the parallel put the particular negative of the privative predicate
under this. On the other side, first put the particular negative of the
infinite predicate, under it the universal affirmative of the finite
predicate,” and under this the universal affirmative of the privative
predicate. Thus: DIAGRAM OF THE INDEFINITES Man is just Man is not just Man is
not non-just Man is non-just Man is not unjust Man is unjust DIAGRAM OF THE
UNIVERSALS Every man is just Not every man is just. Not every man is non-just
Every man is non-just Not every man is unjust Every man is unjust In this
disposition of enunciations, the consequence always follows in the second
diagram just as it followed in regard to indefinites in the first diagram. This
is true if we follow the exposition of Ammonius in which infinites are related
to finites as privatives are related to the same finites, and the finites not
related to the infinite middle enunciatious as privatives are related to those
infinites. It is equally true if we follow the exposition of Porphyry, in which
affirmatives infer negatives and not vice versa. That the tables serve both
expositions will be clear to one studying them. These universal enunciations,
therefore, are related in like manner to indefinite entinciations in three things:
the number of propositions, the number of oppositions, and the mode of consequence.
4 Deinde cum dicit: sed non similiter angulares etc., ponit dissimilitudinem
inter istas universales et supradictas indefinitas, in hoc quod angulares non
similiter contingit veras esse. Quae verba primo exponenda sunt secundum eam,
quam credimus esse ad mentem Aristotelis, expositionem; deinde secundum alios.
Angulares enunciationes in utraque figura suprascripta vocat eas quae sunt
diametraliter oppositae, scilicet affirmativam finitam ex uno angulo, et
affirmativam infinitam sive privativam ex alio angulo: et similiter negativam
finitam ex uno angulo, et negativam infinitam vel privativam ex alio angulo. When
he says, But it is not possible, in the same way as in the former case, that
those on the diagonal both be true, etc., he proposes a difference between the
universals and the indefinites, i.e., that it is not possible for the diagonals
to be true in the case of universals. First we will explain these words
according to the exposition we believe Aristotle had in mind, then according to
the opinion of others. Aristotle means by diagonal eminciations those that are
diametrically opposed in the diagram above, i.e., the finite affirmative in one
corner and the infinite affirmative or the privative in the other; and the
finite negative in one corner and the, infinite negative or privative in the other.
5 Enunciationes ergo in qualitate similes angulares vocatae, eo quod angulares,
idest diametraliter distant, dissimilis veritatis sunt apud indefinitas et
universales. Angulares enim indefinitae tam in diametro affirmationum, quam in
diametro negationum possunt esse simul verae, ut patet in suprascripta figura
indefinitarum. Et hoc intellige in materia contingenti. Angulares vero in
figura universalium non sic se habent, quoniam angulares secundum diametrum
affirmationum impossibile est esse simul veras in quacumque materia. Angulares
autem secundum diametrum negationum quandoque possunt esse simul verae, quando
scilicet fiunt in materia contingenti: in materia enim necessaria et remota
impossibile est esse ambas veras. Haec est Boethii, quam veram credimus, expositio.
Enunciations that are similar in quality, and called diagonal because
diametrically distant, are dissimilar in truth, tben, in the case of
indefinites and universals. The indefinites on the corners, both oil the
diagonal of affirmations and the diagonal of negations can be simultaneously
true, as is evident in the table of the indefinite entinciations. This is to be
understood in regard to contingent matter. But diagonals of universals are not
so related, for angtilars on the diagonal of affirmations cannot be
simultaneously true in any matter. Those on the diagonal of negations, however,
can sometimes be true simultaneously, i.e., when they are in contingerlt
matter. In necessary and rernote matter it is impossible for both of these to
be true. This is the exposition of Boethitis, which we believe to be the true
one. 6 Herminus autem, Boethio referente, aliter exponit. Licet enim ponat
similitudinem inter universales et indefinitas quoad numerum enunciationum et
oppositionum, oppositiones tamen aliter accipit in universalibus et aliter in
indefinitis. Oppositiones siquidem indefinitarum numerat sicut et nos
numeravimus, alteram scilicet inter finitas affirmativam et negativam, et
alteram inter infinitas affirmativam et negativam, quemadmodum nos fecimus.
Universalium vero non sic numerat oppositiones, sed alteram sumit inter
universalem affirmativam finitam et particularem negativam finitam, scilicet
omnis homo est iustus, non omnis homo est iustus, et alteram inter eamdem
universalem affirmativam finitam et universalem affirmativam infinitam,
scilicet omnis homo est iustus, omnis homo est non iustus. Inter has enim est
contrarietas, inter illas vero contradictio. Dissimilitudinem etiam
universalium ad indefinitas aliter ponit. Non enim nobiscum fundat
dissimilitudinem inter angulares universalium et indefinitarum supra
differentiam quae est inter angulares universalium affirmativas et negativas,
sed supra differentiam quae est inter ipsas universalium angulares inter se ex
utraque parte. Format namque talem figuram, in qua ex una parte sub universali
affirmativa finita, universalis affirmativa infinita est; et ex alia parte sub
particulari negativa finita, particularis negativa infinita ponitur; sicque
angulares sunt disparis qualitatis, et similiter indefinitarum figuram format
hoc modo: (Figura). Quibus ita dispositis, ait in hoc stare dissimilitudinem,
quod angulares indefinitarum mutuo se invicem compellunt ad veritatis sequelam,
ita quod unius angularis veritas suae angularis veritatem infert undecumque
incipias. Universalium vero angulares non se mutuo compellunt ad veritatem, sed
ex altera parte necessitas deficit illationis. Si enim incipias ab aliquo
universalium et ad suam angularem procedas, veritas universalis non ita potest
esse simul cum veritate angularis, quod compellit eam ad veritatem: quia si
universalis est vera, sua universalis contraria erit falsa: non enim possunt
esse simul verae. Et si ista universalis contraria est falsa, sua
contradictoria particularis, quae est angularis primae universalis assumptae,
erit necessario vera: impossibile est enim contradictorias esse simul falsas. Si
autem incipias e converso ab aliqua particularium et ad suam angularem
procedas, veritas particularis ita potest stare cum veritate suae angularis,
quod tamen non necessario infert eius veritatem: quia licet sequatur:
particularis est vera; ergo sua universalis contradictoria est falsa; non tamen
sequitur ultra: ista universalis contradictoria est falsa; ergo sua universalis
contraria, quae est angularis particularis assumpti, est vera. Possunt enim
contrariae esse simul falsae. Herminus, however, according to Boethius,
explains this in another way. He takes the oppositions in one way in universals
and in another in indefinites, although he holds that there is a likeness
between universals and indefinites with respect to the n timber of enunciations
and of oppositions. He arrives at the oppositions of indefinites we have, i.e.,
one between the affirmative and negative finites, and the other between the
affirmative and negative infinites. But he disposes the oppositions of
universals in another way, taking one between the finite universal affirmative
and finite particular negative, "Every man is just” and "Not every
man is just,” and the other between the same finite universal affirmative and
the infinite universal affirmative, "Every man is just” and "Every
man is non-just.” Between the latter there is contrariety, between the former
contradiction. He also proposes the dissimilarity between universals and
indefinites in another way. He does not base the dissimilarity between
diagonals of universals and indefinites on the difference between affirinative
and negative diagonals of universals, as we do, but on the difference between
the diagonals of universals on both sides among themselves. Hence he forms his
diagram in this way: under the finite universal affirmative be places the
infinite universal affirmative, and on the other side, under the finite
particular negative the infinite particular negative. Thus the diagonals are of
different quality. He also diagrams the indefinites in this way. Every man is
just? contradictories? Not every man is just contraries subcontraries Every man
is non-just? contradictories? Not every man is non-just Man is just Man is
non-just Man is not just Man is not non-just With enunciations disposed in this
way he says their difference is this: that in indefinite enunciations, one on
the diagonal is true as a necessary consequence of the truth of the other, so
that the truth of one enunciation infers the truth of its diagonal from
wherever you begin * But there is no such mutual necessary consequence in
universals—from the truth of one on a diagonal to the other—since the necessity
of inference fails in part. If you begin from any of the universals and proceed
to its diagonal, the truth of the universal cannot be simultaneous with the truth
of its diagonal so as to compel it to truth. For if the universal is true its
universal contrary will be false, since they cannot be at once true; and if
this universal contrary is false, its particular contradictory, which is the
diagonal of the first universal assumed, will necessarily be true, since it is
impossible for contradictories to be at once false; but if, conversely, you
begin with a particular enunciation and proceed to its diagonal, the truth of
the particular can so stand with the truth of its diagonal that it does not
infer its truth necessarily. For this follows: the particular is true,
therefore its universal contradictory is false. But this does not follow: this
universal contradictory is false, therefore its universal contrary, which is the
diagonal of the particular assumed, is true. For contraries can be at once false.
7 Sed videtur expositio ista deficere ab Aristotelis mente quoad modum sumendi
oppositiones. Non enim intendit hic loqui de oppositione quae est inter finitas
et infinitas, sed de ea quae est inter finitas inter se, et infinitas inter se.
Si enim de utroque modo oppositionis exponere volumus, iam non duas, sed tres
oppositiones inveniemus: primam inter finitas, secundam inter infinitas,
tertiam quam ipse herminus dixit inter finitam et infinitam. Figura etiam quam
formavit, conformis non est ei, quam Aristoteles in fine I priorum formavit, ad
quam nos remisit, cum dixit: haec igitur quemadmodum in resolutoriis dictum
est, sic sunt disposita. In Aristotelis namque figura, angulares sunt
affirmativae affirmativis, et negativae negativis. But the way in which
oppositions are taken in this exposition does not seem to be what Aristotle had
in mind. He did not intend to speak here of the opposition between finites and
infinites, but of the opposition between finites themselves and infinites
themselves. For if we meant to explain each mode of opposition, there would not
be two but three oppositions: first, between finites; second, between
infinites; and third, the one Herminus states between finite and infinite. Even
the diagram Herminus makes is not like the one Aristotle makes at the end of I
Priorum, to which Aristotle himself referred us in the last lesson when he
said, This, then, is the way these are arranged, as we have said in the
Analytics; for in Aristotle’s diagram affirmatives are diagonal to affirmatives
and negatives to negatives. 8 Deinde cum dicit: hae igitur duae etc., concludit
numerum propositionum. Et potest dupliciter exponi; primo, ut ly hae demonstret
universales, et sic est sensus, quod hae universales finitae et infinitae
habent duas oppositiones, quas supra declaravimus; secundo, potest exponi ut ly
hae demonstret enunciationes finitas et infinitas quoad praedicatum sive
universales sive indefinitas, et tunc est sensus, quod hae enunciationes
supradictae habent duas oppositiones, alteram inter affirmationem finitam et
eius negationem, alteram inter affirmationem infinitam et eius negationem.
Placet autem mihi magis secunda expositio, quoniam brevitas cui Aristoteles
studebat, replicationem non exigebat, sed potius quia enunciationes finitas et
infinitas quoad praedicatum secundum diversas quantitates enumeraverat, ad duas
oppositiones omnes reducere, terminando earum tractatum, voluit. Then Aristotle
says, These two pairs, then, are opposed, etc. Here he concludes to the number
of propositions. What he says here can be interpreted in two ways. In the first
way, "these” designates universals, and thus the meaning is that the
finite and infinite universals have two oppositions, which we have explained
above. In the second, "these” designates enunciations which are finite and
infinite with respect to the predicate, whether universal or indefinite, and
then the meaning is that these enunciations have two oppositions, one between
the finite affirmation and its negation and the other between the infinite
affirmation and its negation. The second exposition seems more satisfactory to
me, for the brevity for which, Aristotle strove allows for no repetition;
hence, in terminating his treatment of the enunciations he had enumerated—those
with a finite and infinite predicate according to diverse quantities—he meant
to reduce all the oppositions to two. 9 Deinde
cum dicit: aliae autem ad id quod est etc., intendit declarare diversitatem
enunciationum de tertio adiacente, in quibus subiicitur nomen infinitum. Et
circa hoc tria facit: primo, proponit et distinguit eas; secundo, ostendit quod
non dantur plures supradictis; ibi: magis autem etc.; tertio, ostendit
habitudinem istarum ad alias; ibi: hae autem extra et cetera. Ad evidentiam
primi advertendum est tres esse species enunciationum de inesse, in quibus
explicite ponitur hoc verbum est. Quaedam sunt, quae subiecto sive finito sive
infinito nihil habent additum ultra verbum, ut, homo est, non homo est. Quaedam
vero sunt quae subiecto finito habent, praeter verbum, aliquid additum sive
finitum sive infinitum, ut, homo est iustus, homo est non iustus. Quaedam autem
sunt quae subiecto infinito, praeter verbum, habent aliquid additum sive
finitum sive infinitum, ut, non homo est iustus, non homo est non iustus. Et
quia de primis iam determinatum est, ideo de ultimis tractare volens, ait:
aliae autem sunt, quae habent aliquid, scilicet praedicatum, additum supra
verbum est, ad id quod est, non homo, quasi ad subiectum, idest ad subiectum
infinitum. Dixit autem quasi, quia sicut nomen infinitum deficit a ratione
nominis, ita deficit a ratione subiecti. Significatum siquidem nominis infiniti
non proprie substernitur compositioni cum praedicato quam importat, est,
tertium adiacens. Enumerat quoque quatuor enunciationes et duas oppositiones in
hoc ordine, sicut in superioribus fecit. Distinguit etiam istas ex finitate vel
infinitate praedicata. Unde primo, ponit oppositiones inter affirmativam et
negativam habentes subiectum infinitum et praedicatum finitum, dicens: ut, non
homo est iustus, non homo non est iustus. Secundo, ponit oppositionem alteram
inter affirmativam et negativam, habentes subiectum infinitum et praedicatum
infinitum, dicens: ut, non homo est non iustus, non homo non est non iustus. When
he says, and there, are two other pairs if something is added to "non-man”
as a subject, etc., he shows the diversity of enunciations when "is” is
added as a third element and the subject is an infinite name. First, he
proposes and distinguishes them; secondly, he shows that there are no more
opposites than these where he says, There will be no more opposites than these;
thirdly, he shows the relationship of these to the others where he says, The
latter, however, are separate from the former and distinct from them, etc. With
respect to the first point, it should be noted that there are three species of
absolute [de inesse] enunciations in which the verb "is” is posited
explicitly. Some have nothing added to the subject—which can be either finite
or infinite—beyond the verb, as in "Man is,” "Non-man is.” Some have,
besides the verb, something either finite or infinite added to a finite
subject, as in "Man is just,” "Man is non-just.” Finally, some have,
besides the verb, something either finite or infinite added to an infinite
subject, as in "Non-man is just,” "Non-man is non-just.” He has
already treated the first two and now intends to take tip the last ones. And
there are two other pairs, he says, that have something, namely a predicate.
added beside the verb "is” to "non-man” as if to a subject, i.e., to
an infinite subject. He says "as if” because the infinite name falls short
of the notion of a subject insofar as it falls short of the notion of a name.
Indeed, the signification of an infinite name is not properly submitted to
composition with the predicate, which "is,” the third element added,
introduces. Aristotle enumerates four enunciations and two oppositions in this
order as he did in the former. In addition he distinguishes these from the
former finiteness and infinity. First, he posits the opposition between
affirmative and negative enunciations with an infinite subject and a finite
predicate, "Non-man is just,” "Non-man is not just.” Then he posits
another opposition between those with an infinite subject and an infinite
predicate, "Non-man is non-just,” "Non-man is not non-just. 10 Deinde
cum dicit: magis autem plures etc., ostendit quod non dantur plures
oppositiones enunciationum supradictis. Ubi notandum est quod enunciationes de
inesse, in quibus explicite ponitur hoc verbum est, sive secundum, sive tertium
adiacens, de quibus loquimur, non possunt esse plures quam duodecim supra
positae; et consequenter oppositiones earum secundum affirmationem et
negationem non sunt nisi sex. Cum enim in tres ordines divisae sint
enunciationes, scilicet in illas de secundo adiacente, in illas de tertio
subiecti finiti, et in illas de tertio subiecti infiniti, et in quolibet ordine
sint quatuor enunciationes; fiunt omnes enunciationes duodecim, et oppositiones
sex. Et quoniam subiectum earum in quolibet ordine potest quadrupliciter
quantificari, scilicet universalitate, particularitate, et singularitate et
indefinitione; ideo istae duodecim multiplicantur in quadraginta octo. Quater
enim duodecim quadraginta octo faciunt. Nec possibile est plures his imaginari.
Et licet Aristoteles nonnisi viginti harum expresserit, octo in primo ordine,
octo in secundo, et quatuor in tertio, attamen per eas reliquas voluit
intelligi. Sunt autem sic enumerandae et ordinandae secundum singulos ordines,
ut affirmationi negatio prima ex opposito situetur, ut oppositionis intentum
clarius videatur. Et sic contra universalem affirmativam non est ordinanda
universalis negativa, sed particularis negativa, quae est illius negatio; et e
converso, contra particularem affirmativam non est ordinanda particularis
negativa, sed universalis negativa quae est eius negatio. Ad clarius autem
intuendum numerum, coordinandae sunt omnes, quae sunt similis quantitatis,
simul in recta linea, distinctis tamen ordinibus tribus supradictis. Quod ut
clarius elucescat, in hac subscripta videatur figura: (Figura). Quod autem
plures his non sint, ex eo patet quod non contingit pluribus modis variari
subiectum et praedicatum penes finitum et infinitum, nec pluribus modis
variantur finitum et infinitum subiectum. Nulla enim enunciatio de secundo
adiacente potest variari penes praedicatum finitum vel infinitum, sed tantum
penes subiectum quod sufficienter factum apparet. Enunciationes autem de tertio
adiacente quadrupliciter variari possunt, quia aut sunt subiecti et praedicati
finiti, aut utriusque infiniti, aut subiecti finiti et praedicati infiniti, aut
subiecti infiniti et praedicati finiti. Quarum nullam praetermissam esse
superior docet figura. Then he says, There will be no more opposites than
these. Here he points out that there are no more oppositions of enunciations
than the ones be has already given. We should note, then, that simple [or absolute]
enunciations—of which we have been speaking—in which the verb "is” is
explicitly posited whether it is the second or third element added, cannot be
more than the twelve posited. Consequently, their oppositions according to
affirmation and negation are only six. For enunciations are divided into three
orders: those with the second element added, those with the third element added
to a finite subject, and those with the third element added to an infinite
subject; and in any order there are four enunciations. And since their subject
in any order can be quantified in four ways, i.e., by universality,
particularity, singularity, and indefiniteness, these twelve will be increased
to fortyeight (four twelves being forty-eight). Nor is it possible to imagine more
than these. Aristotle has only expressed twenty of these, eight in the first
order, eight in the second, and four in the third, but through them be intended
the rest to be understood. They are to be enumerated and disposed according to
each order so that the primary negation is placed opposite an affirmation in
order to make the relation of opposition more evident. Thus, the universal
negative should not be ordered as opposite to the universal affirmative, but
the particular negative, which is its negation. Conversely, the particular
negative should not be ordered as opposite to the particular affirmative, but
the universal negative, which is its negation. For a clearer look at their
number all those of similar quantity should be co-ordered in a straight line
and in the three distinct orders given above. The following diagram will make
this clear. FIRST ORDER Socrates is Socrates is not Non-Socrates is
Non-Socrates is not Some man is Some man is not Some non-man is Some non-man is
not Man is Man is not Non-man is Non-man is not Every man is No man is Every
non-man is No non-man is SECOND ORDER Socrates is just Socrates is not just
Socrates is non-just Socrates is not non-just Some man is just Some man is not
just Some man is non-just Some man is not non-just Man is just Man is not just
Man is non-just Man is not non-just Every man is just No man is just Every man
is non-just No man is non-just THIRD ORDER Non-Socrates is just Non-Socrates is
not just Non-Socrates is non-just Non-Socrates is not non-just Some non-man is
just Some non-man is not just Some non-man is non-just Some non-man is not
non-just Non-man is just Non-man is not just Non-man is non-just Non-man is not
non-just Every non-man is just No non-man is just Every non-man is non-just No
non-man is non-just It is evident that there are no more than these, for the
subject and the predicate cannot be varied in any other way with respect to
finite and infinite. Nor can the finite and infinite subject be varied in any
other way, for the enunciation with a second adjoining element cannot be varied
with a finite and infinite predicate but only in respect to the subject. This
is clear enough. But enunciations with a third adjoining element can be varied
in four ways: they may have either a finite subject and predicate, or an
infinite subject and predicate, or a finite subject and infinite predicate, or
an infinite subject and finite predicate. These variations are all evident in
the above table. 11 Deinde cum dicit: hae autem extra illas etc., ostendit
habitudinem harum quas in tertio ordine numeravimus ad illas, quae in secundo
sitae sunt ordine, et dicit quod istae sunt extra illas, quia non sequuntur ad
illas, nec e converso. Et rationem assignans subdit: ut nomine utentes eo quod
est non homo, idest ideo istae sunt extra illas, quia istae utuntur nomine
infinito loco nominis, dum omnes habent subiectum infinitum. Notanter autem
dixit enunciationes subiecti infiniti uti ut nomine, infinito nomine, quia cum
subiici in enunciatione proprium sit nominis, praedicari autem commune nomini
et verbo, omne subiectum enunciationis ut nomen subiicitur. Then when he says,
The latter, however, are separate from the former and distinct from them, etc.,
he shows the relationship of those we have put in the third order to those in
the second order. The former, he says, are distinct from the latter because
they do not follow upon the latter, nor conversely. He assigns the reason when
he adds: because of the use of "non-man” as a name, i.e., the former are
separate from the latter because the former use an infinite name in place of a
name, since they all have an infinite subject. It should be noted that he says
enunciations of an infinite subject use an infinite name as a name; for to be
subjected in an enunciation is proper to a name, to be predicated common to a
name and a verb, and therefore every subject of an enunciation is subjected as
a name. 12 Deinde cum dicit: in his vero in quibus est etc., determinat de
enunciationibus in quibus ponuntur verba adiectiva. Et circa hoc tria facit:
primo, distinguit eas; secundo, respondet cuidam tacitae quaestioni; ibi: non
enim dicendum est etc.; tertio, concludit earum conditiones; ibi: ergo et
caetera eadem et cetera. Ad evidentiam primi resumendum est, quod inter
enunciationes in quibus ponitur est secundum adiacens, et eas in quibus ponitur
est tertium adiacens talis est differentia quod in illis, quae sunt de secundo
adiacente, simpliciter fiunt oppositiones, scilicet ex parte subiecti tantum
variati per finitum et infinitum; in his vero, quae habent est tertium adiacens
dupliciter fiunt oppositiones, scilicet et ex parte praedicati et ex parte
subiecti, quia utrumque variari potest per finitum et infinitum. Unde unum
ordinem tantum enunciationum de secundo adiacente fecimus, habentem quatuor
enunciationes diversimode quantificatas et duas oppositiones. Enunciationes
autem de tertio adiacente oportuit partiri in duos ordines, quia sunt in eis
quatuor oppositiones et octo enunciationes, ut supra dictum est. Considerandum
quoque est quod enunciationes, in quibus ponuntur verba adiectiva, quoad
significatum aequivalent enunciationibus de tertio adiacente, resoluto verbo
adiectivo in proprium participium et est, quod semper fieri licet, quia in omni
verbo adiectivo clauditur verbum substantivum. Unde idem significant ista,
omnis homo currit, quod ista, omnis homo est currens. Propter quod Boethius
vocat enunciationes cum verbo adiectivo de secundo adiacente secundum vocem, de
tertio autem secundum potestatem, quia potest resolvi in tertium adiacens, cui
aequivalet. Quoad numerum autem enunciationum et oppositionum, enunciationes
verbi adiectivi formaliter sumptae non aequivalent illis de tertio adiacente,
sed aequivalent enunciationibus, in quibus ponitur est secundum adiacens. Non
possunt enim fieri oppositiones dupliciter in enunciationibus adiectivis,
scilicet ex parte subiecti et praedicati, sicut fiebant in substantivis de
tertio adiacente, quia verbum, quod praedicatur in adiectivis, infinitari non
potest. Sed oppositiones adiectivarum fiunt simpliciter, scilicet ex parte
subiecti tantum variati per infinitum et finitum diversimode quantificati,
sicut fieri didicimus supra in enunciationibus substantivis de secundo
adiacente, eadem ducti ratione, quia praeter verbum nulla est affirmatio vel
negatio, sicut praeter nomen esse potest. Quia autem in praesenti tractatu non
de significationibus, sed de numero enunciationum et oppositionum sermo
intenditur, ideo Aristoteles determinat diversificandas esse enunciationes
adiectivas secundum modum, quo distinctae sunt enunciationes in quibus ponitur
est secundum adiacens. Et ait quod in his enunciationibus, in quibus non
contingit poni hoc verbum est formaliter, sed aliquod aliud, ut, currit, vel,
ambulat, idest in enunciationibus adiectivis, idem faciunt quoad numerum
oppositionum et enunciationum sic posita, scilicet nomen et verbum, ac si est
secundum adiacens subiecto nomini adderetur. Habent enim et istae adiectivae,
sicut illae, in quibus ponitur est, duas oppositiones tantum, alteram inter finitas,
ut, omnis homo currit, omnis homo non currit, alteram inter infinitas quoad
subiectum, ut, omnis non homo currit, omnis non homo non currit. Next he takes
up enunciations in which adjective verbs are posited, when he says, In
enunciations in which "is” does not join the predicate to the subject,
etc. First, he distinguishes these adjective verbs; secondly, he answers an
implied question where he says, We must not say "non-every man,” etc.;
thirdly, he concludes with their conditions where he says, All else in the
enunciations in which "is” does not join the predicate to the subject will
be the same, etc. It is necessary to note here that there is a difference
between enunciations in which "is” is posited as a second adjoining element
and those in which it is posited as a third element. In those with "is” as
a second element oppositions are simple, i.e., varied only on the part of the
subject by finite and infinite. In those having "is” as a third element
oppositions are made in two ways—on the part of the predicate and on the part
of the subject—for both can be varied by finite and infinite. Hence we made
only one order of enunciations with "is” as the second element. It had
four enunciations quantified in diverse ways, and two oppositions. But enunciations
with "is” as a third element must be divided into two orders, because in
them there are four oppositions and eight enunciations, as we said above.
Enunciations with adjective verbs are made equivalent in signification to
enunciations with "is” as the third element by resolving the adjective
verb into its proper participle and "is,” which may always be done because
a substantive verb is contained in every adjective verb. For example,
"Every man runs” signifies the same thing as "Every man is running.”
Because of this Boethius calls enunciations having an adjective verb
"eminciations of the second adjoining element according to vocal sound,
but of the third adjoining element according to power.” He designates them in
this manner because they can be resolved into enunciations with a third
adjoining element to which they are equivalent. With respect to the number and
oppositions of enunciations, those with an adjective verb, formally taken, are
not equivalent to those with a third adjoining element but to those in which
"is” is posited as the second element. For oppositions cannot be made in
two ways in adjectival enunciations as they are in the case of substantival
enunciations with a third adjoining element, namely, on the part of the subject
and predicate, because the verb which is predicated in adjectival enunciations
cannot be made infinite. Hence oppositions of adjectival enunciations are made
simply, i.e., only by the subject quantified in diverse ways being varied by
finite and infinite, as was done above in substantival enunciations with a
second adjoining element, and for the same reason, i.e., there can be no
affirmation or negation without a verb but there can be without a name. Since
the present treatment is not of significations but of the number of
enunciations and oppositions, Aristotle determines that adjectival enunciations
are to be diversified according to the mode in which enunciations with
"is” as the second adjoining element are distinguished. And he says that
in enunciations in which the verb "is” is not posited formally, but some
other verb, such as "matures” or "walks,” i.e., in adjectival
enunciations, the name and verb form the same scheme with respect to the number
of oppositions and enunciations as when is as a second adjoining element is
added to the name as a subject. For these adjectival enunciations, like the
ones in which "is” is posited, have only two oppositions, one between the
finites, as in "Every man runs,” "Not every man runs,” the other between
the infinites with respect to subject, as in "Every non-man runs,”
"Not every non-man runs.” 13 Deinde cum dicit: non enim dicendum est etc.,
respondet tacitae quaestioni. Et circa hoc facit duo: primo, ponit solutionem
quaestionis; deinde, probat eam; ibi: manifestum est autem et cetera. Est ergo
quaestio talis: cur negatio infinitans numquam addita est supra signo
universali aut particulari, ut puta, cum vellemus infinitare istam, omnis homo
currit, cur non sic infinitata est, non omnis homo currit, sed sic, omnis non
homo currit? Huic namque quaestioni respondet, dicens quod quia nomen
infinitabile debet significare aliquid universale, vel singulare; omnis autem
et similia signa non significant aliquid universale aut singulare, sed quoniam
universaliter aut particulariter; ideo non est dicendum, non omnis homo, si
infinitare volumus (licet debeat dici, si negare quantitatem enunciationis
quaerimus), sed negatio infinitans ad ly homo, quod significat aliquid
universale, addenda est, et dicendum, omnis non homo. Then he answers an implied
question when he says, We, must not say "non-every man” but must add the
negation to man, etc. First he states the solution of the question, then he
proves it where he says, This is evident from the following, etc. The question
is this: Why is the negation that makes a word infinite never added to the
universal or particular sign? For example, when we wish to make "Every man
runs” infinite, why do we do it in this way "Every non-man runs,” and not
in this, "Non-every man runs.” He answers the question by saying that to
be capable of being made infinite a name has to signify something universal or
singular. "Every” and similar signs, however, do not signify something
universal or singular, but that something is taken universally or particularly.
Therefore, we should not say "non-every man” if we wish to infinitize
(although it may be used if we wish to deny the quantity of an enunciation),
but must add the infinitizing negation to "man,” which signifies something
universal, and say "every non-man.” 14 Deinde cum dicit: manifestum est
autem ex eo quod est etc., probat hoc quod dictum est, scilicet quod omnis et
similia non significant aliquod universale, sed quoniam universaliter tali
ratione. Illud, in quo differunt enunciationes praecise differentes per habere
et non habere ly omnis, est non universale aliquod, sed quoniam universaliter;
sed illud in quo differunt enunciationes praecise differentes per habere et non
habere ly omnis, est significatum per ly omnis; ergo significatum per ly omnis
est non aliquid universale, sed quoniam universaliter. Minor huius rationis,
tacita in textu, ex se clara est. Id enim in quo, caeteris paribus, habentia a
non habentibus aliquem terminum differunt, significatum est illius termini.
Maior vero in littera exemplariter declaratur sic. Illae enunciationes homo
currit, et omnis homo currit, praecise differunt ex hoc, quod in una est ly
omnis, et in altera non. Tamen non ita differunt ex hoc, quod una sit
universalis, alia non universalis. Utraque enim habet subiectum universale,
scilicet ly homo, sed differunt, quia in ea, ubi ponitur ly omnis, enunciatur
de subiecto universaliter, in altera autem non universaliter. Cum enim dico,
homo currit, cursum attribuo homini universali, sive communi, sed non pro tota
humana universitate; cum autem dico, omnis homo currit, cursum inesse homini
pro omnibus inferioribus significo. Simili modo declarari potest de tribus
aliis, quae in textu adducuntur, scilicet, homo non currit, respectu suae
universalis universaliter, omnis homo non currit: et sic de aliis. Relinquitur
ergo, quod, omnis et nullus et similia signa nullum universale significant, sed
tantummodo significant, quoniam universaliter de homine affirmant vel negant. Where
he says, This is evident from the following, etc., he proves that "every”
and similar words do not signify a universal but that a universal is taken
universally. His argument is the following: That by which enunciations having
or not having the "every” differ is not the universal; rather, they differ
in that the universal is taken universally. But that by which enunciations
having and not having the "every” differ is signified by the "every.”
Therefore, that which is signified by the "every” is not a universal but
that the universal is taken universally. The minor of the argument is evident,
though not explicitly given in the text: that in which the having of some term
differs from the not having of it, other things being equal, is the
signification of that term. The major is made evident by examples. The
enunciations "Man matures” and "Every man matures” differ precisely
by the fact that in one there is an "every,” in the other not. However,
they do not differ in such a way by this that one is universal, the other not
universal, for both have the universal subject, "man”; they differ because
in the one in which "every” is posited, the enunciation is of the subject
universally, but in the other not universally. For when I say, "Man
matures,” I attribute maturing to "man” as universal or common but not to
man as to the whole human race; when I say, "Every man matures,” however,
I signify maturing to be present to man according to all the inferiors. This is
evident, too, in the three other examples of enunciations in Aristotle’s text.
For example, "Non-man matures” when its universal is taken universally
becomes "Every non-man matures,” and so of the others. It follows,
therefore, that "every” and "no” and similar signs do not signify a
universal but only signify that they affirm or deny of man universally. 15 Notato
hic duo: primum est quod non dixit omnis et nullus significat universaliter,
sed quoniam universaliter; secundum est, quod addit, de homine affirmant vel
negant. Primi ratio est, quia signum distributivum non significat modum ipsum
universalitatis aut particularitatis absolute, sed applicatum termino
distributo. Cum enim dico, omnis homo, ly omnis denotat universitatem applicari
illi termino homo, ita quod Aristoteles dicens quod omnis significat quoniam
universaliter, per ly quoniam insinuavit applicationem universalitatis
importatam in ly omnis in actu exercito, sicut et in I posteriorum, in
definitione scire applicationem causae notavit per illud verbum quoniam,
dicens: scire est rem per causam cognoscere, et quoniam illius est causa. Ratio
autem secundi insinuat differentiam inter terminos categorematicos et
syncategorematicos. Illi siquidem ponunt significata supra terminos absolute;
isti autem ponunt significata sua supra terminos in ordine ad praedicata. Cum
enim dicitur, homo albus, ly albus denominat hominem in seipso absque respectu
ad aliquod sibi addendum. Cum vero dicitur, omnis homo, ly omnis etsi hominem
distribuat, non tamen distributio intellectum firmat, nisi in ordine ad aliquod
praedicatum intelligatur. Cuius signum est, quia, cum dicimus, omnis homo
currit, non intendimus distribuere hominem pro tota sua universitate absolute,
sed in ordine ad cursum. Cum autem dicimus, albus homo currit, determinamus
hominem in seipso esse album et non in ordine ad cursum. Quia ergo omnis et
nullus, sicut et alia syncategoremata, nil aliud in enunciatione faciunt, nisi
quia determinant subiectum in ordine ad praedicatum, et hoc sine affirmatione
et negatione fieri nequit; ideo dixit quod nil aliud significant, nisi quoniam
universaliter de nomine, idest de subiecto, affirmant vel negant, idest
affirmationem vel negationem fieri determinant, ac per hoc a categorematicis ea
separavit. Potest etiam referri hoc quod dixit, affirmant vel negant, ad ipsa
signa, scilicet omnis et nullus, quorum alterum positive distribuit, alterum
removendo. Two things should be noted here: first, that Aristotle does not say
"every” and "no” signify universally, but that the universal is taken
universally; secondly, that he adds, they affirm or deny of man. The reason for
the first is that the distributive sign does not signify the mode of
universality or of particularity absolutely, but the mode applied to a
distributed term. When I say, "every man” the "every” denotes that
universality is applied to the term "man.” Hence, when Aristotle says
"every” signifies that a universal is taken universally, by the
"that” he conveys the application in actual exercise of the universality
denoted by the "every,” just as in I Posteriorum [2: 71b 10] in the
definition of "to know,” namely, To know scientifically is to know a thing
through its cause and that this is its cause, he signifies by the word
"that” the application of the cause. The reason for the second is to imply
the difference between categorematic and syneategorematic terms. The former apply
what is signified to the terms absolutely; the latter apply what they signify
to the terms in relation to the predicates. For example, in "white man”
the "white” denominates man in himself apart from any regard to something
to be added; but in "every man,” although the "every” distributes
man,” the distribution does not confirm the intellect unless it is under stood
in relation to some predicate. A sign of this is that when we say "Every
man runs” we do not intend to distribute "man” in its whole universality
absolutely, but only in relation to "running.” When we say "White man
runs,” on the other hand, we designate man in himself as "white” and not
in relation to "running.” Therefore, since "every” and "no” and
the other syncategorematic terms do nothing except determine the subject in
relation to the predicate in the enunciation, and this cannot be done without
affirmation and negation, Aristotle says that they only signify that the
affirmation or negation is of a name, i.e., of a subject, universally, i.e.,
they prescribe the affirmation or negation that is being formed, and by this he
separates them from categorematic terms. They affirm, or deny can also be
referred to the signs themselves i.e., "every” and "no,” one of which
distributes positively, the other distributes by removing. 16 Deinde cum dicit:
ergo et caetera eadem etc., concludit adiectivarum enunciationum conditiones.
Dixerat enim quod adiectivae enunciationes idem faciunt quoad oppositionum
numerum, quod substantivae de secundo adiacente; et hoc declaraverat,
oppositionum numero exemplariter subiuncto. Et quia ad hanc convenientiam
sequitur convenientia quoad finitationem praedicatorum, et quoad diversam
subiectorum quantitatem, et earum multiplicationem ex ductu quaternarii in
seipsum, et si qua sunt huiusmodi enumerata; ideo concludit: ergo et caetera,
quae in illis servanda erant, eadem, idest similia istis apponenda sunt. When
he says All else in enunciations in which "is”does not join the predicate
to the subject, etc., he concludes the treatment of the conditions of
adjectival enunciations. He has already stated that adjectival enunciations are
the same with respect to the number of oppositions as substantival enunciations
with "is” as the second element, and has clarified this by a table showing
the number of oppositions. Now, since upon this conformity follows conformity
both with respect to finiteness of predicates and with respect to the diverse
quantity of subjects, and also-if any enunciations of this kind are
enumerated—their multiplication in sets of four, he concludes, Therefore also
the other things, which are to be observed in them, are to be considered the
same, i.e., similar to these. IV. 1. Postquam determinatum est de diversitate
enunciationum, hic intendit removere quaedam dubia circa praedicta. Et circa
hoc facit sex secundum numerum dubiorum, quae suis patebunt locis. Quia ergo
supra dixerat quod in universalibus non similiter contingit angulares esse
simul veras, quia affirmativae angulares non possunt esse simul verae,
negativae autem sic; poterat quispiam dubitare, quae est causa huius
diversitatis. Ideo nunc illius dicti causam intendit assignare talem, quia,
scilicet, angulares affirmativae sunt contrariae inter se; contrarias autem in
nulla materia contingit esse simul veras. Angulares autem negativae sunt
subcontrariae illis oppositae; subcontrarias autem contingit esse simul veras.
Et circa haec duo facit: primo, declarat conditiones contrariarum et
subcontrariarum; secundo, quod angulares affirmativae sint contrariae et quod
angulares negativae sint subcontrariae; ibi: sequuntur vero et cetera. Dicit
ergo resumendo: quoniam in primo dictum est quod enunciatio negativa contraria
illi affirmativae universali, scilicet, omne animal est iustum, est ista, nullum
animal est iustum; manifestum est quod istae non possunt simul, idest in eodem
tempore, neque in eodem ipso, idest de eodem subiecto esse verae. His vero
oppositae, idest subcontrariae inter se, possunt esse simul verae aliquando,
scilicet in materia contingenti, ut, quoddam animal est iustum, non omne animal
est iustum. Having treated the diversity of enunciations Aristotle now answers
certain questions about them. He takes up six points related to the number of
difficulties. These will become evident as we come to them. Since he has said
that in universal enunciations the diagonals in one case cannot be at once true
but can be in another, for the diagonal affirmatives cannot be at once true but
the negatives can,” someone might raise a question as to the cause of this
diversity. Therefore, it is his intention now to assign the cause of this:
namely, that the diagonal affirmatives are contrary to each other, and
contraries cannot be at once true in any matter; but the diagonal negatives are
subcontraries opposed to these and can be at once true. In relation to this he
first states the conditions for contraries and subcontraries. Then he shows
that diagonal affirmatives are contraries and that diagonal negatives are
subcontraries where he says, Now the enunciation "No man is just” follows
upon the enunciation "Every man is nonjust,” etc. By way of resumé,
therefore, he says that in the first book it was said that the negative
enunciation contrary to the universal affirmative "Every animal is just”
is "No animal is just.” It is evident that these cannot be at once true,
i.e., at the same time, nor of the same thing, i.e., of the same subject. But
the opposites of these, i.e., the subcontraries, can sometimes be at once true,
i.e., in contingent matter, as in "Some animal is just” and "Not
every animal is just.” 2 Deinde cum dicit: sequuntur vero etc., declarat quod
angulares affirmativae supra positae sint contrariae, negativae vero
subcontrariae. Et primum quidem ex eo quod universalis affirmativa infinita et
universalis negativa simplex aequipollent; et consequenter utraque earum est
contraria universali affirmativae simplici, quae est altera angularis. Unde
dicit quod hanc universalem negativam finitam, nullus homo est iustus, sequitur
aequipollenter illa universalis affirmativa infinita, omnis homo est non
iustus. Secundum vero declarat ex eo quod particularis affirmativa finita et
particularis negativa infinita aequipollent. Et consequenter utraque earum est
subcontraria particulari negativae simplici, quae est altera angularis, ut in
figura supra posita inspicere potes. Unde subdit quod illam particularem
affirmativam finitam, aliquis homo est iustus, opposita sequitur aequipollenter
(opposita intellige non istius particularis, sed illius universalis affirmativae
infinitae), non omnis homo est non iustus. Haec enim est contradictoria eius.
Ut autem clare videatur quomodo supra dictae enunciationes sint aequipollentes,
formetur figura quadrata, in cuius uno angulo ponatur universalis negativa
finita, et sub ea contradictoria particularis affirmativa finita; ex alia vero
parte locetur universalis affirmativa infinita, et sub ea contradictoria
particularis negativa infinita, noteturque contradictio inter angulares et
collaterales inter se, hoc modo: (Figura). His siquidem sic dispositis, patet
primo ipsarum universalium mutua consequentia in veritate et falsitate, quia si
altera earum est vera, sua angularis contradictoria est falsa; et si ista est
falsa, sua collateralis contradictoria, quae est altera universalis, erit vera,
et similiter procedit quoad falsitatem particularium. Deinde eodem modo
manifestatur mutua sequela. Si enim altera earum est vera, sua angularis
contradictoria est falsa, ista autem existente falsa, sua contradictoria
collateralis, quae est altera particularis erit vera; simili quoque modo procedendum
est quoad falsitatem. When he says, Now the enunciation, "No man is just”
follows upon the enunciation "Every man is nonjust,” etc., he shows that
the diagonal affirmatives previously posited are contraries, the negatives
subcontraries. First he manifests this from the fact that the infinite
universal affirmative and the simple universal negative are equal in meaning,
and consequently each of them is contrary to the simple universal affirmative,
which is the other diagonal. Hence, he says that the infinite universal
affirmative "Every man is non-just” follows upon the finite universal
negative "No man is just,” equivalently. Secondly he shows this from the
fact that the finite particular affirmative and the infinite particular
negative are equal in meaning, and consequently each of these is subcontrary to
the simple particular negative, which is the other diagonal. This you can see
in the previous diagram. He says, then, that the opposite "Not every man
is non-just” follows upon the finite particular "Some man is just”
equivalently (understand "the opposite” not of this particular but of the
infinite universal affirmative, for this is its contradictory). In order to see
clearly how these enunciations are equivalent, make a four-sided figure,
putting the finite universal negative in one corner and under it the
contradictory, the finite particular affirmative. On the other side, put the
infinite universal affirmative and under it the contradictory, the infinite
particular negative. Now indicate the contradiction between diagonals and the
contradiction between collaterals. No man is just equivalents Every man is
non-just contradictories contradictories Some man is just equivalents Not every
man is non-just This arrangement makes the mutual consequence of the universals
in truth and falsity evident, for if one of them is true, its diagonal
contradictory is false; and if this is false, its collateral contradictory,
which is the other universal, will be true. With respect to the falsity of the
particulars the procedure is the same. Their mutual consequence is made evident
in the same way, for if one of them is true, its diagonal contradictory is
false, and if this is false, its contradictory collateral, which is the other
particular, will be true; the procedure is the same with respect to falsity. 3 Sed
est hic unum dubium. In I enim priorum, in fine, Aristoteles ex proposito
determinat non esse idem iudicium de universali negativa et universali
affirmativa infinita; et superius in hoc secundo, super illo verbo: quarum duae
se habent secundum consequentiam, duae vero minime, Ammonius, Porphyrius,
Boethius et sanctus Thomas dixerunt quod negativa simplex sequitur affirmativam
infinitam, sed non e converso. Ad hoc dicendum est, secundum Albertum, quod
negativam finitam sequitur affirmativa infinita subiecto constante; negativa
vero simplex sequitur affirmativam absolute. Unde utrumque dictum verificatur,
et quod inter eas est mutua consequentia cum subiecti constantia, et quod inter
eas non est mutua consequentia absolute. Potest dici secundo, quod supra locuti
sumus de infinita enunciatione quoad suum totalem significatum ad formam
praedicati reductum; et secundum hoc, quia negativa finita est superior
affirmativa infinita, ideo non erat mutua consequentia: hic autem loquimur de
ipsa infinita formaliter sumpta. Unde s. Thomas tunc adducendo Ammonii
expositionem dixit, secundum hunc modum loquendi: negativa simplex, in plus est
quam affirmativa infinita. Textus vero I priorum ultra praedicta loquitur de
finita et infinita in ordine ad syllogismum. Manifestum est autem quod
universalis affirmativa sive finita sive infinita non concluditur nisi in primo
primae. Universalis autem negativa quaecumque concluditur et in secundo primae,
et primo et secundo secundae. However, a question arises with respect to this.
At the end of I Priorum [46: 51b 5], Aristotle determines from what he has
proposed that the judgment of the universal negative and the infinite universal
affirmative is not the same. Furthermore, in the second book of the present
work, in relation to the phrase Of which two are related according to
consequence, two are not. Ammonius, Porphyry, Boethius, and St. Thomas say that
the simple negative follows upon the infinite affirmative and not conversely.”
Albert answers this latter difficulty by pointing out that the infinite
affirmative follows upon the finite negative when the subject is constant, but
the simple negative follows upon the affirmative absolutely. Hence both
positions are verified, for with a constant subject there is a mutual
consequence between them, but there is not a mutual consequence between them
absolutely. We could also answer this difficulty in this way. In Book II,
Lesson 2 we were speaking of the infinite enunciation with the whole of what it
signified reduced to the form of the predicate, and according to this there was
not a mutual consequence, since the finite negative is superior to the infinite
affirmative. But here we are speaking of the infinite itself formally taken.
Hence St. Thomas, when he introduced the exposition of Ammonius in his
commentary on the above passage, said that according to this mode of speaking
the simple negative is wider than the infinite affirmative. In the above mentioned
text in I Priorum [46: 52a 36], Aristotle is speaking of finite and infinite
enunciations in relation to the syllogism. It is evident, however, that the
universal affirmative, whether finite or infinite is only inferred in the first
mode of the first figure, while any universal negative whatever is inferred in
the second mode of the first figure and in the first and second modes of the
second figure. 4 Deinde cum dicit: manifestum est autem etc., movet secundum
dubium de vario situ negationis, an scilicet quoad veritatem et falsitatem
differat praeponere et postponere negationem. Oritur autem haec dubitatio, quia
dictum est nunc quod non refert quoad veritatem si dicatur, omnis homo est non
iustus, aut si dicatur, omnis homo non est iustus; et tamen in altera
postponitur negatio, in altera praeponitur, licet multum referat quoad
affirmationem et negationem. Hanc, inquam, dubitationem solvere intendens cum
distinctione, respondet quod in singularibus enunciationibus eiusdem veritatis
sunt singularis negatio et infinita affirmatio eiusdem, in universalibus autem
non est sic. Si enim est vera negatio ipsius universalis non oportet quod sit
vera infinita affirmatio universalis. Negatio enim universalis est particularis
contradictoria, qua existente vera, non est necesse suam subalternam, quae est
contraria suae contradictoriae esse veram. Possunt enim duae contrariae esse
simul falsae. Unde dicit quod in singularibus enunciationibus manifestum est
quod, si est verum negare interrogatum, idest, si est vera negatio
enunciationis singularis, de qua facta est interrogatio, verum etiam est
affirmare, idest, vera erit affirmatio infinita eiusdem singularis. Verbi
gratia: putasne Socrates est sapiens? Si vera est ista responsio, non; Socrates
igitur non sapiens est, idest, vera erit ista affirmatio infinita, Socrates est
non sapiens. In universalibus vero non est vera, quae similiter dicitur, idest,
ex veritate negationis universalis affirmativae interrogatae non sequitur vera
universalis affirmativa infinita, quae similis est quoad quantitatem et
qualitatem enunciationi quaesitae; vera autem est eius negatio, idest, sed ex
veritate responsionis negativae sequitur veram esse eius, scilicet universalis
quaesitae negationem, idest, particularem negativam. Verbi gratia: putasne
omnis homo est sapiens? Si vera est ista responsio, non; affirmativa similis
interrogatae quam quis ex hac responsione inferre intentaret est illa: igitur
omnis homo est non sapiens. Haec autem non sequitur ex illa negatione. Falsum
est enim hoc, scilicet quod sequitur ex illa responsione; sed inferendum est,
igitur non omnis homo sapiens est. Et ratio utriusque est, quia haec
particularis ultimo illata est opposita, idest contradictoria illi universali
interrogatae quam respondens falsificavit; et ideo oportet quod sit vera.
Contradictoriarum enim si una est falsa, reliqua est vera. Illa vero, scilicet
universalis affirmativa infinita primo illata, est contraria illi eidem
universali interrogatae. Non est autem opus quod si universalium altera sit falsa,
quod reliqua sit vera. In promptu est autem causa huius diversitatis inter
singulares et universales. In singularibus enim varius negationis situs non
variat quantitatem enunciationis; in universalibus autem variat, ut patet. Ideo
fit ut non sit eadem veritas negantium universalem in quarum altera
praeponitur, in altera autem postponitur negatio, ut de se patet. When he says,
And it is also clear with respect to the singular that if a question is asked
and a negative answer is the true one, there is also a true affirmation, etc.,
he presents a difficulty relating to the varying position of the negation,
i.e., whether there is a difference as to truth and falsity when the negation
is a part of the predicate or a part of the verb. This difficulty arises from
what he has just said, namely, that it is of no consequence as to truth or
falsity whether you say, "Every man is non-just” or "Every man is not
just”; yet in one case the negation is a part of the predicate, in the other
part of the copula, and this makes a great deal of difference with respect to
affirmation and negation. To solve this problem Aristotle makes a distinction:
in singular enunciations, the singular negation and infinite affirmation of the
same subject are of the same truth, but in universals this is not so. For if
the negation of the universal is true it is not necessary that the infinite
affirmation of the universal is true. The negation of the universal is the
contradictory particular, but if it is true [i.e., the contradictory particular]
it is not necessary that the subaltern, which is the contrary of the
contradictory, be true, for two contraries can be at once false. Hence he says
that in singular enunciations it is evident that if it is true to deny the
thing asked, i.e., if the negation of a singular enunciation, which has been
made into an interrogation, is true, there will also be a true affirmation,
i.e., the infinite affirmation of the same singular will be true. For example,
if the question "Do you think Socrates is wise?” has "No” as a true
response, then "Socrates is non-wise,” i.e., the infinite affirmation
"Socrates is non-wise” will be true. But in the case of universals the
affirmative inference is not true, i.e., from the truth of a negation to a
universal affirmative question, the truth of the infinite universal affirmative
(which is similar in quantity and quality to the enunciation asked) does not
follow. But the negation is true, i.e., from the truth of the negative response
it follows that its negation is true, i.e., the negation of the universal
asked, which is the particular negative. Consider, for example, the question
"Do you think every man is wise?” If the response "No” is true, one
would be tempted to infer the affirmative similar to the question asked, i.e.,
then "Every man is non-wise.” This, however, does not follow from the
negation, for this is false as it follows from that response. Rather, what must
be inferred is "Then not every man is wise.” And the reason for both is
that the particular enunciation inferred last is the opposite, i.e., the
contradictory of the universal question, which, being falsified by the negative
response, makes the contradictory of the universal affirmative true, for of
contradictories, if one is false the other is true. The infinite universal
affirmative first inferred, however, is contrary to the same universal
question. Should it not also be true? No, because it is not necessary in the
case of universals that if one is false the other is true. The cause of the
diversity between singulars and universals is now clear. In singulars the
varying position of the negation does not vary the quantity of the enunciation
‘ but in universals it does. Therefore there is not the same truth in
enunciations denying a universal when in one the negation is a part of the
predicate and in the other a part of the verb. Cajetanus lib. 2 l. 4 n. 5Deinde
cum dicit: illae vero secundum infinitaetc., solvit tertiam dubitationem, an
infinita nomina vel verba sint negationes. Insurgit autem hoc dubium, quia dictum
est quod aequipollent negativa et infinita. Et rursus dictum est nunc quod non
refert in singularibus praeponere et postponere negationem: si enim infinitum
nomen est negatio, tunc enunciatio, habens subiectum infinitum vel praedicatum,
erit negativa et non affirmativa. Hanc dubitationem solvit per
interpretationem, probando quod nec nomina nec verba infinita sint negationes,
licet videantur. Unde duo circa hoc facit: primo, proponit solutionem dicens:
illae vero, scilicet dictiones, contraiacentes: verbi gratia: non homo, et,
homo non iustus et iustus. Vel sic: illae vero, scilicet dictiones, secundum
infinita, idest secundum infinitorum naturam, iacentes contra nomina et verba
(utpote quae removentes quidem nomina et verba significant, ut non homo et non
iustus et non currit, quae opponuntur contra ly homo ly iustus et ly currit),
illae, inquam, dictiones infinitae videbuntur prima facie esse quasi negationes
sine nomine et verbo ex eo quod comparatae nominibus et verbis contra quae
iacent, ea removent, sed non sunt secundum veritatem. Dixit sine nomine et
verbo quia nomen infinitum, nominis natura caret, et verbum infinitum verbi
natura non possidet. Dixit quasi, quia nec nomen infinitum a nominis ratione,
nec verbum infinitum a verbi proprietate omnino semota sunt. Unde, si
negationes apparent, videbuntur sine nomine et verbo non omnino sed quasi.
Deinde probat distinctiones infinitas non esse negationes tali ratione. Semper
est necesse negationem esse veram vel falsam, quia negatio est enunciatio alicuius
ab aliquo; nomen autem infinitum non dicit verum vel falsum; igitur dictio
infinita non est negatio. Minorem declarat, quia qui dixit, non homo, nihil
magis de homine dixit quam qui dixit, homo. Et quoad significatum quidem
clarissimum est: non homo, namque, nihil addit supra hominem, imo removet
hominem. Quoad veritatis vero vel falsitatis conceptum, nihil magis profuit qui
dixit, non homo, quam qui dixit, homo, si aliquid aliud non addatur, imo minus
verus vel falsus fuit, idest magis remotus a veritate et falsitate, qui dixit,
non homo, quam qui dixit, homo: quia tam veritas quam falsitas in compositione
consistit; compositioni autem vicinior est dictio finita, quae aliquid ponit,
quam dictio infinita, quae nec ponit, nec componit, idest nec positionem nec
compositionem importat. Then he says, The antitheses in infinite names and
verbs, as in " non-man” and "nonjust,” might seem to be negations
without a name or a verb, etc. Here he raises the third difficulty, i.e.,
whether infinite names or verbs are negations. This question arises from his
having said that the negative and infinite are equivalent and from having just
said that in singular enunciations it makes no difference whether the negative
is a part of the predicate or a part of the verb. For if the infinite name is a
negation, then the enunciation having an infinite subject or predicate will be
negative and not affirmative. He resolves this question by an interpretation
which proves that neither infinite names nor verbs are negations although they
seem to be. First he proposes the solution saying, The antitheses in infinite
names and verbs, i.e., words contraposed, e.g., "non-man,” and
"non-just man” and "just man”; or this may be read as, Those (namely,
words) corresponding to infinites, i.e., corresponding to the nature of
infinites, placed in opposition to names or verbs (namely, removing what the
names and verbs signify, as in "non-man,” "non-just,” and
"non-runs,” which are opposed to "man,” "just” and "runs”),
would seem at first sight to be quasi-negations without Dame and verb, because,
as related to the names and verbs before which they are placed, they remove
them; they are not truly negations however. He says without a name or a verb
because the infinite name lacks the nature of a name and the infinite verb does
not have the nature of a verb. He says quasi because the infinite name does not
fall short of the notion of the name in every way, nor the infinite verb of the
nature of the verb. Hence, if it is thought that they are negations, they will
be regarded as without a name or a verb, not in every way but as though they
were without a name or a verb. He proves that infinitizing signs of separation
are not negations by pointing out that it is always necessary for the negation
to be true or false since a negation is an enunciation of something separated
from something. The infinite name, however, does not assert what is true or
false. Therefore the infinite word is not a negation. He manifests the minor
when he says that the one who says "non-man” says nothing more of man than
the one who says "man.” Clearly this is so with respect to what is
signified, for "non-man” adds nothing beyond "man”; rather, it
removes "man.” Moreover, with respect to a conception of truth or falsity,
it is of no more use to say "non-man” than to say "man” if something
else is not added; rather, it is less true or false, i.e., one who says non-man
is more removed from truth and falsity than one who says man,” for both truth
and falsity depend on composition, and the finite word which posits something
is closer to composition than the infinite word, which neither posits nor
composes, i.e., it implies neither positing nor composition. 6 Deinde cum
dicit: significat autem etc., respondet quartae dubitationi, quomodo scilicet
intelligatur illud verbum supradictum de enunciationibus habentibus subiectum
infinitum: hae autem extra illas, ipsae secundum se erunt. Et ait quod
intelligitur quantum ad significati consequentiam, et non solum quantum ad
ipsas enunciationes formaliter. Unde duas habentes subiectum infinitum,
universalem scilicet affirmativam et universalem negativam adducens, ait quod
neutra earum significat idem alicui illarum, scilicet habentium subiectum
finitum. Haec enim universalis affirmativa, omnis non homo est iustus, nulli
habenti subiectum finitum significat idem: non enim significat idem quod ista,
omnis homo est iustus; neque quod ista, omnis homo est non iustus. Similiter
opposita negatio et universalis negativa habens subiectum infinitum, quae est
contrarie opposita supradictae, scilicet omnis non homo non est iustus, nulli
illarum de subiecto finito significat idem. Et hoc clarum est ex diversitate subiecti
in istis et in illis. When he says, Moreover, "Every non-man is just does
not signify the same thing as any of the other enunciations, etc., he answers a
fourth difficulty, i.e., how the earlier statement concerning enunciations
having an infinite subject is to be understood. The statement was that these
stand by themselves and are distinct from the former [in consequence of using
the name "non-man”]. This is to be understood not just with respect to the
enunciations themselves formally, but with respect to the consequence of what
is signified. Hence, giving two examples of enunciations with an infinite
subject, the universal affirmative and universal negative,” he says that
neither of these signifies the same thing as any of those, namely of those
having a finite subject. The universal affirmative "Every non-man is just”
does not signify the same thing as any of the enunciations with a finite
subject; for it does not signify "Every man is just” nor "Every man
is non-just.” Nor do the opposite negation, or the universal negative having an
infinite subject which is contrarily opposed to the universal affirmative,
signify the same thing as enunciations with a finite subject; i.e., "Not
every non-man is just” and "No non-man is just,” do not signify the same
thing as any of those with a finite subject. This is evident from the diversity
of subject in the latter and the former. Cajetanus lib. 2 l. 4 n. 7Deinde cum
dicit: illa vero quae est etc., respondet quintae quaestioni, an scilicet inter
enunciationes de subiecto infinito sit aliqua consequentia. Oritur autem
dubitatio haec ex eo, quod superius est inter eas ad invicem assignata
consequentia. Ait ergo quod etiam inter istas est consequentia. Nam universalis
affirmativa de subiecto, et praedicato infinitis et universalis negativa de
subiecto infinito, praedicato vero finito, aequipollent. Ista namque, omnis non
homo est non iustus, idem significat illi, nullus non homo est iustus. Idem
autem est iudicium de particularibus indefinitis et singularibus similibus
supradictis. Cuiuscunque enim quantitatis sint, semper affirmativa de utroque
extremo infinita et negativa subiecti quidem infiniti, praedicati autem finiti,
aequipollent, ut facile potes exemplis videre. Unde Aristoteles universales
exprimens, caeteras ex illis intelligi voluit. When he says, But "Every
non-man is non-just” signifies the same thing as "No non-man is just,” he
answers a fifth difficulty, i.e., is there a consequence among enunciations
with an infinite subject? This question arises from the fact that consequences
were assigned among them earlier.” He says, therefore, that there is a
consequence even among these, for the universal affirmative with an infinite
subject and predicate and the universal negative with an infinite subject but a
finite predicate are equivalent, i.e., "Every non-man is non-just”
signifies the same thing as "No non-man is just.” This is also the case in
particular infinites and singulars which are similar to the foresaid, for no
matter what their quantity, the affirmative with both extremes infinite and the
negative with an infinite subject and a finite predicate are always equivalent,
as may be easily seen by examples. Hence, Aristotle in giving the universals
intends the others to be understood from these. Cajetanus lib. 2 l. 4 n.
8Deinde cum dicit: transposita vero nomina etc., solvit sextam dubitationem, an
propter nominum vel verborum transpositionem varietur enunciationis
significatio. Oritur autem haec quaestio ex eo, quod docuit transpositionem
negationis variare enunciationis significationem. Aliud enim dixit significare,
omnis homo non est iustus, et aliud, non omnis homo est iustus. Ex hoc, inquam,
dubitatur, an similiter contingat circa nominum transpositionem, quod ipsa
transposita enunciationem varient, sicut negatio transposita. Et circa hoc duo
facit: primo, ponit solutionem dicens, quod transposita nomina et verba idem
significant: verbi gratia, idem significat, est albus homo, et, est homo albus,
ubi est transpositio nominum. Similiter transposita verba idem significant, ut,
est albus homo, et, homo albus est. When he says, When the names and verbs are
transposed, the enunciations signify the same thing, etc., he resolves a sixth
difficulty: whether the signification of the enunciation is varied because of
the transposition of names or verbs. This question arises from his having shown
that the transposition of the negation varies the signification of the
enunciation. "Every man is non-just,” he said, does not signify the same
thing as "Not every man is just.” This raises the question as to whether a
similar thing happens when we transpose names. Would this vary the enunciation
as the transposed negation does? First he states the solution, saying that
transposed names and verbs signify the same thing, e.g., "Man is white”
signifies the same thing as "White is man.” Transposed verbs also signify
the same thing, as in "Man is white” and "Man white is.” Cajetanus
lib. 2 l. 4 n. 9Deinde cum dicit: nam si hoc non est etc., probat praedictam
solutionem ex numero negationum contradictoriarum ducendo ad impossibile, tali
ratione. Si hoc non est, idest si nomina transposita diversificant
enunciationem, eiusdem affirmationis erunt duae negationes; sed ostensum est in
I libro, quod una tantum est negatio unius affirmationis; ergo a destructione
consequentis ad destructionem antecedentis transposita nomina non variant enunciationem.
Ad probationis autem consequentiae claritatem formetur figura, ubi ex uno
latere locentur ambae suprapositae affirmationes, transpositis nominibus; et ex
altero contraponantur duae negativae, similes illis quoad terminos et eorum
positiones. Deinde, aliquantulo interiecto spatio, sub affirmativis ponatur
affirmatio infiniti subiecti, et sub negativis illius negatio. Et notetur
contradictio inter primam affirmationem et duas negationes primas, et inter
secundam affirmationem et omnes tres negationes, ita tamen quod inter ipsam et
infimam negationem notetur contradictio non vera, sed imaginaria. Notetur
quoque contradictio inter tertiam affirmationem et tertiam negationem inter se.
Hoc modo: (Figura). His ita dispositis, probat consequentiam Aristoteles sic.
Illius affirmationis, est albus homo, negatio est, non est albus homo; illius
autem secundae affirmationis, quae est, est homo albus, si ista affirmatio non
est eadem illi supradictae affirmationi, scilicet, est albus homo, propter
nominum transpositionem, negatio erit altera istarum, scilicet aut, non est non
homo albus, aut, non est homo albus. Sed utraque habet affirmationem oppositam
alia ab illa assignatam, scilicet, est homo albus. Nam altera quidem dictarum
negationum, scilicet, non est non homo albus, negatio est illius quae dicit,
est non homo albus; alia vero, scilicet, non est homo albus, negatio est eius
affirmationis, quae dicit, est albus homo, quae fuit prima affirmatio. Ergo
quaecunque dictarum negationum afferatur contradictoria illi mediae, sequitur
quod sint duae unius, idest quod unius negationis sint duae affirmationes, et
quod unius affirmationis sint duae negationes: quod est impossibile. Et hoc, ut
dictum est, sequitur stante hypothesi erronea, quod illae affirmationes sint
propter nominum transpositionem diversae. Then he proves the solution from the
number of contradictory negations when he says, For if this is not the case
there will be more than one negation of the same enunciation, etc. He does this
by a reduction to the impossible and his reasoning is as follows. If this is
not so, i.e., if transposed names diversify enunciations, there will be two
negations of the same affirmation. But in the first book it was shown that
there is only one negation of one affirmation. Going, then, from the
destruction of the consequent to the destruction of the antecedent, transposed
names do not vary the enunciation. To clarify the proof of the consequent, make
a figure in which both of the affirmations posited above, with the names transposed
are located on one side. Put the two negatives similar to them in respect to
terms and position on the opposite side. Then leaving a little space, under the
affirmatives put the affirmation with an infinite subject and under the
negatives the negation of it. Mark the contradiction between the first
affirmation and the first two negations and between the second affirmation and
all three negations, but in the latter case mark the contradiction between it
and the lowest negation as not true but imaginary. Mark, also, the
contradiction between the third affirmation and negation. (1) Man is white - contradictories
- Man is not white (2) White is man – contradictories - White is not man (3)
Non-man is white - contradictories - Non-man is not white Now we can see how
Aristotle proves the consequent. The negation of the affirmation "Man is
white” is "Man is not white.” But if the second affirmation, "White
is man,” is not the same as "Man is white,” because of the transposition
of the names, its negation, [i.e., of "White is man”] will be either of
these two: "Non-man is not white,” or "White is not man.” But each of
these has another opposed affirmation than that assigned, namely, than
"White is man.” For one of the negations, namely, "Non-man is not
white,” is the negation of "Non-man is white”; the other, "White is
not man” is the negation of the affirmation "Man is white,” which was the
first affirmation. Therefore whatever negation is given as contradictory to the
middle enunciation, it follows that there are two of one, i.e., two
affirmations of one negation, and two negations of one affirmation, which is
impossible. And this, as has been said, follows upon an erroneously set up
hypothesis, i.e., that these affirmations are diverse because of the
transposition of names. 10 Adverte hic primo quod Aristoteles per illas duas
negationes, non est non homo albus, et, non est homo albus, sub disiunctione
sumptas ad inveniendam negationem illius affirmationis, est homo albus,
caeteras intellexit, quasi diceret: aut negatio talis affirmationis
acceptabitur illa quae est vere eius negatio, aut quaecunque extranea negatio
ponetur; et quodlibet dicatur, semper, stante hypothesi, sequitur unius
affirmationis esse plures negationes, unam veram quae est contradictoria suae
comparis habentis nomina transposita, et alteram quam tu ut distinctam
acceptas, vel falso imaginaris; et e contra multarum affirmationum esse unicam
negationem, ut patet in opposita figura. Ex quacunque enim illarum quatuor
incipias, duas sibi oppositas aspicis. Unde notanter concludit indeterminate:
quare erunt duae unius. Notice first that Aristotle through these two
negations, "Non-man is not white” and "White is not man,” taken under
disjunction to find the negation of the affirmation "Man is white,” has
comprehended other things. It is as though he said: The negation which will be
taken will either be the true negation of such an affirmation or some
extraneous negation; and whichever is taken, it always follows, given the
hypothesis, that there are many negations of one affirmation—one which is the
contradictory of it, having equal truth with the one having its name
transposed, and the other which you accept as distinct, or you imagine falsely.
And conversely, there is a single negation of many affirmations, as is clear in
the diagram. Hence, from whichever of these four you begin, you see two opposed
to it. It is significant, therefore, that Aristotle concludes indeterminately:
Therefore, there will be two [negations] of one [affirmation]. 11 Nota secundo
quod Aristoteles contempsit probare quod contradictoria primae affirmationis
sit contradictoria secundae, et similiter quod contradictoria secundae
affirmationis sit contradictoria primae. Hoc enim accepit tamquam per se notum,
ex eo quod non possunt simul esse verae neque simul falsae, ut manifeste patet
praeposito sibi termino singulari. Non stant enim simul aliquo modo istae duae,
Socrates est albus homo, Socrates non est homo albus. Nec turberis quod eas non
singulares proposuit. Noverat enim supra dictum esse in primo quae affirmatio
et negatio sint contradictoriae et quae non, et ideo non fuit sollicitus de
exemplorum claritate. Liquet ergo ex eo quod negationes affirmationum de
nominibus transpositis non sunt diversae quod nec ipsae affirmationes sunt
diversae et sic nomina et verba transposita idem significant. Note secondly
that Aristotle does not consider it important to prove that the contradictory
of the first affirmation is the contradictory of the second, and similarly that
the contradictory of the second affirmation is the contradictory of the first.
This he accepts as self-evident since they can neither be true at the same time
nor false at the same time. This is manifestly clear when a singular term is
placed first, for "Socrates is a white man” and "Socrates is not a
white man” cannot be maintained at the same time in any mode. You should not be
disturbed by the fact that he does not propose these singulars here, for he was
undoubtedly aware that he had already stated in the first book which
affirmation and negation are contradictories and which not and for this reason
felt that a careful elaboration of the examples was not necessary here. It is
therefore evident that since negations of affirmations with transposed names
are not diverse the affirmations themselves are not diverse, and hence
transposed names and verbs signify the same thing. 12 Occurrit autem dubium
circa hoc, quia non videtur verum quod nominibus transpositis eadem sit
affirmatio. Non enim valet: omnis homo est animal; ergo omne animal est homo.
Similiter, transposito verbo, non valet: homo est animal rationale; ergo homo
animal rationale est, de secundo adiacente. Licet enim nugatio committatur,
tamen non sequitur primam. Ad hoc est dicendum quod sicut in rebus naturalibus
est duplex transmutatio, scilicet localis, scilicet de loco ad locum, et
formalis de forma ad formam; ita in enunciationibus est duplex transmutatio,
situalis scilicet, quando terminus praepositus postponitur, et e converso, et
formalis, quando terminus, qui erat praedicatum efficitur subiectum, et e
converso vel quomodolibet, simpliciter et cetera. Et sicut quandoque fit in
naturalibus transmutatio pure localis, puta quando res transfertur de loco ad
locum, nulla alia variatione facta; quandoque autem fit transmutatio secundum
locum, non pura sed cum variatione formali, sicut quando transit de loco
frigido ad locum calidum: ita in enunciationibus quandoque fit transmutatio
pure situalis, quando scilicet nomen vel verbum solo situ vocali variatur;
quandoque autem fit transmutatio situalis et formalis simul, sicut contingit
cum praedicatum fit subiectum, vel cum verbum tertium adiacens fit secundum. Et
quoniam hic intendit Aristoteles de transmutatione nominum et verborum pure
situali, ut transpositionis vocabulum praesefert, ideo dixit quod transposita
nomina et verba idem significant, insinuare volens quod, si nihil aliud praeter
transpositionem nominis vel verbi accidat in enunciatione, eadem manet oratio.
Unde patet responsio ad instantias. Manifestum est namque quod in utraque non
sola transpositio fit, sed transmutatio de subiecto in praedicatum, vel de
tertio adiacente in secundum. Et per hoc patet responsio ad similia. A doubt
does arise, however, about the point Aristotle is making here, for it does not
seem true that with transposed names the affirmation is the same. This, for
example, is not valid: "Every man is an animal”; therefore, "Every
animal is a man.” Nor is the following example with a transposed verb valid:
"Man is a rational animal and (taking "is” as the second element),
therefore "Man animal rational is”; for although it is nugatory as a whole
combination, nevertheless it does not follow upon the first. The answer to this
is as follows. just as there is a twofold transmutation in natural things,
i.e., local, from place to place, and formal, from form to form, so in
enunciations there is a twofold transmutation: a positional transmutation when
a term placed before is placed after, and conversely, and a formal
transmutation when a term that was a predicate is made a subject, and
conversely, or in whatever mode, simply, etc. And just as in natural things
sometimes a purely local transmutation is made (for instance, when a thing is
transferred from place to place, with no other variation made) and sometimes a
transmutation is made according to place—not simply but with a formal variation
(as when a thing passes from a cold place to a hot place), so in enunciations a
transmutation is sometimes made which is purely positional, i.e., when the name
and verb are varied only in vocal position, and sometimes a transmutation is
made which is at once formal and positional, as when the predicate becomes the
subject, or the verb which is the third element added becomes the second.
Aristotle’s purpose here was to treat of the purely positional transmutation of
names and verbs, as the vocabulary of the transposition indicates; when he
says, then, that transposed names and verbs signify the same thing, he intends
to imply that if nothing other than the transposition of name and verb takes
place in the enunciation, what is said remains the same. Hence, the response to
the present objection is clear, for in both examples there is not only a
transposition but a transmutation of subject to predicate in one case, and from
an enunciation with a third element to one with a second element in the other.
The response to similar questions is evident from this. V. 1. Postquam
Aristoteles determinavit diversitatem enunciationis unius provenientem ex
additione negationis infinitatis, hic intendit determinare quid accidat
enunciationi ex hoc quod additur aliquid subiecto vel praedicato tollens eius
unitatem. Et circa hoc duo facit: quia primo, determinat diversitatem earum;
secundo, consequentias earum; ibi: quoniam vero haec quidem et cetera. Circa
primum duo facit: primo, ponit earum diversitatem; secundo, probat omnes
enunciationes esse plures; ibi: si ergo dialectica et cetera. Dicit ergo quoad
primum, resumendo quod in primo dictum fuerat, quod affirmare vel negare unum
de pluribus, vel plura de uno, si ex illis pluribus non fit unum, non est
enunciatio una affirmativa vel negativa. Et declarando quomodo intelligatur
unum debere esse subiectum aut praedicatum, subdit quod unum dico non si nomen
unum impositum sit, idest ex unitate nominis, sed ex unitate significati. Cum
enim plura conveniunt in uno nomine, ita quod ex eis non fiat unum illius
nominis significatum, tunc solum vocis unitas est. Cum autem unum nomen
pluribus impositum est, sive partibus subiectivis, sive integralibus, ut eadem
significatione concludat, tunc et vocis et significati unitas est, et enunciationis
unitas non impeditur. After the Philosopher has treated the diversity in an
enunciation arising from the addition of the infinite negation, he explains
what happens to an enunciation when something is added to the subject or
predicate which takes away its unity. He first determines their diversity, and
then proves that all the enunciations are many where he says, In fact, if
dialectical interrogation is a request for an answer, etc. Secondly, he
determines their consequences, where he says, Some things predicated separately
are such that they unite to form one predicate, etc. He begins by taking up
something he said in the first book: there is not one affirmative enunciation
nor one negative enunciation when one thing is affirmed or denied of many or
many of one, if one thing is not constituted from the many. Then he explains
what he means by the subject or predicate having to be one where he says, I do
not use "one” of those things which, although one name may be imposed, do
not constitute something one, i.e., a subject or predicate is one, not from the
unity of the name, but from the unity of what is signified. For when many
things are brought together under one name in such a way that what is signified
by that name is not one, then the unity is only one of vocal sound. But when
one name has been imposed for many, whether for subjective or for integral
parts, so that it encloses them in the same signification, then there is unity
both of vocal sound and what is signified. In the latter case, unity of the
enunciation is not impeded. 2 Secundum quod subiungit: ut homo est fortasse
animal et mansuetum et bipes obscuritate non caret. Potest enim intelligi ut
sit exemplum ab opposito, quasi diceret: unum dico non ex unitate nominis
impositi pluribus ex quibus non fit tale unum, quemadmodum homo est unum
quoddam ex animali et mansueto et bipede, partibus suae definitionis. Et ne
quis crederet quod hae essent verae definitionis nominis partes, interposuit,
fortasse. Porphyrius autem, Boethio referente et approbante, separat has textus
particulas, dicens quod Aristoteles hucusque declaravit enunciationem illam
esse plures, in qua plura subiicerentur uni, vel de uno praedicarentur plura,
ex quibus non fit unum. In istis autem verbis: ut homo est fortasse etc.,
intendit declarare enunciationem aliquam esse plures, in qua plura ex quibus
fit unum subiiciuntur vel praedicantur; sicut cum dicitur, homo est animal et
mansuetum et bipes, copula interiecta, vel morula, ut oratores faciunt. Ideo
autem addidisse aiunt, fortasse, ut insinuaret hoc contingere posse,
necessarium autem non esse. Then he adds, For example, man probably is an
animal and biped and civilized. This, however, is obscure, for it can be
understood as all example of the opposite, as if he were saying, "I do not
mean by ‘one’ such a ‘one’ as the unity of the name imposed upon many from
which one thing is not constituted, for instance, ‘man’ as ‘one’ from the parts
of the definition, animal and civilized and biped.” And to prevent anyone from
thinking these are true parts of the definition of the name he interposes
perhaps. Porphyry, however, referred to with approval by Boethius, separates
these parts of the text. He says Aristotle first states that that enunciation
is many in which many are subjected to one, or many are predicated of one, when
one thing is not constituted from these. And when he says, For example, man
perhaps is, etc., he intends to show that an enunciation is many when many from
which one thing is constituted are subjected or predicated, as in the example
"Man is an animal and civilized and biped,” with copulas interjected or a
pause such as orators make. He added perhaps, they say, to imply that this
could happen, but it need not. 3 Possumus in eamdem Porphyrii, Boethii et
Alberti sententiam incidentes subtilius textum introducere, ut quatuor hic
faciat. Et primo quidem, resumit quae sit enunciatio in communi dicens:
enunciatio plures est, in qua unum de pluribus, vel plura de uno enunciantur.
Si tamen ex illis pluribus non fit unum, ut in primo dictum et expositum fuit.
Deinde dilucidat illum terminum de uno, sive unum, dicens: dico autem unum,
idest, unum nomen voco, non propter unitatem vocis, sed significationis, ut
supra dictum est. Deinde tertio, dividendo declarat, et declarando dividit,
quot modis contingit unum nomen imponi pluribus ex quibus non fit unum, ut ex
hoc diversitatem enunciationis multiplicis insinuet. Et ponit duos modos,
quorum prior est, quando unum nomen imponitur pluribus ex quibus fit unum, non
tamen in quantum ex eis fit unum. Tunc enim, licet materialiter et per accidens
loquendo nomen imponatur pluribus ex quibus fit unum, formaliter tamen et per
se loquendo nomen unum imponitur pluribus, ex quibus non fit unum: quia
imponitur eis non in quantum ex eis est unum, ut fortasse est hoc nomen, homo,
impositum ad significandum animal et mansuetum et bipes, idest, partes suae
definitionis, non in quantum adunantur in unam hominis naturam per modum actus
et potentiae, sed ut distinctae sint inter se actualitates. Et insinuavit quod
accipit partes definitionis ut distinctas per illam coniunctionem, et per illud
quoque adversative additum: sed si ex his unum fit, quasi diceret, cum hoc
tamen stat quod ex eis unum fit. Addidit autem, fortasse, quia hoc nomen, homo,
non est impositum ad significandum partes sui definitivas, ut distinctae sunt.
Sed si impositum esset aut imponeretur, esset unum nomen pluribus impositum ex
quibus non fit unum. Et quia idem iudicium est de tali nomine, et illis
pluribus; ideo similiter illae plures partes definitivae possunt dupliciter
accipi. Uno modo, per modum actualis et possibilis, et sic unum faciunt; et sic
formaliter loquendo vocantur plura, ex quibus fit unum, et pronunciandae sunt
continuata oratione, et faciunt enunciationem unam dicendo, animal rationale
mortale currit. Est enim ista una sicut et ista, homo currit. Alio modo,
accipiuntur praedictae definitionis partes ut distinctae sunt inter se actualitates,
et sic non faciunt unum: ex duobus enim actibus ut sic, non fit unum, ut
dicitur VII metaphysicae; et sic faciunt enunciationes plures et pronunciandae
sunt vel cum pausa, vel coniunctione interposita, dicendo, homo est animal et
mansuetum et bipes; sive, homo est animal, mansuetum, bipes, rhetorico more.
Quaelibet enim istarum est enunciatio multiplex. Et similiter ista, Socrates
est homo, si homo est impositum ad illa, ut distinctae actualitates sunt,
significandum. Secundus autem modus, quo unum nomen impositum est pluribus ex
quibus non fit unum, subiungitur, cum dicit: ex albo autem et homine et
ambulante etc., idest, alio modo hoc fit, quando unum nomen imponitur pluribus,
ex quibus non potest fieri unum, qualia sunt: homo, album, et ambulans. Cum
enim ex his nullo modo possit fieri aliqua una natura, sicut poterat fieri ex
partibus definitivis, clare liquet quod nomen aliquod si eis imponeretur, esset
nomen non unum significans, ut in primo dictum fuit de hoc nomine, tunica,
imposito homini et equo. While agreeing with the opinion of Porphyry, Boethius,
and Albert, we think a more subtle construction can be made of the text.
According to it Aristotle makes four points here. First, he reviews what an
enunciation is in general when he says, The enunciation is many in which one is
enunciated of many or many of one, unless from the many something one is
constituted... as he stated and explained in the first book. Secondly, he
clarifies the term "one,” when he says, I do not use "one” of those
things, etc., i.e., I call a name one, not by reason of the unity of vocal
sound, but of signification, as was said above. Thirdly, he manifests (by
dividing) and divides (by manifesting) the number of ways in which one name may
be imposed on many things from which one thing is not constituted. From this he
implies the diversity of the multiple enunciation. And he posits two ways in
which one name may be imposed on many things from which one thing is not
constituted: first, when one name is imposed upon many things from which one
thing is constituted but not as one thing is constituted from them. In this
case, materially and accidentally speaking, the name is imposed on many from
which one thing is constituted, but it is formally and per se imposed on many
from which one thing is not constituted; for it is not imposed upon them in the
respect in which they constitute one thing; as perhaps the name "man” is
imposed to signify animal and civilized and biped (i.e., parts of its
definition) not as they are united in the one nature of man in the mode of act
and potency, but as they are themselves distinct actualities. Aristotle implies
that he is taking these parts of the definition as distinct by the conjunctions
and by also adding adversatively, but if there is something one formed from
these, Neither the Greek nor the Latin text of Aristotle has the "if” that
Cajetan puts into this phrase.The correct reading is "...but there is
something one formed from these.” Close as if to say, "when however it holds
that one thing is constituted from these.” He adds perhaps because the name
"man” is not imposed to signify its definitive parts as they are distinct.
But if it had been so imposed or were imposed, it would be one name imposed on
many things from which no one thing is constituted. And since the judgment with
respect to such a name and those many things is the same, the many definitive
parts can also be taken in two ways: first, in the mode of the actual and
possible, and thus they constitute one thing, and formally speaking are called
many from which one thing is constituted, and they are to be pronounced in
continuous speech and they make one enunciation, for example, "A mortal
rational animal is running.” For this is one enunciation, just as is "Man
is running.” In the second way, the foresaid parts of the definition are taken
as they are distinct actualities, and thus they do not constitute one thing,
for one thing is not constituted from two acts as such, as Aristotle says in
VII Metaphysicae [13: 1039a 5]. In this case they constitute many enunciations
and are pronounced either with conjunctions interposed or with a pause in the
rhetorical manner, for example, "Man is an animal and civilized and biped”
or "Man is an animal–civilized–biped.” Each of these is a multiple
enunciation. And so is the enunciation, "Socrates is a man” if "man”
is imposed to signify animal, civilized, and biped as they are distinct
actualities. Aristotle takes up the second way in which one name is imposed on
many from which one thing is not constituted where he says, whereas from
"white” and "man” and "walking” there is not [something one
formed]. Since in no way can any one nature be constituted from "man,”
white,” and "walking” (as there can be from the definitive parts), it is
evident that if a name were imposed on these it would be a name that does not
signify one thing, as was said in the first book of the name "cloak”
imposed for man and horse. 4 Habemus ergo enunciationis pluris seu multiplicis
duos modos, quorum, quia uterque fit dupliciter, efficiuntur quatuor modi.
Primus est, quando subiicitur vel praedicatur unum nomen impositum pluribus, ex
quibus fit unum, non in quantum sunt unum; secundus est, quando ipsa plura ex
quibus fit unum, in quantum sunt distinctae actualitates, subiiciuntur vel
praedicantur; tertius est, quando ibi est unum nomen impositum pluribus ex
quibus non fit unum; quartus est, quando ista plura ex quibus non fit unum,
subiiciuntur vel praedicantur. Et notato quod cum enunciatio secundum membra
divisionis illius, qua divisa est, in unam et plures, quadrupliciter variari
possit, scilicet cum unum de uno praedicatur, vel unum de pluribus, vel plura
de uno, vel plura de pluribus; postremum sub silentio praeterivit, quia vel
eius pluralitas de se clara est, vel quia, ut inquit Albertus, non intendebat
nisi de enunciatione, quae aliquo modo una est, tractare. Demum concludit totam
sententiam, dicens: quare nec si aliquis affirmet unum de his pluribus, erit
affirmatio una secundum rem: sed vocaliter quidem erit una, significative autem
non una, sed multae fient affirmationes. Nec si e converso de uno ista plura
affirmabuntur, fiet affirmatio una. Ista namque, homo est albus, ambulans et
musicus, importat tres affirmationes, scilicet, homo est albus et est ambulans et
est musicus, ut patet ex illius contradictione. Triplex enim negatio illi
opponitur correspondens triplici affirmationi positae. We have, therefore, two
modes of the many (i.e., the multiple enunciation) and since both are
constituted in two ways, there will be four modes: first, when one name imposed
on many from which one thing is constituted is subjected or predicated as
though the name stands for many; the second, when the many from one which one
thing is constituted are subjected or predicated as distinct actualities; the
third, when one name is imposed for a many from which nothing one is
constituted; the fourth, when many which do not constitute one thing are
subjected or predicated. Note that the enunciation, according to the members of
the division by which it has been divided into one and many, can be varied in
four ways, i.e., one is predicated of one, one of many, many of one, and many
of many. Aristotle has not spoken of the last one, either because its plurality
is clear enough or because, as Albert says, he only intends to treat of the
enunciation which is one in some way. Finally [fourthly], he concludes with
this summary: Consequently, if someone affirms something one of these latter
there will not be one affirmation according to the thing: vocally it will be
one; significatively, it will not be one, but many. And conversely, if the many
are affirmed of one subject, there will not be one affirmation. For example,
"Man is white, walking, and musical” implies three affirmations, i.e., "Man
is white” and "is walking” and "is musical,” as is clear from its
contradiction, for a threefold negation is opposed to it, corresponding to the
threefold affirmation. 5 Deinde cum dicit: si ergo dialectica etc., probat a
posteriori supradictas enunciationes esse plures. Circa quod duo facit: primo,
ponit rationem ipsam ad hoc probandum per modum consequentiae; deinde probat
antecedens dictae consequentiae; ibi: dictum est autem de his et cetera. Quoad
primum talem rationem inducit. Si interrogatio dialectica est petitio
responsionis, quae sit propositio vel altera pars contradictionis, nulli
enunciationum supradictarum interrogative formatae erit responsio una; ergo nec
ipsa interrogatio est una, sed plures. Cuius rationis primo ponit antecedens:
si ergo et cetera. Ad huius intelligendos terminos nota quod idem sonant
enunciatio, interrogatio et responsio. Cum enim dicitur, caelum est animatum,
in quantum enunciat praedicatum de subiecto, enunciatio vocatur; in quantum
autem quaerendo proponitur, interrogatio; ut vero quaesito redditur, responsio
appellatur. Idem ergo erit probare non esse responsionem unam, et
interrogationem non esse unam, et enunciationem non esse unam. Adverte secundo
interrogationem esse duplicem. Quaedam enim est utram partem contradictionis
eligendam proponens; et haec vocatur dialectica, quia dialecticus habet viam ex
probabilibus ad utramque contradictionis partem probandam. Altera vero
determinatam ad unum responsionem exoptat; et haec est interrogatio
demonstrativa, eo quod demonstrator in unum determinate tendit. Considera
ulterius quod interrogationi dialecticae dupliciter responderi potest. Uno
modo, consentiendo interrogationi, sive affirmative sive negative; ut si quis
petat, caelum est animatum? Et respondeatur, est; vel, Deus non movetur? Et
respondeatur, non: talis responsio vocatur propositio. Alio modo, potest
responderi interimendo; ut si quis petat, caelum est animatum? Et respondeatur,
non; vel Deus non movetur? Et respondeatur, movetur: talis responsio vocatur
contradictionis altera pars, eo quod affirmationi negatio redditur et negationi
affirmatio. Interrogatio ergo dialectica est petitio annuentis responsionis,
quae est propositio, vel contradicentis, quae est altera pars contradictionis
secundum supradictam Boethii expositionem. Then when he says, In fact, if
dialectical interrogation is a request for an answer, etc., he proves a
posteriori that the foresaid enunciations are many. First he states an argument
to prove this by way of the consequent; then he proves the antecedent of the
given consequent where he says, But we have spoken about these things in the
Topics, etc. Now if dialectical questioning is a request for an answer, either
a proposition or one part of a contradiction, none of the foresaid
enunciations, put in the form of a question, will have one answer. Therefore,
the question is not one, but many. Aristotle first states the antecedent of the
argument, if dialectical interrogation is a request for an answer, etc. To
understand this it should be noted that an enunciation, a question, and an
answer sound the same. For when we say, "The region of heaven is
animated,” we call it an enunciation inasmuch as it enunciates a predicate of a
subject, but when it is proposed to obtain an answer we call it an interrogation,
and as applied to what was asked we call it a response. Therefore, to prove
that there is not one response or one question or one enunciation will be the
same thing. It should also be noted that interrogation is twofold. One proposes
either of the two parts of a contradiction to choose from. This is called
dialectical interrogation because the dialectician knows the way to prove
either part of a contradiction from probable positions. The other kind of
interrogation seeks one determinate response. This is the demonstrative
interrogation, for the demonstrator proceeds determinately toward a single
alternative. Note, finally, that it is possible to reply to a dialectical
question in two ways. We may consent to the question, either affirmatively or
negatively; for example, when someone asks, "Is the region of heaven
animated,” we may respond, "It is,” or to the question "Is not God
moved,” we may say, "No.” Such a response is called a proposition. The
second way of replying is by destroying; for example, when someone asks
"Is the region of heaven animated?” and we respond, "No,” or to the
question, "Is not God moved?” we respond, "He is moved.” Such a
response is called the other part of a contradiction, because a negation is
given to an affirmation and an affirmation to a negation. Dialectical
interrogation, then, according to the exposition just given, which is that of
Boethius, is a request for the admission of a response which is a proposition,
or which is one part of a contradiction. 6 Deinde subdit probationem
consequentiae, cum ait: propositio vero unius contradictionis est et cetera.
Ubi notandum est quod si responsio dialectica posset esse plures, non
sequeretur quod responsio enunciationis multiplicis non posset esse dialectica;
sed si responsio dialectica non potest esse nisi una enunciatio, tunc recte
sequitur quod responsio enunciationis pluris, non est responsio dialectica,
quae una est. Notandum etiam quod si enunciatio aliqua plurium contradictionum
pars est, una non esse comprobatur: una enim uni tantum contradicit. Si autem
unius solum contradictionis pars est, una est eadem ratione, quia scilicet
unius affirmationis unica est negatio, et e converso. Probat ergo Aristoteles
consequentiam ex eo quod propositio, idest responsio dialectica unius contradictionis
est, idest una enunciatio est affirmativa vel negativa. Ex hoc enim, ut iam
dictum est, sequitur quod nullius enunciationis multiplicis sit responsio
dialectica, et consequenter nec una responsio sit. Nec praetereas quod cum
propositionem, vel alteram partem contradictionis, responsionemque praeposuerit
dialecticae interrogationis, de sola propositione subiunxit, quod est una; quod
ideo fecit, quia illius alterius vocabulum ipsum unitatem praeferebat. Cum enim
alteram contradictionis partem audis, unam affirmationem vel negationem statim
intelligis. Adiunxit autem antecedenti ly ergo, vel insinuans hoc esse aliunde
sumptum, ut postmodum in speciali explicabit, vel, permutato situ, notam
consequentiae huius inter antecedens et consequens locandam, antecedenti
praeposuit; sicut si diceretur, si ergo Socrates currit, movetur; pro eo quod
dici deberet, si Socrates currit, ergo movetur. Sequitur deinde consequens: non
erit una responsio ad hoc; et infert principalem conclusionem subdens, quod
neque una erit interrogatio et cetera. Si enim responsio non potest esse una,
nec interrogatio ipsa una erit. He adds the proof of the consequent when he
says, and a proposition is a part of one contradiction. In relation to this it
should be noted that if a dialectical response could be many, it would not
follow that a response to a multiple enunciation would not be dialectical.
However, if the dialectical response can only be one enunciation then it
follows that a response to a plural enunciation is not a dialectical response,
for it is one [i.e., it inclines to one part of a contradiction at a time]. It
should also be noted that if an enunciation is a part of many contradictions,
it is thereby proven not to be one, for one contradicts only one. But if an
enunciation is a part of only one contradiction, it is one by the same
reasoning, i.e., because there is only one negation of one affirmation, and
conversely. Hence Aristotle proves the consequent from the fact that the
proposition, i.e., the dialectical response, is a part of one contradiction,
i.e., it is one affirmative or one negative enunciation. It follows from this,
as has been said, that there is no dialectical response of a multiple
enunciation, and consequently not one response. It should not be overlooked that
when he designates a proposition or one part of a contradiction as the response
to a dialectical interrogation, it is only of the proposition that he adds that
it is one, because the very wording shows the unity of the other. For when you
hear one part of a contradiction, you immediately understand one affirmation or
negation. He puts the "therefore” with the antecedent, either implying
that this is taken from another place and he will explain in particular
afterward, or having changed the structure, he places the sign of the
consequent, which should be between the antecedent and consequent before the
antecedent, as when one says, "Therefore if Socrates runs, he is moved,”
for "If Socrates runs, therefore he is moved.” Then the consequent follows:
there will not be one answer to this, etc.; and the inference of the principal
conclusion, for there would not be a single question. For if the response
cannot be one, the question will not be one. 7 Quod autem addidit: nec si sit
vera, eiusmodi est. Posset aliquis credere, quod licet interrogationi pluri non
possit dari responsio una, quando id de quo quaestio fit non potest de omnibus
illis pluribus affirmari vel negari (ut cum quaeritur, canis est animal? Quia
non potest vere de omnibus responderi, est, propter caeleste sidus, nec vere de
omnibus responderi, non est, propter canem latrabilem, nulla possit dari
responsio una); attamen quando id quod sub interrogatione cadit potest vere de
omnibus affirmari aut negari, tunc potest dari responsio una; ut si quaeratur,
canis est substantia? Quia potest vere de omnibus responderi, est, quia esse
substantiam omnibus canibus convenit, unica responsio dari possit. Hanc
erroneam existimationem removet dicens: nec si sit vera, idest, et dato quod
responsio data enunciationi multiplici de omnibus verificetur, nihilominus non
est una, quia unum non significat, nec unius contradictionis est pars, sed
plures responsio illa habet contradictorias, ut de se patet. He adds, even if
there is a true answer, because someone might think that although one response
cannot be given to a plural interrogation when the question concerns something
that cannot be affirmed or denied of all of the many (for example, when someone
asks, "Is a dog an animal?” no one response can be given, for we cannot
truly say of every dog that it is an animal because of the star by that name;
nor can we truly say of every dog that it is not an animal, because of the
barking dog), nevertheless one response could be given when that which falls
tinder the interrogation can be truly said of all. For example, when someone
asks, "Is a dog a substance?” a single response can be given because it
can truly he said of every dog that it is a substance, for to be a substance
belongs to all dogs. Aristotle adds the phrase, even if there is a true answer,
to remove such an erroneous judgment. For even if the response to the multiple
enunciation is verified of all, it is nonetheless not one, since it does not
signify one thing, nor is it a part of one contradiction. Rather, as is
evident, this response has many contradictories. 8 Deinde cum dicit: dictum est
autem de his in Topicis etc., probat antecedens dupliciter: primo, auctoritate
eorum quae dicta sunt in Topicis; secundo, a signo. Et circa hoc duo facit.
Primo, ponit ipsum signum, dicens: quod similiter etc., cum auctoritate
topicorum, manifestum est, scilicet, antecedens assumptum, scilicet quod
dialectica interrogatio est petitio responsionis affirmativae vel negativae.
Quoniam nec ipsum quid est, idest ex eo quod nec ipsa quaestio quid est, est
interrogatio dialectica: verbi gratia; si quis quaerat, quid est animal? Talis
non quaerit dialectice. Deinde subiungit probationem assumpti, scilicet quod
ipsum quid est, non est quaestio dialectica; et intendit quod quia interrogatio
dialectica optionem respondenti offerre debet, utram velit contradictionis
partem, et ipsa quaestio quid est talem libertatem non proponit (quia cum
dicimus, quid est animal? Respondentem ad definitionis assignationem
coarctamus, quae non solum ad unum determinata est, sed etiam omni parte
contradictionis caret, cum nec esse, nec non esse dicat); ideo ipsa quaestio
quid est, non est dialectica interrogatio. Unde dicit: oportet enim ex data,
idest ex proposita interrogatione dialectica, hunc respondentem eligere posse
utram velit contradictionis partem, quam contradictionis utramque partem
interrogantem oportet determinare, idest determinate proponere, hoc modo: utrum
hoc animal sit homo an non: ubi evidenter apparet optionem respondenti offerri.
Habes ergo pro signo cum quaestio dialectica petat responsionem propositionis,
vel alterius contradictionis partem, elongationem quaestionis quid est a
quaestionibus dialecticis. Where he says, But we have spoken about these things
in the Topics, etc., he proves the antecedent in two ways. First, he proves it
on the basis of what was said in the Topics; secondly, by a sign. The sign is
given first where he says, Similarly it is clear that the question "What
is it?” is not a dialectical one, etc. That is, given the doctrine in the
Topics, it is clear (i.e., assuming the antecedent that the dialectical
interrogation is a request for an affirmative or negative response) that the
question "What is it?” is not a dialectical interrogation, e.g., when
someone asks, "What is an animal?” he does not interrogate dialectically.
Secondly, he gives the proof of what was assumed, namely, that the question
"What is it?” is not a dialectical question. He states that a dialectical
interrogation must offer to the one responding the option of whichever part of
the contradiction he wishes. The question "What is it?” does not offer
such liberty, for in saying "What is an animal?” the one responding is
forced to assign a definition, and a definition is not only determined to one
but is also entirely devoid of contradiction, since it affirms neither being
nor non-being. Therefore, the question "What is it?” is not a dialectical
interrogation. Whence he says, For the dialectical interrogation must provide,
i.e., from the proposed dialectical interrogation the one responding must be
able to choose whichever part of the contradiction he wishes, which parts of
the contradiction the interrogator must specify, i.e., he must propose the
question in this way: "Is this animal man or not?” wherein the wording of
the question clearly offers an option to the one answering. Therefore, you have
as a sign that a dialectical question is seeking a response of a proposition or
of one part of a contradiction, the setting apart of the question "What is
it?” from dialectical questions. VI. 1 Postquam declaravit diversitatem
multiplicis enunciationis, intendit determinare de earum consequentiis. Et
circa hoc duo facit, secundum duas dubitationes quas solvit. Secunda incipit;
ibi: verum autem est dicere et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit
quaestionem; secundo, ostendit rationabilitatem quaestionis; ibi: si enim
quoniam etc.; tertio, solvit eam; ibi: eorum igitur et cetera. Est ergo
dubitatio prima: quare ex aliquibus divisim praedicatis de uno sequitur enunciatio,
in qua illamet unita praedicantur de eodem, et ex aliquibus non. Unde haec
diversitas oritur? Verbi gratia; ex istis, Socrates est animal et est bipes;
sequitur, ergo Socrates est animal bipes; et similiter ex istis, Socrates est
homo et est albus; sequitur, ergo Socrates est homo albus. Ex illis vero,
Socrates est bonus, et est citharoedus; non sequitur, ergo est bonus
citharoedus. Unde proponens quaestionem inquit: quoniam vero haec, scilicet
praedicta, ita praedicantur composita, idest coniuncta, ut unum sit
praedicamentum quae extra praedicantur, idest, ut ex eis extra praedicatis
unite fiat praedicatio, alia vero praedicata non sunt talia, quae est inter
differentia; unde talis innascitur diversitas? Et subdit exempla iam adducta,
et ad propositum applicata: quorum primum continet praedicata ex quibus fit
unum per se, scilicet, animal et bipes, genus et differentia; secundum autem
praedicata ex quibus fit unum per accidens, scilicet, homo albus; tertium vero
praedicata ex quibus neque unum per se neque unum per accidens inter se fieri
sequitur; ut, citharoedus et bonus, ut declarabitur. Having explained the
diversity of the multiple enunciation Aristotle now proposes to determine the
consequences of this. He treats this in relation to two questions which he
solves. The second begins where he says, On the other hand, it is also true to
say predicates of something singly, etc. With respect to the other question,
first he proposes it, then he shows that the question is a reasonable one where
he says, For if we hold that whenever each is truly said of a subject, both
together must also be true, many absurdities will follow, etc. Finally, he
solves it where he says, Those things that are predicated—taken in relation to
that to which they are joined in predication, etc. The first question is this:
Why is it that from some things predicated divisively of a subject an
enunciation follows in which they are predicated of the same subject unitedly,
and from others not? What is the reason for this diversity? For example, from
"Socrates is an animal and he is biped” follows, "Therefore, Socrates
is a biped animal”; and similarly, from "Socrates is a man and he is
white” follows, "Therefore, Socrates is a white man.” But from
"Socrates is good and he is a lute player,” the enunciation,
"Therefore, he is a good lute player” does not follow. Hence in proposing
the question Aristotle says, Some things, i.e., predicates, are so predicated
when combined, that there is one predicate from what is predicated separately,
i.e., from some things that are predicated separately, a united predication is
made but from others this is riot so. What is the difference between these;
whence does such a diversity arise? He adds the examples which we have already
cited and applied to the question. Of these examples, the first contains
predicates from which something one per se is formed, i.e., "animal” and
"biped,” a genus and difference; the second contains predicates from which
something accidentally one is formed, namely, "white man”; the third
contains predicates from which neither one per se nor one accidentally is
formed, "lute player” and "good,” as will be explained. Cajetanus
lib. 2 l. 6 n. 2Deinde cum dicit: si enim quoniam etc., declarat veritatem
diversitatis positae, ex qua rationabilis redditur quaestio: si namque inter
praedicata non esset talis diversitas, irrationabilis esset dubitatio. Ostendit
autem hoc ratione ducente ad inconveniens, nugationem scilicet. Et quia nugatio
duobus modis committitur, scilicet explicite et implicite; ideo primo deducit
ad nugationem explicitam, secundo ad implicitam; ibi: amplius, si Socrateset
cetera. Ait ergo quod si nulla est inter quaecumque praedicata differentia, sed
de quolibet indifferenter censetur quod quia alterutrum separatum dicitur, quod
utrumque coniunctim dicatur, multa inconvenientia sequentur. De aliquo enim
homine, puta Socrate, verum est separatim dicere quod, homo est, et albus est;
quare et omne, idest et coniunctim dicetur, Socrates est homo albus. Rursus et
de eodem Socrate potest dici separatim quod, est homo albus, et quod, est
albus; quare et omne, idest, igitur coniunctim dicetur, Socrates est homo albus
albus: ubi manifesta est nugatio. Rursus si de eodem Socrate iterum dicas
separatim quod, est homo albus albus, verum dices et congrue quod est albus, et
secundum hoc, si iterum hoc repetes separatim, a veritate simili non discedes,
et sic in infinitum sequetur, Socrates est homo albus, albus, albus in
infinitum. Simile quod ostenditur in alio exemplo. Si quis de Socrate dicat
quod, est musicus, albus, ambulans, cum possit et separatim dicere quod, est
musicus, et quod, est albus, et quod, est ambulans; sequetur, Socrates est
musicus, albus, ambulans, musicus, albus, ambulans. Et quia pluries separatim,
in eodem tamen tempore, enunciari potest, procedit nugatio sine fine. Deinde
deducit ad implicitam nugationem, dicens, cum de Socrate vere dici possit
separatim quod, est homo, et quod, est bipes, si coniunctim inferre licet,
sequetur quod, Socrates sit homo bipes. Ubi est implicita nugatio. Bipes enim
circumloquens differentiam hominis actu et intellectu clauditur in hominis
ratione. Unde ponendo loco hominis suam rationem (quod fieri licet, ut docet
Aristoteles II topicorum), apparebit manifeste nugatio. Dicetur enim: Socrates
est homo, idest, animal bipes, bipes. Quoniam ergo plurima inconvenientia
sequuntur si quis ponat complexiones, idest, adunationes praedicatorum fieri
simpliciter, idest, absque diversitate aliqua, manifestum est ex dictis;
quomodo autem faciendum est, nunc, idest, in sequentibus dicemus. Et nota quod
iste textus non habetur uniformiter apud omnes quoad verba, sed quia sententia
non discrepat, legat quicunque ut vult. When he says, For if we hold that
whenever each is truly said of a subject, both together must also be true,
etc., he shows that there truly is such a diversity among predicates and in so
doing renders the question reasonable, for if there were not such a diversity
among predicates the question would be pointless. He shows this by reasoning
lead-ing to an absurdity, i.e., to something nugatory. Now, something nugatory
is effected in two ways, explicitly and implicitly. Therefore, he first makes a
deduction to the explicitly nugatory, secondly to the implicitly, where he
says, Furthermore, if Socrates is Socrates and a man, Socrates is a Socrates
man, etc. If, he says, there is no difference between predicates, and it is
supposed of any of them indifferently that because both are said separately
both may he said conjointly, many absurdities will follow. For of some man, say
Socrates, it is true to say separately that he is a man and he is white;
therefore both -together, i.e., we may also say conjointly, "Socrates is a
white man.” Again, of the same Socrates we can say separately that he is a
white man and that he is white, and both together, i.e., therefore conjointly,
"Socrates is a white white man.” Here the nugatory expression is evident.
Further, if of the same Socrates that you again say separately is a white white
man it will be true and consistent to say that he is white, and according to
this, if again repeating this separately, you will not deviate from a similar
truth, and this will follow to infinity, then Socrates is a white white white
man to infinity. The same thing can be shown by another example, If someone
says of Socrates that he is musical, white, and walking, since it is also
possible to say separately that he is musical, and that he is white, and that
he is walking, it will follow that Socrates is musical, white, walking,
musical, white, walking. And since these can be enunciated many times
separately, yet at the same time, the nugatory statement proceeds without end.
Then he makes a deduction to the implicitly nugatory. Since it can be truly
said of Socrates separately that he is man and that he is biped, it will follow
that Socrates is a biped man, if it is licit to infer conjointly. This is
implicitly nugatory because the "biped,” which indirectly expresses the
difference of man in act and in understanding, is included in the notion of
man. Hence, if we posit the definition of man in place of "man” (which it
is licit to do, as Aristotle teaches in II Topicorum [2: 110a 5]) the nugatory
character of the enunciation will be evident, for when we say "Socrates is
a biped man,” we are saying "Socrates is a biped biped animal.” From what
has been said it is evident that many absurdities follow if anyone proposes
that combinations, i.e., unions of predicates, be made simply, i.e., without
any distinction. Now, i.e., in what follows, we will state how this must be
settled. This particular text is not uniformly worded in the manuscripts, but
since no discrepancy of thought is involved one may read it as he wishes. 3 Deinde
cum dicit: eorum igitur etc., solvit propositam quaestionem. Et circa hoc duo
facit: primo, respondet instantiis in ipsa propositione quaestionis adductis;
secundo, satisfacit instantiis in probatione positis; ibi: amplius nec
quaecumqueet cetera. Circa primum duo facit: primo namque, declarat veritatem;
secundo, applicat ad propositas instantias; ibi: quocirca et cetera. Determinat
ergo dubitationem tali distinctione. Praedicatorum sive subiectorum plurium duo
sunt genera: quaedam sunt per accidens, quaedam per se. Si per accidens, hoc
dupliciter contingit, vel quia ambo dicuntur per accidens de uno tertio, vel
quia alterum de altero mutuo per accidens praedicatur. Quando illa plura
divisim praedicata sunt per accidens quovis modo, ex eis non sequitur
coniunctim praedicatum; quando autem sunt per se, tum ex eis sequitur coniuncte
praedicatum. Unde continuando se ad praecedentia ait: eorum igitur quae
praedicantur, et de quibus praedicantur, idest subiectorum, quaecumque dicuntur
secundum accidens (et per hoc innuit oppositum membrum, scilicet per se), vel
de eodem, idest accidentaliter concurrunt ad unius tertii denominationem, vel
alterutrum de altero, idest accidentaliter mutuo se denominant (et per hoc
ponit membra duplicis divisionis), haec, scilicet plura per accidens, non erunt
unum, idest non inferent praedicationem coniunctam. When he says, Those things
that are predicated—taken in relation to that to which they are joined in
predication, etc., he solves the proposed question. First he makes an answer
with respect to the instances cited in proposing the question; secondly, he solves
the problem as related to the instances posited in his proof where he says,
Furthermore, predicates that are present in one another cannot be combined
simply. In relation to the first answer, he states the true position first and
then applies it to the instances where he says, This is the reason "good”
and "shoemaker” cannot be combined simply, etc. He settles the question
with this distinction: there are two kinds of multiple predicates and subjects.
Some are accidental, some per se. If they are accidental this occurs in two
ways, either because both are said accidentally of a third thing or because
they are predicated of each other accidentally. Now when the many predicated
divisively are in any way accidental, a conjoined predicate does not follow
from them; but when they are per se, a conjoined predicate does follow from
them. In answering the question, therefore, Aristotle connects what he is
saying with what has gone before: Of those things that are predicated and those
of which they are predicated, i.e., subjects, whichever are said accidentally
(by which he intimates the opposite member, i.e., per se), either of the same
subject, i.e., they unite accidentally for the denomination of one third thing,
or of one another, i.e., they denominate each other accidentally (and by this
he posits the members of a two-fold division), these (i.e., these many
accidentally) will not be one, i.e., do not produce a conjoined predication. 4 Et
explanat utrumque horum exemplariter. Et primo, primum, quando scilicet illa
plura per accidens dicuntur de tertio, dicens: ut si homo albus est et musicus
divisim. Sed non est idem, idest non sequitur adunatim, ergo homo est musicus
albus. Utraque enim sunt accidentia eidem tertio. Deinde explanat secundum,
quando solum illa plura per accidens de se mutuo praedicantur, subdens: nec si
album musicum verum est dicere, idest, et etiamsi de se invicem ista
praedicantur per accidens ratione subiecti in quo uniuntur, ut dicatur, homo
est albus, et est musicus, et album est musicum, non tamen sequitur quod album
musicum unite praedicetur, dicendo, ergo homo est albus musicus. Et causam
assignat, quia album dicitur de musico per accidens, et e converso. He explains
both of these by examples. First, the many said accidentally of a third; for
example, man is white and musical divisively. But they are not the same, i.e.,
it does not follow unitedly that "Man is musical white” for both are
accidental to the same third thing. Then he explains the second member by an
example. In it the many are predicated only of one another. Even if it were
true to say white is musical, i.e., even if these are predicated accidentally
of each other by reason of the subject in which they are united, so that we may
say "Man is white and he is musical, and white is musical,” it still does
not follow that "musical white” is predicated as a unity when we say,
"Therefore, man is musical white.” He gives as the cause of this that
"white” is said of "musical” accidentally and conversely. 5 Notandum
est hic quod cum duo membra per accidens enumerasset, unico tamen exemplo
utrumque membrum explanavit, ut insinuaret quod distinctio illa non erat in
diversa praedicata per accidens, sed in eadem diversimode comparata; album enim
et musicum, comparata ad hominem, sub primo cadunt membro; comparata autem
inter se, sub secundo. Diversitatem ergo comparationis pluralitate membrorum,
identitatem autem praedicatorum unitate exempli astruxit. It must be noted here
that although he has enumerated two accidental members, he explains both
members by this single example so as to imply that the distinction is not one
of different accidental predicates, but of the same predicates compared in
different ways. "White” and "musical” compared to "man” fall
under the first member, but compared with each other, under the second. Hence
he has provided diversity of comparison by the plurality of the members, but
identity of predicates by the unity of the example. 6 Advertendum est ulterius,
ad evidentiam divisionis factae in littera, quod, secundum accidens, potest
dupliciter accipi. Uno modo, ut distinguitur contra perseitatem
posterioristicam, et sic non sumitur hic: quoniam cum dicitur plura praedicata
secundum accidens, aut ly secundum accidens determinaret coniunctionem inter se,
et sic manifeste esset falsa regula; quoniam inter prima praedicata, animal
bipes, seu, animal rationale, est praedicatio secundum accidens hoc modo
(differentia enim in nullo modo perseitatis praedicatur de genere, et tamen
Aristoteles in textu dicit ea non esse praedicata per accidens, et asserit quod
est optima illatio, est animal et bipes, ergo est animal bipes); aut
determinaret coniunctionem illarum ad subiectum, et sic etiam inveniretur
falsitas in regula: bene namque dicitur, paries est coloratus, et est
visibilis, et tamen coloratum visibile non per se inest parieti. Alio modo,
accipitur ly secundum accidens, ut distinguitur contra hoc quod dico, ratione
sui, seu, non propter aliud, et sic idem sonat, quod, per aliud: et hoc modo
accipitur hic. Quaecunque enim sunt talis naturae quod non ratione sui
iunguntur, sed propter aliud, ab illatione coniuncta deficere necesse est, ex
eo quod coniuncta illatio unum alteri substernit, et ratione sui ea adunata
denotat ut potentiam et actum. Est ergo sensus divisionis, quod praedicatorum
plurium, quaedam sunt per accidens, quaedam per se, idest, quaedam adunantur
inter se ratione sui, quaedam propter aliud. Ea quae per se uniuntur inferunt
coniunctum, ea autem quae propter aliud, nequaquam. To make this division
evident it must also be noted that accidentally can be taken in two ways. It
may be taken as it is distinguished from "posterioristic perseity.” This
is not the way it is taken here, for "many predicates accidentally” would
then mean that the "accidentally” determines a conjunction between
predicates, and thus the rule would clearly be false, for the first predicates
he gave as examples are predicated accidentally in this way, namely,
"biped animal,” or "rational animal” (for a difference is not
predicated of a genus in any mode of perseity, and yet Aristotle says in the
text that these are not predicated accidentally, and has asserted that "He
is an animal and biped, therefore he is a biped animal” is a good inference).
Or it would mean that the "accidentally” determines a conjunction of the
predicates with the subject, and thus also the rule would be false, for it is
valid to say, "The wall is colored and it is visible,” yet visible colored
is not per se in the wall. Accidentally” taken in the second way is
distinguished from what I call "on its own account,” i.e., not because of
something else; "accidentally” then means "through another.” This is
the way it is taken here, for whatever are of such a nature that they are
joined because of something else, and not on their own account, do not admit of
conjoined inference, because a conjoined inference subjects one to the other,
and denotes the things united on their own account as potency and act.
Therefore, the sense of the division is this: of many predicates, some are
accidental, some per se, i.e., some are united among themselves on their own
account, some on account of another. Those that are per se united infer
conjointly; those that are united on account of another do not infer conjointly
in any way. 7 Deinde cum dicit: quocirca nec citharoedusetc., applicat
declaratam veritatem ad partes quaestionis. Et primo, ad secundam partem, quia
scilicet non sequitur: est bonus et est citharoedus; ergo est bonus
citharoedus, dicens: quocirca nec citharoedus bonus etc.; secundo, ad aliam
partem quaestionis, quare sequebatur: est animal et est bipes; ergo est animal
bipes: et ait: sed animal bipes et cetera. Et subiungit huius ultimi dicti
causam, quia, animal bipes, non sunt praedicata secundum accidens coniuncta inter
se aut in tertio, sed per se. Et per hoc explanavit alterum membrum primae
divisionis, quod adhuc positum non fuerat explicite. Adverte quod Aristoteles,
eamdem tenens sententiam de citharoedo et bono et musico et albo, conclusit
quod album et musicum non inferunt coniunctum praedicatum; ideo nec citharoedus
et bonus inferunt citharoedus bonus simpliciter, idest coniuncte. Est autem
ratio dicti, quia licet musica et albedo dissimiles sint bonitati et arti
citharisticae in hoc, quod bonitas nata est denominare et subiectum tertium,
puta hominem et ipsam artem citharisticam (propter quod falsitas manifeste
cernitur, quando dicitur: est bonus et citharoedus; ergo bonus citharoedus),
musica vero et albedo subiectum tertium natae sunt denominare tantum, et non se
invicem (propter quod latentior est casus cum proceditur: est albus et est
musicus; ergo est musicus albus), licet, inquam, in hoc sint dissimiles, et
propter istam dissimilitudinem processus Aristotelis minus sufficiens videatur;
attamen similes sunt in hoc quod, si servetur identitas omnimoda praedicatorum
quam servari oportet, si illamet divisa debent inferri coniunctim, sicut musica
non denominat albedinem, neque contra, ita nec bonitas, de qua fit sermo, cum
dicitur, homo est bonus, denominat artem citharisticam, neque e converso. Cum
enim bonum sit aequivocum, licet a consilio, alia ratione dicitur de
perfectione citharoedi, et alia de perfectione hominis. Quando namque dicimus,
Socrates est bonus, intelligimus bonitatem moralem, quae est hominis bonitas
simpliciter (analogum siquidem simpliciter positum sumitur pro potiori); cum
autem infertur, citharoedus bonus, non bonitatem moris sed artis praedicas:
unde terminorum identitas non salvatur; sufficienter igitur et subtiliter
Aristoteles eamdem de utrisque protulit sententiam, quia eadem est haec, et ibi
ratio et cetera. When he says, This is the reason "good” and
"shoemaker” cannot be combined simply, etc., he applies the truth he has
stated to the parts of the question. He applies it first to the second part,
i.e., why this does not follow: "He is good and he is a shoemaker,
therefore he is a good shoemaker.” Then he applies it to the other part of the
question, i.e., why this follows: "He is an animal and he is biped,
therefore he is a biped animal.” He adds the reason in the case of the latter:
"biped” and "animal” are not predicates accidentally conjoined among
themselves, nor in a third thing, but per se. This also explains the other
member of the first division which has not yet been explicitly posited. Notice
that he maintains the same judgment is to be made about lute player and good,
and musical and white. He has concluded that "white” and "musical” do
not infer a conjoined predicate; hence neither do "lute player” and "good”
infer "good lute player” simply, i.e., conjointly. There is a reason for
saying this. For although there is a difference between musical and white, and
goodness and the art of luteplaying, they are also similar. Let us consider
their difference first. Goodness is of such a nature that it denominates both a
third subject, namely, man, and the art of lute-playing. This is the reason the
falsity is clearly discernible when we say "He is good and a lute player,
therefore he is a good lute player.” Musical and whiteness, on the other band,
are of such a nature that they denominate only a third subject, and not each
other, and hence, the error is less obvious in "He is white and be is
musical, therefore he is musical white.” Now it is this difference that makes Aristotle’s
process of reasoning appear somewhat inconclusive. However, they are similar.
For if identity of predicates is kept in every way that is required for the
same things divided to be inferred conjointly, then, just as "musical”
does not denominate "whiteness,” nor the contrary, so neither does
"goodness,” of which we are speaking when we say "Man is good,”
denominate the art of lute-playing,,nor conversely. For "good” is
equivocal—by choice though—and therefore is said of the perfection of the lute
player by means of one notion and of the perfection of man by means of another.
For example, when we say, "Socrates is good” we understand moral goodness,
which is the goodness of man absolutely (for the analogous term posited simply,
stands for what is mainly so); but when good lute player is inferred, it is not
the goodness of morality that is predicated but the goodness of art; whence
identity of the terms is not saved. Therefore, Aristotle has adequately and
subtly expressed the same judgment about both, i.e., "white” and
"musical,” and "good” and "lute player,” for the reason here is
the same as there. Nec praetereundum est quod, cum tres consequentias adduxit
quaestionem proponendo, scilicet; est animal et bipes; ergo est animal bipes:
et, est homo et albus; ergo est homo albus: et, est citharoedus et bonus; ergo
est homo albus: et, est citharoedus et bonus; ergo est bonus citharoedus; et
duas primas posuerat esse bonas, tertiam vero non; huius diversitatis causam
inquirere volens, cur solvendo quaestionem nullo modo meminerit secundae
consequentiae, sed tantum primae et tertiae. Indiscussum namque reliquit an
illa consequentia sit bona an mala. Et ad hoc videtur mihi dicendum quod ex his
paucis verbis etiam illius consequentiae naturam insinuavit. Profundioris enim
sensus textus capax apparet cum dixit quod, non sunt unum album et musicum
etc., ut scilicet non tantum indicet quod expositum est, sed etiam eius causam,
ex qua natura secundae consequentiae elucescit. Causa namque quare album et
musicum non inferunt coniunctam praedicationem est, quia in praedicatione
coniuncta oportet alteram partem alteri supponi, ut potentiam actui, ad hoc ut
ex eis fiat aliquo modo unum, et altera a reliqua denominetur (hoc enim vis
coniunctae praedicationis requirit, ut supra diximus de partibus definitionis);
album autem et musicum secundum se non faciunt unum per se, ut patet, neque
unum per accidens. Licet enim ipsa ut adunantur in subiecto uno sint unum
subiecto per accidens, tamen ipsamet quae adunantur in uno, tertio subiecto, non
faciunt inter se unum per accidens: tum quia neutrum informat alterum (quod
requiritur ad unitatem per accidens aliquorum inter se, licet non in tertio);
tum quia non considerata subiecti unitate, quae est extra eorum rationes, nulla
remanet inter ea unitatis causa. Dicens ergo quod album et musicum non sunt
unum, scilicet inter se, aliquo modo, causam expressit quare coniunctim non
infertur ex eis praedicatum. Et quia oppositorum eadem est disciplina,
insinuavit per illamet verba bonitatem illius consequentiae. Ex eo enim quod
homo et albus se habent sicut potentia et actus (et ita albedo informet,
denominet atque unum faciat cum homine ratione sui), sequitur quod ex divisis
potest inferri coniuncta praedicatio; ut dicatur: est homo et albus; ergo est homo
albus. Sicut per oppositum dicebatur quod ideo musicum et album non inferunt
coniunctum praedicatum quia neutrum alterum informabat. There is another point
that must be mentioned. Aristotle in proposing the question draws three
consequences: "He is an animal and biped, therefore he is a biped animal”
and "He is a man and white, therefore he is a white man” and "He is a
lute player and good, therefore he is a good lute player.” Then he states that
the first two consequences are good, the third not. His intention was to
inquire into the cause of this diversity, but in solving the question he
mentions only the first and third consequences, leaving the goodness or badness
of the second consequence undiscussed. Why is this? I would say in answer to
this that in these few words he has also implied the nature of the second
consequence, for there is a more profound meaning to the statement in the text
that whiteness and being musical is not one. It is a meaning that not only
indicates what has already been explained but also its cause, and from this the
nature of the second consequence is apparent. For the reason "white” and
"musical” do not infer a conjoined predication is that in conjoined
predication one part must be subjected to the other as potency to act such that
in some way one thing is formed from them and one is denominated from the other
(for the force of the conjoined predication requires this, as we have said
above concerning the parts of the definition). "White” and "musical,”
however, do not in themselves form one thing per se, as is evident, nor do they
form one thing accidentally. For while it is true that as united in a subject
they are one in subject accidentally, nevertheless things that are united in
one third subject do not form one thing accidentally among themselves: first,
because neither informs the other (which is required for accidental unity of
things among themselves, although not in a third thing); secondly, because,
considered apart from the unity of a subject, which is outside of their
notions, there is no cause of unity between them. Therefore, when Aristotle
says that whiteness and being musical are not one, i.e., among themselves, in
some measure he expresses the reason why a predicate is not conjointly inferred
from them. And since the same discipline extends to opposites, the goodness of
the second consequence is implied by these words. That is, man and white are
related as potency and act (and so, on its own account whiteness informs,
denominates, and forms one thing with ‘man’); therefore from these taken
divisively a conjoined predication can be inferred, i.e., "He is man and
white, therefore be is a white man”; just as, in the opposite case, it was said
that "musical” and "white” do not infer a conjoined predicate because
neither informs the other. 9 Nec obstat quod album faciat unum per accidens cum
homine: non enim dictum est quod unitas per accidens aliquorum impedit ex
diversis inferre coniunctum, sed quod unitas per accidens aliquorum ratione
tertii tantum est illa quae impedit. Talia enim quae non sunt unum per accidens
nisi ratione tertii, inter se nullam habent unitatem; et propterea non potest
inferri coniunctum, ut dictum est, quod unitatem importat. Illa vero quae sunt
unum per accidens ratione sui, seu inter se, ut, homo albus, cum coniuncta
accipiuntur, unitate necessaria non carent, quia inter se unitatem habent.
Notanter autem apposui ly tantum: quoniam si aliqua duo sunt unum per accidens,
ratione tertii subiecti scilicet, sed non tantum ex hoc habent unitatem, sed etiam
ratione sui, ex hoc quod alterum reliquum informat, ex istis divisis non
prohibetur inferri coniunctum. Verbi gratia, optime dicitur: est quantum et est
coloratum; ergo est quantum coloratum: quia color informat quantitatem. There
is no opposition between the position just stated and the fact that white forms
an accidental unity with man. For we did not say that accidental unity of
certain things impedes inferring a conjunction from divided things,” but that
accidental unity of certain things only by reason of a third thing is the one
that impedes. Things that are one accidentally only by reason of a third thing
have no unity among them selves; and for this reason a conjunction, which
implies unity, cannot be inferred, as we have said. But things that are one
accidentally on their own account, i.e., among themselves, as for example,
"white man,” when taken conjointly, have the necessary unity because they
have unity among themselves. Notice that I have added "only.” The reason
is that if any two C are one accidentally, namely, by reason of a third
subject, and they not only have unity from this but also on their own account
(because one informs the other), then from these taken divisively a conjoined
inference can be made. For example, we can infer, "It is a quantity and it
is colored, therefore it is a colored quantity,” because color informs
quantity. Cajetanus lib. 2 l. 6 n. 10Potes autem credere quod secunda illa
consequentia, quam non explicite confirmavit Aristoteles respondendo, sit bona
et ex eo quod ipse proponendo quaestionem asseruit bonam, et ex eo quod nulla
instantia reperitur. Insinuavit autem et Aristoteles quod sola talis unitas
impedit illationem coniunctam, quando dixit quaecumque secundum accidens
dicuntur vel de eodem vel alterutrum de altero. Cum enim dixit, secundum
accidens de eodem, unitatem eorum ex sola adunatione in tertio posuit (sola
enim haec per accidens praedicantur de eodem, ut dictum est); cum autem
addidit, vel alterutrum de altero, mutuam accidentalitatem ponens, ex nulla
parte inter se unitatem reliquit. Utraque ergo per accidens adducta praedicata,
in tertio scilicet vel alterutrum, quae impediant illationem coniunctam,
nonnisi in tertio unitatem habent. You can hold as true that this second
consequence is good even though Aristotle has not explicitly confirmed it by
returning to it, both from the fact that in proposing the question he has
claimed it as good and also because there is no instance opposed to it.
Moreover, Aristotle has implied that it is only such unity that impedes the
conjoined inference where he says: which are said accidentally, either of the
same subject or of one another. By accidentally of the same subject, he posits
their unity to be only from union in a third thing (for only these are
predicated accidentally of the same subject, as was said). When he adds, or of
one another—positing mutual accidentality—no unity at all is left between them.
Therefore, both kinds of accidental predicates, namely, in a third thing or in
one another, that impede a conjoined inference have unity only in a third thing.
11 Deinde cum dicit: amplius nec etc., satisfacit instantiis in probatione
adductis, et in illis in quibus explicita committebatur nugatio, et in illis in
quibus implicita; et ait quod non solum inferre ex divisis coniunctum non licet
quando praedicata illa sunt per accidens, sed nec etiam quaecunque insunt in
alio: idest, sed nec hoc licet quando praedicata includunt se, ita quod unum
includatur in significato formali alterius intrinsece, sive explicite, ut album
in albo, sive implicite, ut animal et bipes in homine. Quare neque album
frequenter dictum divisim infert coniunctum, neque homo divisim ab animali vel
bipede enunciatum, animal bipes, coniunctum cum homine infert; ut dicatur, ergo
Socrates est homo bipes, vel animal homo. Insunt enim in hominis ratione,
animal et bipes actu et intellectu, licet implicite. Stat ergo solutio
quaestionis in hoc, quod unitas plurium per accidens in tertio tantum et
nugatio, impediunt ex divisis inferri coniunctum; et consequenter, ubi neutrum
horum invenitur, ex divisis licebit inferre coniunctum. Et hoc intellige quando
divisae sunt simul verae de eodem et cetera. Then when he says, Furthermore,
predicates that are present in one another cannot be combined simply, etc., he
gives the solution for the instances (both the explicitly nugatory and the
implicitly nugatory) cited in the proof. It is not only not licit, he says, to
infer a union from divided predicates when these are accidental, but it is not
licit when the predicates are present in one another. That is, it is not licit
to infer a conjoined predicate from divided predicates when the predicates
include one another in such a way that one is included in the formal
signification of another intrinsically, or explicitly, as "white” in
white,” or implicitly, as "animal” and "biped” in "man.”
Therefore, white” said repeatedly and divisively does not infer a conjoined
predication, nor does "man” divisively enunciated from "animal” or
"biped” infer "biped” or "animal” conjoined with man, such that
we could say, "Therefore, Socrates is a biped-man” or "animal-man.”
For animal and biped are included in the notion of man in act and in
understanding, although implicitly. The solution of the question, then, is
this: the inferring of a conjunction from divided predicates is impeded when
there is unity of the many accidentally only in a third thing and when there is
a nugatory result. Consequently, where neither of these is found it will be
licit to infer a conjunction from divided predicates. It is to be understood
that this applies when the divided predicates are at once true of the same
subject. VII. 1. Postquam expedita est prima dubitatio, tractat secundam
dubitationem. Et circa hoc tria facit: primo, movet ipsam quaestionem; secundo,
solvit eam; ibi: sed quando in adiecto etc., tertio, ex hoc excludit quemdam
errorem; ibi: quod autem non est et cetera. Est ergo quaestio: an ex
enunciatione habente praedicatum coniunctum, liceat inferre enunciationes
dividentes illud coniunctum; et est quaestio contraria superiori. Ibi enim
quaesitum est an ex divisis inferatur coniunctum; hic autem quaeritur an ex
coniuncto sequantur divisa. Unde movendo quaestionem dicit: verum
autemaliquando est dicere de aliquo et simpliciter, idest divisim, quod
scilicet prius dicebatur coniunctim, ut quemdam hominem album esse hominem, aut
quoddam album hominem album esse, idest ut ex ista, Socrates est homo albus,
sequitur divisim, ergo Socrates est homo, ergo Socrates est albus. Non autem semper,
idest aliquando autem ex coniuncto non inferri potest divisim; non enim
sequitur, Socrates est bonus citharoedus, ergo est bonus. Unde haec est
differentia, quod quandoque licet et quandoque non. Et adverte quod notanter
adduxit exemplum de homine albo, inferendo utramque partem divisim, ut
insinuaret quod intentio quaestionis est investigare quando ex coniuncto potest
utraque pars divisim inferri, et non quando altera tantum. Aristotle now takes
up the second question in relation to multiple enunciations. He first presents
it, and then solves it where he says, When something opposed is present in the
adjunct, from which a contradiction follows, it will not be true to predicate
them singly, but false, etc. Finally, he excludes an error where he says, In
the case of non-being, however, it is not true to say that because it is a
matter of opinion, it is something, etc. The second question is this: Is it
licit to infer from an enunciation having a conjoined predication, enunciations
dividing that conjunction? This question is the contrary of the first question.
The first asked whether a conjoined predicate could be inferred from divided
predicates; the present one asks whether divided predicates follow from
conjoined predicates. When he presents the question he says, on the other hand,
it is also true to say predicates of something singly, i.e., what was
previously said conjointly may be said divisively; for example, that some white
man is a man, or that some white man is white. That is, from "Socrates is
a white man,” follows divisively, "Therefore Socrates is a man,”
"There fore Socrates is white.” However, this is not always the case,
i.e., some times it is not possible to infer divisively from conjoined
predicates, for this does not follow: "Socrates is a good lute player,
therefore he is good.” Hence, sometimes it is licit, sometimes not. Note that
in inferring each part divisively he takes as an ex ample "white man.”
This is significant, for by it he means to imply that his intention is to
investigate when each part can be inferred divisively from a conjoined
predicate, and not when only one of the two can be inferred. 2 Deinde cum
dicit: sed quando in adiecto etc., solvit quaestionem. Et duo facit: primo,
respondet parti negativae quaestionis, quando scilicet non licet; secundo, ibi:
quare in quantiscumque etc., respondet parti affirmativae, quando scilicet
licet. Circa primum considerandum quod quia dupliciter contingit fieri
praedicatum coniunctum, uno modo ex oppositis, alio modo ex non oppositis, ideo
duo facit: primo, ostendit quod numquam ex praedicato coniuncto ex oppositis
possunt inferri eius partes divisim; secundo, quod nec hoc licet universaliter
in praedicato coniuncto ex non oppositis, ibi: vel etiam quando et cetera. Ait
ergo quod quando in termino adiecto inest aliquid de numero oppositorum, ad
quae sequitur contradictio inter ipsos terminos, non verum est, scilicet
inferre divisim, sed falsum. Verbi gratia cum dicitur, Caesar est homo mortuus,
non sequitur, ergo est homo: quia ly mortuus, adiacens homini, oppositionem
habet ad hominem, quam sequitur contradictio inter hominem et mortuum: si enim
est homo, non est mortuus, quia non est corpus inanimatum; et si est mortuus,
non est homo, quia mortuum est corpus inanimatum. Quando autem non inest,
scilicet talis oppositio, verum est, scilicet inferre divisim. Ratio autem
quare, quando est oppositio in adiecto, non sequitur illatio divisa est, quia
alter terminus ex adiecti oppositione corrumpitur in ipsa enunciatione
coniuncta. Corruptum autem seipsum absque corruptione non infert, quod illatio
divisa sonaret. When he says, When something opposed is present in the adjunct,
etc., he solves the question, first by responding to the negative part of the
question, i.e., when it is not licit; secondly, to the affirmative part, i.e.,
when it is licit, where he says, Therefore, in whatever predications no
contrariety is present when definitions are put in place of the names, and
wherein predicates are predicated per se and not accidentally, etc. It should
be noted, in relation to the negative part of the question, that a conjoined
predicate may be formed in two ways: from opposites and from non-opposites.
Therefore, he shows first that the parts in a conjoined predicate of opposites
can never be inferred divisively. Secondly, he shows that this is not licit
universally in a conjoined predicate of non-opposites, where he says, Or,
rather, when something opposed is present in it, it is never true; but when
something opposed is not present, it is not always true. Aristotle says, then,
that when something that is an opposite is contained in the adjacent term,
which results in a contradiction between the terms themselves, it is not true,
namely, to infer divisively, but false. For example, when we say, "Caesar
is a dead man,” it does not follow, "Therefore he is a man,” because the
contradiction between 11 man” and "dead” which results from adding the
"dead” to "man” is opposed to man, for if he is a man he is not dead,
because he is not an inanimate body; and if he is dead he is not a man, because
as dead he is an inanimate body. When something opposed is not present, i.e.,
there is no such opposition, it is true, i.e., it is true to infer divisively.
The reason a divided inference does not follow when there is opposition in the
added term is that in a conjoined enunciation the other term is destroyed by
the opposition of the added term. But that which has been destroyed is not
inferred apart from the destruction, which is what the divided inference would
signify. Cajetanus lib. 2 l. 7 n. 3Dubitatur hic primo circa id quod
supponitur, quomodo possit vere dici, Caesar est homo mortuus, cum enunciatio
non possit esse vera, in qua duo contradictoria simul de aliquo praedicantur.
Hoc enim est primum principium. Homo autem et mortuus, ut in littera dicitur,
contradictoriam oppositionem includunt, quia in homine includitur vita, in
mortuo non vita. Dubitatur secundo circa ipsam consequentiam, quam reprobat
Aristoteles: videtur enim optima. Cum enim ex enunciatione praedicante duo
contradictoria possit utrumque inferri (quia aequivalet copulativae), aut
neutrum (quia destruit seipsam), et enunciatio supradicta terminos oppositos
contradictorie praedicet, videtur sequi utraque pars, quia falsum est neutram
sequi. Two questions arise at this point. The first concerns something assumed
here: how can it ever be true to make such a statement as "Caesar is a
dead man,” since an enunciation cannot be true in which two contradictories are
predicated at the same time of something (for this is a first principle). But
"man” and "dead,” as is said in the text, include contradictory
opposition, for in man is included life, and in dead, non-life. The second
question concerns the consequent that Aristotle rejects, which appears to be
good. The enunciation given as an example predicates terms that are opposed
contradictorily. But from an enunciation predicating two contradictory terms,
either both can be inferred (because it is equivalent to a copulative
enunciation), or neither (because it destroys itself); therefore both parts
seem to follow, since it is false that neither follows. Cajetanus lib. 2 l. 7
n. 4Ad hoc simul dicitur quod aliud est loqui de duobus terminis secundum se,
et aliud de eis ut unum stat sub determinatione alterius. Primo namque modo,
homo et mortuus, contradictionem inter se habent, et impossibile est quod simul
in eodem inveniantur. Secundo autem modo, homo et mortuus, non opponuntur, quia
homo transmutatus iam per determinationem corruptivam importatam in ly mortuus,
non stat pro suo significato secundum se, sed secundum exigentiam termini
additi, a quo suum significatum distractum est. Ad utrunque autem insinuandum
Aristoteles duo dixit, et quod habent oppositionem quam sequitur contradictio,
attendens significata eorum secundum se, et quod etiam ex eis formatur una vera
enunciatio cum dicitur, Socrates est homo mortuus, attendens coniunctionem
eorum alterius corruptivam. Unde patet quid dicendum sit ad dubitationes. Ad
utramque siquidem dicitur, quod non enunciantur duo contradictoria simul de
eodem, sed terminus ut stat sub distractione, seu transmutatione alterius, cui
secundum se esset contradictorius. These two questions can be answered
simultaneously. It is one thing to speak of two terms in themselves, and
another to speak of them as one stands under the determination of another.
Taken in the first way, "man” and "dead” have a contradiction between
them and it is impossible that they be found in the same thing at the same
time. In the second way, however, "man” and "dead” are not opposed,
since "man,” changed by the destructive element introduced by "dead,”
no longer stands for what it signifies as such, but as determined by the term
added, by which what is signified is removed. Aristotle, in order to imply
both, says two things: that they have the opposition upon which contradiction
follows if you regard what they signify in themselves; and, that one true
enunciation is formed from them as in "Socrates is a dead man,” if you
regard their conjunction as destructive of one of them. Accordingly, the answer
to the two questions is evident. In a case such as this two contradictories are
not enunciated of the same thing at the same time, but one term as it stands
under dissolution or transmutation from the other, to which by itself it would
be contradictory. Cajetanus lib. 2 l. 7 n. 5Dubitatur quoque circa id quod ait:
inest aliquid oppositorum quae consequitur contradictio; superflue enim videtur
addi illa particula, quae consequitur contradictio. Omnia enim opposita consequitur
contradictio, ut patet discurrendo in singulis; pater enim est non filius, et
album non nigrum, et videns non caecum et cetera. Et ad hoc dicendum est quod
opposita possunt dupliciter accipi: uno modo formaliter, idest secundum sua
significata; alio modo denominative, seu subiective. Verbi gratia, pater et
filius possunt accipi pro paternitate et filiatione, et possunt accipi pro eo
qui denominatur pater vel filius. Rursus cum omnis distinctio fiat oppositione
aliqua, ut dicitur in X metaphysicae, supponatur omnino distincta esse
opposita. Dicendum ergo est quod, licet ad omnia opposita seu distincta
contradictio sequatur inter se formaliter sumpta, non tamen ad omnia opposita
sequitur contradictio inter ipsa denominative sumpta. Quamvis enim pater et filius
mutuam sui negationem inferant inter se formaliter, quia paternitas est non
filiatio, et filiatio est non paternitas; in relatione tamen ad denominatum,
contradictionem non necessario inferunt. Non enim sequitur, Socrates est pater;
ergo non est filius; nec e converso. Ut persuaderet igitur Aristoteles quod non
quaecunque opposita colligata impediunt divisam illationem (quia non illa quae
habent contradictionem annexam formaliter tantum, sed illa quae habent
contradictionem et formaliter et secundum rem denominatam), addidit: quae
consequitur contradictio, in tertio scilicet denominato. Et usus est satis
congrue vocabulo, scilicet, consequitur: contradictio enim ista in tertio est
quodammodo extra ipsa opposita. There is also a question about something else
that Aristotle says, namely, something opposed is present... from which a
contradiction follows. The phrase from which a contradiction follows seems to
be superfluous, for contradiction follows upon all opposites, as is evident in
discoursing about singulars; for a father is not a son, and white is not black,
and one seeing is not blind, etc. Opposites, however, can be taken in two ways:
formally, i.e., according to what they signify, and denominatively, or
subjectively. For example, father and son can be taken for paternity and
filiation, or they can be taken for the one who is denominated a father or a
son. But, again, since every distinction is made by some opposition, as is said
in X Metaphysicae [3: 1054a 20], it could be supposed that opposites are wholly
distinct. It must be pointed out, therefore, that although contradiction
follows between all opposites or distinct things formally taken, nevertheless,
contradiction does not follow upon all opposites denominatively taken. Father
and son formally taken infer a mutual negation of one another, for paternity is
not filiation and filiation is not paternity, but in respect to what is
denominated they do not necessarily infer a contradiction. It does not follow,
for example, that "Socrates is a father; therefore he is not a son,” nor
conversely. Aristotle, therefore, in order to establish that not all combined
opposites prevent a divided inference (since those having a contradiction
applying only formally do not prevent a divided inference, but those having a
contradiction both formally and according to the thing denominated do prevent a
divided inference) adds, from which a contradiction follows, namely, in the
third thing denominated. And appropriately enough he uses the word follows, for
the contradiction in " the third thing denominated is in a certain way
outside of the opposites themselves. Cajetanus lib. 2 l. 7 n. 6Deinde cum
dicit: vel etiam quando est etc., declarat quod ex non oppositis in tertio
coniunctis secundum unum praedicatum, non universaliter possunt inferri partes
divisim. Et primo, hoc proponit quasi emendans quod immediate dixerat,
subiungens: vel etiam quando est, scilicet oppositio inter terminos coniunctos,
falsum est semper, scilicet inferre divisim; quasi diceret: dixi quod quando
inest oppositio, non verum sed falsum est inferre divisim; quando autem non
inest talis oppositio, verum est inferre divisim. Vel etiam ut melius dicatur,
quod quando est oppositio, falsum est semper, quando autem non inest talis
oppositio, non semper verum est. Et sic modificavit supradicta addendo ly
semper, et, non semper. Et subdens exemplum quod non semper ex non oppositis
sequatur divisio, ait: ut, Homerus est aliquid ut poeta; ergo etiam est? Non.
Ex hoc coniuncto, est poeta, de Homero enunciato, altera pars, ergo Homerus
est, non sequitur; et tamen clarum est quod istae duae partes colligatae, est
et poeta, non habent oppositionem, ad quam sequitur contradictio. Igitur non
semper ex non oppositis coniunctis illatio divisa tenet et cetera. When he
says, Or, rather, when something opposed is present in it, it is never true,
etc., he explains that the parts cannot universally be inferred divisively in
the case of a conjoined predicate in which there is a non-opposite as the third
thing denominated. He proposes this—Or, rather, when something opposed is
contained in it, i.e., opposition between the terms conjoined—as if amending
what he has just said, namely, it is always false, i.e., to infer divisively.
What he is saying, then, is this: I have said that when there is inherent
opposition it is not true but false to infer divisively; but when there is not
such opposition it is true to infer divisively; or, even better, when there is
opposition it is always false but when there is not such opposition it is not
always true. That is, he modifies what he first said by the addition of
"always” and "not always.” Then he adds an example to show that
division does not always follow from non-opposites: For example, Homer is
something, say, a poet. Is it therefore true to say also that Homer "is,”
or not? From the conjoined predicate, is a poet, enunciated of Homer, one part,
Therefore Homer is, does not follow; yet it is evident that these two conjoined
parts, "is” and "poet,” do not have the opposition upon which contradiction
follows. Therefore, in the case of conjoined non-opposites a divided inference
does not always hold. Cajetanus lib. 2 l. 7 n. 7Deinde cum dicit: secundum
accidens etc., probat hoc, quod modo dictum est, ex eo quod altera pars istius
compositi, scilicet, est, in antecedente coniuncto praedicatur de Homero
secundum accidens, idest ratione alterius, quoniam, scilicet poeta, praedicatur
de Homero, et non praedicatur secundum se ly est de Homero; quod tamen
infertur, cum concluditur: ergo Homerus est. Considerandum est hic quod ad
solvendam illam conclusionem negativam, scilicet,- non semper ex non oppositis
coniunctis infertur divisim,- sufficit unam instantiam suae oppositae
universali affirmativae afferre. Et hoc fecit Aristoteles adducendo illud genus
enunciationum, in quo altera pars coniuncti est aliquid pertinens ad actum
animae. Loquimur enim modo de Homero vivente in poematibus suis in mentibus
hominum. In his siquidem enunciationibus partes coniunctae non sunt oppositae
in tertio, et tamen non licet inferre utramque partem divisim. Committitur enim
fallacia secundum quid ad simpliciter. Non enim valet, Caesar est laudatus,
ergo est: et simile est de esse in effectu dependente in conservari. Quomodo
autem intelligenda sit ratio ad hoc adducta ab Aristotele in sequenti particula
dicetur. When he says, The "is” here is predicated accidentally of Homer,
he proves what he has said. One part of this composite, namely, "is,” is
predicated of Homer in the antecedent conjunction accidentally, i.e., by reason
of another, namely, with regard to the "poet” which is predicated of
Homer; it is not predicated as such of Homer. Nevertheless, this is what is
inferred when one concludes "Therefore Homer is.” To validate his negative
conclusion, namely, that it is not always true to infer divisively from
conjoined non-opposites, it was sufficient to give one instance of the opposite
of the universal affirmative. To do this Aristotle introduces that genus of
enunciation in which one part of the conjunction is something pertaining to an
act of the mind (for we are speaking only of Homer living in his poems in the
minds of men). In such enunciations the parts conjoined are not opposed in the
third thing denominated; nevertheless it is not licit to infer each part divisively,
for the fallacy of going from the relative to the absolute will be committed.
For example, it is not valid to say, "Caesar is praiseworthy, therefore he
is,” which is a parallel case, i.e., of an effect whose existence requires
maintenance. Aristotle will explain in the following sections of the text how
the reasoning in the above text is to be understood. Cajetanus lib. 2 l. 7 n.
8Deinde cum dicit: quare in quantiscunque etc., respondet parti affirmativae
quaestionis, quando scilicet ex coniunctis licet inferre divisim. Et ponit duas
conditiones oppositas supradictis debere convenire in unum, ad hoc ut possit
fieri talis consequentia; scilicet, quod nulla inter partes coniuncti oppositio
sit, et quod secundum se praedicentur. Unde dicit inferendo ex dictis: quare in
quantiscunque praedicamentis, idest praedicatis ordine quodam adunatis, neque
contrarietas aliqua, in cuius ratione ponitur contradictio in tertio (contraria
enim sunt quae mutuo se ab eodem expellunt), aut universaliter nulla oppositio inest,
ex qua scilicet sequatur contradictio in tertio, si definitiones pro nominibus
sumantur. Dixit hoc, quia licet in quibusdam non appareat oppositio, solis
nominibus positis, sicut, homo mortuus, et in quibusdam appareat, ut, vivum
mortuum; hoc tamen non obstante, si, positis nominum definitionibus loco
nominum, oppositio appareat, inter opposita collocamus. Sicut, verbi gratia,
homo mortuus, licet oppositionem non praeseferat, tamen si loco hominis et
mortui eorum definitionibus utamur, videbitur contradictio. Dicemus enim corpus
animatum rationale, corpus inanimatum irrationale. In quantiscunque, inquam,
coniunctis nulla est oppositio, et secundum se, et non secundum accidens
praedicantur, in his verum erit dicere et simpliciter, idest divisim quod fuerat
coniunctim enunciatum. When he says, Therefore, in whatever predications no
contrariety is present when definitions are put in place of the names, etc., he
replies to the affirmative part of the question, i.e., when it is licit to
infer divisively from conjoined predicates. He maintains that two
conditions—opposed to what has been said earlier in this portion of the
text—must combine in one enunciation in order that such a consequence be
effected: there must be no opposition between the parts conjoined, and they
must be predicated per se. He says, then, inferring from what has been said:
Therefore, in whatever predicaments, i.e., predicates joined in a certain
order, no contrariety, in virtue of which contradiction is posited in the third
thing denominated (for contraries mutually remove each other from the same
thing), is present, or universally, no opposition is present, i.e., upon which
a contradiction follows in the third thing denominated, when definitions are
taken in place of the names.... He says this because it may be the case that
the opposition is not apparent from the names alone, as in "dead man,” and
again it may be, as in "living dead,” but whether apparent or not it will
be evident that we are putting together opposites if we posit the definitions
of the names in place of the names. For example, in the case of "dead
man,” if we replace "man” and "dead,” with their definitions, the
contradiction will be evident, for what we are saying is "rational animate
body, irrational inanimate body.” In whatever conjoined predicates, then, there
is no opposition, and wherein predicates are predicated per se and not
accidentally, in these it will also be true to predicate them singly, i.e., say
divisively what had been enunciated conjointly. Cajetanus lib. 2 l. 7 n. 9Ad
evidentiam secundae conditionis hic positae, nota quod ly secundum se potest
dupliciter accipi: uno modo positive, et sic dicit perseitatem primi, secundi,
universaliter, quarti modi; alio modo negative, et sic idem sonat quod non per
aliud. Rursus considerandum est quod cum Aristoteles dixit de praedicato
coniuncto quod, secundum se praedicetur, ly secundum se potest ad tria referri,
scilicet, ad partes coniuncti inter se, ad totum coniunctum respectu subiecti,
et ad partes coniuncti respectu subiecti. Si ergo accipiatur ly secundum se
positive, licet non falsus, extraneus tamen a mente Aristotelis reperitur
sensus ad quodcunque illorum trium referatur. Licet enim valeat, est homo
risibilis, ergo est homo et est risibilis, et, est animal rationale, ergo est
animal et est rationale; tamen his oppositae inferunt similes consequentias.
Dicimus enim, est albus musicus, ergo est musicus et est albus: ubi nulla est
perseitas, sed est coniunctio per accidens, tam inter partes inter se, quam
inter totum et subiectum, quam etiam inter partes et subiectum. Liquet igitur
quod non accipit Aristoteles ly secundum se positive, ex eo quod vana fuisset
talis additio, quae ab oppositis non facit in hoc differentiam. Ad quid enim
addidit, secundum se, et non, secundum accidens, si tam illae quae sunt
secundum se, modo exposito, quam illae quae sunt secundum accidens ex
coniuncto, inferunt divisum? Si vero accipiatur secundum se, negative, idest,
non per aliud, et referatur ad partes coniuncti inter se, falsa invenitur
regula. Nam non licet dicere, est bonus citharoedus; ergo est bonus et
citharoedus; et tamen ars citharizandi et bonitas eius sine medio coniunguntur.
Et similiter contingit, si referatur ad totum coniunctum respectu subiecti, ut
in eodem exemplo apparet. Totum enim hoc, citharoedus bonus, non propter aliud
convenit homini; et tamen non infert, ut dictum est, divisionem. Superest ergo
ut ad partem coniuncti respectu subiecti referatur, et sit sensus: quando
aliqua coniunctim praedicata, secundum se, idest, non per aliud, praedicantur,
idest, quod utraque pars praedicatur de subiecto non propter alteram, sed
propter seipsam et subiectum, tunc ex coniuncto infertur divisa praedicatio. In
order to make this second condition clear, it should be noted that "per
se” can be taken in two ways: positively, and thus it refers to "perseity”
of the first, of the second, and of the fourth mode universally; or negatively,
and thus it means the same as not through something else. It should also be
noted that when Aristotle says of a conjoined predicate that it is predicated
"per se,” the "per se” can be referred to three things: to the parts
of the conjunction among themselves, to the whole conjunction with respect to
the subject, and to the parts of the conjoined predicate with respect to the
subject. Now if "per se” is taken positively, although it will not be
false, nevertheless in reference to any of these three the meaning will be
found to be foreign to the mind of Aristotle. For, although these are valid: "He
is a risible man, therefore he is man and he is risible” and "He is a
rational animal, therefore he is animal and he is rational,” nevertheless the
opposite kind of predication infers consequences in a similar way. For example,
there is no 11 perseity” in "He is a white musician, therefore he is white
and he is a musician”; rather, there is an accidental conjunction, not only
between the parts among themselves and between the whole and the subject, but
even between the parts and the subject. It is evident, therefore, that
Aristotle is not taking "per se” positively, for an addition that does not
differentiate this kind of predication from the opposed kind of predication
would be useless. Why add "per se and not accidentally,” if both those
that are per se in the way explained and those that are conjoined accidentally
infer divisively? If "per se” is taken negatively, i.e., as not through
another, and is referred to the parts of the conjoined predicate among
themselves, the rule is found to be false. It is not licit, for example, to
say, "He is a good lute player, therefore he is good and a lute player”;
yet the art of lute-playing and its goodness are conjoined without anything as
a medium. And the case is the same if it is referred to the whole conjoined
predicate with respect to the subject, as is clear in the same example, for the
whole, "good lute player,” does not belong to man on account of another,
and yet it does not infer the division, as has already been said. Therefore,
"per se” is referred to the parts of the conjoined predicate with respect
to the subject and the meaning is: when the predicates are conjointly
predicated per se, i.e., not through another, i.e., each part is predicated of
the subject, not on account of another but on account of itself and the
subject, then a divided predication is inferred from the conjoined predication.
10 Et hoc modo exponunt Averroes et Boethius; et vera invenitur regula, ut
inductive facile manifestari potest, et ratio ipsa suadet. Si enim partes
alicuius coniuncti praedicati ita inhaerent subiecto quod neutra propter
alteram insit, earum separatio nihil habet quod veritatem impediat divisarum.
Est et verbis Aristotelis consonus sensus iste. Quoniam et per hoc distinguit
inter enunciationes ex quibus coniunctum infert divisam praedicationem, et eas
quibus haec non inest consequentia. Istae siquidem ultra habentes oppositiones
in adiecto, sunt habentes praedicatum coniunctum, cuius una partium alterius
est ita determinatio, quod nonnisi per illam subiectum respicit, sicut apparet
in exemplo ab Aristotele adducto, Homerus est poeta. Est siquidem ibi non
respicit Homerum ratione ipsius Homeri, sed praecise ratione poesis relictae;
et ideo non licet inferre, ergo Homerus est. Et simile est in negativis. Si
quis enim dicat, Socrates non est paries, non licet inferre, ergo Socrates non
est, eadem ratione, quia esse non est negatum de Socrate, sed de pariete in
Socrate. This is the way in which Averroes and Boethius explain this and,
explained in this way, a true rule is found, as can easily be manifested
inductively; moreover, the reasoning is compelling. For, if the parts of some
conjoined predicate so inhere in the subject that neither is in it on account
of another, their separation produces nothing that could impede the truth of
the divided predicates. And this meaning is consonant with the words of
Aristotle, for by this he also distinguishes between enunciations in which the
conjoined predicate infers a divided predicate, and those in which this
consequence is not inherent. For besides the predicates having opposition in
the additional determining element, there are those with a conjoined predicate
wherein one part is a determination of the other in such a way that only
through it does it regard the subject, as is evident in Aristotle’s example,
"Homer is a poet.” The "is” does not regard Homer by reason of Homer
himself, but precisely by reason of the poetry he left. Hence it is not licit
to infer, "Therefore Homer is.” The same is true with respect to negative
enunciations of this type, for it is not licit to infer from "Socrates is
not a wall,” "Therefore Socrates is not.” And the reason is the same:
"to be” is not denied of Socrates, but of "wallness” in Socrates. 11 Et
per hoc patet qualiter sit intelligenda ratio in textu superiore adducta.
Accipitur enim ibi, secundum se negative, modo hic exposito, et secundum
accidens, idest propter aliud. In eadem ergo significatione est usus ly
secundum accidens, solvendo hanc et praecedentem quaestionem: utrobique enim
intellexit secundum accidens, idest, propter aliud, coniuncta, sed ad diversa
retulit. Ibi namque ly secundum accidens determinabat coniunctionem duorum
praedicatorum inter se; hic vero determinat partem coniuncti praedicati in
ordine ad subiectum. Unde ibi, album et musicum, inter ea quae secundum
accidens sunt, numerabantur; hic autem non. Accordingly, it is evident how the
reasoning in the text above is to be understood. "Per se” is taken
negatively in the way explained here, and "accidentally” as "on
account of another.” The "accidentally” is used with the same signification
in solving this and the preceding question. In both he understands
"accidentally” to mean conjoined on account of another, but it is referred
to diverse things. In the preceding question "accidentally” determines the
way in which two predicates are conjoined among themselves; in the latter
question it determines the way in which the part of the conjoined predicate is
ordered to the subject. Hence, in the former, "white” and "musician”
are numbered among the things that are accidental, but in the latter they are
not. 12 Sed occurrit circa hanc expositionem dubitatio non parva. Si enim ideo
non licet ex coniuncto inferre divisim, quia altera pars coniuncti non respicit
subiectum propter se, sed propter alteram partem (ut dixit Aristoteles de ista
enunciatione, Homerus est poeta), sequetur quod numquam a tertio adiacente ad
secundum erit bona consequentia: quia in omni enunciatione de tertio adiacente,
est respicit subiectum propter praedicatum et non propter se et cetera. This
exposition seems a bit dubious, however. For if it is not licit to infer
divisively from a conjoined predicate because one part of the conjoined
predicate does not regard the subject on account of itself but on account of
another part (as Aristotle says of the enunciation, "Homer is a poet”), it
will follow that there will never be a good consequence from the third
determinant to the second, since in every enunciation with a third determinant,
"is” regards the subject on account of the predicate and not on account of
itself. 13 Ad huius difficultatis evidentiam, nota primo hanc distinctionem.
Aliud est tractare regulam, quando ex tertio adiacente infertur secundum et
quando non, et aliud quando ex coniuncto fit illatio divisa et quando non. Illa
siquidem est extra propositum, istam autem venamur. Illa compatitur varietatem
terminorum, ista non. Si namque unus terminorum, qui est altera pars coniuncti,
secundum significationem seu suppositionem varietur in separatione, non
infertur ex coniuncto praedicato illudmet divisim, sed aliud. Nota secundo hanc
propositionem: cum ex tertio adiacente infertur secundum, non servatur
identitas terminorum. Liquet ista quoad illum terminum, est. Dictum siquidem
fuit supra a sancto Thoma, quod aliud importat est secundum adiacens, et aliud
est tertium adiacens. Illud namque importat actum essendi simpliciter, hoc
autem habitudinem inhaerentiae vel identitatis praedicati ad subiectum. Fit
ergo varietas unius termini cum ex tertio adiacente infertur secundum, et
consequenter non fit illatio divisi ex coniuncto. Unde praelucet responsio ad
obiectionem, quod, licet ex tertio adiacente quandoque possit inferri secundum,
numquam tamen ex tertio adiacente licet inferri secundum tamquam ex coniuncto
divisum, quia inferri non potest divisim, cuius altera pars ipsa divisione
perit. Negetur ergo consequentia obiectionis et ad probationem dicatur quod,
optime concludit quod talis illatio est illicita infra limites illationum, quae
ex coniuncto divisionem inducunt, de quibus hic Aristoteles loquitur. To make
this difficulty clear, we must first note a distinction. It is one thing to
treat of the rule when inferring a second determinant from a third determinant,
and when not; it is quite another thing when a divided inference is made from a
conjoined predicate, and when not. The former is an additional point; the
latter is the question we have been inquiring about. The former is compatible
with variety of the terms, the latter not. For if one of the terms which is one
part of a conjoined predicate will be varied according to signification, or
supposition when taken separately, it is not inferred divisively from the
conjoined predicate, but the other is. Secondly, note this proposition: when a
second determinant is inferred from a third, identity of the terms is not kept.
This is evident with respect to the term "is.” Indeed, St. Thomas said
above that "is” as the second determinant implies one thing and "is”
as the third determinant another. The former implies the act of being simply,
the latter implies the relationship of inherence, or identity of the predicate
with the subject. Therefore, when the second determinant is inferred from the
third, one term is varied and consequently an inference is not made of the
divided from the conjoined. Accordingly, the response to the objection is
clear, for although the second determinant can sometimes be inferred from the
third, it is never licit for the second to be inferred from the third as
divided from conjoined, because you cannot infer divisively when one part is
destroyed by that very division. Therefore, let the consequence of the
objection be denied and for proof let it be said that the conclusion that such
an inference is illicit under the limits of inferences which induce division
from a conjoined predicate-is good, for this is what Aristotle is speaking of
here. 14 Sed contra hoc instatur. Quia etiam tanquam ex coniuncto divisa fit
illatio, Socrates est albus, ergo est, per locum a parte in modo ad suum totum,
ubi non fit varietas terminorum. Et ad hoc dicitur quod licet homo albus sit
pars in modo hominis (quia nihil minuit de hominis ratione albedo, sed ponit
hominem simpliciter), tamen est album non est pars in modo ipsius est, eo quod
pars in modo est universale cum conditione non minuente, ponente illud
simpliciter. Clarum est autem quod album minuit rationem ipsius est, et non
ponit ipsum simpliciter: contrahit enim ad esse secundum quid. Unde apud
philosophos, cum fit aliquid album, non dicitur generari, sed generari secundum
quid. But the objection is raised against this that in the case of
"Socrates is white, therefore be is,” a divided inference can be made as
from a conjoined predicate, in virtue of the argument that we can go from what
is in the mode of part to its whole as long as the terms remain the same. The
answer to this is as follows. It is true that white man is a part in the mode
of man (because white diminishes nothing of the notion of man but posits man
simply); is white, however, is not a part in the mode of is, because a part in
the mode of its whole is a universal, the condition not diminishing the
positing of it simply. But it is evident that white diminishes the notion of
is, and does not posit it simply, for it contracts it to relative being. Whence
when something becomes white, philosophers do not say that it is generated, but
generated relatively. 15 Sed instatur adhuc quia secundum hoc, dicendo, est
animal, ergo est, fit illatio divisa per eumdem locum. Animal enim non minuit
rationem ipsius est. Ad hoc est dicendum quod ly est, si dicat veritatem
propositionis, manifeste peccatur a secundum quid ad simpliciter. Si autem
dicat actum essendi, illatio est bona, sed non est de tertio, sed de secundo
adiacente. In accordance with this, the objection is raised that in saying
"It is an animal, therefore it is,” a divided inference is made in virtue
of the same argument; for animal does not diminish the notion of is itself. The
answer to this is that if the is asserts the truth of a proposition, the fallacy
is committed of going from the relative to the absolute; if the is asserts the
act of being, the inference is good, but it is of the second determinant, not
of the third. 16 Potest ulterius dubitari circa principale: quia sequitur, est
quantum coloratum, ergo est quantum, et, est coloratum; et tamen coloratum
respicit subiectum mediante quantitate: ergo non videtur recta expositio supra
adducta. Ad hoc et similia dicendum est quod coloratum non ita inest subiecto
per quantitatem quod sit eius determinatio et ratione talis determinationis
subiectum denominet, sicut bonitas artem citharisticam determinat; cum dicitur,
est citharoedus bonus; sed potius subiectum ipsum primo coloratum denominatur,
quantum vero secundario coloratum dicitur, licet color media quantitate
suscipiatur. Unde notanter supra diximus, quod tunc altera pars coniuncti
praedicatur per accidens, quando praecise denominat subiectum, quia denominat
alteram partem. Quod nec in similibus instantiis invenitur. There is another
doubt, this time about the principle in the exposition; for this follows,
"It is a colored quantity, therefore it is a quantity and it is colored”;
but "colored” regards the subject through the medium of quantity;
therefore the exposition given above does not seem to be correct. The answer to
this and to similar objections is that "colored” is not so present in a
subject by means of quantity that it is its determination, and by reason of
such a determination denominates the subject; as goodness,” for instance,
determines the art of lute-playing when we say "He is a good lute player.”
Rather, the subject itself is first denominated "colored” and quantity is
called "colored” secondarily, although color is received through the
medium of quantity. Hence, we made a point of saying earlier that one part of a
conjoined predicate is predicated accidentally when it denominates the subject
precisely because it denominates the other part.93 This is not the case here
nor in similar instances. 17 Deinde cum dicit: quod autem non est etc.,
excludit quorumdam errorem qui, quod non est, esse tali syllogismo concludere
satagebant: quod est, opinabile est. Quod non est, est opinabile. Ergo quod non
est, est. Hunc siquidem processum elidit Aristoteles destruendo primam
propositionem, quae partem coniuncti in subiecto divisim praedicat, ac si
diceret: est opinabile, ergo est. Unde assumendo subiectum conclusionis illorum
ait: quod autem non est; et addit medium eorum, quoniam opinabile est; et
subdit maiorem extremitatem, non est verum dicere, esse aliquid. Et causam
assignat, quia talis opinatio non propterea est, quia illud sit, sed potius
quia non est. When he says, In the case of non-being, however, it is not true
to say that it is something, etc., he excludes the error of those who were
satisfied to conclude that what is not, is. This is the syllogism they use:
"That which is, is ‘opinionable’; that which is not, is ‘opinionable’;
therefore what is not, is.” Aristotle destroys this process of reasoning by
destroying the first proposition, which predicates divisively a part of what is
conjoined in the subject, as if it said "It is ‘opinionable,’ therefore it
is.” Hence, assuming the subject of their conclusion, he says, In the case of
that which is not, however; and he adds their middle term, because it is a
matter of opinion; then he adds the major extreme, it is not true to say that
it is something. He then assigns the cause: it is not because it is but rather
because it is not, that there is such opinion. VIII. 1 Postquam determinatum
est de enunciationibus, quarum partibus aliud additur tam remanente quam
variata unitate, hic intendit declarare quid accidat enunciationi, ex eo quod
aliquid additur, non suis partibus, sed compositioni eius. Et circa hoc duo
facit: primo, determinat de oppositione earum; secundo, de consequentiis; ibi:
consequentiae vero et cetera. Circa primum duo facit: primo, proponit quod
intendit; secundo, exequitur; ibi: nam si eorum et cetera. Proponit ergo quod
iam perspiciendum est, quomodo se habeant affirmationes et negationes
enunciationum de possibili et non possibili et cetera. Et causam subdit: habent
enim multas dubitationes speciales. Sed antequam ulterius procedatur, quoniam
de enunciationibus, quae modales vocantur, sermo inchoatur, praelibandum est
esse quasdam modales enunciationes, et qui et quot sunt modi reddentes
propositiones modales; et quid earum sit subiectum et quid praedicatum; et quid
sit ipsa enunciatio modalis; quisque sit ordo earum ad praecedentes; et quae
necessitas sit specialem faciendi tractatum de his. Now that he has treated
enunciations in which something added to the parts leaves the unity intact on
the one hand, and varies it on the other, Aristotle begins to explain what
happens to the enunciation when something is added, not to its parts, but to
its composition. First, he explains their opposition; secondly, he treats of
the consequences of their opposition where he says, Logical sequences result
from modals ordered thus, etc. With respect to the first point, he proposes the
question he intends to consider and then begins his consideration where he
says, Let us grant that of mutually related enunciations, contradictories are
those opposed to each other, etc. He proposes that we must now investigate the
way in which affirmations and negations of the possible and not possible are
related. He gives the reason when he adds, for the question has many special
difficulties. However, before we proceed with the consideration of enunciations
that are called modal, we must first see that there are such things as modal
enunciations, and which and how many modes render propositions modal; we must
also know what their subject is and their predicate, what the modal enunciation
itself is, what the order is between modal enunciations and the enunciations
already treated, and finally, why a special treatment of them is necessary. 2 Quia
ergo possumus dupliciter de rebus loqui; uno modo, componendo rem unam cum
alia, alio modo, compositionem factam declarando qualis sit, insurgunt duo
enunciationum genera; quaedam scilicet enunciantes aliquid inesse vel non
inesse alteri, et hae vocantur de inesse, de quibus superius habitus est sermo;
quaedam vero enunciantes modum compositionis praedicati cum subiecto, et hae
vocantur modales, a principaliori parte sua, modo scilicet. Cum enim dicitur,
Socratem currere est possibile, non enunciatur cursus de Socrate, sed qualis
sit compositio cursus cum Socrate, scilicet possibilis. Signanter autem dixi
modum compositionis, quoniam modus in enunciatione positus duplex est. Quidam
enim determinat verbum, vel ratione significati ipsius verbi ut Socrates currit
velociter, vel ratione temporis consignificati, ut Socrates currit hodie;
quidam autem determinat compositionem ipsam praedicati cum subiecto; sicut cum
dicitur, Socratem currere est possibile. In illis namque determinatur qualis
cursus insit Socrati, vel quando; in hac autem, qualis sit coniunctio cursus
cum Socrate. Modi ergo non illi qui rem verbi, sed qui compositionem
determinant, modales enunciationes reddunt, eo quod compositio veluti forma
totius totam enunciationem continet. We can speak about things in two ways: in
one, composing one thing with another; in the other, declaring the kind of
composition that exists between the two things. To signify these two ways of
speaking about things we form two kinds of enunciations. One kind enunciates
that something belongs or does not belong to something. These are called
absolute [de inesse] enunciations; these we have already discussed. The other
enunciates the mode of composition of the predicate with the subject. These are
called modal, from their principal part, the mode. For when we say, "That
Socrates run is possible,” it is not the running of Socrates that is enunciated
but the kind of composition there is between running and Socrates-in this case,
possible. I have said "mode of composition” expressly, for there are two
kinds of mode posited in the enunciation. One modifies the verb, either with
respect to what it signifies, as in "Socrates runs swiftly,” or with respect
to the time signified along with the verb, as in "Socrates runs today.”
The other kind modifies the very composition of the predicate with the subject,
as in the example, "That Socrates run is possible.” The former determines
how or when running is in Socrates; the latter determines the kind of
conjunction there is between running and Socrates. The former, which affects
the actuality of the verb, does not make a modal enunciation. Only the modes
that affect the composition make a modal enunciation, the reason being that the
composition, as the form of the whole, contains the whole enunciation. 3 Sunt
autem huiusmodi modi quatuor proprie loquendo, scilicet possibile et
impossibile, necessarium et contingens. Verum namque et falsum, licet supra compositionem
cadant cum dicitur, Socratem currere est verum, vel hominem esse quadrupedem
est falsum, attamen modificare proprie non videntur compositionem ipsam. Quia
modificari proprie dicitur aliquid, quando redditur aliquale, non quando fit
secundum suam substantiam. Compositio autem quando dicitur vera, non aliqualis
proponitur, sed quod est: nihil enim aliud est dicere, Socratem currere est
verum, quam quod compositio cursus cum Socrate est. Et similiter quando est
falsa, nihil aliud dicitur, quam quod non est: nam nihil aliud est dicere,
Socratem currere est falsum, quam quod compositio cursus cum Socrate non est.
Quando vero compositio dicitur possibilis aut contingens, iam non ipsam esse,
sed ipsam aliqualem esse dicimus: cum siquidem dicitur, Socratem currere est
possibile, non substantificamus compositionem cursus cum Socrate, sed
qualificamus, asserentes illam esse possibilem. Unde Aristoteles hic modos
proponens, veri et falsi nullo modo meminit, licet infra verum et non verum
inferat, propter causam ibi assignandam. This kind of mode, properly speaking,
is fourfold: possible, impossible, necessary, and contingent. True and false
are not included because, strictly speaking, they do not seem to modify the
composition even though they fall upon the composition itself, as is evident in
"That Socrates runs is true,” and "That man is four-footed is false.”
For something is said to be modified in the proper sense of the term when it is
caused to be in a certain way, not when it comes to be according to its
substance. Now, when a composition is said to be true it is not proposed that
it is in a certain way, but that it is. To say, "That Socrates runs is
true,” for example, is to say that the composition of running with Socrates is.
The case is similar when it is false, for what is said is that it is not; for
example, to say, "That Socrates runs is false” is to say that the
composition of running with Socrates is not. On the other hand, when the
composition is said to be possible or contingent, we are not saying that it is
but that it is in a certain way. For example, when we say, "That Socrates
run is possible,” we do not make the composition of running with Socrates
substantial, but we qualify it, asserting that it is possible. Consequently,
Aristotle in proposing the modes, does not mention the true and false at all,
although later on he infers the true and the not true, and assigns the reason
for it where he does this. 4 Et quia enunciatio modalis duas in se continet
compositiones, alteram inter partes dicti, alteram inter dictum et modum,
intelligendum est eam compositionem modificari, idest, quae est inter partes
dicti, non eam quae est inter modum et dictum. Quod sic perpendi potest. Huius
enunciationis modalis, Socratem esse album est possibile, duae sunt partes;
altera est, Socratem esse album, altera est, possibile. Prima dictum vocatur,
eo quod est id quod dicitur per eius indicativam, scilicet, Socrates est albus:
qui enim profert hanc, Socrates est albus, nihil aliud dicit nisi Socratem esse
album: secunda vocatur modus, eo quod modi adiectio est. Prima compositionem
quandam in se continet ex Socrate et albo; secunda pars primae opposita
compositionem aliquam sonat ex dicti compositione et modo. Prima rursus pars,
licet omnia habeat propria, subiectum scilicet, et praedicatum, copulam et
compositionem, tota tamen subiectum est modalis enunciationis; secunda autem
est praedicatum. Dicti ergo compositio subiicitur et modificatur in
enunciatione modali. Qui enim dicit, Socratem esse album est possibile, non
significat qualis est coniunctio possibilitatis cum hoc dicto, Socratem esse
album, sed insinuat qualis sit compositio partium dicti inter se, scilicet albi
cum Socrate, scilicet quod est compositio possibilis. Non dicit igitur
enunciatio modalis aliquid inesse, vel non inesse, sed dicti potius modum
enunciat. Nec proprie componit secundum significatum, quia compositionis non
est compositio, sed rerum compositioni modum apponit. Unde nihil aliud est
enunciatio modalis, quam enunciatio dicti modificativa. Since the modal
enunciation contains two compositions, one between the parts of what is said,
the other between what is said and the mode, it must be understood that it is
the former composition that is modified, i.e., the composition between the
parts of what is said, not the composition between what is said and the mode.
This can be seen in an example. In the modal enunciation, "That Socrates
be white is possible,” there are two parts: one, "That Socrates be white,”
the other, "is possible.” The first is called the dictum because it is
that which is asserted by the indicative, namely, "Socrates is white”; for
in saying "Socrates is white” we are simply saying, "That Socrates be
white.” The second part is called the mode because it is the addition of a
restriction. The first part of the modal enunciation consists of a certain
composition of Socrates and white; the second part, opposed to the first, 4
indicates a composition from the composition of dictum and mode. Again, the
first part, although it has all the properties of an enunciation—subject,
predicate, copula, and composition—is, in its entirety, the subject of the
modal enunciation; the second part, the mode, is the predicate. In a modal
enunciation, therefore, the composition of the dictum is subjected and
modified; for when we say, "That Socrates be white is possible,” it does
not signify the kind of conjunction of possibility there is with the dictum
"That Socrates be white,” but it implies the kind of composition there is
of the parts of the dictum among themselves, i.e., of white with Socrates,
namely, that it is a possible composition. The modal enunciation, therefore,
does not say that something is present in or not present in a subject, but
rather, it enunciates a mode of the dictum. Nor properly speaking does it
compose according to what is signified, since it is not a composition of the
composition; rather, it adds a mode to the composition of the things. Hence the
modal enunciation is simply an enunciation in which the dictum is modified. 5 Nec
propterea censenda est enunciatio plures modalis, quia omnia duplicata habeat:
quoniam unum modum de unica compositione enunciat, licet illius compositionis
plures sint partes. Plura enim illa ad dicti compositionem concurrentia, veluti
plura ex quibus fit unum subiectum concurrunt, de quibus dictum est supra quod
enunciationis unitatem non impediunt. Sicut nec cum dicitur, domus est alba,
est enunciatio multiplex, licet domus ex multis consurgat partibus. Because the
modal enunciation has everything duplicated, it must not on that account be
thought to be many. It enunciates one mode of only one composition, although
there are many parts of that composition. The many concurring for the
composition of the dictum are like the many that concur to make one subject, of
which it was said above that it does not impede the unity of the enunciation.”
The enunciation, "The house is white,” is also a case in point, for it is
not multiple, although a house is built of many parts. 6 Merito autem est, post
enunciationes de inesse, de modalibus tractandum, quia partes naturaliter sunt
toto priores, et cognitio totius ex partium cognitione dependet; et specialis
sermo de his est habendus, quia proprias habet difficultates. Notavit quoque
Aristoteles in textu multa. Horum ordinem scilicet, cum dixit: his vero
determinatis etc.; modos qui et quot sunt, cum eos expressit et inseruit;
variationem eiusdem modi, per affirmationem et negationem, cum dixit: possibile
et non possibile, contingens et non contingens; necessitatem cum addidit:
habent enim multas dubitationes proprias et cetera. Modal enunciations are
rightly treated after the absolute enunciation, for parts are naturally prior
to the whole, and knowledge of the whole depends on knowledge of the parts.
Moreover, a special discussion of them was necessary because the modal enunciation
has its own peculiar difficulties. Aristotle indicates in his text many of the
things we have taken up here: the order of modal enunciations, when he says,
Having determined these things, etc.; what and how many modes there are when he
expresses and lists them, the variation of the same mode by affirmation and
negation when he says, the possible and not possible, contingent and not
contingent; the necessity of treating them, when he adds, for they have many
difficulties of their own. 7 Deinde cum dicit: nam si eorum etc., exequitur
tractatum de oppositione modalium. Et circa hoc duo facit: primo, movendo
quaestionem arguit ad partes; secundo, determinat veritatem; ibi: contingit
autem et cetera. Est autem dubitatio: an in enunciationibus modalibus fiat
contradictio negatione apposita ad verbum dicti, quod dicit rem; an non, sed
potius negatione apposita ad modum qui qualificat. Et primo, arguit ad partem
affirmativam, quod scilicet addenda sit negatio ad verbum; secundo, ad partem
negativam, quod non apponenda sit negatio ipsi verbo; ibi: videtur autem et
cetera. Then he investigates the opposition of modal enunciations, where he
says, Let us grant that of those things that are combined, contradictories are
those opposed to each other by being related in a certain way according to
"to be” and "not to be,” etc. First, he presents the question and in
so doing gives arguments for the parts; secondly, he determines the truth,
where he says, For it follows from what we have said, either that the same
thing is asserted and denied at once of the same subject, etc. The question
with respect to the opposition of modals is this: Is a contradiction made in
modal enunciations by a negation added to the verb of the dictum, which
expresses what is; or is it not, but rather by a negation added to the mode
which qualifies? Aristotle first argues for the affirmative part, that the
negation must be added to the verb; then he argues for the negative part, that
the negation must not be added to the verb, where he says, However it seems
that the same thing is possible to be and possible not to be, etc. 8 Intendit
ergo primo tale argumentum; si complexorum contradictiones attenduntur penes
esse et non esse (ut patet inductive in enunciationibus substantivis de secundo
adiacente et de tertio, et in adiectivis), contradictionesque omnium hoc modo
sumendae sunt, contradictoria huius, possibile esse, erit, possibile non esse,
et non illa, non possibile esse. Et consequenter apponenda est negatio verbo,
ad sumendam oppositionem in modalibus. Patet consequentia, quia cum dicitur,
possibile esse, et, possibile non esse, negatio cadit supra esse. Unde dicit:
nam si eorum, quae complectuntur, idest complexorum, illae sibi invicem sunt
oppositae contradictiones, quae secundum esse vel non esse disponuntur, idest
in quarum una affirmatur esse, et in altera negatur. His first argument is
this. If of combined things, contradictions are those related according to
"to be” and "not to be” (as is clear inductively in substantive
enunciations with a second determinant, in those with a third determinant, and
in adjectival enunciations) and all contradictions must be obtained in this
way, the contradictory of "possible to be” will be "possible not to
be,” and not, "not possible to be.” Consequently, the negation must be
added to the verb to get opposition in modal enunciations. The consequence is
clear, for when we say "possible to be” and possible not to be” the
negation falls on "to be.” Accordingly, he says, Let us grant that of
those things that are combined, i.e., of complex things, contradictions are
those opposed to each other which are disposed according to "to be” and
"not to be,” i.e., in one of which "to be” is affirmed and in the other
denied. 9 Et subdit inductionem, inchoans a secundo adiacente: ut, eius
enunciationis quae est, esse hominem, idest, homo est, negatio est, non esse
hominem, ubi verbum negatur, idest, homo non est; et non est eius negatio ea
quae est, esse non hominem, idest, non homo est: haec enim non est negativa,
sed affirmativa de subiecto infinito, quae simul est vera cum illa prima,
scilicet, homo est. He goes on to give an induction, beginning with an
enunciation having a second determinant. The negation of "Man is,” is,
"Man is not,” in which the verb is negated. The negation of "Man is,”
is not, "Non-man is,” for this is not the negative but the affirmative of
the infinite subject, which is true at the same time as the first enunciation,
"Man is.” Cajetanus lib. 2 l. 8 n. 10Deinde prosequitur inductionem in
substantivis de tertio adiacente: ut, eius quae est, esse album hominem idest,
ut illius enunciationis, homo est albus, negatio est, non esse album hominem,
ubi verbum negatur, idest, homo non est albus; et non est negatio illius ea,
quae est, esse non album hominem, idest, homo est non albus. Haec enim non est
negativa, sed affirmativa de praedicato infinito. Et quia istae duae
affirmativae de praedicato finito et infinito non possunt de eodem verificari,
propterea quia sunt de praedicatis oppositis, posset aliquis credere quod sint
contradictoriae; et ideo ad hunc errorem tollendum interponit rationem
probantem quod hae duae non sunt contradictoriae. Est autem ratio talis.
Contradictoriorum talis est natura quod de omnibus aut dictio, idest affirmatio
aut negatio verificatur. Inter contradictoria siquidem nullum potest inveniri
medium; sed hae duae enunciationes, scilicet, est homo albus, et, est homo non
albus, sunt contradictoriae per se; ergo sunt talis naturae quod de omnibus
altera verificatur. Et sic, cum de ligno sit falsum dicere, est homo albus,
erit verum dicere de eo, scilicet ligno, esse non album hominem, idest, lignum
est homo non albus. Quod est manifeste falsum: lignum enim neque est homo albus,
neque est homo non albus. Restat ergo ex quo utraque est simul falsa de eodem,
quod non sit inter eas contradictio. Sed contradictio fit quando negatio
apponitur verbo. He continues the induction with substantive enunciations
having a third determinant. The negation of the enunciation "Man is white”
is "Man is not white,” in which the verb is negated. The negation is not
"Man is nonwhite,” for this is not the negative, but the affirmative of
the infinite predicate. Now it might be thought that the affirmatives of the
finite and infinite predicates are contradictories since they cannot be
verified of the same thing because of their opposed predicates. To obviate this
error, Aristotle interposes an argument proving that these two are not
contradictories. The nature of contradictories, he reasons, is such that either
the assertion, i.e., the affirmation, or the negation, is verified of anything,
for between contradictories no middle is possible. Now the two enunciations,
that something "is white man” and "is nonwhite man” are per se
contradictories. Therefore, they are of such a nature that one of them is
verified of anything. For example, it is false to say "is white man” of
wood; hence "is nonwhite man” will be true to say of it, namely of wood,
i.e., "Wood is nonwhite man.” This is manifestly false, for wood is
neither white man nor nonwhite man. Consequently, there is not a contradiction
in the case in which each is at once false of the same subject. Therefore,
contradiction is effected when the negation is added to the verb. 11 Deinde
prosequitur inductionem in enunciationibus adiectivi verbi, dicens: quod si hoc
modo, scilicet supradicto, accipitur contradictio, et in quantiscunque
enunciationibus esse non ponitur explicite, idem faciet quoad oppositionem
sumendam, id quod pro esse dicitur (idest verbum adiectivum, quod locum ipsius
esse tenet, pro quanto, propter eius veritatem in se inclusam, copulae officium
facit), ut eius enunciationis quae est, homo ambulat, negatio est, non ea quae
dicit, non homo ambulat (haec enim est affirmativa de subiecto infinito), sed
negatio illius est, homo non ambulat; sicut et in illis de verbo substantivo,
negatio verbo addenda erat. Nihil enim differt dicere verbo adiectivo, homo
ambulat, vel substantivo, homo est ambulans. He continues his induction with
enunciations having an adjective verb: Now if the case is as we have stated it,
i.e., contradiction is taken as said above, then in enunciations in which
"to be” is not the determining word added (explicitly), that which is said
in place of "to be” will effect the same thing with respect to the
opposition obtained (i.e., the adjective verb that occupies the place of
"to be,” inasmuch as the truth of "to be” is included in it, effects
the function of the copula). For example, the negation of the enunciation
"Man walks” is not, "Non-man walks” (for this is the affirmative of
the infinite subject) but "Man is not walking.” In this case, as in that
of the substantive verb, the negation must be added to the verb, for there is
no difference between using the adjective verb, as in "Man walks,” and
using the substantive verb, as in "Man is walking.” 12 Deinde ponit
secundam partem inductionis dicens: et si hoc modo in omnibus sumenda est
contradictio, scilicet, apponendo negationem ad esse, concluditur quod et eius
enunciationis, quae dicit, possibile esse, negatio est, possibile non esse, et
non illa quae dicit, non possibile esse. Patet conclusionis sequela: quia in
illa, possibile non esse, negatio apponitur verbo; in ista autem non. Dixit
autem in principio huius rationis: eorum quae complectuntur, idest complexorum,
contradictiones fiunt secundum esse et non esse, ad differentiam incomplexorum
quorum oppositio non fit negatione dicente non esse, sed ipsi incomplexo
apposita, ut, homo, et, non homo, legit, et non legit. Then he posits the
second part of the induction: And if this is always the case, i.e., that
contradiction must be gotten by adding the negation to "to be,” we must
conclude that the negation of the enunciation that asserts "Possible to
be” is "possible not to be,” and not, "not possible to be.” The
consequent of the conclusion is evident, for in "possible not to be” the
negation is added to the verb, in "not possible to be,” it is not. At the
beginning of this argument, Aristotle said, Of those things that are combined,
i.e., complex things, the contradictions are effected according to "to be”
and "not to be.” He said this in reference to the difference between
complex and incomplex things, for opposition in the latter is not made by the
negation expressing "not to be,” but by adding the negative to the
incomplex thing itself, as in "man” and "non-man,” "reads” and
"non-reads.” Cajetanus lib. 2 l. 8 n. 13Deinde cum dicit: videtur autem
idem etc., arguit ad quaestionis partem negativam (scilicet quod ad sumendam
contradictionem in modalibus non addenda est negatio verbo), tali ratione.
Impossibile est duas contradictorias esse simul veras de eodem; sed
supradictae, scilicet, possibile esse, et, possibile non esse, simul verificantur
de eodem; ergo istae non sunt contradictoriae: igitur contradictio modalium non
attenditur penes verbi negationem. Huius rationis primo ponitur in littera
minor cum sua probatione; secundo maior; tertio conclusio. Minor quidem cum
dicit: videtur autem idem possibile esse, et, non possibile esse. Sicut verbi
gratia, omne quod est possibile dividi est etiam possibile non dividi, et quod
est possibile ambulare est etiam possibile non ambulare. Ratio autem huius
minoris est, quoniam omne quod sic possibile est (sicut, scilicet, est
possibile ambulare et dividi), non semper actu est: non enim semper actualiter
ambulat, qui ambulare potest; nec semper actu dividitur, quod dividi potest.
Quare inerit etiam negatio possibilis, idest, ergo non solum possibilis est
affirmatio, sed etiam negatio eiusdem. Adverte quod quia possibile est
multiplex, ut infra dicetur, ideo notanter Aristoteles addidit ly sic,
assumens, quod sic possibile est, non semper actu est. Non enim de omni
possibili verum est dicere quod non semper actu est, sed de aliquo, eo scilicet
quod est sic possibile, quemadmodum ambulare et dividi. Nota ulterius quod quia
tale possibile habet duas conditiones, scilicet quod potest actu esse et quod
non semper actu est, sequitur necessario quod de eo simul est verum dicere,
possibile esse, et, non esse. Ex eo enim quod potest actu esse, sequitur quod
sit possibile esse; ex eo vero quod non semper actu est, sequitur quod sit
possibile non esse. Quod enim non semper est, potest non esse. Bene ergo intulit
Aristoteles ex his duobus: quare inerit etiam negatio possibilis et non solum
affirmatio; potest igitur et non ambulare, quod est ambulabile, et non videri,
quod est visibile. Maior vero subiungitur, cum ait: at vero impossibile est de
eodem veras esse contradictiones. Infertur quoque ultimo conclusio: non est
igitur ista (scilicet, possibile non esse) negatio illius, quae dicit,
possibile esse: quia sunt simul verae de eodem. Caveto autem ne ex isto textu
putes possibile, ut est modus, debere semper accipi pro possibili ad
utrumlibet: quoniam hoc infra declarabitur esse falsum; sed considera quod
satis fuit intendenti declarare quod in modalibus non sumitur contradictio ex
verbi negatione, afferre instantiam in una modali, quae continetur sub
modalibus de possibili. When he says, However, it seems that the same thing is
possible to be and possible not to be, etc., he argues for the negative part of
the question, namely, to get a contradiction in modals the negation should not
be added to the verb. His reasoning is the following: It is impossible for two
contradictories to be true at once of the same subject; but "possible to
be” and "possible not to be” are verified at once of the same thing;
therefore, these are not contradictories. Consequently, contradiction of the
modals is not obtained by negation of the verb. In this reasoning, the minor is
posited first, with its proof; secondly, the major; finally, the conclusion.
The minor is: However, it seems that the same thing is possible to be and
possible not to be. For instance, everything that has the possibility of being
divided also has the possibility of not being divided, and that which has the
possibility of walking also has the possibility of not walking. The proof of
this minor is that everything that is possible in this way (as are possible to
walk and to be divided) is not always in act; for he who is able to walk is not
always actually walking, nor is that which can be divided always divided. And
so the negation of the possible will also be inherent in it, i.e., therefore
not only is the affirmation possible but also the negation. Notice that since
the possible is manifold, as will be said further on, Aristotle explicitly adds
"in this way” when he assumes here that that which is possible is not
always in act. For it is not true to say of every possible that it is not
always in act, but only of some, namely, those that are possible in the way in
which to walk and to be divided are possible. Note also that "possible in
this way” has two conditions: that it is able to be in act, and that it is not
always in act. It follows necessarily, then, that it is true to say of it
simultaneously that it is both possible to be and possible not to be. From the
fact that it can be in act it follows that it is possible to be; from the fact
that it is not always in act it follows that it is possible not to be, for that
which not always is, is able not to be. Aristotle, then, rightly infers from
these two: and so the negation of the possible will also be inherent in it; and
not just the affirmation, for that which could walk could also not walk and
that which could be seen not be seen. The major is: But it is impossible that
contradictions in respect to the same thing be true. The final conclusion
inferred is: Therefore, the negation of "possible to be” is not,
"possible not to be” because they are true at once of the same thing. In
relation to this part of the text, be careful not to suppose that possible as
it is a mode, is always to be taken for possible to either of two alternatives,
for this will be shown to be false later on. If you consider the matter
carefully you will see that it was enough for his intention to give as an
instance one modal contained under the modals of the possible in order to show
that contradiction in modals is not obtained by negation of the verb. 14 Deinde
cum dicit: contingit autem unum ex his etc., determinat veritatem huius
dubitationis. Et quia duo petebat, scilicet, an contradictio modalium ex
negatione verbi fiat an non, et, an potius ex negatione modi; ideo primo,
determinat veritatem primae petitionis, quod scilicet contradictio harum non
fit negatione verbi; secundo determinat veritatem secundae petitionis, quod
scilicet fiat modalium contradictio ex negatione modi; ibi: est ergo negatioet
cetera. Dicit ergo quod propter supradictas rationes evenit unum ex his duobus,
quae conclusimus determinare, aut idem ipsum, idest, unum et idem dicere, idest
affirmare et negare simul de eodem: idest, aut quod duo contradictoria simul
verificantur de eodem, ut prima ratio conclusit; aut affirmationes vel
negationes modalium, quae opponuntur contradictorie, fieri non secundum esse
vel non esse, idest, aut contradictio modalium non fiat ex negatione verbi, ut
secunda ratio conclusit. Si ergo illud est impossibile, scilicet quod duo
contradictoria possunt simul esse vera de eodem, hoc, scilicet quod
contradictio modalium non fiat secundum verbi negationem, erit magis eligendum.
Impossibilia enim semper vitanda sunt. Ex ipso autem modo loquendi innuit quod utrique
earum aliquid obstat. Sed quia primo obstat impossibilitas quae acceptari non
potest, secundo autem nihil aliud obstat nisi quod negatio supra enunciationis
copulam cadere debet, si negativa fieri debet enunciatio, et hoc aliter fieri
potest quam negando dicti verbum, ut infra declarabitur; ideo hoc secundum,
scilicet quod contradictio modalium non fiat secundum negationem verbi,
eligendum est: primum vero est omnino abiiciendum. Aristotle establishes the
truth with respect to this difficulty where he says, For it follows from what
we have said, either that the same thing is asserted and denied at once of the
same subject, etc. Since he is investigating two things, i.e., whether
contradiction of modals is made by the negation of the verb or not; and,
whether it is not rather by negation of the mode, he first determines the truth
in relation to the first question, namely, that contradiction of modals is not
made by negation of the verb; then he determines the truth in relation to the
second, namely, that contradiction of modals is made by negation of the mode,
where he says, Therefore, the negation of "possible to be” is "not
possible to be,” etc. Hence he says that because of the foresaid reasoning one
of these two follows: first, that either the same thing, i.e., one and the same
thing is said, i.e., is asserted and denied at once of the same subject, i.e.,
either two contradictories are verified at once of the same thing, as the first
argument concluded; or secondly, that assertions and denials of modals, which
are opposed contradictorily are not made by the addition of "to be” or
"not to be,” i.e., contradiction of modals is not made by the negation of
the verb, as the second argument concluded. If the former alternative is
impossible, namely, that two contradictories can be true of the same thing at
once, the latter, that contradiction of modals is not made according to
negation of the verb, must obtain, for impossible things must always be
avoided. His mode of speaking here indicates that there is some obstacle to
each alternative. But since in the first the obstacle is an impossibility that
cannot be accepted, while in the second the only obstacle is that the negation
must fall upon the copula of the enunciation if a negative enunciation is to be
formed, and this can be done otherwise than by denying the verb of the dictum,
as will be shown later on, then the second alternative must be chosen, i.e.,
that the contradiction of modals is not made according to negation of the verb,
and the first alternative is to be rejected. IX. 1. Determinat ubi ponenda sit
negatio ad assumendam modalium contradictionem. Et circa hoc quatuor facit:
primo, determinat veritatem summarie; secundo, assignat determinatae veritatis
rationem, quae dicitur rationi ad oppositum inductae; ibi: fiunt enim etc.;
tertio, explanat eamdem veritatem in omnibus modalibus; ibi: eius veroetc.;
quarto, universalem regulam concludit; ibi: universaliter vero et cetera. Quia
igitur negatio aut verbo aut modo apponenda est, et quod verbo non addenda est,
declaratum est per locum a divisione; concludendo determinat: est ergo negatio
eius quae est possibile esse, ea quae est non possibile esse, in qua negatur
modus. Et eadem est ratio in enunciationibus de contingenti. Huius enim, quae
est, contingens esse, negatio est, non contingens esse. Et in aliis, scilicet
de necesse et impossibile idem est iudicium. Aristotle now determines where the
negation must be placed in order to obtain contradiction in modals. He first
determines the truth summarily; secondly, he presents the argument for the
truth of the position, which is also the answer to the reasoning induced for
the opposite position, where he says, For just as "to be” and "not to
be” are the determining additions in the former, and the things subjected are
"white” and "man,” etc.; thirdly, he makes this truth evident in all
the modals, where he says, The negation, then, of "possible not to be” is
"not possible not to be,” etc.; fourthly, he arrives at a universal rule
where he says, And universally, as has been said, "to be” and "not to
be must be posited as the subject, etc. Since the negation must be added either
to the verb or to the mode and it was shown above in virtue of an argument from
division that it is not to be added to the verb, he concludes: Therefore, the
negation of "possible to be” is "not possible to be”, that is, the
mode is negated. The reasoning is the same with respect to enunciations of the
contingent, for the negation of "contingent to be” is "not contingent
to be.” And the judgment is the same in the others, i.e., the necessary and the
impossible. Cajetanus lib. 2 l. 9 n. 2Deinde cum dicit: fiunt enim in illis
appositiones etc., subdit huius veritatis rationem talem. Ad sumendam
contradictionem inter aliquas enunciationes oportet ponere negationem super
appositione, idest coniunctione praedicati cum subiecto; sed in modalibus
appositiones sunt modi; ergo in modalibus negatio apponenda est modo, ut fiat
contradictio. Huius rationis, maiore subintellecta, minor ponitur in littera
per secundam similitudinem ad illas de inesse. Et dicitur quod quemadmodum in
illis enunciationibus de inesse appositiones, idest praedicationes, sunt esse
et non esse, idest verba significativa esse vel non esse (verbum enim semper
est nota eorum quae de altero praedicantur), subiective vero appositionibus res
sunt, quibus esse vel non esse apponitur, ut album, cum dicitur, album est, vel
homo, cum dicitur, homo est; eodem modo hoc in loco in modalibus accidit: esse
quidem subiectum fit, idest dictum significans esse vel non esse subiecti locum
tenet; contingere vero et posse oppositiones, idest modi, praedicationes sunt.
Et quemadmodum in illis de inesse penes esse et non esse veritatem vel
falsitatem determinavimus, ita in istis modalibus penes modos. Hoc est enim
quod subdit, determinantes, scilicet, fiunt ipsi modi veritatem, quemadmodum in
illis esse et non esse, eam determinat. When he says, For just as "to be”
and "not to be” are the determining additions in the former, and the
things subjected are "white” and "man,” etc., he gives the argument
for the truth of his position. To obtain contradiction among any enunciations
the negation must be applied to the determining addition, i.e., to the word
that joins the predicate with the subject; but in modals the determining
additions are the modes; therefore, to get a contradiction in modals, the
negation must be added to the mode. The major of the argument is subsumed; the
minor is stated in Aristotle’s wording by a further similitude to absolute
enunciations. In absolute enunciations the determining additions, i.e., the
predications, are "to be” and "not to be,” i.e., the verb signifying
"to be” or "not to be” (for the verb is always a sign of those things
that are predicated of another). The things subjected to the determining
additions, i.e., to which to be” and "not to be” are applied, are
"white,” in "White is, "or man,” in "Man is.” This happens
in modals in the same way but in a manner appropriate to them. "To be” is
as the subject, i.e., the dictum signifying "to be” or "not to be”
holds the place of the subject; "is possible” and "is contingent,”
i.e., the modes, are the predicates. And just as in absolute enunciations we
determine truth or falsity with "to be” and "not to be,” so in modals
with the modes. He makes this point when he says, determining additions, i.e.,
these modes effect truth just as "to be” and "not to be” determine
truth and falsity in the others. 3. Et sic patet responsio ad argumentum in
oppositum primo adductum, concludens quod negatio verbo apponenda sit, sicut
illis de inesse. Dicitur enim quod cum modalis enunciet modum de dicto sicut
enunciatio de inesse, esse vel esse tale, puta esse album de subiecto, eumdem
locum tenet modus hic, quem ibi verbum; et consequenter super idem
proportionaliter cadit negatio hic et ibi. Eadem enim, ut dictum est, proportio
est modi ad dictum, quae est verbi ad subiectum. Rursus cum veritas et falsitas
affirmationem et negationem sequantur, penes idem attendenda est affirmatio vel
negatio enunciationis, et veritas vel falsitas eiusdem; sicut autem in
enunciationibus de inesse veritas vel falsitas esse vel non esse consequitur,
ita in modalibus modum. Illa namque modalis est vera quae sic modificat dictum
sicut dicti compositio patitur, sicut illa de inesse est vera, quae sic
significat esse sicut est. Est ergo negatio modo hic apponenda, sicut ibi
verbo, cum sit eadem utriusque vis quoad veritatem et falsitatem enunciationis.
Adverte quod modos, appositiones, idest, praedicationes vocavit, sicut esse in
illis de inesse, intelligens per modum totum praedicatum enunciationis modalis,
puta, est possibile. In cuius signum modos ipsos verbaliter protulit dicens:
contingere vero et posse appositiones sunt. Contingit enim et potest, totum
praedicatum modalis continent. Thus the response to the argument for the
opposite position, which he gave first, is evident. That argument concluded
that the negation should be added to the verb as it is in absolute
enunciations. But since the modal enunciates a mode of a dictum—as the absolute
enunciation enunciates "to be” or "not to be” such, for instance,
"to be white” of a subject—the mode holds the same place here that the
verb does there. Consequently, the negation falls upon the same thing
proportionally here and there, for the proportion of mode to dictum is the same
as the proportion of verb to subject. Again, since truth and falsity follow
upon affirmation and negation, the affirmation and negation of an enunciation
and its truth and falsity must be controlled by the same thing. In absolute
enunciations truth and falsity follow upon "to be” or "not to be,”
hence in the modals they follow upon the mode; for that modal is true which
modifies the dictum as the composition of the dictum permits, just as that absolute
enunciation is true which signifies that something is as it is. Therefore,
negation is added here to the mode just as it is added there to the verb, since
the power of each is the same with respect to the truth and falsity of an
enunciation. Notice that he calls the modes "determining additions,” i.e.,
predications—as "to be” is in absolute enunciations—understanding by the
mode the whole predicate of the modal enunciation, for example, "is
possible.” As a sign of this he expresses the modes themselves verbally when he
says, "is possible” and "is contingent” are determining additions.
For "is contingent” and "is possible” comprise the whole predicate of
the modal enunciation. Cajetanus lib. 2 l. 9 n. 4Deinde cum dicit: eius vero
quod est possibile est non esse etc., explanat determinatam veritatem in
omnibus modalibus, scilicet de possibili, et necessario, et impossibili.
Contingens convertitur cum possibili. Et quia quilibet modus facit duas modales
affirmativas, alteram habentem dictum affirmatum, et alteram habentem dictum
negatum; ideo explanat in singulis modis quae cuiusque affirmationis negatio
sit. Et primo in illis de possibili. Et quia primae affirmativae de possibili
(quae scilicet habet dictum affirmatum) scilicet possibile esse, negatio
assignata fuit, non possibile esse; ideo ad reliquam affirmativam de possibili
transiens ait: eius vero, quae est possibile non esse (ubi dictum negatur)
negatio est non possibile non esse. Et hoc consequenter probat per hoc quod
contradictoria huius, possibile non esse, aut est, possibile esse, aut illa,
quam diximus, scilicet, non possibile non esse. Sed illa, scilicet, possibile
esse, non est eius contradictoria. Non enim sunt sibi invicem contradicentes,
possibile esse, et, possibile non esse, quia possunt simul esse verae. Unde et
sequi sese invicem putabuntur: quoniam, ut supra dictum fuit, idem est,
possibile esse, et, non esse, et consequenter sicut ad, posse esse, sequitur,
posse non esse, ita e contra ad, posse non esse, sequitur, posse esse; sed
contradictoria illius, possibile esse, quae non potest simul esse vera est, non
possibile esse: hae enim, ut dictum est, opponuntur. Remanet ergo quod huius
negatio, possibile non esse, sit illa, non possibile non esse: hae namque simul
nunquam sunt verae vel falsae. Dixit quod possibile esse et non esse sequi se
invicem putabuntur, et non dixit quod se invicem consequuntur: quia secundum
veritatem universaliter non sequuntur se, sed particulariter tantum, ut infra
dicetur; propter quod putabitur quod simpliciter se invicem sequantur. Deinde
declarat hoc idem in illis de necessario. Et primo, in affirmativa habente
dictum affirmatum, dicens: similiter eius quae est, necessarium esse, negatio
non est ea, quae dicit necessarium non esse, ubi modus non negatur, sed ea quae
est, non necessarium esse. Deinde subdit de affirmativa de necessario habente
dictum negatum, et ait: eius vero, quae est, necessarium non esse, negatio est
ea, quae dicit, non necessarium non esse. Deinde transit ad illas de
impossibili, eumdem ordinem servans, et inquit: et eius, quae dicit,
impossibile esse, negatio non est ea quae dicit, impossibile non esse, sed, non
impossibile esse: ubi iam modus negatur. Alterius vero affirmativae, quae est,
impossibile non esse, negatio est ea quae dicit non impossibile non esse. Et
sic semper modo negatio addenda est. When he says, The negation, then, of
"possible not to be” is [not, "not possible to be” but] "not
possible not to be,” etc., he makes this truth evident in all the modals, i.e.,
the possible, the necessary, and the impossible (the contingent being
convertible with the possible). And since any mode makes two modal
affirmatives, one having an affirmed dictum and the other having a negated
dictum, he shows what the negation of each affirmation is in each mode. First
he takes those of the possible. The negation of the first affirmative of the
possible (the one with an affirmed dictum), i.e., "possible to be,” was
assigned as "not possible to be.” Hence, going on to the remaining
affirmative of the possible he says, The negation, then, of "possible not
to be” [wherein the dictum is negated] is, "not possible not to be.” Then
he a proves this. The contradictory of "possible not to be” is either
"Possible to be” or "not possible not to be.” But the former, i.e.,
"possible to be,” is not the contradictory of "possible not to be,”
for they can be at once true. Hence they are also thought to follow upon each
other, for, as was said above, the same thing is possible to be and not to be.
Consequently, just as "possible not to be” follows upon "possible to
be,” so conversely "possible to be” follows upon "possible not to
be.” But the contradictory of "possible to be,” which cannot be true at
the same time, is "not possible to be,” for these, as has been said, are
opposed. Therefore, the negation of "possible not to be” is, "not
possible not to be,” for these are never at once true or false. Note that he
says, Wherefore "possible to be” and "possible not to be” would
appear to be consequent to each other, and not that they do follow upon each
other, for it is not true that they follow upon each other universally, but
only particularly (as will be said later); this is the reason they appear to
follow upon each other simply. Then he manifests the same thing in the modals
of the necessary, and first in the affirmative with an affirmed dictum: The
case is the same with respect to the necessary. The negation of "necessary
to be” is not, "necessary not to be” (in which the mode is not negated)
but, "not necessary to be.” Next he adds the affirmative of the necessary
with a negated dictum: and the negation of "necessary not to be is
"not necessary not to be.” Next, he takes up the impossible, keeping the
same order. The negation of "impossible to be” is not, "impossible
not to be” but, "not impossible to be,” in which the mode is negated. The
negation of the other affirmative, "impossible not to be” is "not
impossible not to be.” The negation, therefore, is always added to the mode.
Cajetanus lib. 2 l. 9 n. 5Deinde cum dicit: universaliter vero etc., concludit
regulam universalem dicens quod, quemadmodum dictum est, dicta importantia esse
et non esse oportet ponere in modalibus ut subiecta, negationem vero et
affirmationem hoc, idest contradictionis oppositionem, facientem, oportet apponere
tantummodo ad suum eumdem modum, non ad diversos modos. Debet namque illemet
modus negari, qui prius affirmabatur, si contradictio esse debet. Et
exemplariter explanans quomodo hoc fiat, subdit: et oportet putare has esse
oppositas dictiones, idest affirmationes et negationes in modalibus, possibile
et non possibile, contingens et non contingens. Item cum dixit negationem alio
tantum modo ad modum apponi debere, non exclusit modi copulam, sed dictum. Hoc
enim est singulare in modalibus quod eamdem oppositionem facit, negatio modo
addita, et eius verbo. Contradictorie enim opponitur huic, possibile est esse,
non solum illa, non possibile est esse, sed ista, possibile non est esse;
meminit autem modi potius, et propter hoc quod nunc diximus, ut scilicet
insinuaret quod negatio verbo modi postposita, modo autem praeposita, idem
facit ac si modali verbo praeponeretur, et quia, cum modo numquam caret modalis
enunciatio, semper negatio supra modum poni potest. Non autem sic de eius
verbo: verbo enim modi carere contingit modalem, ut cum dicitur, Socrates
currit necessario; et ideo semper verbo negatio aptari potest. Quod autem in
fine addidit, verum et non verum, insinuat, praeter quatuor praedictos modos,
alios inveniri, qui etiam compositionem enunciationis determinant, puta, verum
et non verum, falsum et non falsum: quos tamen inter modos supra non posuit,
quia, ut declaratum fuit, non proprie modificant. Then he says, And
universally, as has been said, "to be”and "not to be” must be posited
as the subject, and those that produce affirmation and negation must be joined
to "to be” and "not to be,” etc. Here he concludes with the universal
rule. As has been said, the dictums denoting "to be” and "not to be”
must be posited in the modals as subjects, and the one making this an
affirmation and negation, i.e., the opposition of contradiction, must be added
only to the selfsame mode, not to diverse modes, for the selfsame mode which
was previously affirmed must be denied if there is to be a contradiction. He
gives examples of how this is to be done when he adds, And these are the words
that are to be considered opposed, i.e., affirmations and negations in modals,
possible–not possible, contingent–not contingent. Moreover, when he said
elsewhere but in another way that the negation must be applied only to the
mode, he did not exclude the copula of the mode, but the copula of the dictum.
For it is unique to modals that the same opposition is made by adding a
negation to the mode and to its verb. The contradictory of "is possible to
be,” for instance, is not only "is not possible to be,” but also "not
is possible to be.” There are two reasons, however, for his mentioning the mode
rather than the verb: first, for the reason we have just given, namely, so as to
imply that the negation placed after the verb of the mode, the mode having been
put first, accomplishes the same thing as if it were placed before the modal
verb; and secondly, because the modal enunciation is never without a mode;
hence the negation can always be put on the mode. However, it cannot always be
put on the verb of a mode, for the modal enunciation may lack the verb of a
mode as for example in "Socrates runs necessarily,” in which case the
negation can always be adapted to the verb. In adding "true” and "not
true” at the end he implies that besides the four modes mentioned previously
there are others that also determine the composition of the enunciation, for
example, "true” and "not true,” "false” and "not false”;
nevertheless he did not posit these among the modes first given because, as was
shown, they do not properly modify. X. 1. Postquam determinavit de oppositione
modalium, hic determinare intendit de consequentiis earum. Et circa hoc duo
facit: primo, tradit veritatem; secundo, movet quandam dubitationem circa
determinata; ibi: dubitabit autem et cetera. Circa primum duo facit: primo,
ponit consequentias earum secundum opinionem aliorum; secundo, examinando et
corrigendo dictam opinionem, determinat veritatem; ibi: ergo impossibile et
cetera. Having established the opposition of modals, Aristotle now intends to
determine their consequents. He first presents the true doctrine; then, he
raises a difficulty where he says, But it may be questioned whether
"Possible to be follows upon "necessary to be,” etc. In presenting
the true doctrine, he first posits the consequents of the opposition of modals
according to the opinion of others; secondly, he determines the truth by
examining and correcting their opinion, where he says, Now the impossible and
the not impossible follow contradictorily upon the contingent and the possible
and the not contingent and the not possible, but inversely, etc. 2 Quoad primum
considerandum est quod cum quilibet modus faciat duas affirmationes, ut dictum
fuit, et duabus affirmationibus opponantur duae negationes, ut etiam dictum
fuit in primo; secundum quemlibet modum fient quatuor enunciationes, duae
scilicet affirmativae et duae negativae. Cum autem modi sint quatuor,
efficientur sexdecim modales: quaternarius enim in seipsum ductus sexdecim
constituit. Et quoniam apud omnes, quaelibet cuiusque modi, undecumque
incipias, habet unam tantum cuiusque modi se consequentem, ideo ad assignandas
consequentias modalium, singulas ex singulis modis accipere oportet et ad consequentiae
ordinem inter se adunare. Before we consider these consequents according to the
opinion of others, we must first note that since any mode makes two
affirmations and there are two negations opposed to these, there will be four
enunciations according to any one mode, two affirmatives and two negatives. And
since there are four modes, there will be sixteen modals. Among these sixteen,
anyone of each mode, from wherever you begin, has only one of each mode
following upon it. Hence, to assign the consequents of the modals, we have to
take one from each mode and arrange them among themselves to form an order of
consequents. Cajetanus lib. 2 l. 10 n. 3Et hoc modo fecerunt antiqui, de quibus
inquit Aristoteles: consequentiae vero fiunt secundum infrascriptum ordinem,
antiquis ita ponentibus. Formaverunt enim quatuor ordines modalium, in quorum
quolibet omnes quae se consequuntur collocaverunt. Ut autem confusio vitetur,
vocetur, cum Averroe, de caetero, in quolibet modo, affirmativa de dicto, et
modo, affirmativa simplex; affirmativa autem de modo et negativa de dicto,
affirmativa declinata; negativa vero de modo et non dicto, negativa simplex;
negativa autem de utroque, negativa declinata: ita quod modi affirmationem vel
negationem simplicitas, dicti vero declinatio denominet. Dixerunt ergo antiqui
quod affirmationem simplicem de possibili, scilicet, possibile est esse,
sequitur affirmativa simplex de contingenti, scilicet, contingens est esse
(contingens enim convertitur cum possibili); et negativa simplex de impossibili,
scilicet, non impossibile esse; et similiter negativa simplex de necessario,
scilicet, non necesse est esse. Et hic est primus ordo modalium consequentium
se. In secundo autem dixerunt quod affirmativas declinatas de possibili et
contingenti, scilicet, possibile non esse, et, contingens non esse, sequuntur
negativae declinatae de necessario et impossibili, scilicet, non necessarium
non esse, et, non impossibile non esse. In tertio vero ordine dixerunt quod
negativas simplices de possibili et contingenti, scilicet, non possibile esse,
non contingens esse, sequuntur affirmativa declinata de necessario, scilicet,
necesse non esse, et affirmativa simplex de impossibili, scilicet, impossibile
esse. In quarto demum ordine dixerunt quod negativas declinatas de possibili et
contingenti, scilicet, non possibile non esse, et, non contingens non esse,
sequuntur affirmativa simplex de necessario, scilicet, necesse esse, et
affirmativa declinata de impossibili, scilicet, impossibile est non esse. The
modals were ordered in this way by the ancients. They disposed them in four
orders placing together in each order those that were a consequent to each
other. Aristotle speaks of this order when he says, Logical consequents follow
according to the order in the table below, which is the way in which the
ancients posited them. Henceforth, however, to avoid confusion let us call the
affirmative of dictum and mode in any one mode, the simple affirmative, as it
is by Averroes, among others; affirmative of mode and negative of dictum, the
declined affirmative; negative of mode and not of dictum, the simple negative;
negative of both mode and dictum, the declined negative. Hence, simplicity of
mode designates affirmation or negation, and so, too, does declination of
dictum. The ancients said, then, that simple affirmation of the contingent,
i.e., "contingent to be” follows upon simple affirmation of the possible,
i.e., "Possible to be” (for the contingent is converted with the
possible); the simple negative of the impossible also follows upon this, i.e.,
"not impossible to be”; and the simple negative of the necessary, i.e.,
"not necessary to be.” This is the first order of modal consequents. In
the second order they said that the declined negatives of the necessary and
impossible, i.e., "not necessary not to be” and "not impossible not
to be,” follow upon the declined affirmative of the possible and the
contingent, i.e., "possible not to be” and "contingent not to be.” In
the third order, according to them, the declined affirmative of the necessary,
i.e., "necessary not to be,” and the simple affirmative of of the
impossible, i.e., "impossible to be,” follow upon the simple negatives of
the possible and the contingent, i.e., "not possible to be” and not
contingent to be.” Finally, in the fourth order, the simple affirmative of the
necessary, i.e., "necessary to be,” and the declined affirmative of the
impossible, i.e., "impossible not to be,” follow upon the declined
negatives of the possible and the contingent, i.e., "not possible not to
be” and "not contingent not to be.” 4 Consideretur autem ex subscriptione
appositae figurae, quemadmodum dicimus, ut clarius elucescat depictum.
Consequentiae enunciationum modalium secundum quatuor ordines ab antiquis positae
et ordinatae. (Figura). To make this ordering more evident, let us consider it
with the help of the following table. CONSEQUENTS OF MODAL ENUNCIATIONS IN THE
FOUR ORDERS POSITED AND ORDERED BY THE ANCIENTS FIRST ORDER It is possible to
be It is contingent to be It is not impossible to be It is not necessary to be
SECOND ORDER It is possible not to be It is contingent not to be It is not
impossible not to be It is not necessary not to be It is not possible to be It
is not contingent to be It is impossible to be It is necessary not to be FOURTH
ORDER It is not possible not to be It is not contingent not to be It is
impossible not to be It is necessary to be Cajetanus lib. 2 l. 10 n. 5Deinde
cum dicit: ergo impossibile et non impossibile etc., examinando dictam
opinionem, determinat veritatem. Et circa hoc duo facit: quia primo examinat
consequentias earum de impossibili; secundo, illarum de necessario; ibi:
necessarium autem et cetera. Unde ex praemissa opinione concludens et
approbans, dicit: ergo istae, scilicet, impossibile, et, non impossibile,
sequuntur illas, scilicet, contingens et possibile, non contingens, et, non
possibile, sequuntur, inquam, contradictorie, idest ita ut contradictoriae de
impossibili contradictorias de possibili et contingenti consequantur, sed conversim,
idest, sed non ita quod affirmatio affirmationem et negatio negationem
sequatur, sed conversim, scilicet, quod affirmationem negatio et negationem
affirmatio. Et explanans hoc ait: illud enim quod est possibile esse, idest
affirmationem possibilis negatio sequitur impossibilis, idest, non impossibile
esse; negationem vero possibilis affirmatio sequitur impossibilis. Illud enim
quod est, non possibile esse, sequitur ista, impossibile est esse; haec autem,
scilicet, impossibile esse, affirmatio est; illa vero, scilicet, non possibile
esse, negatio est: hic siquidem modus negatur; ibi, non. Bene igitur dixerunt
antiqui in quolibet ordine quoad consequentias illarum de impossibili, quia, ut
in suprascripta figura apparet, semper ex affirmatione possibilis negationem
impossibilis, et ex negatione possibilis affirmationem impossibilis inferunt.When
he says, Now the impossible and the not impossible follow contradictorily upon
the contingent and the possible and the not contingent and the not possible,
but inversely, etc., he determines the truth by examining the foresaid opinion.
First, he examines the consequents of enunciations predicating impossibility;
secondly, those predicating necessity, where he says, Now we must consider how
enunciations predicating necessity are related to these, etc. From the opinion
advanced, then, he concludes with approval that the impossible and the not
impossible follow upon the contingent and the possible and the not contingent
and the not possible, contradictorily, i.e., the contradictories of the
impossible follow upon the contradictories of the possible and the contingent,
but inversely, i.e., not so that affirmation follows upon affirmation and
negation upon negation, but inversely, i.e., negation follows upon affirmation
and affirmation upon negation. He explains this when he says, The negation of
"impossible to be” follows upon "possible to be,” i.e., the negation
of the impossible, i.e., "not impossible to be,” follows upon the
affirmation of the possible, and the affirmation of the impossible follows upon
the negation of the possible. For the affirmation, "impossible to be”
follows upon the negation, "not possible to be.” In the latter the mode is
negated, in the former it is not. Therefore, the ancients were right in saying
that in any order, the consequences of enunciations predicating impossibility
are as follows: from affirmation of the possible, negation of the impossible is
inferred; and from negation of the possible, affirmation of the impossible is
inferred. This is apparent in the diagram. Cajetanus lib. 2 l. 10 n. 6Deinde
cum dicit: necessarium autem etc., intendit examinando determinare
consequentias de necessario. Et circa hoc duo facit: primo examinat dicta
antiquorum; secundo, determinat veritatem intentam; ibi: at vero neque
necessarium et cetera. Circa primum quatuor facit. Primo, declarat quid bene et
quid male dictum sit ab antiquis in hac re. Ubi attendendum est quod cum
quatuor sint enunciationes de necessario, ut dictum est, differentes inter se
secundum quantitatem et qualitatem, adeo ut unam integrent figuram oppositionis
iuxta morem illarum de inesse; duae earum sunt contrariae inter se, duae autem
illis contrariis contradictoriae, ut patet in hac figura. (Figura). Quia ergo
antiqui universales contrarias bene intulerunt ex aliis, contradictorias autem
earum, scilicet particulares, male intulerunt; ideo dicit quod considerandum
restat de his, quae sunt de necessario, qualiter se habeant in consequendo
illas de possibili et non possibili. Manifestum est autem ex dicendis quod non
eodem modo istae de necessario illas de possibili consequuntur, quo easdem
sequuntur illae de impossibili. Nam omnes enunciationes de impossibili recte
illatae sunt ab antiquis. Enunciationes autem de necessario non omnes recte inferuntur:
sed duae earum, quae sunt contrariae, scilicet, necesse est esse, et, necesse
est non esse, sequuntur, idest recta consequentia deducuntur ab antiquis, in
tertio scilicet et quarto ordine; reliquae autem duae de necessario, scilicet,
non necesse non esse, et, non necesse esse, quae sunt contradictoriae
supradictis, sunt extra consequentias illarum, in secundo scilicet et primo
ordine. Unde antiqui in tertio et quarto ordine omnia recte fecerunt; in primo
autem et in secundo peccaverunt, non quoad omnia, sed quoad enunciationes de
necessario tantum. When he says, Now we must consider how enunciations
predicating necessity are related to these, etc., he proposes an examination of
the consequents of enunciations predicating necessity in order to determine the
truth about them. First he examines what was said by the ancients; secondly, he
determines the truth, where he says, But in fact neither " necessary to
be” nor "necessary not to be” follow upon "possible to be,” etc. In
his examination of the ancients, Aristotle makes four points. First, he shows
what was well said by the ancients and what was badly said. It must be noted in
regard to this that, as we have said, there are four enunciations predicating
necessity, which differ among themselves in quantity and quality, and hence
they make up a diagram of opposition in the manner of the absolute
enunciations. Two of them are contrary to each other, and two are contradictory
to these contraries, as is clear in the diagram below. necessary to be
contraries necessary not to be not necessary not to be subcontraries not
necessary to be Now the ancients correctly inferred the universal contraries
from the possibles, contingents, and impossibles, but incorrectly inferred
their contradictories, namely, particulars. This is the reason Aristotle says
that it remains to be considered how enunciations predicating necessity are
related consequentially to the possible and not possible. From what Aristotle
says, it is clear that those predicating necessity do not follow upon the
possibles in the same way as those predicating impossibility follow upon the
possibles, for all of the enunciations predicating impossibility were correctly
inferred by the ancients, but those predicating necessity were not. Two of
them, the contraries, "necessary to be” and "necessary not to be,”
follow, i.e., correct consequents were deduced by the ancients in the third and
fourth orders; the remaining two, "not necessary not to be” and "not
necessary to be,” which are contradictories of the contraries, are outside of
the consequents of these, i.e., in the second and first orders. Hence, the
ancients represented everything correctly in the third and fourth orders, but
in the first and second they erred, not with respect to all things, but only
with respect to enunciations predicating necessity. Cajetanus lib. 2 l. 10 n.
7Secundo cum dicit: non enim est negatio eius etc., respondet cuidam tacitae
obiectioni, qua defendi posset consequentia enunciationis de necessario in
primo ordine ab antiquis facta. Est autem obiectio tacita talis. Non possibile
esse, et, necesse non esse, convertibiliter se sequuntur in tertio ordine iam
approbato; ergo, possibile esse, et, non necesse esse, invicem se sequi debent
in primo ordine. Tenet consequentia: quia duorum convertibiliter se sequentium
contradictoria mutuo se sequuntur; sed illae duae tertii ordinis
convertibiliter se sequuntur, et istae duae primi ordinis sunt earum
contradictoriae; ergo istae primi ordinis, scilicet, possibile esse, et, non
necesse esse, mutuo se sequuntur. Huic, inquam, obiectioni respondet
Aristoteles hic interimendo minorem quoad hoc quod assumit, quod scilicet
necessaria primi ordinis et necessaria tertii ordinis sunt contradictoriae.
Unde dicit: non enim est negatio eius quod est, necesse non esse (quae erat in
tertio ordine), illa quae dicit, non necesse est esse, quae sita erat in primo
ordine. Et causam subdit, quia contingit utrasque simul esse veras in eodem;
quod contradictoriis repugnat. Illud enim idem, quod est necessarium non esse,
non est necessarium esse. Necessarium siquidem est hominem non esse lignum et
non necessarium est hominem esse lignum. Adverte quod, ut infra patebit, istae
duae de necessario, quas posuerunt antiqui in primo et tertio ordine, sunt
subalternae (et ideo sunt simul verae), et deberent esse contradictoriae; et
ideo erraverunt antiqui. Secondly, he says, For the negation of "necessary
not to be” is not "not necessary to be,” since both may be true of the
same subject, etc. Here he replies to a tacit objection. This reply could be
used to defend the consequent of the enunciation of the necessary made by the
ancients in the first order. The tacit objection is this: "not possible to
be” and "necessary not to be” follow convertibly in the third order which
has already been shown to be correct; therefore, "possible to be” and
"not necessary to be” ought to follow upon each other in the first order.
The consequent holds; for the contradictories of two that convertibly follow
upon each other, mutually follow upon each other; but those two follow upon
each other convertibly in the third order and these two in the first order are
their contradictories; therefore, those of the first order, i.e.,
"possible to be” and "not necessary to be,” mutually follow upon each
other. Aristotle replies here to this objection by destroying what was assumed
in the minor, i.e., that the necessary of the first order and the necessary of
the third order are contradictories. He says, For the negation of
"necessary not to be” (which is in the third order) is not "not
necessary to be” (which has been placed in the first order). He also gives the
reason: it is possible for both to be true at once of the same subject, which
is repugnant to contradictories. For the same thing which is necessary not to
be, is not necessary to be; for example, it is necessary that man not be wood
and it is not necessary that man be wood. Notice, as will be clear later, that
these two which the ancients posited in the first and third orders, are
subalterns and therefore are at once true, whereas they should be
contradictories; hence the ancients were in error. Cajetanus lib. 2 l. 10 n.
8Boethius autem et Averroes non reprehensive legunt tam hanc, quam praecedentem
textus particulam, sed narrative utramque simul iungentes. Narrare enim aiunt
Aristotelem qualitatem suprascriptae figurae quoad consequentiam illarum de
necessario, postquam narravit quo modo se habuerint illae de impossibili, et
dicere quod secundum praescriptam figuram non eodem modo sequuntur illas de possibili
illae de necessario, quo sequuntur illae de impossibili. Nam contradictorias de
possibili contradictoriae de impossibili sequuntur, licet conversim;
contradictoriae autem de necessario non dicuntur sequi illas contradictorias de
possibili, sed potius eas sequi dicuntur contrariae de necessario: non inter se
contrariae, sed hoc modo, quod affirmationem possibilis negatio de necessario
sequi dicitur, negationem vero possibilis non affirmatio de necessario sequi
ponitur, quae sit contradictoria illi negativae quae ponebatur sequi ad
possibilem, sed talis affirmationis de necessario contrario. Et quod hoc ita
fiat in illa figura ut dicimus, patet ex primo et tertio ordine, quorum capita
sunt negatio et affirmatio possibilis, et extrema sunt, non necesse esse, et,
necesse non esse. Hae siquidem non sunt contradictoriae. Non enim est negatio
eius, quae est, necesse non esse, non necesse esse (quoniam contingit eas simul
verificari de eodem), sed illa scilicet, necesse non esse, est contraria
contradictoriae huius, scilicet, non necesse esse, quae est, necesse est esse.
Sed quia sequenti litterae magis consona est introductio nostra, quae etiam
Alberto consentit, et extorte videtur ab aliis exponi ly contrariae, ideo
prima, iudicio meo, acceptanda est expositio et ad antiquorum reprehensionem
referendus est textus. Boethius and Averroes read both this and the preceding
part of the text, not reprovingly, but as explanatorily joined together. They
say Aristotle explains the quality of the above table with respect to the
consequents of enunciations predicating necessity after he has explained in
what way those predicating impossibility are related. What Aristotle is saying,
then, is that those of the necessary do not follow those of the possible in the
same way as those of the impossible follow upon the possible. For
contradictories of the impossible follow upon contradictories of the possible,
although inversely; but contradictories of the necessary are not said to follow
the contradictories of the possible, but rather the contraries of the necessary
follow upon them. It is not the contraries among themselves that follow, but
contraries in this way: the negation of the necessary is said to follow upon
the affirmation of the possible; but what follows on the negation of this
possible is not the affirmation of the necessary contradictory to that negative
of the necessary following upon the possible, but the contrary of such an
affirmation of the necessary. That this is the case is evident in the first and
third orders. The sources are negation and affirmation of the possible, and the
extremes are "not necessary to be” and "necessary not to be.” But
these are not contradictories, for the negation of "necessary not to be”
is not "not necessary to be,” for it is possible for them to be at once
true of the same thing. "Necessary not to be” is the contrary of the
contradictory of "not necessary to be,” which contradictory is
"necessary to be.” In my judgment, however, the first exposition should be
accepted and this portion of the text taken as a reproof of the ancients,
because the contraries seem to be explained in a forced way by others, whereas
our introduction is more in accord with what follows in the next part of the
text; in addition, it agrees with Albert’s interpretation. Cajetanus lib. 2 l.
10 n. 9Tertio cum dicit: causa autem cur etc., manifestat id quod praemiserat,
scilicet, quod non simili modo ad illas de possibili sequuntur illae de
impossibili et illae de necessario. Antiquorum enim hoc peccatum fuit tam in primo
quam in secundo ordine, et quod simili modo intulerunt illas de impossibili et
necessario. In primo siquidem ordine, sicut posuerunt negativam simplicem de
impossibili, ita posuerunt negativam simplicem de necessario, et similiter in
secundo ordine utranque negativam declinatam locaverunt. Hoc ergo quare
peccatum sit, et causa autem quare necessarium non sequitur possibile,
similiter, idest, eodem modo cum caeteris, scilicet, de impossibili, est,
quoniam impossibile redditur idem valens necessario, idest, aequivalet
necessario, contrarie, idest, contrario modo sumptum, et non eodem modo. Nam
si, hoc esse est impossibile, non inferemus, ergo hoc esse est necesse, sed,
hoc non esse est necesse. Quia ergo impossibile et necesse mutuo se sequuntur,
quando dicta eorum contrario modo sumuntur, et non quando dicta eorum simili
modo sumuntur, sequitur quod non eodem modo ad possibile se habeant impossibile
et necessarium, sed contrario modo. Nam ad id possibile quod sequitur dictum
affirmatum de impossibili, sequitur dictum negatum de necessario; et e
contrario. Quare autem hoc accidit infra dicetur. Erraverunt igitur antiqui
quod similes enunciationes de impossibili et necessario in primo et in secundo
ordine locaverunt. Thirdly, he says, Now the reason why enunciations
predicating necessity do not follow in the same way as the others, etc. Here
Aristotle shows why enunciations predicating impossibility and necessity do not
follow in a similar way upon those predicating possibility. This was the error
made by the ancients in both the first and second orders, for in the first
order they posited the simple negative of the impossible, and in a similar way
the simple negative of the necessary, and in the second order their declined
negatives, the reason being that they inferred those predicating impossibility
and necessity in a similar way. The cause of this error, then, and the reason
why enunciations predicating necessity do not follow the possible in the same
way, i.e., in a similar mode, as the others, i.e., as the impossibles, is that
the impossible expresses the same meaning as the necessary, i.e., is equivalent
to the necessary, contrarily, i.e., taken in a contrary mode, and not in the
same mode. For if something is impossible to be, we do not infer, therefore it
is necessary to be, but it is necessary not to be. Since, therefore, the
impossible and necessary mutually follow each other when their dictums are
taken in a contrary mode—and not when their dictums are taken in a similar mode
— it follows that the impossible and necessary are not related in the same way
to the possible, but in a contrary way. For the negated dictum of the necessary
follows upon that possible which follows the affirmed dictum of the impossible,
and contrarily. Why this is so will be explained later. Therefore, the ancients
erred when they located similar enunciations of the impossible and necessary in
the first and in the second orders. Cajetanus lib. 2 l. 10 n. 10 Hinc apparet
quod supra posita nostra expositio conformior est Aristoteli. Cum enim hunc
textum induxerit ad manifestandum illa verba: manifestum est autem quoniam non
eodem modo, etc., eo accipiendo sunt sensu illa verba, quo hic per causam
manifestantur. Liquet autem quod hic redditur causa dissimilitudinis verae
inter necessarias et impossibiles in consequendo possibiles, et non
dissimilitudinis falso opinatae ab antiquis: quoniam ex vera causa nonnisi
verum concluditur. Ergo reprehendendo antiquos, veram dissimilitudinem inter
necessarias, et impossibiles in consequendo possibiles, quam non servaverunt
illi, proposuisse tunc intelligendum est, et nunc eam manifestasse. Quod autem
dissimilitudo illa, quam antiqui posuerunt inter necessarias et impossibiles,
sit falso posita, ex infra dicendis patebit. Ostendetur enim quod contradictorias
de possibili contradictoriae de necessario sequuntur conversim; et quod in hoc
non differunt ab his quae sunt de impossibili, sed differunt in hoc quod modo
diximus, quod possibilium et impossibilium se consequentium dictum est
similiter, possibilium autem et necessariorum, se invicem consequentium dictum
est contrarium, ut infra clara luce videbitur. Hence it appears that our
exposition is more in conformity with Aristotle. For he introduced this text to
manifest these words: It is evident that the case here is not the same, etc. By
taking this meaning, then, these words are made clear through the cause.
Moreover, it is evident that here the cause is given of a true dissimilitude
between necessaries and impossibles in following the possibles, and not of a
dissimilitude falsely held by the ancients, for from a true cause only the
truth is concluded. Therefore in reproving the ancients it must be understood
that a true dissimilitude between the necessary and impossible in following the
possible, which they did not beed, has been proposed, and now has been made
manifest. It will be clear from what will be said later that the dissimilitude
posited by the ancients between the necessary and impossible is falsely
posited, for it will be shown that contradictories of the necessary follow
contradictories of the possible inversely, and that in this they do not differ
from enunciations predicating impossibility. They do differ, however, in the
way we have indicated, i.e., the dictum of the possibles and of the impossibles
following on them is similar, but the dictum of the possibles and of the
necessaries following on them is contrary, as will be seen clearly later.
Cajetanus lib. 2 l. 10 n. 11 Quarto cum dicit: aut certe impossibile est etc.,
manifestat aliud quod proposuerat, scilicet, quod contradictoriae de necessario
male situatae sint secundum consequentiam ab antiquis, qui contradictiones
necessarii ita ordinaverunt. In primo ordine posuerunt contradictoriam
negationem, necesse esse, idest, non necesse esse; et in secundo
contradictoriam negationem, necesse non esse, idest, non necesse non esse. Et
probat hunc consequentiae modum esse malum in primo ordine. Cognita enim
malitia primi, facile est secundi ordinis agnoscere defectum. Probat autem hoc
tali ratione ducente ad impossibile. Ad necessarium esse sequitur possibile
esse: aliter sequeretur non possibile esse, quod manifeste implicat; ad
possibile esse sequitur non impossibile esse, ut patet; ad non impossibile
esse, secundum antiquos, sequitur in primo ordine non necessarium esse; ergo de
primo ad ultimum, ad necessarium esse sequitur non necessarium esse: quod est
inconveniens, quia est manifesta implicatio contradictionis. Relinquitur ergo
quod male dictum sit, quod non necessarium esse consequatur in primo ordine.
Ait ergo et certe impossibile est poni sic secundum consequentiam, ut antiqui
posuerunt, necessarii contradictiones, idest illas duas enunciationes de
necessario, quae sunt negationes contradictoriae aliarum duarum de necessario.
Nam ad id quod est, necessarium esse, sequitur, possibile est esse: nam si non,
idest quoniam si hanc negaveris consequentiam, negatio possibilis sequitur
illam, scilicet, necesse esse. Necesse est enim de necessario aut dicere, idest
affirmare possibile, aut negare possibile: de quolibet enim est affirmatio vel
negatio vera. Quare si dicas quod, ad necesse esse, non sequitur, possibile
esse, sed, non possibile est esse; cum haec aequivaleat illi quae dicit,
impossibile est esse, relinquitur quod ad, necesse esse, sequitur, impossibile
esse, et idem erit, necesse esse et impossibile esse: quod est inconveniens.
Bona ergo erat prima illatio, scilicet, necesse est esse, ergo possibile est
esse. Tunc ultra. Illud quod est, possibile esse, sequitur, non impossibile
esse, ut patet in primo ordine. Ad hoc vero, scilicet, non impossibile esse,
secundum antiquos eodem primo ordine, sequitur, non necesse est esse (quare
contingit de primo ad ultimum); ad id quod est, necessarium esse, sequitur, non
necessarium esse: quod est inconveniens, immo impossibile. Fourthly, when he
says, Or is it impossible to arrange the contradictions of enunciations
predicating necessity in this way? he manifests another point he had proposed,
namely, that contradictories of enunciations predicating necessity were badly
placed according to consequence by the ancients when they ordered them thus:
the contradictory negation to "necessary to be,” i.e., "not necessary
to be,” in the first order, and the contradictory negation to "necessary
not to be,” i.e., "not necessary not to be,” in the second. Aristotle only
proves that this mode of consequence is incorrect in the first order, for when
this is known the mistake in the second order is readily seen. He does this by
an argument leading to an impossibility. "Possible to be” follows upon
"necessary to be”; otherwise "not possible to be” would follow, which
it manifestly implies. "Not impossible to be” follows upon "possible
to be” as is evident, and, according to the ancients, in the first order,
"not necessary to be” follows upon "not impossible to be.” Therefore,
from first to last, "not necessary to be” follows upon "necessary to
be,” which is inadmissible because there is an obvious implication of
contradiction. Therefore, it is erroneous to say that "not necessary to
be” follows in the first order. He says, then, that in fact it is impossible to
posit contradictions of the necessary according to consequence as the ancients
posited them, i.e., in the first order the contradictory negation of
"necessary to be,” i.e., "not necessary to be” and in the second the
contradictory negation of "necessary not to be,” i.e., "not necessary
not to be.” For "possible to be” follows upon "necessary to be”; if
not, i.e., if you deny this consequence, the negation of the possible follows
upon "necessary to be,” since the possible must either be asserted of the
necessary or denied, the reason being that of anything there is a true
affirmation or a true negation. Therefore, if you say that "possible to
be” does not follow upon "necessary to be,” but "not possible to be”
does follow, then, since the latter is equivalent to the former, i.e.,
"not possible to be” to "impossible to be,” "impossible to be”
follows upon "necessary to be” and the same thing will be "necessary
to be” and "impossible to be,” which cannot be admitted. Consequently, the
first inference was good, i.e., "It is necessary to be, therefore it is
possible to be.” But again, "possible to be” follows upon "not
impossible to be,” as is evident in the first order, and according to the
ancients, "not necessary to be” follows upon "not impossible to be”
in the same first order. Therefore, from first to last we arrive at this:
"not necessary to be” follows upon "necessary to be,” which is
unlikely, not to say impossible. 12 Dubitatur hic: quia in I priorum dicitur
quod ad possibile sequitur non necessarium, hic autem dicitur oppositum. Ad hoc
est dicendum quod possibile sumitur dupliciter. Uno modo in communi, et sic est
quoddam superius ad necessarium et contingens ad utrunque, sicut animal ad
hominem et bovem; et sic ad possibile non sequitur non necessarium, sicut ad
animal non sequitur non homo. Alio modo sumitur possibile pro una parte
possibilis in communi, idest pro possibili seu contingenti, scilicet ad
utrunque, scilicet quod potest esse et non esse; et sic ad possibile sequitur
non necessarium. Quod enim potest esse et non esse, non necessarium est esse,
et similiter non necessarium est non esse. Loquimur ergo hic de possibili in
communi, ibi vero in speciali. There is a doubt about this, for in I Priorum
[13: 32a 28 and 32b 15], it is said that the not necessary follows upon the
possible, while here the opposite is said. The possible, however, is taken in
two ways: commonly, and thus it is superior to the necessary and the contingent
to either of two alternatives, as is the case with animal in relation to man
and cow; taken in this way, the not necessary does not follow upon the
possible, just as not-man does not follow upon animal. In another way the
possible is taken for one part of the possible commonly, i.e., for the possible
or contingent to either of two alternatives, namely, for what can be and not
be. The not necessary follows upon the possible taken in this way, for what can
be and not be is not necessary to be, and likewise is not necessary not to be.
In the Prior Analytics, then, Aristotle is speaking of the possible in
particular; here of the possible commonly. 13 Deinde cum dicit: at vero neque
necessarium etc., determinat veritatem intentam. Et circa hoc tria facit:
primo, determinat quae enunciatio de necessario sequatur ad possibile; secundo,
ordinat consequentias omnium modalium; ibi: sequuntur enim et cetera. Quoad
primum, sicut duabus viis reprehendit antiquos, ita ex illis duobus motivis
intentum probat. Et intendit quod, ad possibile esse, sequitur, non necesse non
esse. Primum motivum est per locum a divisione. Ad, possibile esse, non
sequitur (ut probatum est), non necesse esse, at vero neque, necesse esse,
neque, necesse non esse. Reliquum est ergo ut sequatur ad eam, non necesse non
esse: non enim dantur plures enunciationes de necessario. Huius communis
divisionis primo proponit reliqua duo membra excludenda, dicens: at vero neque
necessarium esse, neque necessarium non esse, sequitur ad possibile non esse;
secundo probat hoc sic. Nullum formale consequens minuit suum antecedens: tunc
enim oppositum consequentis staret cum antecedente; sed utrumque horum,
scilicet, necesse esse, et, necesse non esse, minuit possibile esse; ergo, et
cetera. Unde, tacita maiore, ponit minoris probationem dicens: illi enim,
scilicet, possibile esse, utraque, scilicet, esse et non esse, contingit
accidere; horum autem, scilicet, necesse esse et necesse non esse, utrumlibet
verum fuerit, non erunt illa duo, scilicet, esse et non esse, vera simul in
potentia. Et primum horum explanans ait: cum dico, possibile esse, simul est
possibile esse et non esse. Quoad secundum vero subdit. Si vero dicas, necesse
esse vel necesse non esse, non remanet utrumque, scilicet, esse et non esse,
possibile: si enim necesse est esse, possibilitas ad non esse excluditur; et si
necesse est non esse, possibilitas ad esse removetur. Utrumque ergo istorum
minuit illud antecedens, possibile esse, quoniam ad esse et non esse se
extendit, et cetera. Tertio subdit conclusionem: relinquitur ergo quod, non
necessarium non esse, comes est ei quae dicit, possibile esse; et consequenter
haec ponenda erit in primo ordine. When he says, But in fact neither
"necessary to be” nor "necessary not to be” follow upon
"possible to be,” etc., he determines the truth. First he determines which
enunciation of the necessary follows upon the possible; secondly, he orders the
consequents of all of the modals, where he says, Thus, these contradictions
also follow in the way indicated, etc. Aristotle has reproved the ancients in
two ways; on the basis of these two he now proves which enunciation of the
necessary follows upon the possible. What he intends to show is that "not
necessary not to be” follows upon "possible to be.” The first argument is
taken from a locus of division. "Not necessary to be” does not follow upon
possible to be” (as has been proved), but neither does "necessary to be”
nor "necessary not to be.” Therefore, "not necessary not to be”
follows upon "possible to be,” since there are no more enunciations of the
necessary. He first proposes the remaining two members that are to be excluded
from this common division: But in fact neither "necessary to be” nor
"necessary not to be” follow upon "possible to be.” Then he proves
this: no formal consequent diminishes its antecedent, for if it did, the
opposite of the consequent would stand with the antecedent; but both of these,
namely, "necessary to be” and "necessary not to be,” diminish
possible to be”; therefore, etc. The major is therefore implied and he gives
the proof of the minor when he says that "possible to be” admits of two
possibilities, namely, "to be” and "not to be”; but of these, namely,
"necessary to be” and "necessary not to be” (whichever should be
true), these two, "to be” and "not to be,” will not be true at the
same time in potency. He explains the first point thus: when I say
"possible to be” it is at once possible to be and not to be. With respect
to the second, he adds: if you should say, "necessary to be” or
"necessary not to be,” both do not remain, i.e., possible to be and not to
be do not remain, for if a thing is necessary to be, possibility not to be is
excluded, and if it is necessary not to be, possibility to be is removed. Both
of these, then, diminish the antecedent, possible to be, for it is extended to
"to be” and "not to be,” etc. Thirdly, he concludes: it remains,
therefore, that "not necessary not to be” accompanies "possible to
be,” and consequently will have to be placed in the first order. Cajetanus lib.
2 l. 10 n. 14 Occurrit in hac parte dubium circa hoc quod dicit quod, ad
possibile non sequitur necessarium, cum superius dixerit quod ad ipsum non
sequitur non necessarium. Cum enim necessarium et non necessarium sint contradictoria
opposita, et de quolibet sit affirmatio vel negatio vera, non videtur posse
evadi quin ad possibile sequatur necessarium, vel, non necessarium. Et cum non
sequatur necessarium, sequetur non necessarium, ut dicebant antiqui. Augetur et
dubitatio ex eo quod Aristoteles nunc usus est tali argumentationis modo,
volens probare quod ad necessarium sequatur possibile. Dixit enim: nam si non
negatio possibilis consequatur. Necesse est enim aut dicere aut negare. A
difficulty arises at this point with respect to his saying that the necessary
does not follow upon the possible, since he has also said that the not
necessary does not follow upon it. For the necessary and the not necessary are
opposed contradictorily, and since of anything there is a true affirmation or
negation, it seems impossible to avoid the conclusion that either the necessary
or the not necessary follows upon the possible; and since the necessary does
not follow, the not necessary must follow, as the ancients said. Furthermore,
the difficulty is augmented by the fact that Aristotle just used such a mode of
argumentation when, to prove that the possible follows upon the necessary, he
said, for if not, the negation will follow; for it is necessary either to
affirm or deny. 15. Pro solutione huius, oportet reminisci habitudinis quae est
inter possibile et necessarium, quod scilicet possibile est superius ad
necessarium, et attendere quod superius potestate continet suum inferius et
eius oppositum, ita quod neutrum eorum actualiter sibi vindicat, sed utrunque
potest sibi contingere; sicut animali potest accidere homo et non homo: et
consequenter inspicere debes quod, eadem est proportio superioris ad habendum
affirmationem et negationem unius inferioris, quae est alicuius subiecti ad
affirmativam et negativam futuri contingentis. Utrobique enim neutrum habetur,
et salvatur potentia ad utrumlibet. Unde, sicut in futuris contingentibus nec
affirmatio nec negatio est determinate vera, sed sub disiunctione altera est
necessario vera, ut in fine primi conclusum est; ita nec affirmatio nec negatio
inferioris sequitur determinate affirmationem vel negationem superioris, sed
sub disiunctione altera sequitur necessario. Unde non valet, est animal, ergo
est homo, neque, ergo non est homo, sed, ergo est homo vel non est homo. Quia
ergo possibile superius est ad necessarium, ideo optime determinavit
Aristoteles neutram contradictionis partem de necessario determinate sequi ad
possibile. Non tamen dixit quod sub disiunctione neutra sequatur; hoc enim est
contra illud primum principium: de quolibet est affirmatio vera vel falsa. Ad
id autem quod additur, ex eadem trahitur radice responsio. Quia enim
necessarium inferius est ad possibile, et inferius non in potentia sed in actu
includit suum superius, necesse est ad inferius determinate sequi suum
superius: aliter determinate sequetur eius contradictorium. Unde per dissimilem
habitudinem, quae est inter necessarium et possibile et non possibile, ex una
parte, et inter possibile et necessarium et non necessarium, ex altera parte,
ibi optimus fuit processus ad alteram contradictionis partem determinate, et
hic optimus ad neutram determinate. In order to resolve this, we must recall
the relationship between the possible and the necessary, namely, that the
possible is superior to the necessary. Now the superior potentially contains
its own inferior and the opposite of it in such a way that neither of them is
actually appropriated by the superior, but each is possible to it; as in the
case of man and not-man in relation to animal. We must also consider that the
proportion of the superior as related to the affirmation and negation of one
inferior is the same (which is the proportion of some subject to the
affirmative and negative of a future contingent), for it is had by neither of
the two, and the potency to either is kept. Accordingly, as in future
contingents neither the affirmation nor the negation is determinately true, but
under disjunction one is necessarily true (as was concluded at the end of the
first book), so neither the affirmation nor negation of the inferior follows
upon the affirmation or negation of the superior determinately, but under
disjunction one follows necessarily. This, for instance, is not valid: "It
is animal, therefore it is man,” nor is "therefore it is not man” valid,
but, "therefore it is man or it is not man.” Since, then, the possible is
superior to the necessary, Aristotle has correctly determined that neither part
of the contradiction of the necessary determinately follows upon the possible.
However, he has not said that under disjunction neither follows; for this would
be opposed to the first principle, that of anything there is a true or false
affirmation. The response to what was added, beginning with "Furthermore,
the difficulty is augmented,” etc., is based upon the same point. Since the
necessary is inferior to the possible, and the inferior does not include its
superior in potency but in act, the superior must follow determinately upon the
inferior; otherwise the contradiction of it would follow determinately. Hence,
because of the dissimilar relationship between the necessary and the possible
and not possible on the one hand, and between the possible and the necessary
and not necessary on the other, the movement of the earlier argument to one
part of the contradiction determinately was quite right, and the movement here
to neither determinately was quite right. 16. Oritur quoque alia
dubitatiuncula. Videtur enim quod Aristoteles difformiter accipiat ly possibile
in praecedenti textu et in isto. Ibi enim accipit ipsum in communi, ut sequitur
ad necessarium; hic videtur accipere ipsum specialiter pro possibili ad
utrumlibet, quia dicit quod possibile est simul potens esse et non esse. Et ad
hoc dicendum est quod uniformiter usus est possibili. Nec eius verba obstant:
quoniam et de possibili in communi verum est dicere quod potest sibi utrunque
accidere, scilicet, esse et non esse: tum quia quidquid verificatur de suo
inferiori, verificatur etiam de suo superiori, licet non eodem modo; tum quia
possibile in communi neutram contradictionis partem sibi determinat, et
consequenter utranque sibi advenire compatitur, licet non asserat potentiam ad
utranque partem, quemadmodum possibile ad utrunque. There is another slight
difficulty, for it seems that Aristotle takes the possible in a different way
in the preceding text and in this. There he takes it commonly as it follows
upon the necessary; here he seems to take it specifically for the possible that
is indifferent to alternatives, since he says that the possible is at once
possible to be and not to be. But in fact Aristotle has used the possible
uniformly. Nor are his words at variance, for it is also true to say of the
possible as common that it admits of both possibilities, i.e., of "to be”
and "not to be”; first, because whatever is verified of its inferior is
verified also of its superior, although not in the same mode; secondly, because
the possible as common determines neither part of the contradiction to itself
and consequently admits of either happening, although it does not affirm a
potency to each part, as does the possible to either of two alternatives. 17. Secundum
motivum ad idem, correspondens tacitae obiectioni antiquorum quam supra
exclusit, addit cum subdit: hoc enim verum est et cetera. Ubi notandum quod
Aristoteles sub illa maiore adducta pro antiquis (scilicet, convertibiliter se
consequentium contradictoria se mutuo consequuntur), subsumit minorem: sed
horum convertibiliter se sequentium in tertio ordine (scilicet, non possibile
esse et necesse non esse), contradictoria sunt, possibile esse et non necesse
non esse (quoniam modi negatione eis opponuntur); ergo istae duae (scilicet,
possibile esse et non necesse non esse) se consequuntur et in primo locandae
sunt ordine. Unde motivum tangens ait: hoc enim, quod dictum est, verum est,
idest verum esse ostenditur, et de necesse non esse, idest, et ex illius,
scilicet, non necesse non esse, opposita, quae est, necesse non esse. Vel, hoc
enim, scilicet, non necesse non esse, verum est, scilicet, contradictorium
illius de necesse non esse. Et minorem subdens ait: haec enim, scilicet, non
necesse non esse, fit contradictio eius, quae convertibiliter sequitur, non
possibile esse. Et explanans hoc in terminis subdit. Illud enim, non possibile
esse, quod est caput tertii ordinis, sequitur hoc de impossibili, scilicet,
impossibile esse, et haec de necessario, scilicet, necesse non esse, cuius
negatio seu contradictoria est, non necesse non esse. Et quia, caeteris
paribus, modus negatur, et illa, possibile esse, est (subauditur)
contradictoria illius, scilicet, non possibile; igitur ista duo mutuo se
consequuntur, scilicet, possibile esse, et, non necesse non esse, tamquam
contradictoria duorum se mutuo consequentium. The second grounds for proving
the same thing corresponds to the tacit objection of the ancients he excluded
above: For this, he says, is true also with respect to "necessary to be,”
etc. It should be noted here that Aristotle subsumes under the major cited as a
proof for the position of the ancients (namely, contradictories of consequences
convertibly following each other mutually follow upon each other) this minor:
but the contradictories of those following upon each other convertibly in the
third order (i.e., of "not possible to be” and "necessary not to be”)
are "possible to be” and "not necessary not to be” (for they are
opposed to them by negation of mode); therefore, these two (i.e.,
"possible to be” and "not necessary not to be”) follow upon each other
and are to be placed in the first order. Hence, with respect to the basis of
the above argument, he says, For this, i.e., what has been said, is true, i.e.,
is shown to be true, also with respect to "necessary not to be,” i.e., of
the opposite of "not necessary not to be,” i.e., "necessary not to
be.” Or, For this, namely, not necessary not to be,” is true, namely, is the
true contradictory of necessary not to be.” He gives the minor when he says,
For "not necessary not to be” is the contradictory of what follows upon
"not possible to be.” Then he states this explicitly: for "not
possible to be,” which is the source of the third order is followed by this
impossible, namely, "impossible to be,” and by this one of the necessary,
namely, "necessary not to be,” of which the negation or contradictory is
"not necessary not to be.” And since, other things being equal, the mode
is negated, and, "possible to be” is (it is understood) the contradictory
of "not possible to be,” therefore, these two mutually follow upon each
other, namely, "possible to be” and "not necessary not to be,” as
contradictories of the two mutually following upon each other. Cajetanus lib. 2
l. 10 n. 18 Deinde cum dicit: sequuntur enim etc., ordinat omnes consequentias
modalium secundum opinionem propriam; et ait quod, hae contradictiones,
scilicet, de necessario, sequuntur illas de possibili, secundum modum
praedictum et approbatum illarum de impossibili. Sicut enim contradictorias de
possibili contradictoriae de impossibili sequuntur, licet conversim; ita
contradictorias de possibili contradictoriae de necessario sequuntur conversim:
licet in hoc, ut dictum est, dissimilitudo sit quod, contradictoriarum de
possibili et impossibili similiter est dictum, contradictoriarum autem de
possibili et necessario contrarium est dictum, ut in sequenti videtur figura:
consequentiae enunciationum modalium secundum quatuor ordines ab Aristotele
positae et ordinatae. (Figura). Ubi vides quod nulla est inter Aristotelem et
antiquos differentia, nisi in duobus primis ordinibus quoad illas de necessario.
Praepostero namque situ usi sunt antiqui, eam de necessario, quae locanda erat
in primo ordine, in secundo ponentes, et eam quae in secundo ponenda erat, in
primo locantes. Et aspice quoque quod convertibiliter se consequentium semper
contradictoria se consequi ordinavit. Singulis enim tertii ordinis singulae
primi ordinis contradictoriae sunt; et similiter singulae quarti ordinis
singulis, quae in secundo sunt, contradictoriae sunt. Quod antiqui non
observarunt. When he says, Thus, these contradictions also follow in the way
indicated, etc., he orders all of the consequents of modals according to his
own opinion. He says, then, that these contradictions, namely, of the
necessary, follow those of the possible, according to the foresaid and approved
mode of those of the impossible. For just as contradictories of the impossible
follow upon contradictories of the possible, although inversely, so
contradictories of the necessary follow contradictories of the possible
inversely. In the latter, however, as has been said, there is a dissimilarity
in that the dictum of the contradictories of the possible and impossible is
similar, but the dictum of the contradictories of the possible and necessary is
contrary. This can be seen in the following table. CONSEQUENTS OF MODAL
ENUNCIATIONS POSITED AND ORDERED BY ARISTOTLE ACCORDING TO FOUR ORDERS FIRST
ORDER It is possible to be It is contingent to be It is not impossible to be It
is not necessary to be SECOND ORDER It is possible not to be It is contingent
not to be It is not impossible not to be It is not necessary not to be It is
not possible to be It is not contingent to be It is impossible to be It is
necessary not to be FOURTH ORDER It is not possible not to be It is not
contingent not to be It is impossible not to be It is necessary to be Here you
see that there is no difference between Aristotle and the ancients except in
the first two orders with respect to those of the necessary. The ancients
inverted the position of these, placing the necessary that should have been
placed in the first order in the second order, and the one that should have
been in the second in the first. Notice, too, that he has ordered them in such
a way that the contradictories of those following upon each other convertibly,
always follow each other, for each one in the first order is the contradictory
of each one in the third order, and similarly, each of the fourth order the
contradictory of each in the second. This the ancients did not observe. XI. 1. Postquam
Aristoteles declaravit modalium consequentias, hic movet quandam dubitationem
circa unum eorum quae determinata sunt, scilicet quod possibile sequitur ad
necesse. Et duo facit: quia primo dubitationem absolvit; secundo, ex
determinata quaestione alium ordinem earumdem consequentiarum modalibus
statuit; ibi: et est fortasse et cetera. Circa primum duo facit: primo, movet
quaestionem; secundo, determinat eam; ibi: manifestum est et cetera. Movet ergo
quaestionem: primo dicens: dubitabit autem aliquis si ad id quod est necesse
esse sequatur possibile esse; et secundo, arguit ad partem affirmativam
subdens: nam si non sequatur, contradictoria eius sequetur, scilicet non
possibile esse, ut supra deductum est: quia de quolibet est affirmatio vel
negatio vera. Et si quis dicat hanc, scilicet, non possibile esse, non esse
contradictoriam illius, scilicet, possibile esse, et propterea subterfugiendum
velit argumentum, et dicere quod neutra harum sequitur ad necesse esse; talis
licet falsum dicat, tamen concedatur sibi, quoniam necesse erit ipsum dicere
illius contradictoriam fore, possibile non esse. Oportet namque aut non
possibile esse aut possibile non esse, esse contradictoriam, possibile esse; et
tunc in eumdem redibit errorem, quoniam utraeque, scilicet, non possibile esse
et possibile non esse, falsae sunt de eo quod est, necesse esse. Et
consequenter ad ipsum neutra sequi potest. Nulla enim enunciatio sequitur ad
illam, cuius veritatem destruit. Relinquitur ergo quod, ad necesse esse
sequitur possibile esse. Now that he has explained the consequents of modals,
Aristotle raises a question about one of the points that has already been
determined, namely, that the possible follows upon the necessary. He first
raises the question and then settles it where he says, It is evident by now
that not every possibility of being or walking is one that admits of opposites,
etc. Secondly, he establishes another order of the same consequents from the
determination of the present question, where he says Indeed the necessary and
not necessary may well be the principle of all that is or is not, etc. First,
then, he raises the question: But it may be questioned whether "Possible
to be follows upon "necessary to be.” Secondly, he argues to the
affirmative part: Yet if not, the contradictory, "not possible to be,”
would have to follow, as was deduced earlier, for either the affirmation or the
negation is true of anything. And if someone should say "not possible to
be” is not the contradictory of "possible to be,” because he wants to avoid
the conclusion by saying that neither of these follows upon "necessary to
be,” this may be conceded, although what he says is false. But then he will
have to say that the contradictory of "possible to be” is "possible
not to be,” for the contradictory of "possible to be” has to be either
"not possible to be” or "possible not to be.” But if he says this, he
will fall into another error, for it is false to say it is not possible to be
of that which is necessary to be, and it is false to say it is possible not to
be. Consequently, neither follows upon it, for no enunciation follows upon an
enunciation whose truth it destroys. Therefore, "possible to be” follows
upon "necessary to be.” 2. Tertio, arguit ad partem negativam cum subdit:
at vero rursus etc., et intendit talem rationem. Si ad necesse esse sequitur
possibile esse, cum ad possibile sequatur possibile non esse (per conversionem
in oppositam qualitatem, ut dicitur in I priorum, quia idem est possibile esse
et non esse), sequetur de primo ad ultimum quod necesse est possibile non esse:
quod est falsum manifeste. Unde oppositionis hypothesim subdit: at vero rursus
videtur idem possibile esse et non esse, ut domus, et possibile incidi et non
incidi, ut vestis. Quare de primo ad ultimum necesse esse, erit contingens non
esse. Hoc autem est falsum. Ergo hypothesis illa, scilicet, quod possibile sequatur
ad necesse, est falsa. Thirdly, he argues to the negative part where he says,
On the other hand, it seems possible for the same thing to be cut and not to be
cut, etc. His argument is as follows: If "possible to be” follows upon
"necessary to be,” then, since "possible not to be” follows upon the
possible (through conversion to the opposite quality, as is said in I Priorum
[13: 32a 31], for the same thing is possible to be and not to be), from first
to last it will follow that the necessary is possible not to be, which is
clearly false. In this argument, Aristotle supplies a hypothesis opposed to the
position that possible to be follows upon necessary to be: On the other hand,
it seems possible for the same thing to be cut and not to be cut, for instance
a garment, and to be and not to be, for instance a house. Therefore, from first
to last, necessary to be will be possible not to be. But this is false.
Therefore, the hypothesis that the possible follows upon the necessary is false.
3. Deinde cum dicit: manifestum est autemetc., respondet dubitationi. Et primo,
declarat veritatem simpliciter; secundo, applicat ad propositum; ibi: hoc
igitur possibile et cetera. Proponit ergo primo ipsam veritatem declarandam,
dicens: manifestum est autem, ex dicendis, quod non omne possibile esse vel
ambulare, idest operari: idest, non omne possibile secundum actum primum vel
secundum ad opposita valet, idest ad opposita viam habet, sed est invenire aliqua
possibilia, in quibus non sit verum dicere quod possunt in opposita. Deinde,
quia possibile a potentia nascitur, manifestat qualiter se habeat potentia ipsa
ad opposita: ex hoc enim clarum erit quomodo possibile se habeat ad opposita.
Et circa hoc duo facit: primo manifestat hoc in potentiis eiusdem rationis;
secundo, in his quae aequivoce dicuntur potentiae; ibi: quaedam vero potentiae
et cetera. Circa primum tria facit: quia primo manifestat qualiter potentia
irrationalis se habeat ad opposita; et ait quod potentia irrationalis non
potest in opposita. When he says, It is evident by now that not every
possibility of being or walking, etc., he answers the question he proposed.
First, he manifests the truth simply, then applies it to the question where he
says, So it is not true to say the latter possible of what is necessary simply,
etc. First, then, he proposes the truth he is going to explain: It is evident
by now that not every possibility of being or walking, i.e., of operating; that
is, not everything possible according to first or second act admits of
opposites, i.e., has access to opposites; there are some possibles of which it
is not true to say that they are capable of opposites. Then, since the possible
arises from potency, he manifests how potency is related to opposites; for it
will be clear from this bow the possible is related to opposites. First he
manifests this in potencies having the same notion; secondly, in those that are
called potencies equivocally where he says, But some are called potentialities
equivocally, etc. With respect to the way in which potencies of the same
specific notion are related to opposites, he does three things. First of all he
manifests how an irrational potency is related to opposites; an irrational
potency, he says, is not a potency that is capable of opposites. Cajetanus lib.
2 l. 11 n. 4Ubi notandum est quod, sicut dicitur IX Metaphys., potentia activa,
cum nihil aliud sit quam principium quo in aliud agimus, dividitur in potentiam
rationalem et irrationalem. Potentia rationalis est, quae cum ratione et
electione operatur; sicut ars medicinae, qua medicus cognoscens quid sanando
expediat infirmo, et volens applicat remedia. Potentia autem irrationalis
vocatur illa, quae non ex ratione et libertate operatur, sed ex naturali sua
dispositione; sicut calor ignis potentia irrationalis est, quia calefacit, non
ut cognoscit et vult, sed ut natura sua exigit. Assignatur autem ibidem duplex
differentia proposito deserviens inter istas potentias. Prima est quod activa
potentia irrationalis non potest duo opposita, sed est determinata ad unum
oppositorum, sive sumatur oppositum contradictorie sive contrarie. Verbi
gratia: calor non potest calefacere et non calefacere, quae sunt contradictorie
opposita, neque potest calefacere et frigefacere, quae sunt contraria, sed ad
calefactionem determinatus est. Et hoc intellige per se, quia per accidens
calor frigefacere potest, vel resolvendo materiam caloris, humidum scilicet,
vel per antiperistasin contrarii. Et similiter potest non calefacere per
accidens, scilicet si calefactibile deest. Potentia autem rationalis potest in
opposita et contradictorie et contrarie. Arte siquidem medicinae potest medicus
adhibere remedia et non adhibere, quae sunt contradictoria; et adhibere remedia
sana et nociva, quae sunt contraria. Secunda differentia est quod potentia
activa irrationalis, praesente passo, necessario operatur, deductis
impedimentis: calor enim calefactibile sibi praesens calefacit necessario, si
nihil impediat; potentia autem rationalis, passo praesente, non necessario
operatur: praesente siquidem infirmo, non cogitur medicus remedia adhibere. It
must be noted in this connection that active potency, since it is the principle
by which we act on something else, is divided into rational and irrational
potency, as is said in IX Metaphysicae [2: 1046a 36]. Rational potency operates
in connection with reason and choice; for example, the art of medicine by which
the physician, knowing and willing what is expedient in healing an illness,
applies a remedy. Irrational potency operates according to its own natural
disposition, not according to reason and liberty; for example, the heat of fire
is an irrational potency, because it heats, not as it knows and wills, but as
its nature requires. In the Metaphysics, a twofold difference between these
potencies is assigned which is relevant here. The first is that an irrational
active potency is not capable of two opposites, but is determined to one
opposite, whether "opposite” is taken contradictorily or contrarily; e.g.,
heat cannot heat and not heat, which are opposed contradictorily; nor can it
heat and cool, which are contraries, but is deter mined to heating. Understand
this per se, for heat can cool accidentally, either by destroying the matter of
heat, namely, the humid, or through alternation of the contrary. It also has
the potentiality not to heat accidentally, if that which can be heated is
lacking. A rational potency, on the other hand, is capable of opposites, both
contradictorily and contrarily; for by the art of medicine the physician can
employ a remedy and not employ it, which are contradictories, and employ
healing and harmful remedies, which are contraries. The second difference is
that an irrational active potency necessarily operates when a subject is
present and impediments are with drawn; for heat necessarily heats when a
subject that can be heated is present, and nothing impedes it. A rational
potency, however, does not necessarily operate when a subject is present; e.g.,
when a sick man is present the physician is not forced to employ a remedy. 5. Dimittantur
autem metaphysico harum differentiarum rationes et ad textum redeamus. Ubi
narrans quomodo se habeat potentia irrationalis ad oppositum, ait: et primum
quidem, scilicet, non est verum dicere quod sit potentia ad opposita in his
quae possunt non secundum rationem, idest, in his quorum posse est per
potentias irrationales; ut ignis calefactivus est, idest, potens calefacere, et
habet vim, idest, potentiam istam irrationalem. Ignis siquidem non potest
frigefacere; neque in eius potestate est calefacere et non calefacere. Quod
autem dixit primum ordinem, nota, ad secundum genus possibilis infra dicendum,
in quo etiam non invenitur potentia ad opposita. The reasons for these
differences are given in the Metaphysics, but let us return to the text.
Explaining bow an irrational potency is related to opposites, he says, First of
all, this is not true, i.e., it is not true to say that there is a potency to
opposites in those which are not according to reason, i.e., whose power is
through irrational potencies; as fire which is calefactive, i.e., capable of
heating, has this power, i.e., this irrational potentiality, since it is not
able to cool, nor is it in its power 4 to heat and not to heat. Note that he
speaks here of a first kind. This is in relation to a second genus of the
possible which he will speak of later, in which there is not a potency to
opposites either. 6. Secundo, manifestat quomodo potentia rationalis se habeat
ad opposita, intendens quod potentia rationalis potest in opposita. Unde
subdit: ergo potestates secundum rationem, idest rationales, ipsae eaedem sunt
contrariorum, non solum duorum, sed etiam plurimorum, ut arte medicinae medicus
plurima iuga contrariorum adhibere potest, et a multarum operationum
contradictionibus abstinere potest. Praeposuit autem ly ergo, ut hoc consequi
ex dictis insinuaret: cum enim oppositorum oppositae sint proprietates, et
potentia irrationalis ex eo quod irrationalis ad opposita non se extendat;
oportet potentiam rationalem ad opposita viam habere, eo quod rationalis sit. Secondly,
he shows how a rational potency is related to opposites, i.e., it is capable of
opposites: Therefore potentialities that are in conjunction with reason, i.e.,
rational potencies, are capable of contraries, not only of two, but even of
many; for example, a physician by the art of medicine can employ many pairs of
contraries and he can abstain from doing or not doing many things. He begins
with "therefore” so as to imply that this follows from what has been
said.”’ The argument would be: properties of opposites are opposites; an
irrational potency, because it is irrational, does not extend itself to
opposites; therefore a rational potency, because it is rational, has access to
opposites. Cajetanus lib. 2 l. 11 n. 7Tertio, explanat id quod dixit de
potentiis irrationalibus, propter causam infra assignandam ab ipso; et intendit
quod illud quod dixit de potentia irrationali, scilicet quod non potest in
opposita, non est verum universaliter, sed particulariter. Ubi nota quod
potentia irrationalis dividitur in potentiam activam, quae est principium
faciendi, et potentiam passivam, quae est principium patiendi: verbi gratia,
potentia ad calorem dividitur in posse calefacere, et in posse calefieri. In
potentiis activis irrationalibus verum est quod non possunt in opposita, ut
declaratum est; in potentiis autem passivis non est verum. Illud enim quod
potest calefieri, potest etiam frigefieri, quia eadem est materia, seu potentia
passiva contrariorum, ut dicitur in II de caelo et mundo, et potest non
calefieri, quia idem est subiectum privationis et formae, ut dicitur in I
Physic. Et propter hoc ergo explanando, ait: irrationales vero potentiae non
omnes a posse in opposita excludi intelligendae sunt, sed illae quae sunt
quemadmodum potentia ignis calefactiva (ignem enim non posse non calefacere
manifestum est), et universaliter, quaecunque alia sunt talis potentiae, quod
semper agunt, idest quod quantum est ex se non possunt non agere, sed ad semper
agendum ex sua forma necessitantur. Huiusmodi autem sunt, ut declaravimus,
omnes potentiae activae irrationales. Alia vero sunt talis conditionis quod
etiam secundum irrationales potentias, scilicet passivas, simul possunt in quaedam
opposita, ut aer potest calefieri et frigefieri. Quod vero ait, simul, cadit
supra ly possunt, et non supra ly opposita; et est sensus, quod simul aliquid
habet potentiam passivam ad utrunque oppositorum, et non quod habeat potentiam
passivam ad utrunque oppositorum simul habendum. Opposita namque impossibile
est haberi simul. Unde et dici solet et bene, quod in huiusmodi est simultas
potentiae, non potentia simultatis. Irrationalis igitur potentia non secundum
totum suum ambitum a posse in opposita excluditur, sed secundum partem eius,
secundum potentias scilicet activas. Thirdly, he explains what he has said
about irrational potencies. He will assign the reason for doing this later. He
makes the point that what he has said about irrational potentiality, i.e., that
it is not capable of opposites, is not true universally, but particularly. It
should be noted here that irrational potency is divided into active potency,
which is the principle of acting, and passive potency, which is the principle
of being acted upon; e.g., potency to heat is divided into potentiality to heat
and potentiality to be heated. Now it is true that active irrational potencies
are not capable of opposites, as was explained. This is not true, however, of
passive potencies, for what can be heated can also be cooled, because the mat
ter is the same, i.e., the passive potency of contraries, as is said in II De
caelo et mundo [7: 286a 23]. It can also not be heated, since the subject of
privation and of form is the same, as is said in I Physic [7: 189b 32].
Therefore, in explaining about irrational potencies, he says, But not all
irrational potentialities should be understood to be excluded from the capacity
of opposites. Those like the potentiality of fire to heat are to be excluded
(for it is evident that fire cannot not heat) I and universally, whatever
others are potencies of such a kind that they always act, i.e., the ones that
of themselves cannot not act, but are necessitated by their form always to act.
All active irrational potencies are of this kind, as we have explained. There
are others, however, of such a condition that even though they are irrational
potencies (i.e., passive) are simultaneously capable of certain opposites; for
example, air can be heated and cooled. "Simultaneously” modifies "are
capable” and not "opposites.” What he means is that the thing
simultaneously has a passive potency to each opposite, and not that it has a
passive potency to have both opposites simultaneously, for it is impossible to
have opposites at one and the same time. Hence it is customary and correct to
say that in these there is simultaneity of potency, not potency of
simultaneity. Therefore, irrational potency is excluded from the capacity of
opposites, not completely, but according to its part, namely, according to
active potencies. 8. Quia autem videbatur superflue addidisse differentias
inter activas et passivas irrationales, quia sat erat proposito ostendisse quod
non omnis potentia oppositorum est; ideo subdit quod hoc idcirco dictum est, ut
notum fiat quoniam nedum non omnis potestas oppositorum est, loquendo de
potentia communissime, sed neque quaecunque potentiae dicuntur secundum eamdem
speciem ad opposita possunt. Potentiae siquidem irrationales omnes sub una
specie irrationalis potentiae concluduntur, et tamen non omnes in opposita
possunt, sed passive tantum. Non supervacanea ergo fuit differentia inter
passivas et activas irrationales, sed necessaria ad declarandum quod non omnes
potentiae eiusdem speciei possunt in opposita. Potest et ly hoc demonstrare
utranque differentiam, scilicet, inter rationales et irrationales, et inter
irrationales activas et passivas inter se; et tunc est sensus, quod hoc ideo
fecimus, ut ostenderemus quod non omnis potestas, quae scilicet secundum eamdem
rationem potentiae physicae dicitur, quia scilicet potest in aliquid ut
rationalis et irrationalis, neque etiam omnis potestas, quae sub eadem specie
continetur, ut irrationalis activa et passiva sub specie irrationalis, ad
opposita potest. Because it might seem superfluous to have added the
differences between active and passive irrational potencies, since enough had
already been said to show that not every potency is of opposites, Aristotle
gives the reason for this. It was not only to make it known that not every
potency is of opposites, speaking of potency most commonly, but also that not
all that are called potencies according to the same species are capable of
opposites. For all irrational potencies are included under one species of
irrational potency, and yet not all are capable of opposites, but only the
passive potencies. It was not superfluous, therefore, to point out the
difference between passive and active irrational potencies, since this was
necessary in order to show that not all potencies of the same species are
capable of opposites. " This” in the phrase "this has been said”
could designate each difference, the one between rational and irrational
potencies, and the one between active and passive irrational potencies. The
meaning is, then, that we have said this to show that not every potentiality
which is said according to the same notion of physical power—namely, because it
can be in something as rational and irrational—not even every potentiality
which is contained under the same species, as active and passive under the
species irrational, is capable of opposites. Intendit declarare quomodo illae
quae aequivocae dicuntur potentiae, se habeant ad opposita. Et circa hoc duo
facit: primo, declarat naturam talis potentiae; secundo, ponit differentiam et
convenientiam inter ipsas et supradictas, ibi: et haec quidem et cetera. Ad
evidentiam primi advertendum est quod V et IX Metaphys., Aristoteles dividit
potentiam in potentias, quae eadem ratione potentiae dicuntur, et in potentias,
quae non ea ratione qua praedictae potentiae nomen habent, sed alia. Et has
appellat aequivoce potentias. Sub primo membro comprehenduntur omnes potentiae
activae, et passivae, et rationales, et irrationales. Quaecunque enim posse
dicuntur per potentiam activam vel passivam quam habeant, eadem ratione
potentiae sunt, quia scilicet est in eis vis principiata alicuius activae vel
passivae. Sub secundo autem membro comprehenduntur potentiae mathematicales et
logicales. Mathematica potentia est, qua lineam posse dicimus in quadratum, et
eo quod in semetipsam ducta quadratum constituit. Logica potentia est, qua duo
termini coniungi absque contradictione in enunciatione possunt. Sub logica
quoque potentia continetur quae ea ratione potentia dicitur, quia est. Hae vero
merito aequivoce a primis potentiae dicuntur, eo quod istae nullam virtutem
activam vel passivam praedicant; et quod possibile istis modis dicitur, non ea
ratione possibile appellatur quia aliquis habeat virtutem ad hoc agendum vel
patiendum, sicut in primis. Unde cum potentiae habentes se ad opposita sint
activae vel passivae, istae quae aequivocae potestates dicuntur ad opposita non
se habent. De his ergo loquens ait: quaedam vero potestates aequivocae sunt, et
ideo ad opposita non se habent. Aristotle now proposes to show in what way
potencies that are called equivocal are related to opposites. He first explains
the nature of this kind of potency, and then gives the difference and agreement
all between these and the foresaid, where he says, This latter potentiality is
only in that which is movable, but the former is also in the immovable, etc. In
V and IX Metaphysicae [V, 12: 1019a 15; 12, 1: 1046a 4], Aristotle divides
potency into those that are called potencies for the same reason, and those
that have the name potency for another reason than the aforesaid potencies. The
latter are named "potencies” equivocally. Under the first member are
included all active and passive, rational and irrational potencies, for
whatever are said to be possible through the active or passive potency they
have, are potencies for the same reason, i.e., because there is in them the
originative force of something active or passive. Mathematical and logical
potencies are included under the second member of this division. That by which
a line can lead to a square we call a mathematical potency, for a line
constitutes a square when protracted back to itself. That by which two terms
can be joined in an enunciation without contradiction is a logical potency.
Logical potency also comprises that which is called "potency” because it
is. The latter [mathematical and logical potencies] are named from the former
equivocally because they predicate no active or passive capacity; and what is
said to be possible in these ways is not termed possible in virtue of having
the capacity to do or undergo as in the first case. Hence, since the potencies
related to opposites are active or passive, the ones that are called
potentialities equivocally are not related to opposites. These, then, are the
potencies he speaks of when he says But some are called potentialities
equivocally, and therefore they are not related to opposites. Cajetanus lib. 2
l. 12 n. 2Deinde declarans qualis sit ista potestas aequivoce dicta, subdit
divisionem usitatam possibilis per quam hoc scitur, dicens: possibile enim non
uno modo dicitur, sed duobus. Et uno quidem modo dicitur possibile eo quod
verum est ut in actu, idest ut actualiter est; ut, possibile est ambulare,
quando ambulat iam: et omnino, idest universaliter possibile est esse, quoniam
est actu iam quod possibile dicitur. Secundo modo autem possibile dicitur
aliquid non ea ratione quia est actualiter, sed quia forsitan aget, idest quia
potest agere; ut possibile est ambulare, quoniam ambulabit. Ubi advertendum est
quod ex divisione bimembri possibilis divisionem supra positam potentiae
declaravit a posteriori. Possibile enim a potentia dicitur: sub primo siquidem
membro possibilis innuit potentias aequivoce; sub secundo autem potentias
univoce, activas scilicet et passivas. Intendebat ergo quod quia possibile
dupliciter dicitur, quod etiam potestas duplex est. Declaravit autem potestates
aequivocas ex uno earum membro tantum, scilicet ex his quae dicuntur possibilia
quia sunt, quia hoc sat erat suo proposito. To clarify the kind of potency that
is called equivocal, he gives the usual division of the possible through which
this is known. "Possible,” he says, is not said in one way, but in two.
Something is said to be possible because it is true as in act, i.e., inasmuch
as it actually is; for example, it is possible to walk when one is already
walking, and in gene eral, i.e., universally, that is said to be possible which
is possible to be because it is already in act. Something is said to be
possible in the second way, not because it actually is, but because it is about
to act, i.e., because it can act; for instance, it is possible for someone to
walk because be is about to walk. Notice here that by this two-membered
division of the possible he makes the division of potency posited above evident
a posteriori, for the possible is named from potency. Under the first member of
the possible he signifies potencies equivocally; under the second, potencies
univocally, i.e., active and passive potencies. He means to show, then, that
since possible is said in two ways, potentiality is also twofold. He explains
equivocal potentialities in terms of only one member, namely, those that are
called possible because they are, since this was sufficient for his purpose.
Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 3Deinde cum dicit: et haec quidem etc., assignat
differentiam inter utranque potentiam, et ait quod potentia haec ultimo dicta
physica, est in solis illis rebus, quae sunt mobiles; illa autem est et in
rebus mobilibus et immobilibus. Possibile siquidem a potentia dictum eo quod
possit agere, non tamen agit, inveniri non potest absque mutabilitate eius,
quod sic posse dicitur. Si enim nunc potest agere et non agit, si agere debet,
oportet quod mPombaur de otio ad operationem. Id autem quod possibile dicitur
eo quod est, nullam mutabilitatem exigit in eo quod sic possibile dicitur. Esse
namque in actu, quod talem possibilitatem fundat, invenitur et in rebus
necessariis, et in immutabilibus, et in rebus mobilibus. Possibile ergo hoc,
quod logicum vocatur, communius est illo quod physicum appellari solet. When he
says, This latter potentiality is only in that which is movable, but the former
is also in the immovable, etc., he specifies the difference between each
potency. This last potency, he says, [possible because it can be] which is
called physical potency, is only in things that are movable; but the former is
in movable and immovable things. The possible that is named from the potency
which can act, but is not yet acting, cannot be found without the mutability of
that which is said to be possible in this way. For if that which can act now
and is not acting, should act, it is necessary that it be changed from rest to
operation. On the other hand, that which is called possible because it is,
requires no mutability in that which is said to be possible in this way, for to
be in act, which is the basis of such a possibility, is found in necessary
things, in immutable things, and in mobile things. Therefore, the possible
which is called logical, is more common than the one we customarily call
physical. Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 4Deinde subdit convenientiam inter utrunque
possibile, dicens quod in utrisque potestatibus et possibilibus verum est non
impossibile esse, scilicet, ipsum ambulare, quod iam actu ambulat seu agit, et
quod iam ambulabile est; idest, in hoc conveniunt quod, sive dicatur possibile
ex eo quod actu est, sive ex eo quod potest esse, de utroque verificatur non
impossibile; et consequenter necessario verificatur possibile, quoniam ad non
impossibile sequitur possibile. Hoc est secundum genus possibilis, respectu
cuius Aristoteles supra dixit: et primum quidem etc., in quo non invenitur via
ad utrunque oppositorum, hoc, inquam, est possibile quod iam actu est. Quod
enim tali ratione possibile dicitur, iam determinatum est ex eo quod actu esse
suppositum est. Non ergo possibile omne ad utrunque possibile est, sive
loquamur de possibili physice, sive logice.Then he shows that there is a
correspondence between these possibles when he adds that not impossible to be
is true of both of these potentialities and possibles, e.g., to walk is not
impossible for that which is already walking in act, i.e., acting, and it is
not impossible for that which could now walk; that is, they agree in that not
impossible is verified of both—of either what is said to be possible from the
fact that it is in act or of what is said to be possible from the fact that it
could be. Consequently, the necessary is verified as possible, for possible
follows upon not impossible. The possible that is already in act is the second
genus of the possible in which access is not found to both opposites, of which
Aristotle spoke when he said, First of all this is not true of the
potentialities which are not according to reason, etc. For that which is said
to be possible because it is already in act is already determined, since it is
supposed as being in act. Therefore, not every possible is the possible of
alternatives, whether we speak of the physical possible or the logical.
Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 5Deinde cum dicit: sic igitur possibile etc.,
applicat determinatam veritatem ad propositum. Et primo, concludendo ex dictis,
declarat habitudinem utriusque possibilis ad necessarium, dicens quod hoc ergo
possibile, scilicet physicum quod est in solis mobilibus, non est verum dicere
et praedicare de necessario simpliciter: quia quod simpliciter necessarium est,
non potest aliter esse. Possibile autem physicum potest sic et aliter esse, ut
dictum est. Addit autem ly simpliciter, quoniam necessarium est multiplex. Quoddam
enim est ad bene esse, quoddam ex suppositione: de quibus non est nostrum
tractare, sed solummodo id insinuare. Quod ut praeservaret se ab illis modis
necessarii qui non perfecte et omnino habent necessarii rationem, apposuit ly
simpliciter. De tali enim necessario possibile physicum non verificatur.
Alterum autem possibile logicum, quod in rebus immobilibus invenitur, verum est
de illo enunciare, quoniam nihil necessitatis adimit. Et per hoc solvitur ratio
inducta ad partem negativam quaestionis. Peccabat siquidem in hoc, quod ex
necessario inferebat possibile ad utrunque quod convertitur in oppositam
qualitatem. When he says, So it is not true to say the latter possible of what
is necessary simply, etc., he applies the truth he has determined to what has
been proposed. First, by way of a conclusion from what has been said, he shows
the relationship of each possible to the necessary. So, he says, it is not true
to say and predicate this possible, namely physical, which is only in mobile
things, of the necessary simply, because what is necessary simply cannot be
otherwise. The physical possible, however, can be thus and otherwise, as has
been said. He adds "simply” because the necessary is manifold. There is
the necessary for well-being and there is also the necessary from supposition,
but it is not our business to treat these, only to indicate them. In order,
then, to avoid the modes of the necessary that do not have the notion of the
necessary perfectly and in every way, he adds "simply.” Now the physical
possible is not verified of this kind of necessary [i.e., of the necessary
simply], but it is true to enunciate the logical possible, the one found in
immovable things, of the necessary, since it takes away nothing of the
necessity. The argument introduced for the negative part of this question”’ is
destroyed by this. The error in that argument was the inference—by way of
conversion into the opposite quality—of the possible to both alternatives from
the necessary. Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 6Deinde respondet quaestioni
formaliter intendens quod affirmativa pars quaestionis tenenda sit, quod
scilicet ad necessarium sequitur possibile; et assignat causam. Quia ad partem
subiectivam sequitur constructive suum totum universale; sed necessarium est
pars subiectiva possibilis: quia possibile dividitur in logicum et physicum, et
sub logico comprehenditur necessarium; ergo ad necessarium sequitur possibile.
Unde dicit: quare, quoniam partem, scilicet subiectivam, suum totum universale
sequitur, illud quod ex necessitate est, idest necessarium, tamquam partem
subiectivam, consequitur posse esse, idest possibile, tamquam totum universale.
Sed non omnino, idest sed non ita quod omnis species possibilis sequatur; sicut
ad hominem sequitur animal, sed non omnino, idest non secundum omnes suas
partes subiectivas sequitur ad hominem: non enim valet: est homo, ergo est
animal irrationale. Et per hoc confirmata ratione adducta ad partem
affirmativam, expressius solvit rationem adductam ad partem negativam, quae
peccabat secundum fallaciam consequentis, inferens ex necessario possibile,
descendendo ad unam possibilis speciem, ut de se patet. Then he replies to the
question formally. He states that the affirmative part of the question must be
held, namely, that the possible follows upon the necessary. Next, he assigns
the cause. The whole universal follows constructively upon its subjective part;
but the necessary is a subjective part of the possible, because the possible is
divided into logical and physical and under the logical is comprehended the
necessary; therefore, the possible follows upon the necessary. Hence he says,
Therefore, since the universal follows upon the part, i.e., since the whole
universal follows upon its subjective part, to be possible to be, i.e.,
possible, as the whole universal, follows upon that which necessarily is, i.e.,
necessary, as a subjective part. He adds: though not every kind of possible
does, i.e., not every species of the possible follows; just as animal follows
upon man, but not in every way, i.e., it does not follow upon man according to
all its subjective parts, for it is not valid to say, "He is a man,
therefore he is an irrational animal.” By this proof of the validity of the
affirmative part, Aristotle has explicitly destroyed the reasoning adduced for
the negative part, which, as is evident, erred according to the fallacy of the
consequent in inferring the possible from the necessary by descending to one
species of the possible. Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 7Deinde cum dicit: et est
fortasse quidem etc., ordinat easdem modalium consequentias alio situ,
praeponendo necessarium omnibus aliis modis. Et circa hoc duo facit: primo,
proponit quod intendit; secundo, assignat causam dicti ordinis; ibi: manifestum
est autem et cetera. Dicit ergo: et est fortasse principium omnium
enunciationum modalium vel esse vel non esse, idest, affirmativarum vel
negativarum, necessarium et non necessarium. Et oportet considerare alia,
scilicet, possibile contingere et impossibile esse, sicut horum, scilicet,
necessarii et non necessarii, consequentia, hoc modo: consequentiae
enunciationum modalium secundum quatuor ordines alio convenienti situ ab
Aristotele positae et ordinatae: (Figura). Vides autem hic nihil immutatum,
nisi quod necessariae quae ultimum locum tenebant, primum sortitae sunt. Quod
vero dixit fortasse, non dubitantis, sed absque determinata ratione rem
proponentis est. When he says, Indeed the necessary and not necessary may well
be the principle of all that is or is not, etc., he disposes the same
consequences of modals in another arrangement, placing the necessary before all
the other modes. First he proposes the order of modals and then assigns the
cause of the order where he says, It is evident, then, from what has been said
that that which necessarily is, actually is, etc. Indeed, he says, the
necessary and not necessary may well be the principle of the "to be” or
"not to be” of all modal enunciations, i.e., the necessary and not
necessary is the principle of affirmatives or negatives. And the others, i.e.,
the possible, contingent, and impossible to be must be considered as consequent
to these, i.e., to the necessary and not necessary. THE CONSEQUENTS OF MODAL
ENUNCIATIONS ACCORDING TO THE FOUR ORDERS, POSITED AND DISPOSED BY ARISTOTLE IN
ANOTHER APPROPRIATE ARRANGEMENT FIRST ORDER It is necessary to be It is not
possible not to be It is not contingent not to be It is impossible not to be
SECOND ORDER It is necessary not to be It is not possible to be It is not
contingent to be It is impossible to be It is not necessary to be It is
possible not to be It is contingent not to be It is not impossible not to be
FOURTH ORDER It is not necessary not to be It is possible to be It is
contingent to be It is not impossible to be Nothing is changed here except the
enunciations predicating necessity. They have been allotted the first place,
whereas in the former table they were placed last. When he says "may well
be,” it is not because he is in any doubt, but because he is proposing this
here without a determinate proof. 8. Deinde cum dicit: manifestum est
autemetc., intendit assignare causam dicti ordinis. Et primo, assignat causam,
quare praeposuerit necessarium possibili tali ratione. Sempiternum est prius
temporali; sed necessarium dicit sempiternitatem (quia dicit esse in actu,
excludendo omnem mutabilitatem, et consequenter temporalitatem, quae sine motu
non est imaginabilis), possibile autem dicit temporalitatem (quia non excludit
quin possit esse et non esse); ergo necesse merito prius ponitur quam possibile.
Unde dicit, proponendo minorem: manifestum est autem ex his quae dicta sunt
etc., tractando de necessario: quoniam id quod ex necessitate est, secundum
actum est totaliter, scilicet quia omnem excludit mutabilitatem et potentiam ad
oppositum: si enim mutari posset in oppositum aliquo modo, iam non esset
necessarium. Deinde subdit maiorem per modum antecedentis conditionalis: quare
si priora sunt sempiterna temporalibus et cetera. Ultimo ponit conclusionem: et
quae actu sunt omnino, scilicet necessaria, priora sunt potestate, idest
possibilibus, quae omnino actu esse non possunt, licet compatiantur. When he
says, It is evident, then, from what has been said that that which necessarily
is, actually is, etc., he gives the cause of this order. First he gives the
reason for placing the necessary before the possible: the sempiternal is prior
to the temporal; but "necessary” signifies sempiternal (because it
signifies "to be in act,” excluding all mutability and consequently
temporality, which is not imaginable without movement) and the possible
signifies temporality (since it does not exclude the possibility of being and
not being); therefore, the necessary is rightly placed before the possible. He
proposes the minor of this argument when he says, It is evident, then, from
what has been said in treating the necessary, that that which necessarily is,
is totally in act, since it excludes all mutability and potency to the
opposite—for if it could be changed into the opposite in any way, then it would
not be necessary. Next he gives the major, which is in the mode of an
antecedent conditional: and if eternal things are prior to temporal, etc.
Finally, he posits the conclusion: those that are wholly in act in every way,
namely necessary, are prior to the potential, i.e., to possibles, which do not
have being in act wholly although they are compatible with it. Cajetanus lib. 2
l. 12 n. 9Deinde cum dicit: et hae quidem etc., assignat causam totius ordinis
a se inter modales statuti, tali ratione. Universi triplex est gradus. Quaedam
sunt actu sine potestate, idest sine admixta potentia, ut primae substantiae,
non illae quas in praesenti diximus primas, eo quod principaliter et maxime
substent, sed illae quae sunt primae, quia omnium rerum sunt causae,
intelligentiae scilicet. Alia sunt actu cum possibilitate, ut omnia mobilia,
quae secundum id quod habent de actu sunt priora natura seipsis secundum id
quod habent de potentia, licet e contra sit, aspiciendo ordinem temporis. Sunt
enim secundum id quod habent de potentia priora tempore seipsis secundum id
quod habent de actu. Verbi gratia, Socrates prius secundum tempus poterat esse
philosophus, deinde fuit actualiter philosophus. Potentia ergo praecedit actum
secundum ordinem temporis in Socrate, ordine autem naturae, perfectionis et
dignitatis e converso contingit. Prior enim secundum dignitatem, idest dignior
et perfectior habebatur Socrates cum philosophus actualiter erat, quam cum
philosophus esse poterat. Praeposterus est igitur ordo potentiae et actus in
unomet, utroque ordine, scilicet, naturae et temporis attento. Alia vero
nunquam sunt actu sed potestate tantum, ut motus, tempus, infinita divisio
magnitudinis, et infinita augmentatio numeri. Haec enim, ut IX Metaphys.
dicitur, nunquam exeunt in actum, quoniam eorum rationi repugnat. Nunquam enim
aliquid horum ita est quin aliquid eius expectetur, et consequenter nunquam
esse potest nisi in potentia. Sed de his alio tractandum est loco. Then he
says, Some things are actualities without potentiality, namely, the primary
substances, etc. Here he assigns the cause of the whole order established among
modals. The grades of the universe are threefold. Some things are in act
without potentiality, i.e., not combined with potency. These are the primary
substances—not those we have called "first” in the present work because
they principally and especially sustain—but those that are first because they
are the causes of all things, namely, the Intelligences. In others, act is
accompanied with possibility, as is the case with all mobile things, which,
according to what they have of act, are prior in nature to themselves according
to what they have of potency, although the contrary is the case in regard to
the order of time. According to what they have of potency they are prior in
time to themselves according to what they have of act. For example, according
to time, Socrates first was able to be a philosopher, then he actually was a
philosopher. In Socrates therefore, potency precedes act according to the order
of time. The converse is the case, however, in the order of nature, perfection,
and dignity, for when he actually was a philosopher, Socrates was regarded as
prior according to dignity, i.e., more worthy and more perfect than when he was
potentially a philosopher. Hence, when we consider each order, i.e., nature and
time, in one and the same thing, the order of potency and act is reversed.
Others never are in act but are only in potency, e.g., motion, time, the
infinite division of magnitude, and the infinite augmentation of number. These,
as is said in IX Metaphysicae [6: 1048b 9-17], never terminate in act, for it
is repugnant to their nature. None of them is ever such that something of it is
not expected, and consequently they can only be in potency. These, however,
must be treated in another place. Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 10 Nunc haec ideo
dicta sint ut, inspecto ordine universi, appareat quod illum imitati sumus in
nostro ordine. Posuimus siquidem primo necessarium, quod sonat actu esse sine
potestate seu mutabilitate, imitando primum gradum universi. Locavimus secundo
loco possibile et contingens, quorum utrunque sonat actum cum possibilitate, et
sic servatur conformitas ad secundum gradum universi. Praeposuimus autem
possibile et non contingens, quia possibile respicit actum, contingens autem
secundum vim nominis respicit defectum causae, qui ad potentiam pertinet:
defectus enim potentiam sequitur; et ex hoc conforme est secundae parti
universi, in qua actus est prior potentia secundum naturam, licet non secundum
tempus. Ultimum autem locum impossibili reservavimus, eo quod sonat nunquam
fore, sicut et ultima universi pars dicta est illa, quae nunquam actu est.
Pulcherrimus igitur ordo statutus est, quando divinus est observatus. This has
been said so that once the order of the universe has been seen it should appear
that we were imitating it in our present ordering. The necessary, which
signifies "to be in act” without potentiality or mutability, has been
placed first, in imitation of the first grade of the universe. We have put the
possible and contingent, both of which signify act with possibility, in second
place in conformity with the second grade of the universe. The possible has
been Placed before the contingent because the possible relates to act whereas
the contingent, as the force of the name suggests, relates to the defect of a
cause-which pertains to potency, for defect follows upon potency. The order of
these is similar to the order in the second part of the universe, where act is
prior to potency according to nature, though not according to time. We have
reserved the last place for the impossible because it signifies what never will
be, just as the last part of the universe is said to be that which is never in
act. Thus, a beautifully proportioned order is established when the divine is
observed. Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 11 Quia autem suppositae modalium
consequentiae nil aliud sunt quam aequipollentiae earum, quae ob varium
negationis situm, qualitatem, vel quantitatem, vel utranque mutantis, fiunt;
ideo ad completam notitiam consequentium se modalium, de earum qualitate et
quantitate pauca admodum necessaria dicenda sunt. Quoniam igitur natura totius
ex partium naturis consurgit, sciendum est quod subiectum enunciationis modalis
et dicit esse vel non esse, et est dictum unicum, et continet in se subiectum
dicti; praedicatum autem modalis enunciationis, modus scilicet, et totale
praedicatum est (quia explicite vel implicite verbum continet, quod est semper
nota eorum quae de altero praedicantur: propter quod Aristoteles dixit quod
modus est ipsa appositio), et continet in se vim distributivam secundum partes
temporis. Necessarium enim et impossibile distribuunt in omne tempus vel
simpliciter vel tale; possibile autem et contingens pro aliquo tempore in
communi. Since the consequents of modals, i.e., those placed under each other,
are their equivalents in meaning, and these are produced by the varying
position of the negation changing the quality or quantity or both, a few things
must be said about their quality and quantity to complete our knowledge of
them. The nature of the whole arises from the parts, and therefore we should
note the following things about the parts of the modal enunciation. The subject
of the modal enunciation asserts to be or not to be, and is a singular dictum,
and contains in itself the subject of the dictum. The predicate of a modal
enunciation, namely, the mode, is the total predicate (since it explicitly or
implicitly contains the verb, which is always a sign of something predicated of
another, for which reason Aristotle says that the mode is a determining
addition) and contains in itself distributive force according to the parts of
time. The necessary and impossible distribute in all time either simply or in a
limited way; the possible and contingent distribute according to some time
commonly. Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 12 Nascitur autem ex his quinque
conditionibus duplex in qualibet modali qualitas, et triplex quantitas. Ex eo
enim quod tam subiectum quam praedicatum modalis verbum in se habet, duplex
qualitas fit, quarum altera vocatur qualitas dicti, altera qualitas modi. Unde
et supra dictum est aliquam esse affirmativam de modo et non de dicto, et e
converso. Ex eo vero quod subiectum modalis continet in se subiectum dicti, una
quantitas consurgit, quae vocatur quantitas subiecti dicti: et haec
distinguitur in universalem, particularem et singularem, sicut et quantitas
illarum de inesse. Possumus enim dicere, Socratem, quemdam hominem, vel omnem
hominem, vel nullum hominem, possibile est currere. Ex eo autem quod subiectum
unius modalis dictum unum est, consurgit alia quantitas, vocata quantitas
dicti; et haec unica est singularitas: secundum omne enim dictum cuiusque
modalis singulare est istius universalis, scilicet dictum. Quod ex eo liquet quod
cum dicimus, hominem esse album est possibile, exponitur sic, hoc dictum,
hominem esse album, est possibile. Hoc dictum autem singulare est, sicut et,
hic homo. Propterea et dicitur quod omnis modalis est singularis quoad dictum,
licet quoad subiectum dicti sit universalis vel particularis. Ex eo autem quod
praedicatum modalis, modus scilicet, vim distributivam habet, alia quantitas
consurgit vocata quantitas modi seu modalis; et haec distinguitur in universalem
et particularem. As a consequence of these five conditions there is a twofold
quality and a threefold quantity in any modal. The twofold quality results from
the fact that both the subject and the predicate of a modal have a verb in
them. One of these is called the quality of the dictum, the other the quality
of the mode. This is why it was said above that there is an enunciation which
is affirmative of mode and not of dictum, and conversely. Of the threefold
quantity of a modal enunciation, one arises from the fact that the subject of
the modal contains in it the subject of the dictum. This is called the quantity
of the subject of the dictum, and is distinguished into universal, particular,
and singular, as in the case of the quantity of an absolute enunciation. For we
can say: "That ‘Socrates,’ ‘some man,’ ‘every man,”’ or "‘no man,’
run is possible’ " The second quantity is that of the dictum, which arises
from the fact that the subject of one modal is one dictum. This is a unique
singularity, for every dictum of a modal is the singular of that universal,
i.e.,dictum. "That man be white is possible” means "This dictum,
‘that man be white,’ is possible.” "This dictum” is singular in quantity,
just as "this man” is. Hence, every modal is singular with respect to
dictum, although with respect to the subject of the dictum it is universal or
particular. The third quantity is that of the mode, or modal quantity, which
arises from the fact that the predicate of the modal, i.e., the mode, has
distributive force. This is distinguished into universal and particular.
Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 13 Ubi diligenter duo attendenda sunt. Primum est
quod hoc est singulare in modalibus, quod praedicatum simpliciter quantificat
propositionem modalem, sicut et simpliciter qualificat. Sicut enim illa est
simpliciter affirmativa, in qua modus affirmatur, et illa negativa, in qua
modus negatur; ita illa est simpliciter universalis cuius modus est
universalis, et illa particularis cuius modus est particularis. Et hoc quia
modalis modi naturam sequitur. Secundum attendendum (quod est causa istius
primi) est, quod praedicatum modalis, scilicet modus, non habet solam
habitudinem praedicati respectu sui subiecti, scilicet esse et non esse, sed
habitudinem syncategorematis distributivi, sed non secundum quantitatem partium
subiectivarum ipsius subiecti, sed secundum quantitatem partium temporis
eiusdem. Et merito. Sicut enim quia subiecti enunciationis de inesse propria
quantitas est penes divisionem vel indivisionem ipsius subiecti (quia est nomen
quod significat per modum substantiae, cuius quantitas est per divisionem
continui: ideo signum quantificans in illis distribuit secundum partes
subiectivas), ita quia subiecti enunciationis modalis propria quantitas est
tempus (quia est verbum quod significat per modum motus, cuius propria quantitas
est tempus), ideo modus quantificans distribuit ipsum suum subiectum, scilicet,
esse vel non esse, secundum partes temporis. Unde subtiliter inspicienti
apparebit quod quantitas ista modalis proprii subiecti modalis enunciationis
quantitas est, scilicet, ipsius esse vel non esse. Ita quod illa modalis est
simpliciter universalis, cuius proprium subiectum distribuitur pro omni
tempore: vel simpliciter, ut, hominem esse animal est necessarium vel
impossibile; vel accepto, ut, hominem currere hodie, vel, dum currit, est
necessarium vel impossibile. Illa vero est particularis, in qua non pro omni,
sed aliquo tempore distributio fit in communi tantum; ut, hominem esse animal,
est possibile vel contingens. Est ergo et ista modalis quantitas subiecti sui
passio (sicut et universaliter quantitas se tenet ex parte materiae), sed
derivatur a modo, non in quantum praedicatum est (quod, ut sic, tenetur
formaliter), sed in quantum syncategorematis officio fungitur, quod habet ex eo
quod proprie modus est. Now, there are two things about modal enunciations that
must be carefully noted. The first—which is peculiar to modals—is that the
predicate quantifies the modal proposition simply, as it also qualifies it
simply. For just as the modal enunciation in which the mode is affirmed is
affirmative simply, and negative when the mode is negated, so the modal
enunciation in which the mode is universal is universal simply and particular
in which the mode is particular. The reason for this is that the modal follows
the nature of the mode. The second thing to be noted (which is the cause of the
first) is that the predicate of a modal, i.e., the mode, not only has the
relationship of a predicate to its subject (i.e., to "to be” and "not
to be”), but also has the relationship to the subject, of a distributive
syncategorematic term, which has the effect of distributing the subject, not
according to the quantity of its subjective parts, but according to the
quantity of the parts of its time. And rightly so, for just as the proper quantity
of the subject of an absolute enunciation varies according to the division or
lack of division of its subject (since the subject is a name which signifies in
the mode of substance, whose quantity is from the division of the continuous,
and therefore the quantifying sign distributes according to the subjective
parts), so, because the proper quantity of the subject of a modal enunciation
is time (since the subject is a verb, which signifies in the mode of movement,
whose proper quantity is time), the quantifying mode distributes the subject,
i.e., "to be” or "not to be” according to the parts of time. Hence,
we arrive at the subtle point that the quantity of the modal is the quantity of
the proper subject of the modal enunciation, namely, of "to be” or "not
to be.” Therefore, a modal enunciation is universal simply when the proper
subject is distributed throughout all time, either simply, as in "That man
is an animal is necessary or impossible,” or taken in a limited way, as in
"That man is running today,” or "while he is running, is necessary or
impossible.” A modal enunciation is particular in which "to be” or
"not to be” is distributed, not throughout all time, but commonly
throughout some time, as in "That man is an animal is possible or
contingent.” This modal quantity is therefore also a property of its subject
(in that, universally, quantity comes from the matter) but is derived from the
mode, not insofar as it is a predicate (because, as such, it is understood
formally), but insofar as it performs a syncategorematic function, which it has
in virtue of the fact that it is properly a mode. Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 14
Sunt igitur modalium (de propria earum quantitate loquendo) aliae universales
affirmativae, ut illae de necessario, quia distribuunt ad semper esse; aliae
universales negativae, ut illae de impossibili, quia distribuunt ad nunquam
esse; aliae particulares affirmativae, ut illae de possibili et contingenti,
quia distribuunt utrunque ad aliquando esse; aliae particulares negativae, ut
illae de non necesse et non impossibili, quia distribuunt ad aliquando non
esse: sicut in illis de inesse, omnis, nullus, quidam, non omnis, non nullus,
similem faciunt diversitatem. Et quia, ut dictum est, haec quantitas modalium
est inquantum modales sunt, et de his, inquantum huiusmodi, praesens tractatus
fit ab Aristotele; idcirco aequipollentiae, seu consequentiae earum, ordinatae
sunt negationis vario situ, quemadmodum aequipollentiae illarum de inesse: ut
scilicet, negatio praeposita modo faciat aequipollere suae contradictoriae;
negatio autem modo postposita, posita autem dicti verbo, suae aequipollere
contrariae facit; praeposita vero et postposita suae subalternae, ut videre
potes in consequentiarum figura ultimo ab Aristotele formata. In qua, tali praeformata
oppositionum figura, clare videbis omnes se mutuo consequentes, secundum
alteram trium regularum aequipollere, et consequenter, totum primum ordinem
secundo contrarium, tertio contradictorium, quarto vero subalternum. (Figura). Therefore,
with respect to their proper quantity, some modals are universal affirmatives,
i.e., those of the necessary because they distribute "to be” to all time.
Others are universal negatives, i.e., those of the impossible because they
distribute "to be” to no time. Still others are particular affirmatives,
i.e., those signifying the possible and contingent, for both of these
distribute "to be” to some time. Finally, there are particular negatives,
i.e., those of the not necessary and not impossible, for they distribute
"not to be” to some time. This is similar to the diversity in absolute
enunciations from the use of "every,” "no” "some,” not all,” and
"not none.” Now, since this quantity belongs to modals insofar as they are
modals, as has been said, and since Aristotle is now considering them in this
particular respect, the modal enunciations that are equivalent, i.e., their
consequents, are ordered by the different location of the negation, as is the
case with absolute enunciations that are equivalent. A negative placed before
the mode makes an enunciation equivalent to its contradictory; placed after the
mode, i.e., with the verb of the dictum, makes it equivalent to its contrary;
placed before and after the mode makes it equivalent to its subaltern, as you
can see in the last table of consequents given by Aristotle. In that table of
oppositions, you see all the mutual consequents, according to one of the three
rules for making enunciations equivalent. Consequently, the whole first order
of equivalent enunciations is contrary to the second, contradictory to the
third, and the fourth is subalternated to it. Necessary to be - contraries -
Impossible to be subalterns subalterns Possible to be - subcontraries -
Contingent not to be TABLE OF OPPOSITION OF EQUIPOLLENT MODALS This table is
not Cajetan’s but is a full arrangement of the orders of modal enunciations
asdeveloped in this lesson. Close I Universal Affirmatives It is necessary to
be It is not possible not to be It is not contingent not to be It is impossible
not to be contraries II Universal Negatives It is necessary not to be It is not
possible to be It is not contingent to be It is impossible to be subalterns
subalterns IV Particular Affirmatives It is not necessary not to be It is
possible to be It is contingent to be It is not impossible to be subcontraries
III Particular Negatives It is not necessary to be It is possible not to be It
is contingent not to be It is not impossible not to be. XIII. 1 Postquam
determinatum est de enunciatione secundum quod diversificatur tam ex additione
facta ad terminos, quam ad compositionem eius, hic secundum divisionem a s.
Thoma in principio huius secundi factam, intendit Aristoteles tractare quandam
quaestionem circa oppositiones enunciationum provenientes ex eo quod additur
aliquid simplici enunciationi. Et circa hoc quatuor facit: primo, movet
quaestionem secundo, declarat quod haec quaestio dependet ab una alia
quaestione praetractanda; ibi: nam si ea, quae sunt in voce etc.; tertio,
determinat illam aliam quaestionem; ibi: nam arbitrari etc.; quarto, redit ad
respondendum quaestioni primo motae; ibi: quare si in opinione et cetera.
Quaestio quam movere intendit est: utrum affirmativae enunciationi contraria
sit negatio eiusdem praedicati, an affirmatio de praedicato contrario seu privativo?
Unde dicit: utrum contraria est affirmatio negationi contradictoriae, scilicet,
et universaliter oratio affirmativa orationi negativae; ut, affirmativa oratio
quae dicit, omnis homo est iustus, illi contraria sit orationi negativae,
nullus homo est iustus, aut illi, omnis homo est iniustus, quae est affirmativa
de praedicato privativo? Et similiter ista affirmatio, Callias est iustus, est
ne contraria illi contradictoriae negationi, Callias non est iustus, aut illi,
Callias est iniustus, quae est affirmativa de praedicato privativo? Now that he
has treated the enunciation as it is diversified by an addition made to the
terms and by an addition made to its composition (which is the division of the
text made by St. Thomas at the beginning of the second book), Aristotle takes
up another question about oppositions of enunciations. This question concerns
the oppositions that result from something added to the simple enunciation.
First he asks the question; secondly, he shows that this question depends upon
another, which must be treated first, where he says, For if those things that
are in vocal sound are determined by those in the intellect, etc.; third, he
settles the latter question where he says, It is false, course, to suppose that
opinions are to be defined as contrary because they are about contraries, etc.;
finally, he replies to the first question where he says, If, therefore, this is
the case with respect to opinion, and affirmations and negations in vocal sound
are signs of those in the soul, etc. The first question he raises is this: is
the contrary of an affirmative enunciation the negation of the same predicate
or the affirmation of a contrary or privative predicate? Hence he says, There
is a question as to whether the contrary of an affirmation is the contradictory
negation, and universally, whether affirmative speech is contrary to negative
speech. For instance, is affirmative speech which says "Every man is
just,” contrary to negative speech which says "No man is just,” or to the
affirmative of the privative predicate, "Every man is unjust”? And
similarly, is the affirmation "Callias is just” contrary to the
contradictory negation, "Callias is not just” or is it contrary to
"Callias is unjust,” the affirmative of the privative predicate? Cajetanus
lib. 2 l. 13 n. 2Ad evidentiam tituli huius quaestionis, quia hactenus
indiscusse ab aliis est relictus, considerare oportet quod cum in enunciatione
sint duo, scilicet ipsa enunciatio seu significatio et modus enunciandi seu significandi,
duplex inter enunciationes fieri potest oppositio, una ratione ipsius
enunciationis, altera ratione modi enunciandi. Si modos enunciandi attendimus,
duas species oppositionis in latitudine enunciationum inveniemus,
contrarietatem scilicet et contradictionem. Divisae enim superius sunt
enunciationes oppositae in contrarias et contradictorias. Contradictio inter
enunciationes ratione modi enunciandi est quando idem praedicatur de eodem
subiecto contradictorio modo enunciandi; ut sicut unum contradictorium nil
ponit, sed alterum tantum destruit, ita una enunciatio nil asserit, sed id
tantum quod altera enunciabat destruit. Huiusmodi autem sunt omnes quae
contradictoriae vocantur, scilicet, omnis homo est iustus, non omnis homo est
iustus, Socrates est iustus, Socrates non est iustus, ut de se patet. Et ex hoc
provenit quod non possunt simul verae aut falsae esse, sicut nec duo
contradictoria. Contrarietas vero inter enunciationes ratione modi enunciandi
est quando idem praedicatur de eodem subiecto contrario modo enunciandi; ut
sicut unum contrariorum ponit materiam sibi et reliquo communem in extrema
distantia sub illo genere, ut patet de albo et nigro, ita una enunciatio ponit
subiectum commune sibi et suae oppositae in extrema distantia sub illo
praedicato. Huiusmodi quoque sunt omnes illae quae contrariae in figura
appellantur, scilicet, omnis homo est iustus, omnis homo non est iustus. Hae
enim faciunt subiectum, scilicet hominem, maxime distare sub iustitia, dum illa
enunciat iustitiam inesse homini, non quocunque modo, sed universaliter; ista
autem enunciat iustitiam abesse homini, non qualitercunque, sed universaliter.
Maior enim distantia esse non potest quam ea, quae est inter totam
universitatem habere aliquid et nullum de universitate habere illud. Et ex hoc
provenit quod non possunt esse simul verae, sicut nec contraria possunt eidem
simul inesse; et quod possunt esse simul falsae, sicut et contraria simul non
inesse eidem possunt. Si vero ipsam enunciationem sive eius significationem
attendamus secundum unam tantum oppositionis speciem, in tota latitudine
enunciationum reperiemus contrarietatem, scilicet secundum veritatem et
falsitatem: quia duarum enunciationum significationes entia positiva sunt, ac
per hoc neque contradictorie neque privative opponi possunt, quia utriusque
oppositionis alterum extremum est formaliter non ens. Et cum nec relative
opponantur, ut clarum est, restat ut nonnisi contrarie opponi possunt. Since
this question has not been discussed by others, we must begin by noting that
there are two things in an enunciation, namely, the enunciation itself, i.e.,
the signification, and the mode of enunciating or signifying. Hence, a twofold
opposition can be made between enunciations, one by reason of the enunciation
itself, the other by reason of the mode of enunciating. If we consider the
modes of enunciating, we find two species of opposition among enunciations,
namely, contrariety and contradiction. This point was made earlier when opposed
enunciations were divided into contraries and contradictories. There is
contradiction by reason of mode of enunciating when the same thing is
predicated of the same subject in a contradictory mode; so that just as one of
a pair of contradictories posits nothing but only destroys the other, so one
enunciation 4 asserts nothing, but only destroys what the other was
enunciating. All enunciations that are called contradictories are of this kind;
e.g., "Every man is just,” "Not every man is just”; "Socrates is
just,” "Socrates is not just.” It follows from this that they cannot be at
once true or false, just as two contradictories cannot be at once. There is
contrariety between enunciations by reason of mode of enunciating when the same
thing is predicated of the same subject in a contrary mode of enunciating; so
that just as one of a pair of contraries posits matter common to itself and to
the other which is at the extreme distance under that genus—as is evident for
instance in white and black—so one enunciation posits a subject common to
itself and its opposite at the extreme distance under that predicate. All the
enunciations in the diagram that are called contrary are of this kind, for
example, "Every man is just,” "No man is just.” These make the
subject "man” distant to the greatest degree possible under justice, one
enunciating justice to be in man, not in any way, but universally, the other
enunciating justice to be absent from man, not in any way, but universally. For
no distance can be greater than the distance between the total number of things
having something and none of the total number of things having that thing. It
follows that contrary enunciations cannot be at once true, just as contraries
cannot be in the same thing at once. They can, however, be false at the same
time, just as it is possible that contraries not be in the same thing at the
same time. If we consider the enunciation itself (viz., its signification)
according to only one species of opposition, we will find in the whole range of
enunciations an opposition of contrariety, i.e., an opposition according to
truth and falsity. The reason for this is that the significations of two
enunciations are positive, and accordingly cannot be opposed either
contradictorily or privatively because the other extreme of both of these
oppositions is formally non-being. And since significations are not opposed
relatively, as is evident, the only way they can be opposed is contrarily.
Cajetanus lib. 2 l. 13 n. 3Consistit autem ista contrarietas in hoc quod duarum
enunciationum altera alteram non compatitur vel in veritate vel in falsitate,
praesuppositis semper conditionibus contrariorum, scilicet quod fiant circa
idem et in eodem tempore. Patere quoque potest talem oppositionem esse
contrarietatem ex natura conceptionum animae componentis et dividentis, quarum
singulae sunt enunciationes. Conceptiones siquidem animae adaequatae nullo alio
modo opponuntur conceptionibus inadaequatis nisi contrarie, et ipsae
conceptiones inadaequatae, si se mutuo expellunt, contrariae quoque dicuntur.
Unde verum et falsum, contrarie opponi probatur a s. Thoma in I parte, qu. 17.
Sicut ergo hic, ita et in enunciationibus ipsae significationes adaequatae
contrarie opponuntur inadaequatis, idest verae falsis; et ipsae inadaequatae,
idest falsae, contrarie quoque opponuntur inter se, si contingat quod se non
compatiantur, salvis semper contrariorum conditionibus. Est igitur in
enunciationibus duplex contrarietas, una ratione modi, altera ratione
significationis, et unica contradictio, scilicet ratione modi. Et, ut confusio
vitetur, prima contrarietas vocetur contrarietas modalis, secunda contrarietas
formalis. Contradictio autem non ad confusionis vitationem quia unica est, sed
ad proprietatis expressionem contradictio modalis vocari potest. Invenitur
autem contrarietas formalis enunciationum inter omnes contradictorias, quia
contradictoriarum altera alteram semper excludit; et inter omnes contrarias
modaliter quoad veritatem, quia non possunt esse simul verae, licet non
inveniatur inter omnes quoad falsitatem, quia possunt esse simul falsae. The
contrariety spoken of here consists in this: of two enunciations one is not
compatible with the other either in truth or falsity—presupposing always the
conditions for contraries, that they are about the same thing and at once. It
can be shown that such opposition is contrariety from the nature of the
conceptions of the soul when composing and dividing, each of which is an
enunciation. Adequate conceptions of the soul are opposed to inadequate
conceptions only contrarily, and inadequate conceptions, if each cancels the
other, are also called contraries. It is from this that St. Thomas proves, in
[Summa theologiae] part I, question 17, that the true and false are contrarily
opposed. Therefore, as in the conceptions of the soul, so in enunciations,
adequate significations are contrarily opposed to inadequate, i.e., true to
false; and the inadequate, i.e., the false, are also contrarily opposed among
themselves if it happens that they are not compatible, supposing always the
conditions for contraries. There is, therefore, in enunciations a twofold
contrariety, one by reason of mode, the other by reason of signification, and
only one contradiction, that by reason of mode. To avoid confusion, let us call
the first contrariety modal and the second formal. We may call contradiction
modal—not to avoid confusion since it is unique—but for propriety of
expression. Formal contrariety is found between all contradictory enunciations,
since one contradictory always excludes the other. It is also found between all
modally contrary enunciations in regard to truth, since they cannot be at once
true. However it is not found between the latter in regard to falsity, since
they can be at once false. Cajetanus lib. 2 l. 13 n. 4Quia igitur Aristoteles
in hac quaestione loquitur de contrarietate enunciationum quae se extendit ad
contrarias modaliter, et contradictorias, ut patet in principio et in fine
quaestionis (in principio quidem, quia proponit utrasque contradictorias
dicens: affirmatio negationi etc.; et contrarias modaliter dicens: et oratio
orationi etc., unde et exempla utrarunque statim subdit, ut patet in littera.
In fine vero, quia ibi expresse quam conclusit esse contrariam affirmativae
universali verae dividit, in contrariam modaliter universalem negativam,
scilicet, et contradictoriam: quae divisio falsitate non careret, nisi
conclusisset contrariam formaliter, ut de se patet), quia, inquam, sic accipit
contrarietatem, ideo de contrarietate formali enunciationum quaestio
intelligenda est. Et est quaestio valde subtilis, necessaria et adhuc nullo
modo superius tacta. Est igitur titulus quaestionis; utrum affirmativae verae
contraria formaliter sit negativa falsa eiusdem praedicati, aut affirmativa
falsa de praedicato, vel contrario? Et sic patet quis sit sensus tituli, et
quare non movet quaestionem de quacunque alia oppositione enunciationum (quia
scilicet nulla alia in eis formaliter invenitur), et quod accipit
contrarietatem proprie et strictissime, licet talis contrarietas inveniatur
inter contradictorias modaliter et contrarias modaliter. Dictum vero fuit a s.
Thoma provenire hanc dubitationem ex eo quod additur aliquid simplici
enunciationi, quia si tantum simplices, idest, de secundo adiacente
enunciationes attendantur, non habet haec quaestio radicem. Quia autem simplici
enunciationi, idest subiecto et verbo substantivo, additur aliquid, scilicet
praedicatum, nascitur dubitatio circa oppositionem, an illud additum in
contrariis debeat esse illudmet praedicatum, negatione apposita verbo, an
debeat esse praedicatum contrarium seu privativum, absque negatione praeposita
verbo. Aristotle in this question is speaking of the contrariety of
enunciations that extends to contraries modally and to contradictories. This is
evident from what he says in the beginning and at the end of the question. In
the beginning, he proposes both contradictories when he says, an affirmation...
to a negation, etc.; and contraries modally, when he says, and in the case of
speech whether the one saying... is opposed to the one saying... etc. It is evident,
too, from the examples immediately added. At the end, he explicitly divides
what he has concluded to be contrary to a true universal affirmative, into the
modally contrary universal negative and the contradictory. It is clear at once
that this division would be false unless it comprised the contrary formally.
Since he takes contrariety in this way the question must be understood with
respect to formal contrariety of enunciations. This is a very subtle question
and one that has to be treated and has not been thus far. The question,
therefore, is this: whether the formal contrary of the true affirmative is the
false negative of the same predicate or the false affirmative of the privative
predicate, i.e., of the contrary. The meaning of the question is now clear, and
it is evident why he does not ask about any other oppositions of
enunciations-no other opposition is found in them formally. It is also evident
that he is taking contrariety properly and strictly, notwithstanding the fact
that such contrariety is found among contradictories modally and contraries
modally. St. Thomas has already pointed out that this question arises from the
fact that something is added to the simple enunciation, for as it far as simple
enunciations are concerned, i.e., those with only a second determinant, there
is no occasion for the question. When, however, something is added, namely a
predicate, to the simple enunciation, i.e., to the subject and the substantive
verb, the question arises as to whether what ought to be added in contrary
enunciations is the selfsame predicate with a negation added to the verb or a
contrary, i.e., privative, predicate without a negation added to the verb. 5. Deinde
cum dicit: nam siea etc., declarat unde sumenda sit decisio huius quaestionis.
Et duo facit: quia primo declarat quod haec quaestio dependet ex una alia
quaestione, ex illa scilicet: utrum opinio, idest conceptio animae, in secunda
operatione intellectus, vera, contraria sit opinioni falsae negativae eiusdem
praedicati, an falsae affirmativae contrarii sive privativi. Et assignat
causam, quare illa quaestio dependet ex ista, quia scilicet enunciationes
vocales sequuntur mentales, ut effectus adaequati causas proprias, et ut
significata signa adaequata, et consequenter similis est in hoc utraque natura.
Unde inchoans ab hac causa ait: nam si ea quae sunt in voce sequuntur ea, quae
sunt in anima, ut dictum est in principio I libri, et illic, idest in anima,
opinio contrarii praedicati circa idem subiectum est contraria illi alteri, quae
affirmat reliquum contrarium de eodem (cuiusmodi sunt istae mentales
enunciationes, omnis homo est iustus, omnis homo est iniustus); si ita inquam
est, etiam et in his affirmationibus quae sunt in voce, idest vocaliter
sumptis, necesse est similiter se habere, ut scilicet sint contrariae duae
affirmativae de eodem subiecto et praedicatis contrariis. Quod si neque illic,
idest in anima, opinatio contrarii praedicati, contrarietatem inter mentales
enunciationes constituit, nec affirmatio vocalis affirmationi vocali contraria
erit de contrario praedicato, sed magis affirmationi contraria erit negatio
eiusdem praedicati. When Aristotle says, For if those things that are in vocal
sound are determined by those in the intellect, etc.; he shows where we have to
begin in order to settle this question. First he shows that the question
depends on another question, namely, whether a true opinion (i.e., a conception
of the soul in the second operation of the intellect) is contrary to a false
negative opinion of the same predicate, or to a false affirmative of the
contrary, i.e., privative, predicate. Then he gives the reason why the former
question depends on this. Vocal enunciations follow upon mental as adequate
effects upon proper causes and as the signified upon adequate signs. So, in
this the nature of each is similar. He begins, then, with the reason for this
dependence: For if those things that are in vocal sound are determined by those
in the intellect (as was said in the beginning of the first book) and if in the
soul, those opinions are contrary which affirm contrary predicates about the
same subject, (for example, the mental enunciations, "Every man is just,
"Every man is unjust”), then in affirmations that are in vocal sound, the
case must be the same. The contraries will be two affirmatives about the same
subject with contrary predicates. But if in the soul this is not the case,
i.e., that opinions with contrary predicates constitute contrariety in mental
enunciations, then the contrary of a vocal affirmation will not be a vocal
affirmation with a contrary predicate. Rather, the contrary of an affirmation
will be the negation of the same predicate. Cajetanus lib. 2 l. 13 n. 6Dependet
ergo mota quaestio ex ista alia sicut effectus ex causa. Propterea et concludendo
addit secundum, quod scilicet de hac quaestione prius tractandum est, ut ex
causa cognita effectus innotescat dicens: quare considerandum est, opinio vera
cui opinioni falsae contraria est: utrum negationi falsae an certe ei
affirmationi falsae, quae contrarium esse opinatur. Et ut exemplariter
proponatur, dico hoc modo: sunt tres opiniones de bono, puta vita: quaedam enim
est ipsius boni opinio vera, quoniam bonum est, puta, quod vita sit bona; alia
vero falsa negativa, scilicet, quoniam bonum non est, puta, quod vita non sit
bona; alia item falsa affirmativa contrarii, scilicet, quoniam malum est, puta,
quod vita sit mala. Quaeritur ergo quae harum falsarum contraria est verae? The
first question, then, depends on this question as an effect upon its cause. For
this reason, and by way of a conclusion to what he has just been saying, he
adds the second question, which must be treated first so that once the cause is
known the effect will be known: We must therefore consider to which false
opinion the true opinion is contrary, whether it is to the false negation or to
the false affirmation that it is to be judged contrary. Then in order to
propose the question by examples he says: what I mean is this; there are three
opinions of a good, for instance, of life. One is a true opinion, that it is
good, for instance, that life is good. The other is a false negative, that it
is not good, for instance, that life is not good. Still another, likewise
false, is the affirmative of the contrary, that it is evil, for instance, that
life is evil. The question is, then, which of these false opinions is contrary
to the true one. Cajetanus lib. 2 l. 13 n. 7Quod autem subdidit: et si est una,
secundum quam contraria est, tripliciter legi potest. Primo, dubitative, ut sit
pars quaestionis; et tunc est sensus: quaeritur quae harum falsarum contraria
est verae: et simul quaeritur, si est tantum una harum falsarum secundum quam
fiat contraria ipsi verae: quia cum unum uni sit contrarium, ut dicitur in X
metaphysicae, quaerendo quae harum sit contraria, quaeremus etiam an una earum
sit contraria. Alio modo, potest legi adversative, ut sit sensus: quaeritur
quae harum sit contraria; quamquam sciamus quod non utraque sed una earum est
secundum quam fit contrarietas. Tertio modo, potest legi dividendo hanc
particulam, et si est una, ab illa sequenti, secundum quam contraria est; et
tunc prima pars expressive, secunda vero dubitative legitur; et est sensus:
quaeritur quae harum falsarum contraria est verae, non solum si istae duae falsae
inter se differunt in consequendo, sed etiam si utraque est una, idest alteri
indivisibiliter unita, quaeritur secundum quam fit contrarietas. Et hoc modo
exponit Boethius, dicens quod Aristoteles apposuit haec verba propter contraria
immediata, in quibus non differt contrarium a privativo. Inter contraria enim
mediata et immediata haec est differentia, quod in immediatis a privativo
contrarium non infertur. Non enim valet, corpus colorabile est non album, ergo
est nigrum: potest enim esse rubrum. In immediatis autem valet; verbi gratia:
animal est non sanum, ergo infirmum; numerus est non par, ergo impar. Voluit
ergo Aristoteles exprimere quod nunc, cum quaerimus quae harum falsarum,
scilicet negativae et affirmativae contrarii, sit contraria affirmativae verae,
quaerimus universaliter sive illae duae falsae indivisibiliter se sequantur,
sive non. Then he adds, the question, and if there is one, is either one the
contrary. This passage can be read in three ways. It can be read inquiringly so
that it is a part of the question, and then the meaning is: which of these
false opinions is contrary to the true opinion, and, is there one of these by
which the contrary to the true one is effected? For since one is contrary to
one other, as is said in X Metaphysicae [1: 1055a 19], in asking which of these
is the contrary we are also asking whether one of them is the contrary. This
can also be read adversatively, and then the meaning is: which of these is the
contrary, given that we know it is not both but one by which the contrariety is
effected? This can be read in a third way by dividing the first clause,
"and if it is one” from the second clause, "is either one the
contrary.” The first part is then read assertively, the second inquiringly, and
the meaning is: which of these two false opinions is contrary to the true
opinion if the two false opinions differ as to consequence, and also if both
are one, i.e., united to each other indivisibly? Boethius explains this passage
in the last way. He says that Aristotle adds these words because of immediate
contraries in which the contrary does not differ from the privative. For the
difference between mediate and immediate contraries is that in the former the
contrary is not inferred from the privative. For example, this is not valid:
"A colored body is not white, therefore it is black”—for it could be red.
In immediate contraries, on the other hand, it is valid to infer the contrary
from the privative; e.g., "An animal is not healthy, therefore it is
number is not even, therefore it is odd.” Therefore, Aristotle intends to show
here that when we ask which of these false opinions, i.e., negative and
affirmative contraries, is contrary to the true affirmative, we are asking
universally whether these two false opinions follow each other indivisibly or
not. 8. Deinde cum dicit: nam arbitrari, prosequitur hanc secundam quaestionem.
Et circa hoc quatuor facit. Primo, declarat quod contrarietas opinionum non
attenditur penes contrarietatem materiae, circa quam versantur, sed potius
penes oppositionem veri vel falsi; secundo, declarat quod non penes quaecunque
opposita secundum veritatem et falsitatem est contrarietas opinionum; ibi: si
ergo boni etc.; tertio, determinat quod contrarietas opinionum attenditur penes
per se primo opposita secundum veritatem et falsitatem tribus rationibus; ibi:
sed in quibus primo fallacia etc.; quarto declarat hanc determinationem
inveniri in omnibus veram; ibi: manifestum est igitur et cetera. Dicit ergo
proponens intentam conclusionem, quod falsum est arbitrari opiniones definiri
seu determinari debere contrarias ex eo quod contrariorum obiectorum sunt. Et
adducit ad hoc duplicem rationem. Prima est: opiniones contrariae non sunt
eadem opinio; sed contrariorum eadem est fortasse opinio; ergo opiniones non sunt
contrariae ex hoc quod contrariorum sunt. Secunda est: opiniones contrariae non
sunt simul verae; sed opiniones contrariorum, sive plures, sive una, sunt simul
verae quandoque; ergo opiniones non sunt contrariae ex hoc quod contrariorum
sunt. Harum rationum, suppositis maioribus, ponit utriusque minoris
declarationem simul, dicens: boni enim, quoniam bonum est, et mali, quoniam
malum est, eadem fortasse opinio est, quoad primam. Et subdit esse vera, sive
plures sive una sit, quoad secundam. Utitur autem dubitativo adverbio et
disiunctione, quia non est determinandi locus an contrariorum eadem sit opinio,
et quia aliquo modo est eadem et aliquo modo non. Si enim loquamur de habituali
opinione, sic eadem est; si autem de actuali, sic non eadem est. Alia siquidem
mentalis compositio actualiter fit, concipiendo bonum esse bonum, et alia
concipiendo malum esse malum, licet eodem habitu utrunque cognoscamus, illud
per se primo, et hoc secundario, ut dicitur IX metaphysicae. Deinde subdit quod
ista quae ad declarationem minorum sumpta sunt, scilicet bonum et malum,
contraria sunt etiam contrarietate sumpta stricte in moralibus, ac per hoc
congrua usi sumus declaratione. Ultimo inducit conclusionem. Sed non in eo quod
contrariorum opiniones sunt, contrariae sunt, sed magis in eo quod contrariae,
idest, sed potius censendae sunt opiniones contrariae ex eo quod contrariae
adverbialiter, scilicet contrario modo, idest vere et false enunciant. Et sic
patet primum. When he says, It is false, of course, to suppose that opinions
are to be defined as contrary because they are about contraries, etc., he
proceeds with the second question. First he shows that contrariety of opinions
is not determined by the contrariety of the matter involved, but rather by the
opposition of true and false; secondly, he shows that there is not contrariety
of opinions in just any opposites according to truth and falsity, where he
says, Now if there is the opinion of that which is good, that it is good, and
the opinion that it is not good, etc.; third, he determines that contrariety of
opinions is concerned with the per se first opposites; according to truth and
falsity, for three reasons, where he says, Rather, those opinions in which
there is fallacy must be posited as contrary to true opinions, etc.; finally,
he shows that this determination is true of all, where he says, It is evident
that it will make no difference if we posit the affirmation universally, for
the universal negation will be the contrary, etc. Aristotle says, then,
proposing the conclusion he intends to prove, that it is false to suppose that
opinions are to be defined or determined as contrary because they are about
contrary objects. He gives two arguments for this. Contrary opinions are not
the same opinion; but opinions about contraries are probably the same opinion;
therefore, opinions are not contrary from the fact that they are about
contraries. And, contrary opinions are not simultaneously true; but opinions
about contraries, whether many or one, are sometimes true simultaneously;
therefore, opinions are not contraries because they are about contraries.
Having supposed the majors of these arguments, he posits a manifestation of
each minor at the same time. In relation to the first argument, he says, for
the opinion of that which is good, that it is good, and of that which is evil,
that it is evil are probably the same. In relation to the second argument he
adds: and, whether many or one, are true. He uses "probably,” an adverb
expressing doubt and disjunction, because this is not the place to determine
whether the opinion of contraries is the same opinion, and, because in some way
the opinion is the same and in some way not. In the case of habitual opinion,
the opinion of contraries is the same, but in the case of an actual opinion it
is not. One mental composition is actually made in conceiving that a good is
good and another in conceiving that an evil is evil, although we know both by
the same habit, the former per se and first, the latter secondarily, as is said
in IX Metaphysicae [4: 1051a 4]. Then he adds that good and evil—which are used
for the manifestation of the minor—are contraries even when the contrariety is
taken strictly in moral matters; and so in using this our exposition is
apposite. Finally, he draws the conclusion: however, opinions are not
contraries because they are about contraries, but rather because they are
contraries, i.e., opinions are to be considered as contrary from the fact that
they enunciate contrarily, adverbially, i.e., in a contrary mode, i.e., they
enunciate truly and falsely. Thus the first argument is clear. Cajetanus lib. 2
l. 13 n. 9Si ergo boni et cetera. Quia dixerat quod contrarietas opinionum
accipitur secundum oppositionem veritatis et falsitatis earum, declarat modo
quod non quaecunque secundum veritatem et falsitatem oppositae opiniones sunt
contrariae, tali ratione. De bono, puta, de iustitia, quatuor possunt opiniones
haberi, scilicet quod iustitia est bona, et quod non est bona, et quod est
fugibilis, et quod est non appetibilis. Quarum prima est vera, reliquae sunt
falsae. Inter quas haec est diversitas quod, prima negat idem praedicatum quod
vera affirmabat; secunda affirmat aliquid aliud quod bono non inest; tertia
negat id quod bono inest, non tamen illud quod vera affirmabat. Tunc sic. Si
omnes opiniones secundum veritatem et falsitatem sunt contrariae, tunc uni,
scilicet verae opinioni non solum multa sunt contraria, sed etiam infinita:
quod est impossibile, quia unum uni est contrarium. Tenet consequentia, quia
possunt infinitae imaginari opiniones falsae de una re similes ultimis falsis
opinionibus adductis, affirmantes, scilicet ea quae non insunt illi, et
negantes ea quae illi quocunque modo coniuncta sunt: utraque namque
indeterminata esse et absque numero constat. Possumus enim opinari quod
iustitia est quantitas, quod est relatio, quod est hoc et illud; et similiter
opinari quod iustitia non sit qualitas, non sit appetibilis, non sit habitus.
Unde ex supradictis in propositione quaestionis, inferens pluralitatem falsarum
contra unam veram, ait: si ergo est opinatio vera boni, puta iustitiae, quoniam
est bonum; et si est etiam falsa opinatio negans idem, scilicet, quoniam non
est quid bonum; est vero et tertia opinatio falsa quoque, affirmans aliquid
aliud inesse illi, quod non inest nec inesse potest, puta, quod iustitia sit
fugibilis, quod sit illicita; et hinc intelligitur quarta falsa quoque, quae
scilicet negat aliquid aliud ab eo quod vera opinio affirmat inesse iustitiae,
quod tamen inest, ut puta quod non sit qualitas, quod non sit virtus; si ita
inquam est, nulla aliarum falsarum ponenda est contraria opinioni verae. Et
exponens quid demonstret per ly aliarum, subdit: neque quaecunque opinio
opinatur esse quod non est, ut tertii ordinis opiniones faciunt: neque quaecunque
opinio opinatur non esse quod est, ut quarti ordinis opiniones significant. Et
causam subdit: infinitae enim utraeque sunt, et quae esse opinantur quod non
est, et quae non esse quod est, ut supra declaratum fuit. Non ergo quaecunque
opiniones oppositae secundum veritatem et falsitatem contrariae sunt. Et sic
patet secundum.When he says, Now, if there is the opinion of that which is
good, that it is good, and the opinion that it is not good, etc., he takes up
the second point. Since he has just said that contrariety of opinions is taken
according to their opposition of truth and falsity, he goes on to show that not
just any opposites according to truth and falsity are contraries. This is his
argument. Four opinions can be held about a good, for instance justice: that
justice is good, that it is not good, that it is avoidable, that it is not
desirable. Of these, the first is true, the rest false. The three false ones
are diverse. The first denies the same predicate the true one affirmed; the
second affirms something which does not belong to the good; the third denies
what belongs to the good, but something other than the true one affirmed. Now
if all opinions opposed as to truth and falsity are contraries, then not only
are there many contraries to one true opinion, but an infinite number. But this
is impossible, for one is contrary to one other. The consequence holds because
infinite false opinions about one thing, similar to those cited, can be
imagined; such opinions would affirm of it what does not belong to it and deny
what is joined to it in some way. Both kinds are indeterminate and without
number. We can think, for instance, that justice is a quantity, that it is a
relation, that it is this and that; and likewise we can think that it is not a
quality, is not desirable, is not a habit. Hence, from what was said above in
proposing the question, Aristotle infers a plurality of false opinions opposed
to one true opinion: Now if there is the opinion of that which is good, for
instance justice, that it is good, and there is a false opinion denying the
same thing, namely, that it is not good, and besides these a third opinion,
false also, affirming that some other thing belongs to justice that does not
belong and cannot belong to it (for instance, that justice is avoidable, that
it is illicit) and a fourth opinion, also false, that denies something other
than the true opinion affirms, something, however, which does belong to justice
(for instance, that it is not a quality, that it is not a virtue), none of these
other false enunciations are to be posited as the contrary of the true opinion.
To explain what he is designating by "of these others,” he adds, neither
those purporting that what is not, is, as opinions of the third order do, nor
those purporting that what is, is not, as opinions of the fourth order signify.
Then he adds the reason these cannot be posited as the contrary of the true
opinion: for both the opinions that that is which is not, and that which is
not, is, are infinite, as was shown above. Therefore, not just any opinions
opposed according to truth and falsity are contraries. Thus the second argument
is clear. XIV. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 1Quia subtili indagatione ostendit
quod nec materiae contrarietas, nec veri falsique qualiscunque oppositio
contrarietatem opinionum constituit, sed quod aliqua veri falsique oppositio id
facit, ideo nunc determinare intendit qualis sit illa veri falsique oppositio,
quae opinionum contrarietatem constituit. Ex hoc enim directe quaestioni
satisfit. Et intendit quod sola oppositio opinionum secundum affirmationem et
negationem eiusdem de eodem etc. constituit contrarietatem earum. Unde intendit
probare istam conclusionem per quam ad quaesitum respondet: opiniones oppositae
secundum affirmationem et negationem eiusdem de eodem sunt contrariae; et
consequenter illae, quae sunt oppositae secundum affirmationem contrariorum
praedicatorum de eodem, non sunt contrariae, quia sic affirmativa vera haberet
duas contrarias, quod est impossibile. Unum enim uni est contrarium.Aristotle
has just completed a subtle investigation in which he has shown that
contrariety of matter does not constitute contrariety of opinion, nor does just
any kind of opposition of true and false, but some opposition of true and false
does. Now he intends to determine what kind of opposition of true and false it
is that constitutes contrariety of opinions, for this will answer the question
directly. He maintains that only opposition of opinions according to
affirmation and negation of the same thing of the same thing, etc., constitutes
their contrariety. Accordingly, as the response to the question, he intends to
prove the following conclusion: opinions opposed according to affirmation and
negation of the same thing of the same thing are contraries; and consequently,
opinions opposed according to affirmation of contrary predicates of the same
subject are not contraries, for if these were contraries, the true affirmative
would have two contraries, which is impossible, since one is contrary to one
other. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 2Probat autem istam conclusionem tribus
rationibus. Prima est: opiniones in quibus primo est fallacia sunt contrariae;
opiniones oppositae secundum affirmationem et negationem eiusdem de eodem sunt
in quibus primo est fallacia; ergo opiniones oppositae secundum affirmationem
et negationem eiusdem de eodem sunt contrariae. Sensus maioris est: opiniones
quae primo ordine naturae sunt termini fallaciae, idest deceptionis seu
erroris, sunt contrariae: sunt enim, cum quis fallitur seu errat, duo termini,
scilicet a quo declinat, et ad quem labitur. Huius rationis in littera primo
ponitur maior, cum dicitur: sed in quibus primo fallacia est; adversative enim
continuans sermonem supradictis, insinuavit non tot enumeratas opiniones esse
contrarias, sed eas in quibus primo fallacia est modo exposito. Deinde subdit
probationem minoris talem: eadem proportionaliter sunt, ex quibus sunt
generationes et ex quibus sunt fallaciae; sed generationes sunt ex oppositis
secundum affirmationem et negationem; ergo et fallaciae sunt ex oppositis
secundum affirmationem et negationem. Quod erat assumptum in minore. Unde
ponens maiorem huius prosyllogismi, ait: haec autem, scilicet fallacia, est ex
his, scilicet terminis, proportionaliter tamen, ex quibus sunt et generationes.
Et subsumit minorem: ex oppositis vero, scilicet secundum affirmationem et
negationem, et generationes fiunt. Et demum concludit: quare etiam fallacia,
scilicet, est ex oppositis secundum affirmationem et negationem eiusdem de
eodem. Aristotle uses three arguments to prove this conclusion. The first one
is as follows: Those opinions in which there is fallacy first are contraries.
Opinions opposed according to affirmation and negation of the same predicate of
the same subject are those in which there is fallacy first. Therefore, these
are contraries. The sense of the major is this: Opinions which first in the
order of nature are the limits of fallacy, i.e., of deception or error, are
contraries; for when someone is deceived or errs, there are two limits, the one
from which he turns away and the one toward which he turns. In the text the
major of the argument is posited first: Rather, those opinions in which there
is fallacy must be posited as contrary to true opinions. By uniting this part
of the text adversatively with what was said previously, Aristotle implies that
not just any of the number of opinions enumerated are contraries, but those in
which there is fallacy first in the manner we have explained. Then he gives
this proof of the minor: those things from which generations are and from which
fallacies are, are the same proportionally; generations are from opposites
according to affirmation and negation; therefore fallacies, too, are from
opposites according to affirmation and negation (which was assumed in the
minor). Hence he posits the major of this prosyllogism: Now the things from
which fallacies arise, namely, limits, are the things from which generations
arise—proportionally however. Under it he posits the minor: but generations are
from opposites, i.e., according to affirmation and negation. Finally, he
concludes, therefore also fallacies, i.e., they are from opposites according to
affirmation and negation of the same thing of the same thing. Cajetanus lib. 2
l. 14 n. 3Ad evidentiam huius probationis scito quod idem faciunt in processu
intellectus cognitio et fallacia seu error, quod in processu naturae generatio
et corruptio. Sicut namque perfectiones naturales generationibus acquiruntur,
corruptionibus desinunt; ita cognitione perfectiones intellectuales
acquiruntur, erroribus autem seu deceptionibus amittuntur. Et ideo, sicut tam
generatio quam corruptio est inter affirmationem et negationem, ut proprios
terminos, ut dicit V Physic.; ita tam cognoscere aliquid, quam falli circa illud,
est inter affirmationem et negationem, ut proprios terminos: ita quod id ad
quod primo attingit cognoscens aliquid in secunda operatione intellectus est
veritatis affirmatio, et quod per se primo abiicitur est illius negatio. Et
similiter quod per se primo perdit qui fallitur est veritatis affirmatio, et
quod primo incurrit est veritatis negatio. Recte ergo dixit quod iidem sunt
termini inter quos primo est generatio, et illi inter quos est primo fallacia,
quia utrobique termini sunt affirmatio et negatio. This proof will be more
evident from the following: Knowledge and fallacy, or error, bring about the
same thing in the intellect’s progression as generation and corruption do in
nature’s progression. For just as natural perfections are acquired by generations
and perish by corruptions, so intellectual perfections are acquired by
knowledge and lost by errors or deceptions. Accordingly, just as generation and
corruption are between affirmation and negation as proper terms, as is said in
V Physicae [1:224b 35] so both to know something and to be deceived about it is
between affirmation and negation as proper terms. Consequently, what one who
knows attains first in the second operation of the intellect is affirmation of
the truth, and what he rejects per se and first is the negation of it. In like
manner, what he who is deceived loses per se and first is affirmation of the
truth, and acquires first is negation of the truth. Therefore Aristotle is
correct in maintaining that the terms between which there is generation first
and between which there is fallacy first are the same, because with respect to
both, the terms are affirmation and negation. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 4Deinde
cum dicit: si ergo quod bonum est etc., intendit probare maiorem principalis
rationis. Et quia iam declaravit quod ea, in quibus primo est fallacia, sunt
affirmatio et negatio, ideo utitur, loco maioris probandae, scilicet, opiniones
in quibus primo est fallacia, sunt contrariae, sua conclusione, scilicet,
opiniones oppositae secundum affirmationem et negationem eiusdem sunt
contrariae. Aequivalere enim iam declaratum est. Fecit autem hoc consuetae
brevitati studens, quoniam sic procedendo, et probat maiorem, et respondet
directe quaestioni, et applicat ad propositum simul. Probat ergo loco maioris
conclusionem principaliter intentam quaestionis, hanc, scilicet: opiniones
oppositae secundum affirmationem et negationem eiusdem sunt contrariae; et non
illae, quae sunt oppositae secundum contrariorum affirmationem de eodem. Et
intendit talem rationem. Opinio vera et eius magis falsa sunt contrariae
opiniones; oppositae secundum affirmationem et negationem sunt vera et eius
magis falsa; ergo opiniones oppositae secundum affirmationem et negationem sunt
contrariae. Maior probatur ex eo quod, quae plurimum distant circa idem sunt
contraria; vera autem et eius magis falsa plurimum distant circa idem, ut
patet. Minor vero probatur ex eo quod opposita secundum negationem eiusdem de
eodem est per se falsa respectu suae affirmationis verae. Opinio autem per se
falsa magis falsa est quacunque alia. Unumquodque enim quod est per se tale,
magis tale est quolibet quod est per aliud tale. When he says, Now, if that
which is good is both good and not evil, the former per se, the latter
accidentally, etc., he intends to prove the major of the principal argument. He
has already shown that the opinions in which there is fallacy first are
affirmation and negation, and therefore in place of the major to be proved
(i.e., opinions in which it there is fallacy first are contraries) he uses his
conclusion—which has already been shown to be equivalent—that opinions opposed
according to affirmation and negation of the same thing are contraries. Thus
with his customary brevity he at once proves the major, responds directly to
the question, and applies it to what he has proposed. In place of the major,
then, he proves the conclusion principally intended, i.e., that opinions
opposed according to affirmation and negation of the same thing are contraries,
and not those opposed according to affirmation of contraries about the same
thing. His argument is as follows: A true opinion and the opinion that is more
false in respect to it are contrary opinions, but opinions opposed according to
affirmation and negation are the true opinion and the opinion that is more
false in respect to it; therefore, opinions opposed according to affirmation
and negation are contraries. The major is proved thus: those things that are
most distant in respect to the same thing are contraries; but the true and the
more false are most distant in respect to the same thing, as is clear. The
proof of the minor is that the opposite according to negation of the same thing
of the same thing is per se false in relation to the true affirmation of it.
But a per se false opinion is more false than any other, since each thing that
is per se such is more such than anything that is such by reason of something
else. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 5Unde ad suprapositas opiniones in propositione
quaestionis rediens, ut ex illis exemplariter clarius intentum ostendat, a
probatione minoris inchoat tali modo. Sint quatuor opiniones, duae verae,
scilicet, bonum est bonum, bonum non est malum, et duae falsae, scilicet, bonum
non est bonum, et, bonum est malum. Clarum est autem quod prima vera est
ratione sui, secunda autem est vera secundum accidens, idest, ratione alterius,
quia scilicet non esse malum est coniunctum ipsi bono: ideo enim ista est vera,
bonum non est malum, quia bonum est bonum, et non e contra; ergo prima quae est
secundum se vera, est magis vera quam secunda: quia in unoquoque genere quae
secundum se est vera est magis vera. Illae autem duae falsae eodem modo
censendae sunt, quod scilicet magis falsa est, quae secundum se est falsa. Unde
quia prima earum, scilicet, bonum non est bonum, quae est negativa, est per se
et non ratione alterius falsa, relata ad illam affirmativam, bonum est bonum;
et secunda, scilicet, bonum est malum, quae est affirmativa contrarii, ad
eamdem relata est falsa per accidens, idest ratione alterius (ista enim,
scilicet, bonum est malum, non immediate falsificatur ab illa vera, scilicet
bonum est bonum, sed mediante illa alia falsa, scilicet, bonum non est bonum);
idcirco magis falsa respectu affirmationis verae est negatio eiusdem quam
affirmatio contrarii. Quod erat assumptum in minore. Accordingly, returning to
the opinions already given in proposing the question so as to show his
intention more clearly by example, he begins with the proof of the minor. There
are four opinions, of which two are true, "A good is good,” "A good
is not evil”; two are false, "A good is not good” and "A good is
evil.” It is evident that the first is true by reason of itself, the second
accidentally, i.e., by reason of another, for not to be evil is added to that
which is good. Hence, "A good is not evil” is true because a good is good,
and not contrarily. Therefore, the first of these opinions, which is per se
true, is more true than the second, for in each genus that which per se is true
is more true. The two false opinions are to be judged in the same way. The more
false is the one that is per se false. The first of them, the negative, "A
good is not good,” in relation to the affirmative, "A good is good,” is
per se false, not false by reason of another. The second, the affirmative of
the contrary, "A good is evil,” in relation to the same opinion, is false
accidentally, i.e., by reason of another (for "A good is evil” is not
immediately falsified by the true opinion, "A good is good,” but mediately
through the other false opinion "A good is not good”). Therefore, the
negation of the same thing is more false in respect to a trite affirmation than
the affirmation of a contrary. This was assumed in the minor. Cajetanus lib. 2
l. 14 n. 6Unde rediens ad supra positas (ut dictum est) opiniones, infert
primas duas veras opiniones dicens: si ergo quod bonum est et bonum est et non
est malum, et hoc quidem, scilicet quod dicit prima opinio, est verum secundum
se, idest ratione sui; illud vero, scilicet quod dicit secunda opinio, est
verum secundum accidens, quia accidit, idest, coniunctum est ei, scilicet bono,
malum non esse. In unoquoque autem ordine magis vera est illa quae secundum se
est vera. Etiam igitur falsa magis est quae secundum se falsa est: siquidem et
vera huius est naturae, ut declaratum est, quod scilicet magis vera est, quae
secundum se est vera. Ergo illarum duarum opinionum falsarum in quaestione
propositarum, scilicet, bonum non est bonum, et, bonum est malum, ea quae est
dicens, quoniam non est bonum quod bonum est, idest negativa; scilicet, bonum
non est bonum, est consistens falsa secundum se, idest, ratione sui continet in
seipsa falsitatem; illa vero reliqua falsa opinio, quae est dicens, quoniam
malum est, idest, affirmativa contraria, scilicet, bonum est malum, eius, quae
est, idest, illius affirmationis dicentis, bonum est bonum, secundum accidens,
idest, ratione alterius falsa est. Deinde subdit ipsam minorem: quare erit
magis falsa de bono, opinio negationis, quam contrarii. Deinde ponit maiorem
dicens quod, semper magis falsus circa singula est ille qui habet contrariam
opinionem, ac si dixisset, verae opinioni magis falsa est contraria. Quod
assumptum erat in maiore. Et eius probationem subdit, quia contrarium est de
numero eorum quae circa idem plurimum differunt. Nihil enim plus differt a vera
opinione quam magis falsa circa illam. As was pointed out above, Aristotle
returns to the opinions already posited, and infers the first two true
opinions: Now if that which is good is both good and not evil, and if what the
first opinion says is true per se, i.e., by reason of itself, and what the
second opinion says is trite accidentally (since it is accidental to it, i.e.,
added to it, that is, to the good, not to be evil) and if in each order that
which is per se true is more true, then that which is per se false is more
false, since, as has been shown, the true also is of this nature, namely, that
the more true is that which per se is true. Therefore, of the two false
opinions proposed in the question, namely, "A good is not good,” and
"A good is evil,” the one saying that what is good is not good, namely,
the negative, is an opinion positing what is per se false, i.e., by reason of
itself it contains falsity in it. The other false opinion, the one saying it is
evil, namely, the affirmative contrary in respect to it, i.e., in respect to
the affirmation saying that a good is good, is false accidentally, i.e., by
reason of another. Then he gives the minor: Therefore, the opinion of the
negation of the good will be more false than the opinion affirming a contrary.
Next, he posits the major, the one who holds the contrary judgment about each
thing is most mistaken, i.e., in relation to the true judgment the contrary is
more false. This was assumed in the major. He gives as the proof of this, for
contraries are those that differ most with respect to the same thing, for
nothing differs more from a true opinion than the more false opinion in respect
to it. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 7Ultimo directe applicat ad quaestionem
dicens: quod si (pro, quia) harum falsarum, scilicet, negationis eiusdem et
affirmationis contrarii, altera est contraria verae affirmationi, opinio vero
contradictionis, idest, negationis eiusdem de eodem, magis est contraria
secundum falsitatem, idest, magis est falsa, manifestum est quoniam haec,
scilicet opinio falsa negationis, erit contraria affirmationi verae, et e
contra. Illa vero opinio quae est dicens, quoniam malum est quod bonum est,
idest, affirmatio contrarii, non contraria sed implicita est, idest, sed
implicans in se verae contrariam, scilicet, bonum non est bonum. Etenim necesse
est ipsum opinantem affirmationem contrarii opinari, quoniam idem de quo
affirmat contrarium non est bonum. Oportet siquidem si quis opinatur quod vita
est mala, quod opinetur quod vita non sit bona. Hoc enim necessario sequitur ad
illud, et non e converso; et ideo affirmatio contrarii implicita dicitur.
Negatio autem eiusdem de eodem implicita non est. Et sic finitur prima ratio. Finally,
he directly approaches the question. If (for "since”), then, of two
opinions (namely, false opinions—the negation of the same thing and the
affirmation of a contrary), one is the contrary of the true affirmation, and,
the contradictory opinion, i.e., the negation of the same thing of the same
thing, is more contrary according to falsity, i.e., is more false, it is
evident that the false opinion of negation will be contrary to the true
affirmation, and conversely. The opinion saying that what is good is evil,
i.e., the affirmation of a contrary, is not the contrary but implies it, i.e.,
it implies in itself the opinion contrary to the true opinion, i.e., "A
good is not good.” The reason for this is that the one conceiving the
affirmation of a contrary must conceive that the same thing of which he affirms
the contrary, is not good. If, for example, someone conceives that life is
evil, he must conceive that life is not good, for the former necessarily
follows upon the latter and not conversely. Hence, affirmation of a contrary is
said to be implicative, but negation of the same thing of the same thing is not
implicative. This concludes the first argument. Cajetanus lib. 2 l. 14 n.
8Notandum est hic primo quod ista regula generalis tradita hic ab Aristotele de
contrarietate opinionum, quod scilicet contrariae opiniones sunt quae
opponuntur secundum affirmationem et negationem eiusdem de eodem, et in se et
in assumptis ad eius probationem propositionibus scrupulosa est. Unde multa hic
insurgunt dubia. Primum est quia cum oppositio secundum affirmationem et
negationem non constituat contrarietatem sed contradictionem apud omnes
philosophos, quomodo Aristoteles opiniones oppositas secundum affirmationem et
negationem ex hoc contrarias ponat. Augetur et dubitatio quia dixit quod ea in
quibus primo est fallacia sunt contraria, et tamen subdit quod sunt oppositae
sicut termini generationis, quos constat contradictorie opponi. Nec dubitatione
caret quomodo sit verum id quod supra diximus ex intentione s. Thomae, quod
nullae duae opiniones opponantur contradictorie, cum hic expresse dicitur
aliquas opponi secundum affirmationem et negationem. Dubium secundo insurgit
circa id quod assumpsit, quod contraria cuiusque verae est per se falsa. Hoc
enim non videtur verum. Nam contraria istius verae, Socrates est albus, est
ista, Socrates non est albus, secundum determinata; et tamen non est per se
falsa. Sicut namque sua opposita affirmatio est per accidens vera, ita ista est
per accidens falsa. Accidit enim isti enunciationi falsitas. Potest enim mutari
in veram, quia est in materia contingenti. Dubium est tertio circa id quod
dixit: magis vero contradictionis est contraria. Ex hoc enim videtur velle quod
utraque, scilicet, opinio negationis et contrarii, sit contraria verae
affirmationi; et consequenter vel uni duo ponit contraria, vel non loquitur de
contrarietate proprie sumpta: cuius oppositum supra ostendimus. The general
rule about the contrariety of opinions that Aristotle has given here (namely,
that contrary opinions are those opposed according to affirmation and negation
of the same thing of the same thing) is accurate both in itself and in the
propositions assumed for its proof. Many questions may arise, however, as a
consequence of this doctrine and its proof. First of all, all philosophers hold
that opposition according to affirmation and negation constitutes
contradiction, not contrariety. How, then, can Aristotle maintain that opinions
opposed in this way are contraries? The difficulty is augmented by the fact
that he has said that those opinions in which there is fallacy first are
contraries, yet he adds that they are opposed as the terms of generation are,
which he establishes to be opposed contradictorily. In addition, there is a
difficulty as to the way in which the assertion of St. Thomas, which we used
above, is true, namely, that no two opinions are opposed contradictorily, since
here it is explicitly said that some are opposed according to affirmation and
negation. The second uestion involves his assumption that the contrary of each
true opinion is per se false. This does not seem to be true, for according to
what was determined previously, the contrary of the true opinion "Socrates
is white” is "Socrates is not white.” But this is not per se false, for
the opposed affirmation is true accidentally, and hence its negation is false
accidentally. Falsity is accidental to such an enunciation because, being in
contingent matter, it can be changed into a true one. A third difficulty arises
from the fact that Aristotle says the contradictory opinion is nwre contrary.
He seems to be proposing, according to this, that both the opinion of the
negation and of a contrary are contrary to a true affirmation. Consequently, he
is either positing two opinions contrary to one or he is not taking contrariety
strictly, although we showed above that he was taking contrariety properly and
strictly. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 9Ad evidentiam omnium, quae primo loco
adducuntur, sciendum quod opiniones seu conceptiones intellectuales, in secunda
operatione de quibus loquimur, possunt tripliciter accipi: uno modo, secundum
id quod sunt absolute; alio modo, secundum ea quae repraesentant absolute;
tertio, secundum ea quae repraesentant, ut sunt in ipsis opinionibus. Primo
membro omisso, quia non est praesentis speculationis, scito quod si accipiantur
secundo modo secundum repraesentata, sic invenitur inter eas et
contradictionis, et privationis, et contrarietatis oppositio. Ista siquidem
mentalis enunciatio, Socrates est videns, secundum id quod repraesentat
opponitur illi, Socrates non est videns, contradictorie; privative autem illi,
Socrates est caecus; contrarie autem illi, Socrates est luscus; si accipiantur
secundum repraesentata. Ut enim dicitur in postpraedicamentis, non solum
caecitas est privatio visus, sed etiam caecum esse est privatio huius quod est
esse videntem, et sic de aliis. Si vero accipiantur opiniones tertio modo,
scilicet, prout repraesentata per eas sunt in ipsis, sic nulla oppositio inter
eas invenitur nisi contrarietas: quoniam sive opposita contradictorie sive
privative sive contrarie repraesententur, ut sunt in opinionibus, illius tantum
oppositionis capaces sunt, quae inter duo entia realia inveniri potest.
Opiniones namque realia entia sunt. Regulare enim est quod quidquid convenit
alicui secundum esse quod habet in alio, secundum modum et naturam illius in
quo est sibi convenit, et non secundum quod exigeret natura propria. Inter
entia autem realia contrarietas sola formaliter reperitur. Taceo nunc de
oppositione relativa. Opiniones ergo hoc modo sumptae, si oppositae sunt,
contrarietatem sapiunt, sed non omnes proprie contrariae sunt, sed illae quae
plurimum differunt circa idem veritate et falsitate. Has autem probavit
Aristoteles esse opiniones affirmationis et negationis eiusdem de eodem. Istae
igitur verae contrariae sunt. Reliquae vero per reductionem ad has contrariae
dicuntur. In order to answer all of the difficulties in regard to the first
argument it must be noted that opinions, or intellectual conceptions in the
second operation, can be taken in three ways: (1) according to what they are
absolutely; (2) according to the things they represent absolutely, (3)
according to the things they represent, as they are in opinions. We will omit
the first since it does not belong to the present consideration. If they are
taken in the second way, i.e., according to the things represented, there can
be opposition of contradiction, of privation, and of contrariety among them.
The mental enunciation "Socrates sees,” according to what it represents,
is opposed contradictorily to. Socrates does not see”; privatively to
"Socrates is blind”; contrarily to "Socrates is purblind.” Aristotle
points out the reason for this in the Postpredicamenta [Categ. 10: 12a 35]: not
only is blindness privation of sight but to be blind is also a privation of to
be seeing, and so of others. Opinions taken in the third way, i.e., as the
things represented through opinions are in the opinions, have no opposition
except contrariety; for opposites as they are in opinions, whether represented
contradictorily or privatively or contrarily, only admit of the opposition that
can be found between two real beings, for opinions are real beings. The rule is
that whatever belongs to something according to the being which it has in
another, belongs to it according to the mode and nature of that in which it is,
and not according to what its own nature would require. Now, between real
beings only contrariety is found formally. (I am omitting here the
consideration of relative opposition.) Therefore, opinions taken in this mode,
if they are opposed, represent contrariety, although not all are contraries
properly. Only those differing most in respect to truth and falsity about the
same thing are contraries properly. Now Aristotle proved that these are -
judgments affirming and denying the same thing of the same thing. Therefore,
these are the true contraries. The rest are called contraries by reduction to
these. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 10 Ex his patet quid ad obiecta dicendum sit.
Fatemur enim quod affirmatio et negatio in seipsis contradictionem constituunt;
in opinionibus vero existentes contrarietatem inter illas causant propter
extremam distantiam, quam ponunt inter entia realia, opinionem scilicet veram
et opinionem falsam circa idem. Stantque ista duo simul quod ea, in quibus
primo est fallacia, sint opposita ut termini generationis, et tamen sint
contraria utendo supradicta distinctione: sunt enim opposita contradictorie ut
termini generationis secundum repraesentata; sunt autem contraria, secundum
quod habent in seipsis illa contradictoria. Unde plurimum differunt. Liquet
quoque ex hoc quod nulla est dissentio inter dicta Aristotelis et s. Thomae,
quia opiniones aliquas opponi secundum affirmationem et negationem verum esse
confitemur, si ad repraesentata nos convertimus, ut hic dicitur. From this the
answer to the objections is clear. We grant that affirmation and negation in
themselves constitute contradiction. In actual judgments,”’ affirmation and
negation cause contrariety between opinions because of the extreme distance
they posit between real beings, namely, true opinion and false opinion in
respect to the same thing. And these two stand at the same time: those in which
there is fallacy first are opposed as the terms of generation are and yet they
are contraries by the use of the foresaid distinction—for they are opposed
contradictorily as terms of generation according to the things represented, but
they are contraries insofar as they have in themselves those contradictories
and hence differ most. It is also evident that there is no disagreement between
Aristotle and St. Thomas, for we have shown that it is true that some opinions
are opposed according to affirmation and negation if we consider the things
represented, as is said here. 11. Tu autem qui perspicacioris ac provectioris
ingenii es compos, hinc habeto quod inter ipsas opiniones oppositas quidam
tantum motus est, eo quod de affirmato in affirmatum mutatio fit: inter ipsas
vero secundum repraesentata, similitudo quaedam generationis et corruptionis
invenitur, dum inter affirmationem et negationem mutatio clauditur. Unde et
fallacia sive error quandoque et motus et mutationis rationem habet diversa
respiciendo, quando scilicet ex vera in per se falsam, vel e converso, quis
mutat opinionem; quandoque autem solam mutationem imitatur, quando scilicet
absque praeopinata veritate ipsam falsam offendit quis opinionem; quandoque
vero motus undique rationem possidet, quando scilicet ex vera affirmatione in
falsam circa idem contrarii affirmationem transit. Quia tamen prima ut quis
fallatur radix est oppositio affirmationis et negationis, merito ea in quibus
primo est fallacia, sicut generationis terminos opponi dixit. It will be noted,
however, by those of you who are more penetrating and advanced in your
thinking, that between opposite opinions there is something of true motion when
a change is made from the affirmed to the affirmed; but according to the order
of representation there is a certain similitude to generation and corruption so
long as the change is bounded by affirmation and negation. Consequently,
fallacy or error may be regarded in different ways. Sometimes it has the aspect
of both movement and change. This is the case when someone changes his opinion
from a true one to one that is per se false, or conversely. Sometimes change
alone is imitated. This happens when someone arrives at a false opinion apart
from a former true opinion. Sometimes, however, there is movement in every
respect. This is the case when reason passes from the true affirmation to the
false affirmation of a contrary about the same thing. However, since the first
root of being in error is the opposition of affirmation and negation, Aristotle
is correct in saying that those in which there is fallacy first are opposed as
are the terms of generation. 12. Ad dubium secundo loco adductum dico quod
peccatur ibi secundum aequivocationem illius termini per se falsa, seu per se
vera. Opinio enim et similiter enunciatio potest dici dupliciter per se vera
seu falsa. Uno modo, in seipsa, sicut sunt omnes verae secundum illos modos
perseitatis qui enumerantur I posteriorum, et similiter falsae secundum
illosmet modos, ut, homo non est animal. Et hoc modo non accipitur in hac
regula de contrarietate opinionum et enunciationum opinio per se vera aut
falsa, ut efficaciter obiectio adducta concludit. Si enim ad contrarietatem
opinionum hoc exigeretur non possent esse opiniones contrariae in materia
contingenti: quod est falsissimum. Alio modo potest dici opinio sive enunciatio
per se vera aut falsa respectu suae oppositae. Per se vera quidem respectu suae
falsae, et per se falsa respectu suae verae. Et tunc nihil aliud est dicere,
est per se vera respectu illius, nisi quod ratione sui et non alterius
verificatur ex falsitate illius. Et similiter cum dicitur, est per se falsa
respectu illius, intenditur quod ratione sui et non alterius falsificatur ex
illius veritate. Verbi gratia; istius verae, Socrates currit, non est per se
falsa, Socrates sedet, quia falsitas eius non immediate sequitur ex illa, sed
mediante ista alia falsa, Socrates non currit, quae est per se illius falsa,
quia ratione sui et non per aliquod medium ex illius veritate falsificatur, ut
patet. Et similiter istius falsae, Socrates est quadrupes, non est per se vera
ista, Socrates est bipes, quia non per seipsam veritas istius illam falsificat,
sed mediante ista, Socrates non est quadrupes, quae est per se vera respectu
illius: propter seipsam enim falsitate istius verificatur, ut de se patet. Et
hoc secundo modo utimur istis terminis tradentes regulam de contrarietate
opinionum et enunciationum. Invenitur siquidem sic universaliter vera in omni
materia regula dicens quod, vera et eius per se falsa, et falsa et eius per se
vera, sunt contrariae. Unde patet responsio ad obiectionem, quia procedit
accipiendo ly per se vera, et per se falsa primo modo. With respect to the
second question, I say that there is an equivocation of the term "per se
false” and "per se true” in the objection. Opinion, as well as
enunciation, can be called per se true or false in two ways. It can be called
per se true in itself. This is the case in respect to all opinions and
enunciations that are in accordance with the modes of perseity enumerated in I
Posteriorum [4: 73a; 34–73b 15]. Similarly, they can be said to be per se false
according to the same modes. An example of this would be "Man is not an
animal.” Per se true or false is not taken in this mode in the rule about
contrariety of opinions and enunciations, as the objection concludes. For if
this were needed for contrariety of opinions there could not be contrary
opinions in contingent matter, which is false. Secondly, an opinion or
enunciation can be said to be per se true or false in respect to its opposite:
per se true with respect to its opposite false opinion, and per se false with
respect to its opposite true opinion. Accordingly, to say that an opinion is
per se true in respect to its opposite is to say that on its own account and
not on account of another it is verified by the falsity of its opposite.
Similarly, to say that an opinion is per se false in respect to its opposite
means that on its own account and not on account of another it is falsified by
the truth of the opposite. For example, the opinion that is per se false in
respect to the true opinion "Socrates is running "is not,
"Socrates is sitting,” since the falsity of the latter does not
immediately follow from the former, but mediately from the false opinion,
"Socrates is not running.” It is the latter opinion that is per se false
in relation to "Socrates is running,” since it is falsified on its own
account by the truth of the opinion "Socrates is running,” and not through
an intermediary. Similarly, the per se true opinion in respect to the false
opinion "Socrates is four-footed” is not, "Socrates is two-footed,”
for the truth of the latter does not by itself make the former false; rather,
it is through "Socrates is not four-footed” as a medium, which is per se
true in respect to "Socrates is four-footed”; for "Socrates is not
four-footed” is verified on its own account by the falsity of "Socrates is
four-footed,” as is evident. We are using "per se true” and "per se
false” in this second mode in propounding the rule concerning contrariety of
opinions and enunciations. Thus the rule that the true opinion and the per se
false opinion in relation to it and the false opinion and the per se true in
relation to it are contraries, is universally true in all matter. Consequently,
the response to the objection is clear, for it results from taking "per se
true” and "per se false” in the first mode. 13. Ad ultimum dubium dicitur
quod, quia inter opiniones ad se invicem pertinentes nulla alia est oppositio
nisi contrarietas, coactus fuit Aristoteles (volens terminis specialibus uti)
dicere quod una est magis contraria quam altera, insinuans quidem quod utraque
contrarietatis oppositionem habet respectu illius verae. Determinat tamen
immediate quod tantum una earum, scilicet negationis opinio, contraria est
affirmationi verae. Subdit enim: manifestum est quoniam haec contraria erit.
Duo ergo dixit, et quod utraque, tam scilicet negatio eiusdem quam affirmatio
contrarii, contrariatur affirmationi verae, et quod una tantum earum, negatio
scilicet, est contraria. Et utrunque est verum. Illud quidem, quia, ut dictum
est, ambae contrarietates oppositione contra affirmationem moliuntur; sed
difformiter, quia opinio negationis primo et per se contrariatur, affirmationis
vero contrarii opinio secundario et per accidens, idest per aliud, ratione
scilicet negativae opinionis, ut declaratum est: sicut etiam in naturalibus
albo contrariantur et nigrum et rubrum, sed illud primo, hoc reductive, ut
reducitur scilicet ad nigrum illud inducendo, ut dicitur V Physic. Secundum
autem dictum simpliciter verum est, quoniam simpliciter contraria non sunt nisi
extrema unius latitudinis, quae maxime distant; extrema autem unius distantiae
non sunt nisi duo. Et ideo cum inter pertinentes ad se invicem opiniones unum
extremum teneat affirmatio vera, reliquum uni tantum falsae dandum est, illi
scilicet quae maxime a vera distat. Hanc autem negativam opinionem esse
probatum est. Haec igitur una tantum contraria est illi, simpliciter loquendo.
Caeterae enim oppositae ratione istius contrariantur, ut de mediis dictum est.
Non ergo uni plura contraria posuit, nec de contrarietate large loquutus est,
ut obiiciendo dicebatur. The answer to the third difficulty is the following.
Since there is no other opposition but contrariety between opinions pertaining
to each other, Aristotle (since he chose to use limited terms) has been forced
to say that one is more contrary than another, which implies that both have
opposition of contrariety in respect to a true opinion. However, he determines
immediately that only one of them, the negative opinion, is contrary to a true
affirmation, when he adds, it is evident that it must be the contrary. What he
says, then, is that each, i.e., both negation of the same thing and affirmation
of a contrary, is contrary to a true affirmation, and that only one of them,
i.e., the negation, is contrary. Both of these statements are true, for both
contrarieties are caused by an opposition contrary to the affirmation, as was
said, but not uniformly. The opinion of negation is contrary first and per se,
the opinion of affirmation of a contrary, secondarily and accidentally, i.e.,
through another, namely, by reason of the negative opinion, as has already been
shown. There is a parallel to this in natural things: both black and red are
contrary to white, the former first, the latter reductively, i.e., inasmuch as
red is reduced to black in a motion from white to red, as is said in V
Physicorum [5: 229b 15]. However, the second statement, i.e., that only one of
them, the negation, is contrary, is true simply, for the most distant extremes
of one extent are contraries absolutely. Nov,, there are only two extremes of
one distance and since between opinions pertaining to each other true
affirmation is at one extreme, the remaining extreme must be granted to only
one false opinion, i.e., to the one that is most distant from the true opinion.
This has been proved to be the negative opinion. Only this one, then, is
contrary to that absolutely speaking. Other opposites are contrary by reason of
this one, as was said of those in between. Therefore, Aristotle has not posited
many opinions contrary to one, nor used contrariety in a broad sense, both of
which were maintained by the objector. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 14 Deinde cum
dicit: amplius si etiam etc., probat idem, scilicet quod affirmationi contraria
est negatio eiusdem, et non affirmatio contrarii secunda ratione, dicens: si in
aliis materiis oportet opiniones se habere similiter, idest, eodem modo, ita
quod contrariae in aliis materiis sunt affirmatio et negatio eiusdem; et hoc,
scilicet quod diximus de boni et mali opinionibus, videtur esse bene dictum,
quod scilicet contraria affirmationi boni non est affirmatio mali, sed negatio
boni. Et probat hanc consequentiam subdens: aut enim ubique, idest, in omni
materia, ea quae est contradictionis altera pars censenda est contraria suae
affirmationi, aut nusquam, idest, aut in nulla materia. Si enim est una ars
generalis accipiendi contrariam opinionem, oportet quod ubique et in omni
materia uno et eodem modo accipiatur contraria opinio. Et consequenter, si in
aliqua materia negatio eiusdem de eodem affirmationi est contraria, in omni
materia negatio eiusdem de eodem contraria erit affirmationi. Deinde intendens
concludere a positione antecedentis, affirmat antecedens ex sua causa, dicens
quod illae materiae quibus non inest contrarium, ut substantia et quantitas,
quibus, ut in praedicamentis dicitur, nihil est contrarium. De his quidem est
per se falsa ea, quae est opinioni verae opposita contradictorie, ut qui putat
hominem, puta Socratem non esse hominem, per se falsus est respectu putantis,
Socratem esse hominem. Deinde affirmando ipsum antecedens formaliter, directe
concludit intentum a positione antecedentis ad positionem consequentis dicens:
si ergo hae, scilicet, affirmatio et negatio in materia carente contrario, sunt
contrariae, et omnes aliae contradictiones contrariae censendae sunt. When
Aristotle says, Further, if this necessarily holds in a similar way in till
other cases it would seen that what we have said is correct, etc., he gives the
second argument to prove that the negation of the same thing is contrary to the
affirmation, and not the affirmation of a contrary. If opinions are necessarily
related in a similar way, i.e., in the same way, in other matter, that is, in
such a way that affirmation and negation of the same thing are contraries in
other matter, it would seem that what we have said about the opinions of that
which is good and that which is evil is correct, i.e., that the contrary of the
affirmation of that which is good is not the affirmation of evil but the
negation of good. He proves this consequence when he adds: for the opposition
of contradiction either holds everywhere or nowhere, i.e., in every matter one
part of a contradiction must be judged contrary to its affirmation—or never,
i.e., in no matter. For if there is a general art which deals with contrary
opinions, contrary Opinions must be taken everywhere and in every matter in one
and the same mode. Consequently, if in any matter, negation of the same thing
of the same thin- is the contrary of the affirmation, then in all matter
negation of the same thing of the same thing will be the contrary of the
affirmation. Since he intends in his proof to conclude from the position of the
antecedent, Aristotle affirms the antecedent through its cause: in matter in
which there is not a contrary, such as substance and quantity, which have no
contraries, as is said in the Predicamcnta [Categ. 5: 3b 24; 6: 5b 10], the one
contradictorily opposed to the true opinion is per se false. For example, he
who thinks that man, for instance Socrates, is not man, is per se mistaken with
regard to one who thinks that Socrates is man. Then he affirms the antecedent
formally and concludes directly from the position of the antecedent to the
position of the consequent. If then these, namely, affirmation and negation in
matter which lacks a contrary, are contraries, all other contradictions must be
judged to be contraries. 15. Deinde cum dicit: amplius similiter etc., probat
idem tertia ratione, quae talis est: sic se habent istae duae opiniones de
bono, scilicet, bonum est bonum, et, bonum non est bonum, sicut se habent istae
duae de non bono, scilicet, non bonum non est bonum, et, non bonum est bonum.
Utrobique enim salvatur oppositio contradictionis. Et primae utriusque
combinationis sunt verae, secundae autem falsae. Unde proponens hanc maiorem
quoad primas veras utriusque combinationis ait: similiter se habet opinio boni,
quoniam bonum est, et non boni quoniam non est bonum. Et subdit quoad secundas
utriusque falsas: et super has opinio boni quoniam non est bonum, et non boni
quoniam est bonum. Haec est maior. Sed illi verae opinioni de non bono,
scilicet, non bonum non est bonum, contraria non est, non bonum est malum, nec
bonum non est malum, quae sunt de praedicato contrario, sed illa, non bonum est
bonum, quae est eius contradictoria; ergo et illi verae opinioni de bono,
scilicet, bonum est bonum, contraria erit sua contradictoria, scilicet, bonum
non est bonum, et non affirmatio contrarii, scilicet, bonum est malum. Unde
subdit minorem supradictam dicens: illi ergo verae opinioni non boni, quae est
dicens quoniam scilicet non bonum non est bonum, quae est contraria. Non enim
est sibi contraria ea opinio, quae dicit affirmativae praedicatum contrarium,
scilicet, quod non bonum est malum: quia istae duae aliquando erunt simul
verae. Nunquam autem vera opinio verae contraria est. Quod autem istae duae
aliquando simul sint verae, patet ex hoc quod quoddam non bonum malum est: iniustitia
enim quoddam non bonum est, et malum. Quare contingeret contrarias esse simul
veras: quod est impossibile. At vero nec supradictae verae opinioni contraria
est illa opinio, quae est dicens praedicatum contrarium negativae, scilicet,
non bonum non est malum, eadem ratione, quia simul et hae erunt verae. Chimaera
enim est quoddam non bonum, de qua verum est simul dicere quod non est bona, et
quod non est mala. Relinquitur ergo tertia pars minoris quod ei opinioni verae
quae, est dicens quoniam non bonum non est bonum, contraria est ea opinio non
boni, quae est dicens quod est bonum, quae est contradictoria illius. Deinde
subdit conclusionem intentam: quare et ei opinioni boni, quae dicit bonum est
bonum, contraria est ea boni opinio, quae dicit quod bonum non est bonum,
idest, sua contradictoria. Contradictiones ergo contrariae in omni materia
censendae sunt. Then he says, Again, the opinions of that which is good, that
it is good and of that which is not good, that it is not good, are parallel.
This begins the third argument to prove the same thing. The two opinions of
that which is good, that it is good, and that it is not good, are related in
the same way as the two opinions of that which is not good, that it is not good
and that it is good; i.e., the opposition of contradiction is kept in both. The
first opinion of each combination is true, the second false. Hence with respect
to the first true opinions of each combination he proposes this major: Again,
the opinions of that which is good, that it is good, and of that which is not
good, that it is not good, are parallel. With respect to the second false
judgment of each combination he adds: so also are the opinions of that which is
good, that it is not good, and of that which is not good, that it is good. This
is the major. But the contrary of the true opinion of that which is not good,
namely, the true opinion "That which is not good is not good,” is not,
"That which is not good is evil,” nor "That which is not good is not
evil,” which have a contrary predicate, but the opinion that that which is not
good is good, which is its contradictory. Therefore, the contrary of the true
opinion of that which is good, namely, the true opinion "That which is
good is good,” will also be its contradictory, "That which is good is not
good,” and not the affirmation of the contrary "That which is good is
evil.” Hence he adds the minor which we have already stated: What, then, would
be the contrary of the true opinion asserting that that which is not good is not
good? The contrary of it is not the opinion which asserts the contrary
predicate affirmatively, "That which is not good is evil,” because these
two are sometimes at once true. But a true opinion is never contrary to a true
opinion. That these two are sometimes at once true is evident from the fact
that some things that are not good are evil. Take injustice; it is something
not good, and it is evil. Therefore, contraries would be true at one and the
same time, which is impossible. But neither is the contrary of the above true
opinion the one asserting the contrary predicate negatively, "That which
is not good is not evil,” and for the same reason. These will also be true at
the same time. For example, a chimera is something not good, and it is true to
say of it simultaneously that it is not good and that it is not evil. There
remains the third part of the minor: the contrary of the true opinion that that
which is not good is not good is the opinion that it is good, which is the
contradictory of it. Then he concludes as he intended: the opinion that a good
is not good is contrary to the opinion that a good is good, i.e., its
contradictory. Therefore, it must be judged that contradictions are contraries
in every matter. 16. Deinde cum dicit: manifestum est igitur etc., declarat
determinatam veritatem extendi ad cuiusque quantitatis opiniones. Et quia de
indefinitis, et particularibus, et singularibus iam dictum est, eo quod idem
evidenter apparet de eis in hac re iudicium (indefinitae enim et particulares
nisi pro eisdem supponant sicut singulares, per modum affirmationis et
negationis non opponuntur, quia simul verae sunt); ideo ad eas, quae
universalis quantitatis sunt se transfert, dicens, manifestum esse quod nihil
interest quoad propositam quaestionem, si universaliter ponamus affirmationes.
Huic enim, scilicet, universali affirmationi, contraria est universalis
negatio, et non universalis affirmatio de contrario; ut opinioni quae opinatur,
quoniam omne bonum est bonum, contraria est, nihil horum, quae bona sunt,
idest, nullum bonum est bonum. Et declarat hoc ex quid nominis universalis
affirmativae, dicens: nam eius quae est boni, quoniam bonum est, si
universaliter sit bonum: idest, istius opinionis universalis, omne bonum est
bonum, eadem est, idest, aequivalens, illa quae opinatur, quidquid est bonum
est bonum; et consequenter sua negatio contraria est illa quam dixi, nihil
horum quae bona sunt bonum est, idest, nullum bonum est bonum. Similiter autem
se habet in non bono: quia affirmationi universali de non bono reddenda est
negatio universalis eiusdem, sicut de bono dictum est. He then says, It is
evident that it will make no difference if we posit the affirmation
universally, etc. Here he shows that the truth he has determined is extended to
opinions of every quantity. The case has already been stated in respect to
indefinites, particulars, and singulars. On this point their status is alike,
for indefinites and particulars, unless they stand for the same thing, as is
the case in singulars, are not opposed by way of affirmation and negation,
since they are at once true. Therefore he turns his attention to those of
universal quantity. It is evident, he says, that it will make no difference
with respect to the proposed question if we posit the affirmations universally,
for the contrary of the universal affirmative is the universal negative, and
not the universal affirmation of a contrary. For example, the contrary of the
opinion that everything that is good is good is the opinion that nothing that
is good (i.e., no good) is good. He manifests this by the nominal definition of
universal affirmative: for the opinion that that which is good is good, if the
good is universal, i.e., the universal opinion "Every good is good,” is
the same, i.e., is equivalent to the opinion that whatever is good is good.
Consequently, its negation is the contrary I have stated, "Nothing which
is good is good,” i.e., "No good is good.” The case is similar with
respect to the not good. The universal negation of the not good is opposed to
the universal affirmation of the not good, as we have stated with respect to
the good. 17. Deinde cum dicit: quare si in opinione sic se habet etc.,
revertitur ad respondendum quaestioni primo motae, terminata iam secunda, ex
qua illa dependet. Et circa hoc duo facit: quia primo respondet quaestioni;
secundo, declarat quoddam dictum in praecedenti solutione; ibi: manifestum est
autem quoniam et cetera. Circa primum duo facit. Primo, directe respondet
quaestioni, dicens: quare si in opinione sic se habet contrarietas, ut dictum
est; et affirmationes et negationes quae sunt in voce, notae sunt eorum, idest,
affirmationum et negationum quae sunt in anima; manifestum est quoniam
affirmationi, idest, enunciationi affirmativae, contraria erit negatio circa
idem, idest, enunciatio negativa eiusdem de eodem, et non enunciatio
affirmativa contrarii. Et sic patet responsio ad primam quaestionem, qua
quaerebatur, an enunciationi affirmativae contraria sit sua negativa, an
affirmativa contraria. Responsum est enim quod negativa est contraria. Secundo,
dividit negationem contrariam affirmationi, idest, negationem universalem et
contradictoriam, dicens: universalis, scilicet, negatio, affirmationi contraria
est et cetera. Ut exemplariter dicatur, ei enunciationi universali affirmativae
quae est, omne bonum est bonum, vel, omnis homo est bonus, contraria est
universalis negativa, ea scilicet, nullum bonum est bonum, vel, nullus homo est
bonus: singula singulis referendo. Contradictoria autem negatio, contraria illi
universali affirmationi est, aut, non omnis homo est bonus, aut, non omne bonum
est bonum, singulis singula similiter referendo. Et sic posuit utrunque divisionis
membrum, et declaravit. Then he says, If, therefore, this is the case with
respect to opinion, and. affirmations and negations in vocal sound are signs of
those in the soul, etc. With this he returns to the question first advanced, to
reply to it, for he has now completed the second on which the first depends. He
first replies to the question, then manifests a point in the solution of a
preceding difficulty where he says, It is evident, too, that true cannot be
contrary to true, either in opinion or in contradiction, etc. First, then, he
replies directly to the question: If, therefore, contrariety is such in the
case of opinions, and affirmations and negations in vocal sound are signs of
affirmations and negations in the soul, it is evident that the contrary of the
affirmation, i.e., of the affirmative, enunciation, is the negation of the same
subject. In other words, the negative enunciation of the same predicate of the
same subject will be the contrary, and not the affirmative enunciation of a
contrary. Thus the response to the first question—whether the contrary of the
affirmative enunciation is its negative or the contrary affirmative—is clear.
The answer is that the negative is the contrary. Next, he divides negation as
it is contrary to affirmation, i.e., into the universal negation, and the
contradictory: The universal, i.e., negation, is contrary to the affirmation,
etc. In order to state this division by way of example he relates one
enunciation to one enunciation: the contrary of the universal affirmative
enunciation "Every good is’ good” or "Every man is good,” is the
universal negative "No good is good” or "No man is good.” Again,
relating one to one, he says that the contradictory negation contrary to the
universal affirmation is "Not every man is good” or "Not everything
good is good.” Thus he posits both members of the division and makes the
division evident. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 18 Sed est hic dubitatio non
dissimulanda. Si enim affirmationi universali contraria est duplex negatio,
universalis scilicet et contradictoria, vel uni duo sunt contraria, vel
contrarietate large utitur Aristoteles: cuius oppositum supra declaravimus.
Augetur et dubitatio: quia in praecedenti textu dixit Aristoteles quod, nihil
interest si universalem negationem faciamus ita contrariam universali
affirmationi, sicut singularem singulari. Et ita declinari non potest quin
affirmationi universali duae sint negationes contrariae, eo modo quo hic
loquitur de contrarietate Aristoteles. A difficulty arises at this point which
we cannot disregard. If the contrary of the universal affirmative is a twofold
negation, namely, the universal and the contradictory, either there are two
contraries to one affirmation or Aristotle is using contrariety in a broad
sense, although we showed that this was not the case apropos of an earlier
passage of the text. The difficulty is augmented by the fact that Aristotle
said in the passage immediately preceding that it makes no difference if we
take the universal negation as contrary to the universal affirmation, i.e., as
one of its negations. Hence, the conclusion cannot be avoided that in the mode
in which Aristotle speaks of contrariety here, there are two contrary negations
to the universal affirmative. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 19 Ad huius evidentiam
notandum est quod, aliud est loqui de contrarietate quae est inter negationem
alicuius universalis affirmativae in ordine ad affirmationem contrarii de
eodem, et aliud est loqui de illamet universali negativa in ordine ad
negationem eiusdem affirmativae contradictoriam. Verbi gratia: sint quatuor
enunciationes, quarum nunc meminimus, scilicet, universalis affirmativa,
contradictoria, universalis negativa, et universalis affirmatio contrarii, sic
dispositae in eadem linea recta: omnis homo est iustus, non omnis homo est
iustus, omnis homo non est iustus, omnis homo est iniustus: et intuere quod
licet primae omnes reliquae aliquo modo contrarientur, magna tamen differentia
est inter primae et cuiusque earum contrarietatem. Ultima enim, scilicet
affirmatio contrarii, primae contrariatur ratione universalis negationis, quae
ante ipsam sita est: quia non per se sed ratione illius falsa est, ut probavit
Aristoteles, quia implicita est. Tertia autem, idest universalis negatio, non
per se sed ratione secundae, scilicet negationis contradictoriae, contrariatur
primae eadem ratione, quia, scilicet, non est per se falsa illius affirmationis
veritate, sed implicita: continet enim negationem contradictoriam, scilicet,
non omnis homo est iustus, mediante qua falsificatur ab affirmationis veritate,
quia simpliciter et prior est falsitas negationis contradictoriae falsitate
negationis universalis: totum namque compositius et posterius est partibus. Est
ergo inter has tres falsas ordo, ita quod affirmationi verae contradictoria
negatio simpliciter sola est contraria, quia est simpliciter respectu illius
per se falsa; affirmativa autem contrarii est per accidens contraria, quia est
per accidens falsa; universalis vero negatio, tamquam medium sapiens utriusque
extremi naturam, relata ad contrarii affirmationem est per se contraria et per
se falsa, relata autem ad negationem contradictoriam est per accidens falsa et
contraria. Sicut rubrum ad nigrum est album, et ad album est nigrum, ut dicitur
in V physicorum. Aliud igitur est loqui de negatione universali in ordine ad
affirmationem contrarii, et aliud in ordine ad negationem contradictoriam. Si
enim primo modo loquamur, sic negatio universalis per se contraria et per se
falsa est; si autem secundo modo, non est per se falsa, nec contraria
affirmationi. To clear up this difficulty we must note that it is one thing to
speak of the contrariety there is between the negation of some universal
affirmative in relation to the affirmation of a contrary, and another to speak
of that same universal negative in relation to the negation contradictory to
the same affirmative. For example, the four enunciations of which we are now
speaking are the universal affirmative, the contradictory, the universal
negative, and the universal affirmation of a contrary: "Every man is
just,” "Not every man is just,” "No man is just,” "Every man is
unjust.” Notice that although all the rest are contrary to the first in some
way, there is a great difference between the contrariety of each to the first.
The last one, the affirmation of a contrary, is contrary to the first by reason
of the preceding universal negation, for it is false, not per se but by reason
of that negation, i.e., it is implicative, as Aristotle has already proved. The
third, the universal negation, is not per se contrary to the first either. It
is contrary by reason of the second, the contradictory negation, and for the
same reason, i.e., it is not per se false in respect to the truth of the
affirmation but is implicative, for it contains the contradictory negation
"Not every man is just,” by means of which it is made false in respect to
the truth of the affirmation. The reason for this is that the falsity of the
contradictory negation is prior absolutely to the falsity of the universal
negation, for the whole is more composite and posterior as compared to its
parts. There is, therefore, an order among these three false enunciations. Only
the contradictory negation is simply contrary to the true affirmation, for it
is per se false simply in respect to the affirmation; the affirmative of the
contrary is per accidens contrary, since it is per accidens false; the universal
negation, which is a medium partaking of the nature of each extreme, is per se
contrary and per se false as related to the affirmation of a contrary, but is
per accidens false and per accidens contrary as related to the contradictory
negation; just as red in a motion from red to black takes the place of white,
and in a motion from red to white takes the place of black, as is said in V
Physicorum [5: 229b 15]. Therefore, it is one thing to speak of the universal
negation in relation to affirmation of a contrary and another to speak of it in
relation to the contradictory negation. If we are speaking of it in the first
way, the universal negation is per se contrary and per se false; if in the
second, it is not per se false or contrary to the affirmation. 20. Quia ergo
agitur ab Aristotele nunc quaestio, inter affirmationem contrarii et negationem
quae earum contraria sit affirmationi verae, et non agitur quaestio ipsarum
negationum inter se, quae, scilicet, earum contraria sit illi affirmationi, ut
patet in toto processu quaestionis; ideo Aristoteles indistincte dixit quod
utraque negatio est contraria affirmationi verae, et non affirmatio contrarii.
Intendens per hoc declarare diversitatem quae est inter affirmationem contrarii
et negationem in hoc quod verae affirmationi contrariantur, et non intendens
dicere quod utraque negatio est simpliciter contraria. Hoc enim in dubitatione
non est quaesitum, sed illud tantum. Et similiter dixit quod nihil interest si
quis ponat negationem universalem: nihil enim interest quoad hoc, quod
affirmatio contrarii ostendatur non contraria affirmationi verae, quod
inquirimus. Plurimum autem interesset, si negationes ipsas inter se discutere
vellemus quae earum esset affirmationi contraria. Sic ergo patet quod subtilissime
Aristoteles locutus de vera contrarietate enunciationum, unam uni contrariam
posuit in omni materia et quantitate, dum simpliciter contrarias
contradictiones asseruit. Since Aristotle is now treating the question as to
which is the contrary of a true affirmation, affirmation of a contrary or the
negation, and not the question as to which of the negations is contrary to a
true affirmation—as is clear in the whole progression of the question—bis
answer is that both negations are contrary to the true affirmation without
distinction, and that affirmation of a contrary is not. His intention is to
manifest the diversity between the negation, and the affirmation of a contrary,
inasmuch as they are contrary to a true affirmation. He does not intend to say
that both negations are contrary simply, for this is not the difficulty in
question here, but the former is. With respect to his saying that it makes no
difference if we posit the universal negation, the same point applies, for in
regard to showing that affirmation of a contrary is not contrary to a true
affirmation, which is the question at issue here, it makes no difference which
negation is posited. It would make a great deal of difference, however, if we
wished to discuss which negation was contrary to a true affirmation. It is
evident, then, that Aristotle’s discussion of the true contrariety of
enunciations is very subtle, for he has posited one to one contraries in every
matter and quantity, and affirmed that contradictions are contraries simply.
21. Deinde cum dicit: manifestum est autem etc., resumit quoddam dictum ut
probet illud, dicens manifestum est autem ex dicendis quod non contingit veram
verae contrariam esse, nec in opinione mentali, nec in contradictione, idest,
vocali enunciatione. Et causam subdit: quia contraria sunt quae circa idem
opposita sunt; et consequenter enunciationes et opiniones verae circa diversa
contrariae esse non possunt. Circa idem autem contingit simul omnes veras
enunciationes et opiniones verificari, sicut et significata vel repraesentata
earum simul illi insunt: aliter verae tunc non sunt. Et consequenter omnes
verae enunciationes et opiniones circa idem contrariae non sunt, quia contraria
non contingit eidem simul inesse. Nullum ergo verum sive sit circa idem, sive
sit circa aliud, est alteri vero contrarium. Et sic finitur expositio huius
libri perihermenias. When he says, It is evident, too, that true cannot be
contrary to true, either in opinion or in contradiction, etc., he returns to a
statement he has already made in order to prove it. It is evident, too, from
what has been said, that true cannot be contrary to true, either in opinion or
in contradiction, i.e., in vocal enunciation. He gives as the cause of this
that contraries are opposites about the same thing; consequently, true
enunciations and opinions about diverse things cannot be contraries. However,
it is possible for all true enunciations and opinions about the same thing to
be verified at the same time, inasmuch as the things signified or represented
by them belong to the same thing at the same time; otherwise they are not true.
Consequently, not all true enunciations and opinions about the same thing are
contraries, for it is not possible for contraries to be in the same thing at
the same time. Therefore, no true opinion or enunciation, whether it is about
the same thing or is about another is contrary to another. – [ XI. 6. The third
part is the second difference, i.e., by convention, namely, according to human
institution deriving from the will of man. This differentiates names from vocal
sounds signifying naturally, such as the groans of the sick and the vocal sounds
of brute animals] [?][11 Then Aristotle says, ‘by convention’ is added because
nothing is *by nature* a name, etc. Here Aristotle explains the third part of
the definition. The reason it is said that the name signifies by convention [ad
placitum ex institutione], he says, is that no name exists naturally. For it is
a name because it signifies; it does not signify naturally however, but by
institution [ex institutione]. This Aristotle adds when he says, but it is a
name when it is *made* a sign, i.e., when it is imposed to signify. For that
which signifies naturally is not made a sign, but is a sign naturally. he
explains this when he says: for unlettered sounds, such as those of the brutes
designate, etc., i.e., since they cannot be signified by letters. He says
sounds rather than vocal sounds because some animals—those without lungs—do not
have vocal sounds. Such animals signify proper passions by some kind of
non-vocal sound which signifies naturally. But none of these sounds of the
brutes is a name. We are given to understand from this that a name does not
signify naturally.] Aquino. Keywords: Peri hermeneias, de interpretation,
Austin/Grice, “De interpretation” nota, notare, notante, notato, denotato –
denotare -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Aquino: grammatici speculative, per
il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria,
Italia. Refs.: Grice, “Intentionality in Aquino,” Speranza, “Grice and Aquino
on the taxonomy of intentions.”
Grice
ed Arangio – colloquio – filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo Italiano. Grice: “We have Flores, we have
Ruiz, we have Enriques – reminds me of Alan Montefiore! I like Vladimiro
Arangio – my favourite is by far his philosoophising on Socrates’s ‘Sofista’ –
he distinguishes between what he calls ‘Socratic dialogue’ (mine) and ‘dialogo
sofistico’!” -- Vladimiro Arangio-Ruiz (Napoli) filosofo, grecista e accademico
italiano. Fu il primo preside del Liceo scientifico Alessandro Tassoni di
Modena, istituito nel 1923, a seguito della riforma Gentile. Nacque a Napoli nel 1887 da Gaetano,
professore di diritto costituzionale, e da Clementina Cavicchia. Frequentò a
Firenze il corso di lettere nell'Istituto di studi superiori dal 1905 al 1910 e
si laureò con una tesi su Il coro nella tragedia greca in letteratura greca con
Girolamo Vitelli, filologo, grecista, papirologo e senatore del Regno
d'Italia. Vladimiro appartenne a una
illustre famiglia di giuristi: il fratello Vincenzo Arangio-Ruiz fu uno dei
maggiori studiosi di diritto romano, ordinario all'Napoli e alla Sapienza di
Roma. Contravvenendo alla tradizione di famiglia, Vladimiro preferì dedicarsi
agli studi filosofici e fu professore alla Scuola normale superiore di Pisa e
alla facoltà di Magistero di Firenze.
Insegnò nei ginnasi di Stato e fu ufficiale d'artiglieria nella Prima
guerra mondiale dove venne ferito. Nel 1921 si laureò per la seconda volta, in
filosofia con Piero Martinetti, discutendo la tesi Conoscenza e moralità. In
gioventù aveva sentito fortemente l'influenza del giovane poeta e filosofo
Carlo Michelstaedter, esponente importante della filosofia europea del primo
Novecento, del quale pubblicherà gli scritti.
Si propose una funzione critica ricostruttiva dell'idealismo storicistico e dell'attualismo
di Giovanni Gentile da cui trasse ispirazione per sviluppare il suo
"moralismo assoluto". Contrariamente alla dottrina gentiliana che
dichiarava l'attualismo coincidente con la "vita dello Stato",
Arangio Ruiz credeva che invece fosse identificabile con il comportamento
morale individuale poiché la politica non è che un aspetto particolare della
legge morale per sua natura universale. Fra le sue opere si ricordano. “Prose morali”;
“Umanità dell'arte.” Il Liceo
"Tassoni" tra storia e innovazione.
Fonte: Dizionario di filosofia, riferimenti in. Fabrizio Meroi, «Carlo Michelstaedter» in Il
contributo italiano alla storia del PensieroFilosofia, Roma Istituto
dell'Enciclopedia Italiana,.
Ricostruzione filosofica, in Arch. di filosofia, X[1940]20 Carlo Michelstaedter Altri progetti Collabora
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Arangio-Ruiz Vladimiro Arangio-Ruiz, su
Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Vladimiro Arangio-Ruiz, in Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Vladimiro Arangio-Ruiz, in Dizionario di
filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Filosofia Filosofo del XX
secolo Grecisti italianiAccademici italiani Professore. Vladimiro Arangio-Ruiz.
Arangio. Keywords: colloqui. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Arrangio” – The
Swimming-Pool Library.
Grice ed Arato – Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza
(Roma). Filosofo italiano. Arato achieved fame as a dramatic poet, but he was
also a pupilof Zenone. He wrote a celebrated surviving poem, Phenomena, dealing
with astronomy and meteorology. It was widely read – and Cicero commented it.
It may have been used by Lucrezio. Arato depicts the universe as a rational and
organized system bearing the hallmark of its divine creator. Kidd, Aratus,
Cambridge.
Grice ed Arcais –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Cervignano del Freiuli). Filosofo
italiano. Grice: “As Mikos says about the English, ‘de’ adds prestige as in ‘de
Grys’ – same with Italians and ‘d’Arcais,’ after four pescherie owned by one
ancestor. – d’Arcais has been described as a ‘quaresmalitsa,’ who had the
unfortune of being tutored by an atheist! Asa
good stoicp philosopher, he endured it!’ Direttore della rivista
MicroMega. È stato collaboratore de la Repubblica, il Fatto Quotidiano, El
País, Frankfurter Allgemeine Zeitung e Gazeta Wyborcza. Ha sempre unito l’attività di studioso, il
lavoro editoriale e l’impegno civile. Educazione intensamente cattolica.
Abbandona la fede nella primavera del 1961. Maturità scientifica. Maturità
classica. Si iscrive al partito comunista (e federazione giovanile) entrando
all’università. Nel 1964 è segretario del Circolo universitario comunista e
nell’estate frequenta la scuola centrale di partito “Marabini” a Bologna. Si
laurea con una tesi su “Marx interprete di Adamo Smith” e ne sarà a lungo uno
degli assistenti. Espulso dal Pci, è uno degli animatori del movimento
studentesco del Sessantotto. Pubblica la rivista “Soviet”. Nel 1976/7 la rivista
“Il Leviatano”. -- è l’organizzatore del convegno internazionale di tre giorni
che apre la “Biennale del dissenso” della presidenza Ripa di Meana. Viene chiamato a fondare e dirigere il
“Centro culturale Mondoperaio” dal segretario del Psi Bettino Craxi (alleato
delle sinistre di Giolitti e Lombardi). Prima iniziativa, il convegno
internazionale “Marxismo, leninismo, socialismo”, relatori Cornelius
Castoriadis, Gilles Martinet e Rudi Dutschke. Rompe con Craxi nel gennaio del
1980 quando questi cambia politica, spezza l’alleanza con Giolitti e Lombardi,
torna al governo con la Dc. Nel 1986
fonda insieme a Giorgio Ruffolo la rivista “MicroMega” (Ruffolo ne uscirà nel
1992, per contrasti su “Mani pulite”). Fonda la “sinistra dei club” per
partecipare alla fondazione del Pds, che dovrebbe aprirsi alla società civile
sulle ceneri dell’ex Pci. Lo abbandona un anno dopo, viste le promesse non
mantenute. Nell’inverno 2000 è protagonista di una controversia pubblica col
cardinal Ratzinger al Teatro Quirino di Roma. Nel 2002 organizza insieme a
Nanni Moretti, Olivia Sleiter e Pancho Pardi la grande manifestazione dei
“girotondi” del 14 settembre a piazza san Giovanni a Roma. Paolo Flores
d'Arcais è "radicalmente ateo".
Inizia presto ad occuparsi di politica nell'organizzazione giovanile del
Partito Comunista Italiano, ma presto viene espulso dalla FGCI per la sua
prolungata e grave attività frazionistica, cioè per la sua doppia militanza
nella FGCI e nella Quarta Internazionale trotskista. Allievo e amico di Lucio
Colletti, dopo esser stato uno dei protagonisti del "Sessantotto"
romano, approda a posizioni di riformismo radicale e verso la fine degli anni
settanta ha una breve ma vivida intesa con Bettino Craxi e Claudio Martelli,
dai quali, tuttavia, si distacca ben presto.
Nel 1991 aderisce al Partito Democratico della Sinistra di Achille
Occhetto entrando nella Direzione del movimento, da cui però fuoriesce due anni
dopo poiché favorevole alla guerra del Golfo a differenza della linea
maggioritaria del partito. Tra i promotori della breve stagione dei girotondi,
tenta di proporre una lista di suoi candidati alle primarie dell'Ulivo per le
elezioni politiche dma come lui stesso deve ammettere "realizza un
fallimento pieno e perfetto" raccogliendo appena 130 adesioni alla sua
idea. Il 25 marzo 2008 annuncia su MicroMega che nelle elezioni politiche del
2008 avrebbe votato per il Partito Democratico in funzione anti-berlusconiana.
Il 29 gennaio 2009 decide di ritentare in politica prospettando il
"Partito dei Senza Partito" insieme ad Antonio Di Pietro ed Andrea
Camilleri per partecipare alle elezioni europee del 2009 ma, il 12 marzo dello
stesso anno, viene annunciato il mancato accordo fra i tre. Per le elezioni
politiche del ha dichiarato di votare la
lista Rivoluzione Civile di Antonio Ingroia. Successivamente non nasconde le
sue simpatie per il Movimento 5 Stelle per il quale dichiara di votare.
Tuttavia in seguito all'alleanza tra il Movimento 5 Stelle e la Lega si dice
deluso dal Movimento, accusando in particolare Luigi Di Maio di avere tradito
le promesse agli elettori. Altre opere:
“Il maggio rosso di Parigi. Cronologia e documenti delle lotte studentesche e
operaie in Francia, a cura di, Padova, Marsilio); “Il piccolo sinistrese
illustrato, con Giampiero Mughini, Milano, SugarCo); “Il dubbio e la certezza.
Nei dintorni del marxismo e oltre (Milano, SugarCo); “L'esistenzialismo
libertario di Hannah Arendt, in Hannah Arendt, Politica e menzogna, Milano,
SugarCo); “Oltre il PCI. Per un partito libertario e riformista, Genova, Marietti);
“Esistenza e libertà. A partire da Hannah Arendt, Genova, Marietti); “L'albero
e la foresta. Il partito democratico della sinistra nel sistema politico
italiano, con Umberto Curi, Milano, FrancoAngeli); “La rimozione permanente. Il
futuro della sinistra e la critica del comunismo. Scritti; Genova, Marietti,
1991. Etica senza fede, Torino, Einaudi); “Il disincanto tradito, Torino,
Bollati Boringhieri); “Hannah Arendt. Esistenza e libertà, Roma, Donzelli); “Gobetti,
liberale del futuro, in Piero Gobetti, La rivoluzione liberale. Saggio sulla
lotta politica in Italia, Torino, Einaudi); “Il populismo italiano da Craxi a
Berlusconi. Dieci anni di regime nelle analisi di MicroMega, Roma, Donzelli); “L'individuo
libertario. Percorsi di filosofia morale e politica nell'orizzonte del finite”
(Torino, Einaudi); “ Il sovrano e il dissidente, ovvero La democrazia presa sul
serio. Saggio di filosofia politica per cittadini esigenti, Milano, Garzanti);
“Dio esiste? Un confronto su verità, fede, ateismo, moderato da Gad Lerner, con
Joseph Ratzinger, Roma, Somedia Gruppo editoriale L'Espresso); “Il ventennio
populista. Da Craxi a Berlusconi (passando per D'Alema?), Roma, Fazi); “Hannah
Arendt. Esistenza e libertà, autenticità e politica, Roma, Fazi); “Atei o
credenti? Filosofia, politica, etica, scienza”; “Roma, Fazi, Dio? Ateismo della ragione e ragioni della
fede, con Angelo Scola, Venezia, Marsilio); “Itinerario di un eretico” (Lugano,
ADV); “A chi appartiene la tua vita? Una riflessione filosofica su etica,
testamento biologico, eutanasia e diritti civili nell'epoca oscurantista di Ratzinger
e Berlusconi, Milano); “Ponte alle Grazie, 2009. 978-88-6220-068-4. Albert Camus filosofo del
futuro, Torino, Codice); “La sfida oscurantista di Joseph Ratzinger, Milano,
Ponte alle Grazie); “Gesù. L'invenzione del Dio cristiano, Torino, Add); “Macerie.
Ascesa e declino di un regime, Roma, Aliberti); “Perché oggi, in Ernesto Rossi,
Contro l'industria dei partiti, Milano, Chiarelettere); Democrazia! Libertà
privata e libertà in rivolta, Torino, Add); “Il caso o la speranza? Un
dibattito senza diplomazia” (Milano, Garzanti); “La Guerra del Sacro.
Terrorismo, laicità e democrazia radicale, Milano, Raffaello Cortina Editore);
“Questione di vita e di morte, Einaudi, Vele. Note cfr., uno per tutti, il suo volume (a quattro
mani con il cardinale Angelo Scola) "Dio? Ateismo della ragione e ragioni
della fede"Marsilio editore, 2008
Dal sito di MicroMega Articolo de
El País, tradotto in italiano Archiviato il 30 giugno in.
Elezioni Per chi votano Travaglio, Guzzanti, Scanzi, ecc. Tra
Rivoluzione Civile e il Movimento 5 Stelle
La Repubblica, Flores d'Arcais:
“Il Movimento 5 Stelle non esiste più”, su micromega-online. 24 aprile. MicroMega (periodico). reccaniEnciclopedie on
line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Opere di Paolo Flores d'Arcais, su openMLOL, Horizons Unlimited
srl. Registrazioni di Paolo Flores
d'Arcais, su RadioRadicale, Radio Radicale.
Sito ufficiale di MicroMega. Undici riflessioni sui movimenti, i
MicroMega. Intervista a D'Arcais sul ventennale della rivista. Il blog di Paolo
Flores d'Arcais, su ilfattoquotidiano. Filosofia Filosofo del XX secoloFilosofi
italiani del XXI secoloGiornalisti italiani del XX secoloGiornalisti italiani Professore1944Nati
l'11 luglio Cervignano del FriuliDirettori di periodici italianiFilosofi atei.
Arcais. Paolo Flores d’Arcais. Keywords: giudeo, portughese, Flores – arcais,
d’arcais, piamontese. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice ed Arcais” – The Swimming-Pool Library.
Grice ed Arceas – Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Taranto).
Filosofo italiano. Arceas is cited by Giamblico in his “Vita di Pitagora” as a
follower of the sect that originated in Crotona.
Grice ed Archedemo – Roma – filosofia
italiana – Luig Speranza (Siracusa). Filosofo italiano. Archedemo
was a Pythagorean and a pupil of Archita di Taranto. He became a friend of
PLATONE, and accommodated him for a while at his home. Senocrate wrote a saggio
entitled “Archedemo; ovvero, della giustizia” which refers to him.
Grice ed Archemaco – Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. Giamblico
di Calcide – in his “Vita di Pitagora” -- lists Archemaco as a member of the
sect that originated at Crotona.
Grice ed Archibugi –
PAX ROMANA – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo italiano. Grice: “I would hardly call Archibugi a philosopher, but he
did compile a thing ‘filosofi per la pace’ none of them Italian! So much for
‘pax romana’!” – Grice: “Strawson does call Archibugi a ‘filosofo,’ though!” --
DanieleArchibugi (Roma), filosofo.
Nell'ambito della teoria politica, ha sviluppato, insieme a David Held, l'idea
di una democrazia cosmopolita. Ha anche lavorato su diversi aspetti della
globalizzazione, ed in particolare sulla globalizzazione dell'innovazione e del
cambiamento tecnologico. Dopo una non assidua frequentazione del Liceo
Sperimentale della Bufalotta, si è laureato con lode alla Facoltà di Economia e
Commercio dell'Roma La Sapienza con Federico Caffè. Ha conseguito il dottorato
di ricerca presso lo Science Policy Research Unit dell'Università del Sussex,
dove ha lavorato con Christopher Freeman e Keith Pavitt. Ha insegnato alle
Università del Sussex, Madrid, Napoli, Roma La Sapienza e Roma Luiss, Cambridge,
London School of Economics and Political Science e Harvard. Ha anche tenuto
corsi presso università asiatiche quali la Ritsumeikan University di Kyoto e la
SWEFE University di Chengdu. Nel 2006 è stato nominato Professore
Onorario presso l'Università del Sussex e nel
Membro d'Onore del Réseaux de Recherche sur l'Innovation.
Dirigente presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche a Roma, è Professore di
Innovation, Governance and Public Policy presso l'Londra, Birkbeck
College. Dal 1997 al 2002 è stato Commissario dell'Autorità sui servizi
pubblici locali di Roma, eletto a larga maggioranza dal Consiglio
Comunale. La democrazia cosmopolita Il progetto della democrazia
cosmopolita o cosmopolitica si interroga sulla possibilità di applicare alcune
norme e valori della democrazia anche nelle relazioni internazionali. La
necessità deriva dal fatto che la globalizzazione economica e sociale ha reso
gli stati sempre più vulnerabili e che decisioni importanti per loro sono prese
al di fuori dal processo democratico. La soluzione proposta dalla democrazia
cosmopolita è sviluppare istituzioni sovra-statali che siano capaci di
affrontare democraticamente problemi comuni quali l'ambiente, la sicurezza, le
migrazioni, il commercio estero e i flussi finanziari. La democrazia
cosmopolita guarda con fiducia alle organizzazioni internazionali, e desidera
rafforzare al loro interno il controllo dei cittadini, cui va dato un peso
politico parallelo e autonomo rispetto a quello che già hanno i loro governi. A
livello politico, Archibugi ha sostenuto la limitazione del potere di veto nel
Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e la formazione di un'Assemblea
Parlamentare Mondiale. Ha invece ritenuto insoddisfacenti e anti-democratici i
vertici inter-governativi quali il G7, G8 and G20. Ha anche preso posizione
contro l'idea di una Lega delle democrazie sostenendo che una riforma
democratica delle Nazioni Unite riuscirebbe assai meglio a soddisfare le
medesime istanze. Giustizia globale Fautore della responsabilità individuale
dei governanti nel caso di crimini internazionali, Archibugi ha anche
attivamente sostenuto, sin dalla caduta del muro di Berlino, la creazione di
una Corte penale internazionale, collaborando sia con i giuristi della
Commissione del diritto internazionale delle Nazioni Unite sia con il governo
italiano. Nel corso degli anni, la sua posizione è diventata sempre più
scettica per l'incapacità dei tribunali internazionali di incriminare i più
forti. Ha, quindi, preso posizione a favore di altri strumenti quasi-giudiziari
come le Commissioni per la verità e la riconciliazione e i Tribunali
d'opinione. Globalizzazione della tecnologia Archibugi ha proposto una
tassonomia della globalizzazione della tecnologia che distingue fra tre
meccanismi di trasmissione della conoscenza: sfruttamento internazionale delle
innovazioni, generazione globale delle innovazioni e collaborazioni globali
nella scienza e nella tecnologia.. Come Presidente di un Gruppo di
Esperti dello Spazio di Ricerca Europeo della Commissione europea dedicato alla
collaborazione internazionale nella scienza e nella tecnologia, Archibugi ha
indicato che il declino demografico dell'Europa, combinato con la scarsa
vocazione delle nuove generazioni per le scienze, genererà una drastica carenza
di lavoratori qualificati in meno di una generazione. Questo metterà in
pericolo il livello di benessere della popolazione europea in aree cruciali
come la ricerca medica, le tecnologie dell'informazione e le industrie ad alta
tecnologia. Ha così sostenuto di rivedere radicalmente la politica
dell'immigrazione europea in maniera di accogliere e formare in un decennio
almeno due milioni di studenti dai paesi emergenti e in via di sviluppo,
qualificandoli in discipline quali le scienze e l'ingegneria. Economia
della ricostruzione dopo le crisi economiche Da studioso dei cicli economici,
Archibugi ha combinato la prospettiva keynesiana derivata dai suoi mentori
Federico Caffè, Hyman Minsky e Nicholas Kaldor con quella schumpeteriana
derivata da Christopher Freeman e dallo Science Policy Research Unit
dell'Università del Sussex. Combinando le due prospettive, Archibugi ha
sostenuto che per uscire da una crisi, un paese deve investire nei settori
emergenti e che, in assenza di spirito imprenditoriale del settore privato, il
settore pubblico deve avere la capacità manageriale di sfruttare le opportunità
scientifiche e tecnologiche, anche a salvaguardia dei beni pubblici.
Relazioni familiari Figlio dell'urbanista Franco Archibugi e della poetessa
Muzi Epifani, ha numerosi fratelli e sorelle, tra cui la regista Francesca
Archibugi e il politologo Mathias Koenig-Archibugi, con il quale frequentemente
collabora nei suoi studi. I fratelli maggiori del nonno di suo nonno furono
Francesco e Alessandro Archibugi, volontari del Battaglione universitario della
Sapienza e la difesa della Repubblica Romana (1849). Note D.
Archibugi è stato uno degli ultimi e più vicini allievi di Federico Caffè.
Partecipò attivamente alle sue ricerche dopo la misteriosa scomparsa. Cfr. D. Archibugi,
I ragazzi che cercarono il Prof. Caffè, La Repubblica, 8 aprile. Si veda anche
Fabrizio Peronaci, La scomparsa di Federico Caffè. «Un genio anche nell’addio.
Come lui solo Majorana», intervista a Daniele Archibugi, Corriere, 10 novembre. Membres d'honneur du Réseaux de Recherche sur
l'Innovation Consiglio Nazionale delle
Ricerche, Istituto di Ricerca sulla Popolazione e le Politiche Sociali Birkbeck College, Department of
Management Tom Cassauwers, Interview
with Daniele Archibugi, E-INTERNATIONAL RELATIONS, 14 settembre. Campaign for the Establishment of a United
Nations Parliamentary Assembly Copia archiviata, su en.unpacampaign.org. 10
ottobre 2009 22 agosto 2009). D.
Archibugi, The G20 is a luxury we can't afford, The Guardian, Saturday 28 March
2008. D. Archibugi, A League of
Democracies or a Democratic United Nations Archiviato il 24 luglio in., Harvard International Review, Ottobre
2008. Intervista su Delitto e castigo
nella società globale. Crimini e processi internazionali, Letture.org.. Daniele Archibugi e Alice Pease, Delitto e
castigo nella società globale. Crimini e processi internazionali, Castelvecchi,
Roma,. Daniele Archibugi, La giustizia
penale internazionale tra passato e futuro, Questione Giustizia, 27 gennaio. Daniele Archibugi and Jonathan Michie, The
Globalization of Technology: A New Taxonomy, "Cambridge Journal of
Economics", 19, no. 1, 1995, 121-140,
Daniele Archibugi (Chair) Opening to the World. Opening to the World:
International Cooperation in Science and Technology Archiviato il 25
luglio in., European Research Area,
2008, D. Archibugi e A. Filippetti,
Innovation and Economic Crisis. Innovation and Economic Crisis. Lessons and
Prospects from the Economic Downturn, Routledge, London,. D. Archibugi, A. Filippetti & M. Frenz,
Investment in innovation for European recovery: a public policy priority,
Science & Public Policy, November.
Daniele Archibugi, «Generare imprese europee per la ricostruzione: la
lezione Airbus», Il Sole 24 Ore, 5 Maggio.
Floriana Bulfon, «Nuovi imprenditori e lavoratori soddisfatti: solo così
dopo il virus l'Italia sarà migliore. Intervista a Daniele Archibugi»,
L'Espresso, 14 Aprile. Daniele
Archibugi, Mathias Koenig-Archibugi, Raffaele Marchetti, Global Democracy.
Normative and Empirical Perspectives, Cambridge University Press, Cambridge,. Nell'ambito
degli studi sull'organizzazione internazionale, ha pubblicato: “Filosofi per la
pace” (Editori Riuniti); “Cosmopolis. È possibile una democrazia sovra-nazionale?”
(Manifestolibri); “Il futuro delle Nazioni Unite” (Edizioni Lavoro); “Diritti
umani e democrazia cosmopolitica” (Feltrinelli); “Cittadini del mondo. Verso
una democrazia cosmopolitica” (Il Saggiatore); “Delitto e castigo nella società
globale. Crimini e processi internazionali, (Castelvecchi); “Cambiamento
tecnologico e sviluppo industriale, (Franco Angeli); “Economia globale e
innovazione” (Donzelli). “Il triangolo dei servizi pubblici, (Marsilio). “Relazione
sulla ricerca e l'innovazione in Italia. Analisi e dati di politica della
scienza e della tecnologia, seconda edizione (CNR Edizioni, ). daniele archibugi.org. Opere di Daniele Archibugi, su openMLOL,
Horizons Unlimited srl. Registrazioni di
Daniele Archibugi, su RadioRadicale, Radio Radicale. Sito CNR-IRPPS, Commessa Globalizzazione.
Determinanti e impatto economico, tecnologico e politico. University of London,
Birkbeck College, Home Page Daniele Archibugi. University of London, Birkbeck
College, Intervista su "The Global Commonwealth of Citizens"
Intervista della LA7 a Daniele Archibugi Sull'innovazione tecnologica, (video).
Intervista alla trasmissione Mapperò, SAT2000, sulla Dichiarazione Universale
dei Diritti Umani, (video), Parte prima; Parte seconda; Parte terza. Dibattito
presso la London School of Economics "È possibile una democrazia
globale?" (video in inglese)://globaldemo.org/film/1255[collegamento
interrotto] Intervista a LA7 su "Cittadini del mondo. Verso una democrazia
cosmopolitica",. Intervista a TG3 Linea Notte su "Cittadini del
mondo. Verso una democrazia cosmopolitica" Intervista a TG2 Punto IT su
"Cittadini del mondo. Verso una democrazia cosmopolitica", 15 giugno
2009. Discorso su Secrets, Lies and Power, Berlino, European Alternatives, 18
giugno. Intervista sul volume The Handbook of Global Science, Technology and
Innovation, Londra, Birkbeck College, Lo Stato dell`ArteQuale futuro per
l’Europa?, Trasmissione Rai5, conduce Maurizio Ferraris, con Daniele Archibugi
e Alessandro Politi, 14 luglio. Quante storie Rai3I grandi crimini contro
l'umanità, intervista di Corrado Augias a Daniele Archibugi, Crime and Global
Justice, Book Launch alla London School of Economics and Political Science, 28
Febbraio, podcast con Gerry Simpson, Christine Chinkin, Richard Falk e Mary
Kaldor. Daniele Archibugi, Do we Need a Global Criminal Justice?, Conferenza
alla City University of New York, 9 Aprile. Daniele Archibugi,
"Cosmopolitan democracy as a method of addressing controversies",
IAJLJ CONFERENCE "CONTROVERSIAL MULTICULTURALISM", Roma, Novembre,.
Daniele Archibugi, "What is the difference between invention and
innovation?", Birkbeck College University of London, 28 Ottobre.
Presentazione della Relazione sulla ricerca e l'innovazione in Italia, Roma,
Consiglio Nazionale delle Ricerche, 15 ottobre
Filosofi della politica, Filosofi italiani del XXI secolo. Daniele
Archibugi. Keywords: PAX ROMANA, due citadini del mondo. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice ed Archibugi” – The Swimming-Pool Library.
Grice ed Archippo – Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Archippus,
a correspondent of Plinio Minore, pleaded exemtion one from jury service on the
grounds that “he was a philosopher” and produced letters from Domiziano
testifying to that fact, and to his good character. It emerged later that he
had been previously been sentenced to hard labour in the mines for forgery,
which might cast some doubt on the authenticity of the letters. Although some
were keen to see him back in the mines, he was generally popular.
Grice ed Archippo – Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano.
Archippo was a follower of Pythagoras. While living in Crotona, he nearly lost
his life when those opposed to the Pythagoreans set fire to a house in which he
was attending a meeting.
Grice ed Archita – Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano.
According to Giamblico di Calcide, Archita was a pupil of Pythagoras. According
to Suda, Archita taught Empedocle di Girgentu, which is IMPOSSIBLE – But the
reference may be to THIS Archita, who also seems to have come from Taranto,
although some question whether such an individual ever existed.
Grice ed Arcidiacono –
sintropia, entropia, ed informazione – filosofia italiana – Luigi Speranza (Acireale). Filosofo
italiano. Grice: “I like Arcidiacono, and Floridi should pay more attention to
him; after all he what Austin called an ‘Oxonian myopist’! I love him!” “It took me a while to digest Aricidiacono’s
non-intentional use of ‘inform,’ but I suppose he rather follows Shannon than
Plato!” “Arcidiacono pays due attention to Aristotle’s ‘finalismo,’ and as an
Italian, he gives proper due to Plionio – ‘il vecchio,’ as Arcidiacono
comically calls him – Strawson: “As if Pliny the Younger were not now part of
‘storia vecchia’!” – Grice: “In any case, give me Salvatore anyday – his
brother, Giuseppe, cannot qualify as a philosopher!” – Grice: “And another good
thing, too, Arcidiacono, the ‘filosofo’ brough Fantappie as a hashtag in
‘filosofia’!” Grice: “As Arcidiacono notes, Fantappie, not being a filosofo,
committed the usual mispellinggs – ‘syntropia,’ rightly corrected to ‘sintropia’
by the philosophy-educated philosopher Salvatore Arcidiacono!” Nato e, per una
sorprendente coincidenza, morto lo stesso anno del fratello gemello Giuseppe, divise
con quest'ultimo anche gli impegni di ricerca. Laureatosi a Catania. Insegna a
Catania. Perfeziona la Teoria unitaria del mondo fisico e biologico,
collegandola ai più moderni sviluppi della biologia teorica e molecolare. Da supporto
teorico speculativo nel campo della chimica e della fisica teorica. Elabora una
formulazione mediate della teoria sintropica nonché della Teoria degli
universi. Saggio “Visione unitaria dell'Universo”. “Spazio, tempo,
universe”. Altre opere: Visione unitaria
dell'Universo” (UCIIM, Roma); “Spazio, tempo, universe” (Edizioni del fuoco,
Roma); “Materia e Vita” (Massimo, Milano); “Ordine e Sintropia la vita e il suo
mistero” (ed. Studium Christi, Roma); “L'evoluzione sintropica” (Accademia
degli zelanti e dei dafnici, Acireale); “Creazione, evoluzione, principio
antropico” (ed. Il fuoco-Studium Christi); “Entropia, sintropia, informazione.
Una nuova teoria unitaria della fisica, chimica e biologia” (ed. Di Renzo,
Roma); “L'evoluzione dopo Darwin. La teoria sintropica dell'evoluzione, ed. Di
Renzo, Roma); “Problemi e dibattiti di biologia teorica, ed. Di Renzo, Roma. Licata,
Teoria degli Universi e Sintropia Archiviato il 17 settembre in.
vedi pag 103 di L'accoglienza delle idee di Pierre Teilhard de Chardin
nella cultura italiana, Scapini, Demetrio Sodi Pallares, Terapia metabolica
delle cardiopatie. Nuovo approccio terapeutico PICCIN, Padova Vannini,
2005. L'accoglienza delle idee di Pierre
Teilhard de Chardin nella cultura italiana degli anni 1955-Salvatore
Arcidiacono, Nuevas ideas para la evolución biològica, articolo su Folia
humanistica, Barcellona, novembre 1982, n. 238.
Revue internationale Pierre Teilhard de Chardin, Edizioni 85-98,
Ministère de l'éducation nationale et de la culture Belgique, Editore Société
Pierre Teilhard de Chardin, Vannini, From mechanical to life causation,,
Syntropy, (WC ACNP) Felicita Scapini, La logica dell'evoluzione dei
viventiSpunti di riflessione, in Atti del XII Convegno del Gruppo italiano di
biologia evoluzionistica Firenze, Firenze, University press, Fantappié Giuseppe
Arcidiacono Sintropia Biografia sul sito
del suo editore, su direnzo 9 luglio ). V D M Filosofia della scienza 266416940 Filosofi. Salvatore Arcidiacono. Keywords: sintropia,
entropia, ed informazione; sintropia, antropia, entropia.
arcidiacono — l’implicatura del principio antropico — biologia filosofica —
filosofia della vita — fissisismo — naturalismo — finalismo — vivere — vivente
— ominazione — animazione — definizione del vivente como movente autonomo — il
fine —Refs.:
Luigi Speranza, “Grice ed Arcidiacono” – The Swimming-Pool Library.
Grice ed Arco –
GRAVITAS – filosofia italiana – Luigi Speranza (Teano). Filosofo
italiano. Grice: “I should like Arco; but he is a priest and I’m C. of E.; on
top, I love to say that philosophy ought to be FUN, provided it’s MY FUN – not
Arco’s – so I find Arco’s ‘dictionary of philosophical ‘umorismo,’ or filosofia
‘umoristica’ frivolous, and unworthy of Roman gravitas!” Nato nella frazione
Fontanelle entra fra i Salesiani di Don Bosco e fu ordinato sacerdote a Roma.
Consegue a Napoli la laurea in filosofia. Per la sua preparazione filosofica,
nonché per la profondità della sua filosofiai, è considerato tra i maggiori
filosofi italiani. Per lungo tempo è stato professore di filosofia presso gli
Istituti Salesiani di Don Bosco.
Ricoverato all'ospedale “San Leonardo” di Castellammare di Stabia, per
un blocco renale, e ritornato a Pacognano di Vico Equense dopo aver superato la
crisi, è morto novantaquattrenne. Uomo di anima sensibile e di infinita fede ha
trascorso molto della sua vita scrivendo, interessandosi di agiografia. È stato
protagonista televisivo sulla prima rete nazionale con il programma: Tempo
dello Spirito. Intensa e vasta la sua
opera letteraria. Altre opere: “Bartolo
Longo e la sua intimità con Dio”; “Don Bosco si diverte”; Sorgenti di gioia;
Gesù sotterra un chicco di grano; Giorgio La Pira e il risorto; “Fiori di sapienza.
Dizionarietto di saggezza”; “La Donna del Sanctus; Papa Giovanni beato. La
parola agli atti processuali; Quando la teologia prende fuoco. Giuseppe Quadrio
sacerdote salesiano; Don Bosco nella luce del Risorto; Don Bosco sorridente
entra in casa vostra”; “Così Don Bosco amò i giovani”; “Il Padre Nostro”; “Ma
c'è poi questo Dio; Nota bene; Sorgenti di Gioia; L'Ave Maria inno dell'amore
filiale; Il Beato Filippo Rinaldi copia vivente di Don Bosco; “La sorgente
eterna dell'amore”; “Noi esistiamo perché Dio Padre ci ama; Stile di Serenità;
La Gioia a Portata di Mano; Ridi e sorridi da saggio; Il Beato Bartolo Longo;
Dolcezza e speranza nostra; Dio ci ama con cuore d'uomo; Il Padre nostro; La
Leva del Mondo: la preghiera; Sant'Eustachio; Il Cristo in cui Spero; Giorgio
La Pira Profeta e testimone del Risorto; Serva di Dio Elisabetta Jacobucci
Francesca Alcantarina; Beata Maria della Passione; Il Servo di Dio B. Longo;
Papa Giovanni Beato; Così ridono i saggi; Fiori di sapienza; Il segreto di papa
Giovanni; S.Alfonso amico del popolo; La Donna del Sanctus; Il Sacro nome ti
chiama per nome; La Leva del Mondo: la preghiera; Il monumento alla Pace
Universale del beato Bartolo Longo; Il Salesiano è fatto così; Messaggio di
Teilhard De Chardin. Intuizioni e idee madri (Elledici Torino); Un esploratore
della felicità: biografia del Servo di Dio Giacomo Gaglione, Apostolato della
Sofferenza. Citazionio su Adolfo L'Arco
La comunità di Pacognano ricorda don Adolfo L'Arco di Raffaele Meazza,
Il Giornale di Napoli, sito "Positano news", Identities Biografie Biografie:
di Biografie Categorie:
Religiosi italianiTeologi italianiFilosofi italiani Professore Teano Vico
Equense. Adolfo L’Arco. Arco. Keywords: gravitas, hagiography; if he has
religious faith, he is not a philosopher. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed
Arco” – The Swimming-Pool Library
Grice ed Ardigò –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Casteldidone). Filosofo italiano. Grice:
“I love Ardigo – but I have a few qualms – his “Opere filosofiche’ is
improperly indexed! The man wrote zillions! My attention was first caught
by minor editorial note: “’La morale dei
positivisti’ was reprinted a few years later after its first edition as divided
into two parts, “la morale’ proper and ‘Sociologia’ – Since I have used
philosophical biology and philosophical psychology, Ardigo is indeed into
‘philosophical sociology’ – As he notes, ‘sociology’ is today’s philosophese
for Aristotelian politics – politica – re publica romana – And being a
positivist, Ardigo provides some good background – which will later be
‘refuted’ by the neo-idealists that opposed this sort of philosophy – to the
idea of two organisms (two pirots) interacting --. While I speak of
conversational egoism as balanced by conversational tu-ism; Ardigo, less of an
altruist, and who laughs at the ‘ridiculous’ sensist conception of ‘simpatia’ –
speaks of two principles: the principle of egoism, or prepotence, found amoung
brutal animals – and the principle of what he calls ANTI-EGOSIM, found in the
civil Italian gentleman – the word ‘civile’ is crucial, as in Castiglione,
‘discorso,’ or ‘conversazione’ civile. If Wilson found it offensive when Chomsky
spoke of two ideal communicadtors, this is no problem for the positivist – As
Ardigo notes, an Italian will not behave conversationally in the same way when
conversing with some he regards as below his station -- that’s why he (and later I adopted the
same guideline) uses ‘Romolo’ and ‘Remo’ (rather than Jack and Jill, since
there is a gender issue here) as communicators.
As he puts it, ‘the fact that Romolo eventually kills his ‘fratello’ is hardly
relevant from a positivist point of view – surely we don’t require ANTI-EGOSIM
to hold indefeafeasibly, I would disagree with Ardigo’s dismissal of Remo’s
murder – ‘l’assassinio di Remo’ – I discussed this with Hardie – in English,
and, after a ten-minute pause, all I got from him was, ‘what do you mean by
‘of’?’” -- Essential Italian philosopher. Grice: “It’s amazing Ardigo found
psychology a science, and a positive one, too!” – Altre opere: “La psicologia come scienza positive”; “Scritti
vari”; “Venti canti di H. Heine tradotti 100 percent.svg di Heinrich
Heine (1922), traduzione dal tedesco (1908) Testi su Roberto Ardigò. Per le
onoranze a Roberto Ardigò 100 percent.svg di Mario Rapisardi. Gemeinsame
Normdatei data.bnf.fr Comité des travaux historiques et
scientifiques Brockhaus Enzyklopädie Dizionario Biografico degli
Italiani Categorie: Casteldidone Mantova
1828 1920 28 gennaio 15 settembreAutoriAutori del XIX secoloAutori del XX
secoloAutori italiani del XIX secoloAutori italiani del XX
secoloReligiosiFilosofiPedagogistiReligiosi del XIX secoloReligiosi del XX
secoloFilosofi del XIX secoloFilosofi del XX secoloPedagogisti del XIX
secoloPedagogisti del XX secoloAutori italianiReligiosi italianiFilosofi
italianiPedagogisti italianiAutori citati in opere pubblicateAutori presenti
sul Dizionario Biografico degli Italiani Refs.: Grice, “Ardigò and a positivisitic morality,” Luigi Speranza, "Grice ed Ardigò,"
per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria,
Italia. ARE.
Ricerca Roberto Ardigò psicologo, filosofo e pedagogista italiano,
Lingua Segui Modifica «L'inconoscibile di oggi è il conosciuto di
domani.» (Roberto Ardigò[1]) Roberto Felice Ardigò (Casteldidone, 28
gennaio1828 – Mantova, 15 settembre 1920) è stato uno psicologo, filosofo e
pedagogista italiano. Roberto Felice Ardigò Biografia Modifica
Roberto Felice[2] Ardigò nacque a Casteldidone, in provincia di Cremona, il 28
gennaio 1828, da Ferdinando Ardigò e Angela Tabaglio. A causa delle difficoltà
economiche della famiglia, un tempo agiata, si dovette spostare a Mantova, dove
il padre trovò lavoro presso i cognati. La madre era profondamente religiosa,
mentre il padre sostanzialmente indifferente in materia. Egli ne avrà sempre
profondo rispetto e un forte legame, come anche con la sorella.[3] Studi
teologici Modifica Studiò a Mantova, per poi iscriversi nel 1845 al liceo del Seminario
vescovile. Nel 1848 ottiene un posto gratuito nel seminario di Milano, ma in
seguito ai moti risorgimentali é costretto a rientrare a Mantova. Il suo
successivo tentativo di arruolarsi nell'esercito di Guglielmo Pepe è frustrato
da una febbre malarica che lo colpisce alla vigilia della battaglia di Goito.
Proseguì poi gli studi teologici. Dopo la morte dei genitori, fu accolto a casa
sua da Mons. Luigi Martini, rettore del Seminario mantovano. In quegli anni il
Seminario era investito dalla congiura patriottica che porterà al supplizio dei
Martiri di Belfiore, dei quali ben tre erano sacerdoti, tra cui il leader della
congiura Don Enrico Tazzoli, insegnante presso lo stesso Seminario.
Ardigò fu infine ordinato sacerdote. L'insegnamento positivista, la
sospensione e la scomunica Modifica Nel 1870 pubblicò La psicologia come
scienza positiva e nel 1876 tentò di istituire presso il Liceo di Mantova, dove
insegnava[4], un Gabinetto per le ricerche psicologiche.[3] Nel metodo di
insegnamento, poi, privilegiava il personale e diretto coinvolgimento degli
allievi, sollecitandoli al libero dialogo, con una attenta analisi di brani
critici e dei filosofi, cosa non troppo gradita alle gerarchie ecclesiastiche e
al Ministero dell'Istruzione. Già preda di una crisi religiosa molto
forte, che lo portò infine a divenire ateo[5], tutta questa polemica lo
condusse appunto a smettere l'abito ecclesiastico nel 1871, a 41 anni, dopo
aver aderito ormai completamente alle posizioni positiviste ed evoluzioniste,
che andavano nettamente in contrasto ai dettami della Chiesa cattolica del
tempo, e aver attaccato apertamente il dogma dell'infallibilità
papale.[3] Alla fine, Ardigò venne anche scomunicato, ultimo atto della
polemica contro la Chiesa di cui aveva fatto parte.[6][7] Professore
universitario Modifica Casteldidone, lapide sulla casa natale In totale
insegnò storia della filosofia all'Università di Padova per 28 anni dal 1881.
Considerato tra i padri della psicologia scientifica italiana[8] per aver
promosso una concezione scientifica della psicologia, concepì una complessa
teoria della percezione e del pensiero che non ebbe completa dimostrazione
sperimentale. Nel 1882 Ardigò svolse uno dei suoi maggiori esperimenti in campo
psicologico sperimentale, sulle condizioni dell'adattamento visivo su prismi
ottici.[3] Diverse furono le materie che insegnò nei lunghi anni d'insegnamento
universitario fino alla data del 1º giugno 1909 quando fu collocato a riposo.
Fu, altresì, preside della facoltà di filosofia e lettere dal 1899 al
1902.[3] Il 31 maggio 1908 divenne socio dell'Accademia delle scienze di
Torino.[9] Il 16 ottobre 1913 fu nominato senatore del Regnoma fu
impossibilitato a raggiungere Roma per il giuramento.[3] Durante la sua
vita elogiò Giuseppe Mazzini[10] e Giuseppe Garibaldi[11], criticò la
massoneria[12] (in quanto la riteneva non necessaria in uno stato ormai libero)
ed espresse idee fortemente repubblicane.[13] Ultimi anni e suicidio Modifica
Negli ultimi anni di vita, isolato dall'ambiente intellettuale, ma non dai suoi
discepoli più stretti, soffrì di gravi problemi fisici e depressivi (acuiti
dalla morte della sorella Olimpia, che viveva a casa sua, nel 1907), che lo
condussero a un primo tentativo di suicidio a Padova nel 1918 (dopo aver
appreso della disfatta di Caporetto e della morte di molti giovani italiani),
fallito perché la ferita non era grave[3], ma che si sarebbe ripetuto il 27
agosto 1920[14], questa volta riuscendo nel suo intento: Ardigò morì infatti
suicida all'età di 92 anni nella sua ultima sistemazione a Mantova a casa
Nievo, abitazione che era stata di Ippolito Nievo. Si autoinflisse una ferita
colpendosi con un rasoio (o una roncola) arrugginito alla gola.[15] Le
testimonianze dell'epoca riferiscono che venne trovato seduto alla scrivania,
con la barba bianca del tutto sporca di sangue (barba che gli fu tagliata dai
soccorritori ed è tuttora conservata come cimelio nella sala blindata della
Biblioteca di Mantova[15]); soccorso dai medici, perse comunque conoscenza dopo
aver ribadito le sue intenzioni, e morì due settimane dopo, il 15
settembre.[3][15] Ricezione dell'opera di Ardigò Modifica Il tragico atto
finale della sua vita venne usato dai suoi detrattori - clericali o
neoidealisti - per screditare il positivismo in declino o visto come un gesto
di demenza senile, e non come un atto di un uomo ormai stanco a livello
psicofisico, che aveva dato tutto e vissuto la sua lunga vita secondo
coscienza, quale in effetti era. D'altra parte, seppur il sistema di Ardigò non
era anti-idealistico, furono gli idealisti ad attaccarlo filosoficamente,
seguiti dai marxisti di inizio secolo, come Antonio Gramsci, talvolta
paragonandolo agli esiti più deleteri del positivismo, come l'antropologia
criminale di Cesare Lombroso (risultata poi non scientifica), determinando
l'oblio parziale delle sue opere, tra i maggiori libri filosofici tra il
periodo illuminista (con l'esclusione delle opere filosofiche di Giacomo
Leopardi) e il neoidealismo di Croce e Gentile. Con lo sviluppo del positivismo
logico e la riscoperta del positivismo, si è avuta una lenta rivalutazione di
Ardigò, il maggiore esponente italiano del movimento, assieme a Maria
Montessori e, come lei, tra i fondatori della pedagogia e della psicologia
moderna[3][16][17], oltre che uno dei maggiori pensatori laici della cultura
italiana tra XIX e XX secolo.[18] Commemorazioni Modifica Sulla sua casa
venne apposta una lapide, quando ancora egli era in vita: «(Mantova) (in
una pergamena). Indagatore sapiente dei fenomeni del pensiero e del sentimento.
Assertore impavido della naturale formazione e dell'unità molteplice della
vita. La Società magistrale Mantovana, col plauso degl'insegnanti elementari
d'Italia, della Società filosofica dei professori di Morale e di Pedagogia,
festeggiando l'ottantesimo compleanno del Maestro sublime, augura con fervidi
voti che la nuova generazione cresca degna di lui nel culto della scienza,
nell'apostolato della verità.» (Epigrafe di Mario Rapisardi) La città di
Monza gli ha dedicato una scuola media inferiore e una strada. Anche Milano gli
ha dedicato una strada in zona Forlanini, così come Roma che gli ha dedicato
una piazza tra il quartiere dell'EUR e la Via Laurentina. I libri della
sua biblioteca personale sono conservati presso la Biblioteca universitaria di
Padova.[3] PensieroModifica Mantova, lapide commemorativa Il suo
pensiero mosse dalla conoscenza dei classici teologici e filosofici, come
Agostino d'Ippona e Tommaso d'Aquino (poi abbandonati), all'adesione al
razionalismo e al positivismo di Auguste Comte ed Herbert Spencer (con cui ebbe
una corrispondenza epistolare, ma di cui non condivide né il darwinismo
sociale, né il ruolo marginale da questi attribuito alla filosofia), passando
attraverso il naturalismo del Rinascimento, come quello panteistico di Giordano
Bruno.[19] D'altra parte, del sapere magico-ermetico della filosofia
cinquecentesca della natura, da Bruno stesso a Bernardino Telesio, non vi è
alcun residuo nella filosofia positiva di Ardigò, che prova disinteresse e
disprezzo per la rinascita romantico-idealista della filosofia, a cui, dopo la
"conversione laica", contrappone la vera filosofia
scientifica.[19] Caratteri della «filosofia positiva» di Ardigò Modifica
L'originalità della sua filosofia si distanzia tanto dall'enciclopedismo
naturalistico quanto dal tradizionale spirito di sistema, aprioristico,
deduttivistico, dogmatico.[19] La filosofia trova la sua specificità nel
fondamento del fatto (fisico o psichico) e nell'argomentazione induttiva,
contro le deduzioni a priori, metafisiche, che non hanno fondamento
nell'esperienza come la deduzione logico-matematica.[20] Auguste
Comte Una filosofia, che accetti metodo scientifico e voglia dirsi scientifica,
rifiuta quindi le tesi metafisiche, le entità trascendenti inverificabili,
accetta le ipotesi da verificare. Contro l'astratto razionalismo metafisico
della filosofia, è andato emergendo, secondo Ardigò, dapprima il naturalismo
rinascimentale, che ha trovato seguito nell'empirismo, nell'illuminismo e nel
sensismo, fino al darwinismo e al positivismo.[20] Una filosofia positiva
non può nutrire certezze definitive (se vuol essere portatrice di tesi
riformulabili come le teorie scientifiche) e non può essere un sistema unitario
e dogmatico.[20] Ardigò propone una filosofia che, perduto l'ambito delle
scienze naturali positive, si specifica in autonomia come scienza dei fatti
psichici (psicologia) e dei fatti sociali (sociologia).[20] Psicologia,
pedagogia e sociologia positive Modifica I suoi contributi nell'ambito delle
scienze sono importanti per l'impostazione generale. Interessanti sono le sue
idee sull'evoluzione intesa come passaggio dall'indistinto al distinto, ma
anche condizionata dal caso e caratterizzata dal ritmo. Non tutto dunque è
lineare e meccanico. Ardigò fu uno dei primi psicologi moderni, anche se non
nel senso di terapeuta, ruolo che sarà ricoperto dagli psicoanalisti e dagli
psichiatri, ma nel senso di formatore pedagogico e professionale, oltre che di
teorico e studioso della psiche, come Henri Bergson.[21] Ardigò
insistette sulla necessità di una psicologia ed una pedagogia scientifiche,
soffermandosi sul ruolo delle abitudini. L'educazione infatti sul piano
naturale può essere ricondotta all'acquisizione di comportamenti sedimentati e
certi; questo significa il passaggio da una pedagogia metafisica ed astratta ad
una pedagogia intesa come scienza dell'educazione.[21] L'Io, l'Indistinto
e la nascita della coscienza Seguendo comunque l'assioma comtiano che "non
ci può essere scienza se non di fatti" (anche se Comte riconduce la
psicologia alla filosofia e alla medicina, oltre che alla sociologia), egli
conia inoltre il termine di "confluenza mentale".[22] Teorie
pedagogiche Modifica Ardigò dice: «la pedagogia è la scienza
dell'educazione, per questo l'uomo può acquisire le abitudini di persona
civile, di buon cittadino.» Per Ardigò dunque non tutte le abitudini sono
educative. Dal punto di vista didattico privilegiò l'intuizione, il metodo
oggettivo, la lezione delle cose, il passaggio dal noto all'ignoto, insegnando
poche cose alla volta, ritornando più volte sulle cose spiegate e facendo
continue applicazioni di teorie e casi nuovi. Egli rivalutò la funzione del
gioco, il quale permette al bambino l'occasione di vedere e toccare gli
oggetti, riconoscerne le proprietà e le somiglianze, favorendo lo sviluppo
fisico, il quale va d'accordo con quello mentale. Proprio in riferimento al
gioco, Ardigò criticò le idee di Fröbel.[23] Il problema di Ardigò fu
quello di coniugare la formazione di giuste abitudini con la libertà e
l'autonomia propugnata dai Giardini d'infanzia di Fröbel.[23]
Charles Darwin Natura ed evoluzionismo Modifica Il sistema ardigoiano si
configura come un “naturalismo” evoluzionistico (da lui chiamato però realismo
positivo) che cresce sulla consapevolezza delle scienze e della tecnica, e si
regge sotto una solida epistemologia, mentre si rivolge anche alla morale,
sottraendola al riduzionismo naturalistico e meccanicistico, riservando alla
psicologia la funzione di sovrintendere al tutto.[24] Se tutto ciò che esiste è
un fatto naturale, dal cosmo al cervello umano, dai vegetali ai minerali, non
esiste e non può esistere un Ente trascendente metafisico e non è pensabile
alcun progetto finalistico che permetta una comprensione teleologica della Natura;
ad essa ci si può avvicinare solo con spirito scientifico.[24]L'ignoto di
Ardigò non trascende l'esperienza, non ne è causa prima e soprannaturale, per
cui il suo immanentismo non finisce mai nello spiritualismo a-scientifico e
irrazionalistico (accusa spesso rivolta da Benedetto Croce ai positivisti).[24]
Un motivo di originalità è offerto dal tentativo di attenuare il determinismo e
meccanicismo evoluzionistico e positivistico tramite la dottrina della
casualità. La realtà è per lui continuo passaggio dall'Indistinto al distinto,
e i distinti sono la coscienza umana e il mondo esterno, frutto entrambi dalle
sensazioni e da quell'Indistinto dalla quale procedono per «autosintesi ed
eterosintesi».[24] Riflessione morale Modifica Egli punta a far rinascere
un'etica laica, naturalistica, non prescrittiva, che pone l'uomo davanti alle
scelte, dandogli strumenti conoscitivi per una scelta razionale.[25] Rimane
estraneo però alla questione sociale e alle istanze socialiste (nonostante la
collaborazione con Turati), e, ancor prima, anarchiche, ampiamente diffuse in
Italia, come isolato è anche rispetto alla politica.[26] Le idealità
sociali o massime morali si distinguono in[27]: naturali, perché frutto
solamente dell'evoluzione della specie e della psiche individuale sociali vere
e proprie, cioè etico-giuridiche perché determinate dalla convivenza; esse
devono la propria oggettività alla loro «genesi (...) individuata nello
sviluppo “materiale” dell'uomo (biologico, fisico, ecc.) e (...) si esprimono
storicamente in istituzioni (come la famiglia, lo Stato) le quali disciplinano
e orientano le azioni umane».[27] Va detto che la riflessione ‘di periodo’
ardigoiana sulla moralità e sulle idealità sociali “nell’idea della giustizia”
mostra l’intento di fondare in Italia la sociologia come scienza sulla cauta
possibilità di concepire nella società la morale senza la religione (Roberto
Ardigò, La morale dei positivisti, Milano, Natale Battezzati, 1879, XXI, p. 290
e sg.). Il progetto di Roberto Ardigò si concretizza maggiormente nelle pretese
di fondare un sapere laico in grado di confrontarsi con le sfere dell’etica e
della filosofia speculativa, senza che quest’ultima possa vantare ex ante una
alleanza “forte” di filosofia e religione e senza avere avuto un confronto con
i temi messi in campo dalla scienza e dai suoi più immediati avanzamenti, così
e come mostrano proprio i primi passi dell’idea di formare un sapere
sociologico autonomizzato dalle sfere dell’eticità (Guglielmo Rinzivillo,
Ardigò e la prima sociologia in Italia, su “Scienzasocietà” n.50, A. IX
maggio-agosto 1991, pp. 25 –31). In questo senso l’impresa di Ardigò di
confrontarsi direttamente con il sapere speculativo risulta essere l’unica nel
suo genere al cospetto del positivismo di fine secolo XIX (Guglielmo
Rinzivillo, La scienza e l’oggetto. Autocritica del sapere strategico, Milano,
Franco Angeli, 2010, ristampa 2012, II, ISBN 9788856824872 ). Ma il tentativo
di formare una scuola si infrange nella ripresa sia europea dello spiritualismo
che più nostrana dell’idealismo e nella contestazione delle dottrine
filosofiche di seguaci come Giovanni Marchesini e Giuseppe Tarozzi
(Mariantonella Portale, Giovanni Marchesini e la “Rivista di Filosofia e
Scienze Affini”. La crisi del positivismo italiano, Milano, Franco Angeli,
2010, ISBN 8856825643) Altre opere: “Discorso sulla difesa dalla inondazione”;
“Pomponazzi”; “La psicologia come scienza positive” – cf. Grice psicologia
filosofica --; “La formazione naturale nel fatto del sistema solare”; “La morale
dei positivisti”; “Sociologia”; “Il fatto psicologico della percezione”; “Il
vero”; “La scienza della educazione”; “La ragione”; “L'unità della coscienza”;
“La nuova filosofia dei valori”; “Canti di Heine(1922), traduzione dal tedesco
Raccolta delle opere, “Filosofia” (Padova, Draghi). Citato in: Alberto Bonetti,
Massimo Mazzoni, L'Università degli studi di Firenze nel centenario della
nascita di Giuseppe Occhialini (1907-1993), Firenze University Press, 2007,
pag. 90, nota ^ Ardigò, Roberto ^ a b c d e f g h i j k Marco Paolo Allegri, Il
realismo positivo di Roberto Ardigò. L'apogeo teoretico del positivismo
Archiviato il 10 dicembre 2014 in Internet Archive. Guido Cimino e Renato
Foschi, Percorsi di storia della psicologia italiana, Kappa, 2015, p. 26, ISBN
8865142162. ^ Antonio Dal Covolo, Roberto Ardigò. Dal sacerdozio all'ateismo ^
Ardigò su Chi era costui? ^ Ardigò e il sistema positivistico, dal sito della
Congregazione per il Clero del Vaticano ^ Luccio Riccardo, Breve storia della
psicologia italiana. Psicologia Contemporanea, Roberto ARDIGO', su
www.accademiadellescienze.it. URL consultato il 16 luglio 2020. ^ Numero unico,
Mazzini, giugno 1905, Milano). ^ Discorso commemorativo pronunciato sul
Monumento dei Martiri il 5 giugno 1882 in piazza Sordello. Dal giornale Il
Mincio, 11 giugno 1882. ^ Egregio Sig. Genovesi. Rispondo subito alla di Lei
lettera, che convengo interamente con Lei che dice giustamente che La
Massoneria in uno stato libero è un non senso: e che a combattere
l'oscurantismo è più efficace l'opera indefessa ed aperta di educazione e di
elevazione civile che non l'opera tenebrosa e nascosta di una setta: e che
coll'esistenza di questa la gran massa popolare non può che perdere la fiducia
nella giustizia pubblica del proprio paese, nell'idea che la massoneria sia poi
in fine una associazione di interesse pei soci a danno di quelli che non vi
appartengono. E fortuna per me che alle scomuniche sono avvezzo, e nulla temo
perché nulla spero. ^ Lettera del 20 febbraio 1879 in Lettere edite ed inedite,
a cura di W. Büttemeyer, 1° vol., 1990, p. 191. ^ Ardigò, Roberto - Il
Contributo italiano alla storia del Pensiero – Filosofia (2012) di Alessandro
Savorelli, Treccani ^ a b c Roberto Ardigò 1828-1920 (PDF ), su
lnx.societapalazzoducalemantova.it. URL consultato il 17 novembre 2014
(archiviato dall' url originale il 29 novembre 2014). ^ La cultura
filosofica italiana dal 1945 al 1980, Lampi di stampa, 2000, p. 159 ^ Wilhelm
Büttemeyer, Roberto Ardigò e la psicologia moderna, Firenze, La Nuova Italia,
1969 ^ Veniero Accreman, La morale della storia, Guaraldi, Giovanni Landucci,
Roberto Ardigò e la "seconda rivoluzione scientifica", ed Franco
Angeli, RIVISTA DI STORIA DELLA FILOSOFIA, 1991 ^ a b c d Marco Paolo Allegri,
Il realismo positivo di Roberto Ardigò. L'apogeo teoretico del positivismo
Archiviato il 10 dicembre 2014 in Internet Archive., pagg. 24-25 ^ a b A.
Groppali e G. Marchesini, Nel 70º anniversario di Roberto Ardigò, ed, Bocca,
Torino, 1898 ^ Roberto Ardigò, La psicologia come scienza positiva, Viviano
Guastalla editore, Mondovì 1870, 169; 177-8 ^ a b Froebel ^ a b c d Marco Paolo
Allegri, Il realismo positivo di Roberto Ardigò. L'apogeo teoretico del
positivismo Archiviato il 10 dicembre 2014 in Internet Archive., pagg. 34-40 ^
Mario Quaranta, Etica e politica nel pensiero di Roberto Ardigò, “Rivista di
storia della filosofia”, 1/1991, 127-44, 142. ^ Quaranta, op. cit. pag. 129 ^ a
b Anna Lisa Gentile, Il positivismo di Roberto Ardigò: un'ideologia italiana,
in “Rivista di storia della filosofia” 1/199 pag. 158 e segg. Bibliografia Modifica
Questo testo proviene in parte dalla relativa voce del progetto Mille anni di
scienza in Italia, opera del Museo Galileo. Istituto Museo di Storia della
Scienza di Firenze (home page), pubblicata sotto licenza Creative Commons
CC-BY-3.0 Davide Poggi, La coscienza e il meccanesimo interiore. Francesco
Bonatelli, Roberto Ardigò e Giuseppe Zamboni, Padova, Poligrafo. Dizionario di
filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Modifica su Wikidata
Roberto Ardigò, su sapere.it, De Agostini. Modifica su Wikidata Alessandro
Bortone, ARDIGÒ, Roberto, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 4,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana,Opere di Roberto Ardigò, su openMLOL,
Horizons Unlimited srl. Modifica su Wikidata (EN ) Opere di Roberto Ardigò, su
Open Library, Internet Archive consultabili nell'Archivio di Storia della
Psicologia, su archiviodistoria.psicologia1.uniroma1.it. URL consultato il 16
dicembre 2011 (archiviato dall' url originale l'11 luglio 2012).
Alessandro Savorelli, Il contributo italiano alla storia del Pensiero:
Filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Altre opere: Pietro Pomponazzi.
La psicologia come scienza positiva. La formazione naturale del sistema solare.
L’inconoscibile di H. Spencer e il Positivismo. La religione di T. Mamiani. Lo
studio della Storia della filosofia. La Morale dei Positivisti.
Relatività della Logica umana. La coscienza vecchia e le idee nuove. Empirismo
e scienza. Sociologia. Il compito della filosofia e la sua perennità. II
fatto psicologico della Percezione. Il Vero. La Ragione. La scienza
sperimentale del pensiero. Il mio insegnamento della filosofia nel R. Liceo di
Mantova. L’Unità della coscienza. L’Inconoscibile di H. Spencer e il
Noumeno di E. Kant. Il meccanismo dell’intelligenza e l’ispirazione geniale.
L’indistinto e il distinto nella formazione naturale. Note eticosociologiche —
Articoli pedagogici. Il Pensiero e la Cosa. L’idealismo della vecchia
speculazione e il Realismo della filosofia positiva. La formazione naturale e
la dinamica della psiche. Saggio di una ricostruzione scientifica della
psicologia. La perennità del Positivismo. Monismo metafisico e monismo
scientifico. La filosofia nel campo del sapere. Atto riflesso e atto
volontario. I tre momenti critici nella storia della Gnostica della filosofia
moderna. Il sogno della veglia. Tesi metafisica, ipotesi scientifica e fatto
accertato. Il quadruplice problema della Gnostica. Guardando il rosso di una
rosa. La nuova filosofia dei valori. Una pretesa pregiudiziale contro il
Positivismo. L’Inconscio — A. Comte, H. Spencer e un positivista italiano.
Infinito e indefinito. Fisico e psichico contrapposti. Repetita juvant. I
presupposti Massimi Problemi. Il Positivismo nelle scienze esatte e nelle
sperimentali. L’individuo. Estema, idea, logismo. Le forme ascendenti della
realtà come cosa e come azione e i diritti veri dello spirito. Lo spirito
aspetto specifico culminante della Energia in funzione nell’organismo animale.
La meteora mentale. Filosofia e positivismo. La ragione scientifica del dovere.
La filosofia vagabonda. L’intelligenza. Altre opere: SCRITTI VARI
RACCOLTI E ORDINATI DA GIOVANNI MARCHESINI Le Monnier scuola - nuovo
FIRENZE FELICE LE MONNIER. Prefazione; opere filosofiche; Polemiche; La
confessione; Sulla storia della confessione esposta nel n. 181 della Favilla
dal sig. Eugenio Pettoello. Il prete professore Ardigò e la confessione.
Calunnie. Risposta del prete professore R. Ardigò alla lettera del sig. Luigi
De Sanctis inserita nel n. 217 della Favilla. Dichiarazione ai lettori. Lettera
dell'illustre De Sanctis. Articolo comunicato. La psicologia positiva e i
problemi della filosofia. Dialogo. Il filosofo e un ignorante. Il liberalismo
di R. Ardigò. Contro la massoneria. R. Ardigò e A. Fouillée. Discorsi.
Garibaldi. Discorso di commemorazione. Per il 70° anniversario. Le Ancelle
della carità al Civico Spedale. I programmi e l’ordine dell’insegnamento. Il
cultore vero della scienza. La gerarchia dei godimenti. La libertà del
sentimento religioso. L’unità internazionale. La filosofia col nuovo
regolamento universitario. La scuola classica e la filosofia. Divisi dalle
religioni, la scienza ci riunirà. Il dolore morale nella società. La
polarizzazione del lavoro mentale. La breccia di Porta Pia. Il significato
morale del XX Settembre. Le immagini rovesciate. Il metodo del lavoro
intellettuale di R. Ardigò. La formazione inconscia delle convinzioni. La
condizione fisica della coscienza. Lettere 100%.svg Lettera 1
100%.svg Lettera. Giudizi e pensieri. Giudizi. Pensieri. Versi. Uno
scherzo in un'ora allegra. Intecta fronde quies. Venti canti di H. Heine.
Schöne Wiege meiner Leiden. Warte, warte, wilder Schiffsmann. Berg und Burgen
schaun herunter. Der Traurige. Zwei Brüder. Die Grenadiere. Auf Flügeln des
Gesanges. Liebste, sollst mir heute sagen. Mein süsses Lieb, wenn du im Grab.
Ich weiss nicht was soll es bedeuten. Mein Herz, mein Herz ist traurig wie der
Mond sich leuchtend dränget auf dem Hardenberge. Der Hirtenknabe. Nachts in der
Kajüte. SOCIOLOGIA. Dedica. Avvertenza. Il potere civile; La reazione
dell' individuo e quella della società; il Diritto intemazionale; Machiavellismo
politico; l’ideale della società umana; le giustizie sociali; L'Idealità
sociale impulsiva del volere individuale è una giustizia; L'Idealità
sociale è una giustizia potenziale; diritto positivo e diritto naturale; triplice
ufficio del potere; giustizia e diritto nella convenienza; la giustizia; la Giustizia
legale (seconda forma dell' ufficio del Potere) è una gradazione
evolutiva superiore di un indistinto inferiore da cui emerge; dall'indistinto
della prepotenza (principio egoistico) nasce il distinto della
giustizia (principio anti-egoistico) che è la risultante dinamica di
quella; la formazione della giustizia nel senso proprio va colla
formazione del potere onde è l’espressione; la giustizia è la forza
specifica dell' organismo sociale; la gradazione della giustizia;
dovere giuridico e dovere morale; obbligatorietà e trascendenza
imperativa del dovere nella coscienza morale; atteggiamento vario della
giustizia e coefficienti relative; funzione della giustizia morale; l'autorità;
criterio positivo del diritto e del dovere; i diritti dell'uomo
sopra le altre cose della natura; i diritti dell'uomo sopra se
stesso; suicidio; il diritto d’autorità; l’autorità nel diritto naturale; la
dottrina positiva dell'autorità e del diritto è liberale; Gl’attti benefici
nell' etica tradizionale; gl’atti benefici nel positivismo; falsa apparenza di paralogismo;
la virtù, il merito, il premio; l’ordine morale; il bene sociale; il fatto del
diritto (diversità, specie, coordinazione) e il suo ideale; il diritto
è in virtù di se stesso; il diritto è la facoltà del bene sociale;
l'esercizio del diritto è la funzione del bene sociale; il diritto costa
una contribuzione; le unità minime, le unità medie e l’unità massima nel corpo
sociale; la selezione interorganica nella evoluzione formatrice
dello Stato Come risulti spiegata la prima forma dell' ufficio del
Potere, e anche la terza: e stabilito r assunto del libro
Conclusione. SOCIOLOGIA Atxyj^ 8vo|ia oòx dEv ^Seaav, el xaOxa fJ “Non ci
sarebbe l’idea della giustizia se non fossero i supplizi.” -- Eraclito di Efeso
presso Clem. Strom. IV, j.. ALL’ILLUSTRE PROFESSORE ENRICO FERRI IL QUALE
PRIMEGGIANDO FRA I MAESTRI DELLA SCIENZA NUOVA DEL DIRITTO PENALE SI COMPIACE
DI RICORDARE CHE ALL’INDIRIZZO POSITIVO DELLA SUA MENTE FECONDISSIMA NON FURONO
ESTRANEE LE LEZIONI DEL SUO ANTICO MAESTRO L'AUTORE DEDICA QUESTO SAGGIO IN
SEGNO DI FRATERNO AFFETTO. AVVERTENZA. Questa sociologia costitue una parte
della morale dei Positivisti. Fu in ogni parte o ritoccata o rifatta. Non vi si
trattano tutte le questioni introdotte e discusse generalmente nei saggi di sociologia;
ma solo la fondamentale: quella cioè della formazione naturale del fatto
speciale caratteristico dell' organismo sociale, ossia della giustizia. E,
relativamente a questo fatto, non dà una riproduzione pitc meno manipolata
delle idee messe in voga dai filosofi più celebrati di questa materia.
Qualunque ne sia il valore, chi scrive presenta qui il frutto della sua
riflessione solitaria; e non recente, ma di vecchia data, e già matura fin da
quando lo esponeva ai filosofi di Mantova, pei quali divenne germe e stimolo ad
elaborazioni ed applicazionidi merito nel campo della filosofia. Restringendosi
poi la trattazione, come qui è divisato, al fatto della giustizia, con ciò la
sociologia tiene a mantenersi nel campo, che le spetta in proprio, e pel quale
riesce una disciplina a sé e distinta da tute le altre. È un errore capitale quello
comunissimo di fare della sociologia un ammasso di tutte le dottrine
riguardanti i fenomeni svariatissimi, che suppongono l’ambiente della società
umana, A tale stregua la cosmologia dovrebbe constare di tutte le dottrine
riguardanti i fenomeni svariatissimi, che suppongono l’ambiente dell’universo
visibile. A questo modo si dà ragione a quelli che persistono a *negare* alla
sociologia filosofica la qualità di disciplina autonoma. Una sub-disciplina
filosofica è un tutto a sé, che si pone e si distingue da quello di tutte le
altre, come la specialità del fatto che essa considera. E, nel caso nostro, la
sociologia filosofica, o la psicologia filosofica dell’intersoggetivita, si
pone e si distingue, come la specialità del fatto della giustizia, nel quale è
la ragione diretta dell'organismo sociale; a quel modo che nel fatto della
gravitazione è la ragione diretta della mutua dipendenza delle masse astrali,
considerata dalla cosmologia filosofica. Così, essendoci il fatto Fisico si dà
la Fisica; essendoci il fatto chimico si dà la chimica; essendoci il fatto
psichico, si dà la psicologia filosofica, e via discorrendo per ogni
sub-disciplina. Si restring la presente trattazione allo studio della
formazione naturale della giustizia, e limitandosi a considerare il fatto di
essa in generale, e non estendendosi a considerarlo in particolare nelle molte
e diverse forme svariate, che si munifesiano, funzionando la giustizia nelle
differenti comàiìmzioni secondarie pnllulanti ed armonizza nèi nella totalità
malto complessa dell’organismo sociale. Ed è solo in qneslo senso, die fuesta
trattazione non aòòraccia tutto r amèito della So- etologia j. co7icernendo
solo la sua farle introduttiva e fondamentaie. Esaurita la prima edizione di
questo quarto Volume delie Opere filosofiche, e anche la seconda, nella quale
tra stata introd^itta qualche piccola correzione ed aggiunta, colia presente
terza questa Sociologia comparisce nella sua edizione quinta. Questa
trattazione deWdi Sociologia suppone e completa quella della morale dei
positivisti. La suppone, in quanto nella morale medesima è presentata l’analisi
della attitudine etico-civile umana, ed è esposta la teoria positiva della responsabilità
sotto tutti i suoi aspetti e rapporti. La completa, in quanto studia la
formaziofie della attitudine etico-civile suddetta. Specialmente sotto V di--
spetto e il rapporto della sua obbligatorietà si interna che esterna. Ma questa della sociologia è poi, come tale,
una trattazione distinta da quella della morale. La morale ha per oggetto suo
speciale e proprio la attitudine etica e quindi la virtu individuale. La sociologia
ha per suo oggetto la costituzione della società civile e quindi la gitistizia
che ne è la funzione caratteristica. Il punto di partenza del nostro
ragionamento è la questione proposta dalla morale dei posttivisti. Il concetto
della responsabilità (de- finito precedentemente come l'astratto delle
sanzioni, onde la società reagisce, rintuzzandola, contro l’azione propriamente
umana individuale) fosse manchevole, non estendendosi quanto la moralità, e
quindi fosse da ripudiarsi. E ciò per la considerazione che sembrerebbe così la
responsabilità riferirsi solamente agli atti intesi nel concetto stretto del
giusto, cioè ai pochi atti esterni, aventi importanza per l’ordine sociale,
commessi in misura e in circostanze determinate, discorso basta notare il
fatto, la cui spiegazione si lascia alla fisiologia. Come l’apparato nervoso
delF organismo biologico vi si forma a poco a poco per naturale svolgimento
e trasformazione di una parte degli elementi prima omogenei della sostanza
viva, cosi l'apparato del P<:7/^r^ nell’organismo dello stato vi si forma a
poco a poco per naturale selezione ed adattamento dì alcuni fra gli individui
del *consorzio* umano informe primitivo. Del pari, come la funzione speciale
dell' apparato nervoso si è in esso determinata per Io svolgimento e la
trasformazione della attività vitale generica della sostanza animale,
cosi la specialità della reazione del potere non è altro che una
distinzione, operatasi a poco a poco e di mano in mano che andava
formandosi, della reazione istintiva comune degli individui eslegi del *consorzio*
umano primitivo. E, come l’attività nuova speciale sovrapposta e dominante
dell' apparato nervoso dell'animale superiore sviluppato non vi sopprime
l’attività iniziale semplice e comune del materiale biologico, la quale vi
persiste allato e al disotto dell' attività nervosa, che la regola,
così la reazione del potere, svoltasi naturalmente collo svolgersi dell'
organismo sociale, non vi sopprime la reazione istintiva detta sopra, la
quale quindi persiste nello Stato civile allato e al disotto della
reazione del Potere, che la regola. E cosi nello Stato vengono a
riscontrarsi contempo- è assai opportuno studiare ulteriormente, e
sotto /r^r df~ versi aspeliì, l'analogia notata fra T organismo dell'
ani- male superiore e quello della Società civile. Nel corpo di un
animale, anche di organizzazione superiore (e quindi massimamente in
quello dell' uomo), ogni parte viva ha in sé la ragione della propria attivita
puramente vegetativa, che ha luogo quindi indipendentemente dal concorso diretto
della funzionalità nervosa centrale. Ma questa funzionalità nervosa
centrale può intervenire ad impedire tanto o quanto la detta attività puramente
vegetativa della parte subordinata, A far ciò l’uomo, nel caso che la
parte si ammali e quindi la sua attività vegetativa si renda anormale,
si sforza (valendosi dell' apparecchio nervoso sovrastante alle
parti) di limitare l’anormalità e di contrastame gli effetti perniciosi
sulle altre. Mettiamo, sostituendo la medicina al cibo, o tralasciando di
mangiare e di adoperare se possibile la parte malata, o operando su di
essa, o staccandola in caso estremo dal resto del corpo. Quindi, l’intervento
della funzionalità centrale qui sarebbe puramente negativa; cioè solo di
impedire tanto o quanto l’attività vegetativa; la quale, nella parte,
sorge in virtù della propria natura dì questa, e non potrebbe esservi
creata ed infusa dalla medesima funzionalità centrale. Un fatto analogo si
osserva nel corpo della società civile. In questo corpo sì riscontrano due
generi di reazione sociale, quello della convenienza, proprio di ciascun
individuo e nascente direttamente dall’urto degli individui fra di loro,
indipendentemente dalla sovrapposizione ad essi del potere al quale sono
subordinati; e quello della giusto, proprio di questo potere. La
reazione di convenienza tra individuo e individuo tende con forza ad
assumere, e spesso assume effettivamente forme irregolari nocive e atte a
turbare in misura più o meno grande il buon assetto della società. Ed è
qui che intervitìne la reazione del giusto per parte del potere
sovrapposto. Ma con effetto solo di impedire e limitare, per quanto
possibile, la irregolarità della rea
zione della convenienza. Si che questa, funzionando pure per forza e legge
propria, non ecceda però la forma e la misura compatibile coll’andamento
migliore del corpo sociale. Le parti singole dell'animale sono
coordinate insieme mediante una funzione, che sì aggiunge alle particolari di
esse e loro sovrasta, dominandole e subordinandole nel sistema complessivo deir
individuo. Questa funzione centralizzatrice ha una efficienza negativa,
na ne ha anche una positive, ed è quella di produrre il concerto delle
parti nell’attività dell’individuo totale. Coè, la vìta propriamente
detta, elevantesi sulla semplice vegetazione di ciascuna parte, adattata
e resa ubbidiente alle esigenze della vita medesima, e quindi, per cosi dire,
ingentilitane. Cosi anche nella societa. Nella quale la funzione assodante
del potere si sovrappone a quelle degli due *associate*, ed è puramente
negativa o di limitazione per rispetto a queste, ma è positiva per rispetto a
se stessa, in quanto cioè si pone e produce un effetto speciale suo
proprio, che si risolve soprattutto in quello della moralizzazione dell'
uomo nello Stato civile. Annunciamo qui solo il fatto, la cui
spiegazione det- tagliata risulterà dal corso della trattazione. L'
individuo eslege è pronto ad impiegare a proprio vantaggio, come T
istinto naturale lo sospinge, tutta la forza materiale onde dispone; e ad
elidere e a togliere di mezzo il più debole. Il che impedirebbe la
formazione della società e il concerto civile delle sue parti. Perchè
tale concerto sia possibile è necessario che sopravvenga neir umano
consorzio una forza superiore, la quale, in nome e colla mira
dell'interesse di tutti, rin- tuzzi e contenga la forza esuberante e
trasmodante dei singoli più forti o irregolarmente operanti, e renda
cosi attuabile lo sviluppo e l’esercizio pieno e non impedito, e
tranquillo, e benefico delle attitudini di ogni elemento, onde è
costituito il corpo sociale. L' istinto della reazione individuale, per
sé, rappre- senterebbe il princìpio egoistico antisociale. Invece il
Po- ^ tere subordinante rappresenta T Idealità sociale ossia il
principio morale antiegoistico. L' individuo nella Società diventa morale
in quanto, ridotto dalla coazione della Giustizia a riconoscere il
principio antiegoistico rappresentato dal Potere associante, vi si
uniforma, ingentilendosi, rinunciando alla tendenza di usare la violenza
rispetto agli altri, contenendosi nei limiti permessi dal Potere,
cooperando con esso al Bene comune. La costituzione quindi
della Società umana, fino al grado di un' alta Civiltà, è possibile,
perchè la psiche umana, a preferenza di quelle dei bruti, è atta alla
for- mazione caratteristica della Idealità sociale, come è di-
mostrato nella Morale dei Positivisti (i). Nella macchina
fisiologica dell' animale non si dà potenza centralizzatrice delle parti
senza un organo di- stinto da esse, che ne sia investito e la possegga.
La forza centralizzatrice poi, in un animale, è in ragione della
massa di questo organo; come la massa stessa è in ra- gione del bisogno
(2) della forza occorrente per dominare le parti. E inoltre neir animale
la materia dell' organo centralizzante è presa dalle parti stesse
centralizzate per via di un processo di selezione naturale, come
dimostra la embriologia e la zoologia comparata. E secondo il
principio generale, da me tante volte ricordato, del pas- saggio dall'
indistinto al distinto (3). (i) Vedi specialmente il Capo
III della terza Parte del Libro primo; e la Parte seconda del Libro
secondo. Per questa espressione bisogno vedi la nota alla pag. 17
del volume ILI di queste Op, fil. Per la teoria dell' indistinto e
del distinto vedi la Fortnazione naturale nel fatto del sistema solare y
nel Voi. II di queste Op, fil. Cosi nella Società» La
coordinazione delle partì com- ponenti e la relativa reazione della Giustizia
non vi può aver luogo senza che vi sia costituito un ordine di per*
sone investito del Potere occorrente all'uopo, e fornito dei mezzi
sufficienti all' effetto. Tale ordine di persone si stabilisce nella
Società per la legge suddetta della selezione naturale, come già
ac- cennammo sopra; e di ciò parleremo in seguito più a
lungo, E r ordine sovraiieggiante nella Società deve essere
in ragione della forza occorrente a produrre Teifetto di contenere le
parti nella associazione dello Stato. Più in queste è la resistenza alla
coordinazione so- ciale, come nella barbarie o nella depravazione,
quando ha ana grande prevalenza T egoismo (o perchè le Idea- lità sociali
non sono ancora progredite nella loro forma- zione, o perchè abitudini
prave sottentrate le paralizzano), e più il Potere centrale è poderoso e
A'iolento, e ha quindi il carattere di Potere militare. E la Giustizia
allora as- sume la forma del fato inesorabile e crudele, che sforza
ad agire colla violenza necessitante. E, nel caso che manchi nel
Potere la forza suffi- ciente, la Società si trova in quello stato di
organizza- zione imperfetta che si osserva negli animali inferiori
aggruppati in masse, che sono piuttosto delle colonie che non degli
individui propriamente detti. Se invece poca o nuila è la renitenza
alla coordina- zione sociale, come nelle Società adulte, colte e
virtuose. quando le Idealità sociali negli individui sì sono già
for- mate e si mantengono impulsive, allora il Potere
centrale assume il carattere di un semplice arbitro morale fra gli
individui associati. E la Giustizia qui perde il carattere della
violenza^ assumendo invece quello di una sentenza vera ed equa, che
ottiene il rispetto e T assentimento col solo essere enunciata. E si
conferma ciò che dicemmo al- trove del regno del fato e del regno della
Giustizia fra gli uomini (i), E discende anche dalle cose
dette che, siccome il dispotismo militare è proprio dello stato della
barbarie, così invece il governo repubblicano è proprio dello stato
della cultura più compita; intendendo per questo governo (idealmente) un
governo formatosi per la selezione natu- rale più propria dell' uomo,
ossia razionale; e di persone funzionanti quasi come semplici arbitri
morali; e rap- presentanti U Idealità sociali ammesse dagli
individui associati, che sono disposti per ciò a rispettarle, senza
bisogno di coazione e di violenza. Le cose dette hanno una conferma da
ciò che si riferisce al Diritto internazionale, e servono a chia-
rirne ÌL fatto e la teoria. • 1 diversi Stati tra loro indipendenti
sono come degli (i) Nella Morale dei Positivisti, Per es. Gap. II
della Parte IV del Libro li, al numero i6 (pag. 399 del voi. Ili di
queste Op, fil, nella edijE. del tSSs^ e 432 dell' ediz. del 1893 e del
1901, e 432 Del- l' ediz, dei 1908). 3"«|P).individui
non co-ordinati l’uno con l’altro sopra i quali vige la ragione del più
forte, poiché l' idealità sociale co-ordinante non è realizzata in un potere
effettivo sovrastante, che si faccia valere; e quindi vi campeggiano sole
attività egoistiche dei singoli, staccati V uno dall' altro.
Ma, essendo il principio della socialità naturale al- l' uomo, come
per esso tendono a stare uniti gli individui nella Società più semplice
della famiglia, e questa e le altre unità sociali più o meno grandi
tendono a colle* garsi organicamente nelle unità dello Stato, cosi gli
Stati tendono poi a riunirsi fra di loro: e, parzialmente, in
gruppi di Stati; e, totalmente, nella unità universale della umanità
intera. E da ciò si vede che il Diritto di uno Stato è rela-
tivo al pari di quello dell' individuo, che ne fa parte; per la ragione
che, come il Diritto di questo viene a sof- frire una limitazione e una
rettificazione col prevalere su di esso del Diritto del Potere dello
Stato particolare che se lo subordina, così anche il Diritto di questo è limita-
bile e rettificabile nella sua subordinazione all'organismo più grande,
del quale tende a far parte. E cosi dicasi della Giustizia, che è
la funzione del Potere. Nella Giustizia del Potere si
riassumono tanto o quanto, diventando la Legge propriamente detta, o
al- meno (se non ne sono in tutto sostituiti) vi si appuntano come
tollerati, o permessi, o anche incoraggiati, certi atti di iniziativa
degli individui ispirati dalla Idealità so- ciale, tendenti a frenare o
vendicare la reazione istintiva irregolare: avverantisi già nel consorzio umano
non ancora sviluppatosi nell'organismo sociale civile, e per-
duranti in questo, o produeentisi nella condizione della Civiltà. Il
padre che governa la famiglia, il forte gene- roso che difende il debole,
V associazione che si prefigge scopi umanitari, e via dicendo, ne sono
esempi. Qui ab- biamo le virtualità della Giustizia, che ne
preparano r avvenimento, o la riforma miglioratrice, nella
Giustizia di fatto dello Stato. E questa Giustizia di fatto di uno
Stato è soggetta a limitazioni e rettificazioni ulteriori, per via di una
Giustizia più ideale, in quanto uno Stato può subordinarsi alle unità
sociali maggiori, delle quali dicemmo, e quindi alla Legge loro. Data
la riunione effettiva di più Stati in una unità sociale maggiore che li
comprenda, e della quale essi siano le parti componenti, in questa si
avrà il Po- tere distinto o specifico coordinante, del quale
abbiamo parlato sopra, col carattere della Giustizia, di fronte
alle funzionalità particolari degli Stati componenti; la reazione diretta
dei quali per ciò fra di loro avrà il carat- tere della Convenienza,
mentre V uno non potrà valersi della forza materiale contro T altro, sia
in sostegno del proprio Diritto, sia in offesa dell' altrui, ma dovrà
la- sciarne r uso al Potere internazionale sovrastante. Il
Diritto internazionale quindi non è effettivamente un Diritto, se non ha
il detto carattere, della Giustizia. E non ha questo carattere, se non
esiste un organo reale, colla forza sufficiente all'uopo, per esercitarla
pratica- mente. La storia ci presenta diverse forme di questo potere
intemazionale o egemmiico, che dir si voglia. Ma sempre più o meno
imperfette. Per esempio quello esercitato dalla madre patria sopra gli Stati
delle colonie, che ne furono fondate. O quello di uno Stato più
forte sopra altri più deboli soggiogati colle armi, o ridotti a
protettorato, o confederati, O quello di una autorità re- ligiosa sui
popoli che la riconoscono. O quello risultante da una lega, più o meno
precaria, per iscopi determinati. Le forme suddette, come già accennammo,
sono forme di egemonia imperfette, o per la loro ristrettezza e
precarietà, o perchè non abbastanza potenti per farsi valere, o perchè
una tirannia di im forte su molti deboli, E per ciò disfatte o da
disfarsi col progredire della Società. La quale invece tende ad una
consociazione più ideale degli Stati fra di loro. Ma a quale? Poiché, e
questa non deve essere per mezzo di uno Stato più forte che soggioghici
altri più deboli, e tuttavia la consociazione, colla Giustizia so-
vrastante relativa, non è una vera realtà organica se non esiste
effettivamente il potere che la eserciti. La risposta alla domanda
si ha in ciò che dicemmo costituire il governo più perfetto, ossia del
vero regno della Giustizia, cioè n^W Aròiiraio. L'Arbitrato o
l'Anfizionia internazionale. E come si va già disegnando sempre più
concretamente nel fatto dei trattati internazionali aventi forza
esecutiva, e del consenso moralmente giusto e fortemente efficace, che
si va stabilendo nel gruppo degli Stati più civili circa te
questioni sociali di interesse universale, e che influisce anche sopra la
legislazione interna dei singoli Stati, Solo — ac-
quando esista realmente, in forma ben determinata e colla forza
necessaria di farsi valere, questa Anfizionia, potrà esistere un Diritto
internazionale veramente tale. Dico, quando esista questa Anfizionia.
Fogniamo sul fare della autorità centrale elvetica o degli Stati
Uniti di America. E dico, quando questa Anfizionia sia un Potere veramente
efficace. Il che non può essere, se non pel pro- gresso sociale dei
singoli Stati dipendenti; come T Arbi- trato efficace fra gli individui
non è possibile che a misura che questi si perfezionano moralmente, come
dimo- strammo. E in effetto il progresso sociale degli Stati
ci- vili è già riuscito a stabilire delle legislazioni, o comuni, o
concordanti, colle rappresentanze e coi mezzi di esecuzione rispettivi, in
ordine ai rapporti di interesse non politico; come sarebbero il
Commercio, T Industria, la Navigazione» le Comunicazioni, i Diritti
privati, le Monete^ le Misure, la Scienza. E tende ad estendere sempre
più questo genere di Giustizia universale, sia colle Com- pagnie
internazionali riconosciute per imprese di interesse della Civiltà
generale, sia coi Congressi pure internazio- nali per altre sue esigenze,
come sarebbe p. e. l'Igiene. Lontana ancora è T epoca della unione
politica in discorso. Ma va facendosene sempre più forte V aspira-
zione, che è già T anima del partito politico dell' internazionalismo, e che
per la forza delle cose deve ormai essere confessata più o meno dagli
stessi governi. Queir epoca è lontana; ma arriverà una
qualche volta; e cioè quando nei singoli Stati saranno state rimosse le
cause che la ritardano: quelle cause precisa- mente che la Civiltà
attuale tende a rimuovere: e che saranno rimosse quando ogni Stato avrà
ottenuto il suo as- setto naturale giusto rispetto all' Estero nella sua circo-
scrizione etnografica, nella sua sicurezza, nel suo equili- brio cogli
altri Stati. Anche la questione del Machiavellismo politico trova la
sua risposta nei principj da noi indicati; riu- scendo cosi in pari tempo
a riconfermarne la verità. La reazione dell'individuo nella rozzezza
eslege del consorzio ancora selvaggio non è una reazione morale.
Non lo è, né di fatto, né di diritto. Non di fatto, perché il suo
movente é il puro istinto egoistico, pronto senza ritegno al danno
altrui, indiffe- rente all'uso di tutti i mezzi di riuscire: fino alla
violenza più spietata, fino all' inganno più vile e sfacciato. Non di
diritto, perché, mancando l'ordinamento so- ciale e la Giustizia del
Potere che ne é il prodotto, non si ha ancora la ragione, onde le
reazioni umane siano giudicate col criterio della moralità. In una
condizione analoga si trova il Potere nello Stato non progredito nella
Civiltà. In tale condizione si rivela nel Potere ciò che si chiama
il Machiavellismo. Il Machiavellismo del Potere può divenire, nel
fatto, una impossibilità e, nel diritto, una immoralità, solo in
forza di una Giustizia relativa che lo impedisca e lo ri- provi,
E come? Per rispondere bisogna distinguere la reazione del
Potere di uno Stato per rispetto al Potere di altri Stati, e quella del
medesimo per rispetto ai propri subordinati. Nel caso della reazione del
Potere di uno Stato per rispetto agli altri Stati è evidente che, se esso
non è tutelato nella sua esistenza da una forza internazionale equa
e^ nella sua tendenza a vantaggiarsi sugli altri e a soperchiarli, non è
frenato dalla medesima, non farà dif- ferenza tra mezzo e mezzo che giovi
al suo intento; e il danno altrui lo procurerà come bene suo
proprio. Il ricorrere ai mezzi opportuni all' intento, nel caso in
discorso, come non ne è impedito dalla Giustizia in- ternazionale, che
non esiste, cosi non è nemmeno ripro- vato, E per ciò il
^lachiavellismo del Potere nella sua rea- zione cogli altri Stati viene
ad essere una possibilità di fatto, senza essere ancora una immoralità di
diritto. Ciò è dimostrato storicamente nelle formazioni in-
ternazionali imperfette di epoche e regioni diverse. Valga r esempio dei
vari Stati della Grecia antica, collegati tanto o quanto fra loro, e
insieme isolati dalle genti non greche; alle quali, considerate per ciò
come barbare, ne- gavano i riguardi che pure si avevano fra loro. E
valga r altro esempio delle religioni abbraccianti diversi Stati, i
quali insieme per ciò di fronte agli altri, considerati siccome infedeli,
si credevano sciolti da ogni freno di procedimento. Nel caso della
reazione del Potere per rispetto ai propri sudditi è da considerare che
la sua condizione in uno Stato progredito nella Civiltà è ben diversa
da quella che la precede. Qui il Potere non è ancora divenuto la
semplice e- spressione del volere di tutti che lo pone, lo regola,
lo sancisce, come la Giustizia che lo rigfuarda. Ma è ancora solo
la conquista machiavellica di una casta, di una fa- miglia, di una
persona, lottanti per conservarlo con tutti i mezzi atti all' uopo di
fronte alle altre caste, ad altre famiglie, ad altre persone dello Stato
medesimo, con una reazione quindi come tra individuo e individuo
prima della costituzione definitiva di una Giustizia superiore al
di sopra di essi. Nel caso in discorso è notevole il fenomeno del
concetto della Giustizia divina, che si pensa sovra- stare alla stessa
persona del Principe (come spiegheremo in seguito); in modo che le sue
azioni, quantunque fuori d* ogni Legge, tuttavia vengono considerate dal
punto di vista della moralità: onde il suo Machiavellismo, persi-
stendo di fatto, viene a cessare in qualche modo di esi- stere di diritto.
Questo fenomeno non è un argomento contro il nostro principio, ma a
favore di esso. La Giustizia perfetta accompagnante lo stesso svi-
luppo iniziale dell'organismo sociale, informa natural- mente la
coscienza di quelli che ne fanno parte. E que- sti, ignorando come si è
formata veramente, la immaginano una entità assoluta preesistente alla Società
e pro- pria del nume divino. E cosi la si pensa valere, nella lotta
fra i competi- tori del Potere, al di sopra e delle imprese degli emuli
e di quelle del vincitore. In effetto però il Potere conquistato
dallo stesso vin- citore lo emancipa dalla Giustizia, che esso esercita
sopra gli altri, e (massimamente se la lotta è eccitata da idee
sociali nuove) si fa autore di una Giustizia nuova che deroga quella
anteriore creduta divina; e questa per con- segfuenza non serve più quale
criterio di moralità delle azioni del Potere medesimo. Di che
luminosamente ci ammaestra la storia nei contrasti multiformi col
Potere sacerdotale sostituito da quello militare, e tra questo e il
civile che gli sottentra nella Civiltà più avanzata. Il conòetto
quindi della Giustizia divina né valse da sé a impedire nel fatto il
Machiavellismo del Potere, né a riprovarlo nel diritto. Parlando
però di impedimento del Machiavellismo non abbiamo inteso di un impedimento
assoluto, ma solo relativo. La forza della Giustizia, che si stabi-
lìsce nella Civiltà avanzata, anche al di sopra del Potere di uno Stato,
ne impedisce il Machiavellismo tanto o quanto; ma non mai affatto. La
cosa qui è precisamente come nelle reazioni ini- que tra cittadino e
cittadino, che la Legge dello Stato tende ad impedire: ed impedisce
realmente tanto o quanto ma non mai del tutto. Dalle cose dette
importa soprattutto che si raccolga V importanza suprema, in ordine alla
moralità, dello sviluppo dell' organismo sociale sopra indicato. Come
accennammo (e lo dimostreremo più largamente in seguito) lo sviluppo del
consorzio umano nello Stato ha per effetto la moralità privata. La
Civiltà che per- feziona r organismo dello Stato all' interno, e
promuove r associazione civile degli Stati ha per effetto la moralità
politica. La Giustizia (e quindi la Responsabilità, che è un suo
correlativo) non è perfettamente tale nell'organismo civile se in questo non si
ha la libertà ù.^\\^ parti coordinatevi, e la distinzione netta del
Potere e delle sue attribuzioni. Importa fissare in modo
preciso in che consista, teo- ricamente, la libertà. La
libertà consiste in ciò, che la parte coordinata neir organismo sociale
vi possa funzionare secondo la di^ sposizione naturale onde è atta a
funzionare. E, in base a tale disposizione, imprescrivibilmente. E, tanto
relativamente a se stessa, quanto nel reagire all' azione collaterale delle
altre parti. S' intende bene che la disposizione naturale onde
la parte è atta a funzionare, traente con sé il diritto impre-
scrivibile alla funzione relativa, deve essere quella del- l' uomo
socialmente perfezionato; e quindi in tutto razionale in ordine alla convivenza
e alla collaborazione cogli altri nel consorzio civilmente perfetto. Ma
la reazione della parte verso le altre deve essere tale che non le
impedisca. Che altrimenti si avrebbe eli- sione di attività nelle parti
impedite, e quindi lesione in queste della loro libertà. È
questa una condizione essenzialissima perchè esista realmente
nell'organismo sociale la libertà vera e per- fetta delle sue
parti. Ora tale condizione importa che la reazione della
parte sulla parte si limiti a quella della pura Conve- nienza, che
esclude la violenza dell' uno suir altro. E cosi questa esclusione,. ossia
questo limite nega- tivo, viene ad essere essenziale al concetto della
libertà. Sicché questa è determinata positivamente dalla attività
intrinseca dell' operante che ne è fornito, e negativamente dalla
rimozione della violenza estrinseca che la impedi- rebbe nella sua sfera
di coordinazione. Il limite negativo suddetto della libertà ne
porta seco di necessità anche uno positivo, per la ragione che la
rimozione degli impedimenti estrinseci alle libertà delle parti non si
può ottenere se non mediante la costituzione di una forza superiore a tutte,
sufficiente all'uopo. La coazione, colla quale questa forza deve
reagire, per lo scopo detto, sopra le parti subordinate, non eli-
mina la libertà, come sarebbe la coazione tra parte e parte.
Come notammo sopra, la coazione della parte come tale è egoistica,
e quindi a vantaggio della parte che la esercita e a danno della parte
che la soffre; mentre la coazione del Potere sovrastante alle parti è
antiegoistica, vantaggiosa alla Società, e quindi diretta a salvare
nella integrità della sua attitudine e funzione la disposizione
naturale di ogni sua parte. La forza superiore del Potere essendo
richie- sta dalle esigenze delle stesse libertà delle parti subor-
dinate» queste devono concorrere a costituirla con una parte della loro
attivitàt sottoponendola quindi alla ne- cessità della organizzazione
sociale. Qui, come dicemmo, abbiamo un limite positivo della
libertà delle parti costitutive della società; ma, siccome è posto da
esse liberamente (mentre l'organizzazione so- ciale è una spontaneità
naturale del consorzio umano nel quale si produce)» allo scopo di
sussistere, torna poi sem- pre che la libertà delle parti medesime rimane
on primo ed un assoluto da cui tutto in ultimo dipende nella
società. Dal bisogno stesso della libertà adunque di- pende
anche il Potere subordinante. E con ciò è legiitimaiù. E quindi anche
determinato in ciò che deve essere. Determinato nel corpo che ne è
investito, il quale non deve essere una delle stesse parti coordinate,
perchè con ciò essa si troverebbe nel caso sopra indicato ed e*
sclusOf della parte che impedisce V altra* Determinato nella azione
che deve esercitare, che è quella precisa richiesta dai due limiti «opra
detti, cioè^ quello di porsi, onde essere in caso dì funzionare, e
non più; e quello di impedire la violenza della parte sulla parte,
e non più- Ciò posto r ideale della Società umana richiede le
ragioni che seguono. L' autonomia perfetta delle parti, che cioè ognuno
sia veramente un arbitrio, come dicemmo nella Morale dei Positivisti (i).
E precisamente quel tanto che si trova di poter essere realmente.
Secondo. Nessuna esecutività diretta o violenta del volere dell'
una sull' altra. Sicché la reazione loro sia quella della Convenienza,
scevra da costringimento ma- teriale. Terzo. Costituzione
distinta del Potere, al quale solo competa la esecutività coattiva sopra
le parti subordinate. Quarto. U ordine del Potere derivante dal
corpo dello Stato per selezione naturale degli ottimi, in dipen-
denza dal volere stesso delle parti che vi si subordinano; e in virtù
delle Idealità sociali proprie delle stesse, e quindi non altro che allo
scopo della tutela delle auto- nomie coordinate nella Società, e della
stessa loro coor- dinazione nella medesima. Quinto. Giusta e
stabile organizzazione e subordina- zioue delle parti corrispondente alla
stabile giusta orga- nizzazione ed efficacia d' azione del Potere. Ma
il fatto concreto delle Società storiche del- l' umanità si presenta
assia vario e complesso. E lo stesso (i) Libro I, Parte II, Capo IV, (Pag.
113 del voi. Ili dì queste Op, fU. nella ediz. del 1883, 118 della ed.
del 1893 e del 1901, 122 della ediz. del 1908). Ideale generico di
queste Società non sì può rettamente comprendere senza lo studio diretto
del fatto medesimo. E noi qui lo tenteremo, prendendo le mosse
dalla stessa analogia, alla quale ricorremmo sopra, tra V orga-
nismo sociale e V organismo biologico. Nelle specie infime degli animali le
parti del corpo sono omogenee ed indistinte, o pressoché tali. E
somiglia a questo indistinto preorganico della zoologia r indistinto
preorganico sociale delle truppe o coacerva- zioni disordinate delle
popolazioni selvaggie. Nelle specie animali che seguono alle infime
nella scala zoologica si ha una prima distinzione di formazione:
cioè una moltitudine di parti distinte, congiunte insieme in colonie,
nelle quali non è ancora costituito un apparato speciale distinto unico
atto a subordinarle insieme nella unità più perfetta dell' individuo. E a
ciò somiglia il fatto dei primordi di una formazione sociale, nei
quali, sul suolo medesimo e coi soli rapporti della vicinanza, e
della parità maggiore o minore delle idee, dei costuiri e della
discendenza comune, si trovano a contatto, in un certo numero, le tribù o
i pìccoli Stati indipendenti gli uni degli altri. Nelle
specie animali superiori, per una distinzione ulteriore (onde si forma la
diversità dei tessuti e uno di questi, il nervoso, resta con una speciale
superiorità verso gli altri in quanto, formando un sistema solo di tutte
le sue diramazioni nate in ogni parte, associa cosi colla u- nità
del suo lavoro i lavori di tutte le unità singole su cui domina), si
arriva alla unità organica propriamente detta, che non è più quella della
massa informemente coacervata, né quella delle semplici colonie delle
unità distinte, ma quella dell' individuo complete, E somiglia a
questa distinzione progredita quella della Società ci- vile, formatasi in
seguito alla distinzione delle tribù in caste, e al predominio della più
forte e intelligente sulle altre, e alla trasformazione successiva della
sua tirannia nel Potere regolare, moderatore delle unità sociali
con- federate. Nel processo evolutivo di distinzione della
formazione biologica l’apparato, onde si unificano le parti neir
organismo assai complesso dell' animale, sorge dalle intimità della
sostanza viva. La quale però non risente l’effetto proprio dell' apparato
stesso, uscito dal proprio seno, se non a misura che si è formato
effettivamente. Lo stesso avviene nel processo evolutivo di
distinzione della formazione sociale. Il Potere subordinante, e
quindi ciò che si dice la Legge e la Giustizia, e la relativa Re- sponsabilità
dell' individuo verso di esse, nasce dalla stessa virtù intima delle
parti associate; ossia in ultimo, degli individui umani. E accennammo già
come; e spie- gheremo più a lungo in segfuito. Nasce cioè in virtù
delle Idealità sociali (i), che sono un fenomeno psichico pro- prio
dell' individuo. Ma r individuo non ne ha coscienza distinta se
non dopo che, pel processo naturale indicato, e inconscia- mente
per lui, il Potere stesso si è costituito. Ed ecco come l'
individuo è il fattore della Legge, della Giustizia, della Responsonilità;
e, nello stesso tempo, (i) Su ciò verte in generale tutto il Libro I
della Maiale dei po- sitivisti, e in particolare il suo Capo III della
Parte III. queste suppongono l’evoluzione sociale già avvenuta, e
vi sono risentite siccome la correlazione dell' individuo subordinato col
potere sovraneggiante. E con ciò siamo ora in grado di rilevare
ancora m.e- glio, e una volta di più, la verità, già illustrata
nella Morale dei Positivisti (i), del concetto della morale degli
antichi e di Aristotele in ispecie, che la consideravano correlativa
essenzialmente alla Società formata; e la fal- sità del concetto
ascetico-scolastico, che la considera sic- come indipendente dalla
Società stessa, fondandosi sul fenomeno sopra indicato (2) del concetto della
Gitistizia divina. Ma la coordinazione e subordinazione, nel corpo
sociale come neir animale, e in qualunque altra unità or- ganica
naturale, non è cosi semplice quale, per chiarezza e preparazione del
discorso ulteriore, sopra abbiamo supposto. Non è cosi semplice. Vale a
dire non è puramente un certo numero di parti, proprio eguali ed
equipollenti, concertate per la dipendenza diretta unica e sola di
o- gnuna da un centro immediato di tutte unico e solo; come, per
esempio, i raggi di un cerchio dal punto di mezzo, dal quale si dipartono
uniformemente con ugua- glianza di lunghezza e di divergenza. E
invece immensamente più complessa. Gl’elementi fondamentali ed ultimi del
corpo so- ciale sono gli individui umani, i quali formano, in
gruppi di pochi, degli organismi sociali elementari distinti;
que- (1) Capo V della Parte III del Libro I. (2) N. 6 del l III.
sti piccoli organismi elementari poi si coordinano come parti di
associazioni e di organismi superiori; i quali alla loro volta di nuovo
si aggruppano in complessi maggiori. E la serie di tali ordini maggiori,
che ne abbracciano dei minori, è ben lunga. Come è anche il caso
dell' animale superiore, soprat- tutto dell'umano, nel quale ogni arto ed
ogni viscere è già un complesso ottenuto per una certa serie di combi-
nazioni di gruppi minori; e gli arti e i visceri sono insieme collegati dai
centri del midollo spinale, al quale poi sono sovrapposti gli altri
centri superiori del cervel- letto e dei lobi cerebrali, dipendenti alla
loro volta dal- E qui possiamo venire a una conseguenza im- portantissima
circa i diversi aspetti che assume nella So- cietà civile ciò che dicemmo in
genere, la Giustizia; e quindi anche la Responsabilità. Data la serie delle
subordinazioni dette sopra, solo degli estremi si potrà dire che siano
assolutamente, T in- fimo, la piura Convenienza, e il sommo, la piura
Giustizia. Non COSI dei medii. Qualunque dei quali non sarà asso- lutamente, né
la Giustizia, né la Convenienza; ma con- incoata, e si compia solo
in virtù del Tribunale dello Stato. E cosi il Potere dello Stato, per
rispetto all' eser- cizio della Giustizia subordinata della associazione
particolare, no permette solo quello che non danneggia l'assetto generale della
Società o il Diritto dei soggetti in quanto questi sono enti, oltreché
della essociazione par- ticolare, anche in pari tempo della totale.
Il che fa sì che la Giustizia propria dei Poteri su- bordinati, col
progredire della Società, va sempre più av- vicinandosi a ciò che
chiamammo sopra V arbitrato, E che rispteade massimamente in quello
paterno del buon padre di famiglia. Spieghiamoci meglio.
Nelle popolazioni selvaggie l’individuo è vindice di se stesso, o dei propri voleri,
al di sopra dei quali non è costituito ancora, per la imperfezione della
associazione in cui vive, nessun potere giudicatore. E vindice dei propri
voleri, anche se violatori della libertà dell’altro. La costituzione di.
un Potere superiore. nelle Società progredite, che si assume la vendetta
delle violazioni della libertà individuale, togliendo la esecutività co-attiva al
*volere dell' individuo sopra l’altro*, assicura la libertà di ambi. Tanto
la cosa è cosi che, se per poco vien meno questo Potere superiore, torna
subito all' individuo la ne- cessità e quindi il Diritto della propria
vendetta. Come nel caso che una persona appartenente ad una società civile
si trovasse fra una popolazione selvaggia, o sopra una nave in alto mare e
quindi fuori della portata del Potere vendicatore, o assalito senza
scampo immediato da malfattori, o in un momento di anarchia dello Stato
in cui vive. Nel primo embrione di Società, in quello mettiamo di
una famiglia isolg-ta dal resto degli uomini, le contese tra i fratelli
le giudica e le vendica il padre, che ne è il capo naturale. E la sua
vendetta è illimitata e senza responsabilità verso nessuno.
Nessuno per ciò gli impedisce o gli contende il Di- ritto anche
sulla vita dei figli e della moglie. Non così però, coordinate che
siano le famiglie sotto un Potere superiore nella città che le abbraccia
in una società sola. In questa città il Potere superiore tende a
limitare il Potere del padre al puro necessario per l'esi- stenza, il ben
essere, la prosperità della famiglia come tale; e veglia a che il padre
non eserciti verso i suoi dipendenti altro Potere che questo, che però in
pari tempo concorre ad assicurare: e vendica su di lui ogni eccesso
od abuso del potere. E da ciò consegue naturalmente, che se ne restringa
sempre più la esecutività, e che si converta in semplice arbitrato; nel
quale può soprattutto, e da sé sola, per la propria impulsività morale,
la Idealità sociale, nella quale consiste la Legge, nel cui nome l'arbitrato
si esercita. Ed ecco quindi l’effetto naturale del progresso della
evoluzione sociale: salvare e garantire sempre più le autonomie
naturali. Stabilire sempre più distintamente il compito dei Po- teri
subordinanti; e impedirne gli eccessi e gli abusi. Rendere quindi
con ciò più evidenti le Idealità s(h ciali, e rafforzarne la impulsività,
e ridurle alla condi- zione di Poteri efficaci senza uso di violenza e
quali sem- plici arbitrati. Come più volte, e per varie g^ise,
dedu- cemmo sopra. Il quale eflFetto, che il Potere si converta
in semplice arbitrato, lo riscontrammo anche nello stesso Potere,
solo provvisoriamente supremo, di un singolo Stato. Solo
provvisoriamente supremo. Perchè notammo, che lo Stato tende a
coordinarsi naturalmente nei colle- gamenti intemazionali di più
Stati. E per la stessa legge; mentre dimostrammo, che il
Potere di uno Stato va sempre perdendo del violento, e avvicinandosi alla
natura puramente persuasiva della Idea- lità, che si impone da sé, in
conseguenza di una forza estema e superiore ad esso; cioè del potere
inter-nazionale, tendente ad impedire gli atti di lesa umanità nei
singoli Stati intemazionalmente collegati o altrimenti, e il loro
Machiavellismo. Come emerge poi luminosamente anche dalla storia
politico-sociale contemporanea. Un saggio storico eloquentissimo di
un Po- tere superiore convertitosi in semplice arbitrato si ha nel
fatto della Chiesa Romana, e in seguito all' abolizione di ciò che in
essa si chiamava il braccio secolare. Si verificò in questa
conversione, per questo lato, r Ideale della Società umana, sopra da noi
chiamato anche il regno (razionale) della Giustizia sottentrante a
quello irrazionale del fato; ossia il regno del concorso libero o
autonomico delle parti costituenti; e non eteronomico(\)y ossia p>er
violenza materiale esercitata sopra di esse da una forza, non morale, ma
bruta. E questo arbitrato sociale non è poi altro in fine se non lo
stesso arbitrato della volontà dell' indi- viduo sopra se stesso, onde
emana, come più volte di- cemmo. Ne emana, e quindi ne ha in
sé le ragioni costitu- tive. Nel medesimo tempo però, per le ragioni già
ripe- tute, lo stesso arbitrio individuale non finisce di diven-
tare ciò che deve essere (vale a dire una forza che muove per la
impulsività pura delle Idealità sociali), se non a misura che,
idealizzandosi nel modo anzidetto, si perfe- Circa r Autonomia e la
Eteronomia, vedi la Morale dei Po- siiivisti, Lib. I, Parte II, Capo IV
(Pag. 113 del volume III di queste Opere filosofiche nella ediz. del 1885,
118 della ed. del 1883 e del 1901, e 122 della previa edizione). seziona
il Potere sociale al quale V individuo è subordi- nato. Onde
poi lo studio dell' arbitrio sociale subordinante serve indirettamente a
far conoscere la natura dell'arbi- trio deir individuo umano.
E siccome lo studio da noi qui fatto dell' arbitrio sociale
subordinante ci ha condotto al concetto di una Legge© che si impone colla
sola evidenza della propria Giustizia, con ciò abbiamo una nuova prova
della nostra dottrina (esposta nella Morale dei Positivisti). L'idealità
sociale impulsiva del volere individuale è una Giustizia. Ed
ora poi dalle cose dette possiamo ricavare la conseguenza, alla quale
mirava tutto il lungo discorso fin qui fatto sopra la distinzione e la
genesi della Convenienza e della Giustizia. L' Idealità sociale è la
stessa Legge che si stabilisce nella Società. E la Legge è la Giustizia
in quanto im- porta una Responsabilità dei subordinati verso il
Potere. L' idealità sociale (impulsiva della volontà dell'
indi- viduo, com' è dimostrato nella Morale dei Positivisti) si
viene formando nella psiche dell' individuo convivente nella Società per
effetto di questa convivenza. Per ciò di- ciamo che r Idealità sociale è
infine nuli' altro che l'm- pronta, nella psiche singola di un dato uomo,
della Legge o del Volere sociale subordinante. Nello stesso luogo
indicato nella nota precedente. Da ciò consegne poi che l’Idealità
sociale nella psi- che o nella mente dell' uomo, in cui si è formata
nel modo ora detto, non si presenta come una semplice ve- rità
logica, dipendente da una propria speculazione teo- rica, ma si come
qualche cosa che si impone; cioè come una Legge che la domina da una
altezza superiore, e ac^ compagnata dalla minaccia di una Sanzione
vendicatrice; ossia, non come una semplice idealità qualunque, ma
come una Giustizia. Ed ecco scoperto il nostro gran difficile.
La Giustizia non può essere che la legge del potere subordinante: e
tuttavia la Idealità sociale, impul- siva del volere dell' individuo e
nascente in lui per la evoluzione intima e propria della sua psiche, è
pure una Giustizia. I due asserti parevano contradditorj; e
invece sono veri ambedue, accordandosi tra di loro e spiegandosi a
vicenda. Si spiegano a vicenda. Da una parte, non è possibile
il fatto della Legge del Potere subordinante senza il lavoro psichico dei
di- versi individui che compongono la Società. Dall' altra,
le stesse attitudini dell' individuo sono però massimamente gridate nel
loro funzionamento natu- rale dall' ordine delle cose della Società in
cui vive. E quindi le Idealità sociali dell' individuo devono
assumere nella sua mente la forma della Legge subordinante che
domina nella Società che lo involge: devono essere nella sua mente come
1' eco o la soggettivazione o il pensiero del fatto oggettivo reale
dell'ambiente che determina il suo lavoro intimo. Il valore
scientifico della detta soluzione della difficoltà propostaci è tanto
maggiore in quanto V indu- zione sociologica qui conferma pienamente V
induzione psicologica, che nella Morale dei Positivisti ci portò
alla medesima conclusione. Alla conclusione cioè, che la
morale individuale è es-- senzialmente dipendente dalla morale sociale; e
che VE- tica è un ramo della Politica, come diceva Aristotile,
ossia della Sociologia, come si dice adesso. E che il principio dei
Metafisici, che sia l'Etica che crei la Sociologia (e non il contrario),
è falso. Falso, come, in ogni altro ramo della scienza, il
cre- dere che il fatto complesso della natura sia determinato
direttamente dalle azioni indipendenti dei singoli compo- nenti, e non
che V azione di ogni componente sia essa stessa determinata dal suo
rapporto col resto della na- tura; come ho spiegato nel libro della
Formazione natila rale nel fatto del sistema solare (i), dove dimostrai
che la legge di una formazione naturale qualunque è questa: che un
fatto singolo è il punto nel quale si intersecano le due linee infinite
dello Spazio (o delle cose tutte quante esistenti) e del Tempo (o delle azioni
tutte quante succedutesi). E godo adesso di avere illustrato quella
legge gene- rale col rilevarne la verifica anche n^Wz. formazione
etica. La quale ha questo carattere, di apparire nella co-
scienza individua siccome una Giustizia. E la Giustizia implica un
ambiente esterno alla coscienza stessa, dal quale sia determinata. Del
quale principio poi (e gioverà notarlo qui ancora, quantunque, la cosa, V
abbiamo accennata altre volte precedentemente) è prova positiva diretta
il fatto storico (superiore a qualunque eccezione, e accertabile
nel modo più evidente) che nmt non fu possìòtle di ira- vare in una
coscienza individuale una Idealità elica, ossia un principio di
Giuslizia, di formazione inconsapevole, £he non corrispondesse al fatto
della Legge sociale real- mente riabilitasi neir amòiente nel quale la
coscienza stessa fu educata. Proprio come sopra nessuna bocca
d'uomo parlante fu mai possibile una parola inconsapevolmente appresa, che a
lui non abbia insegnato la So- cietà dei parlanti fra i quali
crebbe. E come in tutte le cose le diversità degli ambienti creano
le varietà e le specie delle individualità dipen* denti, cosi le Varietà
e le Specie eliche fra gli uomini sono create storicamente dagli ambienti
sociali vari e di- versi, ai quali essi appartengono; e per quella
stessa leg^ge dell’ordine e del Caso, che in ogni parte della na-
tura si verifica nella produzione delle Varietà e delle Specie delle
cose, come dimostrai nel libro testé citato. Che più? La stessa teoria dei
metafisicici for- nisce un argomento in appoggio della nostra.
Anche il Metafisico ha trovato nella coscienza umana Una serie di
Idealità, direttive del volere, con questo ca- rattere della Giustizia o
della Obbligatorietà; e ha argo- mentato che, per ciò stesso, ossia per
tale carattere della obbligatorietà, era giocoforza ricorrere a
qualchecosa di esterno alla coscienza medesima, onde quelle Idealità
le fossero dettate, e di fronte ad essa sancite. Se non che
il Metafisico non si è apposto nella de- terminazione giusta di questo
esterno. Ossia il suo esterno non è quello distinto e vero del
Positivista, che è quanto dire V ambiente sociale; ma T indistinto, anzi
il confuso della speculazione volgare antiscientifica, ossia dio. Non
si è apposto qui il Metafisico, come non si è apposto neir assegnare T
esterno onde dipende la produ- zione della pianta e dell' animale, che il
Positivista ha trovato essere la stessa natura (i) e il Metafisico ha
cre- duto fosse il volere diretto della divinità. L' Idealità etica
è una Legjge obbligante, ossia una Giustizia. Dunque, ha detto il
Metafisico, tale Idealità è prima una realtà fuori dell' uomo, ossia è un
pensiero di dio. E da esso è dettata in modo misterioso all' uomo. Vale
a dire lo stesso pensiero divino di quella Idealità è riflettuto nella
mente umana, come in uno specchio il raggio di luce che lo illumini da un
corpo per sé luminoso. L' Idealità etica è una Legge obbligante. E non
lo sarebbe realmente se non importasse una Sanzione. Dun- que, ha
detto il Metafisico, lo stesso dio ha decretato quella sanzione e la
applica in un modo misterioso. Un castigo misterioso è preparato in una
vita misteriosa av- venire a quelli che trasgrediscono la Legge
stessa. Non sarà inutile qui di avvertire che, pel significato dì
questa parola natura, mi riferisco alla spiegazione che ne do negli
'altri miei libri, e specialmente in quello della Formazione naturale
nel fatto del Sistema solare: e per la quale intendo solamente le
proprietà inerenti alle stesse cose. Sicché è ridicola affatto V
osservazione di certi miei accusatori superficialissimi^ che io con
questa parola non faccia altro che sostituire al soprannaturale, chiamato
dio dai metafisici, un* altro soprannaturale chiamato natura. Dal che si
rileva, che la Metafisica ha notato giu- stamente la relatività della
Giustizia data nella coscienza verso una esteriorità che renda ragione
delle qualità ca- ratteristiche della Giustizia medesima quali la
osserva- zione le riscontra nel fatto della coscienza stessa. Solo
ha sbagliato nel projettare questo fatto. Ha sbagliato la Metafisica nel
projettare V individuo cosciente sul fondo della esteriorità immaginaria
e fallace della divinità^ an- ziché su quello della esteriorità positiva
e vera della Società, Ha sbagliato qui la Metafisica, come
negli altri campi dello scibile la scienza vecchia in genere. Per
esempio, V astronomia tolemmaica, che aveva ragione nel distinguere i
fatti dei movimenti dei corpi celesti, ma errò nella loro projezione.
Proiettandoli essa secondo la ragione del suo falso supposto che la Terra
fosse immo- bile, le osservazioni vere condussero ad un disegno
falso del movimento cosmico reale. Per render vero questo di- segno
r astronomia copernicana non ha avuto bisogno di altro che di projettare
le figure medesime del movimento sidereo, notate dai tolemmaici, secondo
una ragione pro- spettica diversa; cioè secondo la ragione della
immobi- lità del Sole, e della mobilità della Terra intorno ad
esso. E così qui possiamo riconfermare il nostro asserto per ciò che
dicemmo in un capitolo della Morale dei Positivisti (i), dove accennammo
alla genesi storica della (i) Capo VII della Parte I del Libro I, n. 8
(Pag. 70 del Voi. Ili di queste Opere filosofiche nella ediz. del 1885,
72 dell' ed. del 1893 e del 1901, e 75 dell'ediz. del 1908).
stessa Idea della Giustizia divina nel terzo stadio della evoluzione del
sentimento religioso. L’Idealità sociale è gia Giustizia potenziale. La
Giustizia adunque, secondo le cose dette, ha due lati essenziali
correlativi V uno air altro; correla- tivi come r individuo e la Società. Due
lati: dalla parte della Società, ossia come un fatto verificatosi
persistentemente nel Potere che la eser- cita sugli individui dipendenti:
e per questo rispetto spe- cialmente si chiama Giustizia. E dalla parte
dell* indi- viduo nel quale è, non qualchecosa di statico, come nel
Potere, ma una potenzialità, ossia qualche cosa di dinamico: e per questo
rispetto specialmente si chiama Idea- lità sociale. Capitale
questo carattere della Giustizia o dell'Idea- lità sociale dell'
individuo. E positivamente certo: poiché corrisponde alla osservazione
del fatto. E che non si può spiegare se non per le vie onde qui lo
scoprimmo. E senza del quale poi è impossibile chiarire le diverse
forme delle reazioni sociali, e quindi delle responsabilità corrispondenti al
principj etici dominanti nella coscienza individuale. E in che consiste
questa ragione dinamica o questa Potenzialità? Ossia in che modo la
Giustizia nella co- scienza individuale è una Giustizia potenziale?
Nell’individuo non può esistere distintamente in un determinato modo il
concetto della Giustizia so- ciale obbligante, e correlativa ad una
Sanzione, se non per effetto sull'individuo stesso della vita sociale
com- plessiva, della quale esso faccia parte. Questo si: ma è pur
vero che, come la Società è V opera degli individui che r hanno
costituita, cosi la Giustizia che vi domina si deve in ultimo alle loro
disposizioni psicologico-morali, che ne sono la potenzialità
inconsapevole. Secondo. Una volta che la Giustizia sociale è
dive- nuta, pel processo naturale inconsapevole della forma- zione
della Società, un fatto statico atto ad informare di sé la coscienza
dell' individuo vivente sotto il suo re- gfime, questa coscienza concorre
a mantenerla nell'essere suo. E ciò più o meno consapevolmente. Così, per
esempio, il maestro di musica di una data epoca è in possesso della
sua arte perchè questa vi si era naturalmente maturata; e cosi potè
essere da lui appresa nella forma che vi aveva. Egli poi serve in pari
tempo a mantenerne la tradizione. La applicazione della Sanzione sociale
in virtù della detta consapevolezza viene ad essere reclamata dallo
stesso pensiero della Giustizia vivente nella coscienza in-
dividuale. E quindi la detta applicazione è una soddis- fazione
della stessa coscienza individuale. E tanto, che la Sanzione medesima
essendo applicata, mentre soddisfa il reclamo della coscienza
individuale, nello stesso tempo la rafferma e la rende più viva e
sentita, come osser- vammo nella Morale dei Positivisti (Libro II, Parte
IV, Capo II, n. 17 (pag. 400 e seg. del Voi. Ili di queste Opere
filosofiche nella ediz. del 1885, 423 dell' ed. del 1893 e del 1901, e
433 delPediz. del 1908). La coscienza individuale diventa per tal
modo giudice in primo appello, o potenziale, dei fatti e degli
ordinamenti della Socteià complessiva. E giudice delle parti coordinate
nella Società^ Settimo, E giudice di se stessa. Ed ecco, in
questa ultima cerchia, la Giustizia sociale divenuta Giustizia
etica. La Giustizia sociale cosi nell'individuo lo rende un giudice
potenziale verso tre termini: la Società stessa, le altre parti
coordinate (ossia ciò che anche si dice, il prossimo), e se stesso.
Come giudice potenziale verso la Società coopera nella produzione
del Potere e nella riduzione di esso alla sua forma giusta.
Come giudice potenziale verso il prossimo si atteggia nella
reazione che dicemmo della Convenienza. Come giudice potenziale
verso se stesso si manifesta nel fatto intimo del rimorso per la colpa e
della compiacenza morale per la virtù, Resta che si considerino un
poco queste tre specie di giudizi del tribunale individuale della
coscienza di ciascun uomo, E, per ora, la prima e la
seconda. E cominciando dalla prima, ossia del giudizio del- l'
individuo verso il Potere sovrastante. Nello sviluppo normale della vita
sociale la ragione della Autorità subordinante e la sua fissazione
in un Potere effettivamente affidato ad un dato ordine di persone va
producendosi di continuo inconsciamente (quan- tunque in modo
inegualissimo dall' uno all' altro) nella psiche dei singoli individui. E
perciò fu da noi detta sopra, non statica, ma dinamica. Vi si
va producendo di continuo secondo che la com- partecipazione precedente
degli individui stessi li ha messi in grado di procedere, dalla
formazione psichica acquistata inconsciamente nella matrice sociale
educativa, ad una formazione ulteriore. E con un lavoro, che
si svolge si nei singoli indi- vidui, ma nello stesso tempo, per la
comunanza della vita morale, si aiuta nel formarsi del lavoro simultaneo
degli altri. Inegualissimamente, abbiamo detto, nei singoli
indi- vidui. Ma colla consapevolezza del consentimento nella
formazione stessa della massa sociale. In modo che la formazione medesima,
quantunque inegualissima nei singoli, determina una tendenza com-
plessiva, che ha la potenza unica e grande corrispondente alla somma
delle individuali. Potenza che si attesta con un effetto
proporzionato: cioè colla creazione del Potere sociale, che
rappresenta quella Idealità sociale onde è l’effetto (come già di-
cemmo), o col perfezionamento del Potere già esistente, in corrispondenza
col perfezionamento delle stesse Idea- lità sociali. Per tal
modo il Potere, come è una manifestazione spontanea della vita sociale,
nella quale concorrono i sin- goli individui inconsciamente, e prorompe
quindi da tale inconscio concorso irresistibilmente, cioè pel processo
in- vincibile della natura, e diventa coscienza dell'individuo solo
dopo che si è manifestato nella realtà sociale pròdotta dal processo medesimo,
così è potenzialmente prima neir individuo. Ne viene, che V
individuo stesso, una volta che ha potuto cosi accorgersi dell' Idealità
sociale produttrice del Potere sociale (accorgersene cioè dopo la sua
manifesta- zione comune in esso operatasi), s' accorge insieme di
due cose. Che cioè la detta Idealità ha all' estemo per suo
corrispondente il Potere stabilito nella Società, ed è nata dentro di sé:
e che vi è nata col carattere di una Giu- stizia; vale a dire con quel
carattere col quale apparisce all' individuo quando arriva ad averne la
coscienza. E tanto, che l' individuo sfesso per tale Idealità
concepita come Giustizia giudica lo stesso fatto esterno del Potere:
ossia rileva come corrisponde o meno al principio di Giustizia della
propria coscienza, e pone astrattamente una Responsabilità dello stesso Potere
verso esso principio. Ed è ciò precisamente che notammo sopra,
parlando del Machiavellismo polìtico nel suo riguardo all' in-
terno, e del fenomeno storico del concetto della Giustizia divina. Il
che poi spiega un altro fatto della evo- luzione sociale. Quello cioè
che, a misura che una Società progredisce nella cultura e nella umanità,
diminuisce ciò che si dice il Diritto del più forte, é cresce ciò che
si dice il Diritto dell' uomo, e l’ordinamento sociale va sempre
più diventando elettivo. Che è mai il Diritto dell' uomo, che si
attesta di fronte al Diritto del Potere subordinante, se non la
sud- detta coscienza individuale della Idealità sociale, onde il potere
medesimo nasce e vige? Si: è proprio la suddetta coscienza individuale,
che ne è il giudice potenziale, po- nendolo, fissandone i confini, e
creandone la responsabi- lità in modo. astratto verso se stessa.
Questo Diritto, la coscienza lo trova in sé, in seguito al fenomeno
sociale corrispondente verificatosi; a quel modo che la coscienza
dell'arbitrio sopra le proprie gambe si ha solo dopo che si è fatto Tuso
volontario delle gambe medesime. E l’arbitrio la causa onde si
muovono le gambe; ma solo r effetto seguito del movimento rende avvertita
la coscienza di tal suo potere. E ciò è proprio di ogni
genere di coscienza. Per esempio, dell' arte. Che sa dell'arte l'uomo
prima di avere prodotto un' opera d' arte? U opera riuscita inconsciamente
estetica gli rivela il suo potere estetico. E dair opera medesima che 1'
uomo ricava la coscienza e la regola dell' arte in genere e la mossa a
progredire nel correggere e migliorare la precedente, e a
giudicarne. E di mano in mano che la coscienza della Idealità
sociale va facendosi nella generalità distinta e forte e impulsiva in
proporzione dell* atto umano, anche la creazione del potere si sottrae al caso
della forza brutale e si fa dipendente dalle deliberazioni dirette degli
indi- vidui associati: tanto più razionali e libere dalla violenza,
quanto più la massa degli individui stessi è umanizzata. Onde, se la
selezione naturale è la legge secondo la quale negli organismi in genere
si crea il loro apparec- chio centralizzatore, nell'organismo sociale,
per la crea- zione del Potere, che è il suo apparecchio centralizzatore. "TW^W^^PP^la
selezione naturale si specifica nella forma superiore della
ciezìofie, E anche in ciò toma il principio già ricordato del
procedimento progressivo della Società nel suo sviluppo: cioè del regno
della Giustizia razionale, che si va sempre più sostituendo a quello del
fato: analogo al procedi- mento generico della natura, che neir uomo
tanto più è diventata psiche quanto più ha cessato di essere cosa
meramente _^ica. Tutto ciò nel processo sociale di evoluzione normale. E
nell'anormale? Xeir anormale si genera un movimento periferico
contrastante la funzionalità centrale, che non armonizza colle Idealità
sociali già formate negli individui sotto- posti. Un movimento
contrastante che può andare fino alla distruzione della funzionalità
esistente, e quindi alla sostituzione di un'altra che armonizzi colle
dette Idealità, ossia colla Giustizia potenziale degli individui
medesimi. E questo il processo della rivoluzione. Succede in questa
un fatto analogo a quello fisiolo- gico della passione, nella quale una
eccitazione insolita invadente le parti subordinate dell' organismo
sopraffa i centri, sostituendo quindi il proprio impulso a quello
normale dell'apparato volitivo libero. E tale processo anormale della
rivoluzione, nel fondo, è quello stesso normale detto sopra della
evoluzione. Poi- ché anche in questo il Governo sociale è determinato
dal consenso delle parti subordinate. La differenza sta solo in
ciò, che nel processo normale della evoluzione il centro si presta,
cedendo, ad atteggiarsi secondo le esigenze della Giustizia potenziale; e
nell'anormale della rivohi- none no. In una parola, le forze che agiscono
sono le stesse, e gli eflFetti diversi dipendono dalla diversità
dei rapporti delle forze medesime. La rivoluzione sociale propriamente
detta dunque suppone una condizione avanzata di cultura mo- rale dei
membri della Società. Più è questa cultura morale e più è irresistibile
la forza rivoluzionaria. Ma più questa forza è irresistibile e più
la sua anione è moderata e procede per moto evolutivo anziché
sovversivo- In modo che, nel massimo della cultura, e quindi della
irresistibilità, e conseguentemente della modera- zione, il moto
rivoluzionario coincide con quello normale progressivamente riformante
detto sopra. Q, — Perchè non si incorra in un equivoco circa il
principio sopra stabilito, bisogna ricordare qui esatta- mente il
concetto da noi posto a fondamento di tutto il nostro discorso; ossia
quello della Giustizia potenziale, che infine è la stessa Idealfià
sociale an^iegoùHca; la quale nella umanità perfezionata è impulsiva
irresistibil- mente della volontà individuale. Onde r individuo
rivoluzionario per eccellenza è, non Tuomo di poca levatura, nel quale la
mente e il volere si acconciano a ciò che impera esternamente»
trovando tutto buono; ma il Sapiente, quale fu da noi definito
nella Morale dei positivisti (i). (D Libro I, Parte li. Capo IV, w. 17
(^ag^ lay del Voi. Ili di queste Ofté re filosofiche nella ed, dei iS85,
132 dell* ed* del J&93 e deJ 1901, e 136 dell" ed. del
1908). Il sapiente, come ivi dicemmo, è quello nella co- scienza del
quale le Idealità sociali antiegoistiche si sono espresse colla massima
evidenza, e acquistarono la mas- sima impulsività sul volere. Onde è ciò
che si dice un carattere. Esso è per questo nella impossibilità di
patteg- giare cogli ordinamenti riprovati dalla potenzialità della
Giustizia imperante nella sua coscienza: anche se il patteg- giare gli
porti soddisfazioni egoistiche. Ed è anche nella impossibilità di non
isforzarsi secondo la potenzialità me- desima; anche se il farlo gli
porti danni personali. Questi egli li incontra senza impensierirsene e
tranquillamente come Cristo e Socrate, e tutti i cosi detti martiri delle
idee. Sublimemente questo fatto nel cristianesimo primi- tivo è
stato espresso nel principio, che òisogna ubbidire prima a dio poi agli
tcomini, E il principio, come è chiaro dopo le cose dette, è in tutto
vero, quando alla espressione dio, che indica indistintamente una
realtà giusta, si sostituisca quella di Giustizia potenziale, che
indica distintamente la realtà stessa. E discende poi da ultimo dalle cose
dette anche la conseguenza, essere la teoria della rivoluzione del
positivismo diametralmente opposta alla vecchia della Metafisica,
espressa soprattutto oella dottrina del contratto sociale di Spinoza e di
Rousseau. Il contratto sociale è falso per la storia naturale della
umanità. Per la storia naturale dell' umanità è vera invece un'
altra legge: la legge della naturalità della società umana, formantesi
spontaneamente, e inconsci gli indi- vidui subordinativi. Nella
dottrina di Spinoza e di Rousseau il moto rivoluzionario è determinato dall'
individuo che si pone come un assoluto; e quindi è affatto egoistico; e
quindi tende a disfare la Società. Nella dottrina positivistica invece il
moto rivoluzionario è determinato dall'individuo siccome ordinato naturalmente
alla Società; ossia è determinato dall’idealità che vi hanno relazione. E
quindi è essenzialmente ant-iegoistico o altruistico – l’amore
dell’altro, la benevolenza, la beneficenza: e conseguentemente tende, non a
disfare la diada sociale, rna a migliorarla. Consideriamo ora il
giudizio del tribunale indi- viduale della coscienza di ciascun uomo
verso le parti coordinate nella Società, ossia verso di ciò che si chiama
il prossimo. Nel che tocchiamo di un argomento di importanza principalissima tanto
dal lato sociologico quanto dal lato morale propriamente detto. E
la nostra considerazione, cominciando in questi due ultimi paragrafi del
primo Capo del libro, sarà prò- segpiita nel seguente. La Idealità
sociale è una formazione naturale della psiche individuale umana: e tale
Idealità è impulsiva del volere: e per esso gli atti liberi dell' uomo
sono antiegoi- stici e quindi morali. E (come indicammo anche qui
nei paragrafi precedenti) la Idealità sociale agisce sopra il volere
dell'uomo presentandosegli nella forma della Giustizia; vale adire
come qualchecosa che ha rapporto con una Sanzione: ossia è una legge che
importa la Responsabilità del volere verso di essa. La Giustizia
onde è dettata e autorizzata Téizione del volere ne costituisce il
Diritto, La Giustizia che importa verso di se la Responsabi- lità
del volere ne costituisce il Dovere a). Ed ecco in che modo la Idealità
sociale, che è una formazione naturale spontanea dell* individuo, è in
pari tempo, e un concetto mentale, e un motivo pratico (ossia una
forza che determina T atto volontario), e una Giusti- zia, e una Legge, e
un diritto, e un dovere. L' essere umano, unico o collettivo, in
quanto r azione ne è determinata dalla Giustizia, è una Persona, Il
genere poi della Personalità varia secondo il genere del rapporto creato
dalla Giustizia medesima. Considerando qui il rapporto di subordinare
nell'or- ganismo sociale, si ha la Personalità del Potere. Consi-
derando il rapporto di esservi subordinato, si ha la personalità della parte
sociale sottoposta che, in ultimo, è r individuo. Pel potere la
Giustizia è la stessa Legge dello Stato. Per r individuo è la stessa
Idealità sociale che in lui si forma e che chiamammo Giustizia
potenziale. In virtù della Legge il Potere costringe il subordi-
(i) Vedi la Morale dei Positivisti; per es. Libro I, Parte II, Capo IV,
n. 15 e 16 (Pag. 125 del Voi. Ili di queste Opere filosofiche nella ediz.
del 1885, 131, 132 dell* ediz. del 1893 e del 1901 e pag. 135» 136 nella
ediz. del 1908). - nato alla osservanza della Idealità sociale. E quindi
il Potere ha un Diritto sul subordinato, e il subordinato ha un
Dovere verso il Potere. E il Diritto del Potere qui è positivo. Ma
in virtù della Giustizia potenziale anche il subordinato ha una azione sopra lo
stesso potere. E per tale rispetto quindi il potere ha un *dovere* verso
il subordinato; e questo ha un *diritto* verso il Potere. E il *diritto*
del subordinato qui è *naturale*. Ed ecco il concetto vero del diritto
naturale, creatore e gfiudice del positivo e vendicatore sopra lo stesso potere
delle ragioni del subordinato. E cosi, per asserire lo stesso diritto
naturale, non occorre punto uscire dall’uomo, e riferirsi ad una divinità
e ad una Legge da essa emanata. Questo diritto naturale appartiene
all'essere umano, malgrado che in esso non possa formarsi al di
fuori della Società e senza che V Idealità sociale della psiche
singola siasi prima convertita nella Legge positiva del Potere. Essendo
poi il Diritto positivo lo stesso fatto del Potere che si è costituito
efifettivamente in una data Società, con ciò si spiega come possa essere
più o meno in contraddizione col Diritto naturale, preso siccome la
Giustizia potenziale astratta, desunta dallo studio compa- rativo dei
fatti sociali, e rappresentante quindi un ideale, che solo
imperfettamente si trovi realizzato nelle singole formazioni storiche
della Società umana. Ed essendo il Diritto positivo stesso una
formazione naturale della totalità sociale, che diventa qual' è col
pas- sare dall' indistinto al distinto (per la legge comune ad ogni
formazione naturale), cosi si spiega come, prima di essere un codice
scritto, è stato una consuetudine sorta per inconscia spontaneità; e come
la stessa consuetudine, che seguita a sorgere pure per inconscia
spontaneità an- che dopo la fissazione del codice, possa a poco a poco
avere prevalenza, come diritto, sopra la legge positiva. Il Diritto naturale,
oltre comprendere la ragione, imperante nel subordinato, di creatore, giudice
e vindice verso il Potere sovrastante, ne ha in sé anche un'
altra. Vale a dire ha in sé anche la ragione di ciò che de-
signammo sopra col nome di Convenienza, che riguarda i rapporti dei
subordinati tra di loro, e non ha esecuti- vità propriamente detta. Ora
é da dire di questa più chiaramente e precisela mente, se e come sia o no
una Giustizia, e quindi appar- tenga alla Moralità; poiché la Moralità
non si può con- cepirla se non con una Sanzione e con una Responsabilità;
e quindi in ordine ad una Legge sovrastante: cioè come una
Giustizia. Domanderemo e risponderemo di nuovo: Quale é l’ufficio
del Potere? L'ufficio del Potere è triplice. Dì stabìlii-si aella Società
a spese delle sue partì. Secondo. Di difendere l’autonomia di
ciascheduna dalla violenza delle altre. Dì dispensare nell'effetto
del mij^Uoramenta delle parti quella forza coniane dell* ambiente
sociale che opera per esso Potere. In tutte e tre le suddette forme del
suo ufficio il Potere esercita sulle parti un Diritto, come abbiamo
detto. E la ragione della azione del Potere è quindi una Giustizia, ossia
è col legata ad una Sanzione, E ciò perchè esiste una Responsabilità per
parte dei subordinati verso di essa azione, se mai violassero gli ordini
stabiliti. E il Diritto medesimo lo dicemmo un Diritto positivo. Ma
questo Diritto positivo dimostrammo sopra di- pendere in ultima analisi
dal Diritto potenziale o dalle Idealità mentali degli individui» Onde, in
ultima analisi, potenzialmente la Giustizia non è altro che le stesse
Idea- lità mentali. La Giustizia dunque si estende quanto la
potenzialità della Idealità sociale, formantesi nella psiche singola
dell’uomo per la sua partecipazione alla vita comune della Società; nella
quale si cova, per cosi dire, il germe in- dividuale, si che si maturi in
lui la disposkione naturale al civile coasorzio. Maturazione questa che
importa tutte tre le forme suddette dell' ufficio del Potere, se non che il
Potere stesso non è tutto l’effetto di tale maturazione; ma solo una parte*
Quella cioè, che si potrebbe chiamare V effetto più disHnéù. Oltre
sififatta parte ne resta un'altra; e più estesa ancora: ed è quella che
non si matura nel fatto di un Potere legale, ma rimane neW indistinto di
ciò che chia- miamo la Convenienza. E la Convenienza la diciamo un
indistinto appunto per- chè il Potere non è altro che un distinto che si
forma poste- riormente da essa per una elaborazione più compiuta.
Ne /iene che, se il Potere è il Diritto distinto, e quindi la sua
ragione una Giustizia distinta, (e cosi la Sanzione e la Responsabilità)
la Convenienza è invece un Diritto indistinto, e quindi anche una Giustizia
indistinta. Una Giustizia indistinta si, ma pur sempre una
Giustizia. Ed ecco come il concetto della Giustizia, e quindi della
Legge morale (col suo rapporto ad una San- zione e con una
Responsabilità) si allarga oltre la sfera delle prescrizioni del codice
pubblico e si estende a tutte le relazioni libere tra individuo e
individuo. E come questa Legge morale extralegale sia anch'essa
puramente una formazione naturale della psiche dell'uomo civile. E
quindi non occorra per ispiegarla ricorrere al sogno della Legge eterna
della divinità. E il farlo sia un errore ana- logo a quello della vecchia
astronomia che, il moto della Luna intorno alla Terra, lo spiegava col
comando dato alla Luna da dio di girare cosi intorno alla Terra, e non
per via della stessa naturale evoluzione cosmica; e, la virtù
dell'a- cido di intaccare il metallo, lo spiegava colla proprietà
in- taccatrice capricciosamente concessa da dio all'acido, e non
per via della stessa disposizione intima degli atomi compo- nenti la
molecola dell'acido e del metallo, onde dipende na- turalmente ossia
necessariamente, il fatto chimico suddetto. La Giustizia legale (seconda
forma dell' ufficio del Po- tere) è una gradazione evolutiva superiore di
un in- distinto inferiore da cui emerge. Ma la cosa ha bisogno di
essere dilucidata meglio e con esempj più concreti. K per
ordine. Cioè secondo le tre forme dette sopra deir ufficio del
Potere. E comincieremo dalla seconda, di difendere l’autonomia di
ciascheduna parte della Società dalla violenza delle altre. La difesa
dell' individuo subordinato, assunta dal Potere, importa che questo lo
guardi dalle ofifese degli altri, e faccia che V ofifensore risarcisca T
ofifeso; e che gli arbitrj singoli nella loro attività si
equilibrino vicendevolmente in modo che la limitazione imposta a ciascheduno
sia la minima necessaria, la minima indi- spa usabile ad ottenere la
coordinazione giusta nella So- cietà, richiedente la collaborazione
egualmente non im- pedita di tutte le sue parti. Ma tale
difesa, assunta dal Potere, della libertà e del Diritto individuale non
si pud estendere a tutti asso- iuiamente i fatti sociali verificantisi
attorno ad un indi" viduo. Non a tutti, di gran lunga. Non a tutti,
che sono infinitamente molti. Ma solo ad alcuni pochi. A quei pochi
solamente che è strettamente richiesto dalla esi- stenza del corpo
sociale. E la difesa in discorso, circa i detti pochi fatti,
è propria di quella che si chiama la Giustizia legale, o po- sitiva,
o distinta. Quanto poi agli altri infiniti fatti rimanenti ha luogo
il fenomeno sociale della Convenienza, che dicemmo es- sere pure una
Giustizia; ma non legale, o positiva, o distinta: sibbene potenziale, o
indistinta, o morale. Quella della convenienza è anch' essa una Giustizia,
come la legale. Ma indistinta. E per la ragione che, nel fondo, V una
e r altra sono la cosa medesima, e si differenziano tra loro
solamente come il distinto dall' indistinto. E tanto che, provenendo
nelle formazioni naturali il distinto dall' in- distinto, qui nella
Società la reazione della Giustizia le- gale non è altro infine se non
una forma evolutiva supe- riore della stessa reazione della Convenienza. Anzi
di più. Come l'idealità sociale della psiche umana è sola- mente una
forma evolutiva superiore di un indistinto che si trova già nei bruti,
cosi la Giustizia legale si collega nelle sue gradazioni formative, non
solo con quella della Convenienza propria dell' uomo, ma anche con quella
del semplice talento egoistico osservabile nelle reazioni tra bruto
e bruto. E mettiamo in chiaro la cosa. La reazione tra bruto e
bruto è V effetto di un im- pulso istintivo quasi affatto egoistico. Ma
non del tutto, poiché (come osservai più volte nella Morale dei Positivisti
(i) in certi istinti socievoli dei bruti fa capolino qualche cosa di
antiegoistico. L' istinto egoistico del bruto si continua anche nell’uomo;
nel quale però va emergendo l'impulso antiegoi- stico a misura che si
sviluppano in Fui le formazioni psi- chiche superiori (2); in modo che
nell' individuo umano vivente nella Società apparisce la reazione della
convenienza, che è mista di talento egoistico e di ragione an-
tiegoistica. Quindi nella reazione della Convenienza si ha
una forma di passaggio dal talento egoistico del bruto alla ragione
dello schietto antiegoismo della Giustizia legale. E questa è il divenuto
della Convenienza, come la Con- venienza è il divenuto del talento
egoistico del bruto. E in effetto infinite sono le gradazioni della
reazione della Convenienza; da quella che rasenta la brutale del
(i) Per es. Libro I, Parte III. Capo III, n. 6 (Pag. 149 del
Voi. III di queste Op, fil. nella ediz. del 1885, 156 dell' ediz. del
1893 e del 1901 e 161 dell'ediz. del 1908. Ciò è dimostrato in tutto il corso
della Morale dei Positivisti, essendone V assunto fondamentale.
l^WU IP I
puro egoismo, a quella che tocca la più nobile del puro
antiegoismo. Infine, se si guarda una medesima Società nel suo
progresso storico dallo stato della barbarie a quello della civiltà, e se
si guardano le diverse condizioni degli in- dividui di una medesima
Società in un dato tempo. Per la legge, più volte indicata, che nella
formazione natu- rale i diversi del coesistente sono T immagine dei
diversi del successivo. E in oltre, da una parte, nelle Società
imperfette il talento egoistico si riscontra nello stesso Potere, e
dal- l' altra, la Convenienza, a misura che si spoglia dell' e-
goismo, si fa più antiegoistica e tende a diventare una Giustizia
legale. E la Giustizia legale da prima è stata sempre e da per tutto
una Convenienza radicatasi neir uso e final- mente stabilitasi come
legalità. §n. Dall'indistinto della Prepotenza
(principio egoistico) nasce il distinto della giustizia (principio anti-egoistico)
che è la risultante dinamica di quella, per rendere evidente la
verità dell'asserto, che la Giustizia emerge, come formazione superiore,
dal ta- lento egoistico precorso, giova vedere come succede il
fatto. Il più forte è prepotente verso il più debole. E la
Prepotenza è precisamente l'espressione del talento egoistico in opposizione colla
ragione antiegoistica, o della Idealità sociale, o della Giustizia. Ne
viene che l’adulto è prepotente col fanciullo, l’uomo colla donna, il
robusto col debole, il ricco col povero. Fra gli uomini sempre si verifica
tale prepotenza, ma in gradazioni infinitamente diverse: da un massimo ad
un minimo. Cioè in ragione inversa dell’idealità anti-egoistica contrastante,
ossia in ragione inversa della civiltà. E ciò, tanto considerando la
successione dei momenti del progresso di incivilimento, quanto
considerando gli elementi più o meno inciviliti di una medesima
società. Considerando gli elementi più o meno inciviliti di una
medesima Società, la prepotenza dell' adulto del ro- busto del maschio
del ricco e via discorrendo è sempre maggiore fra le persone rozze e
minore fra le colte. E in queste per la ragione del maggiore sviluppo
delle Idealità sociali contrastanti. Le Idealità sociali si impon-
gono alle persone colte per la semplice abitudine che ab- biano di concepirle.
Ai rozzi possono imporsi quando, neir atto che essi inveiscono con
Prepotenza, esse bale- nano neir atteggiamento disapprovante e minaccioso
di vendetta degli altri uomini. Cioè, alle persone rozze, nelle
quali, le Idealità sociali non sono ancora una coscienza ben forte e
distinta, queste frenano il talento egoistico nella forma di volere
sociale con qualche maniera di San- zione; e alle persone colte non
occorre la manifestazione estema vendicatrice, perchè in esse V
imperiosità della ragione della Società è diventata una loro coscienza,
che rinasce efficace senza la espressione materiale esterna
del volere sociale. Ed ecco come avviene il passaggio Del- l'
individuo dalla disposizione egoistica del bruto alla an- tiegoistica
dell' uomo civile. Considerando poi i momenti successivi di
formazione di una medesima Società, la Prepotenza degli individui
si vede a poco a poco eliminata dalla formazione contra- stante del
Potere; il quale, per esempio, ha tolto, in tutto o in parte, le
Prepotenze dell' arbitrio assoluto del padre di famiglia sui figli e
sulla moglie, della schiavitù sotto le diverse sue forme, dei privilegi
dei nobili, della infe- riorità della donna, e via discorrendo.
Quando il Potere non era ancora riuscito a elimi- nare queste Prepotenze
anche la coscienza comune non sentiva distintamente la ingiustizia loro.
Mentre questa ingiustizia vi è divenuta evidentissima in seguito al
fatto della Legge che le ha inibite. Questo fatto ha reso l'ingiustizia
medesima evidente al segno, che nella coscienza di tutti gli individui
della società civile le Prepotenze suddette appariscono delle vere
impossibilità, non solo per gli altri, ma anche pel proprio volere; cioè,
nel vo- lere, formatasi pienamente l' Idealità sociale
antiegoistica corrispondente, questa riusci ad ottenervi una forza assoluta
di impulsività. E con ciò si ha la prova di fatto, e della dottrina
nostra generale circa la Moralità esposta nella Morale dei Positivisti, e
della dottrina qui toccata del divenire della Idealità impulsiva: e della
Giustizia legale distinta dalla Giustizia indistinta della
Convenienza. Ancora, le persone civili sono meno manesche delle
rozze. Onde, come fra queste è facilissima e pronta la vendetta dell'
offesa, così fra quelle- riesce invece e difficilissima e tarda. E
ciò nulla ostante la persona civile ha esigenze infinitamente maggiori e più
sottili verso le altre, e nello stesso tempo assai più raramente offende.
E la cosa parrebbe assurda. E lo è colla teoria vec- chia della ragione
degli atti morali. Ma si spiega chiaris- simamente colla positiva. Il
rozzo reagisce direttamente colle proprie mani, e punisce l’offesa
atrocemente: tuttavia è offeso ad ogni poco. E basta udire, per
convincersene, le ingiurie che due persone rozze si scagliano colla
massima facilità. Dunque T idea dell' utile non è quella che insegna il
contegno dell' uomo. Il rozzo è più religioso del civile; e tuttavia con
ciò non è più rispettoso del Diritto altrui. Dunque 1' idea
religiosa non è la ragione della Giustizia. Immensamente più che nel rozzo
è estesa l'idea del proprio diritto nell' uomo civile, il quale dell'
offesa recatagli si risente nel suo intimo assai più ohe il primo. Ciò
dipende dalla più progredita formazione psichica dell' uomo civile. E questa
dal beneficio più largamente produto della influenza formatrice dell' ambiente
sociale. Il risentirsi poi più forte dell' offesa porta seco una tendenza
più forte a reagire. Ma nell’uomo civile anche la reazione
(quantunque più fortemente disposta) ha il carattere della umanità
più progredita. Quella dell' uomo civile è una reazione non di
egoistica e brutale Prepotenza: cioè non è fatta di propria autorità e di
propria mano. E invece una reazione fatta in nome di qualche cosa che trascende
l'individuo; vale a dire in nome di una Idealità sociale rico- nosciuta
come tale. In nome insomma di ciò che si chiama la pubblica
opinione. E questa pubblica opinione, diventata la coscienza della
persona civile, che la trae al risentimento; ed è a questa medesima
pubblica opinione che è lasciato l'in- carico della vendetta: in modo che
l’offensore è responsabile deir offesa verso la stessa pubblica opinione
ven- dicatrice, la quale per ciò viene ad essere una Giustizia. E
conseguentemente una Gitistizia viene ad essere pure la coscienza
individuale, che ne segue la morale impulsività. Una Giustizia indistinta, che
precorre e prepara alla distinta o legale. E come? La pubblica
opinione si forma nel cozzo delle parti della Società fra di loro, onde
nascono le diverse Idea- lità sociali relative. Questa pubblica
opinione si annuncia prima vaga- mente nelle parole e negli atti
accidentali degli individui. A poco a poco si stabilisce nei detti e nei
pro- verbi e nelle usanze e consuetudini comuni. Un pò' alla volta
poi crea i suoi rappresentanti di- retti. Da questi quelli del Potere. Ma
con ciò, che il Potere non può assorbirli in sé tutti. Onde, sotto
tale rapporto, il Potere deve considerarsi siccome il vertice di
una piramide, nel quale va a collimare una infinità di piani sempre più
allargantisi di sotto, cioè una serie di associazioni giudicatrici
subordinate. Costante e organica è questa legge della for- mazione
sociale. Da prima è V individuo che si fa giustizia da se
stesso. Nel che però non si ha la Giustizia vera, ma an- cora solo la
Prepotenza. Poi più persone aventi speciali interessi comuni si
associano in modo tacito e anche espresso in vista di essi; e nella
associazione si va costituendo naturalmente r arbitrio collettivo sopra
le contestazioni che la riguar- dano; nel quale è già quindi un principio
di vera Giu- stizia, quantunque ancora più o meno indeterminata o
in- distinta. Da ultimo il Potere supremo della Società si
arroga il giudizio nelle contese, fissandone precisamente i ter-
mini; ed ecco il meno della Prepotenza e il più dell' an- tiegoismo e
della Giustizia. E questa è la Giustizia di- stinta, derivata per
evoluzione dalla indistinta, come questa lo è dal talento più egoistico dell'
individuo. E nella nostra attuale Società la legge mede- sima
apparisce nella sua massima evidenza. Vediamo costituirvisi dei
giuri al di fuori del Po- tere legale; i quali, in nome di una pubblica
opinione (che è il loro codice) pronunciano dei verdetti, vendica-
tori almeno iniziali delle violazioni della opinione stessa, e che quindi
ne sono la Sanzione sociale diretta. Giusta, ossia antiegoistica, perchè
sociale e non individuale o di Prepotenza. Sanzione producente una
Responsabilità pei violatori delle Idealità sociali corrispondenti; e
quindi atta ad innalzare le Idealità stesse nelle coscienze di tutti
al grado di vera Giustizia; tanto più distinte quanto più stabile e
ordinato e ripetuto e normale è l'esercizio del suo ufficio. E anche
quando non è eliminata ancora del tutto nella vendetta V azione diretta
della persona, che ne ha da essere soddisfatta, si può tuttavia palesare
l'in- tervento subordinante di una autorità superiore all'indi-
viduo. Come nel duello; nel quale la ragione di intimarlo e
di accettarlo deve essere sancita dal codice della opinione corrente ad esso
relativa, e giudicata 1' applicabi- lità al caso particolare da padrini,
e questi devono pre- senziare r esecuzione. Nel duello si ha
quindi una certa Giustizia, quan- tunque molto imperfetta. Imperfetta,
perchè vi si mantiene ancora troppo 1' eccessivo e il brutale dell' atto
di Prepotenza dell' individuo di vendicarsi colle sue mani.
Imperfetta ancora perchè 1' autorità che vi si intromette non è
riconosciuta come tale dalla Legge. Il fatto del duello qui ricordato
toma poi op- portuno per confermare, colle particolarità da esso
of- ferte, la verità delle cose suesposte. L* opinione, che
vige nei paesi civili di. oggi in re- lazione al duello, è una formazione
storica della nostra Società. Perchè, se, da una parte, esso ha la sua
causa generale in alcune ragioni costanti di ogni formazione
sociale, dall' altra però, le formalità che lo accompagnano accusano la
sua provenienza per trasformazione storica dalla consuetudine di un tempo
dei cosi detti giudizi di dio, E da ciò si vede, come sia vero che la
Giustizia (anche quella naturale o potenziale o etema che dir si voglia),
quanto alla forma precisa colla quale è effettiva- mente in una data
Società o coscienza, è una accidenta" lità storica. Come la
produzione di un dato frutto di una data pianta. L’opinione circa il
duello non è qualchecosa di fis- sato e sancito dal Potere legittimo, che
T infligga inde- clinabilmente anche a chi vi si rifiuti. Ma ciò non
toglie che r opinione stessa abbia una forza; e tale da imporsi
quantunque gravosissima, alla volontà. E da ciò si vede che la Giustizia
ha già una effettività piena di efficacia anche nella forma indefinita
della spontaneità vaga della opinione pubblica. Ma r opinione circa
il duello, appunto perchè ancora in quello stadio della vaga spontaneità
sociale, non ma- turata e non maturabile in una Legge del Potere che
la stabilisca per tutta la Società, vi si restringe ad un certo
ordine di persone. E (cosa curiosissima) per questo or- dine di persone è
divenuta una idea di una impulsività potente, certa, indeclinabile, atta
a tenerlo sotto il proprio impero, mentre per gli altri, esenti dalle
influenze onde è insinuata, è come se non esistesse. E tanto che,
dove presso gli uni è moralmente spregevole e disonorato chi non si
attiene alle prescrizioni della opinione favorevole al duello, per gli
altri è cosa ridicola e stolta il tenerne conto. L' opinione
relativa al duello associa delle conse- guenze esecutive gravissime a
fatti riguardanti V onore. L' onore, che è un semplice rapporto mentale
dell' indi- viduo colla Società. E da ciò si vede che neir uomo,
per lo sviluppo speciale onde la sua psiche è capace, si Voi. IV.
6 creano delle entità di un ordine superiore, che sono impossibili
pel bruto e si trovano solo inizialmente e quindi poco avvertite nelle
Società rozze e nelle classi sociali meno colte. Delle entità aventi per
base, non il benes- sere materiale dell* individuo, che è l'espressione
del puro egoismo, ma il benessere degli spiriti associati, che è r
espressione della ragione antiegoistica. Qui insomma r individuo si trova
necessitato perfino al sacrificio vo- lontario della vita in omaggio di
un' idea che lo padro- neggia. L' opinione relativa al duello tende
(come tutte le altre opinioni, con tendenza positiva o negativa) a
diven- tare una Legge della Società. Questa tendenza in parte è
riuscita, in quanto esistono già delle disposizioni posi- tive di Legge
che riguardano il duello. Ma in parte non è riuscita. Ora T analisi
accurata della tendenza medesima e di ciò che n' è riuscito e non riuscito ci
raggua- glia circa il processo naturale, onde la Giustizia indi-
stinta, ossia la Convenienza, si fa la Giustizia distinta, ossia la Legge
positiva. Il Potere ha emanato delle disposizioni relative al
duello. Ciò ha potuto fare solo in seguito all'essersi que- sto fenomeno
sociale fissato a poco a poco nelle sue forme precise, che presentarono
1' occasione alla opinione pubblica di manifestarsi nel senso del partito
adottato nella Legge. Ma, delle disposizioni stesse prese una
volta dall'au- torità in relazione al duello, altre rimasero poi anche
in seguito perchè trovate rispondenti allo scopo sociale, di non
impedire in modo nocivo il corso inevitabile di certe reazioni di
Convenienza j altre invece dovettero essere smesse come inopportune e
quindi contrastate nella prova dalla coscienza dei cittadini, cioè dalla
Giustìzia poten- ziale che, come dicemmo tante volte, è Tarbitro
naturale di ogni Legge sociale. Il Potere però, nella
reazione anche esecutiva del duello, non ha potuto sosHiuirsi ialalmenie,
come è la sua tendenza in generale per rapporto a qualsiasi esecu-
tività forzata delle reazioni dirette tra individuo e indi- viduo. E
ciò ci istruisce praticamente di due cose, che già osservammo sopra. Vale
a dire: Primo. Che nel Potere non si può appuntare se non una
parte delle reazioni tra indivìduo e individuo; come nel cervello non
arrivano direttamente dei fili ner- vosi che governino immediatamente
tutti i punti della massa del corpo: ai quali invece in gran parte il
cer- vello fa sentire la sua influenza solo per J' azione che
esercita sopra centri secondari, aventi però anch' essi una propria
azione, che si compie in parte senza rintervento degli organi
cerebrali. Secondo. Che, se una tendenza reale dell'
individuo non può essere soddisfatta intéramente dalT intervento
del Potere, Tindividuo cerca la soddisfazione da se; come in un assalto
improvviso dì un assassino, dove, non po- lendo la forza pubblica
difendere il cittadino, a questo è concesso il Diritto anche dell'
uccisione a propria di- fesa. Per cui si arguisce, che il
fatto ancora incivile ed anomalo del duello non sarà evitato nella
civiltà, se non quando in questa le questioni circa V onore potranno
es- sere risolte appieno giuridicamente, sia modificandosi l'o-
pinione pubblica relativa, sia trovata in base a questa una legislazione
atta all' effetto. Vedemmo fin qui come la Giustizia legale, af-
fatto antiegoistica, del Potere sorga dalla potenziale della coscienza
degli individui, che ha per base una Idealità sociale antiegoistica non
ancora divenuta una Legge, e nello stadio tuttavia solamente di opinione
più o.meno comune. Resta ora a chiarire come questa Giustizia
poten- ziale, avente per base una Idealità antiegoistica, si svolga
anch' essa alla sua volta da una forma ancora più im- perfetta di tendenza
dell' uomo, cioè dal talento brutale egoistico della Prepotenza. La
reazione del semplice talento brutale, o della Prepotenza, per la
concorrenza dei prepotenti di pari forza, diventa Equipollenza: e quindi
Giustizia, Non occorre per ciò che intervenga un elemento
nuovo. Il diverso, anzi 1' opposto, della Giustizia si ot- tiene per la
semplice reduplicazione dell' identico della Prepotenza elementare dell'
individuo. Per la legge universale dell' emergere del diverso distinto
dair identico indistinto per la reduplicazione dei molti identici (prima
distinzione dell* indistinto uno), che ha luogo in tutte le formazioni
naturali. Come ho dimostrato nello scritto sulla Formazione naturale nel
fatto del sistema solare (Voi. II di queste Opere filosofiche)^ e come
dimostrerò nei libri relativi alla Formazione del pensiero (nei voi. V,
VI e VII di queste stesse Op, fil.) Così nella formazione chimica la
materia identica diventa gli opposti deir acido e della base dopo che,
distintasi in atomi diversi, questi poi si reduplicano e si aggruppano
variamente. La Prepotenza è la coscienza che l' individuo ha acquistato
del fatto della propria Attività che esso ha esperimentato; e la
Giustizia è la coscienza che neir individuo stesso ha dovuto formarsi del
fatto della Equipollenza degli altri individui dato dalla espe-
ricìiza delle Prepotenze concorrenti nella Società. Sicché nel bruto la psiche
non arriva alla trasfor- mazione in discorso, perchè in esso, non essendo
un es- sere sociale, non si può formare la coscienza successiva a
quella della Prepotenza come nell* uomo, che è un essere sociale (Onde poi
raccogliamo la conferma di un altro dei grandi principi da noi già
spiegati della Formazione naturale: vale a dire che la Cosa è il
molteplice preso nella coesistenza dei singoli, e la Forza è lo stesso
molteplice preso nella loro successione. Sicché Cosa e Forza non sono che
distinzioni di un identico indistinto: il quale, preso nello schema della
coesistenza, è la Cosa, e, preso nello schema della successione, è la
Forza. — La Giustizia o T idealità sociale, come apparisce dalle cose
dette nel libro, suppone una successione di fatti; ed è assurda senza
questa supposizione. Ma nello stesso tempo, potendo questi fatti
succedentisi essere presenti contempo- raneamente al pensiero, pel lavoro
suo descritto nella Morale dei Positivisti^ è una entità (Cosa) del
pensiero, ed è una virtù efficiente (Forza) nella dinamica morale
(Impulsività dell* idea). E qui dobbiamo notare una cosa curiosissima,
spiegabile solo colla nostra teoria della identità, nel fondo, della Cosa
che è, e della Forza onde essa agisce. L' Idealità sociale è
impulsiva del volere umano in quanto gli si presenta siccome una Giustizia,
vale a dire in quanto gli fa pro- spettare una Sanzione; ossia lo avverte
della sua responsabilità. E tuttavia, a misura che V Idealità sociale si
fa più viva e abituale, diviene invece più vago il presentimento pauroso
delle relative conseguenze di punizione per parte della reazione sociale.
Anzi il massimo della impulsività dell' Idealità sociale (nel Sapiente e
nel Regno della Giustizia, come dicemmo nella Morale dei
Positivisti) va col minimo del presentimento pauroso della punizione
sanzionatrice. Il concetto umano della Giustizia si forma da quello
della Prepotenza per V equilibrio di molti prepo- tenti nella loro
concorrenza sociale. La filosofia tradizionale (o la filosofia
sana, come la chiamano) spiega la Giustizia ponendola siccome lo
stesso comando di dio. La spiega così: aggiungendo molto
ingenuamente alla sua spiegazione V avvertenza, che la Giustizia,
ri- mane distrutta assolutamente tosto che si rimova la di- vinità
e il suo volere assoluto. E invece la verità è precisamente il
contrario. La Giustizia» in questo volere divino, è V opposto, ossia
la negazione, della Giustizia come tale. Come ne è l'oppo- sto e la
negazione la Prepotenza come tale. Il volere di dio è la Prepotenza
innalzata al grado dèlia Prepotenza assoluta. E il bello si è
che la stessa filosofia tradizionale ha dovuto accorgersi de IT
inconveniente, tanto o quanto, an- ch' essa, senza intenderlo
distintamente. Poiché ha dovuto maritare, nella sua dottrina della
ragione della Giustizia, il principio del volere divino con quello della
conoscenza che dio debba avere dell' essere intimo delle cose, e
della necessità onde il suo volere sìa costretto assolu- Egli è
come dire, che è V ordine dei fatti sociali, il quale è diventalo un
inrro ordine ideale, presente al pensiero in un suo atto intuitivo
momentaneo: qiTasi forza fissatavisi dal di fuori come sommi» unica di
efileni ng^i untisi a poco a poco l’uno all' altro. Proprio come la proprietà
attuale, onde una sostanza è atta ad agire in un dato momento con una
data intensità dì forza, sì è for- mata in questa per la addizione
successiva, mettiamo, dì un certo numero di \:alorie, entratevi dal di
fuori a poco a poco V una dopo V altra. -tamente (se
ha da essere giicsto) a regolarsi nel suo comando secondo le esigenze della
essenza da sé cono- sciuta appieno della cosa, alla quale impartisce il
co- mando. In questo secondo principio maritato al primo è
stata riconosciuta implicitamente, in qtuilche maniera, tardi,
imperfettamente, confusamente e con una contraddizione col primo
principio la verità di ciò che dimostrammo; ossia della derivazione della
Giustizia dallo stesso uomo per effetto della sua convivenza
sociale. Imperfettamente, dicemmo. E la dottrina teologica
della predestinazione n' è testimonio. E tardi: cioè a misura che lo
studio dei fatti guidò al presentimento confuso della verità contenuta
nella dottrina positiva. Tanto che la storia della idea di dio ce
lo presenta prima coir impero capriccioso, dispotico, appassionato,
mutabile del tiranno prepotente. E succes- sivamente con una mitigazione
del capriccio e della prepotenza, quale era suggerita dal fatto della
legislazione sociale in lui oggettivata, che venne diventando
sempre più giusta per T equi librar visi sempre maggiore degli
elementi componenti. Come si è detto, nell'individuo non coordi-
nato nella Società si ha la sua autonomia che si goverua colla
Prepotenza. una risul- tante dinamica di esse, per le
considerazioni che seguono. Con uno straniero, e soprattutto con un barbaro, o
con un selvaggio, un uomo in generale non sente il dovere della Giustizia come
con un altro uomo della sua stessa Società. Perfino si dà che in faccia ad un
uomo di razza diversa si atteggi ne' suoi sentimenti come in faccia ad un bruto
o ad una fiera. E la cosa è naturalissima. La sua Società è in lotta colla
popolazione alla quale appartiene queir uomo. La sua Società quindi si atteggia
verso di essa e verso i suoi Componenti come un prepotente; ed egli pure. Anche
se non è in lotta, dal momento che 1' offesa recata al(Il Nel che si verifica la legge generale di tutta
la natura, che r ambiente è necessario all' ottenimento di una
formazione, mettiamo la nebulosa solare alla formazione di un pianeta, o 1*
ambiente vege- tativo alla formazione di un seme; ma una volta ottenuta la
forma- zione questa funziona come tale anche indipendentemente dalle con-
dizioni onde emerse. Mettiamo la forma e la solidità di un pianeta, e la virtù
vegetativa specifica del seme. ^'^''PfliW^^IF lontano selvaggio non è vendicata
dal tribunale del pro- prio paese, né di nessuno, queir offesa stessa non appa-
risce un attentato vero e proprio contro la Giustizia. Che se ci sono degli
uomini che sentono la Giustizia anche per gli estranei, fossero anche dei
selvaggi, questo succede solo per quelli nei quali il sentimento della
Giu- stizia, prodotto prima nel modo che spiegammo, è diven- tato
una forma perfetta e assolutamente dominante della psiche, e che agisce
da sé e senza il bisogno più del co- stringimento dell' ambiente
produttore, e con una sponta- neità esuberante. Ancora, nella stessa
Società un gentiluomo è molto cauto nelle sue relazioni coi stcoi pari.
Non lo è egualmente trattando con persone di condizione inferiore.E ciò
perchè co' suoi pari le conseguenze speciali del suo contegno (quelle
mettiamo di un duello) hanno indotto un ordine di Convenienza che non
occorre per gli altri, relativamente ai quale le conseguenze non hanno la
me- desima gravità. In una parola, chi sta sopra è prepotente
cogli infe- riori, e non co' suoi pari, coi quali è più giusto. La
formazione della Giustizia nel senso proprio va colla formazione del
Potere onde è l' espressione. L’idea della Giustizia non nasce se non
dietro i fatti determinati prodottisi effettivamente nelle reazioni
degli associati. Dico, dietro i fatti determinati. Non prima di
essi. contenuta. Per questo il Potere (nel senso da noi
qui inteso) è eminentemente la Giustizia, che i poeti
rappresentarono colla bilancia in mano (1* equipollenza giusta degli
arbi- trj) e colla spada nell' altra (la forza onde si determina r
equilibrio tra arbitrio e arbitrio). E lo è perfettamente esso
solo. Lo è eminentemente in quanto dispone di una forza che
costringe e determina i soggetti alla osservanza della Idealità sociale,
o giusta, che dir si voglia. Lo è perfettamente esso solo, in quanto a sé
solo ri- serba il costringimento violento alla osservanza della me-
desima Idealità giusta. Onde viene poi che la Giustizia
propriamente detta si restringe agli atti che possono cadere sotto la
direzione del Potere, e non comprende quelli che ne sono esenti: i
quali per ciò rimangono la sola Convenienza. E su tutto ciò non
cade dubbio. Il furto, per esem- pio, dove non e' é un Potere che lo
inibisca, non é un delitto. È solo un atto pericoloso e che esige del
corag- gio e della avvedutezza in chi lo commette. Dove e' é un
Potere, che proibisca sì il furto, ma sia impotente a impedirlo, il furto
stesso é un delitto vago e non grave. Dove il Potere lo
impedisce effettivamente e lo col- pisce con forti punizioni è un delitto
grave. E può essere un delitto di varie specie se la puni-
zione è varia. Per esempio, il furto del privato a danno del privato,
che importa la prigionia del ladro, è perciò un de- litto infamante. Il
furto invece di un privato che non paga un diritto della pubblica
finanza, onde incorra solamente in una multa pecuniaria, non è più
infamante, a motivo che la punizione non è la prigionia ma la
multa. La quale forza poi del Potere, onde è mante- nuta
violentemente V osservanza della Legge, in due ma- niere è dispensata.
' Direttamente cioè dal Potere, stesso per V otteni- mento
delle condizioni occorrenti alla vita sociale, e indi- rettamente quando
esso è domandato per interesse pro- prio delle parti individualmente
offese. E da ciò due forme di Giustizia. Questa seconda più
sentita dagli individui meno educati e quindi più egoisti; la prima più
sentita dai più eletti e quindi meno egoisti. L' avaro si commuove per la
infrazione della Legge. della proprietà individuale, che è per esso la
Giustizia per ec- cellenza. Il virtuoso si commuove per una disposizione
po- litica antiliberale, preoccupandosi soprattutto della Giu-
stizia in se stessa. La circostanza di questa forza materiale occor-
rente al Potere ci conduce a scoprire una legge fonda- mentale della
Sociologia, ossia della formazione naturale deir organismo e della vita
sociale. Nel Potere, per costituire questa sua forza, sono
as- sorbite delle forze prese dal corpo sociale: e in ima certa
misura (i). Così la forza propria del cervello, onde sono
(i) Ci limitiamo qui a notare il fatto. Quale sia questa misura, e
come sia variabile fra estremi assai distanti secondo le condizioni e gli
stadj storici di una Società, deve essere lasciato a uno studio regolate
le funzioni del corpo di un uomo, è costituita dalle forze prestate dal
sangue del corpo medesimo in una misura, che non può essere oltre certi
limiti. Ora una quantità determinata di forza non può pro-
durre se non un effetto limitato, proporzionato ad essa. Ne viene che, se
la Società è mcipiente o selvaggia o rozza, tutta la forza rimanendo
impegnata nel costringere gli individui a osservare la Legge fondamentale
della esi- stenza sociale, il Potere rimane senza altra forza da
di- sporre per la produzione nella Società di miglioramenti
ulteriori (i). Ma quando in seguito si sono introdotte, colla ripetizione
degli atti violenti di coercizione sociale, le abitu- dini giuste, queste
producono poi V effetto della osser- vanza della Legge per parte dei
soggetti da sé; e la- sciano la forza del Potere disimpegnata e quindi
disponi- bile per altri usi, per altri lavori, per indurre altre
abitu- dini superiori; insomma pel progresso ulteriore della vita
sociale. Cosi nel corpo dell' uomo. Nel bambino il cervello è tutto
impegnato nel produrre le abitudini dell' esercizio delle membra; e
pogniamo anche in quelle di leggere e scrivere. Prodotte queste abitudini
iniziali, resta disponi- particolare, che può da sé fornire
materia per una scienza spcciaU, E per noi basta notare, che la misura in
discorso va crescendo in ragione che progredisce V organizzazione sociale;
analogamente a quanto si osserva negli organismi biologici, nei quali
cresce la pro- porzione del cervello in ragione che si fa maggiore la
centralizzazione degli organi. (i) Ciò si ripete nel caso di
una guerra, che assorbisca le risorse del Governo; e nel caso di anarchia
che le dissipi. bile per altri esercizi. Mettiamo per la cultura
propria- mente detta. E ottenute le abitudini di questa cultura,
ri- mane poi libero per V esercizio di una professione parti-
colare. E cosi via. E insomma la questione dell' immagazzinamento
delle forze. Un' abitudine in un individuo è la forza che, por-
tata sopra di lui una lunga serie di volte, vi si è imma- gazzinata in
questa forma. Come nella produzione delle proprietà delle sostanze
chimiche dalle più semplici alle più complicate. Come nella produzione
della pianta dal seme fino al frutto maturatone. Onde la
Giustizia, che va producendosi nelle coscienze dei singoli uomini
raccolti nella Società civile è )' imma- gazzinamento lento e progressivo
della forza dispensata dal Potere nei singoli atti infiniti del suo
esercizio, e im- pressa e ricevuta in quelle coscienze volta per volta.
An- che nel fatto del concetto della Giustizia, come in ogni fatto
distinto della natura, si ha una forza o un rifmo persistente, ottenuto
per la fissazione di una forza appli- cata dall' ambiente e divenuto 1'
essere costitutivo di ciò in cui si è formato (i), ossia dell' uomo
civile come tale. Il che poi dimostra che anche la Società, come
ogni altra formazione naturale, è una formazione che nasce, progredisce e
muore. Quando nasce, è la violenza che tende a produrre il
fatto e il sentimento della Giustizia. Quando progredisce, è la
forza del Potere che si di- I) Si allude alla Legge della Formazione
naturale \A\\\q\X.^ ^o^x?i accennata. spensa ad ottenere
ordini sempre più alti di azioni e di idee giuste. Quando
muore è V organismo vecchio, che non si presta più al mantenimento di
questa forza comune orga- nicamente subordinante del Potere. Come (per
una forma dì questa morte) nella famìglia vien meno il potere su-
bordinante del padre quando la personalità adulta dei figli non si presta
più alla coordinazione di essi sotto la tu- tela del capo della
famiglia. Se non che, riguardo alle Società che muoiono, vale del
pari ancora la relativa legge naturale di ogni altra formazione, per la
quale la morte «di un organismo non è mai totale, restando tuttavia i
ritmi singoli pro- dotti dallo stesso organismo mentre era vivo. Come nel
seme della pianta, che resta alla morte di questa. Come nelle idee, che
restano per gli uomini succedenti a quelli che le hanno trovate.
Sicché il mondo greco e il mondo romano, per es., sono morti come
quelle date formazioni sociali, ma re- starono le idee della Giustizia
umana nate nel loro seno. Restarono come germi, o magazzini di forza già
elabo- rata. E dei quali si giovarono le Società europee venute
dopo, che non dovettero ricominciare da capo (ossia dalla condizione
infima dell' uomo preistorico) il lavoro della organizzazione
sociale. La giustizia è la forza specifica dell'organismo sociale. Siccome
poi V organismo e la vita sociale si spiegano per la Giustizia che vi si
produce, cosi la teoria «T- della formazione
naturale della vita sociale è anche nello stesso tempo la teorìa della
formazione naturale della Giustizia. La quale per ciò è una formazione
naturale, come il Sistema solare, come un Minerale, come un Ve-
getale, come un animale, come una Goccia di Rugiada, come un qualunque
Pensiero di un uomo. È cioè la Giustizia una formazione naturale
della Società; come, ad esempio, si direbbe che la vegetazione è
una formazione naturale del nostro Pianeta. Ed è la Giustizia la
forza specifica della società medesima. Ne è la forza specifica, come si
direbbe che V affi- nità è la forza specifica delle sostanze chimiche, la
vita delle organiche, la psiche degli animali. Nessuna
affinità, o vita, o psiche, senza sostanza chi- mica, organismo vivo,
animale. Del pari nessuna Giusti- zia senza Società umana. L*
affinità, la vita, la psiche scaturiscono dalle stesse forze onde
esistono i loro soggetti; e ne rappresentano la risultante, che, come
tale, si distingue specificamente dalle forze producenti medesime. E cosi
la Giustizia sca- turisce dalle stesse autonomie prepotenti degli
individui, ed è la specie distinta di essere risultante
naturalmente dal loro contemperarsi insieme. La società quindi, come
tale, è tanto più per- fetta quanto più è forte V idea della Giustizia
formatasi nei consociati; ossia quanto più questi sono morali: sic-
ché meno sia uopo concorrere colla forza materiale al- l' ottenimento
dell* ordine sociale. D che equivale al dire che T Idealità sociale
sia più Voi. IV. 7 impulsiva da se stessa nella psiche di
ciascheduno, e quindi il regno della Gitcstizia {adoperando la nostra
so- lita espressione) si sostituisca a quello del Fato o della
Prepotenza. In modo analogo una sostanza chimica è tanto più
stabile e perfetta quanto più V Affinità degli atomi vi è grande» e la
rende atta a mantenersi nell' essere suo in- dipendentemente dalle
circostanze fisiche esterne della temperatura, delP ambiente, della
compressione e via di- cendo, che suppliscano colla loro azione al
difetto della forza di coesione intima dei componenti. La
costituzione dell'organismo sociale, e quindi la sostituzione della
Giustizia alla Prepotenza, produce la incolumità dei consociati. La
incolumità, che non è altro appunto se non la elisione della Prepotenza
oflFen- dente. Questa incolumità ha due fattori: Primo.
La forza materiale disposta nelle mani del Potere per far valere
violentemente la Legge contro la Prepotenza non domata delle parti
subordinate. Secondo. Il sentimento del Dovere formantesi
negli individui associati nel modo detto sopra. Ora, siccome questo
sentimento del Dovere (o questa Idealità sociale impulsiva, che torna lo
stesso) è una vera forza traente l' individuo a vincere la propria
tendenza egoistica della Prepotenza, e a segfuire la ragione an-
tiegoistica della Giustizia o della Legge, cosi le due forze suddette,
del Potere di fuori e del Dovere di dentro collimanti a produrre V
incolumità dei consociati e in^e- granfisi vicendevolmente nella
intensità sufficiente al- l' uopo, si troveranno concorrervi in ragione
inversa. Meno è il sentimento del Dovere sviluppatosi nei
singoli individui, e più dovrà essere la forza materiale usata dal
Potere. E viceversa, più il sentimento del Do- vere, e meno la forza
materiale. E ciò, sia normalmente, sia accidentalmente; e per
certi momenti critici sociali, e per certe Idealità. La incolumità poi del cittadino importa un complesso
di condizioni sue particolari molte e diverse, cominciando dalla
fondamentale della salvezza della vita materiale e andando fino alle più
delicate (proprie delle condizioni sociali più perfette) del rispetto
morale vicen- devole negli atti anche più comuni della vita.
Il Potere supremo della Società non può (come altre volte
avvertimmo) provvedere per tutte le dette condi- zioni della incolumità
del cittadino: ma deve necessaria- mente intervenire almeno per le
fondamentali. Da ciò consegue che l’azione materiale sulla persona del
cit- Chi consideri tutte le possibili reazioni tra uomo e
uomo in una Società di leggeri può rilevare due cose molto importanti pel
discorso che facciamo qui. Cioè: Primo. La varietà infinita delle azioni
di un uomo atte a destare in qualunque modo la attenzione di un
altro. Fogniamo, partendo da un assassinio e venendo fino ad uno
sbadiglio. Nella quale varietà, come è chiaro da sé, si hanno delle vere
diflFerenze di generi e di specie. Secondo. Il sentimento nascente in un
uomo, per reazione, in seguito all' azione da lui osservata in un
altro. E di tale sentimento abbiamo parlato nella Morale dei Positivisti
(i), mostrando quanto sia variato e come formi una serie di sentimenti
diversi, anzi una scala in ordine di nobiltà. Ora, per le cose
dette, ripetendosi e le azioni e i sentimenti accompagnanti le reazioni
che le susseguono, si producono un po' alia volta e si fissano nella
psiche, come sue potenzialità, delle Idealità sociali
corisppndenti. Le quali per ciò sono costituite dalla
rappresentazione della azione e dalla reazione effettiva conseguente:
onde sono Idealità impulsive del volere, ossia Giustizie. La mente
si confonde pensando alle varietà possibili ad emergere in ragione di
tale processo. I pochi ele- menti del chimico, si sa a quale infinita
varietà di for- mazioni di sostanze si prestano: le poche note
musicali, a quale infinita varietà di composizioni musicali; le
poche lettere dell' alfabeto, a quale infinita varietà di suoni ar-
(i) Libro I, Parte I, Capo III (Pag. 21 e segg. del Voi. Ili
di queste Op, fil. nella ediz. del 1885, del 1893 e 1901, e pag. 22
nel- l'Ediz. del 1908). I20 ticolati. Or
che sarà della varietà delle formazioni psichiche della Giustizia,
pensando anche solo alla varietà dei senti- menti componibili colle rappresentazioni
degli atti sociali? Per farcene una qualche idea prendiamo un
esempio. Neir uomo, fra i molti sentimenti onde è capace, si
ha anche quello caratteristico corrispondente alla espres- sione del
ridere. È questo si può connettere con un nu- mero senza fine di
rappresentazioni di atti, dando ori- gine cosi al genere delle Idealità
comiche; le quali nes- suno ignora quanto siano potenti neir indirizzo
della vita e nell'impero della volontà; mentre è pur vero che il
timore del ridicolo ha talvolta più efficacia che non il timore del
carcere e della multa. Il fatto, pel mondo morale, è analogo a
quello di una sostanza che, potendosi combinare con tutte le altre
nel mondo materiale, è atta a determinarvi un atteggia- mento particolare
per tutto T essere suo. Il nostro mondo, per esempio, sarebbe un mondo
aflFatto diverso da quello che è, se gli mancasse il ferro. E cosi dicasi
degli orga- nismi in genere se mancasse, mettiamo, il potassio che
concorre a formarli, essendovi quindi un ministro della vitcu Allo
stesso modo V atteggiamento morale dell'uomo, quale è al presente,
verrebbe meno, se mancasse il coef- ficiente del riso, che concorre a
formarlo, essendovi quindi con ciò anche esso un ministro del bene.
Il quale ragionamento poi va ripetuto per tutti i sentimenti umani
ad uno ad uno, che sono altrettanti coefficienti dell* Idealità sociale
direttiva delle azioni u- mane, attivandola sotto la forma di generi
speciali dì Idealità o di Giustizie. E della varietà inesauribile
di queste, per tale via ottenute, è un saggio V arte, che nella scultura, nella
pit- tura, nella poesia, nella prosa, riproduce dalla coscienza, in tante
forme, gli atteggiamenti morali dell' uomo. In tante forme li ha riprodotti, e
in tante ancora, senza fine, è atta a riprodurla 3. — E i sentimenti umani
riescono cosi coefScienti della Giustizia, perchè un sentimento, qualunque sia,
essendo la reazione corrispondente ad un atto, ne è anche la Sanzione; e chi
commette V azione atta a susci- tare un sentimento incontra una Responsabilità
in ordine ad esso. Anche ciò è essenziale al concetto naturale vero
e pieno della Responsabilità umana. Anche ciò quindi
appartiene all' ordine naturale della Giustizia nella varietà delle sue
formazioni. Il restringere 1* ordine della Giustizia a quei pòchi
atti ai quali si rìduceva una volta, e che si abbraccia- vano nei dieci
comandamenti del decalogo, è eflFetto di nna grossolana e non scientifica
idea della cosa. Come il restringere che fa il volgo dell' idea dell'
animale a quelli che sono forniti di occhi e di gambe per camminare: e il
restringere l' idea del vegetale a quelli soltanto che hanno le foglie
verdi. La scienza ha trovato animali anche senz' occhi e
fissi alle pietre; e vegetali senza foglie e senza verde. E cosi trova
delle Giustizie senza la Sanzione del carcere e della multa. La
restrizione suddetta corrisponde insomma perfet- tamente a quella che fa
il volgo e fecero gli antichi delle specie degli animali, credute poche e
sempre quelle e mo- dellate a priori sugli esemplari fatti passare da dio
in rivista davanti ad Adamo nel paradiso terrestre. E dipende
dalla stessa ignoranza della legge della formazione naturale. Poche,
dicevano, e sempre quelle, le specie degli ani- mali; e create
direttamente da dio, e mostrate ad Adamo al principio del mondo nel
paradiso terrestre. E cosi, poche e sempre quelle le specie della
Giustizia, impresse da dio direttamente neir anima di ogni uomo che
nasce e scritte sulle tavole di Mosè dalla cima del monte Sinai [cfr.
Grice, ’10 comandi’, decalogo] La scienza sbugiardò V idea meschìnissima
quanto alle specie degli animali. Sbugiarda col positivismo l'idea
meschinissima quanto alla Giustizia. Non dio, autore delle specie degli
animali; ma la natura: e le specie, un nu- mero stragrande; e non fisse,
ma variabili; e variabili accidentalissimamente. E cosi, non dio autore
delle specie della Giustizia, ma la natura: e queste specie, un
numero stragrande e immensamente differenziato; e non fisse, ma
variabili; e variabili accidentalissimamente. L'idealità sociale, ossia
la giustizia morale, formata che sia nella coscienza dell' individuo, vi
fun- ziona come una forza speciale, nel senso antiegoistico
chiarito nella Morale dei Positivisti; e vi produce un doppio effetto, secondo
che si applica al giudizio e alla direzione delle azioni individuali
proprie, ovvero al giu- dìzio e alla direzione delle azioni degli
altri. Da questo secondo effetto dipende la vitalità intrin-
seci e vera della Società, considerata siccome un organismo naturale nel senso
proprio della parola. Perchè la Giustizia, parlando nella coscienza dell'
individuo, è la potenzialità indistinta onde originano i distinti dei
Po- teri sociali effettivi e delle Leggi da essi emananti; e perchè
la Giustizia potenziale degli individui associati collabora a rendere
efficace l’opera del potere e della legge sociale. E come se si
dicesse che un organismo, pogniamo vegetante, si sviluppa nei suoi organi
caratteristici mercè la vitalità delle parti componenti: e che poi T
attività di questi organi speciali è operativa de' suoi effetti
par- ticolari sopra le parti mercè il concorso della vitalità che
si mantiene nelle parti stesse. Sempre insomma la legge generale della
formazione naturale, che l' indistinto non cessi mai di sottostare al
distinto, e di offrire cosi la ra- gione naturale e del suo essere e del
suo operare. Cosi si osserva che una legge in un paese rimane
senza efficacia e come lettera morta se, a farla valere, è solo il
Potere, e non lo ajutano di conserva le singole coscienze dei cittadini;
le quali, accogliendo in sé la forza viva già formata della Giustizia
morale, ne ricevono un impulso atto a muoverle alla disapprovsizione
degli atti contrari alla Legge e a concorrere per quanto possono a
farla valere. E, quanto sia vero ciò che affermiamo, lo di-
mostrano i fatti sociali tutti quanti. Anche, per esempio. r
interesse vivissimo onde si tien dietro allo svolgimento di un processo
criminale, pur dei paesi lontani, pure re- lativo a persone che non ci
riguardano punto, né diret- tamente, ne indirettamente. Che
più? Tanto è viva e potente nell'uomo T idea della Giustizia
antiegoistica, che egli non può stare che non ne provi V eflFetto più
vivo anche pei fatti immagi- nari delle fole, dei racconti, delle poesie,
dei drammi. Data r immaginazione di un fatto, al quale sia applica-
cabile l'idea della Giustizia, questa per legge psicologica indeclinabile
si ridesta nella mente, e col suo naturale atteggiamento: come in tutte
le altre associazioni men- tali. In ciò la spiegazione della vivezza
della voluttà, onde si leggono o si odono i suddetti racconti, e si
as- siste ai drammi. E la vivezza di tale voluttà è il termo- metro
che prova la presenza nella coscienza della idea efficace della Giustizia
e ne ne misura l' intensità. La punizione materiale, vendicatrice della
Giu- stizia, sarà necessaria quindi in ragione inversa della ef-
fettuazione nella coscienza della Idealità sociale giusta. Meno sarà
questa, e più dovrà essere la severità e la prontezza della pena
materiale, che n' è la Sanzione. Il che, come altrove dicemmo, si fa per
due scopi: per quello di supplire, colla impulsività dall' esterno
della minaccia del castigo, al difetto della impulsività dall* in-
terno della Idealità sociale direttrice dell'azione: e per quello di
giovare a produrre questa impulsività nel!' in- dividuo. Onde, più questa
è già prodotta, e meno occorre di coazione a supplirla. E al
massimo assoluto della produzione della detta impulsività corrisponderà V
assenza del bisogno della coa- zione materiale e la sufficienza per la
Moralità del puro fatto psichico della idea e della disposizione della
Giu- stizia, e del giudizio mentale dettatone di approvazione e
disapprovazione dell' atto relativo. Ciò nel rapporto dinamico tra
chi detta la Legge e chi ne è obbligato ad eseguirla. Ma e' è
di più. La effettuazione della Idealità della Giustizia, in ra-
gione che più avviene, più paralizza il suo contrario, onde deriva; cioè
la Prepotenza. E quindi i sentimenti nei quali questa si esprime: come è,
tra gli altri, quello della vendetta considerata quale sodisf azione
egoistica. E più invece ravviva i sentimenti antiegoistici,
come quello della benevolenza altrui. Ravviva cioè i sentimenti
che, nella Morale dei Positivisti (i), distinguemmo colla denominazione
di pietosi, dopo avere dimostrato che la Pietà è il carattere del sentire
dell' uomo in corrispon- denza della sua formazione caratteristica della
Idealità sociale. Per conseguenza, la stessa pena materiale,
a misura che una Società diventa civile, va perdendo del carattere
di una vendetta espiatoria ed appassionata, assumendo quello di un
semplice rimedio; che si applica a malin- cuore e con sentimento di
compassione essendocene il bisogno e per questo bisogno solamente.
E in generale, questa qualità della assenza del carat- (i)
Libro I, Parte III, Capo III, n. 7 (Pag. 150, 151 del Voi. Ili di queste
Op, fil, nella ediz. del 1885, e pag. 158, 159 nella ediz. del 1893 e del
1901, e pag. 163, 164 nella ediz. del 1908) e altrove. tere
appassionatamente vendicativo e di pura espiazione si trova nella Società
assai più nella reazione del Potere, che rappresenta maggiormente V
Idealità antiegoistica, di quello che nella reazione della Convenienza,
nella quale assai più rimane dell' egoismo e della Prepotenza.
E, negli atti stessi della Convenienza, la vendetta appassionata,
egoistica, prepotente, è più o meno in ra- gione che è più o meno
eflFettuata V idea della Giustizia neir individuo reagente.
Ossia, in una parola, quantunque la Giustizia im- plichi la
Responsabilità, e questa una Sanzione o una vendetta punitrice, tuttavia,
compiuta che sia come for- mazione psichica individuale essa Giustizia,
vi si dissi" mula o vi si fa latente la vendetta relativa: a
quello stesso modo che, formata che siasi in una sostanza la sua
affinità chimica per la trasformazione in questa di un certo numero di
calorie, il fenomeno propriamente ter- mico vi si dissimula e non si
manifesta più in una tem- peratura misurabile col termometro. E
torna cosi, anche nello studio della Respon- sabilità e del carattere
della Idealità sociale come Giu- stizia, il principio più volte
illustrato nella Morale dei Positivisti per altre vie (i), del regno
della Giustizia sot- tentrante nella Società, di mano in mano che questa
si perfeziona, al regno del fato. E torna ad apparire del
pari il carattere speciale deir uomo formato sotto V influenza dell'
ambiente o del- (i) Libro II, Parte IV. Capo II, n. 16 (Pag.
399 del Voi. Ili di queste Op, fil. nella ediz. del 1885, e pag. 422, 423
nella ediz. del 1893 e del 1901, e pag 432, 433, nella ediz. del 1908) e
altrove. PPipm>yi^"imtVi- k^i.J»^-» -pr^\»y-^r*
t-^»t-«- ^vv --.. vt-w- l'organismo sociale: ossia dell' uomo
virtuoso, o sapiente, che dir si voglia. Per lui basta, ed è
tutto, V idea della Giustizia; e il giudizio che fa egli stesso di se
medesimo in virtù di essa: e al di fuori e al di sopra di ogni punizione
mate- riale. Come dice Dante di Virgilio: El mi parea da sé
stesso rimorso, O dignitosa coscienza e netta, Come t' è picciol
fallo amaro morso! E, relativamente al malvagio che lo oflFende, in
ra- gione della offesa, anziché il sentimento della vendetta,
cresce in lui quello della pietà. Come in quel divino cro- cefisso, al
quale, negli spasimi di dolore cagionatigli dalla più atroce delle ingiustizie
col più atroce dei supplizi, l'offesa immensa non riusci che a trargli
dall'anima la preghiera sublime: Padre, perdgna a questi miei
crocifis- sori, perchè non sanno quello che si facciano. Abbiamo
parlato di quello che, sulla fine del primo, avevamo chiamato il
secondo degli uffici del Potere. Resta dunque a parlare del
primo di questi uffici, che dicemmo essere di stabilirsi nella Società a
spese delle sue parti; e del terzo che dicemmo essere di di-
spensare nell'effetto del miglioramento delle parti quella forza comune
dell' ambiente sociale che opera per esso Potere. E lo
faremo, cominciando la illustrazione divisata in questo Capo e nel
seguente, e compiendola nelF ultimo. 2. — La Giustizia propriamente
detta non è tutta la moralità. Questa Giustizia, cóme
vedemmo, riguarda la ifuo- lumità delle parti sociali. E quindi è il solo
lato nega- tivo della Moralità. Ma la Moralità ha anche i
suoi lati positivi: come quelli indicati dalle parole Diritto e Autorità;
e quello dei mezzi onde si costituisce e vive il Potere,
organo della Società; e quello del Premio della virtù. Anche
di questi lati positivi quindi (e sotto il punto di vista prefissoci (i)
della Responsabilità) si deve chia- rire la formazione naturale. Con ciò
potrà rimanere spie- gato appieno il fatto naturale della Moralità, e la
ragione della Responsabilità potrà apparire sotto tutti i suoi
aspetti reali. §11. Criterio positivo del Diritto e del
Dovere. Il Diritto (come dimostrammo nel luogo più volte citato della
Morale dei Positivisti) è la stessa potenza libera che si avvera rielT
essere umano. Considerato questo essere isolatamente, il Diritto,
come dicemmo sopra, coincide colla Prepotenza; e di- venta il Diritto
sociale antiegoistico e giusto (o il Diritto propriamente detto) in
quanto è ridotto in limiti deter- minati dal contrasto della potenza
opposta degli altri uo- mini consociati. Vale a dire: la
potenzialità astratta dell' individuo, nella condizione eflFettiva del
suo esercizio (cioè di fronte alle reazioni delle potenzialità degli altri),
diventa una potenzialità reale determinatamente limitata dalla
effi- cienza contrastante delle potenzialità degli altri uomini. 12)
Libro I, Parte II, Capo IV. n. 15 ecc. (pag. 125 del Voi. nidi queste Op,
ftl. nell' ediz. del 1885, e 131 dell' edìz. del JS93 e del 1901, e pag.
135 nelle ediz. del 1908). Voi. IV. 9
Tf^r»* Con che però resta sempre il principio, che il
Di- ritto di un uomo è ciò che esso può fare. Resta sempre;
per la ragione xche, posto V uomo di fronte agli altri, e rimanendone
elisa per tale relazione una parte della potenzialità, la potenzialità
sua effettiva non è tutta V astratta, ma solamente quella che
residua dalla elisione sofferta. E, per togliere ogni dubbio
su ciò, basta V osserva- zione del fatto che, cambiandosi le condizioni e
i rap- porti dinamici, onde dipende la elisione di una parte della
potenzialità di un individuo, questa torna attiva, e con ciò torna
Diritto. Il potere di staccare un frutto ma- turo da un albero non è
Diritto dove il contrasto del possesso altrui impedisce di esercitarlo;
ma tolto questo contrasto (portandoci, mettiamo, in una regione
nella quale le piante sono proprietà comune) lo stesso potere di
staccare il frutto torna Diritto, per la sola ragione che non ha più T
impedimento al suo esercizio del possesso altrui. Il Diritto quindi,
come dicemmo pure nello stesso luogo della Morale dei Positivisti, se in
astratto è identico per ogni uomo, (essendo Tuomo in astratto
identico all' uomo) nella realtà per ogni uomo è diverso, per la ragione
che la potenzialità di un uomo differisce sempre nel caso pratico da
quella di un altro: quella del maschio, ad esempio, da quella della
femmina; quella dell' adulto, del sano, del civile, del colto, dell' educato,
dell' uomo di genio, da quella del bambino, del malato, del selvaggio,
dell' ineducato, dell' imbecille; e via dicendo. wyfmwii^i '
P Jl >»u-.ry - l’uomo ha nella natura in forza del suo arbitrio in
quanto è deter- minato dalla Idealità lituana che è la Idealità sociale.
Qui colla spiegazione della formazione della Giustizia (o dell' Idealità
sociale) spieghiamo anche la formazione del Diritto, e quindi ne
indichiamo le condizioni dettagliatamente, che si possono riassumere nel quadro
che segue: A) Arbitrio umano libero. Non il potere generico della cosa sulla
cosa. Non quello della persona in condizione irresponsabile. B) Arbitrio libero
di un uomo (sulla cosa o sull* uomo) in con- fronto colla reazione delVarbitrio
libero dell* altro uomo. Non dove non si pone questa reazione: e in quanto è
regolata dalP Idealità so- ciale. E in ordine a ciò: Arbitrio libero di un uomo
in confronto con una reazione pos- sibile. E qui Diritto potenziale o
naturale. Arbitrio libero di un uomo in confronto con una reazione
reale. E qui Diritto di fatto o positivo^ nelle diverse forme di questo. il
Diritto può essere nello stesso tempo un Dovere, e non che deòòa.
E perchè questa differenza fra Diritto e Diritto?
Rispondendo, apparirà insieme come e quanto con- vengano fra loro
le definizioni apparentemente diverse da noi date del Diritto nella
Morale dei Positivisti (nel luogo sopra citato), dove dicemmo che è in se
stesso la Giustizia, o la Legge o la Idealità sociale, e qui, dove
diciamo che è un potere libero implicante una Respon- sabilità verso una
Sanzione che ne salva V esercizio. Nel caso di chi mangia la propria mela,
M impulsi- vità traente all' azione è data, non dalla Idealità
sociale « antiegoistica, ma dall' istinto egoistico, o da quella
che dicemmo la Prepotenza, precedente T Idealità morale propriamente
detta. Trattandosi di questa Prepotenza, la Re- sponsabilità r accompagna
solo in quanto la limita, e non in quanto la produca. E quindi la stessa
Responsabilità ha con essa un rapporto unico. E. per ciò non può aver che
il nome di Diritto, ossia si può pensare soltanto che r esercizio ne è
reso incolume dalla Responsabilità che lo salva. In vece, nel caso
del padre che educa il figlio, T im- pulsività traente all' azione è data
dalla Idealità sociale antiegoistica, ossia da qualche cosa che è già una
Giu- stizia, implicante quindi T elemento della Responsabilità. Da
ciò proviene che il potere del padre di educare il figlio sia fra due
rapporti: fra quello di eserizio incolume, in quanto è salvaguardato da
una Sanzione sociale relativa, onde è Diritto; e quello che il padre è alla
sua volta obbligato, pure per una Sanzione sociale relativa. ad
avere in sé la Idealità della sua disposizione o del suo potere di
educare il figlio, onde è Dovere. In una parola, il potere
egoistico, non derivando estrinsecamente dall' ordinamento sociale, ma
dalla stessa spontaneità dell' individuo, non può importare se non
la Responsabilità di chi volesse impedirlo. E quindi è solo un
Diritto. Mentre invece il potere antiegoistico, deri- vando come tale
dall' ordinamento sociale, che lo ingenera per mezzo della relativa Sanzione,
impòrta due Re- sponsabilità. Una per chi non lo rispettasse: onde
gli corrisponde il Dovere in un altro. Ed una seconda per chi non
lo avesse e non lo esercitasse: onde, sotto questo rispetto, è un Dovere
esso stesso. Dunque il Diritto è sempre una potenzialità che importa
una Responsabilità, secondo la definizione che qui ne abbiamo dato. Ma
questa potenzialità può es- sere determinata da una Legge, o Giustizia, o
Idealità sociale, secondo che importava la definizione data nella
Morale dei Positivisti, In questo secondo caso, come ivi dicemmo, il
Diritto è nello stesso tempo un Dovere. Non cosi quando la po- tenzialità
è di un ordine estramorale. 8. — E cosi siamo arrivati, per mezzo della
analisi positiva del fatto umano e sociale, a scoprire // criterio
positivo del Diritto e del Dovere. Con questo criterio (e non altrimenti)
si possono ri- solvere i problemi che li riguardano; e specialmente
i quattro fondamentali che seguono: circa i Diritti dell' uomo sopra
le altre cose della natura. Circa i Diritti dell' uomo sopra se
stesso. Circa i Diritti di Autorità. Circa il Diritto, non di
Giustizia, ma di Carità o Beneficenza, che dir si voglia. Nell'esempio
innanzi citato di uno che pigli dei pesci notammo, che il Diritto di chi
lo fa è solo per quanto il fatto riguardi altri uomini, e non per
quanto riguarda i pesci. Coi pesci, che prende, l'uomo ha il
semplice rapporto generale della cosa colla cosa, quale è quello,
pogniamo, della foglia verde oscillante al sole e rubante all'atmo-
sfera la molecola di acido carbonico che vi nuota dentro e si imbatte
alla portata delle boccuccie predatrici. In confronto col pesce 1' uomo
non ha né Diritto né Dovere. Esso, in forza del potere onde é fornito, ne
usa e ne abusa senza offesa della Moralità, che é estranea a tale
ordine di azioni. E nessuno dice reo di colpa e im- morale, né il
pescatore di professione che trae dall'acqua il pesce e ne contempla
impassibile gli spasimi dell'asfis- sia, onde muore dibattendosi
convulsivamente sulla secca arena, e lo piglia cosi per procacciarsi da
vivere; né il pescatore dilettante, che gli infligge quel martirio
per semplice spasso. Ma nella Civiltà progredita si può arrivare
fino al punto di estendere il carattere del Dovere anche alla detta
azione dell' uomo in rapporto col pesce. La Zoofilia - 138 - (che è
una tendenza della Civiltà progredita) cosi parle- rebbe in proposito air
uomo; — Il pesce, prendilo pure: x:hè ti abbisogna per vivere. Ma nel
farlo non eccedere i limiti della stretta necessità. Prendilo per quanto
ti oc- corre, o per mangiarlo, o perchè ti è di danno o di pe-
ricolo il viver suo. Altrimenti rispetta in lui il godi- mento della
propria vita. E, dovendo prenderlo, fa ia modo che avvenga col minore suo
dolore possibile. E tutto ciò consideralo siccome un tuo Dovere verso il
pesce. E, un Dovere analogo, i moralisti più delicati oggi lo
stabilirebbero, non solo pei pesci, ma anche per tutti gli altri animali;
e non solo per gli animali, ma anche per le piante; e non solo per le
piante, ma anche per le cose inanimate senza distinzione. Stabilirebbero
cioè quel- la ordine quarto di Doveri, che chiamano dei Doveri del-
l' uomo verso le cose della najtura: essendo V ordine primo, secondo
loro, quello dei doveri verso dio; il secondo, quello dei Doveri, verso
se stesso; il terzo, quello dei Doveri verso il prossimo. E come
ciò? E giusta tale estensione dell'idea del dovere? E, se giusta, non si
avrebbe con ciò una smentita alla nostra dottrina della formazione
naturale deir idea del dovere? Dicemmo che la effettuazione della
Idealità della Giustizia, in ragione che più avviene, più para-
lizza il suo contrario,., e più invece ravviva i sentimenti
antiegoistici, che distinguemmo col nome di pietosi, caratteristici del sentire
dell' uomo in corrispondenza colla sua formazione della Idealità
sociale. In ordine a ciò, parlando in ispecie della Idealità sociale
della famiglia, nella Morale dei Positivisti (i) scri- vemmo quanto
segne: — Questa Idealità diversifica se- condo le varietà umane. Rozza
fra le rozze, gentile fra le gentili; portante a illimitato uso di potere
nelle So- cietà embrionali, ristretta alla mera necessità dell*
alleva- mento, dell' educazione, e dei riguardi necessari, nelle
So- cietà più perfette; e cosi via per altre diversità e grada-
zioni senza numero. Sicché si può dire, che, se dal bruto air uomo r
idealità in discorso si umanizza, questa uma- nizzazione è neir uomo
stesso maggiore o minore. E, dove è minore, vediamo T effetto, e nella
forma ancor fiera del sentimento relativo, e nella sua limitazione,
restringen- dosi, o alla nazione, o allo stato, o ^alla tribù, o ad
un semplice branco di uomini. Mentre, dove è maggiore, ve- diamo
Teffetto, e nella gentilezza del sentimento, e nella sua estensione, che
abbraccia tutti quanti gli uomini, per quanto diversi e immeritevoli: e
travalica anche il con-- fine dell'umanità, e si presta a che l'uomo sia
pietoso anche cogli animali inferiori, e perfino cogli esseri
inanimati, La pietà cosi estesa, o in genere Tappi icazione del
potere proprio verso le cose 7iei limiti del necessario e del
ragionevole, è una moralità indiretta, e non una mralità diretta. Che
questa è solo quella che dipende immediatamente dalla reazione tra uomo e
uomo; e che quindi ha per correlativo una Sanzione sociale e conseguentemente
ne implica la Respc^nsabilità. (i) Libro I, Parte III, Capo III, 11. 6
(|)a^. 149, 150 del voi. lU di queste Op. fiL nella ediz. del 1885, e
pag'. 156, 157 nel!' ediz. del 1893 e del 1901, e pag. 161, 162 nella
ediz. del 1908). Onde storicamente (nella successione dei periodi della
evoluzione della Moralità umana), e statisticamente (nei gradi di
evoluzione della Moralità propria dei diversi ordini costitutivi di una
stessa Società) da prima si ha solamente la Moralità diretta, o che
riguarda V uomo e non le cose. Le genti più rozze oggi e, fra le
genti più colte, le persone che lo sono meno, né sentono né
sospettano neanco che la Moralità possa riferirsi anche agli atti relativi
ai bruti e alle cose inanimate. Il decalogo mosaico, sintesi dei precetti
morali di uno stadio evolutivo antico e non ancora perfetto della
Moralità, non ne fa cenno nemmeno esso. Ma, sviluppatasi più fortemente
col progredire della civiltà nel sentimento pio la espressione della
Idealità antiegoistica, questa dovette risentirsi e muovere
ogniqual- volta nella rappresentatività umana si fossero avute
anche solo delle analogie coi fatti umani eccitatori dello stesso
sentimento pio. E ciò per la legge generale della attività
psichica, la quale importa che la rappresentazione somigliante (os-
sia il ritmo analogo dell' attività centripeta) determini affetti e
volizioni somiglianti (ossia ritmi analoghi dell’attività riflessa).
Mansuefatto l’uomo per l’effetto dell' ambiente sociale, e reso più umano, e cresciuta
in lui la potenza pietosa, questa dovette scuotersi al palpito, non solo
delle viscere del fratello immolato dalla ferocia dell' assassino, ma
(per somiglianza della cosa) anche di quelle dell’agnello semivivo sul lastrico
del pubblico macello. Do- ||Wli|ILP!iWWiJi,iS"iWii vette scuotersi
perfino alla dilaniazione dei ramoscelli vivi di una pianta, onde il pensiero
è tratto per analogia a rappresentarsela con un senso di dolore. Come
quando Goethe canta di una pianticella di rosa. Der wilde Knabe brach*
s Rdslein auf der Heiden; Ròslein wehrte sich und sùach, Hai/
ihm dock kein Weh und Ach ! Mussi* es eben leiden, E siccome il
senso della pietà è, come dicemmo, il sentimento riassuntivo dell’idealità
antiegoistica, ossia doverosa, cosi il concetto vago del dovere, colla
sua imperatività astratta e quindi misteriosamente indefinita, dovette
associarsi anche alla Pietà sentita in causa dell’analogia per T agnello e per
la rosa; e conseguente- mente si dovette indirettamente o per riflesso,
la ragione del Dovere, estenderla anche al rispetto di un animale e
di una pianta. Ed è ciò che confusamente presentirono quei vecchi
sensisti che posero la facoltà immaginaria del senso della Moralità, o
queir altra misteriosa della *simpatia* o compassione. Ma la cosa può
andare anche più oltre. Il sentimento pio medesimo, rimanendo offeso in
chi è testimonio della azione spietata, compiuta da una per- sona o
sopra un bruto o sopra un' altra cosa, e perciò in lui risentendosi, può
far sì che egli si esprima ripro- vando r azione offendente. Tale
espressione riprovatrice sarebbe una vera San- zione vendicatrice della
resizione di Convenienza, e che — 142 — potrebbe essere assunta dal
Potere, quando esso (come è possibile, anzi probabile, an2i in gran parte
si è già fatto (i) progredendo la Civiltà) convertisse in Legge
pubblica il giudizio privato divenuto comune. Come è notissimo, in tutti si può
dire i paesi civili si sono formate delle società per la difesa degli
animali, e si sono fatte delle confederazioni di esse anche internazionali,
e si tengono di tratto in tratto dei congressi dei loro rappresentanti. E
si sono anche fatte delle leggi proibitive degli eccessi contro le povere
bestie. E credo opportuno riportare (jui tradotto un tratto a proposito
del Konversations Lexikon del Brockhaus (Lipsia, 1895 voi. 15, pag.
844) — La legislazione più antica contro quelli che maltrattano gli
animali ci è presentata dall' Inghilterra dove essi erano puniti fino dal
secolo passato. Seguì una serie di leggi per la protezione degli animali
domestici, per la proibizione delle giostre delle fiere, per la
limitazione delle vivisezioni. Relativamente presto anche la Germania
dettò leggi nello stesso senso; oltre le misure di polizia, il codice
penale sassone del 30 marzo 1838 indisse la prescrizione generale per la
quale si deferivano alle autorità di polizia le punizioni per gli eccessi
dell' uso anche legittimo degli animali. Seguirono tosto la Prussia, il
Wtirtemberg, ecc. con prescrizioni in parte più estese. Al presente vige
un paragrafo del codice penale dell' Impero, col quale è punito con una
multa che va fino ai 150 marchi, o col carcere, chi pubblicamente o in
modo da fare scandalo con malvagità d' animo tormenta o tratta male gli
animali. Oltre ciò sono in vigore nei diversi stati delle ordinanze
speciali delle autorità amministrative proibitive di particolari
maltrattamenti degli animali e in favore di un contegno ad essi
favorevole, e in specialità con prescrizioni circa il trasporto degli
animali, i cani da tiro, la macejleria, il sopraccarico dei carri ecc.
Nell'Austria, oltre certe ordinanze speciali delle autorità, ha valore di
legge 1* ordinanza ministeriale del 15 febbraio 1855, che dichiara
punibile il maltrattamento degli animali che desti pubblico scandalo; in
Francia la cosidetta legge Grammont del 2 luglio 1850 per la protezione
degli animali domestici, ecc. I rappresentanti delle società per la
difesa degli animali tendono a che la punibilità si estenda maggiormente
e non si limiti a restrizioni fissate, come per esempio la pubblicità def
maltrattamento. Di tale tendenza pare ab- biano tenuto conto la Svizzera,
1' Italia (art. 491 del Codice penale del 1889), il Belgio (Codice penale
del 1867), l'America del Nord, ecc. ^i Nel qual caso poi si avrebbe
una doverosità diretta formatasi da una indiretta. E con una Sanzione e
una Responsabilità, non misteriosa e indefinita e vaga, ma
determinata. E lo stesso avviene poi per molte altre dell’idealità
morali. E anche per un altro verso V esercizio del po- tere di un
uomo sulle cose può finire coir essere gover- nato da una doverosità.
Come dove uno, che possiede un podere e potrebbe farne lo strazio che
volesse, è tratte- nuto dair idea di non lasciare i figli senza pane.
Nel quale ordine di idee cade il fatto della legislazione sulla
interdizione dei prodighi. E per altri versi ancora; e per moltissimi.
Ogniqual- volta cioè r esercizio del potere, di un uomo sulle cose
offende, o affetta in qualsiasi maniera, il senso e l’appreziazione dell’altro e
ne provoca una reazione, incontrandone quindi una sanzione e la
responsabilità. E in tale ordine di casi è da notarsi che certi atti
fisiologici necessari ed inevitabili, ma incomodi o al senso esterno o al
sentimento estetico, importano una dovero- sità solo in quanto sono
compiuti da un uomo alla pre- senza di altri e non in quanto sono fatti
in disparte e in segreto. Fatta però V abitudine di considerare gli
atti mede- simi fatti alla presenza degli altri come illeciti, V
idea della loro sconvenienza si associa poi ad essi • tanto o
quanto. anche compiendoli nascostamente. E quindi l'uomo, a misura che
diventa civile e moralmente più perfetto, si studia o di evitarli più che
è possibile o, non poten-. I !ij.i«pj dolo assolutamente, di eseguirli
nel modo meno inde- coroso. Ciò conferma anche la dottrina positiva
già da noi accennata (i) della formazione naturale dei Doveri del-
l' uomo verso se stesso. E spiega in pari tempo il fatto curioso delle
an- tiche Moralità religiose, che consideravano alcuni fatti
fisiologicamente necessari dell'uomo, anche compiuti in- segreto, impuri
e tali da inquinarlo, e richiedenti quindi i riti della
purificazione, 7. — Secondo le idee religiose T arbitrio sulle cose
sarebbe una concessione di dio, creatore e quindi proprie- tario di esse: e in
forza di questa concessione l'arbitrio medesimo sarebbe intero ed assoluto ed
esente dalla restrizione doverosa sopra chiarita di un trattamento umano
e di un uso razionale, mancando il precetto divino rela- tivo, che solo,
secondo le idee stesse, può stabilire la ra- gione del Dovere. E da
ciò si vede che il positivismo, anziché distrug- gere la Moralità, è atto
invece ad allargarla più che non lo faccia la religione. La quale anzi,
nella sua gelosia pel monopolio arrogatosi della morale, si irrita e si
im- penna per questo eccesso (come essa lo chiama) di Mora- lità
positiva della Società moderna più colta, che vuol essere buona anche
colle bestie e coi fiori. La religione si sente in ciò moralmente
soverchiata, e se ne vendica chiamando questa bontà, che essa non
sente e non può insegnare, cosa diabolica e perversa. (i) Vedi sopra Capo
II, J VI, n. 14, e la nota (2) relativa. Si teme che, perduta la
religiosità, V uomo tor- nerà alla ferocia brutale della prepotenza
egoistica; e non si vede che invece il positivismo è ancora più
umano e morale che non la religione. Cosi si lamenta che la Civiltà
vada distruggendo la ingenuità santa dei tempi antichi; e non si vede
che' i santi ingenui dei vecchi tempi, perfino le matrone pa-
trizie e venerabili, erano, verso le stesse persone umane degli schiavi,
più fieri e crudeli che il rozzo mulattiere colla sua bestia
ricalcitrante, e il ragazzo ineducato col- r insetto che strazia senza
pietà. L' uomo del positivismo non si umilia irragionevol-
mente col credere che V uso delle cose, sulle quali sente di avere un
potere, sia una concessione gratuita e capric- ciosa che gli sia stata
consentita dal talento o dalla mi- sericordia di qualcheduno. Ed è
orgoglioso di ritenere cosa sua ciò che egli è in gprado di appropriarsi:
anche i mari, le montagfne, il vapore, V elettricità, che non sono
enumerati nel rogito di consegna del paradiso terrestre. Ma ciò non
impedisce che egli agisca verso le cose con meno insolenza dell' uomo
religioso e con maggiore mitezza. Il proposito del positivista non è
quello avaramente egoistico del moralista della religione, che dice a
se stesso: — Queste cose dio me le ha date in proprietà: dunque perchè non
ne caverò per me tutto il pro- fitto possibile? Il suo proposito è quello
retto, onesto, morale della razionalità, di servirsi cioè delle cose
pel bene in genere, proprio od altrui; fosse pur anco solo il bene
delle cose che non sono lo stesso uomo. Voi. IV. IO ' ^ Pel
moralista della religione le cose sono una pro- prietà, onde dio, che le
ha create e può quindi disporre a suo talento, lo ha investito, col
controsenso che abbia ancora a sudare per raccogliere i frutti del campo,
e lot- tare contro la rabbia, molte volte fatale, delle bestie fe-
roci. Il moralista del positivismo invece, fiero di se stesso, audace,
generoso come Giapeto, non riconosce donatori. Egli si sente- padrone
della natura come frutto della siia conquista faticosa; e, come un
duellante cavalleresco, al- l' elemento immite della natura dice: Eccoci
alla prova; se varrai più di me soccomberò io; sarai tu a soccom-
bere, se sarò io il vincitore. Ma si dice dal moralista religioso, che un
Do- vere originato nel modo da noi detto sopra non è pro- priamente
un Dovere: e che, se V ha fatto V uomo, esso può anche disfarlo.
Secondo il moralista religioso il Dovere propriamente detto è quello che
non è abbandonato alla balia del ta- lento mutabile e capriccioso
dell'uomo: onde è neces- sario che sia un comando di dio, al quale non è
possi- bile sottrarsi. E in tale credenza è secondato dalla falsa
idea, pur generale ancora fra gli stessi positivisti, che le buone
azioni in genere, e in ispecie la pietà verso i bruti e la ragionevolezza
neir uso delle cose, siano naturalità irre- sponsabili, al pari,
mettiamo, degli effetti delle cause fi- siche sui corpi: disconoscendosi
cosi, per ispiegare i fatti in discorso, la loro natura morale, che è
pure una realtà attestata sperimentalmente. Il positivismo
(malgrado i positivisti che sbagliano) vita futura, conchiudono generalmente
che l'uomo da nulla è obbligato ad avere rispetto alla propria vita,
poiché, suicidatosi, rimane senza efficacia qualunque minaccia che la Società
ponesse a trattenerlo. E che quindi sia V uomo anche moralmente padrone
assoluto della propria vita, e possa disporne come gli talenta. Queste sono due
soluzioni opposte ed estreme. False ambedue, perchè dedotte da una idea
del Dovere scien- tificamente non vera. Una doverosità diretta,
relativamente al suici- dio, certo che non si può trovarla, poiché, né ha
nes- suna presa sul suicida una minaccia di punizione per parte
della Società sulla di lui persona, che se ne sot- trae col suicidio
stesso, né é ammissibile l' idea della Legge divina e della immortalità
dell' anima. E, assolutamente parlando, quanto alla conservazione della
propria esistenza, V uomo potrebbe considerarsi nella condizione estramorale
indicata sopra parlando degli atti deir uomo sopra le cose della natura.
E quindi, come non si ascrive a merito il tendere, nelle condizioni
nor- mali dell'animo, a conservarsi in vita, e neanche a tirare il
respiro (quantunque a ciò si possa concorrere anche colla volontà), cosi
il suicidio potrebbe essere riguardato semplicemente quale effetto
naturale di condizioni anor- mali dell' animo di un uomo, come il tossire
delle con- dizioni anormali degli organi della respirazione. Ma, se
non una doverosità diretta, si può bene avere, circa il suicidio e la
conservazione della propria vita, una doverosità indiretta; per la
ragione che molte e diverse Idealità morali doverose, connesse col
fatto della conservazione della vita, possono essere presenti
imperativamente (ossia con una impulsività morale o do- verosa) nella
coscienza disposta al suicidio; e rivestirne la deliberazione del
carattere della reità morale. Mettiamo un padre disposto a suicidarsi,
che pensi di creare, facendolo, la infelicità materiale e morale
der figli superstiti. O uno che pensi danneggiare suicidan- dosi
dei creditori onesti, che si sono fidati di lui e lo hanno beneficato
prestandogli del denaro, che avrebbe potuto pagare almeno in parte
continuando a vivere. E cosi via per moltissimi altri casi consimili
(i). (i) Molto istruttivo per questo è il noto dramma di Paolo
Ferrari, intitolato // Suicidio^ nel quale, come le tirate
spiritualistiche sono freddure senza fondamento scientifico, senza sugo e
ridicole, che è strano che egli creda che si possano prendere sul serio,
cosi invece è pieno di verità e di effetto il quadro delle conseguenze
nella fa- miglia superstite del suicida. Onde poi si deduce che
anche nei casi nei quali la doverosità affetta, per impedirla, la
deliberazione del sui- cidio, questa doverosità non è sempre la stessa,
ma varia secondo il numero, la importanza e la qualità delle ra-
gioni morali intervenienti. Cosi, se un corpo insipido per sé acquista un
sapore da sostanze che glielo danno, que- sto suo sapore varia secondo la
diversità delle sostanze dalle quali Io riceve. Tanto è vero poi che
la doverosità non è in- trinseca al suicidio per se stesso, e gli è.
conferita, quando si dà che Io accompagni, da ragioni morali
intervenienti diverse secondo i casi, che si può pensare Inter
venirvene anche di opposte; e tanto da produrre perfino la dove-
rosità contraria, ossia quella puranco di commetterlo. E invero tutti
quanti i ragionamenti ingegnosissimi architettati da certi moralisti non
poterono mai togliere r aureola di eroismo virtuoso onde risplende la
memoria di Lucrezia romana e di Catone uticense. Dicemmo, che la
doverosità può associarsi al fatto del suicidio, e contrastarlo quindi
nella coscienza morale in quanto si dà accidentalmente la circostanza
che, commettendosi da un uomo, restino inadempiuti dei Doveri che gli
incombono e sono da lui apprezzati. E per ciò affermammo che la
doverosità stessa viene così a riguardare il suicidio, non per sé, ma
indiretta- mente. Se non che è pur vero che anche una
doverosità diretta, atta a contrastare da sé la deliberazione di
com- metterlo, si accompagni al suicidio. E per ciò per una
Sanzione che minacci, non la persona viva (che non può I- "II* PF.I
'darsi come dicemmo), ma la sua fama dopo la morte. La paura di nuocere
alla propria fama col suicidio può trat- tenere tanto o quanto un uomo
dal commetterlo, e in tal caso esisterebbe per quest' uomo una doverosità
diretta impeditiva del suicidio. E sono due gli ordini dei motivi che
possono deter- minare questa Sanzione per la quale la Società può
ven- dicarsi del suicidio sopra la memoria del suicidato. Il primo
è quello delle doverosità indirette accen- nate sopra. E per esse viene ad
avverarsi così ciò che si disse al numero 5 del paragrafo precedente della
dove- rosità indiretta occasione della diretta. Il secondo è quello della
opinione sfavorevole che domini in una Società o in una classe di persone
ri- guardo all'atto der suicidio, fondata sopra la idea che sia una
irreligiosità abbominevole o una rivelazione di debolezza d' animo o di
alterazione delle facoltà mentali. La doverosità diretta dipendente da
una San- zione sociale, determinata da questo secondo ordine di
motivi, è una doverosità accidentale e temporanea, e non normale e
durevole, come si richiede pel Dovere assolu- tamente tale. E
in vero T opinione relativa al suicidio, non sem- pre, non dapertutto, si
trova ad esso sfavorevole. Quante volte, e presso quanti invece il
suicidio è solo ragione di compassione, come per una disgrazia non
colpevole, o è anche una ragione di lode! La disapprovazione
motivata dalle idee religiose vien meno con queste. Si danno circostanze
nelle quali il sui- cidio si riveste del carattere di atto eroicamente lodevole,
come nei citati di Lucrezia romana e di Catone uticense. Si danno
condizioni e periodi dello stato di una Società, che fanno considerare il
suicidio siccome una fatalità ir- responsabile. Che più? Se uno è
colto a commettere una azione criminosa, la gente si avventa sdegnata
contro il delin- quente e si presta in aiuto della pubblica autorità
ven- dicatrice. Si corre invece a salvare dalla morte chi è in
procinto di darsela, e con senso, non di sdegno, ma di pietà, Tutto
giorno si moralizza sul suicidio a fine di impedirlo, ritenendosi di
danno alla Società in gene- rale e a certe sue istituzioni in
particolare. Ma si mora- lizza inutilmente. Le ragioni che si fanno
campeggiare sono inefficaci per mancanza di solidità intrinseca. Il fatto
si ripete ugualmente, come la febbre curata coli* acqua fresca. E il
male, riguardo alla Società, non è tanto nella perdita dei suicidi, che
in generale non costituiscono la sua parte più attiva e sana, ma nelle
condizioni stesse della Società, che, se sono favorevoli al suicidio, con
ciò dimostrano di essere non buone e da migliorarsi. Per le cose
dette certo si scandolezzeranno molti. E crederanno di avervi trovato un
capo d' accusa ineccepibile contro T etica del positivismo, per
sostenere che essa è esiziale alla Moralità dell' individuo e del
corpo sociale. Ma noi rideremo dello scandalo; ingenuo, se chi lo prova è
un pusillo; e ipocrisia, se chi lo pre- testa è un accorto. E diremo:
Acquietatevi, che né la Moralità individuale, né la Società avranno danno
nes- suno. Anzi ne avranno vantaggio. L' esperienza dimostra che
anche tra i credenti in una fede, che riprova assolutamente il suicìdio,
si danno di quelli che lo commettono. Sicché non si può soste- nere
che la religiosità valga ad impedirli. Quanto alla minaccia dell' eterno
castigo il credente suicida, o la af- fronta disperatamente, o trova modo
di persuadersi di po- terlo evitare. Tanto che si sa di suicidi cattolici
che si confessano prima di darsi la morte. E nei credenti, se si ha
il ritegno della paura della pena avvenire, non si ha poi queir altro,
del non credente, dell'orrore di metter fine per sempre alla esistenza,
che per questo non si pro- lunga oltre la vita attuale. E se si disse,
che i credenti un tempo si trattenevano molte volte dal suicidarsi
per r idea di essere sepolti fuori del cimitero consacrato, non è
men vero che ora possa altrettanto l'idea del biasimo che può restare
alla loro memoria. Abbastanza ha provveduto la natura coli'
istinto strapotente della vita alla conservazione dell' umanità,
malgrado i mali gravissimi che ne accompagnano la esi- stenza.
La disperazione che porta al suicidio non si mani- festa con
frequenza allarmante se non in certe condizioni morbose sociali; e ne è
il sintomo. Si manifesta per ef- fetto delle condizioni medesime, regnino
o non regnino le religiose credenze. Ed avviene pel morbo, onde il
sui- cidio è il sintomo, come per tutti gli altri morbi; che, se
non producono la morte, le loro crisi stesse ajutano la guarigione, sia
segnalandoli alla cura da applicarsi, sia promovendo una reazione
salutare. Quando in una Società si verificano frequenti suicidi
HW"*^ » è certo ch^ la pubblica opinione si
scuote dalla sua indifferenza per le cause dalle quali essi dipendono. E
finisce per rendere giustizia alla protesta contro di lei di quelli, ai
quali fu fatale lo sdegno contro la sua durezza. E i singoli
individui sono avvertiti e ammaestrati circa i pericoli fatali di certe
posizioni e circa gli effetti funesti di certi indirizzi della vita,
perchè li evitino e si ravvedano intanto che il male può essere ancora
scon- giurato. Il Diritto suppone l'Autorità; ossia è Diritto
solo in quanto è autorizzato ad esserlo. Ma la stessa Au- torità è tale
solo in quanto è un Diritto. E lo stesso Di- ritto, qualunque esso sia, è
in se stesso una Autorità. Questi asserti sono altrettanti principj
fondamentali positivamente veri; quantunque la loro enunciazione
ab- bia r apparenza di un circolo vizioso. Come dicemmo sopra
tante volte (i), il Diritto per essere veramente tale (e non
semplicemente la potenza di fare, comune ad ogni cosa che agisce), deve
corrispon- dere ad una Sanzione che ne assicuri V esercizio, con-
forme air Idealità sociale o giusta: e importare quindi una
Responsabilità morale. Ora la potenza che stabilisce questa Sanzione, e
verso la quale esiste questa Respon- (E si veda per tutte la nota
al n. 5 del § II di questo Capo III ) sabilità, è ciò che si chiama una
Autorità. Onde è chiaro essere il Diritto un correlativo della Autorità,
e quindi supporla necessariamente. Potrebbe sembrare a prima
giunta che questa dottrina fosse identica alla vecchia religiosa e
politica circa TAutorità e la dipendenza da essa del Diritto. Ma
tra quella e la nostra corre una differenza di opposizione perfetta.
La vecchia dottrina religiosa della Autorità insegna, che ogni
Diritto dell* uomo risulta da una concessione gra- tuita di dio: che il
Diritto, assolutamente parlando, non l'ha se non dio: che T uomo di suo
ha solo il Dovere: che quindi, quando si dice di un uomo che ha un
Di- ritto verso un altro, la cosa va intesa cosi, che dio ha
imposto a questo il Dovere di fare o rispettare o lasciar fare una cosa
che lo stesso dio vuole che sia pertinenza del primo.
Politicamente poi la stessa dottrina insegna che il capo dello
Stato è investito divinamente (e ciò significa la consacrazione e la
incoronazione con rito religioso per parte del sacerdozio) di un potere
sopra tutti i cittadini; che esso ne è il sovrano per volere diretto di
dio (onde il titolo Per la grazia di dio) e indipendentemente dal
volere loro e da qualunque ragione naturale di Giustizia o di bene comune
(onde il precetto religioso: Obedite praepositis vestris etiam discolis)\
e che quindi i citta- dini, per lo stesso arbitrario volere divino, non
sono altro che sudditi. La scienza ha fatto ragione del principio
religioso; r evoluzione storica sociale del politico.
IP^II^KIIV idn,»»^ij5'tr«'isnfc#«^--xj' Il principio religioso è il
solito fenomeno psicolo- gico volgare, onde, concepito V astratto di un
ordine na- turale di fatti, il medesimo astratto è pensato come una
realtà fuori degli stessi fatti e come causa di essi. Gli esseri viventi,
ad esempio, danno V astratto dalla vt^a, che non è se non la forma
caratteristica speciale che li distingue dai non viventi. Pel fenomeno
psicologico sud- detto si fece di questa vita una realtà atta ad
introdursi in questi esseri che lo possiedono e a renderli vivi con
ciò. Cosi fu fatto per V Autorità. Per una illusione ana- loga; separata
mentalmente dalla funzionalità sociale, onde è un aspetto, fu collocata
in dio, e di là si è fatta valere a cagionare la funzionalità medesima.
E qui, come è ben noto, ci troviamo col solito abbaglio, del metodo
metafisico, che spiega la cosa e il fatto colla stessa cosa e collo
stesso fatto. Come nel de- rivare gli effetti fisiologici dell'Oppio
dalla sua Virtù dormitiva: per citare lo stesso esempio addotto da
Pa- squale Villari nel suo scritto intitolato e La Filosofa po-
sitiva e il Metodo storico » pubblicato fino dal gennaio 1806 nel
Politecnico di Milano, e che io qui ricordo per- chè egli fu il primo che
ponesse la questione del Posi- tivismo (nel senso che ha oggi) in Italia,
e perchè una grande influenza anch' esso ebbe sopra V indirizzo
delle riflessioni che finirono a produrre l'ordine attuale delle
mie idee filosofiche. Parlando poi della applicazione politica dello stesso
principio religioso basterà osservare come per essa il Potere è
concepito, non come Giustizia, ma come Prepotenza ed Usurpazione; onde si
ha la Pre- potenza, ossia r Ingiustizia, eretta alla dignità di principio
inorale. Il che è bene scandaloso in una dottrina che pretende di essere
la salvaguardia unica possibile della Moralità. E questa
applicazione politica del principio religioso si trova poi corrispondere
precisamente ad uno stadio arretrato della evoluzione. Il
contrasto sociale (dal quale, come dimostrammo, dipende la riduzione
della Prepotenza e la sua trasfor- mazione in Giustizia) si attestò da
prima nell' impero della religfiosità e della sua rappresentanza, cioè in
quella del sacerdozio. E allora si disse, il sovrano avere il po-
tere da dio, ed essere responsabile verso di lui dell'uso di esso; e il
sacerdozio si atteggiò a creatore e giudice del sovrano in nome di
dio. Poi, venuta meno per le ragioni storiche la forza ef-
fettiva del sacerdozio nella Società, e quindi il peso del suo contrasto,
la sovranità se ne emancipò, e il legitti- mismo di ortodosso divenne
eterodosso; cioè, riconoscendo ancora T esser suo dal cielo, autore e
giudice della so- vranità della terra, sottrasse però questa alla
elezione e al foro sacerdotale. Incontrastabile veramente è il
principio della filosofia etica tradizionale, che il Diritto suppone la
Autorità e che quindi questa si richiede pure per la Mo- ralità. Ma
si ragiona falsamente dicendo, che il Positivismo viene a distruggere la
Moralità, dal momento che toglie di mezzo l'Autorità; sicché per salvare
la Moralità si debba necessariamente tornare alla filosofia
tradizionale, che sola possa stabilire il principio della Autorità.
L'Autorità, il Positivismo, la pone anch' esso; e con certezza, poiché ne
trova il fatto nella Società e nella psiche deir uomo civile, e ne dà la
spiegazione partendo dalla osservazione di ciò che succede realmente. E
cosi la fissa scientificamente ne' suoi termini veri e giusti, e la
garantisce dal dubbio (fatale sempre in materia di mo- rale), e da ogni
falsa, e dannosa, e immorale interpreta- zione e applicazione.
L'Autorità, che la filosofia tradizionale fa venire dal cielo, è un sogno
antiscientifico ed involgente una con- traddizione. Come
avvertimmo un' altra volta (i), il comando di- vino imponente il Dovere
all' uomo è un principio im- morale della Moralità, mentre in fondo è la
tirannia, o l'ingiustizia, in grado infinito. E mostrarono d'essersene
accorti gli stessi metafisici quando concedettero, che il comando divino
abbia da essere non ripugnante alla es- senza stessa delle cose, per cui
riesca giusto, e dio che ne usa debba chiamarsi santo. La stessa
condizione po- sero anche per la sua Autorità; e cosi, ammettendo
una dipendenza di essa dalla essenza delle cose, fecero di questa
il primo e di dio il secondo, e quindi vennero a disautorarlo.
E r ammettere la condizione in discorso è poi infine un riconoscere
in modo indistinto la verità della nostra dottrina, per la quale
l'Autorità, non è un assoluto,. xm, un relativo. Cioè
l'Autorità è il relativo di qualche cosa che si impone moralmente; vale a
dire con una Responsabilità (i) Sopra Capo II, § II, n. ii.
..LUI «IVI verso una Sanzione, e quuidi verso una reausione
libera od umana: insomma verso la Sanzione sociale. Per cui
l'Autorità non può nascere se non nella Società degli uomini, e non può essere
se non una formazione naturale della sua attività organica. Ma
questa dottrina del positivismo circa l'Au- torità pare anch' essa contradditoria
alla sua volta. Un Potere, come si disse, è una Autorità in
quanto conviene con una Idealità sociale ed è giudicabile se- condo
questa; e quindi il suo esercizio è passibile di una Responsabilità verso
un Tribunale che dispone di una Sanzione per far valere i principj
secondo i quali sentenzia. Ora, siccome tale è precisamente
anche il Diritto, cosi l'Autorità viene ad essere anch' essa un
Diritto. Ma se l'Autorità è un Diritto, e il Diritto lion è
tale se non per l'Autorità subordinante che lo riconosca e lo
sancisca, come potrà darsi l'Autorità, non potendo essere che il
subordinante sia nello stesso tempo il subordinato? Per rispondere alla
difficoltà basta richiamare quanto fu detto sopra (i) della Giustizia
effettiva o giu- ridica, o del corpo sociale; e della potenziale, o dell'
in- dividuo. Ciò che sancisce l'Autorità suprema dello Stato
è in genere l' indistinto delle coscienze individuali, che ve-
demmo sopra come esista e come operi. E che, in modo via via più distinto,
si concreta nelle prerogative proprie della gerarchia sociale (I) Capo I.
i VII. E COSI è tolta la contradd^ione obbiettata. Il
Diritto del subordinato è sancito dalla Autorità stabilita nella Società.
Il Diritto di questa Autorità è sancito anch' esso da qualche cosa. Ma
non da un' altra Autorità superiore a quella della Società, che non
può darsi: sibbene dalla potenzialità morale del corpo sociale
collettivo (o delle coscienze individuali) che si forma ed esiste e
funziona ed è efficace in r^ione e a misura che vige l'ordinamento effettivo
della Società. E questo vero è attestato dal fatto storico co-
stante della Società umana, nella quale sempre si è ma- nifestato questo
processo; da una parte, della Autorità stabilita che sancisce il Diritto
del subordinato; e dal- l'altra, della coscienza comune dei subordinati
che san- cisce il Diritto della Autorità stabilita. Questo
fatto è evidentissimo nella costituzione delle Società moderne più
avanzate, nelle quali é già ricono- sciuta anche legalmente la dipendenza
del Governo, in tutte le sue parti, dal beneplacito dei cittadini. In
tutte le sue parti; mentre ormai la irresponsabilità, o si limita
alla sola persona del capo supremo, o è tolta affatto anche per
questa. All' infuori del potere tirannico della forza e della
violenza di certe Società informi, che non è ancora l'Au- torità giusta
propriamente detta, ma la Prepotenza in- giusta, nei governi teocratici
la potenzialità morale del corpo sociale collettivo si manifesta nella
istituzione e dipendenza del Potere dalla religione. E nei governi
as- soluti laici la potenzialità stessa si manifesta nella dipendenza del
Potere sovrano, che pure ivi ha luogo, da qualche cosa; come dalle
consuetudini, dalle caste, dagli ottimati e via discorrendo.
7. — Ed è poi confermato il vero medesimo dalla distinzione, che
sempre fu riconosciuta, fra il Diritto reale e il potenziale; ossia, che
è lo stesso, fra il Diritto positivo e il naturale. Poiché,
scientificamente parlando, che è mai il Diritto naturale, se non la potenzialità
morale propria degli individui componenti la So- cietà. Il nostro
ragionamento ci ha condotto: Primo, a scoprire la vera indole del Diritto
naturale. Secondo, a spiegare con ciò V origine e la natura
vera della Autorità sociale. A darci il criterio per istabilire i
rapporti del Diritto naturale col positivo, tanto storici quanto
ideali. 2. — Il Diritto positivo è, come già dicemmo più
volte, il Potere quale è costituito e funziona nella Società umana; il
Potere dei subordinanti e quello dei subordinati, in quanto è
riconosciuto fissato e garantito dal primo. (i) Vedi in
proposito: Morale dei Positivisti Libro I, Parte li. Capo IV. n. 15 e
segg. (pag. 125 e segg. del Voi. Ili di queste Op. fil, nella edizione
del 1885, e pag. 131 e segg. nella ediz. del 1893 e del 1901, e pag. 135
e segg. nella ediz. del 1908), e Parte HI, Capo I (pag. 129 e segg. del
medesimo nella ediz. del 1885, e pag. 135 e segg. nella ediz. del 1893 e
del 1901, e pag. 139 e seg. nella ediz. del 1908). — E questa Sociologia
Capo I J VII (principalmente n. 6) e J Vili (principalmente n. 3 e 4), e
Capo II.? 11, nota al n. 5. Il
Diritto naturale non è altro che il potenziale. Ossia quello che
corrisponde alle Idealità sociali, o giu- ste, o morali. £ alle Idealità
sociali universe: tanto a quelle che si sono già avverate nella psiche e
nella co- scienza umana, quanto a quelle che non vi si sono an-
cora avverate, ma vi si possono avverare quandochesia. Dalle quali
definizioni enaerge che il Diritto positivo è determinato e giu- stificato
dal naturale; che il Diritto naturale è imprescrivibile, ed ha un valore
trascenclente assoluto, corrispondendo al va-- lore trascendente assoluto
della natura onde è il prodotto: come una forza o una specie naturale
qualunque, che l'uomo trova nella realtà e deve subirvi e riconoscervi; che
il Diritto naturale è universale, come la natura umana, allo svolgimento
proprio della quale cor- risponde. Quarto, che il Diritto
naturale è infinito. Il Diritto
naturale è infinito, nel senso posi- tivo della parola, spiegato nella
Morale dei Positivisti (i). Infinito cioè nel senso, che è una
potenzialità inter- minabile nelle serie e nelle forme de' suoi
svolgimenti. Una potenzialità indistinta atta a determinarsi nei
fatti dei Diritti distinti che si verificano via via senza fine,
come i fatti in genere nella natura per la sua forza ine- sauribile. E
non mica un pensiero, o un sistema di pen- sieri, già determinato e
fissato in tutto il suo contenuto (Libro II, Parte III, Capo I (pag. 255
e segg. del Voi. Ili di queste Op. fil,, neir ediz. del 1885 e pag. 268
nell'ediz. del 1893 e del 1901, e pag. 275 nella ediz. del 1908). e
in una forma unica, nella mente di dio, come dà la filosofìa
tradizionale. La quale immiserisce meschinissimamente il
concetto del Diritto. Come immiserisce meschinissimamente il con-
cetto delle specie naturali delle piante e degli animali, riducendole ad
un numero chiuso di archetipi fissi pre- stabiliti in una mente
creatrice. Come realtà attuale, già distinta nella sua forma
di Diritto, questo è un fatto accidentale; è il risultato del caso
dell'incontro fortuito delle reazioni particolari che ne determinarono la
effettuazione reale, analogamente a ciò che avviene per ogtii fenomeno
naturale, e come nella Formazione naturale nel fatto del sistema solare
dimo- strai importare la legge universale della Formazione na-
turale. Ma esso Diritto poteva realizzarsi in un infinito numero di altri
modi; come era possibile un infinito altro numero di accidenti (i) nella
coincidenza produttrice della serie degli eventi e della serie delle
condizioni dell'uomo, in cui si avverò la coincidenza. E, del pari, resta
sempre infinito il numero dei momenti evolutivi ulteriori, per la
stessa ragione, e perchè V attività naturale resta sempre inesauribile, e
non si arresta al punto al quale è arrivata in un dato momento. Dalle
quali cose poi emerge che tra il Diritto positivo e il naturale vi deve
sempre essere lotta. Tanto è lungi che il positivo (come discenderebbe
dalle dot- trine dell' etica tradizionale) sia T acquietamento
defini- tivo del naturale; e che questo, eflFettuatolo, riposi in
(i) Vedi la Parte IV dello stesso libro. -
quello, e solo debba stare in guardia contro i principj contrari
(sia delle passioni ree dell' uomo, sia di potenze sovrannaturali
perverse) tendenti a disturbare V assetto etico definitivo del
mondo. Eterna è la lotta fra il «Diritto positivo e il
Diritto naturale. E non effetto della reità di nessuno, ma dello
stesso Processo del Bene. Il Diritto naturale lavora continuamente a
trasfor- mare il talento della Prepotenza egoistica, che rimane
nella Autorità vigente, in ijome della Idealità antiegoi- stica. E la
trasformazione, incominciata sopra il massimo della Prepotenza, e
continuata pei gradi insensibili infi- niti della sua diminuzione, non è
mai compiuta total- mente. Il Diritto positivo di un dato
momento è sempre in arretrato verso le Idealità sociali più progredite,
già al- beggianti nelle coscienze sociali. E la evoluzione di que-
ste Idealità, che, nate, si ribellano subito al Diritto po- sitivo
discordante per riformarlo ad immagine di se stesse, è una evoluzione che
mai non cessa. L’Autorità del subordinante e in pari tempo, un suo
Diritto. Soggiungiamo ora che anche il Diritto del subor- dinato è,
esso pure, una Autorità nel vero senso della parola. Il
Diritto del subordinato è si riconosciuto dalla Au- torità del
subordinante, mai non è da questa creato. Esso esiste per sé in virtù del
fatto del suo comparire nella coscienza individuale. Se questo fatto non
si avesse, l'Au- torità del subordinante non potrebbe fare che fosse il
Diritto relativo. Dato che sia il fatto, la stessa Autorità non può
esimersi dall' ammettere il Diritto. Il Diritto del subordinante
quindi si impone per que- sto verso all'Autorità del subordinante, e
perciò è esso stesso una Autorità. Oltreché poi ogni Diritto, anche
di un subordinato, è sempre tanto o quanto subordinante, cioè atto
a determinare dei Doveri e dei Diritti corre- lativi. E
questa dottrina della autorevolezza intrinseca del Diritto del subordinato
(santo pel subordinante, come l'Autorità di questo è santa pel
subordinato), era sentita nella coscienza etica degli antichi, malgrado
il falso loro riferimento della cosa, quando all' ordine iniquo del
prin- cipe tendente a violare il Diritto naturale del suddito,
questo rispondeva: Se il principe comanda ciò che dio proibisce, o
proibisce ciò che dio comanda, l' ordine e il divieto del principe non
hanno valore per la coscienza. La dottrina positiva dell'Autorità e del
Diritto è liberale. Questa
dottrina (che è quella del liberalismo positivo) contrasta a due estremi
opposti; esiziali 1' uno e r altro alla Moralità vera. A quello del
Nichilismo del Diritto individuale della dottrina etico-religiosa dei me-
tafisici; e a quello del dichilismo deldiritto del Potere di un certo socialismo
materialistico. Il Diritto naturale e l'Autorità del Potere, che lo
riconosce, sono fatti naturali della Società, correlativi ruoo all'altro.
Onde» sopprimendo T uno di essi, sì sop- prime anche V altro. Il
Nichilismo materialistico dunque, annullando l'Autorità del Potere viene
ad annullare lo «tesso Diritto individuale, che vorrebbe rimanesse col carattere
di Diritto unico ed assoluto* Il Diritto individuale è un effetto
dell' organismo so- ciale; e tanto che» tolto questo organismo, né
potrebbe formarsi, né perdurare, esistendo di già; come la fun-
zione e il prodotto speciale di un viscere particolare non è segregabile
dall* organismo deir animale e dai centri nervosi superiori, onde è
determinata e regolata V atti- vità di ogni sua parte. Si form<\ il
viscere a misura che si formarono i centri regolatori; si mantiene finché
si mantengono i rapporti di dipendenza da essi. E analogo è il caso
del Diritto individuale nel suo rapporto coli' Au- torità centrale.
E dunque liberale la dottrina positiva che, mante* nendo TAutorità
subordinante, può mantenere anche il Diritto dell' individuo. E, per
conseguenza, illiberale è quella del Nichilismo materialistico, poiché,
distruggendo questa Autorità, finisce con ciò a distruggere anche que*
sto Diritto. Ma la stessa dottrina positiva combatte, nel medesimo
tempo, il principio illiberale del Nichilismo teistico, dal quale non è
riconosciuto nelT individuo un Dìntto propriamente detto, o proveniente
dal suo essere stesso; ed è insegtiato essere il Diritto una
concessione gratuita di dio, che egli possa dare e togliere a suo
pia- dmento, e lasciare anche alla balia degli usurpatori della
sovranità, nei quali si debba in ogni caso riconoscere una Autorità che
non emani dal corpo sociale e sia ir- responsabile verso di esso.
Il positivismo combatte questo principio, stabilendo l'Autorità
originariamente ed inalienaòilmente risiedente neir individuo di
esercitare il suo naturale imperio sopra le cose, sopra di sé, sopra gli
altri. E mostrando, come la dipendenza dell' individuo dal Potere
subordinante non è quella dello schiavo, che è costretto colla violenza
dal padrone, e ne eseguisce i comandi suo malgrado, e col- r ira
incitante alla vendetta; ma è quella liberale di chi fa con persuasione e
con amore. E ciò perchè, l'Autorità giusta subordinante, l'individuo la
pone esso stesso pel Bene di tutti; anche se importa un sacrificio per
parte propria: la pone, la coltiva, la difende come cosa, pro-
pria, anzi come suo proprio Diritto. Proponemmo quattro problemi
fondamentali da risolvere secondo il criterio positivo del Diritto e del
Do- vere prima indicato. Dei primi tre problemi abbiamo
trattato nei paragrafi successivi del Capo medesimo. Tratteremo in questo
del quarto, cioè circa il Diritto, non di Giustizia, ma di Carità Beneficenza,
che dir si voglia. Fin qui il nostro libro ha voluto soddisfare a
due dei tre suoi intendimenti; cioè di dimostrcure che la Moralità, come
è spiegata nella filosofia positiva, com- prende, non solo gli atti della
Gitistizia propriamente detta, ma anche: Primo. Gli atti
infiniti offensivi non contemplati e uon contemplabili dalla Legge. I
quali perciò, esclusi dal campo della Giustizia propriamente detta, vanno
at- tribuiti a queir altro della pura Convenienza. Gli atti sindacabili
soltanto dalla coscienza intima dell' individuo in cui si avverano, e
producenti la sola reazione del Rimorso intemo. Trattando ora del quarto
problema suddetto, vedremo di soddisfare al terzo degli intenti
propostici, vale a dire di mostrare, che la Moralità, come è spie-
gata nella filosofia positiva, comprende anche; Terzo. Gli atti
virtuosi, che V individuo potrebbe fare e sarebbe bene facesse, e non è
costretto a fare. Ossia quegli atti, che non si attribuiscono né alla
Giustizia né alla Convenienza, ma alla Carità, come dicevano i mo-
ralisti vecchi, o alla Filantropia o Beneficenza, come di- rebbero i
nuovi. Gli atti benefici nell* Etica tradizionale. E noto che nell' Etica tradizionale si stabiliscono
due ordini diversi di atti buoni: Quelli ai quali uno é tenuto per
poter essere senza colpa, che si dicono atti di Giustizia; e si
riassumono nel detto: Non fare agli altri ciò che non vuoi che sia
fatto a te. Che é quindi un vero Precetto, E quelli che uno può
tralasciare senza diventare con ciò colpevole, che si dicono atti di
Carità o di Beneficenza, e si riassumono nel detto: Fa agli altri ciò che
vorresti fosse fatto a te. Che è quindi propriamente, non un Precetto, ma
un Consiglio, Ed è noto che 1' osservanza dei primi si dice pro-
durre la semplice Onestà morale; e la semplice Esenzione dalla punizione. E che
la pratica dei secondi pro- duce anche una Perfezione morale; e quindi il
Merito di un premio. Ed è noto ancora che, tra i pronunciati
morali ap- partenenti alla categoria dei Consigli miranti alla mag-
giore Perfezione morale, se ne pongono anche di quelli relativi, non al
bene da farsi agli altri, ma alla nobilita- zione interna della Persona
morale. Il principio del Bene morale non prescritto, e quindi
n&n obbligatorio o gratuito (che è un principio ve- rissimo, anzi è
il principio morale per eccellenza), l'Etica tradizionale, e non potè mai
riuscire a dedurlo rigorosa- mente, ed è, nel sistema di essa,
contradditorio. E regge solo nella dottrina dell'Etica positiva. E
ciò malgrado sembri a tutta prima che questa,, posta la dipendenza da
essa stabilita del fatto morale dalla Sanzione costringente, conduca ad
una conseguenza affatto opposta; a quella cioè di togliere di mezzo
quello che ora chiamammo (ed è senza dubbio) il principio mo- rale
per eccellenza. L' Etica teologico-metafisica tradizionale si è
accorta dell' imbroglio che sta nella sua dottrina; e ha cercato di
cavarsene colla sua solita gherminella (rilevata stupendamente dal
Mefistofele del Faust di Goethe) di un vocabolo equivoco. Cioè col
vocabolo Consiglio contrap- posto a quello di Precetto. Il
Bene morale obbligatorio (ha detto V Etica teolo- gico-metafisica
tradizionale) è il Precetto di dio, che non si può non seguire: il Bene
morale gratuito invece è il suo Consiglio, che l'uomo può anche non
seguire. Ma ciò non è altro, come dicemmo, che una
gherminella. La mentalità divina del Bene morale, onde partono i
metafisici in discorso, derivandone tanto il Precetto quanto il
Consiglio, sta, secondo loro, colla ragione di- vina dell' Ordine morale.
Ora si può domandare: L' Ordine morale metafisico, ragione del Bene,
è esso esigenza assoluta dell' essere proprio delle cose che ri-
guarda? E allora è necessario che sia Precetto tutto il Bene. O sta
invece che l'Ordine morale sia il puro bene- placito di dio, il quale
possa stabilirlo arbitrariamente in un dato modo, e di due sorta, cioè
uno da esigersi inesorabilmente, e un altro da consigliarsi soltanto
e quindi da permettere che sia anche violato da chi voglia? E allora il
Bene morale, anche quello prescritto, non ha un valore assoluto; e si può
supporre che dio po- tesse non averlo voluto, come si suppone dagli
stessi me- tafisici, che egli potesse non aver voluto creare il
mondo. Si può supporre insomma, che il male sia male solo perchè dio r ha
decretato, e che egli avesse potuto decre- tare che non lo fosse. Il che
sarebbe la distruzione pili radicale immaginabile della Moralità. E da
questo dilemma non si scappa. Cosa ben curiosa e ridicola il sistema
etico della filosofia sana, anche da questo punto di vistai
Secondo questa filosofia sana un uomo sa che dio io consiglia ad un
Bene che egli potrebbe fare benissimo; e sa che con ciò darebbe
soddisfazione a lui che deve amare sopra ogni cosa: ma quest' uomo non si
cura, né del Bene per sé, né dell'autorità di dio che lo invita a
farlo, né del dispiacere che gli reca trascurandolo; e ciò per la
preferenza data a un proprio interesse egoistico contrario: e tuttavia il
medesimo uomo rimane dopo tutto questo esente da colpa, e nella grazia
dello stesso dio cosi postergato. L' imbroglio e V assurdo della
distinzione tra il Precetto e il Consiglio dipende dalla distinzione
falsa, posta dai moralisti in discorso nella stessa ragione di-
vina del Bene morale, del Bene doveroso e di quello non doveroso, corrispondente
all' altra distinzione falsa, di un Ordine morale che dio voglia
necessariamente e di uri Ordine morale che egli voglia arbitrariamente; e
che è la conseguenza di un principio ontologico fondamentale
erroneo circa le leggi dell' essere e della causalità in ge- nerale e
della provvidenza in particolare. Nel principio ontologico al quale
alludiamo si accoz- zano, in modo confuso e contradditorio, il necessario
e r arbitrario, come nell' Etica corrispondente la Moralità
determinata dalla ragione assoluta dell' essere e quella determinata
dalla ragione di un comando arbitrario. E per un processo logico
analogo. Il concetto del necessario e dell'assoluto deriva
dalla osservazione della costanza delle leggi naturali dove que-
ste appariscono a tutti. Il concetto dell' accidentale e del-
l'arbitrario deriva dalla osservazione dei fatti, che nella apparenza non
si connettono necessariamente a cause na- turali, onde si attribuiscono
all' intervento diretto volta per volta dell' arbitrio divino; come, pel
volgo, la piog- colare della povertà (che anzi questa
sublimità per sé la povertà non V ha niente affatto, se non ha invece la
qua- lità opposta); ma bensì se mai fosse V effetto inevitabile di
una azione o giusta o caritatevole, sì che uno non a- vesse potuto
rimaner giusto se non si fosse rassegnato ad incontrare la povertà, o
avesse sofferto perfino di subirla per un maggior bene altrui.E così la
povertà volontaria può essere anche pel po- sitivista una cosa sublime ed
eroica. Mentre in caso di- verso egli la direbbe una stoltezza ridicola e
riprovevole. Che se pel religioso la elezione della povertà non è una
stoltezza, ciò dipende unicamente dalla circostanza che egli la riferisce ad
uno scopo; cioè a quello di gua- dagnare con essa il paradiso. Ma, se
cessa così di essf re una stoltezza, riesce però un atto al tutto egoistico e
quindi ancora tutt' altro che eroicamente morale. E merita una speciale considerazione a questo
proposito la dottrina relativa alla elemosina e al dare a prestito. Ho un
ricco, fatto proprio secondo lo spirito dell'E- tica sana teologico-metafisica.
Egli crede fermamente che r esser lui nato ricco e destinato, senza
lavorare, a go- di ogni genere, mentre il povero non ha da coprirsi
a- vendo freddo; se il ricco ha a sua disposizione palazzi e ville, quando il
povero manca di un tetto qualsiasi; se il ricco imbandisce la propria mensa di
cibi e vini costo- sissimi con profusione, dove il povero manca della
stessa polenta; se il ricco ha cavalli e cocchi e servi che lo
ajutano a fare niente, mentre il povero si stima fortunato che altri gli
offra per carità un lavoro che lo esaurisce senza compensarlo; se al ricco si
offrono tutti i pia- ceri da vicino e da lontano (poiché non gli bastano
quelli che può dargli il suo paese e gli occorrono anche quelli che solo
si trovano altrove), e questi gli sono sempre perdonati quand' anche
affatto eccessivi e corrompenti e illeciti e scandalosi, quando il povero ne è
privo al tutto ed è barbaramente rimproverato pur dei pochissimi e grami che
gli sia dato di procurarsi; se fa tutto questo il ricco, non solo crede,
secondo la sua sana morale (che sempre ha cura di contrapporre ad un' altra
diversa, detta da lui empia e sovversiva) di far uso di un Diritto concessogli
da dio per un gusto particolare di predilezione, ma crede poi anche di
adempiere ad nn Dovere: a quel Dovere che si chiama il Dovere di vivere secondo
il proprio stalo. Or bene questo ricco, fatto secondo lo spirito
dell’Etica sana teologico-metafisica, riconosce fra i Doveri del proprio
stato anche quello della elemosina, ritenendo che coir adempirlo diventi, non
solo buono (che lo è già senza la elemosina), ma ottimo, ed in modo perfetto
ed eroico. Ed è assai bello vedere come il nostro ricco
intenda la detta elemosina. C è da rilevarne proprio la sublimila della
morale onde ha lo spirito. Prima di tutto, se egli si trova padrone di una
so- stanza vistosissima ereditata nascendo (quanta fatica, quanto
studio, e quanto merito!), la sua proprietà è cosa sacra, qualunque ne
sia la origine antica: anche se in questa origine fu accumulata colla
frode e colla rapina. È cosa sacra, che gli viene da dio stesso. E, se
deve contribuire una parte piccola e superflua per lui dell' aver suo,
per concorrere alle spese dello Stato che glielo di- fende, o per dare un
pane insufficiente a chi si logora la- vorando penosamente per lui, che
nulla fa e solò consuma godendo e corrompendo, egli intende, nella
goffaggine su- perlativa del suo pensiero, che T operaio, che suda per
la scarsissima paga, e il funzionario pubblico, che si sacri- fica
pel meschino stipendio, della paga e dello stipendio debbano arrossire
come di suoi compassionevoli e gratuiti donativi, e debbano riconoscere
che, se faticando assai hanno poco da mangiare, anche questo poco è tutta
gene- rosità sua, per la quale si compiaccia di largirlo, privandosi di
una piccola parte di ciò che gli sovrabbonda. Ma va più in là l’eroismo
della sua generosità di dare del superfluo a chi non ha di proprio se non
il dovere di lavorare (quando. gliene danno) e di soffrire. Va più in là;
poiché, oltre pagare le imposte che non può frodare, oltre angariare V
operajo coir avarissimo com- penso dei servigi avutine, esercita anche la
viriti dell’eielosina. Non già impoverirsi per ciò. E nemmeno restringere
di nulla gli scialacqui demoralizzanti. Oibò! Sarebbe questo un venir meno ai
Doveri del proprio stato. E nem- meno impiegarvi una, anche piccola,
parte delle super- fluità più riprovevoli. Tanto non occorre; e di
gran lunga. Se, per cavarsi un capriccio stimato come un
nulla, il nostro ricco non bada a spendere un migliaio di lire, una
lira sola è anche troppo gettarla, come si farebbe di un osso ad un cane,
ad un vecchio cadente per la fame. Un pugno di monete di rame, ecco quanto
basta per a- dempiere al Dovere di perfezione della elemosina, per
es- sere morale in grado superlativo ed eroico, per acquistare il
merito -di un posto riservato in paradiso. Poiché anche quelle miserabili
monete di rame della elemosina non si intende mica s'abbiano a gettare
gratis. Né anche per sogno! Anche da esse, quantunque non abbiano un
valore apprezzabile per chi le getta, deve ve- nire un vantaggio: e un
vantaggio assai grande; devono fruttare nientemeno che una felicità
eterna in un'altra vita. E la cosa va di suo piede. Il povero, la cui vita
fu uno strazio continuo, é ben giusto e naturale che vada poi air
inferno, essendo infine, un povero, un malvagio mascalzone; mentre il
ricco, che ha sempre goduto senza nessun merito, deve essere premiato
colla beatitudine del cielo, essen'do infine, un ricco, una persona
buona. Un pugno di piccole monete di rame; ecco dunque la limosina
del ricco, secondo l'Etica sana. Un pugno di piccole monete di rame date
all' impazzata ad una turba degradata di accattoni che le implorino,
facendo ressa e alzando le mani supplichevoli, intorno al castello
minac- cioso e al cocchio superbo, di chi le getta loro col piglio del
disprezzo. E questa turba di accattoni degradati é poi neces- sario,
secondo la stessa Eti.ca sana, che ci sia anch'essa. Altrimenti come
sarebbe possibile al ricco di avere il vantaggio di procacciarsi il
paradiso a si buon mercato, e di far risplendere, al di sopra dei
languenti per inopia, r orgoglio stupido della ricchezza in tutta la
forza della sua brutalità? Onde, nel pensiero del nostro ricco
(fatto secondo ìct spirito dell'Etica sana), è cosa immoralissima e
sovver- siva del Bene, che altri, come il positivista, cerchi di
to- gliere dalla Società T ignominia dell'accattonaggio: che consigli
la Società a provvedere, non in apparenza ma in realtà, V impotente, 1'
ammalato, il disgraziato: e senza degradarlo, e con un soccorso che
apparisca un Diritto riconosciuto in chi lo riceve, e non una elemosina
che lo avvilisca; che faccia opera affinchè il povero sia educato
in modo da sentire il danno e la vergogna di accattare il pane poltrendo
neir ozio; e il vantaggio e la soddisfa- zione confortevole di
guadagnarselo nobilmente col pro- prio lavoro. E, il sommo della
immoralità della condotta del po- sitivista, il nostro ricco la riscontra
poi in questo; che, se si dà il caso dell' incontro di un infelice
bisognoso di soccorso, egli, il positivista, glielo porga per puro
sen- timento antiegoistico di umanità, senza pensare punto allo
interesse, né del paradiso né di nient' altro, da ricavarne; e lo faccia
senza avvilire chi riceve, comportandosi con esso come il fratello col
fratello; e nell' intento, non di perpetuarne lo stato miserabile, che
faccia risaltare meglio- il proprio più decoroso, ma di agevolargli la
via per u- scirne al più presto, diventando un suo pari. Dopo tutto
però bisogna confessare che il no- stro ricco, fatto secondo lo spirito
dell' Etica sana, è logico. Ma le conseguenze pratiche di tale sua
logica ser- vono assai bene per farne apprezzare i principj. Come,
al contrario, la verità dei principj positivi apparisce nelle conseguenze
opposte or ora accennate, eminentemente (ed esse sole) buone e
morali. Certo si deve ammettere, che nella Società (pur pre-
valendo nelle dottrine dei maestri di morale il concetto
teologico-metafisico sopra descritto) si fece strada a poco a poco, e
per, la condotta individuale e per la direzione delle cose pubbliche, V
idea della beneficenza propugnata dal positivismo, fondata sulla
benevolenza effettiva che r uomo, diventato buono, ha pe' suoi simili,
stimati tutti avere gli stessi Diritti ai beneficj della vita e della
So- cietà; alla quale perciò incomba il debito di provvedere
normalmente, più che sia possibile utile e morale, per gli
infelici. Ma giò è V effetto della stessa natura, che opera se-
condo le sue leggi invincibilmente, senza e malgrado le teorie dei
filosofi. E qui pure, come in tutto il resto dei fatti etici, essa
natura ha dimostrato, che la Moralità non si attacca materialmente ad un
atto determinato circa. il quale dio abbia detto: Questo atto voglio che
sia un atto buono. E ha dimostrato che la Moralità consiste invece
nella stessa disposizione antiegoistica dell' animo, creata dal vivere
sociale; e per la quale V atto materiale (che per sé non è moralmente né
buono né cattivo) diventa buono, se la disposizione relativa dell' animo
è buona, e cattivo, se cattiva, E ha dimostrato che non occorre,
che un atto buono sia stato prescritto positivamente da nes- suno,
perchè si introduca nella pratica morale degli uo- mini, e che questi lo
eseguiscono anche senza e prima che sia stato prescritto. Che anzi la
prescrizione positiva medesima è pur essa non altro che V effetto della
disposi- zione potenziale degli individui precedentemente forma-
tasi neir animo moralizzato, nel modo sopra descritto. Un discorso
analogo si può fare circa il dare a prestito. L' Etica religiosa,
computandolo fra gli atti di beneficenza e volendo quindi che, se altri
lo eseguisce, abbia da, poterlo fare solamente sotto questo riguardo,
e conseguentemente senza interesse, ne sopprime la funzione
vitalissima per la prosperità commerciale ed industriale nel meccanismo
economico sociale; lasciando più libero il campo alle imprese esiziali
degli usurai; sottraendo il capitale all'ingegno e all'operosità dei
volonterosi; re- stringendo le fonti del benessere pubblico e quindi
della Moralità comune. E allora non sarà colpa l'approfittarne per
contravvenirla: e Vufficio del galantuomo sarà tulio nello studio di
elu^ dere la Legge, E vi riuscirà, più o meno sempre, es- sendo
verissimo V adagio: Fatta la Legge, trovato V in- ganno. Ed ecco il
galantuomo inappuntabile dell'Etica sana. Quanto diverso, e più veramente
galantuomo, quello del positivismo, che l'Etica sana dice
sovversione, distruzione, negazione della Moralità. Lo scopo dell'
attività umana congegnata insieme nell’organismo sociale è di produrre nella
coscienza degli individui la Idealità morale antiegoistica, atta a
muoverne la volontà a fare il Bene. Fino a che l'individuo, questa Idealità,
non ha potuto formarsela, è un infelice da com- passionarsi, come il
selvaggio che non ha appreso da una Società colta a procurarsi ciò che
forma il benessere e il decoro di un uomo. Si faccia dunque ogni sforzo
per isvolgerne le facoltà etiche onde egli goda del bene di avere
il carattere dell' essere morale. — • 2og — Una volta che Tuomo sia tale, egli
fa il Bene in virtù della Idealità, che è viva in lui e impulsiva per sé del
suo volere. Impulsiva per sé: tanto pel Bene della Giustizia propriamente detta
quanto per quello della beneficenza. Impulsiva sempre; ogni volta che si
presenti V occa- sione di ravvivarsi nella coscienza. Operatrice del Bene
nella stessa misura della sua im- palsività, ossia del suo esserci.
Impulsiva finalmente pel solo fatto di esserci; e senza la scappatoja
immorale del difettò, o nella promulgazione della Legge, o nella sua
redazione negli articoli del co" dice. Poiché, come dimostrammo già
più volte, l'Idealità morale, essendo essa la Giustizia potenziale, non
segue (come vaneggia la filosofia da noi riprovata), ma precede la
Legge propriamente detta; e quindi esiste nella coscienza (ancor prima della
redazione scritta di una Legge e della sua promulgazione) un suo dettato
e una sua an- nunciazione, che integra qualunque difetto della
redazione e della promulgazione positiva; e conseguentemente im- pedisce
che la Legge e il suo spirito siano ipocritamente dissimulati e
dolosamente elusi. Il Bene di perfezione non obbligatoria, la vecchia
Etica teologico-filosofica, lo ravvisò anche negli stessi atti della
Giustizia propriamente detta. E in vero essa insegna, come notammi^
altrove, che, se la volontà si decide a questi atti unicamente
perchè premuta dalla minaccia del castigo sancito per essi, si ha
solo la Giustizia e non la perfezione; e la perfezione si raggiunge,
eseguendo gli atti della Giustizia indipendentemente dalla minaccia del castigo
e per la pura soddis- fazione di fare le cose giuste. Ed è
giustissima questa distinzione fra il primo e il secondo genere della
deliberazione volontaria rispetto ad un medesimo atto obbligatorio. E l'etica
positiva la ri- pete e la mantiene anche per conto suo. E ne approfitta per
argomentarne ad hominem contro TEtica vecchia. Poi- ché questa colla
distinzione in discorso (che è una prova della verità dei principj della nostra
Etica sperimentale) mette a nudo il proprio difetto per gli artificj, ai quali
deve ricorrere affine di conciliarla colle sue teoriche; e per le incongfruenze
che, malgrado gli artificj stessi, vi risultano. Notiamo, per esempio, l’incongruenza
relativa alla distinzione tra T atto di rigorosa Giustizia e V atto gra- tuito,
al quale essa annette il carattere di perfezione mo- rale. Qui non si tratta
più di un Bene supererogatorio, e tuttavia vi trova il carattere della stessa
perfezione. La quale incongruenza svanisce subito partendo dai principj da noi
esposti dell'Etica positiva. L' essenza dell' atto morale propriamente tale,
ossia di perfezione, di un'atto che ecceda l' efifetto diretto della minaccia
del castigo, consiste, come dicemmo, nella atti- tudine del volere a esegfuire
V atto indipendentemente dalla eccitazione esterna della Sanzione del castigo
minacciato. E questa attitudine si ha quando, per effetto appunto della
applicazione della eccitazione esterna mede- sima, a poco a poco si ingenerò e
si rinforzò la dispo- sizione psichica impulsiva per sé; e tanto, che, divenuta
questa una autonomia morale, ha da sé quanto basta per agire, senza bisogno di
esservi ajutata dalla eccitazione della minaccia esteriore. Il che in qualche
maniera é ammesso anche dall' E- tica vecchia, che pur riconosce la detta
spontaneità mo- rale, ricorrendo però per ispiegarla al sogno della grazia di
dio, che sostituisca il timore del castigo all' uopo di muovere la volontà al
Bene. Coi principj dell'Etica positiva é dunque spiegata nel modo più ovvio e
conseguente 1' analogia che corre tra r atto della stretta Giustizia eseguito
per pura bontà d' animo, e l' atto della beneficenza in pari modo prodotto; e
come ambedue possano avere cosi egualmente il carat- tere della Moralità
perfetta. Molto più che è precisamente la spontaneità di operare la Giustizia
(ossia lo Giustizia potenziale) che, precedendola, promuove la legislazione
positiva colla rela- tiva Sanzione costringente (come dimostrammo). Ed é la
stessa spontaneità che ne mantiene il vigore. Chi ha in sé l'amore alla
Giustizia si fa autore diretto o indiretto della Legge, la difende, e concorre
a renderla efficace e a vendicarla, se violata. E non impegna persé la forza
del Potere, lasciandola disponibile interamente all' utile comune della
Società. Dalle quali cose si trae un nuovo argomento in favore del principio
etico positivo in confronto col me- tafisico tradizionale. Nella formazione
della Moralità umana, secondo le cose dette, va considerato il momento
disponente alla for- mazione stessa, e il momento della Moralità già attuata
neir animo. Il momento disponente si ha nel cedere che fa il volere alla
eccitazione che le viene esternamente dalla Sanzione della Legge. Il momento
della Moralità già attuata si ha nella spontaneità acquistata dallo stesso
volere air azione giusta e buona senza il bisogno della suddetta eccitazione.
Or bene: il principio etico metafisico, onde la ragione deir atto morale è
riferita al motivo della pena e del premio, contempla la Moralità nel Momento
dispo- nente, vale a dire quando essa non è ancora la Moralità già fatta: dove
il principio etico positivo, pel quale la ragione dell' atto è nell' Idealità
sociale impulsiva per sé, contempla la Moralità proprio nel momento nel quale
essa esiste veramente nella disposizione effettiva del volere. § VII. La virtic,
il merito e il premio. Ora poi, esposte le quattro considerazioni pro- posteci,
e confermata cosi e chiarita pienamente la dot- trina positiva riguardante gli
atti cosidetti di carità o beneficenza, possiamo anche iritendere più
compiutamente e precisamente, che sia ciò che si chiama la viriti e il me-'
rito, nel loro senso distinto e proprio. Pl'lt.l.J * — Tr"»T' ^r- Il
merito è la proprietà della virtù, come tale; e non del semplice atto morale. E
la virtù è una disposizione esistente realmente nel- l'uomo virtuoso. Il che,
come sia, è chiaro dalle cose dette sopra. Cosi la scienza è V attitudine
particolare dello scien; ziato. Ed essendo la virtù una disposizione reale
dell'uomo virtuoso, questo per ciò è un essere diverso dall'uomo non virtuoso;
poiché in questo secondo non esiste la potenza etica, che esiste nel primo. E
questo vero è stato riconosciuto (quantunque con- fusamente e in contraddizione
col loro principio (i)) dai moralisti della chiesa, in quanto per essi il
merito e la virtù richiedono la presenza nell'anima di una attività spe- ciale,
vale a dire di ciò che da loro è chiamato, la grazia. Se qualcheduno osservasse
che noi, col ricor- rere alle dottrine dei teologi cattolici per trarne una
con- ferma dei dettati del positivismo, tiriamo in campo inse- gnamenti già
abbandonati dalla stessa filosofia etico-me- tafisica che combattiamo, e che
quindi facciamo opera inutile (come anche oppugnando il dogma della grazia, che
è voler sfondare una porta aperta, non credendo ad esso oramai più nessuno dei
moralisti metafisici non teo- logi), soggiungeremo che la teoria dei metafisici
non teo- logi non è che un riflesso sparuto della dottrina teolo- (r) Vedi
Morale dei Positivisti Libro li, Parte I, Capo II, n. 26, 27 e 28 (pag. 224 e
segg. del Voi. Ili di queste _Op, fil, nella ediz. del 1885, e pag. 234 e segg.
nella edìz. del 1893 e del 1901, e pag. 241 e segg. nella ediz. del 1908). •
^'••^'^'^gica patristico-scolastica precedente; e che ne ha eredi- tato i
difetti perdendone i pregi; rimanendo cosi una su- perficialità destituita
anche di quel valore scientifico, che bisogna pure riconoscere, anzi ammirare,
nellametafisica ecclesiastica. Gli autori della quale furono grandi pensatori
che, se non poterono arrivare alla soluzione positiva del pro- blema morale (ed
era impossibile al loro tempo e nelle loro circostanze), ne ebbero però dei
presentimenti. E il principale fra questi pensatori fu S. Agostino vescovo di
Ippona, il cui genio potè a ragione essere messo allato a quello del divino
Platone. La dottrina della grazia, relativamente al fatto morale, è analoga
alla dottrina della forza creativa, rela- tivamente al fatto fisico. Il corpo
agisce fisicamente perchè ha in sé la pro- prietà di farlo. Del pari T uomo
agisce moralmente per- chè ha in sé la proprietà di agire cosi. Per ispiegare V
azione fisica gli antichi supponevano la produzione della proprietà relativa
nel corpo per parte della onnipotenza divina. E così davano una ragione della
azione fisica stessa quantunque falsa. Il positivismo (come dimostrai nel libro
della Formazione naturale nel fatto del sistema solare) trova che la proprietà
del corpo di agire fisicamente è la stessa sua costituzione naturale. E così
spiega Y azione fisica in modo analogo a quello degli antichi: ma colla
differenza che, dove questi considerano la proprietà introdotta nel corpo
arbitrariamente da dio nel crearlo (che è contro l' insegnamento del fatto), il
positivista considera la proprietà connaturale al corpo medesimo. Nella
evoluzione scientifica, onde si passò dalla spie- gazione antica della azione
fisica alla positiva attuale, tra quella e questa si formò una spiegazione
ibrida e con- tradditoria; la quale, da una parte, riconosceva V appar- tenenza
della proprietà al corpo, proclamandola quindi una naturalità; e, dall'altra,
riconosceva ancora dio quale primo autore di ogni naturalità; il che è una
incon- gruenza scientifica, ed è il vizio capitale della dottrina teistica,
come si trova ad esempio nel sistema del padre Secchi.Tale e quale la storia
della evoluzione della dottrina etica. La virtù, o la proprietà psichica
specifica dell'uomo morale, i teologi cattolici la supponevano un dono santo e
sovrannaturale di dio. Il positivismo invece trova che tale proprietà santa è
la stessa costituzione che potè acqui- stare la psiche umana per 1* azione
esercitata sovr' essa dalla Società; ed è quindi una naturalità nel senso asso-
luto della parola. La dottrina ibrida intermedia dei me- tafisici non teologi
rende confuso econtraddittorio il con- cetto, pur semplice e chiaro, escogitato
dai teologi, della proprietà etica infusa come grazia diviua. Rende, dico,
confuso e contradditorio questo concetto in quanto, da una parte, negano V
intervento diretto dell' azione divina sulla volontà, e, dall'altra, ne
mantengono la indiretta. Il merito è l' indice della virtù. Esso è quindi per
ogni atto virtuoso in ragione inversa dell'intervento del motivo estemo nella
spinta alla deliberazione volon- taria. Appunto come la virtù, la quale,
essendo la pro- pensione ad astenersi dal Male e a fare il Bene ingene- ratasi
neir animo per le vie già indicate, tanto più ha in W-Vfl«-JJJ «.P., —sé di
intensità quanto meno ha bisogno di essere mossa dal costringimento della
minaccia del castigo e dall'ade» scamento della prospettiva di un vantaggio.
Per conseguenza, minimo è il merito nelle azioni buone dipendenti al tutto
dalla diretta efficacia della loro Sanzione esteriore: come in quelle che si
fanno perchè imposte dalle Leggi positive. Ed è massimo nelle azioni buone per
nulla determinate da motivo di fuori: come in quelle del Bene gratuito o
supererogatorio, o di carità e beneficenza, per le quali, o non esiste Sanzione
positiva determinata, o, esistendo, non si considera da chi le fa. Ma la stessa
osservanza della Legge avente 4a sua Sanzione può in un uomo, indipendentemente
dal ri- gfuardo della Sanzione stessa, essere determinatadallavirtùformatasi in
lui di eseguirla solo perchè giusta, come vedemmo sopra nella osservazione
quarta, E così anche per questa osservanza può aversi un grado di me- rito: e
per questo distinguersi nella Società il semplice galantuomo (o quello che non
può essere messo in pri-» gione perchè non fu còlto a delinquere) dall' uomo
virtuoso, che è stimato non disposto a mancare agli obblighi del cittadino
anche aboliti il Tribunale e il carcere. L' uomo, per la formazione che in lui
si veri* fichi della energia morale o della virtù, diventa un essere fornito di
una eccellenzaparticolare; cioè della eccellenza dignità o prerogativa d’essere
morale. E il fatto è analogo a quello, per esempio, della for- mazione della
energia vitale nel corpo materiale, per la quale questo si distingue fra le
cose come ESSERE VIVENTE. Il premio, in relazione alla Moralità, o è una sua
causa, o è un suo effetto. Come causa è la Sanzione allettatrice della quale
par- lammo nel paragrafo quarto al numero sette. E con ciò si comprende percliè
alla osservanza della Legge imposta colla minaccia di una Sanzione punitrice,
ed eseguita per evitarla, non si addica la ragione di un premio, ma solo la
esenzione dal castigo. Con questo la Società si difende dalla offesa dell'
individuo; dal quale si procura invece l'opera utile della beneficenza colla
offerta di un van- taggio. Dove è da considerare che la offerta stessa, fa-
cendosi più per r utile dell' azione che per la sua Mora- lità, non si
differenzia da quella che si fa in generale per la prestazione dell' opera
volontaria da chi la desidera, cominciando dai premj dei concorsi riguardanti o
un libro, una cosa d' arte, o una invenzione scientifica, meccanica,
industriale, o un' impresa, e venendo fino allo stipendio dell'impiegato e alla
mercede giornaliera dell' operajo. Come semplice effetto il premio è la
conseguenza spontanea del merito; ed è l’espressione onde altri lo riconosce.
Sotto questo riguardo anche la semplice osserva- vanza della Legge punitrice
può avere una ragione di premio, se V osservanza avviene nel senso detto sopra
al numero sei, parlando dell'' uomo virtuoso. E il premio consiate in questo
caso, oltreché nella stima comune, anche in ciò, che questo uomo virtuoso è
considerato siccome il rappresentante nato della Legge e del Diritto, come
spiegheremo meglio in seguito. Il premio conseguente al merito della virtù è
una naturalità non determinata positivamente. In generale si restringe alla
stima e alla venerazione degli uomini pel virtuoso; la quale non è altro che la
reazione spontanea sociale di fronte al Bene morale, e quindi si produce negli
uomini in ragione che sono buoni, ossia bene di- sposti moralmente. Ma alla
detta stim^ e venerazione si possono accompagnare anche vantaggi di posizione
so- ciale e di benessere materiale. La mancanza del premio o della espressione
del riconoscimento del merito, quando si verifica, è una ingiustizia, ma non
distoglie dalla virtù chi ha la pro- prietà di averla; essendoché la virtù è
per sé, e basta a se stessa. E non si addice il nome di virtù a quella disposi-
zione a fare il Bene che sia determinata proprio dalla sola idea di averne la
rimunerazione; secondo V osserva- zione sublime del Vangelo su quelli che fanno
il Bene per essere veduti e rimeritati dagli altri.Esso dice di loro
giustissimamente, che rimangono così senza il merito della virtù, essendo già
pagati per quello che hanno fatto egoisticamente in vista della ricompensa. Il
che però non vuol dire che il virtuoso non ap- prezzi la lode e T ammirazione
altrui e non se ne soddisfi. Nobilissimo sentimento é questo di fare stima e di
sod- disfarsi del giudizio morale degli uomini che apprezzano e ammirano la
virtù; e più che di vantaggi materiali anche grandi. E di ciò parlai nel mio
Discorso su Pietro Pomponazzi, dicendo del pensatore, che esso « ama la so-
litudine. Ma non perchè sia privo di sentimenti benevoli, che anzi in lui si
trovano più generosi; mentre nulla tanto disavvezza dall' egoismo, quanto la
scuola delle idee. ^^P". E nemmeno
perchè non apprezzi la stima e la lode degli uomini; che, invece, in nessuno la
passione della gloria è più viva, che in lui. E, nobilmente altero della sua
oscurità, solo egli rinuncia sdegnosamente all' onore, che si acquista colle
umili arti. Sciolto cosi il problema
propostoci, riguardante r azione benefattrice e la virtù che porta ad essa,
gioverà fermarci a considerare il fatto dell' Ordine morale, e la naturalità della
sua formazione. Circa la FORMAZIONE NATURALE NEL FATTO DELL' ORDINE MORALE, in
quanto questo fatto è un Ordine, alle cose dette alla fine del Capo prece-
dente (2) e a quelle più generali esposte nel libro della FORMAZIONE NATURALE
NEL FATTO DEL SISTEMA SOLARE {3) e nel lavoro s\x\Y Inconosciòile di H, Spen-
cer (4), qui ci proponiamo di aggiungerne una nuova. 3. — L' insufficienza e
quindi la falsità del principio assoluto, che un Ordine qualunque naturale
presupponga (i) Vedi pag. 51 del Voi. I di queste Op, fil, nella ediz. del
1S82, ^ P3&- 54 nell'edìz. del 1908). (2) \ VII. Vedi sopratutto V
Appendice sul Caso (pag^. 271 e s%%%. del Voi. II di queste Op, flL nell'ediz.
del 1884, pag. 287 e segg. nel- l'ediz. del 1899, e pag. 295 e segg. nell'ediz.
del 1908). (4) Specialmente al J VII (pag. 353 e segg. dello stesso vo- lume neir
ediz. del 1884, pag. 375 e segg. nella ediz. del 1899, e pag. 383 e segg
nell'ediz. del 1908J. una Mente, che lo abbia concepito anteriormente e pre-
disposto, emerge: Primo. Dalla considerazione che ciò che si chiama, la mente,
è il fatto stesso della formazione psichica umana svolgentesi da ciò che non è
ancor tale: onde la stessa Mente è per tal verso, essa pure, un effetto, come
tutti gli altri avvenimenti naturali. Secondo. Dalla considerazione che, se la
Mente (sorta per graduale isvolgimento da ciò che non era tale), è an- ch' essa
la causa dell' Ordine che è subordinato alla sua efficienzaspecifica, sono del
pari cause di Ordini subor- dinati propri anche tutte le altre formazioni
naturali: anche quelle puramente meccaniche e fisiche. Sicché la il- lazione
che 5i fa per la Mente, come ragione dell'Ordine, vale tanto quanto la
illazione identica che si faccia per l'agente puramente fisico e meccanico. E
in effetto, se r analisi del fatto mentale vi discopre gli elementi e le
ragioni della sua efficienza ordinatrice, anche l'analisi del fatto puramente
fisico e meccanico vi rintraccia pure gli elementi e le ragioni della sua
analoga efficienza ordina- trice. Né più, né meno. Terzo. Dalla considerazione
che I' efficienza ordina- trice della Mente, da una parte, si estende solo alla
sfera dell' ambiente da essa abbracciato, e quindi è impotente al di fuori di
questa; e, dall'altra, essa stessa suppone un ambiente maggiore nel quale si
forma e che la fa es- sere: un ambiente che é, non una Mente, ma qualchecosa di
puramente meccanico e fisico. Sicché, paragonando in- sieme le due formazioni
ordinatrici (cioè la formazione meccanico-fisica, e quella della Mente), la
prima è più ampia della seconda e quindi superiore ed anteriore ad essa.
Quarto. Dalla considerazione che l'Ordine, che realmente si trova esistere in
un dato punto della natura e in un dato momento del tempo, non è V
effettuazione di un disegno, nel quale fosse stabilita la serie degli atti
occorrenti alla effettuazione stessa, fino all'ultimo, cioè a quello del
compimento dell' Ordine contemplato. No. Nella linea del tempo questo ordine ha
la sua ragione in un primo che è fuori della Mente: cioè nelle stesse possibi-
lità di svolgimento verso un Ordine proprie dell' essere naturale attivo. Nella
linea dello spazio poi 1' Ordine in discorso ha tante ragioni quanti sono gli
incontri fortuiti subiti dall' essere naturale attivo nel corso del suo svol-
gimento; in modo che ad ogni incontro lo svolgimento stesso devia
accidentalmente dalla sua direzione prece- dente, e quindi V ordine ultimo non
corrisponde più alla virtualità Iniziale dell' essere che si svolge, ma solo a
quella diversissima e puramente casuale portata dall' in- contro ultimamente
subito. In una parola, la Mente, né pone il disegno dell' Ordine, che è già
nell' essere natu- rale stesso, né lo eseguisce come l' aveva disegnato, poi-
ché la esecuzione sempre ne differisce per opera degli agenti naturali
casualmente concorrenti. Fra i quali può benissimo essere anche la mente stessa
(che è pure una attività naturale), ma 'solo con analoga accidentale effi-
cienza. Ciò fu già chiarito a lungo e dimostrato con argomenti positivi nelle
trattazioni sopra citate. Ora faremo un ragionamento che suppone i suddetti. ne
discende e li completa: ed è poi senz' altro la semplice constatazione logica
del fatto dato dalla osservazione. La teoria metafisica, onde si pone in una
Mente la ragione dell' Ordine delle cose, è basata sopra i due falsi supposti,
che il disegno finale della Mente preceda al tutto la esecuzione estema, e che
l'adattamento delle parti nel tutto reale effettuato sia stato determinato dal
concetto medesimo di esso tutto; sicché questo sia asso- lutamente un fine e le
parti siano assolutamente mezzi; e non il contrario. Il secondo falso supposto
deriva dalla osservazione superficiale ed illudente della specie già formata,
che ap- parisce come un ultimo, ossia come un fine. Anche perchè la specie è di
una stabilità relativamente grandissima per rispetto alla esperienza dell'
uomo. Egli, trovandone già r esistenza anteriormente alle mutazioni conosciute,
la im- magina realizzata nella sua interezza attuale fino dal suo principio: e,
non essendogli dato di essere testimonio del suo trapasso in una specie nuova,
ritiene che sia desti- nata a durare inalterata fin che dura il mondo. E cosi
si forma il proprio concetto della specie, che, o sia come è, o non sia punto.
E, siccome la esistenza di una specie im- plica quella delle parti onde
risulta, cosi l'uomo pensa che queste non siano altro che i mezzi necessari al
fine di essa, e quindi siano il trovato ingegnoso di una Mente; la quale,
formatasi da prima il disegno della specie, sia passata poi a divisare le parti
occorrenti alla sua realiz- zazione. Il primo falso supposto poi deriva dalla
esperienza del fatto della Idealità dell' arte, che è qualchecosa di re-
lativamente compiuto e fisso, e che si comunica qual' è da uomo a uomo: e in un
modo che uno avendone la co- gnizione e segtiendone la rappresentazione
mentale, è atto ad eseguire addirittura, senza tentennamenti e prove im-
perfette, un' opera definitiva, predisponendo e coordinando all'uopo tutto ciò
che si esige. perchè riesca nella realtà quale si concepisce. I metafisici
fanno i due detti falsi supposti, commettendo T errore di considerare il tempo
della osser- vazione siccome una eternità, nella quale non sia diffe- renza tra
un momento e V altro della esistenza; mentre invece nella durata reale i
momenti sono effettivamente diversi l'uno dall'altro, ed essa nei precedenti va
diven- tando ciò che risulta poi nei successivi, cessando in que- sti quello
che era nei primi. L'essere naturale esiste trasformandosi (i); e, nella linea
infinita del tempo, solo per un tratto di questo si trova in una forma che
svanisce col venire del successivo. La specie è questa forma, instabile come il
tempo del quale è figlia. Si muta insensibilmente nel mentre che pare persista
la medesima, come il posto del Sole in cielo che sembra fermo a chi lo guarda.
E ciò vale tanto per la specie, quale complesso di parti, quanto per la parte
coordinata nella specie. L' una e l' altra soggiace del pari al fato del
mutamento. E cosi n) Vedi per ciò 1* Osservazione III del libro della
Formazione naiuraie nel fatto del Sistema solare e sopratutto il J X (p-ig. 193
del Voi. II di queste Op, fil. nella ediz. del 1884, pag. 204 nella ediz. del
1899, e pag. 209 nella ediz. del 1908). la parte viene ad essere, non solo un
mezzo, ma anche un fine, come la specie; e questa, non solo un fine, ma anche
un mezzo, come la parte. Molto più che nella na- tura nessuna cosa è tanto una
specie, che non sia nello stesso tempo semplice parte in una specie più grande;
e nessuna cosa tanto è una parte che non sia nello stesso tempo una specie per
sé. E nella natura medesima non è la esigenza a priori di una specie, destinata
ad esistere, che abbia determi- nato il farsi delle parti occorrenti alla sua
esistenza, se- condo il divisamento precorso di una mente ragionatrice: ma è la
esistenza avveratasi delle stesse parti costitutrici che ha determinato la
formazione della specie, quale si trova in effetto nella realtà. Se le cause
naturali relative (indipendentemente af- fatto da un concetto della specie che
non era prima della esistenza reale di essa) non avessero prodotto le parti
costitutive della specie, questa non si sarebbe realizzata. E se le cause
naturali avessero prodotto le parti in modo diverso, la specie si sarebbe
realizzata diversamente. La coordinazione quindi delle parti alla specie, come
del mezzo al fine, è una coordinazione a posteriori. Non può esistere la specie
qual' è senza le parti occorrenti; e se esiste la specie è solo pel caso
avvenuto della formazione delle parti richiestevi. Per ciò, se la parte è il
mezzo a cui consegue il fine della specie, questo mezzo non è un effetto (come
è sup- posto nella teoria metafisica della Mente che è determi- nata a
ricorrervi dalla necessità del fine della specie); ma è la stessa causa della
specie. E quindi, se si vuol chiamare la specie un fine, ciò va inteso come
dell' effetto che segue la sua causa, e non viceversa, come nella teoria che
ripudiamo. Così, se si avverasse che il tronco di un albero per un accidente
qualunque cadesse sopra un altro tronco in modo da stare sovr' esso in bilico,
e questo fatto dello stare in bilico lo si prendesse come un fine, apparireb-
bero mezzi per ottenerlo la esistenza sotto il caduto di queir altro tronco
colla sua sufficiente resistenza a non piegarsi e rompersi, e T esservi dato
sopra il tronco in bilico col centro della sua gravità. Ma qui il detto fine,
nessuno lo direbbe la causa precedente del fatto; nessuno direbbe i detti mezzi
degli effettivenuti dopo, ossia di- visati e predisposti da una Mente
consecutivamente al pensiero di avere un tronco in bilico sopra un altro. Non
altrimenti è la cosa nel fatto della Idea- lità e dell'Arte umana, e in genere
di tutto ciò che si chiama il disegno ordinatore della Mente. La Mente e il suo
disegno sono fatti della natura, analoghi a tutti gli altri in essa verificantisi
nella sfera biologica e nella inorganica; e quindi soggetti alle stesse leggi:
sono casualità, come la produzione di una specie o la caduta or ora accennata
di un albero sopra un altro. Quando un dato disegno è già un fatto compiuto,
al- lora certo può rimanere un certo tempo come è riuscito; ed essere trasmesso
da uomo ad uomo; e servire per pro- durre addirittura l’opera corrispondente, e
per predisporre e coordinarvi le parti come mezzi al fine dell'opera stessa; e
in modo che questo fine venga ad essere proprio la causa di dovere divisare i
mezzi relativi, e il divisamento di questi mezzi venga ad essere l’effetto di
aver voluto r opera. Ma ciò non succede soltanto per la mente e pel suo disegno:
che succede lo stesso anche per la specie fisica, una volta che sìa g^ià un
fatto compiuto. Una volta che esista g^à la gallina, essa potrà pro- durre un'
altra gallina. Cosi un bruco nato da un altro potrà fare un bozzolo simile a
quello che faceva il suoprocreatore. Un uomo, arrivato a comporre nella sua
Mente il di- segno di una locomotiva a vapore, ha potuto costruirne una reale:
i meccanici in seguito poterono imparare quel disegno e costruirne delle altre.
Non potè succedere che la gallina procreasse altre galline prima che se ne
formasse la specie. E lo stesso del bruco. E lo stesso dell' uomo. Non potè
succedere che questo costruisse la locomotiva a vapore prima che se ne fosse
formato il disegno nella sua Mente. E come la specie della gallina e quella del
bruco non proruppero tali e quali dal nulla, secondo la cre- denza di un tempo,
ma furono la riuscita ultima di una serie lunghissima di gradazioni di
svolgimento dell'essere, che prima non era né gallina né bruco, cosi il disegno
della locomotiva a vapore della Mente umana, fu la riu- scita ultima di un
lavoro del suo pensiero, che prima non era quel disegno. Né divèrsa nel fondo è
la legge della formazione nelle specie biologiche della gallina e del bruco e
nel di- segno della mente umana. E analoga nei due casi è la ra- gione della
potenza di produrre la cosa a propria immagine e somiglianza, e di fare che
nella cosa stessa corri- spondano allo scopo dell' essere suo i mezzi
impiegativi. £ quindi un libro che narri la storia della invenzione di una
macchina è analogo a quello che esponga la evolu- zione formativa di una specie
naturale. E, se, come di- cono i teisti, dio è 1' autore della natura, questa
non se- rebbe altro che il libro nel quale si può leggere ciò che esso è
arrivato a inventarvi, una cosa dopo l'altra, a poco a poco. Ma dobbiamo
dimostrare e chiarire meglio la cosa. Un uomo ha fatto bollire dell'acqua in un
vaso. Ne ha visto sortire del vapore. Per caso copre il vaso mente ritenta l'
esperimento, e il vapore solleva il co- perchio. E l'uomo pensa allora: —
Dunque il vapore è una forza: e non si potrebbe adoperarla a produrre un
qualche lavoro? Sì certo. E si prova ad applicare al coperchio del vaso un'
asta, la quale, alzandosi il coper- chio, trasmette il suo movimento ad un
corpo che essa urta. Ma il movimento così è in un solo senso; e l' uomo
immagina che si potrebbe averlo nei due contrarj di va e vieni. E che perciò
sarebbe necessario che il vapore spingesse il coperchio una volta al disotto e
un' altra al disopra. E quindi studia e trova il modo di far passare il vapore
dal vaso dell' acqua bollente, per un foro in un cilindro, nel quale sforzi il
coperchio medesimo ora al di- sopra e ora al disotto. E allora gli soccorre V
idea di ap- plicare r asta, moventesi avanti e indietro, ad una ruota per farla
girare. E vi riesce praticando un foro all'estre- mità libera dell' asta e
applicandolo ad una caviglia fissata vicino al centro della ruota. Ed ecco
inventata la locomotiva a vapore. Ecco tutto. Il disegno della locomotiva a
vapore, la Mente non lo creò con un suo fiat. Quel disegno in essa è r esito
faticoso e lento di una serie di operazioni succedutevi r una dopo T altra; e
determinatevi da una serie di accidentalità che la trassero fino al compimento
della sua invenzione, che riusci una sorpresa per la mente stessa che si trovò
di esservi arrivata. Analogo è il processo di tutte le formazioni mentali. La
Psicologia positiva lo dimostra nel suo studio della FORMAZIONE NATURALE NEL
FATTO DEL PENSIERO in genere, e logico in ispecie; su di che spero di
pubblicare presto un mio lavoro g^à pressoché ulti- mato (i). L'Estetica
positiva lo dimostra nel suo studio della FORMAZIONE NATURALE NEL FATTO DEL-
L'ARTE, che mi duole assai non avere potuto ancora pre- sentare in un libro pel
quale ho già preparato tutti i materiali. L'Etica sociologica positiva lo
dimostra nel suo studio (i) Cosi ho scritto e ripetuto nelle edizioni
precedenti, quando aveva ancora la fiducia di poter ultimare il lavoro. La
speranza ora è quasi svanita. La circostanza di essere impegnato otto mesi del-
l' anno per le lezioni mi lasciò sempre poco tempo per ciò che avrei voluto
fare fuori di esse. Gran parte del materiale preparato per la Formazione
naturale nel fatto del Pensiero mi ha servito pei tre libri del Vero^ della
Ragione e della Unità della Coscienza, E questi quindi possono supplire tanto o
quanto invece del libro promesso; che poi non ha cessato di preoccuparmi, come
apparisce dai lavori sull'argo- mento pubblicati nei Volumi IX e X di queste
Op, fU, Ptll — della FORMAZIONE NATURALE
NEL FATTO DELL’ORDINE MORALE, che è l' oggetto della presente trattazione. 10.
— Ora è noto come la scienza oggi, illuminata e messa sulla strada dal genio di
Darwin, dimostri av- venire allo stesso modo la FORMAZIONE NATURALE NEL FATTO
DELLA SPECIE organica: e per ciò mi devo rimettere ai libri che uq trattano.
Anche qui si rileva lo stesso processo di formazione, indicato per V invenzione
del disegno della locomotiva a vapore nella Mente umana, pei lenti e
accidentali ingran- dimenti e tramutamenti di struttura e conseguentemente di
funzione: la stessa ragione, onde la formazione già ot- tenuta è riprodotta
nella forma raggiunta. E per la stessa legge, da me formulata nel libro della
Formazione naturale più volte citato, del ritmo che lentamente si trasforma per
gli urti esterni non concor- danti, e indefinitamente si conserva in quanto non
è di- sturbato, e si trapianta fuori di sé, applicato come forza ad un altro
essere atto a riceverla. Ciò posto, riepiloghiamo il nostro ragiona- mento. Il
piano mentale è un meccanismo o apparato psico- logico riuscito per aggiunte e
modificazioni cernali suc- cessive, indipendenti da un proposito consapevole
del sog- getto pensante, e occasionato dalle azioni e reazioni ac-
cidentalmente verificatesi tra esso soggetto e le cose ate. Vedi Formazione
naturale nel fatto del Sistema Solare ^ Os- servaz. Ili, J XIV.a
impressionarlo,come la specie della gallina è un mec-- canisfno o apparato
fisiologico riuscito per aggiunte e mo- dificazioni casuali occasionate dalle
azioni e reazioni dell' ambiente in cui si è formata. L' apparato psicologico
del piano mentale serve alla produzione di un' opera a sua immagine e
somiglianza: come l'apparato fisiologico della specie della gallina serve alla
produzione di un individuo nuovo della specie mede- sima. Il fatto è come di
uno stromento che 1' arte della natura (cioè del complesso delle cause che
esistono in essa) ha preparato, nel primo caso entro la psiche deU r uomo, nel
secondo caso entro la vita della gallina, per produrre 1' opera relativa (i).
Dunque nel disegno della mente ciò che si chiama il fitte di esso (poniamo per
la locomotiva a vapore di muoversi della macchina sulla ferrovia colla forza di
tra- scinarsi dietro il treno attaccatovi) non è un primo, che la Mente si sia
proposta e che abbia motivato per essa il divisamento, al quale sia quindi
venuta solo dopo, delle sue parti, come deimezzi necessari al conseguimento del
fine medesimo: nel che si fa consistere la ragione di dover (i) Nel Capo I
della Parte II del Libro I della Morale dei Positivisti, numero 3 ho mostrato
potersi definire la Psiche: Un mondo possibile^ che si presenta coyne il piano
dell* opera a chi ha da pro- durne uno reale. E precedentemente vi è dimostrata
la casualità della formazione del stessa psiche. Una cosa affatto analoga è V
energia specifica di un agente naturale fisico qualunque. Tale energia è un
ordine di proprietà costituite nella cosa per la stessa ragione della casualità
della sua formazione, le quali vengono ad essere la possi- bilità degli effetti
che la cosa è atta a produrre, e precisamente di un ordine di eff*etti
corrispondente all' ordine delle proprietà dalle quali dipendono. Fra la psiche
e V agente puramente fisico nel ri- ricorrere alla Mentalità per ispiegare il
fatto dell’ordine, inteso quale divisamento dei mezzi necessari al conseguimento
di un fine. Nel disegno della mente, ciò che si chiama il fine non è un primo,
ma un ultimo, che vi si verifica posteriormente, perchè prima vi si è
verificata la cogni- zione dei mezzi. Nel fatto particolare della concezione
del disegno della locomotiva a vapore allo scopo di trascinare il treno
ferroviario, la Mente che vi è arrivata possedeva già la cognizione della forza
del vapore; e del modo di farlo agire sopra uno stantuffo si che ne risultasse
un movi- mento di va e vieni sopra un'asta; e del modo di con- vertire il
movimento rettilineo dell' asta in quello circo- lare di una ruota; e la
cognizione, che un peso, gravi- tando sopra ruote che lo portino è girino su
guide di ferro, si trasloca con esse. Solo dopo ciò, solo dopo che la Mente era
già pervenuta alla cognizione di questi mezzi, ad esso potè sovvenire V
applicabilità loro al fine di avere un motore di un treno ferroviario. L'Ordine
adunque anche nella Mente è un risultato accidentale di concorrenze casuali nel
quale i mezzi non spetto in discorso si ha la sola differenza, che nella prima
l'ordine mentale, causa dell'ordine delle opere, mettiamo dell* uomo, è accom-
pagnato dalla coscienza di sé, mentre nel secondo 1' ordine delle proprietà
attive, causa dell' ordine de' suoi effetti, non è fornito di tale coscienza.
Ma ciò non influisce punto ad alterare la natura del processo della
estrinsecazione, per così esprimermi, della attività. Cosciente o non
cosciente, V attività funziona in un agente sempre e necessariamente nel modo
onde è atta a funzionare, ossiasecondo lacostituzione propria dell'attività
stessa nella intimità dell'agente che la esercita. L sono determinati dal fine, ma è questo
determinato dai mezzi. E tanto, che supporre il contrario è supporre ima
impossibilità o un assurdo della dinamica della natura. E cesi la tantovantata
scoperta di Anassagora, che V Or- dine dell'universo importi una Mente
ordinatrice, vale quella del suo predecessore Talete, che si argomentò di ritenere
doversi V attrazione della calamita pel ferro ad un' anima che vivesse in essa,
e ne determinasse questo effetto curioso. Se qualcheduno qui credesse di
sfuggire alla nostra conclusione, osservando che il pensiero che si at-
tribuisce a dio non è come il pensiero dell' uomo, sul quale noi facemmo la
nostra argomentazione, risponde- remmo due cose: Primo. O il pensiero
attribuito a dio è qualche cosa di analogo al pensiero dell'uomo, e allora
l'argomenta- zione fatta su questo vale anche per quello: o non è una cosa
analoga, e allora non si può dire che sia un pen- siero. Perchè a noi, quando
diciamo, pensiero, è impossi- bile concepire altro che non sia lo stesso nostro
pensiero. E poi non si può ancora in nessuna maniera fondarvi sopra r argomentazione
relativa all' Ordine, dal momento che questa è suggerita precisamente
(quantunque per sem- plice illusione) dal fatto dello stesso pensiero umano.
Secondo. Lo stesso fatto della natura poi smentisce direttamente la
supposizione della obiezione. E in che modo? Si disse: Concepì dio il disegno
del mondo e poi lo esegui creandolo: e tale subitoqualedoveva es- sere poi
sempre a gloria sua; e quindi coli' uomo, dotato per ciò da lui, non solo del
senso come il bruto, ma anche della ragione e del libero volere, che lo rendes-
sero atto a conoscerlo e a rendergli omaggio e culto spontaneo. E il sistema
era logico. Non aveva che il piccolo di- fetto di essere basato sul falso
supposto che il mondo at- tuale sia una formazione che persista immutabilmente:
tale al suo primo principio, tale ancora fin che ne dura la esistenza. Ma la
scienza s'è avveduta che la formazione quale ora si presenta, l'uomo compreso,
è una fasetransitoria della esistenza. E con ciò ha distrutto il sogno che
fosse r opera definitiva, nella quale si fosse realizzato appuntino il disegno
di una Mente divina. La scienza s' è avveduta, che lo stato attuale delle cose
è dovuto ad un processo continuo di formazione ana- logo a quello delle idee e
dell' arte dell' uomo, e che que- sto processo è determinato dalla
attività intrinseca delle stesse coseche si formano, e dal caso
delle reazioni delle cose fra di loro. E con ciò ha distrutto il sogno che
siano r Ordine preveduto come fine in una divina idea. I teisti, smentiti così
nel campo degli Ordini della natura fisica, si restrinsero a sostenere il loro
prin- cipio della preordinazione della Mente divina, nel campo dell' ORDINE
MORALE; e credettero che quivi sareb- bero rim£isti eternamente inoppugnabili.
Ma ahi! che anche qui la scienza li ha seguiti e ha messo in evidenza la
insostenibilità della loro tesi.La scienza positiva dell' Etica sociologfica ha
sco- perto, come vedemmo, 1' analogia perfetta che corre tra la formazione
naturale in genere e quella della Giustizia e del Bene morale in tutte le sue
forme. Ha scoperto quindi che tutto ciò che si riferisce all' Ordine morale, e
r Ordine morale medesimo, sono il prodottolento e pro- gressivo {e vario
secondo le dccidentalitàaccompagnanti) della attività intrinseca dell' essere
umano e delle reazioni degli individui nella convivenza della Società. Il fatto del Diritto (diversità, specie,
coordinazione) e il suo Ideale. Circa la diversità del Diritto tra individuo e
individuo, in ragione della potenzialità non ugnale dal- l' uno air altro, alle
cose dette nel libro della Morale dei Positivisti {\) e superiormente in questo
{2), un'altra im* portantissima qui ora torna la opportunità di aggfiungerne. La
diversità in discorso dipende in parte dalla stessa costituzione
fisico^psichica colla quale uno nasce; e per questo riguardo si potrebbe
chiamarla diversità ini- zicUe; e in parte (grandissima) è il prodotto della
convi- venza sociale: e per questo altro riguardo si potrebbe (i) Libro I,
Parte II, Capo IV, n. 15 ecc. (pag. 125 del Voi. ITI di queste Op, fil. nella
ediz. del 1885, e pag. 131 nella ediz. del 1893 e del 1901 e pag. 135 nella
ediz. del 1908). (2) Capo III, J II, n. 3. pi L I «IP^« chiamarla diversità
riuscita. La quale poi alla sua volta influisce pur anche indirettamente sulla disposizione
ini- ziale della nascita. L' argomento della diversità del diritto, considerata
sotto il secondo degli aspetti ora indicati, è vastissimo: ma noi qui lo
toccheremo solo per ciò che occorre allo scopo della nostra trattazione. Le
specialità di condizione di un uomo, dipen- denti dalla sua relazione e
convivenza cogli altri uomini uniti in Società, sono moltissime; come ognuno
sa. Per esempio, la ricchezza, la parentela, la clientela, gli ade- renti, gli
amici, i conoscenti, T ufficio, il grado, la cultura, il merito, le idee, e via
discorrendo. Queste specialità di condizione sono nello stesso tempo
altrettante specialità di attitudini e di potenza del- l' uomo. E quindi anche,
secondo le cose stabilite sopra, altrettante specialità di Diritti di esso. Si
verifica perciò nell'organismo sociale la legge di tutti gli organismi, per la
quale V elemento, che, con- siderato in astratto e fuori dell' orgfanismo, è
uniforme, una volta entrato a farne parte, si diversifica per opera
dell'organismo medesimo; poiché questo, fra le moltis- sime funzioni delle
quali un elemento ha primitivamente la potenzialità indistinta, lo dispone e lo
destina ad una data funzione distinta. Che è ciò che si chiama anche il
fenomeno della divisione del lavoro, ed è nello stesso tempo ciò che altrove
(i) dicemmo corrispondere alla (i) Per esempio, nella Formazione naturale nel
fatto del sistema solarCy Osservazione III, § V (nel Voi. II di queste Op,
fil,). wf^'^vmmmifm^gg^ della varietà, onde si spiega T attitudine alla esi- stenza
e alla virtù formativa nella natura in generale e negli organismi in
particolare. Così vediamo che gli atomi polivalenti del carbonio si
costituiscono, negli organismi degli animali e delle piante, in una serie di
forme diverse di radicali: in una serie tanto più notevole per numero e
varietà, quanto più complicato e perfetto è V organismo costruitone.
Nell'organismo sociale poi i suoi radicali (per ado- perare questa espressione)
o le sue varietà elementari co- stitutive, o attitudini distinte di funzione,
onde emerge r essere suo complessivo quale organismo sociale, sono precisamente
le specialità di condizione dell' uomo sopra accennate: ossia quelle specialità
di potenza, che l'uomo vi assume: ossia le specialità dei Diritti, I quali
Diritti, nell' organismo sociale, in pari tempo, e lo costituiscono, e ne sono
determinati. In modo che la Società si può chiamare la procreatrice dei
Diritti, Come la pianta è la. procreatrice delle sostanze speciali necessarie
alla sua vita particolare; le quali, nello stesso tempo, e la costituiscono e
ne sono determinate. I diritti individuali, per tal modo nascenti e vigenti in
una Società, sono in numero immensamente gratide: e perchè i fatti determinati
sono moltissimi, e perchè questi si connettono insieme in maniere differen-
tissime, e perchè le attitudini emergenti si diversificano all' infinito
secondo le condizioni infinitamente diverse nelle quali si verificano. Tuttavia
si deve avere nella Società umana, in quanto è un organismo speciale dato, una
certa costanza nel nu- - 238 - mero e nella qualità dei generi secondo i quali
si pos- sono classificare i Diritti. Allo stesso modo che nell'or- ganismo
vegetale, per esempio, si ha una certa costanza nel numero e nella qualità dei
generi delle sostante com- ponenti. La quale costanza però non sarà mai quella
delle Idee^ eternamente immutabili, di Platone; né quella delle specie, sempre
le medesime dopo la creazione, dei vecchi naturalisti; né quella dei Diritti ab
eterno ed immutabil- mente stabiliti dal verbo divino, dell'etica metafisica:
ma sarà solo, come dicemmo, una certa costanza; e si che, da una parte, ammetta
una lenta trasformazione secondo i tempi le circostanze e i casi e, dall'altra,
nella realtà si verifichi sempre con qualche diversità, come il tipo di un uomo
o di una foglia, che non si effettua mai lo stesso in ogni uomo, in ogni
foglia. Il Diritto, che si forma nel modo suddetto, è il Fatto del Diritto; ma
non il suo Ideale, Un uomo esercita la propria potenza in quanto l'ha e in
quanto glaltriglielo permettono, o gli detta la Idealità sociale: che torna lo
stesso, dal momento che la Idealità sociale non è che 1' astratto della
reazione altrui e quindi del permesso dato dagli altri di agire. £ la forma
della reazione altrui e quindi della Idealità sociale, nella loro tendenza a
ridurre e trasformare la prepotenza egoistica originaria dell' arbitrio
individuale nella Giu- stizia antiegoistica del suo concc«:so nel lavoro
social- mente utile, sono continuamente in via di progressivo mu- tamento; come
spiegammo sopra, e come esige, secondo che pure avvertimmo più volte, la legge
universale della ^'«ifannipiiij I ^^Formazione naturale applicata al caso
particolare della Formazione etico-sociale.6. — Un uomo esercita la propria
potenza in quanto r ha e gli altri glielo permettono, o gli detta V Idealità
sociale regolante il suo operare. Ecco il Fatto del Diritto. La reazione
sociale, e quindi V Idealità mentale con- seguente diretttiva dell' azione
umana, va sempre trasfor- mando r arbitrio individuale dalla sua originaria
prepo- tenzaegoistica nella Giustizia antiegoistica. £ questa Giustizia
antiegoistica, alla quale tende la detta forza trasformatrice, è T Ideale del
Diritto. Ma questo Ideale è un termine al quale si può andare avvicinandosi
sempre più, senza che si effettui però mai perfettamente. E da ciò consegue:
Primo. Che V Ideale assoluto del Diritto non esiste realmente. Sicché è una
assurdità il concetto di un ordi- namento morale definitivo, come porta la
dottrina meta- fisica della istituzione morale per parte di un legislatore
divino, che la fissasse una volta per sempre, e nei ter- mini di una sognata
Giustizia assoluta e quindi irrefor-mabile. Secondo. Che il fatto del Diritto è
sempre una Giti^ stizia relativa: e cioè relativa al lavoro di riduzione so-
ciale precedente e alla potenza attuale dell' organismo so- ciale derivatone.
Ma tale Giustizia, quantunquesolamente relativa quando sia rapportata ad un
concetto astratto più perfetto dell' organismo sociale, nella Società in cui
vige ha valore come se fosse assoluta, perchè essa giùdica, non in base all'
Ideale o di un' altra Società o di una Società possibile più perfetta, ma in
base al Fatto che si è già verificato in essa. Terzo. Che ogni Diritto di fatto
è nello stesso tempo in parte una prepotenza ingiusta, che si tende ad elimi-
nare, e si va sempre più eliminando. E ciò, sia regolando meglio il fatto
medesimo, sia, quando occorra, togliendolo del tutto. 8. — Senza questi criteri
è affattoinspiegabile la storia del Diritto, e il processo legislativo delle
Società. Tale processo, senza questi criteri, apparirebbe, non la Giustizia in
azione (come è realmente, e non può non es- sere), ma la ingiustizia incaricata
di creare la Giustizia. E con questi criteri poi si spiega il fatto storico
della evoluzione sociale procreatrice del Diritto più utile e più giusto. La
quale evoluzione quindi, secondo i cri- teri medesimi, si può dire consistere
in ciò, che il Diritto dell' avvenire, ossia il Diritto ideale, combatte e
vince il Diritto delpassato, ossia il Diritto di fatto. L' Ideale assoluto del
Diritto dicemmo che non esiste realmente. E che nella realtà non si ha,
dell'Ideale del Diritto, se non una effettuazione incompleta. E da ciò potrebbe
altri dedurre, che il Diritto di fatto sia un relativo il quale supponga un assoluto:
e che questo assoluto sia l'Ideale o il tipo eternamente deter- minato del
Diritto, che la mente o possieda gfià o abbia la possibilità di possedere
quandochesia. Ma anche ciò è un errore. L'Ideale del Diritto non è un tipo
assoluto o eter- namente determinato, nemmeno come semplice mentalità. L'
Idealità del Diritto è, anch' essa, un fatto, come quello del Diritto
effettuatosi realmente. U Idealità del Diritto presiede si, come mentalità
direttiva, nella pro- duzione del Diritto di fatto, ma è pur sempre un fatto
anch' essa. Solo che questa Idealità è un fatto della mente, dove il Diritto
effettuatosi realmente è un fatto della co- stituzione già vigente
esteriormente in una Società. Ed essendo un fatto ha le proprietà di tutti gli
altri fatti jn quanto tali: cioè di essere casuale e quindi relativo. Il tipo
ideale del Diritto è come tutti gli altri tipi ideali. Per esempio, come quello
del disegno della crea-- zione supposto nella mentedi dio, del quale abbastanza
ho discorso nel libro della Formazione naturale, E come, quello dell' arte;
mettiamo dell'Architettura: che (per una serie di casualità) è riuscito diverso
nell'India, in Egitto, in Roma,in Germania, e via dicendo; e pur nello stesso
paese non fu mai identico affatto nemmeno nella stessa epoca, e nemmeno in due
soli architetti, anzi nemmeno nello stesso architetto in tutta la sua vita. Il
tipo ideale del Diritto, come tutti quanti i tipi ideali, è una formazione
mentale, che apparisce un dato momento per una accidentalità che la suggerisce;
vi si perfeziona poi in una data maniera per altre accidentalità che guidano la
mente a farlo; e un dato momento poi si oblia e si sostituisce con altri
diversi e opposti, ancora per delle accidentalità che ve la inducono. E tanto,
che il tipo ideale stesso non è quindi deter- minabile a priori, come un vero
preesistente inmodofisso e inalterabile nella mente di ognuno: ma solo a poste-
riori, cioè come 1' astratto di tutti i tipi conosciuti veri- Vol. IV. 16 ficatisi
effettivamente nelle Società umane d* ogni tempo. A quella maniera che il tipo
del vegetale non si può avere se non pel confronto mentale fra le forme reali
che effettivamente s* è dato che se ne producessero. IO. — Che se altri dicesse
che il tipo ideale del Di- ritto è assoluto in quanto è il corrispettivo
necessario etico-sociale di una entità reale, cioè dell' uomo e della sua
convivenza nella Società (i), risponderemmo: Primo. Che la reale entità stessa,
dell' uomo e della sua convivenza nella Società, determinante necessaria- mente
il tipo ideale del Diritto, è ancora una somma di accidentalità, che si rileva
a posteriori, e non si prefigge a priori. Secondo. Che il tipo ideale del
Diritto sipresta al concetto di essere il correspettivo necessario del fatto
so- ciale, non come il disegno preesistente di ciò che non è ancora succeduto;
ma solo come V astratto rilevato dopo (i) Su ciò ho scritto nella Psicologia
come scienza positiva (Voi. I di queste Opev e filosofiche pag. 219, 220) un
tratto che stimo op- portono di ripetere anche qui: « Anche nel dire, idealità,
il filosofo positivo esprime un concetto armonizzante i veri imperfetti di
diverse scuole. La scuola psicologica dà l'idea, come una mera forma del tutto
soggettiva, accidentale e variabile del pensiero. La scuola onto- logica le
assegna un valore oggettivo, immutabile ed assoluto. La scuola storica ricorre
per ispiegarla alle relazioni dell'uomo colle con- dizioni esterne in cui vive,
per cui le attribuisce una semioggettività, e la considera, da una parte contro
i psicologi, non una creazione fa- cile ed efimera dell' individuo, ma una
produzione faticosa,lenta, du- revole della Società, e dall' altra contro gli
ontologi, non una intui- zione che la riveli d' un tratto nella sua interezza
ed in una forma unica sempre e per tutti, ma una formazione progressiva e
varia, che incomincia dall' abbozzo per venire al lavoro sempre più finito; e
che riesce con aspetti diversi, secondo le circostanze differenti dalle quali
•*-^..r9,rr-fr- ^.-^ — 243 di ciò che è già succeduto. Onde il ricorrervi che
fanno i nostri avversari è un circolo vizioso. §n. // Diritto è in virtù di se
stesso, gioverà qui ripetere, in forma appropriata a questo punto del nostro
discorso, ciò che pursopra sotto vari aspetti dimostrammo. Quello che può un
uomo, che fa parte di una So- cietà, è una forza, che vi si pone da sé col solo
fatto che r uomo medesimo ne faccia parte; e che vi emerge in quanto non vi è
elisa dal contrasto dei consociati. Come già dicemmo più volte. Emergendo la
forza di un uomo nella Società, vi è dipende. Or bene anche nel filosofo
positivo l' idea è una formazione lenta, progressiva, durevole, non dell'
individuo, ma della società, e dipendente dalie esteme condizioni di essa, ma
solo in quanto queste condizioni esterne e l'opera sociale giovano a dare
eccitamento e rin- forzo al pensiero individuale, il quale è il vero fattore
dell' idea, se- condo chedicono giustamente i psicologisti. Ma l' individuo e
la so- cietà, producendo l' idea, non fanno opera capricciosa, ed avente solo
valore momentaneo e soggettivo. No: tale lavoro ha la sua ragione nella stessa
natura per la quale agiscono, come la forma che assume il seme germogliando. E
come la forma assunta dal seme per la ger- mogliazione, più che se stessa,
rappresenta queir ordine di cose, che ha determinato la formazione della specie
vegetale a cui appartiene, cosi r idea di un uomo, più che 1' operazione
accidentale, soggettiva, variabilissima di esso, rappresenta, secondo che
dicono giustamente gliontologisti, queir ordine assoluto e immutabile, almeno
quantola natura, nel quale è la ragione oggettiva del fatto particolare, che
consideriamo. Vedi per esempio nel Capo I, dove parlammo della Giustizia
potenziale y e nel Capo II, dove parlammo della derivazione della Giustizia
dalla prepotenza. ■«T- riconosciuta: o estrale galmente nel tacito consenso
degli altri uomini, e nell' uso, e nella esplicita manifestazione dell'opinione
pubblica in qualunque modo approvante: o legalmente nelle forme stabilite dal
Potere sociale rico- nosciuto come tale. E pel detto riconoscimento la forza in
discorso acqui- sta il carattere di Diritto, per la ragione che importa la
Responsabilità di chi la lede verso la Società, la quale, col suo
riconoscimento, se ne è costituita tutrice e vin- dice. E quindi è falsa V idea
che il Diritto emani assolu- tamente dall'Autorità superiore, che lo doni o lo
conceda air inferiore. Non emana da essa: esiste potenzialmente prima e
indipendentemente e malgrado di essa: si impone da sé: e sforza la stessa
Autorità ad ammetterlo col riconoscerlo e sancirlo. E anche questo dicemmo già
più volte. Ma ci occorre ora di far notare un fatto essen- ziale alla dottrina
della sociologia positiva, non ancor ri- levato: il fatto cioè che il Potere
sociale crea pur esso direttamente dei Diritti individuali. E, dato questo, si
domanda: come si accorda questo fatto col suddetto principio della emanazione
del Diritto dall'individuo e non dalla Società? Facile è la risposta. Il fatto
della creazione di un Diritto individuale per parte del Potere sociale si ac-
corda col principio in discorso per la ragione che questo Potere, nel caso qui
contemplato, può porre il Diritto neir individuo in quanto può fornirlo di una
forza; e in quanto questa forza, che l' individuo ha ritratto dal potere che
gliel' ha fornita, sia riconoscibile quale Diritto come le altre forze
possedute comecchessia dall'individuo medesimo, e dalla società rispettate o
difese. In ogni caso il fatto del Diritto di un uomo neir organismo sociale è
analogo a quello delle proprietà acquistate dall' elemento materiale quando é
entrato a far parte di un organismo; e, per un esempio, dalla molecola
combinata nel tutto di una sostanza, che acquista la forza specificamente
funzionante della sostanza medesima solo perchè è divenuta V elemento di essa.
Nell’organismo chimico di una sostanza V elemento è la molecola, come neir
organismo sociale l’elemento è la persona di un uomo. L' organismo intero, neir
un caso e neir altro, e' è solo pel rapporto della forza di un ele- mento con
quelle degli altri; ossia per orientarla se- condo la coordinazione acconcia di
tutte. Il che però non esclude: Primo. Che, coordinandosi nella complessa
azione dell' organismo le forze proprie degli elementi, ognuno di questi non ne
ceda un tanto a formare delle somme comuni, che poi siano distribuite di nuovo
nelle parti in ordine alle esigenze generali dell' organismo. Secondo. Che l'
individuo stesso non dipenda (e in quanto giunge all' acquisto di tutte le
forze onde riesce rivestito, e in quanto le conserva e ne usa liberamente)
dall' ambiente sociale, nel quale trova il mezzo dell'acquisto e della sua
gsiranzia. Sicché per questo lato (ma per questo solamente) è vero il principio
della derivazione del Diritto neir individuo dalla Società e dal suo Potere direttivo:
e come, per esempio, nella sostanza del chimico, nella quale, in virtù della
sua costituzione, le forze sono condotte ad assommarsi in certi punti
determinati, e in certa maniera; e poi anche V acquisto e la costanza della
forza specifica operante negli atomi dipendono dall' es- servi coordinati. Il
diritto è la facoltà del bene sociale. L’esercizio del diritto è la funzione
del bene sociale. Dalle cose dette apparisce, che il Diritto è la facoltà del
Bene sociale; e che l'esercizio del Diritto è la funzione del Bene sociale. E
ciò, o solo indirettamente, o anche direttamente. Solo indirettamente, in
quanto la facoltà indi- viduale sia puramente V egoismo contenuto nei limiti
inof- fensivi per gli altri e producente il Bene dell' individuo investitone;
che torna il bene della Società, e perchè è il Bene del suo elemento, e perchè
se ne possono giovare e se ne giovano anche gli altri. Come nel fatto di una
industria, che arricchisce l'in- dustriale, e quindi anche il paese, e offre
nello stesso tempo un utile e un comodo ai consumatori de' suoi pro- dotti. E
anche direttamente, in quanto la facoltà in- dividuale sia quella che
corrisponde alla Idealità antiegoi- stica; la quale, come si estenda in urla
Società adulta e colta e bene ordinata e fiorente, vedemmo sopra; dove anzi
dimostrammo che, se si tien conto di tutte le gra- dazioni della Idealità e
delle disposizioni antiegoistiche (da una minima che lavori insieme con un
massimo di egoismo, ad una massima che lavori insieme ad un mi- nimo
diegoismo), si trova in tutto ciò che può fare e fa r individuo sociale. Il Diritto
costa una contribuzione, I. — Ma, se, da una parte, l'individuo è investito di
una potenza o di un Diritto (del quale usa poi facendo, o indirettamente, o
direttamente, il vantaggio altrui) dal- l' altra, la stessa potenza o Diritto
costa una contribuzione per parte degli altri. E questa una legge naturale
correlativa alla sopra accennata e necessariamente ad essa collegata. Si piglia;
ma si deve dare. Si dà; ma si piglia per poter dare. Questa legge dell'
organismo sociale non è altro cioè che r applicazione al caso particolare di
esso organismo della legge che domina in tutti gli organismi, anzi in tutta la
natura, dove una forza, posseduta da un agente che funziona in virtù di essa,
è, non una forza creata dal nulla neir agente medesimo, ma comunicata ad esso
da altri agenti, che gliela cedono in ragione dei rapporti correnti fra quello
che cede e quello che acquista; come ho dimostrato nel libro della Formazione
naturale, par- lando del ritmo (i). Il vegetale si appropria l' acido carbonico
che lo at- (i) Vedi Formazione naturale nel fatto del sistema solare^ Os-
servazione terza. § XIV (nel Voi. II di queste Op. Jil.J. tornia, e con esso
mantiene la vita. Gli animali maggiori vivono cibandosi dei minori. Neir
organismo di un mam- mifero alcune parti lavorano a preparare il sangue, e le
masse nervose ne fanno consumo. Impossibile V attività specifica nervosa,
necessaria al funzionamento generale deir organismo e anche a quello
particolare delle parti preparanti il sangue, senza la contribuzione di queste
alla nutrizione dei nervi mediante la somministrazione del sangue acconciamente
preparato e distribuito. 2. — Parlando in particolare deir organismo sociale,
la partecipazione al contributo di ciascuna parte è in ra-gione della
importanza del Diritto, e quindi della facoltà di produrre il Bene sociale. Più
è r importanza del Diritto, e più è la facoltà di produrre il Bene sociale. Più
è questa facoltà e più è la partecipazione al contributo delle parti. Come nel
resto della natura, dove si trova che le funzioni più elevate de* suoi agenti
costano un immagaz- zinamento di forza tanto più grande quanto più distinta è
la forma e ìa sfera della efficienza. Risultando cosi una proporzione di
equivalenza tra la natura che dà e quella che riceve. E in questo modo, che al
più della contri- zione apportata corrisponda il più della importanza della
attività emergente. Per la stessa ragione il Diritto di un ordine supe- riore,
quello ad esempio di un Giudice, costa una contri- buzione per parte di quelli
sui quali ha giurisdizione. Sicché il Giudice mangia dei frutti della terra che
essi hanno lavorato, come il sistema nervoso consuma del sangue che fu
preparato da altre parti dell'organisme animale. PPP^P"?!'^. Come molto
movimento equivale a poco di calore, e molto calore a poco di attività chimica,
e molta attività chimica a poco di attività vitale, e molta attività vitale a
poco di pensiero; cosi, nell'ordine etico della natura, a molta materialità
(intendendo con questa espressione le forme inferiori della esistenza)
corrisponde poco di attitudine morale: poiché, nella gradazione delle
formazioni naturali e quindi delle equivalenze delle forze, i suoi poli opposti
possiamo rappresentarceli, o andando dal movimento meccanico al pensiero, che
ne è l'ultima trasformazione (i), o andando dalla materialità alla mora- lità,
che è r ultima e più sublime sfera della evoluzione ascendente della natura
insensibile e bruta. Naturale è questo fatto della contribuzione delle parti
nell'organismo sociale. E quindi, non effetto solo di arbitrio o prepotenza di
alcuno, ma necessario; a quel modo che è necessario l'assorbimento del carbonio
per parte del vegetale, e il consumo del sangue per parte dei nervi. E naturale
il fatto stesso; ed anche giusto, in quanto è, direttamente o indirettamente,
consentito ed approvato da quelli che contribuiscono. Ed è consentito ed
approvato da questi per la legge, rilevata dagli economisti, della domanda; la
quale, come tutti sanno, consiste in ciò, che più una cosa importa a molti e
più è domandata; e tanto più si paga quanto più (i) Intendendo questo nel senso
della filosofia positiva e non in quello della metafìsica materialistica. Come
spiego da per tutto nei miei libri, e più a lungo in quello col titolo V Unità
della Coscienza nel VII voi. dì queste Op. fil. iiu^.i'i>nn^ si domanda; ma si paga quanto occorre per
averla e non più. Questa legge poi, che determina nei suoi limiti ne- cessari
la contribuzione assentita e giusta nell'organismo sociale, è analoga alla
fisiologica, onde un tessuto vivo si impadronisce delle sostanze che lo nutrono
nei limiti deter- minati dallo stesso bisogno della funzione domandatagli. 4. —
E quindi il fatto in discorso deve essere con- siderato come un caso speciale
di selezione naturale; che si potrebbe chiamare la selezione etico-sociale. E
dalle cose dette si conferma e si chiarisce viemmeglio la dottrina sopra
esposta, che il Diritto indi- viduale è pur esso una autorità (i). Poiché, come
ve- demmo, il Diritto individuale si impone a tutti quelli che contribuiscono
all' essere suo; e agli eguali, che lo rico- noscono e lo rispettano; e agli
inferiori, ossia a quelli che, in ragione dei rapporti nascenti dalla sua
speciale natura, ne subiscono una dipendenza e una direzione; e al Potere
sociale subordinante, in quanto questo non lo crea ma lo riconosce, ed è
determinato a riconoscerlo dal fatto stesso di porsi da sé; onde, una volta che
si sia posto, viene ad essere realmente Diritto in virtù di se stesso. Le unità
minime, le unità medie, e V unità ^ massima nel corpo sociale. L’individuo è V
unità minima del composto so- ciale, come r atomo del composto chimico. E, come
in (i) Vedi Capo III, specialmente \ V. tutti gli altriorganismi naturali, cosi
nel sociale, oltre le unità minime degli individui sociali, e Munita massima
dell' intero organismo, si trovano delle unità di mezzo di terzo grado,
risultanti di più individui associati parti- colarmente fra loro, o di più di
queste associazioni di individui collegate particolarmente in federazioni più
grandi. In unaSocietà adulta, fiorente e grande, la vita del tutto si manifesta
nelle più svariate e spiccanti differen- ziazionidelle attitudini e
conseguentemente dei Diritti individuali, come accennammo or ora. Anzi la
grandezza della Società è, alla sua volta, il risultato di tali varietà o
specificazioni di attitudini; ovvero di tale divisione di lavoro,
verificatavisi: come in ogni altro organismo; per esempio, in quello
fisiologico dell' uomo, nel quale la ec- cellenza zoologica sopra gli altri
animali dipende da una suddivisione di specificazioni in massimo gradodegli or-
gani componenti. In un animale del grado infimo della scala zoologica la
sostanza componente (come avvertimmo nel principio del libro) non è né muscolo
ne nervo: come in una Società umana primitivissima tutti gli individui sono,
mettiamo, dei guardiani d' armenti: e non vi si trova una distinzione di
occupazioni, per salire, po- gniamo, da uno che attende a far pascolare le oche
ad uno che attende a costruire stromenti di ottica o di astro- nomia. La
differenziazione in discorso nella Società più pro-gredita va, si può dire,
all' infinito. E non solo nelle u- nità minime degli individui, ma anche nelle
combinazioni medie già dette delle associazioni degli individui e delle confederazioni
di queste associazioni. Le quali pure, nelle Società adulte fiorenti e grandi,
si producono, per cosi dire, anch' esse all' infinito: dalle più comuni,
normali, e costanti, come quella della/amiglia, alle più insolite, ac-
cidentali ed efimere, come quella ad esempio per dare una volta una festa o uno
spettacolo: dalle più piccole, come di due persone in una impresa commerciale,
alle più grandi, come di due provincie di uno Stato tra loro consorziate per
interessi speciali. Or bene, anche queste unità medie sono (al modo che una
data somma, come tale, si distingue dalle sin- gole quantità sommate,
considerate ad una ad una) sog- getti distinti in possesso di una facoltà
speciale, analoga alla individuale, a somiglianza di ciò che pur si verifica
neglialtri organismi naturali: nei quali, per esempio, la cellula nervosa
singola ha le sue proprietà particolari, e una data massa distinta di cellule
nervose ha un dato uf- ficio distinto fisiologico, che essa esercita in quanto
esiste e si conserva nella peculiarità del suo insieme. E siccome poi il
possesso di una potenza di fare im- porta il possesso di un Diritto, come
dimostrammosopra,cosinellaSocietà si danno i Diritti degli individui e i
Diritti delle stssociazioni loro. E questi Diritti delle As- sociazioni hanno
le proprietà già notate dei Diritti indi- viduali più quelle dipendenti dalla
specialità proporzio- nale della associazione. Delle quali ultime proprietà una
massimamente occorre che sia qui messa in rilievo. L' individuo, in astratto,
si può considerare siccome un plasma generico, il quale, nell' ambiente sociale
e nel circolo della sua vita, secondo le disposizioni già pos- sedute nascendo,
e le circostanze accidentali nelle quali viene a cadere, riceve una
particolarità di impronta di- stinta e tutta sua. Nel che ha luogo un fatto di
selezione naturale: cioè la selezione naturale onde una unità so- ciale si
sceme quale individualità distinta fra altre unità. Anche le agglomerazioni di
più individui in associa- zioni o totalità distinte sono determinate e
foggiate, con grandezze, tendenze e attività particolari, neir ambiente
sociale, secondo i bisogni ed i fatti, e costanti e acciden- tali, onde
emergono, per una analoga selezione naturale distinguente un composto singolo
fra altri composti. Ma in questo composto (o unità media, come sopra lo
chiamammo) ha luogo un' altra forma della selezione naturale: cioè quella che,
neir interno stesso del com- posto, diflFerenzia edistingue fra loro le parti
compo- nenti: e si che esso composto riesca un organismo e non rimanga una
semplice agglomerazione inorganica di ele- menti tutti identici fra loro. E
questa forma di selezione si potrebbe chiamare selezione interorganica. La
unità sociale da noi detta media non è puramente un certo numero di parti
addizionate le une alle altre, ma è una collaborazione organica degli individui
o dei soda- lizi aggregati insieme; e quindi con diversità di attinenze e di
facoltà distribuite fra loro. Altri fanno numero, con- tribuiscono e concorrono
a mantenere T associazione: altri invece la rappresentano, la dirigono, ne
applicano le forze accumulatevi. E, occorrendovi specialità di lavoro e di
ufficio, queste vi sono divise quali negli uni e quali negli altri. E, come è
naturale la creazione di queste differenze interorganiche delle parti
costitutive delle unità medie, cosi è naturale la selezione interorganica dalla
quale di- cemmo che proviene. Questa selezione interorganica, come insegna la
os- servazione del fatto, avviene in diverse maniere secondo i casi; ma
soprattutto secondo la legge, che riesce a una data facoltà ufficio chi piti vi
ha attitudine, o ne ha il merito, e colla condizione del consentimento degli
as- sociati. Il fatto del merito, onde uno acquista una preroga- tiva o una
particolarità d'ufficio a preferenza di altri, è analogo a quello notato da
Darwin della specie preva- lente nella lotta per la esistenza. Il fatto del
consentimento degli associati è analogco air altro, pure da Darwin segnalato,
dell* efficacia del- l' ambiente nel secondare la trasformazione progressiva
dell' essere naturale. L' individuo investito di nna facoltà o di un ufficio in
un corpo di individui o di sodalizi viene con ciò ad avere due sorta di facoltà
o di Diritti: cioè il Di- ritto fondamentale spettante a lui come parte
elementare della Società intera, e il Diritto avventizio, onde è in- vestito
come organo speciale della associazione partico- lare a cui appartiene. Il
Diritto fondamentale ha il suo rapporto immediato colla costituzione generale
delle Società che lo garantisce direttamente a tutti senza distinzione: T
avventizio V ha con quella della associazione particolare per la quale e-
merge; ed è garantito dal Potere sociale supremo in quanto esso riconosce il
Diritto della medesima associa- zione particolare. Se privato si dice ciò che è
proprio della unità sociale minima, come tale, e pubblico ciò che è proprio
della unità massima, parlando delle unità medie si dirà che hanno un carattere
di mezzo tra i due, e gradata- mente; in ragione cioè della importanza loro,
intensiva- mente o estensivamente, nella vita sociale complessiva. Il pubblico
poi si differenzia in genere dal privato in quanto ha un rapporto diretto col
Bene, non indivi- duale, ma sociale; ossia è, non egoistico, ma antiegoistico.
La proprietà quindi di ente morale antiegoistico com- peterà massimamente alla
unità più glande o allo Stato. E se, come sopra dicemmo, il Diritto in genere è
\2l fa- coltà del Bene sociale e il suo esercizio è la funzione del Bene
sociale, ciò si avvererà meno pel Diritto privato, più pel Diritto delle
associazioni sociali intermedie, e in grado più alto pel Diritto dello Stato.
Ma non diremo che per questo Diritto dello Stato il principio si avveri proprio
nel grado massimo, per la ragione che, come sopra dicemmo n), uno Stato
singolo, o già in effetto, o almeno in potenza, si coordina internazionalmente
con altri Stati, anzi con tutte le Società umane esistenti sulla terra. La
selezione interorganica nella evoluzione formatrice dello Stato. La legge della
selezione interorganica, che si avvera nella costituzione degli organismi delle
unità com- (i) Dove parlammo del Diritto internazionale (Capo [, \ II). plesse
medie, si avvera poi per le ragioni medesime nella costituzione dell' organismo
della unità massima dello Stato. Ed è per essa legge che ha luogo in questo la
formazione del Potere onde si esercitano le sue fimzioni subordinanti, che sono
poi funzioni del Bene sociale. Questa selezione assume storicamente forme svari
atis- sime. Ma anche la varietà è determinata da una ragione costante, che si
rivela chiarissimamente nella storia poli- tica degli Stati, e che non è altro
che una applicazione del principio nostro fondamentale della formazione etico-
sociale, che cioè la prepotenza è V indistinto onde si forma il distinto della
Giicstizia, E in vero nello stadio iniziale, o della prepotenza, la selezione
formatrice del Potere sociale è dipendente dalla violenza, che a poco a poco si
mitiga nella eredità, finché da ultimo è sostituita, prima in parte e poi del
tutto, dalla elezione (per parte dei subordinati, e in modo legale e pacifico)
dei più degni, in ragione del merito morale e della Giustizia» e non del
soprastare materiale della ricchezza o della forza dei muscoli: e si che riesca
investito dell' ufficio chi si trova piti atto ad esercitarlo, e che il Potere
nella direzione del corpo sociale sia quel premio del virtuoso del quale un'
altra volta parlammo nel Capo precedente (i). 2. — Il costante e vivissimo
lavoro evolutivo del- l' organismo dello Stato, onde si ha la sua formazione
na- turale e il suo sviluppo e isuo progresso, è T applica- zione nel grado
massimo del principio della formazione (I) \ VII, numero 8. morale, cioè, dall'
indistinto (morale solo virtualmente) della prepotenza e dell' egoismo, al
distinto (morale in atto) della Giustizia antiegoistica. Più procede la formazione
organica dello Stato e più si estende e arriva in tutte le parti e nel!' intimo
di esse la virtù direttiva e moralmente perfezionatrice della So- vranità
politica. In modo che, dove prima le parti erano agglomerate e coacervate e
tenute in fascio violentemente, a poco a poco vanno organizzandosi vitalmente
insieme e finiscono coli' aderire 1' una con V altra, e tutte nel tutto,
volontariamente e per liberoconsentimento. Come, per esempio, le molecole di
certe sostanze, che fanno sentire la loro affinità e aderiscono insieme a
formare un cri- stallo solo in seguito ad una compressione che le sforzò a
ravvicinarsi meccanicamente. Il quale processo però va di pari passo con quel-
r altro; che le parti stesse subordinate, di mano in mano che si orientano
nella armonia politica dello Stato, di- ventando partecipi e collaboratrici
della sua vita, reagi- scono sul Potere sovraincombente, rintuzzando la prepo-
tenza, che vi fosse, e riducendolo ad una forza giusta e mo- rale; ad una
forza, in una parola, diretta al Bene di tutti. 3. — Non è nostro compito (non
richiedendolo lo scopo del presente libro) di studiare i modi precisi onde, per
la elezione interorganica, e pel processo di distin- zione, si va formando
nell' organismo dello Stato bordine del Potere, che riesce un sistema complesso
di funzioni speciali esercitate da individui e corpi particolari; e come nasca
il fatto, mettiamo, della divisione del Governo in diversi ministeri, e di
ciascuno di questi in parecchie Voi. IV. 17 dipendenze, alle quali, variamente e per mez£o
di centri subordinati, si rannodano le ultime propag^ni della
am-ministrazionepubblica sparse in ogni parte dello Stato. Pel nostro scopo, in
riguardo alle specializzazioni ac- cennate degli organi del Potere, basterà
fare T osserva- zione (pure importantissima) che, come si distinguono tra loro
le amministrazioni pubbliche, e quindi gli c^getti di ciascheduna, e
conseguentemente il modo di funzionare (che deve atteggiarsi in conformità
dell' intento da otte- nere), cosi si distinguono tra di loro le Sanzioni pub-
bliche e legali degli atti sociali relativi; e quindi (si noti bene) le specie
di Responsabilità, che neemergono. E da ciò proviene che le forme della
Giustizia e quindi della Moralità si specializzano insieme collo spe- cializzarsi
della pubblica amministrazione; onde, moral- mente, non sono, per esempio,
identiche le azioni degli individui giudicate da un tribunale civile e
quellegiudi- cate da una una intendenza di finanza, o da una commis- sione
igienica o di belle arti; e per un reato controla proprietà individuale o per
uno contro le restrizioni della libertà della stampa, in materia scientifica; e
cosi via. Il che non vuol dire però che non si possano tutte le dette azioni
ridurre al genere comune delle obbliga- torie nel foro intimo della coscienza,
in ragione che Del- l' individuo si è formata, come sopra abbiamo dimostrato, r
abitudine virtuosa e propria del saggio; l'abitudine cioè di attribuire
universalmente alle Idealità antiegoistiche sociali un valore obbligativo per
se, assoluto e indipen- dente dalle specialità di procedura e di Sanzione, che
loro corrispondono nella amministrazione governativa. m — Come risuiii spiegata
la prima /orina de li* ufficio del Intere, e anche la terza: e stabilito l'
assunto del liérù. Ora, facendo, colla proporzione dovuta, al fatto del Diritto
del Potere, Tapplicazione del priacipio stabi- lito sopra, che ogni Diritto
importa una conirièuzionc, possiamo trovare la verità di quella che sopra, alla
fine del Capo I, dicemmo la pritna forma dell' ufficio del Po- tere, cioè: di
stabilii*^! nella Società a spese delle sue parti. Et facendo allo stesso
fatto» pure colla pro- porzione dovuta, r applicazione dell' altro principio,
che il Diritto è la facoltà del Bene^ constatiamo la verità di quella, che ivi
stesso chiamammo la terza forma dell' uf- ficio del Potere, cioè: di flÌH|ìensHri^
la forza propriadeir ambiente sociale (cioè le contribuzioni suddette) al migli
orauiento delle sue parti. In questo ultimo enunciato poi abbiamo il com- pendio,
per cosi dire, di tutta la trattaEione di questo libro, E> in relazione allo
stesso enunciato, si verificano, in ragione cho lo Stato si perfeziona in ogni
sua parte, i principj che seguono: Primo* Che le contribuzioni di ogni genere,
prestate da tutti gli elementi costitutivi dello Stato, diventano li-èeramente
consentile. Secondo. Che le contribuzioni medesime si vanno av- vicinando al
massimo di ciò che pi4Ò dare ciascuno ^ senza suo esiziale detrimento* ^ i
'«.iFI-i-^..' TChe nulla, di ciò che è contribuito, va consur- malo
prepotentemente ed egoisticamente da chi è investito del Potere di disporne.
Quarto. Che la erogazione medesima è fatta secondo il volere di quelli stessi
che contribuiscono. Quinto. E alla tutela dei Diritti di tutti; e dXVotte-
nimento della prosperità, e al miglioramento morale. Sesto. E a questo
soprattutto. E nella ragione che il miglioramento morale ottenuto, supplendo da
sé, come dimostrammo sopra (i), alla tutela dei Diritti e all' otte- nimento
della prosperità materiale, lascia per sé disponi- bili mezzi sempre maggiori. E
cosi nello Stato siverifica T idea della prov- videnza, che il teista colloca
in dio, come in esso colloca il tipo della specie di una pianta, per la solita
illusione tante volte notata. E si verifica anche V idea della grazia,
immaginata per una simile illusione dalla teologia cattolica siccome emanazione
divina, atta a rendere V uomo morale, a far che segua le leggi della Giustizia
ed eserciti la beneficenza. La possibilità per 1* individuo di essere morale,
di conoscere e seguire la Giustizia, e di essere benefico verso gli altri, si
ha, come dimostrammo nel corso del libro, dalla sua convivenza nella Società e
dalla proprietà di questo di svolgere e perfezionare le facoltà dell'uomo, e di
moralizzarlo. 5. — Onde lo Stato, cosi concepito, viene ad essere l'attuazione
pura e compiuta della Idealità sociale, ossia (i) In molti luoghi: per es.
Numero 2 del J VI del Capo IV. 201 del principio del Bene an ti egoistico, del
Bene morale, in una parola del Bene pel Bene, E quindi lo Stato medesimo riesce
la prova concreta ' sperimentale della verità del principio della Morale dei
positivisti da noi affermato, chiarito, dimostrato: e una prova evidente, in
quanto nel fatto dello Stato il fenomeno individuale si trovaingrandito, E mi
spiego. Se, ad esempio, si può dubitare che un atomo materiale preso da sé sia
pesante, perchè il peso deir atomo è tanto piccolo che non si può rilevare iso-
latamente, il dubbio cessa affatto prendendo una grande congerie di atomi, nella
quale i pesi minimi non valu- tabili di ognuno sisommano in un peso valutabile,
dal quale si arguisce quello troppo piccolo dei componenti. E, se si può
dubitare che una molecola di ferro, consi- derata isolatamente, sia calamitata,
il dubbio cessa quando se ne prenda una grande massa. E cosi nel caso nostro.
Se si può dubitare che T uomo singolo sia mosso nelle sue azioni da una
Idealità sociale antiegoistica, perchè la ragione di questa, nella singola
azioneumana di un individuo, si sottrae facilmente alla osservazione, stante il
concorso e il contrasto colle ragioni egoistiche, le quali ve la accompagnano,
il dubbio è tolto interamente arguendo dal fatto che, appuntandosi i voleri
individuali nella totalità dello Stato, ne risulta la incontrastabile sovranità
del volere morale, e antiegoistico, che vi os- servammo. Le cose dette nel
corso del libro dimostrarono che la Responsabilità, intesa nel senso che sia
Vastraito delle Sanzioni,onde la Società reagisce, rintuzzandola, contro V
azione propriamente umana individuale, si rife- risce, non solo agli atti della
Giustizia propriamente detta, ma anche a tutti gli altri atti
etico-civili dell'uomo; cioè: Primo. Agli atti offensivi non contemplati e non
con- templabili dalla Legge. I quali perciò, esclusi dal campo della Giustizia
propriamente detta, vanno attribuiti a quel- la altro della puraConvenienza.
Secondo. Agli atti sindacabili soltanto dalla coscienza intima dell’individuo
in cui si avverano, e producenti la sola reazione del rimorso intemo. Terzo.
Agli atti virtuosi, che V individuo potrebbe fare e sarebbe bene facesse, e non
fa. Ossia a quegli atti che non si attribuiscono, ne alla Giustizia, né alla
Con- venienza, ma alla Carità, come dicevano i moralisti vecchi, o alla
Filantropia o Beneficenza, come direbbero inuovi. E cosi è sciolta la
questione, propostaci nella Introduzione, come compito di questa nostra
Sociologia. Rodrigo Ardigò. Keywords: sociologia. Grice ed
Ardigò: implicatura cooperativa —
positivismo filosofico — biologia
filosofica — psicologia filosofica naturalista — il sociale — l’intersoggetivo
——, la morale positivista, il positivism filosofico. La morale e il diritto
all’altro – la convivenza sociale – la giustizia, il bene sociale – la
benevolenza e la beneficenza – il calcolo ragionale nella convivenza sociale –
l’evoluzione sociale – l’organismo sociale – il positivismo filosofico –
communicazione e convenienza sociale – l’onesta morale – spettazione di onesta
reciproca – Fondazione naturalistica della morale – Fondazione – il fatto
sociale – il devere, la regola d’oro, fare all’altro cioe che vorreste fatto a
te – consiglio di prudenza – kant – costume – fatto sociale presupposizione del
linguaggio -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Ardigò” – The
Swimming-Pool Library.
Grice ed Arena – nudi –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Ripatransone). Filosofo
italiano. Grice: “I like Arena; my favourite of his tracts are one on what he calls,
ambiguously, ‘guerriero dello spirito,’ which is pretty naif – wasn’t Aeneas
killing for something too, not necessarily ‘spiritus’? – His focus is two
orders: the templari and the teutonic order – my other of his favourite trats
is his ‘nudi’ – or ‘gnudi,’ if you
mustn’t – when Romolo converses with Romo, they are ‘nudi’ – what they say is
what they mean and what they mean is what they say – ‘nakedness’ becomes a
philosophical category, as when Strawson says, ‘the naked true.’” “There is no
reason why it shouldn’t be a philosophical category, since the etymology is
fascinating – vide Clarke, “The naked and the nude,” -- Leonardo Vittorio Arena (Ripatransone),
filosofo. Arena insegna "Storia della filosofia contemporanea" presso
Urbino. Filosofo e orientalista,ha dedicato in particolare al Buddhismo Zen, al
Taoismo e al Sufismo una vasta produzione saggistica; è anche autore di romanzi
e traduzioni sui medesimi temi. Insegna tecniche di meditazione tratte da
pratiche buddhiste e sufi. Ha collaborato ai programmi religiosi della Radio
Svizzera. Pensiero La sua visione filosofica è esposta principalmente
nelle tre opere Nonsense o il senso della vita,Note ai margini del nulla e Sul
nudo, dove si propone una sintesi delle grandi correnti filosofiche orientali e
occidentali, con particolare riguardo a Nietzsche, Wittgenstein, Zhuāngzǐ e il
Buddhismo Chán/Zen. Il nonsense, come dall'opera Nonsense o il senso
della vita, è da intendere come la meta di ogni autentica indagine filosofica,
realizzando la "distruzione delle opinioni" sulla scorta del
Buddhismo. La filosofia del nonsense non è teoria, bensì non teoria: come la
zattera del Buddhismo o la scala di Wittgenstein, serve ad arrivare a una sorta
di consapevolezza speciale, per poi essere tranquillamente accantonata. Punto
di partenza: non è possibile formulare una filosofia esente da contraddizioni.
Nelle pagine di ogni filosofo si cela il tarlo dell'incoerenza. Traendo tutte
le conseguenze logiche di ogni filosofia se ne attesta la contraddittorietà.
L'idealismo, base di ogni filosofia, dovrà sfociare nel vuoto e nel nonsense,
laddove se ne sviluppi il suo principio-base, che è esistenziale prima ancora
che teoretico, secondo cui il mondo è la rappresentazione del soggetto o di una
mente cosmica. La posizione del nonsense spinge a riconoscere che le cose
stanno proprio così (Tathātā), cioè sono caratterizzate da una nudità che non
può essere interpretata o espressa attraverso alcuna dottrina od
opinione. Non c'è senso nascosto, e tutto è già qui, direttamente
accessibile nella vita quotidiana all'uomo comune e al Risvegliato, mai così
tanto accomunati. Lo strumento del nonsense è l'arte, specialmente la musica e
si procede verso la dimensione del non suono, già cara a John Cage, nella sua
composizione 4'33", cui Arena dedica una lunga disamina, nella sua opera
La durata infinita del non suono. La stessa tematica viene ripresa e ampliata
in Il tao del non suono, nonché nell'analisi di alcuni solisti o gruppi di
musica contemporanea, come John Lennon, David Sylvian, Brian Eno, Robert Wyatt,
Giacinto Scelsi e Ryuichi Sakamoto. Musica e filosofia si intersecano, entrambe
sono mezzi di conoscenza, addirittura intercambiabili. Arena è influenzato
dalla beat generation, e riconduce parte del suo interesse di lunga data per
l'Oriente ai Beatles e ai grandi gruppi rock dei '60 e '70. Nella poesia,
l'haiku esprime lo yugen, un senso di "profondità misteriosa" che
convive con la semplicità del "qui e ora". Nonsense implica il
superamento degli opposti, quindi permette di giungere alla non dualità, al di
là della logica formale di Aristotele, perseguita dall'esorcista del nudo, il
quale pretende di cogliere e congelare in una articolazione sistematica il
caotico divenire della vita; operazione votata all'insuccesso, e alla
contraddittorietà. Come per Nāgārjuna e Wittgenstein, anche per Arena la logica
può servire a invalidare sé stessa, ma nella dimensione radicale del kōan, come
è concepita nel Chán/Zen. L'insegnamento si trasmette grazie a una sorta di
empatia o comunicazione energetica tra maestro e allievo -, di baraka nel senso
che il termine acquista nel Sufismo -, veicolata dal silenzio e dal non
suono. Nella sua opera Note ai margini del nulla, Arena riprende la
posizione di Bodhidharma, relativa al "non sapere, non distinzione"
(fushiki), in direzione epistemologica ed ermeneutica, sottolineando la
complessità della diffusione del nonsense nell'ambito del sociale. Egli
analizza le concezioni di vari esponenti del pensiero orientale e occidentale,
tra cui Max Stirner, Fernando Pessoa e i maestri del Taoismo, specie Zhuāngzi.
Il nonsense propone un nichilismo costruttivo, dove le "ragioni" del
nulla non vengano concepite attraverso la modalità unilaterale del nihil
privativum, negativum od oggettivizzato. Arena rovescia la conclusione del
Tractatus Logico-Philosophicus: di tutto ciò su cui si dovrebbe tacere occorre
proprio parlare. Arena propone di sondare il nonsense attraverso il nudo,
una comprensione che sfoci nella non comprensione e nel non pensiero, ben più
fecondi di quanto la riflessione logico-formale non abbia dato da vedere
all'Occidente. Nietzsche, Bob Dylan e i maestri Zen si rivelano, al momento, i
suoi principali ispiratori nei toni di una filosofia non accademica, nemica del
dogmatismo e della necrofilia della teoresi. La musica elettronica
contemporanea sembra particolarmente adatta a sondare la nudità, nei modi della
improvvisazione radicale, cui Arena dedica anche un'attività concertistica
solista con lo pseudonimo Mu Machine. Arena ha pubblicato una serie di
ebook sull'analisi di maestri e filosofi alla luce delle categorie del nonsense
e del nudo, sondandone tratti indipendenti dai "punti nodali",
riscontrabili nei compendi od opere manualistiche, e considerando queste figure
nella loro alterità: Samuel Beckett, Jacques Derrida, Nietzsche e Wittgenstein
rientrano nel novero, ma anche Jacques Lacan (cfr. la voce Opere).
Parallelamente, sta sondando le illusioni e i condizionamenti dell'animo, che
non lasciano percepire il nudo/nonsense. La produzione romanzesca è
iniziata con La lanterna e la spada, dove Arena analizza la figura di Qinshi
Huangdi, il primo imperatore della Cina, famoso per l'unificazione della
lingua, del Paese, e il forte impulso dato alla costruzione della Grande
Muraglia, ma anche per il rogo dei libri, che ha ispirato Ray Bradbury in
Farenheit 451, e varie efferatezze. La produzione letteraria è proseguita con
un altro romanzo, L'imperatrice e il dragone (ripubblicato come Il Tao del
sesso), in cui si rievoca un'altra figura molto discussa, stavolta nella Cina
medioevale, quella di Wu Zhao, la quale regnò per virtù propria, fondatrice di
una sua dinastia, e non come semplice imperatrice vedova, altresì famosa per
gli eccessi e le passioni sessuali. Anche di questa figura Arena dà un ritratto
senza giudizi moralistici ed esaminandone i multiformi aspetti, come per il
primo imperatore. In L'Ordine nero, ripubblicato come La svastica sul Tibet, si
tratta della spedizione Schaefer, alla ricerca delle origini della razza umana
e di ineffabili segreti magici. Nel gruppo di nazisti si trova anche il
filosofo Leonard Mayer (personaggio inventato), alla ricerca del segreto della
mente. In Il coraggio del samurai, si parla dell'arcano connubio tra samurai e
ninja, e dei segreti di questi ultimi, descritti attraverso un gruppo di donne
guerriere, la cui sovrana è la misteriosa Padrona, di cui si dice che abbia
quattro secoli; si parla anche di Yoshitsune, un samurai del clan dei Minamoto,
sfortunato quanto valoroso, ostile al fratello Yoritomo. Nell'ultimo
romanzo pubblicato, La corda e il serpente, Arena si discosta dal romanzo
storico e scrive un'opera sperimentale, dove la trama è un pretesto, e si nota
l'influsso di William Burroughsanche di H.Lovecraft, per certi aspetti:
nell'opera si parla di Atlantide, un mondo sommerso, distrutto da una
catastrofe; il protagonista L., darà vita a una nuova specie umana. Arena
propone una personale versione della meditazione nella sua opera La Via del
risveglio, Manuale di meditazione. Egli prende spunto dal buddhismo, vipassana
e Zen, dal sufismo e da Georges Gurdjieff, dalla psicologia analitica di Carl
Gustav Jung (il Libro rosso)[25] e dal lavoro sull'ipnosi di Milton Erickson.
Una meditazione che conduce talvolta agli stati alterati di coscienza e
permette di sviscerare il nudo nonsense, caposaldo della visione filosofica di
Arena. Una meditazione che ha il suo supporto nella musica, la quale non ne
costituisce solo il sottofondo, ma anche la base per approfondire le intuizioni
che ne emergono. "Difficile separare la musica dalla meditazione",
scrive Arena, "l'una porta all'altra".[26] Scopo della meditazione è
anche attingere il non suono, categoria che Arena aveva sviscerato nei
succitati studi su John Cage e Brian Eno. Una meditazione che attinge
all'Oriente, ma fa tesoro delle conquiste psicologiche e spirituali
dell'Occidente. Per indicare la modalità filosofica della pratica Arena propone
una metafora: "La meditazione è premere il pulsante della
consapevolezza".[27] Dopo anni, e non sulla base di un ripensamento
quanto di un ampliamento, Arena torna sul nonsense con una nuova riflessione,
imperniata sul non sapere alla luce del buddhismo Chan/Zen nel suo complesso
(non solo in riferimento a Bodhidharma), e soprattutto da non intendere come non
sapere socratico. Il non sapere invita a diminuire la quantità di nozioni, a
spogliare la mente dei preconcetti, principio che potrebbe essere il pilastro
della scoperta scientifica. Lo anima il non pensiero, attività più affine alla
intuizione, che usa la logica ponendola contro se stessa. Anche questa
posizione, come quella relativa al nonsense nelle opere precedenti, mira
all'acquisizione di un equilibrio psicofisico, all'autorealizzazione, al riparo
da dogmatismi ed eurocentrismi. L'incontro con la nudità permetterà, nella
solitudine esistenziale, di svelare nuove risorse nel soggetto, un incontro con
se stessi fecondo e produttivo, senza entrare in polemica con alcuna visione
filosofica, anzi ospitando visioni del mondo contrastanti. La contraddizione, implicita
nel nonsense, è foriera di nuovi sviluppi teoretici, e consente di recuperare
istanze che, nel pensiero occidentale, erano state sepolte dopo la
demonizzazione dei sofisti.[28] Altre
opere: “Nietzsche-Wagner-Schopenhauer” (Fermo); “Il Vaisheshika Sutra di Kanada
(Quattroventi) La filosofia di Novalis (Franco Angeli) Comprensione e
creatività. La filosofia di Whitehead (Franco Angeli) Novalis, Polline (Studio
Editoriale) Antologia della filosofia cinese (Arnoldo Mondadori Editore) Storia
del buddhismo Ch'an (Mondadori) Il canto del derviscio [povero mendicanti sufi]
(Mondadori) Il Nyaya Sutra di Gautama (Asram Vidya Edizioni) Antologia del Buddhismo
Ch'an (Mondadori) Diario Zen (Rizzoli) I maestri (Mondadori) Haiku (Rizzoli); “Al
profumo dei pruni. L'armonia e l'incanto degli haiku giapponesi, Rizzoli ).
Realtà e linguaggio dell'inconscio (Borla) Novalis, Enrico di Ofterdingen
(Mondadori) Vivere il Taoismo (Mondadori) Il Sufismo (Mondadori) Il bimbo e lo
scorpione (Mondadori) La grande dottrina e Il Giusto mezzo (opere confuciane)
(Rizzoli) La filosofia indiana (Newton) Buddha (Newton) La via buddhista dell'illuminazione
(Mondadori) Del nonsense (Quattroventi) Sun-tzu, L'arte della guerra (Rizzoli)
Iniziazione all'autorealizzazione. Un percorso verso la consapevolezza
(Edizioni Mediterranee) Chuang-tzu, Il vero libro di Nan-hua (Mondadori);
Zhuangzi (Rizzoli). Poesia cinese dell'epoca T'ang (Rizzoli) La barriera senza
porta (Mondadori) La filosofia cinese (Rizzoli) La storia di Rama (Mondadori)
Nei-ching, canone di medicina cinese (Mondadori) I-ching. Il libro delle
trasformazioni (Rizzoli) Samurai. Ascesa e declino di una nobile casta di
guerrieri (Mondadori) Musashi, Il libro dei cinque anelli (Rizzoli) Kamikaze.
L'epopea dei guerrieri suicidi giapponesi (Mondadori); “Hagakure, Il codice dei
samurai (Rizzoli) La mente allo specchio (Mondadori) Il sogno della farfalla
(Pendragon) Il libro della tranquillità. 100 koan del buddhismo Zen (Mondadori)
Sun Pin, La strategia militare (Rizzoli) Dogen, Shobogenzo (Mondadori) Tecniche
della meditazione taoista (Rizzoli); “Il tao della meditazione, Rizzoli); I 36
stratagemmi (Rizzoli); I guerrieri dello spirito (Mondadori); La lanterna e la
spada (Piemme) Lo spirito del Giappone (Rizzoli) L'imperatrice e il dragone
(Piemme) La pagoda magica e altri racconti per trovare la felicità dentro di sé
(Piemme); “Il libro nella felicità”; “II pensiero indiano (Mondadori) Orient
Pop. La musica dello spirito (Castelvecchi) L'arte della guerra e della
strategia (Rizzoli) Il lago incantato. Racconti sull'amore (Piemme) L'ordine
nero (Piemme) L'innocenza del Tao (Mondadori); Il maestro e lo sciamano
(Piemme, ) Incontri di filosofia. La biblioteca di Babele, I (Città di Ripatransone). Xunzi, L'arte confuciana
della guerra (Rizzoli) Confucio (Mondadori) Il coraggio del samurai (Piemme)
Nietzsche in Cina nel XX secolo”; Incontri di filosofia. La filosofia come
conoscenza di sé, II (Città di
Ripatransone). Memorie di un funambolo; Note ai margini del nulla; Nonsense o
il senso della vita; La durata infinita del non suono (Mimesis) Il pennello e
la spada. La Via del samurai (Mondadori, ) Introduzione al Sufismo (ebook, ).
Un'ora con Heidegger (Mimesis, ). Introduzione alla storia del Buddhismo Ch'an
(ebook, ). Il libro della tranquillità (Congronglu) 100 koan del Buddhismo
Zen”; L'arte del governo (Huainanzi) (Rizzoli); “Heidegger, il Tao e lo Zen
(ebook, ). Il Tao del sesso: La storia di Wu Zhao; La lanterna e la spade”; “La
svastica sul Tibet”; Il libro dei segreti d'amore”; All'ombra del maestro”; Il
Tao del non suono”; “La filosofia di David Sylvian. Incursioni nel rock
postmoderno (Mimesis); “Ikkyu poeta zen; “La filosofia di Brian Eno. Filosofia
per non musicisti (Mimesis); “Novalis come alchimista”; “La filosofia di Robert
Wyatt. Dadaismo e voceunlimited (Mimesis). Yogasutra (di Patanjali) (Rizzoli ).
Sun-tzu: l'arte della guerra per conoscersi; La barriera senza porta (Wu-men
kuan) 100 koan del buddhismo Zen”; “La comprensione negata”; “Buddha: La via
del risveglio”; “Nagarjuna: la dottrina della via di mezzo (Zhonglun)”; “Il
libro rosso di Jung (ebook, ). La storia di Rama (Ramayana)”; “Sul nudo. Introduzione
al Nonsense (Mimesis). Storia del pensiero indiano”; Lacan Zen, L'altra
psicoanalisi (Mimesis). Storia del pensiero indiano”; “Oltre il nirvana”;
L'altro Derrida”; “Watt, la cosa e il nulla. L'altro Beckett; L'altro
Wittgenstein”; “Nietzsche, lo Zen, Bob Dylan. Un'autobiografia”; “ L'altro
Nietzsche”; “Una introduzione alla filosofia di John Lennon”; “Scelsi: Oltre
l'Occidente, Crac Edizioni. La corda e il serpente, Illusioni, La filosofia di
Sakamoto, Il Wabi/Sabi dei colori proibiti, Mimesis. La Via del risveglio,
Manuale di meditazione, Milano, Rizzoli. Wenzi, Il vero libro del mistero
universale. Un classico della filosofia taoista, Milano, Jouvence. La filosofia
di John Lennon. Rock e rivoluzione dello spirito, Milano-Udine, Mimesis.
Togliersi le idee. L'ombra del nonsense, Il Tao della pedagogia (selezioni da:
Annali Primavere-Autunni di Lu Buwei); Il libro segreto dei ninja: Shoninki; Ikkyu:
l'Antibuddha, (poesie in traduzione dal giapponese); Confucio come counselor, Miyamoto
Musashi: Dokkodo; Quanti orientali. Oltre il Tao della fisica; Daodejing: Laozi
come counselor; Zhuangzi: i capitoli interni; Bhagavad Gita; Qohelet, l'interpretazione
"orientale"; Il pensiero giapponese. L'età moderna e contemporanea,
Jouvence. La filosofia di Bob Dylan, Mu Machine Collection; Zhuangzi: i
capitoli esterni, Mu Machine Collection; Zhuangzi: miscellanea, Mu Machine
Collection; La raccolta della roccia blu (i cento koan del Biyanlu), Mu Machine
Collection; Basho:Haiku, Mu Machine Collection; Vivere il taoismo, Mu Machine
Collection; Il libro rosso di Jung: Liber Primus, Mu Machine Collection, ebook.
Storia del pensiero indiano, II, Mu
Machine Collection, Storia del pensiero indiano, III, Mu Machine Collection, Storia del
pensiero indiano, IV, Mu Machine
Collection, ebook. Il libro rosso di Jung: Liber Secundus, Mu Machine
Collection, L'antistoria della filosofia, Mu Machine Collection, Zen contro Zen,
Mu Machine Collection, I greci in
Oriente, Mu Machine Collection, Liezi il libro taoista della verità, Mu Machine
Collection, Lo spirito del samurai: Budoshoshinshu, Mu Machine Collection, Il
giardino nascosto (sul tempo), Mu Machine Collection, Neijing il canone di
medicina cinese, Mu Machine Collection, Dogen Shobogenzo, Mu Machine Collection,
Guida al cinese classico, Mu Machine Collection; Nascita di un samurai, Mu
Machine Collection; Il Canone di Mozi. La logica cinese, Mu Machine Collection,
ebook. Jung Zen, Mu Machine Collection. In Inglese Nonsense as the Meaning, ebook,.
Nietzsche in China in the 20th Century, ebook,. The Shadows of the Masters,
ebook,. An Introduction to Sufism, ebook,. The Dervish, ebook,. Cage Nagarjuna
Wittgenstein, ebook,. Nosound, ebook,. The Red Book of Jung, ebook,. Illusions,
ebook,. The Book On Happiness, ebook. On Nudity. An Introduction to Nonsense,
Mimesis International. David Sylvian As A Philosopher, Mimesis International.
In Spagnolo El canto del derviche. Parabolas de la sabiduria Sufi, Grijalbo,
Barcelona 1997. In Francese Sur le nu. Introduction à la philosophie du
Nonsense, Editions Mimésis,. Note L. V.
Arena, Nonsense o il senso della vita, ebook, cap. 1 Nonsense o il senso della vita, cap. 6 L. V. Arena, La durata infinita del non
suono, Mimesis L. V. Arena, Il tao del
non suono, ebook L. V. Arena, Una
introduzione alla filosofia di John Lennon, Kindle Edition L. V. Arena, La filosofia di David Sylvian.
Incursioni nel rock postmoderno, Milano, Mimesis L. V. Arena, La filosofia di Brian Eno, Milano,
Mimesis,. L. V. Arena, La filosofia di
Robert Wyatt, Milano, Mimesis,. L. V.
Arena, Scelsi: Oltre l'Occidente, Falconara Marittima, Crac Edizioni,. L. V. Arena, La filosofia di Sakamoto, Il
Wabi/Sabi dei colori proibiti, Milano-Udine, Mimesis,.. L. V. Arena, Orient pop. La musica dello
spirito, Roma, Castelvecchi, 2007.
Nagarjuna, The Philosophy of the Middle Way, D. Kalupahana, Albany, 1986 L. Wittgenstein, Tractatus
Logico-philosophicus, Torino, Einaudi 1984
L. V. Arena, Note ai margini del nulla, ebook, passim L. V. Arena, Note ai margini del nulla, ebook,
cap. 1 Biyanlu, 1 Leonardo Vittorio Arena, Zhuangzi: I capitoli
interni, ebook; Idem, Zhuangzi: i capitoli esterni, ebook, idem, Zhuangzi:
Miscellanea. ebook.. Contra Kant,
Critica della ragion pura, Roma-Bari, Laterza 1979, p.281 Nonsense o il senso della vita,
Appendice L. V. Arena, La comprensione
negata, ebook,. Leonardo V. Arena, La
filosofia di Bob Dylan, Collezione Mu Machine, ebook.. Leonardo V. Arena, Nietzsche, lo Zen, Bob
Dylan, Autobiografia, I, ebook. L. V. Arena, Illusioni, Kindle Edition,. L. V. Arena, La Via del risveglio, Manuale di
meditazione, Milano, Rizzoli.. Leonardo
Vittorio Arena, Il libro rosso di Jung, ebook.
Ibidem13. Ibidem15. L. V. Arena, Togliersi le idee, L'ombra del
nonsense,.. Altri progetti Collabora a Wikiquote Citazionio su Leonardo
Vittorio Arena Nonsense o il senso della
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nulla, su amazon. L'attività accademica di Leonardo Vittorio Arena
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Arena, su leonardovittorioarena.wordpress.com. L'autobiografia, su amazon. Filosofia
Letteratura Letteratura Religioni Religioni Storia Storia Filosofo del XXI secoloOrientalisti
italianiStorici delle religioni italiani 1953 Ripatransone. Leonardo Vittorio
Arena. Keywords: nudi, Novalis, Schopenhauer, Nietzsche, Wagner, Puccini,
Butterfly, Turandot, Mascagni, Iris, Leoni, L’Oracolo, Confucio, la guerra,
stratagema, strategia, antistoria della filosofia, Heidegger, Wittgenstein,
l’unconscio, Whitehead, Grice on east and west, Staal, ‘those in a position to
know’ – metafisica, greco-latina, Heidegger citato par Arena, Leonardo Arena,
Leonardo Vittorio Arena. Cinese, linguaggio, la filosofia del linguaggio di
Novalis, Gozzi, libretti di Butterfy, Turandot, Isis, L’Oracolo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Arena” – The
Swimming-Pool Library.
Grice ed Aresandro – Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Lucania). Filosofo italiano.
According to Giamblico di Calcide, Aresandro was a Pythagorean.
Grice ed Aresa – Roma – filosofia italiana
– Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. Aresas was a Pythagorean. According to
lamblichus of Chalcis, he re-established the school of Pythagoras, and Diodorus
of Aspendus became one of his students or companions. He is also said to have previously
fled from Croton when it was attacked by enemies of the Pythagoreans and sought
safety with friends at a distance, but he would have had to have lived an
extraordinarily long time for both stories to be true. Although many identify
Aresas with Aresandrus of Lucania, it may be that two separate stories and
people have been confused, with the earlier history belonging to Aresandrus and
the later one to Aresas.
Grice ed Ario – filosofia italiana – Roma
– Luigi Speranza -- Ario Didimo. Ario Didimo (in greco Ἄρειος?;
latino: Arius Didymus) è sun filosofo italiano, insegnante di filosofia di
Ottaviano. Ario era un cittadino di Alessandria d'Egitto. Ottaviano lo
stima talmente tanto che, dopo la conquista di Alessandria, dichiara di aver
risparmiato la città solo per il bene d’Ario. Secondo Plutarco, Ario suggere ad
Ottaviano di giustiziare Cesarione, il figlio di Cleopatra e Giulio Cesare, con
le parole οὐκ αγαθὸν πολυκαισαρίη "non è bello avere troppi Cesari",
un gioco di parole basato su un verso di Omero. Ario, come i suoi due figli
Dionisio e Nicanore, insegnano filosofia ad Ottaviano.Viene spesso citato da
Temistio, il quale afferma che Ottaviano lo considerava meritevole quanto
Agrippa. In Quintiliano si scopre che Ario scrive o insegna anche retorica. Si
tratta probabilmente dello stesso Ario la cui Vita era nella parte finale
mancante del libro VII delle Vite di Diogene Laerzio. Ario Didimo viene
solitamente identificato con l'Ario le cui opere vengono citate a lungo da
Stobeo, e che sintetizzano lo stoicismo, la scuola peripatetica ed il
platonismo. Il fatto che il nome completo sia Ario Didimo lo sappiamo grazie ad
Eusebio, il quale cita due lunghi passaggi della sua visione stoica del
dividno; la conflagrazione dell'universo; e l'anima. Plutarco, Ant. 80,
Apophth.; Cassio Dione, li. 16; Giuliano, Epistles, 51; comp. Strabone, xiv. ^
David Braund at al, Myth, history and culture in republican Rome: studies in honour
of T.P. Wiseman, University of Exeter Press, 2003, p.305. La frase originale
era οὐκ αγαθὸν πολυκοιρανίη " cioè "Non è bello avere troppi
capi" o "il regno di molti è una brutta cosa" (Omero, Iliade II,
v. 204). "polukaisarie" è una variante di "polukoiranie".
"Kaisar" (Cesare) sostituisce "Koiran(os)", che significa
"capo". Sventonio, Augustus, 89. ^ Temistio, Orat. v., viii., x.,
xiii ^ Quintiliano, ii. 15. § 36, iii. 1. § 16 ^ Comp. Seneca, consol. ad Marc.
4; Eliano, Varia Historia, xii. 25; Suda ^ Richard Hope, 1930, The book of
Diogenes Laertius: its spirit and its method, pag 17. ^ Inwood, B., (2003), The
Cambridge Companion to the Stoics, pag 32. Cambridge University Press ^
Eusebio, Praeparatio Evangelica, xv. 15, 18, 19, 20. Bibliografia Arthur J.
Pomeroy (ed.), Arius Didymus. Epitome of Stoic Ethics. Texts and Translations
44; Graeco-Roman 14. Atlanta, GA: Society of Biblical Literature, 1999. Pp. ix,
160. ISBN 0-88414-001-6. B. Inwood, e L.P. Gerson, Hellenistic Philosophy.
Introductory Readings, 2ª edizione, Hackett Publishing Company,
Indianapolis/Cambridge 1997, pp. 203–232. Fortenbaugh, W. (Editor), On Stoic
and Peripatetic Ethics: The Work of Arius Didymus. Transaction Publishers.
(2002). ISBN 0-7658-0972-9 Altri progetti Collabora a Wikiquote Wikiquote
contiene citazioni di o su Ario Didimo Collegamenti esterni Arìo Dìdimo, su
Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Modifica su Wikidata Andrea Ferro, ARIO DIDIMO, in Enciclopedia Italiana,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1929. Modifica su Wikidata Ario Didimo, in
Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Modifica su
Wikidata Arìo Dìdimo, su sapere.it, De Agostini. Modifica su Wikidata (EN)
Opere di Ario Didimo, su Open Library, Internet Archive. Modifica su Wikidata
Eusebio di Cesarea, Praeparatio Evangelica, Libro XV. 15, 18, 19, 20. Portale
Biografie Portale Filosofia Categorie: Filosofi romaniFilosofi del
I secoloRomani del I secoloNati nel I secolo a.C.Morti nel I secoloAlessandrini
di epoca romanaStoici[altre]
Grice ed Arione – Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Locri). Filosofo italiano. Arion
was a Pythagorean visited by Platone.
Grice ed Aristea – Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo
italiano. According to Giamblico di Calcide (“Vita di Pitagora”), Aristea was a
Pythagorean.
Grice ed Aristeneto – Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Nizza). Filosofo italiano. Aristeneto
was a pupil of Plutarco.
Grice ed Aristeo
– Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. According to Giamblico
di Calcide, Aristeo was a pupil of Pythagoras. When Pythagoras died, Aristeo
became his successor ad married his widow, Theano. Fragments of a work on
harmony are attributed to him. Legend has it that he married Pythagoras’s
widow, herself the daughter of Brontino. There is however, some confusion over
this. According to another tradition, it was Brontino who married Pythagoras’s
widow. Still according to a yet another tradition, the woman was Pythagoras’s
pupil, not wife, whom Brontino married. Schuler argues that there were actually
two women involved, perhaps mother and daughter. This convolution is one of the
main reason why Oxford is not co-educational.
Grice ed Aristide
– Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Reggio). Filosofo italiano. According to Giamblico
di Calcide (“Vita di Pitagora”), Aristide was a Pythagorean.
Grice ed
Aristippo – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. According to Giamblico
di Calcide (“Vita di Pitagora”), Aristippo was a Pythagorean.
Grice ed Aristo –
Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Aristo specialised in
legal philosophy. Plinio Minore describes him as a man of great wisdom, and
superior in virtue to all the philosophers of his time.
Grice ed Aristo –
Roma –filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Aristus was the brother
of Antioco and a friend of Brutus. Aristu was said to hae been an inferior
philosopher to his brother, but a wholly admirable individual.
Grice ed
Aristocleida – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. According to Giamblico
of Calcide (“Vita di Pitagora”), Aristocleida was a Pythagorean.
Grice ed
Aristocle – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Tito Claudio Aristocle. A
member of the Lizio, studied at Rome under Erode Attico.
Grice ed
Aristocrate – Roma – filosofia italiana. – Luigi Speranza – Filosofo italiano. Petronio Aristocrate – Regarded
as an accomplished philosopher, a man of great learning, and someone who lead a
pious life. He was a puil of Lucio Anneo Cornuto and a friend of both Persio
and Agatino.
Grice ed
Aristocrate – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Reggio). Filosofo italiano. According to Giamblico
di Calcide, Arisocrate was a Pythagorean.
Grice ed
Aristodoro – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Siracusa). Filosofo italiano. Aristodoro was the
recipient of the tenth letter of Platone – but we do not if he responded to it.
In the letter, Plato credits Aristodor as being a “philosopher” himself.
Grice ed
Aristomene – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. According to
Giamblico di Calcide (“Vita di Pitagora”), Aristomene was a Pythagorean.
Grice ed Aristone
– Roma – filosofia italiana – Filosofia del principtao -- Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Ariston was a philosopher
at Rome, attached to the household of Marco Lepido. According to Seneca,
Aristone used to engage in philosophical discussions when travelling around in
a carriage, leading a wit to observe that he was obviously not a ‘peripatetic.’
Grice ed Aristone
– Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Ceos). Ariston of Julii after the town on Ceos.
Grice ed Aristosseno – Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Taranto). of Taranto. How to
live the good life. Aristosseno filosofo greco antico Lingua Segui
Modifica «Diceva Aristosseno che il vero amore del bello sta nelle attività
pratiche e nelle scienze; perché l'amare e il voler bene hanno inizio dalle
buone usanze e occupazioni, così come, nelle scienze ed esperienze, quelle
buone ed oneste amano davvero il bello; mentre ciò che dai più è detto amore
del bello, cioè quello che si manifesta nelle necessità e nei bisogni della
vita è, se mai, la spoglia del vero amore.» (Stobeo, Florilegio, III, 1,
101.) Aristosseno (in greco antico: Ἀριστόξενος, Aristóxenos, in latino:
Aristoxĕnus; Taranto, ... – ...; fl.335 a.C.[1]) è stato un filosofo greco
antico, peripatetico e scrittore di teoria musicale. Ritratto
immaginario di Aristosseno. Figlio di Spintaro (allievo di Socrate), fu da
questi e dal padre avviato alla musica e alla filosofia. S'interessò alla
dottrina pitagorica, per poi diventare discepolo di Lampo Eritreo, di Senofilo
e infine uno dei principali allievi di Aristotele: infatti ebbe l'incarico di
tenere nella sua scuola lezioni di musicologia. Aspirò alla successione del
maestro e la nomina di Teofrastoalla direzione della scuola peripatetica, dopo
la morte di Aristotele, fu la profonda delusione della sua vita [2].
Infatti si trasferì a Mantinea, una città del Peloponnesofamosa per la
diffusione della musica, dove visse per molti anni, ebbe molti discepoli detti
Aristosseni e fu consigliere del re Neleo. Qui scrisse due opere, Il carattere
dei Mantinei [3] e l'Elogio dei Mantinei [4]. OpereModifica Secondo Suda,
Aristosseno scrisse 453 opere, molte delle quali sulla musica, per la quale
divenne autorità indiscussa. In base ai frammenti, le opere aristosseniche
possono essere divise in vari gruppi [5]. In primo luogo, Aristosseno si
dedicò, sulle orme di Aristotele, allo studio delle teorie pitagoriche, con
opere come la Vita di Pitagora (Πυθαγόρου βίος, fr. 11 Wehrli); Su Pitagora e i
suoi allievi (Περὶ Πυθαγόρου καὶ τῶν γνωρίμων αὐτοῦ, fr. 14 Wehrli); La vita
pitagorica (Περὶ τοῦ Πυθαγορικοῦ βίου, fr. 31 Wehrli); Massime pitagoriche
(Πυθαγορικαὶ ἀποφάσεις, fr. 34 Wehrli). L'attenzione alla dimensione
educativo-pedagogica è testimoniata dalle Leggi educative (Παιδευτικοὶ νόμοι,
fr. 42-43 Wehrli) e dalle Leggi politiche (Πολιτικοὶ νόμοι, fr. 44-45 Wehrli).
Numerose furono anche le sue biografie: Vita di Archita (Ἀρχύτα βίος, fr. 47-50
Wehrli); Vita di Socrate (Σωκράτους βίος, fr. 54 Wehrli); Vita di Platone (Πλάτωνος
βίος, fr. 64 Wehrli); Vita di Teleste (Τελέστου βίος, fr. 117 Wehrli), sul
poeta ditirambico. Dove, però, Aristosseno lasciò una duratura impronta
fu la teoria della musica, con opere come Sui tonoi(Περὶ τόνων), di cui resta
una breve citazione nel commentario di Porfirio agli Armonica di Claudio
Tolomeo; Sulla musica (Περὶ μουσικῆς, fr. 80, 82, 89 Wehrli); Ascolto della
musica (Μουσικὴ ἀκρόασις, fr. 90 Wehrli); Su Prassidamante (Πραξιδα .μάντεια,
fr. 91 Wehrli); Sulla melica (Περὶ μελοποιίας, fr. 93 Wehrli); Sugli strumenti
(Περὶ ὀργάνων, fr. 94-95, 102 Wehrli); Sugli auloi (Περὶ αὐλῶν, fr. 96 Wehrli);
Sui flautisti(Περὶ αὐλητῶν, fr. 100 Wehrli); Sui fori degli auloi(Περὶ αὐλῶν
τρήσεως, fr. 101 Wehrli); Sui cori (Περὶ χορῶν, fr. 103 Wehrli); Sulla danza
della tragedia (Περὶ τραγικῆς ὀρχήσεως, fr. 104-106 Wehrli); Comparazioni
(Συγκρίσεις, fr. 109 Wehrli); Sui poeti tragici (Περὶ τραγῳδοποιῶν, fr. 113
Wehrli). Infine, tipicamente erudite erano le Miscellanee simposiali
(Σύμμικτα συμποτικά, fr. 124 Wehrli); Memorabilia (Ὑπομνήματα), Memorabilia
storici(Ἱστορικὰ ὑπομνήματα), Memorabilia in breve (Κατὰ βραχὺ ὑπομνήματα),
Note miscellanee (Σύμμικτα ὑπομνήματα), Note sparse (Τὰ σποράδην): fr. 128-132,
139 Wehrli.[6] A noi sono giunti gli Elementi di armonia (᾿Αρμονικά)
divisi in tre libri: nel primo, intitolato Principii vengono esposti la
definizione della scienza armonica e i suoi argomenti, quali la voce, acuto e
grave, intervalli, melodia, generi, suoni e tonalità; nel secondo vi è una
introduzione filosofica, una presentazione innovativa delle caratteristiche
dell'armonia, una polemica contro gli esperti di musica passati e
tradizionalisti; il terzo libro inizia con l'approfondimento degli intervalli e
s'interrompe sulla parte intitolata Elementi. Musica ed estetica in
Aristosseno. Interessa rilevare negli scritti di Aristosseno la presenza più o
meno esplicita di un pensiero estetico: un'idea di quel che sia o come debba
essere intesa l'opera d'arte musicale. Alla musica attribuì un notevole
influsso etico ed educativo, ma anche un uso terapeutico: «il vero amore
del bello sta nelle attività pratiche e nelle scienze; perché l'amare e il
voler bene hanno inizio dalle buone usanze e occupazioni, così come, nelle
scienze ed esperienze, quelle buone ed oneste amano davvero il bello; mentre
ciò che dai più è detto amore del bello, cioè quello che si manifesta nelle
necessità e nei bisogni della vita è, se mai, la spoglia del vero amore.»
(Stobeo, Florilegio, III, 1, 101.) Aristosseno applicò alla musica il duplice
metodo, sperimentale e teorico, di chiara influenza aristotelica, tanto da
scrivere che i pitagorici «usavano medicine per purificare il corpo e musica
per purificare la mente». Abbinò questi studi allo sviluppo della dottrina dell'anima
come armonia del corpo, perfezionando gli astratti presupposti
dell'aritmeticapitagorica con l'osservazione attenta dei fenomeni del suono. È,
tra l'altro, andata perduta un'opera di Aristosseno che era intitolata
Sull'ascoltare musica, nella quale pare si sostenesse il carattere
necessariamente attivo di questa operazione, che richiede un vigile e assiduo
confronto tra i suoni passati e quelli presenti e futuri. Ossia, Aristosseno
riconobbe la funzione fondamentale della memoria nell'intelligenza della
musica, come risulta da un paragrafo degli Elementi di armonia: «Di queste due
cose, invero, la musica è coesistenza: sensazione e memoria. Bisogna infatti
sentire ciò che accade e ricordare ciò che è accaduto». Grazie a Plutarco
sono giunte fino a noi altre parti del modello musicale elaborato da
Aristosseno, il quale era consapevole che la musica non poteva essere limitata
a una ricreazione scientifica e nemmeno a un gioco di sensazioni, bensì alla
riuscita di tutte le sue parti, dalle parole ai ritmi e ai suoni, e il compito
del genio è quello di creare le corrispondenze fra questi elementi, attraverso
un lavoro di sintesi. Il compito dell'ascoltatore, secondo le teorie di
Aristosseno è quello di ricostruire l'opera stessa e se la fusione è esaustiva,
in qualche modo l'opera esiste. Secondo la Cronaca eusebiana. ^ Suda, s.v. ^
Μαντινέων ἔθη, fr. 45, I, rr. 1-9 Wehrli. ^ Μαντινέων ἐγκώμιον, fr. 45, I, rr.
10-12 Wehrli. ^ Il riferimento è all'edizione di F. Wehrli, Die Schule des
Aristoteles, vol. 2, Aristoxenos, Basel/Stuttgart 1967, con il testo greco dei
frammenti e commento in tedesco. ^ a b "Dizionario di Musica", di A.Della
Corte e G.M.Gatti, Torino 1956, voce "Aristosseno", pp. 21-22.
Modifica Carl A. Huffman (ed.), Aristoxenus of Tarentum: Discussion, New
Brunswick - London 2011. Sophie Gibson, Aristoxenus of Tarentum and the Birth
of Musicology, New York, Routledge, 2005. Amedeo Visconti, Aristosseno di
Taranto. Biografia e formazione spirituale, Napoli 1999. F. Wehrli, Die Schule
des Aristoteles, vol. 2, Aristoxenos, Basel/Stuttgart 1967. Altri
progettiModifica Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata
a Aristosseno Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni di o su
Aristosseno Collegamenti esterniModifica Aristòsseno di Taranto, su Treccani.it
– Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su
Wikidata Aristosseno di Taranto, in Dizionario di filosofia, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Modifica su Wikidata ( EN ) Aristosseno, su
Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata (
EN ) Opere di Aristosseno, su Open Library, Internet Archive. Modifica su
Wikidata Aristosseno, in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Trattato di armonica di Aristosseno di Taranto, su
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dialogo – filosofia italiana – filosofia siciliana – Luigi Speranza (Palermo). Filosofo
italiano. Grice: “I like Armetta; he is into ‘dialogue,’ I am into
conversation. I once suggested to Strawson that he should write a dissertation
on the distinction betweehn dia-logos and cum-versatio, but he said that
‘converse’ is used to mean ‘make out’ in the Bible, while ‘dialogue’ ain’t!” Principale
allievo di Santino Caramella, di cui cura il lascito. Si è laureato in Filosofia presso l’Palermo
con Santino Caramella, di cui è diventato subito assistente universitario. Con
lui e gli altri allievi e collaboratori ha fondato la rivista di filosofia
«Dialogo» (1964-1974); dal 1960 al 1992 ha insegnato nei licei di stato (per un
lungo periodo di tempo presso il Liceo Ginnasio Vittorio Emanuele II); dal 1981
insegna presso la Pontificia Facoltà Teologia di Sicilia «San Giovanni
Evangelista», prima come docente incaricato di Dottrine filosofiche e fino al
2004 anche di Logica; ha fatto parte della segreteria della Rivista della
Facoltà per un decennio fino al 1998 e sin dall’anno accademico 1985 è
Segretario Generale della medesima Facoltà.
Il pensiero di Armetta è una rilettura del neoidealismo crociano e
gentiliano sulla base dello spiritualismo cristiano. I suoi studi sono rivolti
soprattutto alla storia del pensiero filosofico e teologico in Sicilia, e sono
culmila curatela del monumentale Dizionario Enciclopedico dei pensatori e dei
teologi di Sicilia. Altre opere: "La
filosofia del volere da Omero a Platone”; “Storia e idealità in S.
Kierkegaard”; “L’uomo come natura”; “Guida agli scritti di Santino Caramella”;
“Teoria e pratica in Santino Caramella”; “Caramella e Gobetti. Un rapporto oscurato”;
“Il Carteggio Caramella-Croce”; “Il carteggio tra Caramella e Radice”; “Per una
società in dialogo”; “Il pensiero filosofico in Sicilia”; “Elementi di
ideologia”; “Istituzioni ideologiche”; “Rosario La Duca. Guida agli scritti”; “La
toponomastica di TerrasiniFavarotta”; Dizionario enciclopedico dei pensatori e
dei teologi di Sicilia. Secc. XIX e XX, Sciascia Editore, Caltanissetta-Roma);
“Dizionario enciclopedico dei pensatori e dei teologi di Sicilia. Dalle origini
al sec XVII (Sciascia Editore, Caltanissetta-Roma). Riconoscimenti Papa
Benedetto XVI lo ha insignito del titolo di Cavaliere Commendatore dell'Ordine
di S. Silvestro (13 febbraio ).
Note Caltanissetta, Sciascia
Editore,. Filosofia Filosofo del XX secoloFilosofi italiani Professore1928
Palermo. Francesco Armetta. Keywords: dialogo, fascimo filosofico, filosofi del
fascism, croce e caramella – il carteggio curato da Armetta, presenza di
Caramella nel primo convegno a Milano, dialogo, implicatura dialettica,
Caramella e Giobetti, storia della filosofia italiana, filosofia politica nella
Italia del primo novecento, la metafisica del dialogo in Vico. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Armetta” –
The Swimming-Pool Library.
Grice ed Arnoufi – Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza.
A philosopher. His talents extended to magic. He conjured up a stor for the
Romans at a time when they were short of water.
Grice ed Arriano – Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza
-- Lucio Flavio Arriano – Scolaro di Epitteto.
Grice ed Arrighetti –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo italiano. Grice: “I
like Arrighetti: his forte was Aristotle’s rhetoric, and he was very popular
with the Accademia degli Ardenti, and later with a subgroup of this, The
Accademia degli Svelati (which later merged with the Accademia dei Lunatici);
his other forte was the distinction between ‘oratio’ and ‘oratio vvocalis’ –
“Os” is of course Romann for ‘mouth’ – but figuratively for ‘linguaggio’ –
(after all, the tongue is IN the mouth). I happen to prefer ‘mouth,’ because
Roman ‘os’ is related to ‘essere’: you are who you are, i.e. you exist, because
you can breathe through your mouth. Appartenente a una nobile famiglia fiorentina,
studiò la lingua Greca e le filosofie Aristotelica e Platonica nelle Pisa e di
Padova. Dedicatosi agli studi teologici, venne ascritto al Corpo dei Teologi
dell'Università Fiorentina il 20 novembre del 1631. Il Pontefice Urbano VIII,
che aveva molta stima per il giovane, lo creò Canonico Penitenziere della
Cattedrale di Firenze e esaminatore sinodale, posizione che mantenne fino alla
morte. Arrighetti morì il 27 novembre del 1662 all'età di 80 anni. Fu uno dei
membri più illustri dell’Accademia Fiorentina e di quella degli Alterati fra i
quali si chiamò Fiorito. Altre opere:
“La rettorica d’Aristotele e Cicerone spiegata” (Firenze); “La Poetica d'Aristotele, spiegata” (I
Svogliati, Pisa), “Il Piacere” (Firenze); “Il riso” (Firenze); “L’ingegno”
(Firenze), “L’onore” (Firenze); “Vita di S. Francesco Saverio estratta dalle
relazioni, fatte in Concistoro da Francesco Maria Cardinale del Monte”,
“Sermoni sacri, volgari e latini fatti in varie chiese e compagnie di Firenze”;
“Opere spirituali”; “L'Orazione vocale e mentale”; “Tractatus de iis quae
necesitate medii et precepti credenda sunt”. Note Arrighetti (Philippe), in: Louis Gabriel
Michaud: Biographie universelle ancienne et moderne, 2ª edizione 1843, 2291.
Arrighetti, Filippo. In: The Biographical Dictionary of the Society for
the Diffusion of Useful Knowledge, 3, 2
(1844)641 sg. Arrighetti (Philippe), in:
Nouvelle biographie générale, 1852–66,
3358 Arrighetti, Filippo. In: The Biographical Dictionary of the Society
for the Diffusion of Useful Knowledge,
sg. Biografie Biografie Cattolicesimo Cattolicesimo Filosofia Categorie: Religiosi
italianiFilosofi italiani del XVI secoloFilosofi italiani del XVII
secoloGrecisti italiani 1582 1662 27 novembre Firenze PadovaTraduttori dal
greco all'italiano. RETTORICA E POETICA D'ARISTOTILE TRADOTTE
E SPIEGATE DA FILIPPO ARRIGHETTI CANONICO FIORENTINO. PROLOQVII NELLA RETTORICA
D'ARISTOTELE RECITATI NELL'ACCADEMIA DELLI SVEGLIATI IN PISA. RAGIONAMENTO I.
De principii vniversali dell'arte. Prooemium. E' lodevol'usanza di tutti i
buoni espositori et massime di quelli d'Aristotele proporr'alcuni capitoli dal
principio di qualunque trattato ch'eglin si metton ad esporre, i quali da lor
son detti prolegomeni, o ver proloquii, molt'utili reputati non senza legittima
cagione, per chiarezza et intelligenza delle cose che si deven trattare, et
molti son questi de quali si fa maggior o minor copia secondo la qualità de
trattati parte nascenti dalla natura delle cose da insegnarsi, parte da varii
accidenti onde si vede che questa, per non dir come tropp'alta et forse troppo
oscura ma al men come lontana dalla prattica, è stata involta 'n un tenebroso
silenzio. Pregoti dunque benigno uditore, poich'io solco mar non troppo
cognito, che tu aiuti questo mio corso con l'aura benigna della tua attentione.
Quel ch'inducesse li huomini et quando a ritrovar l'arti. E' cosa manifesta a
ciascheduno che l'huomo è composto di due parti principali, d'anima et di
corpo. L'anima divina et immortale et per se stessa aspirante a cose alte et
elevate: ma per esser racchiusa nel profondo del corpo nostro, tale che non può
senza l'aiuto suo sostenersi, il ch'è la vita nostra. Hebben acconcia la terra,
onde potessen nutricarsi et altresì provedut'onde commodamente vivesseno, si
dieden alla contemplazione. Et tanto basti haver detto dell'occasion del
ritrovar l'arti, et del tempo in che elle si ritrovarono. Trattano i
logici e metafisici della diffinizione ma con esquisitezza singulare mostrando
che la diffinitione è una oratione, la quale dichiara la essenza et natura
della cosa, et questa da loro si compone di genere et differenze. Ma havendoci
noi proposto di ragionar di quelli che son più oscuri et manco trattati da
professori della Rettorica, che son chiaramente quelli di cui già habbiam discorso.
Poscia che havuto fine il nostro proposito, porrem anchor noi fine al nostro
ragionamento. Camminando su l'orme de discorsi fatti sin a qui sì in
generale, sì in particolare sopr'il negozio rettorico acciocché si proceda
secondo l'ordine della natura, che è cominciando prima delle cose prime, andrem
ritrovando il fine a cui s'indirizza questa professione, o ver arte che dir la
vogliamo. Però essend'egli parte della felicità, vien ad esser ancho parte del
fine humano. Insin a qui habbiam vedut'in quanti modi si piglia il diletto, et
non ha dubbio alcuno ch'un di questi si convien alla poesia; hora è da veder
quale et come, et scior le dubitazioni ch'intorn'a ciò accadesseno. Disse
Aristotele l'imitazione esser una delle principali cagioni della poesia et noi
poco fa l'habbiam posta come fine. Adunque terremo per fermo che l'imitazione
co'l metro habbin dat'origine alla poesia et che le sien la vera essenza di
quella. Del suggetto della poetica. S'egli è vero quel che noi habbiam
determinato ne discorsi rettorici essend'il suggetto quel ch'è capace della
forma che intende d'introdur l'artefice et ove s'impiega l'opera del poeta,
tutta rigirandos'intorno a questo che s'imiti alcuna attione è necessario dir
ch'ella sia il suo suggetto. Et vedesi che s'è ben dato qualche condimento
all'arti et alla filosofia mediante il verso come fecen molti scrittori innanzi
a Platone Anassagora Empedocle ET APPRESS'I LATINI LUCREZIO et di medicina
da Q. Sereno et altri la qual'usanza non è stata approvata né seguita da
maestri delle scienze et pur le cose da loro eran trattate co' principii
proprii, cosa molt'alieno dal sentimento et processo poetico. Che sorte
d'arte sia la poetica. Dell'unità dell'arte poetica. Dell'origine della poesia.
Del furor poetico. Quel che nel poeta possa più l'arte o la natura. Due son le
parti del ben poetare come di esercitar ben tutte l'arti et professioni, l'una
è l'ingegno, l'altra il giudicio, perché ogni buon opera debbe esser regolata
da buon giudicio. Ma si com'il giudicio non ha luogo ove non è l'invenzione, sì
anchor l'invenzione senza giudicio è cosa poc'artifiziosa et casuale. Della
Rettorica d'Aristotele libro primo. La Rettorica ha convenienza con la
dialettica trattando l'una e l'altra di quelle cose le quali communemente da
tutti in un certo modo si conoscono, né si riferiscono ad alcuna determinata
scienzia. Di qui è che tutti gli huomini in qualche modo dell'una o dell'altra
partecipano, conciosiache tutti infino a un certo termine sappino arguire e
rispondere, e difendere e accusare. Noi dunque (disse colui) domanderemo che
voi giudici stiate a le cose che con il giuramento havete sententiato, et noi
ci staremo? Anchora le altre cose simili che appartengono all'amplificatione.
Et questo basti haver detto quanto alla fede senza artificio. Sommario del
primo libro della Rettorica d'Aristotele. La Rettorica è distinta da Aristotile
in tre libri. Nel primo narra le cose communi a i tre generi dell'oratione, i
quali distinguendosi in deliberativo, dimostrativo e giudiziale, dichiara le
propositioni et il fine di ciascheduno. Intorno a quai modi allega Aristotile i
precetti di trattare de giuramenti. E così pon fine alle fedi et al primo libro
della Rettorica. Seguendo di ridurre in breve le cose principali del 2°
libro della Rettorica d'Aristotile diremo avanti come in questo libro
Aristotile tratta de gli affetti dello animo, de costumi. Termina poi questo
libro annoverando le cose egli ha trattato nell'ultima parte et proponendo la
materia del 3° libro che resta a perfettionare questa arte, cioè la locutione
et dispositione. Sommario del terzo libro della Rettorica. Nel terzo
libro della Rettorica si contengono come dicemmo da principio due cose
principali che sono gli ornamenti della oratione con le parti di essa.
Comprende dunque l'epilogo la benevolenza dell'uditore, la amplificatione, la
commotione degli animi et l'essamenatione delle cose dette. Lettione.
Proemio nella Rettorica d'Aristotele. Se dalle operationi si conosce la nobiltà
della cosa niuna è più propria a manifestare l'eccellenza dell'animo nostro che
quell'istessa la quale da gl'animali irragionevoli ci fa differenti. E' l'huomo
mercé della divina bontà di molti doni dotato; onde secondo il Filosofo
mediante la parte intellettiva vive sempre desideroso di conoscere la verità.
Et Quintiliano seguitando Cicerone afferma che quest'opera è come un germoglio
della civile filosofia. Et questo basti haver detto circa i preloquii della
Rettorica. Qui fa fine Aristotile al trattato delle fedi senz'artificio et al
primo libro della sua Rettorica. Intorno all'espositione della quale mi sono
affaticato, per dar maggior luce et agevolezza a voi più giovani accademici
nell'apprender da questo famoso filosofo i precetti dell'arte poetica. Il fine
della dichiaratione del primo libro della Rettorica. Proloquii nella Rettorica
d'Aristotele. Proemio. E' lodevol cosa di tutti i buoni espositori et massime
di quelli d'Aristotele proporr'alcuni capitoli dal principio di qualunque
trattato che eglin si metton ad esporre, i quali da lor son detti prolegomeni,
o ver proloquii, molt'utili reputati non senza legittima cagione, per chiarezza
et intelligenza delle cose che si devon trattare, et molti son questi de quali
si fa maggior o minor copia secondo la qualità de trattati. Onde si vede che
questa, per non dir come tropp'alta et forse troppo oscura ma al men come
lontana dalla prattica, è stata involta 'n un tenebroso silenzio. Pregoti
dunque benigno lettore, poich'io solco mar non troppo cognito, che tu aiuti
questo mio corso con l'aura benigna della tua attentione. Quel che nel
poeta possa più l'arte o la natura. Delle parti del poema. Della poetica come
metodo. Delle parti della poesia come metodo. Ne metodi ben ordinati il
principio e comincia dalle cose che per ordine di natura procedono et questo
ordine è di più maniere perché o egli è di perfettione, o di origine. Resta
solo per dar fine a questo trattato che noi aggiunghiamo le considerazioni
della musica delle quali col tempo piaccendo a dio da cui ogni mia attione
riconosco, un'altra volta ne scriveremo. Magl. Cl. Rettorica e Poetica
d'Aristotile tradotte e spiegate da Filippo Arrighetti canonico
fiorentino. Il testo del vol. I.com. con questo titolo, "Proloquii nella
Rettorica d'Aristotele recitati nell'Accademia delli Svegliati in
Pisa". Cart., autogr., in fol. Leg.in mezza membr. Già della Bibl.
Mediceo. Palatina. Precede il vol. I la tavola delle materie (lezioni, proloqui
e versioni). II,I,22.(Magl.CI). Il titolo è di a Lezioni, relazioni e ricordi
varii. Ma il vol.contiene "Lettione del Piacere recitata nell'Accademia
degl'Alterati da Filippo Arrighetti accademico detto il Fiorito" (fol.
1-6). Lezione «DelRiso» delmedesimo (fol.7-10). Lezione sull'In gegno, del
medesimo (fol.13-27). «Notitiaetincontridelviaggiodel R. card. di Firenze
Legato in Francia l'anno 1596 » (fol. 29-31). Propositi tenuti da S. M. tả
(Enrico iv] alli signori del suo Parlamento in presenza del suo Consiglio et de
Duchi et Padri di Francia » (fol. 33 34). « Lettera in materia delle cose di
Francia e de Ghisi » (fol. 35 45). « Lettera del Re di Navarra [Enrico iv) ai
tre Stati del Reame di Francia » (fol. 50-58): in fine è la data 4 marzo 1589.
Cart., infol., sec.XVII, autogr.dafol.1-6,f.79. Leg. inmezza membr.Proviene
dalla Bibl. Mediceo-Palat. II,I,23. (Magl.CI.VI, num.15). G. MAZZATINTI
Manoscrilli delle biblioleche d'Italia, viii. (Carlo di Tommaso Strozzi, num.581. at:interlocutori
SaccenteeFrinfri(fol.60-71).— «Ricordian l'Alchimia u tichi.Autore Iac.
Petribonifiorentino» (titolo del sec.XVII). Precede na nota dei Gonfalonieri di Filippo Arrighetti.
Keywords: il piacere, lista di figure rhetoriche --
A Accumulazione Adynaton Agnizione Allegoria Allusione Anacoluto
Anadiplosi Anagramma Analogia (retorica) Anastrofe Anfibologia Annominazione
Antanaclasi Anticlimax Antifrasi Antilogia Apagoge Apallage Aprosdoketon
Arcaismo B Baritonesi C Cacofemismo Cacofonia Captatio benevolentiae Catacresi
Catafora (figura retorica) Chiasmo (figura retorica) Clavis aurea Climax
(retorica) Concinnitas Correctio D Deissi Diafora Dialefe Dialisi (figura
retorica) Diallage Diastole (retorica) Dieresi Difrasismo Dilogia Disfemismo
Distribuzione (figura retorica) Dittologia E Ekphrasis Ellissi (figura
retorica) Ellissi temporale Enallage Endiadi Endiatri Enfasi Engo Enjambement
Entimema Enumerazione Epanadiplosi Epanalessi Epanodo Epanortosi Epicherema
Epifora (figura retorica) Epifrasi Epitesi F Fallacia patetica Figura di stile
Figura etimologica Figure di suono H Hysteron proteron I Iato Invettiva
Ipallage Iperbato Ipocoristico Ipofora Ipotassi Ipotiposi Ironia Isocolon K
Kakekotoba Kakemphaton Kenning L Latinismo Leixaprén M Merismo Metalessi Metalogismo
Metanoia Metasemema Metatassi N Nemesi storica Neologismo Noema O Occupatio
Olofrase Omeoarco Omeottoto Omoteleuto Onomatopea P Palindromo Palinodia
Panegirico Paradosso Parafrasi Paragone Paraipotassi Parallelismo Paraprosdokian
Paratassi Parequema Paretimologia Parodia Paromeosi Paronimia Paronomasia
Patronimico Pleonasmo Polisemia Polittoto Premunizione (figura retorica)
Priamel Prolessi R Reduplicazione S Sarcasmo Scarto semantico Senhal Sillessi
Similitudine (figura retorica) Simploche Sinafia Sinalefe Sinchisi Sincope
(linguistica) Sineddoche Sineresi Sinestesia Sinonimia Sistole Tautologia Tmesi
Truismo Umorismo Understatement Variatio Zeugma tipi di discorsi,
discorso dimonstrativo, discorso deliberative, discorso di giudizio,
imitazione, ornamentation, parte dell’orazione, giovinetti, rettorica per
giovinetti, dialettica a la sua convenienza colla rettorica, rettorica come
arte, dialettica come arte, l’arte di conversare, filosofia civie, rispondere,
argomentare, il fine della retorica, le la rettorica distinta in tre parti,
demostrazione, giudizio, buon giudizio, deliberazione, albero della retorica,
luoghi retorici, il fine della poesia e il diletto, animale ragionabile,
animale non-ragionabile, lucrezio, cicerone, quintiliano, il dire dilettevole,
la benevolenza dell’oratore, la benevolenza del conversante, la benevolenza
dell’auditore, la benevolenza dell’audienza, principi di rettorica, cicerone
sulla rettorica di Aristotele – l’aristotele toscano, aristotele per i
platonici di fiorenze, del piacere, della lussuria, dell’onore, dell’ingegno,
del riso – Bergson – la felicita come fine – arte e natura – poetica come arte,
il poeta e la natura – l’imitazione come fine della poetica, la filosofia e la
rettorica. Rettorica e dialettica, universalita fra i uomini, la villa di
Giulio di Filippo Arrighetti – Filippo Arrighetti, canonico, detto il Fiorito –
pseudonimo, figura retorica, Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Arrighetti” – The
Swimming-Pool Library.
Grice ed Artemidoro – Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza. Filosofo italiano. Expelled from Rome. A close
friend of Plinio Minore, who admired him greatly and supported him after he was
one of the philosophers expelled from Rome. Plinio describes him as a s a man
of sincerity and integrity, as someone ho lived a frugal and disciplined life,
and as someone who faded physical hardship with indifference.
Grice ed Aruleno – Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza
(Padova). Filosofo italiano. Quinto Giunio Aruleno Rustico -- Of the porch. Specialised in political
philosophy. He actively supported the opposition of the Porch and was
condemnded to death by Domiziano, for publily defending the activities of
Thrasea Paetus and Helvidius Priscus.
Grice ed Asclepiade – Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza
(Roma). Filosofo italiano. Based in Rome, he was a member of the Accademia. He
wrote a book on the immortality of the soul based on his interpretation of
certain pronouncements of the oracle of Apollo at Delphi.
Grice ed Asclepiade – Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza.
Filosofo italiano. Friend of Lactanzio. Wrote a book on Providence.
Grice ed Asclepiade – Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza
(Roma). Filosofo italiano. He developed a new approach to medicine by
introducing ideas on atomism.
Grice ed Assiopisto – Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza
(Locri). Filosofo italiano. Epicarmo.
Grice ed Assunto – i nazareni – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Caltanissetta). Filosofo italiano. Grice: “I like Assunto; of
course in Italy they take aesthetics seriously; my wife would say that they
ONLY take aesthetics seriously! And I would correct her, ‘You mean that they
take only aesthetics seriously,’ and she would re-correct me, ‘Whatever,
dear.’” – “Anyhow, Assunto is best known in Italy as a historian, but he fails
to see that when at Clifton we speak of the classics we mean the timeless – my
timeless meaning was meant as a Cliftonianism! So Assunto is lacking background
when he equates classicism, or worse, neo-classicism of the Canova type popular
in London, as dealing with ‘l’antichita’ – that would have offend Canova: his
statues were meant to represent Platonic timeless ideas or ideals!” Grice:
“Gilbert and Leighton are very explicit about this in ‘The Artist’s Model’!” “Then
Assunto thinks he can play with a fictiotious dichotomy between ‘l’antico’ and
‘il non-antico.’” Grice: “I treasure Millais’s slogan that at the Royal
Academy, he had to do only TWO things: draw naked men ‘from nature’ – or draw
naked men ‘dall’antico’!” – Grice: “As Millais suddently realised: ‘We found
out that there were no English types that would represent the ‘antico’, or
timeless ideal, so we had to deal with Italian models!” -- L'uomo che contempla
il giardino vivendo il giardino [...] solleva se stesso al di sopra della
propria caducità di mero vivente.» -- Ontologia e teleologia del giardino).
Ha compiuto i suoi studi secondari presso il Liceo Classico di Caltanissetta
nella sua città natale. Laureato in Giurisprudenza è stato avviato alla
filosofia da Pantaleo Carabellese professore di filosofia teoretica presso
l'Roma. È stato docente di Estetica a Urbino dal 1956 e titolare dal 1981
della cattedra di Storia della filosofia italiana presso la Facoltà di
Magistero a Roma. «Il suo insegnamento è anticonformista, fortemente
intriso di contraddittorio. Ma forse proprio per questo motivo, quando arriva
il Sessantotto, il filosofo sceglie la via della controrivolta: quella che
passa attraverso l'élite. Rifiuta di adeguarsi al voto politico, si oppone ai
collettivi e agli insegnamenti assembleari. I suoi allievi non si oppongono al
suo rifiuto, anzi con questo comportamento Assunto riesce ad attirarsi la stima
di molti esponenti del Movimento studentesco. Talmente rivoluzionario da
divenire reazionario, Rosario Assunto dagli anni Settanta in poi avrà un
atteggiamento sempre più schivo...» Un isolamento, il suo, iniziato col
Sessantotto, ma poi sempre più accentuato; infine, si chiuse nei suoi studi e
nelle sue speculazioni dopo la morte della moglie, la storica dell'arte Wanda
Gaeta, molto amata («Sono la fotocopia di lei, che è stata uccisa dal mio
stesso male»). A Roma fu molto amico di Giulio Carlo Argan pur
contrastando le sue idee politiche. Pensiero Rosario Assunto, interessato
ai temi estetici della filosofia da un punto di vista storico e teoretico li ha
trattati non solo come tipici della filosofia dell'arte e del bello ma
considerandoli coincidenti con la filosofia stessa giudicata come pura
estetica. Egli si rifà a Baumgarten, Cartesio, Leibniz, Kant esaminati
soprattutto per la loro concezione dell'uomo e del suo rapporto con la natura.
Una visione tradizionalista della filosofia, proprio nel momento in cui
l'estetica si rivolgeva alla semiotica, che isolò Assunto soprattutto in
Italia, mentre in Germania veniva tradotto e apprezzato. Assunto ha
rappresentato una delle voci più significative all'interno del dibattito
filosofico estetico del Novecento. Vivamente interessato all'estetica dei
giardini anticipa largamente nelle sue opere alcuni rilevanti concetti per la
riflessione più recente, come per esempio quello di "estetica del paesaggio",
che hanno ispirato i temi ambientalisti sulla tutela e conservazione del
paesaggio, naturale o elaborato dall'uomo, che egli definisce «Spazio limitato,
ma aperto; presenza, e non rappresentazione, dell'infinito nel finito». Altre
opere: "Civiltà fascista"; “Il teatro nell'estetica di Platone, in
"Rivista italiana del teatro"; Curatela di Heinrich von Kleist,
Michele Kohlhaas, Torino, Einaudi); “Essere e valore nella filosofia di C. A.
Sacheli, in "Rivista di storia della filosofia"; “L'educazione estetica,
Milano, Viola); “Educazione pubblica e privata, Milano, Viola); “La pedagogia
greca, Milano, Viola); “Forma e destino, Milano, Edizioni di comunità); “L'integrazione
estetica. Studi e ricerche, Milano, Edizioni di comunità); “Teoremi e problemi
di estetica contemporanea. Con una premessa kantiana, Milano, Feltrinelli); “La
critica d'arte nel pensiero medioevale, Milano, Il saggiatore); “Estetica
dell'identità. Lettura della Filosofia dell'arte di Schelling, Urbino, STEU); “Giudizio
estetico, critica e censura. Meditazioni e indagini, Firenze, La nuova Italia);
“Stagioni e ragioni nell'estetica del Settecento, Milano, Mursia); “L'automobile
di Mallarmé e altri ragionamenti intorno alla vocazione odierna delle arti,
Roma, Ateneo); “L'estetica di Immanuel Kant, una antologia dagli scritti a cura
di, Torino, Loescher); “Hegel nostro contemporaneo” (Roma, Unione italiana per
il progresso della cultura); “Il paesaggio e l'estetica I, Natura e storia,
Napoli, Giannini); Arte, critica e filosofia, Napoli, Giannini); “L'antichità
come futuro. Studio sull'estetica del neoclassicismo europeo, Milano, Mursia);
“Ipotesi e postille sull'estetica medioevale. Con alcuni rilievi su Alighieri teorizzatore
della poesia, Milano, Marzorati); “Libertà e fondazione estetica. Quattro studi
filosofici, Roma, Bulzoni); “Intervengono i personaggi (col permesso degli
autori), Napoli, Società editrice napoletana); “Specchio vivente del mondo.
Artisti in Roma” (Roma, De Luca); “Hohenegger. Esploratore del possibile”
(Roma, De Luca); “Infinita contemplazione. Gusto e filosofia dell'Europa
barocca, Napoli, Società editrice napoletana); “Filosofia del giardino e
filosofia nel giardino. Saggi di teoria e storia dell'estetica, Roma, Bulzoni);
“La città di Anfione e la città di Prometeo. Idea e poetiche della città,
Milano, Jaca); “La parola anteriore come parola ulteriore, Bologna, il Mulino);
“1. Il parterre e i ghiacciai. Tre saggi di estetica sul paesaggio del Settecento,
Palermo, Novecento); “Verità e bellezza nelle estetiche e nelle poetiche
dell'Italia neoclassica e primoromantica, Roma, Quasar); “Ontologia e
teleologia del giardino, Milano, Guerini); “Leopardi e la nuova Atlantide,
Napoli, Istituto Suor Orsola Benincasa-Edizioni scientifiche italiane); La
natura, le arti, la storia. Esercizi di estetica, Milano, Guerini studio); “Giardini
e rimpatrio. Un itinerario ricco di fascino attraverso le ville di Roma, in
compagnia di Winckelmann, di Stendhal, dei Nazareni, di D'Annunzio, Roma,
Newton Compton); “La bellezza come assoluto, l'assoluto come bellezza. Tre
conversazioni a due o più voci, Palermo, Novecento); Il sentimento e il tempo,
antologia Giuseppe Brescia, Andria, Grafiche Guglielmi, 1997. Note Rosario Assunto, Ontologia e teleologia del
giardino, Guerini e Associati, 1994,
978-88-7802-513-4. Enciclopedia
multimediale delle scienze filosofiche, su emsf.rai. 24 agosto 26 agosto ).
Paola Nicita, Assunto scandaloso esteta, La Repubblica, 13 maggio
2006 Cutinelli-Rendina, Emanuele, Il
Sessantotto di Rosario Assunto, Ventunesimo secolo: rivista di studi sulle
transizioni: 22, 2,, Soveria Mannelli: Rubbettino,. Op. cit. ibidem Assunto scrisse contro il progetto politico
della realizzazione del ponte di Messina
Antonio Debenedetti, Rosario Assunto, filosofo delle forme, Corriere
della Sera, 25 gennaio 1994, p.27 Claude
Raffestin, Dalla nostalgia del territorio al desiderio di paesaggio. Elementi
per una teoria del paesaggio, Alinea Editrice, 2005 p.90 Marisa Sedita Migliore, Il giardino: mito
estetico di Rosario Assunto, Società Dante Alighieri, 2000. Teresa Calvano,
Viaggio nel pittoresco: il giardino inglese tra arte e natura, Donzelli
Editore, 1º gennaio 1996, 139–, 978-88-7989-218-6. Claudia Cassatella, Enrica
Dall'Ara e Maristella Storti, L'opportunità dell'innovazione, Firenze
University Press, 2007, 191–, 978-88-8453-564-1. Francesca Marzotto
Caotorta, All'ombra delle farfalle. Il giardino e le sue storie, Edizioni
Mondadori,, 207–, 978-88-04-61114-1. Domenico Luciani, Luoghi,
forma e vita di giardini e di paesaggi: Premio internazionale Carlo Scarpa per
il giardino, 1990-1999, Fondazione Benetton Studi Ricerche, 2001. Pier Fausto
Bagatti Valsecchi e Andreas Kipar, Il giardino paesaggistico tra Settecento e
Ottocento in Italia e in Germania: Villa Vigoni e l'opera di Giuseppe
Balzaretto, Guerini, 1º gennaio 1996,
978-88-7802-665-0. Emanuele Cutinelli-Rendina, Il Sessantotto di Rosario
Assunto (con un carteggio inedito), in «Ventunesimo secolo», VI (2009), 45-57. Altri progetti Collabora a Wikiquote Citazionio
su Rosario Assunto Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene
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Assunto, su Goodreads. Filosofia Filosofo Professore1915 1994 28 marzo 24
gennaio Caltanissetta Roma. Rosario Assunto. Keywords: i nazareni, massimo, sala dante,
koch, civilta, civilta fascista, theorie des schoenen; D’Annunzio, i Nazareni,
I nazareni, pittori germani a Roma, Casino del marchese Carlo Massimo,
Aligheri, Tasso, Ariosto. D’Annunzio, la preservazione dei Giardini antichi,
villa, giardino di villa, giardino di palazzo, estetica del giardino, il
giardino e il uomo, giardineria, filosofia del giardino, il giardino di Epicuro
a Roma. Horto di Epicuro – il giardino d’Epicuro (non di Epicuro). Hortus, orto
romano, i Scipione e la filosofia a Roma dopo Carneade – filosofia al giardino
– filosofia nell’orto – orto italiano, giardino italiano, orto romano,
simmetria, “teatro, cinematografo, radio” “sono tre simboli ideali” – “Civilta”
– “estetica del teatro in Platone” assunto — annunzio — i nazareni a roma
— il giardino d’epicuro — “teatro, cinematografo, radio” — teatro nell’estetica
platonica — schelling — il bello — intro alla fondazione della metafisica dei
costumi — natura ed arte — roma città — giovanni gentile — -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Assunto” –
The Swimming-Pool Library.
Grice ed Asteas – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. Pytthagorean
according to Giamblico di Calcide (“Vita di Pitagora”).
Grice ed Astilo – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza
(Metaponto). Filosofo
italiano. Pythagorean according to Giamblico di Calcide (“Vita di Pitagora”.
Grice ed Astone – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza
(Crotone). Filosofo
italiano. Aston was a Pythagorean. According to Diogene Laerzio, there was a
view that Aston was the true author of some works attributed to Pythagoras.
Grice ed Astorini – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Albidona).
Filosofo Italiano. Grice: “I like Astorini, but more so does Sir Peter, vide
his section on ‘Space’ in “Individuals: an essay in descriptive metaphysics”:
‘Surely we wouldn’t have space as we know it if it were not for Astorini.” La
vivacità del suo ingegno, e il desiderio di apprendere cose nuove, lo induce a
spogliarsi de' pregiudizi del secolo, e a studiare attentamente i filosofi,
conosciuta la forza delle loro ragioni, ardì dichiararsi nemico del Peripato;
al che avendo congiunto lo studio delle lingue ebraica e siriaca, ei cadde
presso alcuni in sospetto di novatore, e per poco non si attribuì ad arte
magica ciò che era frutto del raro suo ingegno e del suo instancabile studio.”
Alcuni considerano i paesi di Cirò o di Cerenzia la sua patria. Si ritieneno
deboli gli argomenti esposti da un ingegnoso filosofo di Cirò il quale volle onorare la sua patria della
sua nascita. Molti filosofi presero a difendere l'autorità del romano pontefice
e a sostenere la chiesa romana contro i nimici della medesima. Uno solo,
Astorini, ne accennerò per amore di brevità, con tanto maggior vigore si
accinse a difenderla, quanto più avea per sua sventura potuto comprendere la
debolezza dell'armi con cui essa era oppugnata. Vari luoghi della Calabria
Citeriore han preteso all'onore di aver dato i natali a questo insigne filosofo,
ma noi crediamo rimuovere ogni dubbio intorno al luogo di lui natìo, seguendo
in questo punto l'opinione di Zavarrone, il quale afferma esser egli nato nella
Città di Cirò, detta anticamente Cremissa, luogo non ignobile del Paese de'
Bruzi, dove questa famiglia vive ancor oggi onorevolmente. «Molti scrittori di
materie ecclesiastiche rilussero in questo secolo, e fra i più celebri si
annoverano: primo, Astorini. Studia con il padre Diego, medico in loco, la
grammatica, la retorica e la lingua greca. Si trasferì a Cosenza per completare
gli studi e poi a Napoli per apprendere gli studi di filosofia, e di teologia a
Roma, dove fu insignito dalla corte papale del compito di scrivere alcuni
annali. In questo periodo pubblica “De vitali aeconomia foetus in utero”.
Pubblicò alcuni saggi di matematica e geometria, come gli “Elementa Euclidis ad
usum...nova methodo et compendiare olim demonstrate” e un “Decamerone
pitagorico”. Dopo alcuni anni lascia l'Italia per raggiungere la Svizzera e la
Germania, ma in quei territori, come la città di Groninga, riscontra una
notevole influenza religiosa protestante e poiché il conversar co' i filosofi
protestanti gli fece conoscere chiaramente che fuor dalla chiesa di Roma non
v'e unità di fede, decise di tornare in patria -- Terranova, feudo del paese di
Tarsia. Note Giacinto Gimma, Elogi
Accademici Della Società Degli Spensierati Di Rossano, Troise, 1703. 7 dicembre. Si tratta di Francesco Zavarrone (Montalto
Uffugo, 1672Roma, 1740), religioso dell'ordine dei Minimi e teologo al servizio
di illustri politici, come Augusto III re di Polonia e pontefici. Fu lettore
del collegio urbano Propaganda Fide e consultore del Tribunale dell'Inquisizione. Girolamo Tiraboschi, Storia della letteratura
italiana, Tomo VIII, Parte I, Libro III, par. V ("Notizie e opere delElia
Astorini"), Firenze: Molini, Landi e C.o,
110-11, 1812 (Google libri) Pietro Napoli-Signorelli, Vicende della
Coltura nelle Due Sicilie o sia storia ragionata, 1784 9781145973954 Niccolò Morelli di Gregorio,
Pasquale Panvini (Domenico Martuscelli), Biografia degli uomini illustri del
Regno di Napoli, ornata de loro rispettivi ritratti, N. Gervasi. Falcone,
Biblioteca storica topografica delle Calabrie (seconda edizione), 1846 9781104076337
Elia Astorini, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Opere di
Elia Astorini, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Filosofi italiani del XVII secoloMatematici
italiani Professore1651 1702 5 gennaio 4 apriled Albidona Terranova da
SibariCarmelitani. Altre opere: "De Vitali Oeconomia foetus in utero"
(Groninch); "Elementa Euclidis ad usum novæ Academiæ Nobilium Senensum,
nova methodo, & compendiariè demonstrata" (Stampat. in Sienna e di
nuovo Neap., apud Felicem Mosca in 8); "Prodromus Apologeticus";
"De Potestate Sanctæ Sedis Apoftolicæ"; "De Vera Ecclesia Jesu
Christi, contrà Lutheranos,& Calvinianos, libri tres" (Neap.
apud de Bonis, in 4); "Apollonij Pergæi Conica, integritati suæ, ordini,
atque nitoripri stino restituta" (Neap. in 4); "De Recto Regimine
Catholicæ Hierarchiæ"; "Ars Magna Pythagorica";
"Philosophia Symbolica"; "Archimedes restitutus"; "Decameron
Pitagorico"; "Il consenso, e dissenso delle tre Gramatiche Ebraica,
Arabica, e Siriaca; e'l modo facilissimo per apprenderle ciascheduno da se
stesso in breve tempo"; "Commentaria ad Scientiam Galilæi de Triplici
Motu". La movimentata vicenda biografica di Astorini aonda le radici
in una formazione cosmopolita e interdisciplinare, iniziata in Calabria sotto
la guida del padre e proseguita accanto allo zio Tommaso Cornelio, esponente
del fronte de inovatores nella Napoli di metà secolo. Fu per lui naturale
ripudiare la filosofia scolastica e aderire alle teorie dei moderni, da Galilei
a Cartesio, Hobbes e Gassendi, teorie che diuse a Cosenza e tra i filosofi
nobili in varie località del viceregno e che gli recarono grande notorietà. Al
termine di un lungo viaggio in Svizzera, Germania e Paesi Bassi durante il
quale si fece apprezzare per le non comuni capacità didattiche,visse alcuni
anni tra Firenze e Siena, dove frequenta i principali esponenti della cultura
umanistica e scientifica toscana, da Magliabechi a Redi e Viviani. Ritornato
nel viceregno per dedicarsi alla pubblicazione di numerose opere, si pone sotto
la protezione di D. Carlo Francesco Spinelli Principe di Tarsia, ed anche
d'Orsini, avvezzi amendue a favoreggiar letterati. Per l’ampiezza dei temi
arontati, sua "Philosophia Symbolica puo giovarsi del ricco patrimonio
librario custodito nella biblioteca di Spinelli. Il testo e diviso in dialoghi
nei quali sono illustrati tutti gli antichi sistemi filosofici, colle
dimostrazioni matematiche e colle osservazioni fatte in varie accademie, ed erudizioni
prese da' filosofi latini." Sebbene varii luoghi della Calabria‘si
contendano la patria dello Astorino, pure l’opinione più comune de’ suoi
biografie, che egli sia nato a Cirò e fu nel battesimo nomato Tommaso Antonio.
Fu gli padre un Diego Astorino professore di medicina reputatissimo in
Albidona, ove da questi il figliuolo apprese la grammatica, la lingua greca e
la rettorica. Studia quindi in Napoli e Roma la filosofia aristotelica, in che
acquista tale riputazione, che gli venne permesso di scrivere a fronte delle
sue conclusioni il motto: de/‘elndet ipse solus. Morto il genitore ripatrio per
assestare i suoi dome stici affari, e iotè frai libri e fra le conversazioni
dei suoi concittadini, dopo non lievi meditazioni, darsi tutto alle dottrine filosofiche
del Telesio, ed alla libera maniera di ragionare. Era cosi istrutto nelle
lingue greca, latina, ebraica, siriaca ed araba, che ne compose le relative
grammatiche. E si disse,secondo l’andazzo de’tempi, e fu accusato lotto per
magia; ma ei pote discolparsi dalla bassa calunnia, e percorrere per ben tre
volte l’ltalia, ovunque acquistandosi e fama ed amicizia. Nominato a reggente
di filosofia a Cosenza, fu da qui il propagatore della moderna filosofia per le
calabrie; come lo fu altresi della città di Penne per gli Abruzzi. Invitato in
Roma, vero o supposto che vi sfinfermasse, egli invece dimoro per qualche tempo
in Albano. Ritenuto a Bari da alcuni nobili filosofi, che lo vollero a maestro,
ebbe a cominciare in quella Chiesa di S. Nicolo il suo annuale di prediche; ma
le convinzioni libere che egli spacciava, gli mossero fiera persecuzione.
Sicclie passò in Zurigo, ed indi in Basilea, ove non dimore che un solo aniie.
Pescia recessi nel Palatinato, donde si trasferì nell’Assia, dove fu costituito
Maggiore ossia Vice Prefetto dell'Universita di Marburgo con la facoltà d’
insegnar filosofia, dacche non essendo dottorato non avrebbe potuto insegnarla.
In stabile sempre si condusse dappoi in Groninga, e da quella Repubblica ebbe
l'incarico di insegnar filosofia e quivi a spese del Senato fu dottorato, nel
quale anno pubblico il suo saggio, "De vitali oeeonomia foetus in
utero", in cui sostenne la opinione, non per ance in quell’era divulgate,
della generazione dell'uome. Scorgendo intanto, che iteo legi della Chiesa
riformata. fra le mille contese religiose si laceravano, penso ritornarsene
fra’cattolici in ltalia; e d’Amburgo chieseil condono d’ogni apostasia; il che
ottenuto dal S. Uffizio, recatosi presso il Vescovo di lilunster‘ fece solenne
abiura, e si porto in Roma, onorevolmente accolto, ed inviato in Pisa come
predicatore generale. Dopo un anno da Pisa si tradusse in Firenze, ove si
acquista il favore del Granduca, e si concilio l’amistà fraternevele del Redi,
del Viviani, del Marchetti e d’altri molti filosofi. In Siena, dove recessi
come professore di filosofia, coopera efficacemente alla istituzione dei
Fisio-Eritici, e ne fu eletto Principe e Censore perpetuo. Qui pubblica nel
medesimo anno: Eiementft Euclidis nova methodo demostraiei. Ritornato in Roma
fu inviato a Cosenza col grado di maestro in filosofia, e di prefetto degli
studii. Ma riaccesigliodiisempre a cagien de’ suoi meriti, si ritira in
Cervinara nel Principato Ulteriore; e da la spesso recandosi in Napoli ebbe a
cenciliarsi la stima di Carlo Spinelli principe di Tarsia, il quale per
Paifetto che portava all'Astorino (e per rimuoverlo dalla tristezza in che era
caduto per la morte di Francesco Mainerio Astorino) lo indusse a recarsi in
Terranova, deputandolo custode della sua scelta biblioteca. Fu questa l'ultima
residenza, perocchè vi mori. Sono del pari sue opere stampate: Apollonii Pergei
conica integritati suae ac nitori restituta" (Nap.); "De potestate S.
Sedis apos-tolicae, Siena); "De‘nera Ecclesia Christi disciplina, libri
tre Nap.). Fra i molti altri saggi che lascia si commendano: "Philosophia
symbolica iuxta propria principia, in dialoghi"; "Ars magna
Pythagorica," una specie di enciclopedia scientifico-universale;
"Decamerone Pitagorico", in verso, diviso in dieci giornate, e
contenente tutta la filosofia naturale pitagorica in forma di satire in verso
sciolto bernesco; "Commentario, ad scientiam Galilaei de tripliei
motu"; "Archimedes restitutus"; "De reato reyimine Catholi
caelticr archiae; "De vita Christi"; Apologiapro fitte catltolica,
che divisava di dedicare a Filippo di Spagna. Parlano con somma lode di questo
dotto filosofo il Cimma, il Zavarroni, l’Amato, l'Aceti, il Mazzucchelli,
l’(lriglia, il liraboschi, il d’ Alllitto, il Signo relli, i Dizionarii
storici, e per tacer‘ di tanti altri,. il Cantù. ASTORINI, Elia. - Nacque il 3
genn. 1651; è incerto se a Cirò, feudo degli Spinelli principi di Tarsia che lo
protessero nelle ultime fortunose vicende della sua vita (Zavarroni), o ad
Umbriatico oppure ad Albidona (Gimma), dove il padre Diego esercitò la
professione di medico e dove sicuramente egli trascorse gli anni
dell'adolescenza. Sedicenne, nel 1667, entrò fra i carmelitani dell'antica
osservanza, mutando il nome di Tommaso Antonio in quello di Elia. Completò gli
studi di filosofia aristotelica a Napoli nel convento dei Carmine Maggiore
(dove appartenne all'Accademia degli Incauti) e a Roma quelli di teologia. La
morte del padre lo richiamò in Calabria, nell'ambiente familiare. Stando
ai suoi biografi, in questi anni (1670-75) si colloca la sua prima crisi
spirituale che investe il campo delle dottrine filosofiche acquisite: un
radicale atteggiamento antiperipatetico lo avrebbe indotto a formarsi un
sistema eclettico platonico-pitagorico e meccanicistico-materialistico,
quest'ultimo ispirato dalla lettura delle opere di Galilei, Gassendi, Cartesio,
Mersenne, Hobbes. Più prechaniente. possiamo dire, sulla base degli elementi
desumibili da taluni suoi scritti, che egli riprese il pensiero dei suoi
conterranei, del famoso "notomista" Marco Aurelio Severino, erede
delle speculazioni campanelliane e delle teorie fisiognomiche del Della Porta;
di Carlo Musitano, che aveva accolto le posizioni dei "moderni" come
elaborate dalla napoletana Accademia degli Investiganti; e soprattutto di
Tommaso Comelio, del quale l'A. amò più tardi dichiararsi nipote (cfr. Giornale
de, Letterati del 1692..., p. 119). La crisi non gli impedì tuttavia di
raggiungere il sacerdozio nel 1675 e di divenire, nel 1680, reggente degli
studi e lettore di filosofia e teologia nel convento dei suo Ordine a Cosenza.
Ma i confratelli, nella congregazìone della provincia di Calabria, il 26 aprile
dell'anno successivo, gli si ribellarono apertamente chiedendo al generale la
sua sostituzione. Rivalità locali, come il contrasto tra l'A. e il provinciale
P. T. Puglisi, adombrano l'inquietudine intellettuale del giovane religioso e
le resistenze di metodi tradizionali di studio. Sospeso dall'insegnamento,
penitenziato nel carcere della curia arcivescovile di Cosenza durante il 1682,
l'A. è infine inviato a Roma per un giudìzio definitivo da parte deì superiori
dell'Ordine. Dopo un breve ciclo di predicazìone si ritira ad Albano: non si sa
se per punizione inflittagli o per motivi di salute. Ha comunque ìnizio adesso
il momento più ambiguo e per taluni aspetti più oscuro della sua vita.
Nel 1683 passa a Bari, dove stringe amicizia con G. Tremigliozzi, seguace del
gassendista Sebastiano Bartoli e del Cornelio e fondatore in quello stesso anno
dell'Accademia dei Coraggiosi, bandìtrice delle nuove dottrine antigaleniche
nel settore delle scienze mediche. Partecipò alle polemiche del Tremigliozzi in
difesa del Musitano e compose un "epitafio" sulla "materia
prima" per quella Nuova Staffetta del Parnaso circa gli affari della
medicina...dirizzata all'illustrissima Accademia degli Spensierati di Rossano,
Francoforte 1700, che ad opera del Tremigliozzi costituì una convinta difesa
del metodo sperimentale degli Investiganti contro la metodologia cartesiana. A
Bari conobbe il Gimna, che sarà il suo più diffuso biografo, al quale avrebbe
mostrato vari suoi lavori manoscritti (tra essi un'Ars magna trigonometrica di
cui si dirà più avanti). Predicò a S. Nicola e visse nel convento carmelitano
barese dal quale poco tempo prima era fuggito, apostata in Svizzera, il priore
Angelo Rocco. Se dietro esempio del Rocco o per raggiunta maturazione della sua
crisi, è certo comunque che di lì a poco l'A., rotto ogni indugio, depose
l'abito religioso e riparò anch'egli oltr'Alpe. Da Zurigo raggiunge
Basilea, dove nell'ottobre del 1684 presenzia a esperimenti. di medicina di J.
J. Harder (Apiarium observationibus medicis... refertum,Basileae 1687, pp. 28,
47, 110) e dove rimane circa un anno seguendo anche i corsi di teologia di J.
R. Wettstein (non si sa se il padre, morto nel 1684, o il figlio succedutogli
nello stesso anno sulla cattedra). Sostò nel Palatinato presso il principe
elettore Carlo fino alla morte di lui (26 maggio 1685), per trasferirsì poi,
nel suo peregrinare da università ad università, a quella di Marburgo dove
divìene viceprefetto con facoltà di insegnare filosofia pur non essendo
addottorato (stando al Gimma, ma la notizia non trova conferma nel Catalogus
professorum Academiae Marburgensis 1527-1910, a cura di F. Gundlach, Marburg
1927). A Marburgo prosegue con fervore gli intrapresi studi di medicina
ascoltando le lezioni del rettore J. J. Waldschmiedt. Nel 1686, dopo un breve
soggiorno a Brema, è a Groninga: insegna matematica nel collegio dei nobili
cadetti francesi e si laurea in medicina, il 1° novembre, con la dissertazione
De vitali oeconomia foetus in utero,Groningae 1686 (pubblicata sotto il nome di
Tommaso Antonio), che pare sottendere nello studio del problema della
fecondazione, oggetto allora di discussione tra "ovisti" e
"animalculisti", le preoccupazioni speculative dell'autore, volte
sulla scia del Severino e più del Bartoli alla ricerca del
"principio" vitale e formativo dell'embrione. Durante il
soggiorno in Olanda, tra il 1686-88, si ha notizia vaga di una sua
partecipazione alle polemiche religiose nell'ambito del calvinismo: la difesa
che egli assume del cattolicesimo preannunzia un suo più meditato ritorno
all'antica fede. Attaccato pubblicamente dai ministri calvinisti, si rifugia ad
Amburgo. Qui una sua lettera al S. Uffizio, con la richiesta di poter ritornare
in Italia, gli procura una benigna risposta da parte del cardinale Lorenzo
Brancati di Lauria e un salvacondotto. Assolto dal vescovo di Münster il 13
dic. 1688, è a Roma il 13 marzo dell'anno successivo. Riammesso
nell'Ordine, predicò a Pìsa e, nel 1690, la quaresima a Firenze. Conobbe allora
A. Marchetti, cui dovette unirlo l'interesse per la filosofia
"corpuscolare" e che lo presentò al Magliabechi, il Redi, cui lo legò
la comune curiosità per il problema della generazione, e il Viviani. là questo,
tra il 1691-94, il periodo culturamente più felice dell'Astorii. Nel
1691, per interessamento del principe Gian Gastone de, Medici, ottiene la
cattedra di matematica nella Nuova Accademia dei nobili senesi: per
l'insegnamento prepara un'edizione degli Elementa Euclidis ad usum Novae
Academiae Nobilium Senensium nova methodo et succincta demonstrata..., Senis
1691,dedicata al principe protettore. Ma la prefazione è indirizzata al Redi, e
in essa l'A. chiarisce il proprio metodo ("... etiam proportiones ipsas,
quarum nimis longa est series, redigerem. ad acquationes, more
Analystarum", p. X) ed esalta la matematica in funzione dello sviluppo
delle scienze naturali, concludendo con un elogio della scuola scientifica
toscana, dal Galilei al Redi al Torricelli al Viviani al Marchetti al Bellini
al Malpighi. Il Redi lo ringraziò (v. lettera del 18 sett. 1691, edita in
Gimma, p. 413), promettendo di intervenire nuovamente presso Gian Gastone: il
che dovette procurare all'A. la cattedra straordinaria di filosofia naturale
nell'università di Siena, che resse dal 5 nov. 1692 al 3 apr. 1694.
Intanto, nel 1691, l'A., con Pirro Maria Gabrielli e Teofilo Grifoni, è tra i
fondatori dell'Accademia dei Fisiocritici e ne diviene "principe
perpetuo" (v. lettera del Redi al Gabrielli del 6 ott. 1691, in Redi,
Opere,VIII, p. 56).Dalle lettere che l'A. indirizzò m questo tomo di tempo al
Maghabechi desumiamo molte preziose notizie circa i rapporti tra cultura
filosofica e scientifica meridionale e tradizione sperimentale toscana,
rinnovando l'A. quell'incontro che per la generazione -precedente era stato
compiuto a Pisa dalla scuola iatromeccanica,di G. A. Borelli. Il rapporto
ideale tra le due culture è anzi tanto stretto che l'A. teme per quella
toscana, le ripercussioni della lotta scoppiata a Napoli contro la filosofia
"moderna" (processo degli ateisti): "In Napoli vi sono di gran
rumori: mi scrivono che sia stata origine la dottrina di Tomaso Comelio e che
già la modernità va sossopra. Mi dispiace per diversi capi, benché io non
dubiti esservi framischiate delle calunnie degli emoli aristotelici e
galienisti, e molto più mi dispiace per essersi già qui in Siena eretta
un'Accademia fisicomedica tutta moderna e per esserne io stato eletto principe
perpetuo. L'abbiamo celebrata due volte con l'intervento di tutta la più dotta
nobiltà, ma adesso ci siamo raffredati non sapendo dove vadano a terminare le
faccende" (al Magliabechi, Siena, novembre 1691). Sotto la guida dell'A.
l'Accademia poté tuttavia continuare con tranquillità le riunioni "colla
metodo de' Progimnasmi [i Progymnasmata Physica] di Tomaso Comelio" (al
Magliabechi, Siena, 15 nov. 1691). L'A. sperò contemporaneamente di
raggiungere una sistemazione migliore: ambì (1691) al titolo di maestro di
teologia e sollecitò, tramite il Magliabechi, un intervento del Malpighi, per
il momento senza successo (divenne maestro il 13 marzo 1693);compose, mettendo
a frutto la sua diretta esperienza del mondo protestante, un Prodromus
apologeticus de Potestate sanctae Sedis Apostolicae, Senis 1693,dedicato al
cardinale Francesco Maria de' Medici (ristampato in J. T. Roccaberti,
Bibliotheca maxima pontificia, XI, Romae 1698),introduzione a una progettata
serie di dissertazioni controversistiche, che però non si distacca dalla
consueta letteratura dei tempo; dedica tuttavia il meglio della propria
attività ancora al settore scientifico, apprestando, tra l'altro, l'edizione
delle Coniche di Apollonio, con la quale per suggerimento del Redi e del
Viviani intese completare e sistemare l'edizione già apprestata dal Borelli con
l'aiuto di Abramo Echellense (Firenze 1661), e stendendo uno scritto di
meccanica (Commentaria ad scientiam Galilaei de triplici motu), rimasto
inedito. Ma ai primi del 1694 l'A. lascia quasi improvvisamente Siena per
le non buone condizioni economiche, dati gli scarsi proventi che gli venivano
dall'insegnamento, e per le sue precarie condizioni di salute. Il 29 maggio
1694 è a Roma; poi a Cosenza, quale prefetto degli studi e successivamente
commissario generale nel suo convento di un tempo. Si riaccendono le
persecuzioni a suo danno; le vicende sono ancora più oscure che per gli anni
1680-81, ma gli procurano la protezione del principe di Tarsia, F. Spinelli,
presso il quale, a Terranova, dimorò nel 1697, e quella del cardinale Vincenzo
Maria Orsini (poi Benedetto XIII), allora arcivescovo di Benevento. Il 12 genn.
1697 chiese il trasferimento dalla provincia di Calabria a quella di Terra di
Lavoro nel convento di Cervinara e, in un secondo momento, in quello di
Mongrassano. Nel giugno 1698 è però di nuovo prefetto degli studi a Cosenza; il
10 settembre priore del convento di Scala e come tale partecipa al capitolo
provinciale del maggio 1699. Eletto priore di Mongrassano, non partecipa al
capitolo dell'aprile 1701 per le peggiorate condizioni di salute e rinunzia
anche alla carica. Cura nel frattempo a Napoli la stampa dei De vera
Ecclesia Iesu Christi contra Lutheranos et Calvinianos libri tres (1700), degli
Apollonii Pergaei Conica (1698?, 1702?) e la ristampa degli Elementa Euclidis,
Neapoli 1701. Il nucleo ispiratore dei De vera Ecclesia... libri
tres,abbozzati in parte a Siena e dedicati al principe di Tarsia, ha un reale
interesse. L'A., come aveva accennato in una lettera al Magliabechi, appare
preoccupato di confutare la tesi protestante circa i fondamenti aristotelici
della dottrina cattolica e sostenere invece "la identificazione della
nuova linea culturale incentrata sull'umanesimo e sul neoplatonismo con il
cattolicesimo" (Badaloni). Sulla linea umanistica viene rivendicata anche
la continuità del movimento scientifico del '600italiano. Ma tali motivi
accennati nella prefazione sono sommersi, nell'opera, da un denso argomentare
tradizionale, in cui tuttavia èmessa a frutto dall'A. la conoscenza
dell'ebraico e delle lingue orientali. Nel chiuso ambiente conventuale,
dopo l'esperienza in terra tedesca e in Toscana (durante la quale però sembra
che l'A. sia stato spinto più dall'esigenza di contatti e di fresche osmosi
scientifiche che non da un meditato approfondimento culturale), accanto a un
crescente disagio che lo rende insofferente della disciplina dell'Ordine e lo
induce a frequenti viaggi a Napoli per sorvegliare la stampa delle sue opere,
riaffiorano nell'A. le preoccupazioni proprie di una formazione e di una
tradizione meno aperta e duttile: il pesante enciclopedismo e il gusto
mnemotecnico della giovinezza prendono nuovamente il sopravvento
sull'inteligenza sperimentale della natura, e l'A. dedica gli ultimi anni della
sua vita a studi linguistici, condotti con criteri analogico-combinatori, Il
consenso e dissenso delle tre Grammatiche ebraica, arabica e siriaca, e 'l modo
facilissimo per apprenderle ciascheduno da se stesso in breve tempo (inedito),
e ad elaborare o completare una Philosophia symbolica,sorta di enciclopedia
pitagorica di cui probabilmente facevano parte opere che dai biografi ci sono
indicate con titoli particolari: un'Ars magna pythagorica, un Decamerone
pitagorico (esposizione in rime bernesche della filosofia naturale), una Logica
pythagorica seu de natura et essentia rerum (lo stesso che l'Ars magna?).
Degli inediti è conosciuta soltanto l'Ars magna in duas divisa Dissertationes
Altera De origine rerum altera De ortu et progressu Scientiarum (ms. 336;copia
sec. XVIII, pp. 31 con 4 tavv., della Biblioteca Alessandrina di Roma). La
copia fu effettuata dall'erudito calabrese Zavarroni per la Raccolta d'opuscoli
scientifici e filologici diretta da Angelo Calogerà (cfr. acclusa allo stesso
ms. una lettera dello Zavarroni al Calogerà del 21 luglio 1739).Probabilmente
il carattere in apparenza bizzarro dello scritto dovette dissuadere gli editori
dal darlo alle stampe. Esso, almeno nella copia dello Zavarroni, pare
l'introduzione a una serie di Dissertationes e non va tout court identificato
con l'Ars magna di cui fa menzione il Gimma. Se il De origine rerum,cioè la
prima parte del manoscritto, può in qualche modo connettersi ai primi studi
dell'A., a escludere che il De ortu et progressu Scientiarum sia uno scritto
giovanile contribuiscono il cenno all'edizione postuma dei Progymnasmata del
Comelio (1688),il ricordo del Redi e del Viviani, la notizia degli studi
compiuti dall'A. sulla scienza galileiana del triplice moto, la notevole
conoscenza che l'A. dimostra degli studi di anatonúa, elementi tutti che
presuppongono appunto la sua esperienza culturale in Germania e in
Toscana. La prima parte dell'opera, che vuole essere una guida "ad
metam naturalis sapientiae", contiene una critica agli schemi mnemotecnici
del Lullo e del Kircher e si svolge nell'elencazione di triadi
platonico-pitagoriche, alla cui base v'è il presupposto gnoseologico della
possibilità di conseguire verità assolute attraverso l'ordine naturale delle
idee (poiché nella natura creata v'è una "triplex virtus",
"intellectiva, volitiva et effectrix", ad essa corrisponde una
"triplex operatio", "interectio, volitio et impetus"'
ecc.). Tale schema conduce ovviamente alla critica decisa della definitio
logica aristotelico-scolastica che non attingerebbe alla "quidditas
rei" come la definitio methaphysica,vagheggiata dall'autore. La
seconda parte è in sostanza una ripartizione delle scienze ancora su base
platonico-pitagorica. Da "Sophia" è esclusa la logica, di cui sì
ribadisce il carattere meramente discorsivo; ma a "Sophia"
appartengono la metafisica (notevoli i cenni platonizzanti circa il rapporto
microcosmo-macrocosmo); la fisica, per la quale l'A. si dilunga nella critica
all'aristotelismo e al cartesianesimo e nell'esaltazione della filosofia
atomistico-gassendiana e dello sperimentalismo galileiano, pur richiamandosi
insieme nettamente alla tradizione filosofica meridionale da Bernardino Telesio
a Tommaso Cornelio; la politica, per la quale egli esalta l'insegnamento di
Platone; l'etica, per cui continuo è il richiamo al pensiero di Hobbes,
ecc. A questo impasto di vecchio e di nuovo, che contrappunta un momento
della cultura meridionale e riflette il travaglio di un pensiero l'A. dedicò
dunque lo scorcio estremo dei suoi anni, divisi tra la meditazione filosofica e
la occupazione di biblìotecario presso il principe Spinelli, a Terranova di
Sibari, dove morì il 4 apr. 1702. Fonti e Bibl.: Firenze, Bibl.
Naz. Centrale, Magl. CI. VIII,171, Elia Astorini lettere ad Ant.Magliabechi da
25 sett. 1691 a 29 maggio 1694...; Giornale de' Letterati del 1692 e primo di
Modena, pp. 118-119; Giornale...dell'anno 1693, pp. 244-246; F. Redi,
Opere,VIII,Milano 1811, p. 56; G. Gimma, Elogi accademici della società degli
Spensierati di Rossano,I,Napoli 1703, pp. 387-413; A. Zavarroni, Bibliotheca
calabra, Neapoli 1753, pp. 172-174; G. M. Mazzuchelli, Gli Scrittori
d'Italia,I,2, Brescia 1753, pp. 1194-1196 (riprende dal Gimma); N. Di
Cagno-Politi, E. A. filosofo e matematico del sec. XVII,Appunti, 2 ediz., Roma
1890; G. Maugain, Etude sur l'évolution intellectuelle de l'Italie de 1657 à
1750 environ,Paris 1909, pp. 133 s.; A. Grammatico, E. A., O. Carm., insignis
disceptator saec. XVII, in Analecta Ord.Carm.,VI(1927-29), pp. 493-515; N. Badaloni
Introduzione a G.B. Vico, Milano 1961, p. 225. Elia Astorino. Elia Astorini.
Tommaso Antonio Astorini. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Astorini”
– The Swimming-Pool Library.
Grice ed Ateiniano – Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Nizza). Filosofo
italiano. Marco Ateiniano. Filosofo.
Grice ed Atenodoro – Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza. Filosofo
italiano. Maestro d’Ottaviano. Atenodoro Cananita. Atenodoro di Tarso Atenodoro
di Tarso, o Atenodoro Cananita o Atenodoro Calvo (Cana), è uno filosofo italiano. Nacque a Cana presso
Tarso da un uomo di nome Sandone. Studente di Posidonio di Rodi e maestro
dell'imperatore romano Ottaviano Augusto a Apollonia e, in seguito, di diversi
esponenti della famiglia imperiale. Pare che segue Ottaviano a Roma. Ottaviano,
proprio per i natali dati a maestro di filosofia, allevia la tassazione della
città di Tarso. In seguito fa ritorno a Tarso dove aiuta ad eliminare il
governo di Boeto e abbozza una nuova costituzione che da vita ad un'oligarchia
pro-romana. Dopo la sua morte in suo onore fu tenuto un festival ed un
sacrificio annuale a Tarso. Plinio il giovane racconta un episodio secondo il
quale Atenodoro prende in affitto una casa a basso prezzo poiché era infestata
da un fantasma. Mentre scrive di filosofia a tarda notte, un fantasma
incatenato gli apparve e lo invita a seguirlo fino in cortile ove spare. Il
giorno successivo, con il permesso dei magistrati della città, Atenodoro fa
scavare nel punto in cui il fantasma e scomparso e trova uno scheletro
incatenato. Dopo che allo scheletro venne data una degna sepoltura il fantasma
non infesta più la casa. Gli vengono attribuite le seguenti opera: un'opera
contro le Categorie aristoteliche (sebbene venga talvolta attribuita a
Atenodoro Cordilione), una storia di Tarso, un'opera di qualche tipo dedicata a
Ottaviano, un'opera intitolata περί σπουδη̃ς και παιδείας ("Sul fervore e
la giovinezza"), un'opera intitolata περίπατοι. Nessuna di queste opere ci
è pervenuta. Aiuta anche Cicerone nella scrittura del “De Officiis” ed è
stato suggerito che la filosofia di Atonodoro possano aver influenzato Seneca e
Paolo di Tarso. Note ^ Plutarco: Vita di Publicola 17; Strabone,
Geografia, XIV, 5, 14. ^ Pseudo-Luciano, Macrobii, 21. ^ Strabone, Geografia,
libro XIV, 5, 14 ^ Pseudo-Luciano, Macrobii, 21, secondo il quale Atenodoro
morì a 82 anni. ^ Plinio il giovane, Lettere, libro VII, lettera 27. A Sura ^
Griffin, p. 201. ^ Griffin, p. 201; sempre Griffin, pp. 206-208, ritiene
possibile che l'autore di questo trattato sia l'Atenodoro logico stoico
menzionato da Diogene Laerzio in Vite dei filosofi, VII, 68. ^ Plutarco: Vita
di Publicola 17. Bibliografia (EN) Michael J. Griffin, Which 'Athenodorus'
commented on Aristotle's Categories?, in Classical Quarterly, vol. 63, n. 1,
2013, pp. 199-208. Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene
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Collegamenti esterni Atenodoro di Tarso (figlio di Sandone), in Dizionario di
filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Modifica su Wikidata (EN)
Athenodorus Cananites, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica,
Inc. Modifica su Wikidata V · D · M Stoicismo Controllo di autorità VIAF (EN)
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romaniStorici del I secolo a.C.Storici del I secoloRomani del I secolo
a.C.Romani del I secoloNati nel 74 a.C.Morti nel 7Stoici
Grice ed Atenodoto – Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza. Filosofo
italiano. Porch. Pupil of Musonius Rufus, and a tacher of Marco Cornelio
Frontone.
Grice ed Attico – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. FIlosofo italiano. best under
Pomponio. Tito Pomponio detto il “Attico”.
Grice ed Attalo – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. Filosofo italiano. Attalo
(filosofo). Attalo è un filosofo Italiano. Attalo visse a Roma e fu maestro di
Seneca che lo stima molto e lo cita spesso come nelle Lettere morali a Lucilio
quando scrive, “Come soleva dire il nostro Attalo 'il ricordo degli amici
estinti è gradevole come certi frutti sono soavemente aspri.” -- o ancora a
proposito dell'avidità dell'uomo che gode senza discernimento dei beni della
fortuna come fa il cane che inghiotte voracemente i pezzetti di carne lanciati
dal padrone. Così rifacendosi a Attalo, Seneca afferma che una vita senza
affanni e senza nessun attacco dalla Fortuna non è tranquillità è bonaccia.
“Attalo lo stoico soleva dire 'Preferiamo che la fortuna mi abbia nel suo
accampamento piuttosto che tra le mollezze. Subisco la tortura, ma
coraggiosamente. Questo è vero bene'” e che procurarsi un amico è più piacevole
che averlo poiché, dice Attalo, avviene che «come per un artista è più
piacevole dipingere che aver dipinto.” Ed infine da Attalo Seneca reca il
supremo insegnamento riferito principalmente all'ingrato che si tormenta e odia
il bene ricevuto perché dovrà ri-cambiarlo, ne sminuisce i valore e accresce
l'importanza delle offese ricevute. “La malvagità stessa beve la più grande
porzione del suo veleno.” Una massima che Attalo ha modo di vedere applicata
quando messo al bando da Roma, Lucio Elio Seiano, amico estremamente influente
di Tiberio, e infine da questo stesso fatto giustiziare. Note ^ Seneca, Lettere
morali a Lucilio, Edizioni Mondadori, 2013 p.64 ^ Seneca, op.cit. p.73 ^
Seneca, op.cit. p.68 ^ Seneca, op.cit. ^ Seneca, op.cit. p.82 ^ Pierre
Matthieu, Historie delle prosperità infelici di Elio Seiano, Grillo, 1620
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Filosofi romaniFilosofi del I secoloRomani del I secolo
Grice ed Aulo – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. Filosofo italiano. Aulo Gellio. under
Gellio? Pupil of Lucio Calveno Tauro and Peregrino Proteo. Friend of Erode
Grice ed Ausonio – Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza –
filosofo italiano.
Grice ed Avieno – Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza. Filosofo italiano. Avieno Rufio Festo. Porch. A Distant descendant of Musonio Rufo. Wrote
Phenomena.
Grice ed Aurano – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza
(Napoli). Filosofo
italiano. Gaio Stallio Aurano followed the doctrine of the Garden.
Grice ed Azeglio – non si danno doveri
reciprochi senza società – filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo Italiano. Grice: “I like
Azieglo; first he was a marchese, unlike me – second he looked for the
fundamental law (or ‘fundamental question,’ as I call it) for the principle of
cooperativeness – he finds it’s a natural thing, not a Rousseaunian
contractualist thing – so he is a Griceian at heart – on top, he relies on
Bentham, to minimise the Kantian rationalism and make it digestibale to those
who care about what Azieglo calls ‘amore proprio’ – i. e. conversational
self-love as still operating under a wider principle of conversational
benevolence.” Coniò il termine giustizia sociale,
successivamente ripreso e sviluppato da Antonio Rosmini (1848) nel saggio La
Costituzione secondo la giustizia sociale e da John Stuart Mill nel saggio
Utilitarianism. Taparelli d'Azeglio è
stato anche uno dei primi teorici del principio di sussidiarietà. Era il quarto
degli otto figli di Cesare, conte di Lagnasco e marchese di Montanera,
diplomatico della corte di Vittorio Emanuele I, e della contessa Cristina
Morozzo di Bianzè. Alla nascita gli fu imposto il nome di Prospero che,
divenuto gesuita, cambiò in Luigi. I fratelli Massimo e Roberto furono politici
e senatori del Regno. Maturò la propria
vocazione religiosa a seguito di un corso di esercizi spirituali dettati dal
venerabile Pio Brunone Lanteri (1759-1830), fondatore della congregazione degli
Oblati di Maria Vergine. Studiò nel Collegio Tolomei di Siena e poi nell'Ateneo
di Torino fino al 1809. Entrato nel seminario di Torino, quando il padre fu
inviato come diplomatico alla corte di Pio VII si trasferì con lui a Roma e fu
ammesso nel noviziato dei gesuiti di Sant'Andrea al Quirinale. Fu ordinato sacerdote nel 1820. Iniziò a
studiare negli anni 1824-29 la filosofia di San Tommaso d'Aquino, studio che
continuò a Napoli negli anni 1829-32. Nel 1833 fu destinato al Collegio Massimo
di Palermo dove insegnò lingua francese per poi assumere la cattedra di diritto
naturale. Nel 1840-1843 pubblicò con i
tipi della Stamperia d'Antonio Muratori di Palermo il suo testo più importante,
il Saggio teoretico di dritto naturale appoggiato sul fatto, considerato a quel
tempo una vera enciclopedia di morale, diritto e scienza politica. Nel 1850 ricevette da papa Pio IX il permesso
di cofondare con il padre Carlo Maria Curci La Civiltà Cattolica, rivista della
Compagnia di Gesù, ove scrisse per venti anni per poi assumerne la direzione
nell'ultimo periodo della vita. I suoi oltre duecento articoli pubblicati sulla
rivista furono tutti caratterizzati da un contenuto tale da meritargli il titolo
di «martello delle concezioni liberali»(Antonio Messineo). Morì a Roma il 21 settembre 1862. Pensiero Era preoccupato soprattutto dai
problemi che nascevano dalla rivoluzione industriale. Il suo insegnamento
sociale influenzò papa Leone XIII nella stesura dell'enciclica Rerum novarum
sulla condizione dei lavoratori.
Proponeva di riprendere gli insegnamenti della scuola filosofica tomista.
A partire dal 1825 portò avanti questa convinzione, ritenendo che la filosofia
soggettiva di Cartesio portasse a errori drammatici nella moralità e nella
politica. Argomentava che mentre la differenza di opinioni sulle scienze
naturali non ha nessun effetto sulla natura, al contrario idee metafisicamente
poco chiare sull'umanità possono portare al caos nella società. A quel tempo la Chiesa cattolica non aveva
una visione sistematica chiara sui grandi cambiamenti sociali apparsi
all'inizio del secolo XIX in Europa, la qual cosa portava molta confusione tra
la gerarchia ecclesiastica e il laicato. In risposta a tale problema, Taparelli
applicò, in maniera coerente, i metodi del tomismo alle scienze sociali. Dalle
pagine de La Civiltà Cattolica attaccò la tendenza a separare la legge positiva
dalla morale e lo "spirito eterodosso" della libertà di coscienza
che, a suo avviso, distruggeva l'unità della società. Termini chiave della sua opera sono socialità
e sussidiarietà. Vedeva la società non come un gruppo monolitico di individui,
ma come un insieme di varie sub-società disposte in diversi livelli, ciascuna
formata da individui. Ogni livello di società ha sia diritti che doveri, ognuno
dei quali deve essere riconosciuto e valorizzato. Ogni livello di società deve
cooperare razionalmente e non fomentare competizione e conflitti. Dopo l'istituzione della Società delle
Nazioni, Taparelli d'Azeglio ne vanne considerato un precursore. Sua fu l'idea
di un'autorità universaleda lui chiamata "etnarchia"con il ruolo di
tribunale e di arbitrio, che potesse proteggere ogni nazione dalle minacce
esterne. Taparelli d'Azeglio continuò a fungere da autorevole guida al pensiero
cattolico in materia di pace e guerra ancora nel Novecento. Altre opere: “Saggio
teoretico di diritto naturale appoggiato sul fatto” (Palermo); “Nazione e
nazionalità” (Genova, Ponthenier); “La Legge fondamentale d'organizzazione
nella società” (Roma, Edizioni di Storia e Letteratura); “La libertà tirannia”
“Saggi sul liberalesimo risorgimentale” (Piacenza, Edizioni di Restaurazione
Spirituale); “La Civiltà Cattolica). Diritto soggettivo, proprietà e autorità
in Luigi Taparelli d'Azeglio, di Alessanfro Biasini, sito della Università Ca
Foscari Venezia. Scuola Dottorale d'Ateneo.
The Origins of Social Justice: Taparelli d’Azeglio, su home.isi.org. Education and Social Justice, J. Zajda, S.
Majhanovich, V. Rust, E. Martín Sabina, Springer Science & Business Media,
20061 Vittoria Armando, Il Welfare oltre
lo Stato. Profili di storia dello Stato sociale in Italia, tra istituzioni e
democrazia Seconda edizione, G. Giappichelli Editore, Georges Minois, La Chiesa
e la guerra. Dalla Bibbia all'èra atomica, Bari, Dedalo, 2003493. L. Pereña, La autoridad internacional en
Taparelli, Libreria editrice dell'Università Gregoriana, 1964, 405-432. Studi Pierre Thibault, Savoir et
pouvoir. Philosophie thomiste et politique cléricale au XIXe siècle, Québec, Maria
Rosa Di Simone, Stato e ordini rappresentativi nel pensiero di Luigi Taparelli
d'Azeglio, «Rassegna storica del Risorgimento», Giovanni Miccoli, Chiesa e
società in Italia fra Ottocento e Novecento: il mito della cristianità, in Id.,
Fra mito della cristianità e secolarizzazione, Casale Monferrato, Francesco
Traniello, La polemica Gioberti-Taparelli sull'idea di nazione, in Id., Da
Gioberti a Moro. Percorsi di una cultura politica, Milano, Francesco Traniello,
Religione, Nazione e sovranità nel Risorgimento italiano, «Rivista di storia e
letteratura religiosa», Emma Abbate, Luigi Taparelli D'Azeglio e l’istruzione
nei collegi gesuitici del XIX secolo, «Archivio storico per le province napoletane»,
Saggio teoretico di dritto naturale appoggiato sul fatto, 5 voll., Palermo,
Stamperia d'Antonio Muratori, 1840-1843. S. T., Per il centenario della nascita
delLuigi Taparelli D'azeglio, in Rivista Internazionale di Scienze Sociali e
Discipline Ausiliarie, Luigi Di Rosa, Luigi Taparelli. L'altro d'Azeglio,
Milano, Cisalpino, Gabriele De Rosa, I Gesuiti in Sicilia e la rivoluzione del
'48, con documenti sulla condotta della Compagnia di Gesù e scritti inediti di
Luigi Taparelli d'Azeglio, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1963. A.
Perego, La «Miscellanea Taparelli», in Divus Thomas, Gianfranco Legitimo, Sociologi cattolici
italiani. De MaistreTaparelliToniolo, Roma, Volpe, 1963, 30–51. Antonino Messineo S.J., IlLuigi
Taparelli d'Azeglio e il Risorgimento italiano, in La Civiltà Cattolica, Carlo
Maria Curci Compagnia di Gesù La Civiltà Cattolica Rerum novarum Luigi Taparelli d'Azeglio, su
TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Angiolo Gambaro, Luigi Taparelli d'Azeglio,
in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Luigi Taparelli
d'Azeglio, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Opere di Luigi Taparelli d'Azeglio, su
openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Luigi Taparelli d'Azeglio,. Francesco Pappalardo, Luigi Taparelli
d'Azeglio, in Giovanni Cantoni, Dizionario del pensiero forte, Piacenza,
Cristianità, 1997. Giovanni Vian, Luigi Taparelli d'Azeglio, in Il contributo
italiano alla storia del Pensiero: Storia e Politica, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana,.Aloysius Taparelli, in Catholic Encyclopedia, Compagnia
di Gesù Filosofia Sociologia Sociologia
Categorie: Gesuiti italianiFilosofi italiani del XIX secoloSociologi italiani Torino
Roma. Non si danno doveri reciprochi senza società. Egli è costume di chi
spiega diritto naturalo -- il ius naturale -- il considerare certe classi di
doveri dell'un uomo verso l'altro anteriori ad ogni idea di società. E un tal
modo di speculare è coerente con tutto il resto della dottrina allorchè la
società si riguarda come una pura convenzione umana. Ma siccome il fatto di
questa convenzione, per confessione di parecchi fra i suoi difensori, non è se
non una finzione di diritto, fictio juris, ed io non amo fondar sopra una
finzione quanto vi ha di più sacro ed importante nel commercio fra gli uomini,
mi vidi astretto a cercare nel *fatto reale* (italici d'Azeglio) altro miglior
appoggio. E sì mi parve averlo trovato con nulla più che analizzare la idea che
ognuno si forma allorché pronunzia il vocabolo *Società*, o paragonar questa
idea collo stato *naturale* in cui ogni uomo trovasi sulla terra. Ecco per qual
motivo non credei poter trattare dei *doveri reciprochi* fra gli uomini se
prima non li considerava formanti una qualche società. E in verità, come
potrebbero esservi *doveri* reciprochi senza relazioni reciproche? Come
relazioni senza qualche congiunzione? Come congiuzione senza qualche legge?
Come legge senza legislatore e senza autorità? Data poi la congiunzione di
molti esseri intelligenti sotto una autorità comune che altro ci manca per
costituire una società? Parventi dunque ripugnante la voce di *relazioni
extrasociali*, usata dal ch. C. di Haller -- di cui per altro ammiro in molti
punti la dottrina --, nù seppi come introdurmi a considerare i doveri
reciprochi se prima non no stabiliva *sul fatto* le fondamenta con una attenta
osservazione dell’essere sociale. La legge fondamentale del *civico* operar
sociale potrebbe dunque ridursi a questa — la socielà (e per essa la autorità)
dee far sì che ciascuno *cooperi* a *difendere* e crescere il bene altrui senza
sua perdita, anzi con vantaggio proporzionato alla sua cooperazione. Della
società in generale. Società suol dirsi una concorde comunicazione di bene fra
esseri intelligenti. Società di questi esseri *in istato di tendenza* sarà
dunque la *tendenza concorde a fine comune*. E siccome la tendenza intelligente
fra uomini dee produrre azione esterna, cosi la società umana potrà definirsi
*cooperazione concorde di uomini ad un bene comune*. Prop. I.: Gli uomini tutti
hanno nella lor *natura* un elemento di società universale. Prova: Gli uomini
tutti sono obbligati a secondare l’ intento del Crea- tore. Or il Creatore
vuole da essi *cooperazione concorde a ben comune*. Dunque ec. La minore
si prova. Uno è per natura il bene da tutti conosciuto, ed a cui tendono tutti,
giacche una è la loro *natura* ossia impulso primitivo. Questo impulso
manifesta l'ntento del Creatore. Dunque ec. Diremo questo elemento *dovere di
socialità*. Coroll. 1.: Ogni dovere sociale deriva da questo principio *fa il
bene altrui*. Giacché la causa che mi obbliga a far ad altri *un* qualche bene
è che debbo far loro il bene. Coroll. 2.: Questo è il primo principio *sociale*
applicazione del primo principio morale. Coroll. 3: Il precipuo bene di ogni
società è la *onestà*, giacché a questa tende precipuamente la *natura umana*.
Coroll. 4.: Poiché *ottener il bene* è negli *enti ragionevoli* un *divenir
felice*, il fine di universal società è rendere gli *associati* *onestamente
felici*. E poiché la felicità dell’uomo consiste *secondo natura* nei beni di
*mente* e di *corpo*, *assicurarci* e *crescerci* queste due specie di beni è
il fine naturale della società universale. Una società determinata può o
abbracciare tutto il fine naturale con mezzo particolare cioè col convivere
stabilmente, o abbracciarlo parzialmente. Il *fine* particolare della prima
sarà il *convivere* onestamente felice. Della seconda il conseguire quel
particolare oggetto per cui ella si associa. Diremo società *completa* quella
che abbraccia tutto l'obbietto naturale della umana società, cioè il bene di
mente, quello di corpo, o la difesa di entrambi. Incompleta quella che ne
abbraccia sol qualche parte. Coroll. 5.: La società è *mezzo*, non fine dell’
individuo. Luigi Tapparelli d’Azeglio, marchese d’Azeglio. Luigi Prospero
Tapparelli d’Azeglio, marchese d’Azeglio. Prospero Tapperelli d’Azeglio,
marchese d’Azeglio. D’Azeglio. Azeglio. Keywords: non si danno doveri
reciprochi senza società, ius naturale, “non si danno doveri reciprochi senza
società”, cooperazione, cooperare, fa il bene altrui – onesta, fine, principio
della socialita, applicazione del principio della moralita, natura umana,
fatto, socieeta totale, societa parziale, definizione di societa in termine di
cooperazione, ‘de more geometrico’ – tendenzia impulso naturale all’onesta –
societa – azione esterna, esseri ragionabile, esseri intelligente, convivir
stabilmente, felice, -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Azeglio” – The
Swimming-Pool Library.
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